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ULTIMISSIME


Redazione Social Networks: Gemma Bellia, Pierluigi Chiarenza; Epifania Ferro, Francesco Marangia, Dalila Uccello; (coordinatrice: Claudia Caponetto)



Inserito in data 16/04/2018
TAR LAZIO, Sezione Seconda Quater, sentenza n. 4129 del 14 aprile 2018

Il ritrovamento di reperti archeologici e la determinazione del premio nei confronti del privato

La società I.B.S. srl propone ricorso contro il Ministero del Beni e delle Attività Culturali e del Turismo al fine di ottenere una pronuncia favorevole sull’accertamento dell’obbligo di provvedere sulla richiesta del premio per il ritrovamento di un bene archeologico ed avverso la nota della Soprintendenza archeologia delle belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la Provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale del 10 ottobre 2017 e per il risarcimento del danno.

In particolare, la parte ricorrente, nelle premesse sul fatto, racconta che nel corso dell’esecuzione di alcuni scavi e dei relativi lavori, autorizzati con permesso di costruire, effettuati su un immobile in sua proprietà sito in Castel Gandolfo, viene ritrovato un busto di età romana del II secolo d.c. edi una cisterna romana. La società ricorrente inoltra, pertanto, una richiesta del premio, ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 42 del 2004, il 12 novembre 2008 e contesta il premio del 10% che veniva attribuito dalla Soprintendenza per il ritrovamento del busto; l’anzidetta società censura pertanto in diritto la violazione delle norme degli articoli 92 e 93 del d.lgs. n. 42 del 2004.

Il Collegio sostiene che il ricorso è infondato.

I giudici del Collegio rammentano che con nota del 16 marzo 2010, la Soprintendenza stabilisce chiaramente che la società ricorrente avrebbe dovuto impugnare tempestivamenteil predetto provvedimento in quanto si tratta di un “provvedimento amministrativo” e come tale si pone come esercizio di un potere autoritativo dell’Amministrazione nella determinazione del premio spettante alla predetta società.

Il Consiglio di Stato si pronuncia in occasione del caso di specie, sulla base di un orientamento costante della giurisprudenza, alla luce del quale si ritiene che fino al momento della determinazione definitiva del premio, il privato è titolare di un interesse legittimo contrapposto al potere discrezionale dell’Amministrazione. In riferimento al caso specifico, il ritrovamento di reperti archeologici non fa insorgere in capo all’Amministrazione, immediatamente, un obbligo giuridico alla prestazione patrimoniale a favore dei proprietari del luogo ove si è verificato il ritrovamento, ma comporta una valutazione strettamente di carattere discrezionale vertente sull’an, di competenza del giudice amministrativo, e sul quantum ricadente sulla competenza del giudice ordinario.

Applicando il predetto orientamento giurisprudenziale al caso di specie, i giudici del Collegio ritengono che la parte ricorrente non abbia tempestivamente impugnato il provvedimento ed il predetto ritardo comporta l’inammissibilità della domanda proposta.

La domanda di risarcimento del danno non trova accoglimento, in quanto la parte ricorrente ha formulato una richiesta in maniera assolutamente generica, senza alcun riferimento specifico alle circostanze di fatto che hanno cagionato il danno.

Inoltre, il Collegio specifica che il danno da ritardo per la mancata conclusione del procedimento non può essere riconosciuto, non essendo stata accertata nessuna inerzia da parte dell’Amministrazione.



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Inserito in data 12/04/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 2190 del 11 aprile 2018

La sinteticità degli atti processuali amministrativi ed il danno c.d. da mancata aggiudicazione

La G. E. srl propone appello contro la U. spa e nei confronti della C. srl al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Lombardia – Milano.

La vicenda prende le mosse dal ricorso proposto dalla G. srl , seconda graduata, essendo venuta a conoscenza dell’aggiudicazione alla C. srl dell’affidamento a termine della procedura negoziata del “Servizio di verifica (ed eventuale risanamento) e certificazione di collaudo statico dei pali in acciaio degli impianti di illuminazione pubblica siti nei Comuni di Milano, Bergamo e Brescia”.

La C. srl eccepisce l’inammissibilità dell’appello per violazione dell'art. 13-ter “Criteri per la sinteticità e la chiarezza degli atti di parte”(norma aggiunta a mezzo dell’art. 7-bis d.-l. 31 agosto 2016, n. 168 come integrato dalla legge di conversione 25 ottobre 2016, n. 197) delle norme di attuazione al Codice del processo amministrativo; in quanto, secondo la società C. srl, l’appellante ha superato i limiti dimensionali stabiliti dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016, n. 167  e specificatamente: “i motivi di appello sono esposti a partire da pag. 24: e altresì per mancanza di specifica critica alla sentenza, avendo l'appellante meramente riproposto, con “copia e incolla”, le censure sollevate in primo grado, senza contestare i passaggi logici della sentenza.

I giudici del Collegio sostengono che la censura sia infondata sulla base della seguente motivazione: “a norma del ricordato art. 13-ter, il limite dimensionale di sinteticità entro cui va contenuto l'atto processuale costituisce un precetto giuridico la cui violazione non genera la conseguenza, a carico della parte che lo abbia superato, dell’inammissibilità dell'intero atto, ma solo il degradare della parte eccedentaria a contenuto che il giudice ha la mera facoltà di esaminare (art. 13-ter, comma 5: “Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L'omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione”).

Nel caso di specie, il limite quantitativo risulta essere rispettato.

I giudici osservano che l’atto di appello dellaG. srl consta di 39 pagine e puntualizzano che la verifica del superamento del limite dimensionale va fatta senza conteggiare“l'epigrafe dell'atto; l'indicazione delle parti e dei difensori e relative formalità; l’individuazione dell’atto impugnato” e delle “conclusioni dell’atto”, come peraltro è sancito nell’art. 4 del decreto del Presidente del Consiglio di Stato.

La predetta decisione del Collegio fa luce sui parametri da rispettare in riferimento al limite dimensionale dell’atto processuale amministrativo, in quanto chiaramente i giudici evidenziano che il conteggio deve essere effettuato senza considerare:l'epigrafe dell'atto; l'indicazione delle parti e dei difensori e le relative formalità e l’individuazione dell’atto impugnato.

Alla luce delle predette considerazioni, il Collegio ritiene che l’atto d’appello proposto dalla G. srl rientra nel limite dimensionale di 35.

In merito, invece, al motivo di impugnazione proposto dalla società G. srl vertente sul risarcimento del danno sulla c.d. “mancata aggiudicazione”, i giudici del Collegio rigettano tale doglianza.

Il Collegio spiega che il “danno da mancata aggiudicazione” sussiste nell’ipotesi in cui: “l'annullamento in sede giudiziaria dell'aggiudicazione è motivato da ragioni di esclusione dell'aggiudicatario non rilevate dall'amministrazione, potendo in questo caso il secondo graduato richiedere l'utile che avrebbe tratto dall'esecuzione del contratto di appalto alla cui stipulazione poteva legittimamente aspirare, non nel caso, che ricorre nella vicenda in esame, in cui l'aggiudicatario non andava escluso, risolvendosi la violazione commessa dalla stazione appaltante nella sola intempestiva stipulazione del contratto di appalto.”.



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Inserito in data 10/04/2018
TAR Brescia, Sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), sentenza n. 407 del 09 aprile 2018

La legittimità del provvedimento emanato dal Sindaco con il quale dispone la riduzione dell’orario di lavoro nei confronti di un esercizio pubblico rumoroso

Il sig. G.F. propone ricorso contro il comune di Quinzano D’Oglio al fine di ottenere l’annullamento di un’ordinanza emanata dal Sindaco, con la quale ha ordinato “la limitazione dell’orario di apertura dell’esercizio di somministrazione di alimenti e bevande denominato “Lo Storico” individuando l’orario di chiusura alle ore 24 nei giorni di giovedì, venerdì, sabato e domenica”, da attuarsi per sessanta giorni dalla notifica”, di ogni altro atto presupposto o comunque connesso o consequenziale, ancorché allo stato non conosciuto e per l’accessoall’intera documentazione espressamente richiamata nel provvedimento impugnato, in particolare ai verbali di P.L. ivi elencati e agli esposti pervenuti cui si fa riferimento, e in ogni caso a tutta la documentazione relativa al procedimento, la cui integrale ostensione è già stata oggetto di formale istanza di accesso agli atti ed infine, per la condanna del Comune al risarcimento dei danni patiti in conseguenza dell’esecuzione dell’ordinanza.

Il Collegio accoglie il ricorso proposto dal ricorrente ed annulla l’ordinanza de qua.

I giudici osservano che il provvedimento impugnato può essere ricondotto entro la previsione normativa contenuta nell’art. 50, comma 7 bis, del TUEL, come modificato dall’art. 8 del D.L. n. 14/2017, non avendoil Comune evidenziato alcuna particolare condizione di urgenza e necessità tra quelle enucleate nei commi precedenti della norma in questione.

L’art. 50, comma 7 bis, del TUEL prevede che: “Il Sindaco, al fine di assicurare il soddisfacimento delle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti nonché dell’ambiente e del patrimonio culturale in determinate aree delle città interessate da afflusso particolarmente rilevante di persone, anche in relazione allo svolgimento di specifici eventi, nel rispetto dell’articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, può disporre, per un periodo comunque non superiore a trenta giorni, con ordinanza non contingibile e urgente, limitazioni in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”.

Il caso di specie rientra proprio nella casistica descritta dall’anzidetto comma 7 – bis e pertanto, il Comune doveva garantire al ricorrente un’adeguata partecipazione al procedimento preordinato alla nuova regolazione dell’orario d’apertura: tale situazione non si è verificata.

I giudici rilevano anche un esercizio di eccesso di potere da parte del Comune, in quanto il Sindaco ha emanato un provvedimento che ha inciso sulla situazione giuridica soggettiva del ricorrente, andando oltre i limiti consentiti dalla legge. 

Alla luce delle predette considerazioni, il TAR accoglie il ricorso proposto e dispone l’annullamento dell’ordinanza del Comune.



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Inserito in data 05/04/2018
TAR Lazio, Sezione Seconda Quater, Sentenza n. 3676 del 3 aprile 2018

Concessioni di pubblico servizio e riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo

Il Consorzio C. propone ricorso contro il comune di Guidonia Montecelio e nei confronti della società P. F. srl al fine di ottenere l’annullamento della d.d. n. 66 del 16/06/2016 avente ad oggetto la gestione del cimitero di Guidonia Montecelio nonché i lavori di ampliamento dello stesso ed il conseguenziale risarcimento dei danni.

Il Comune si costituisce in giudizio, proponendo eccezioni di rito e deduzioni di merito.

Nello specifico, il Comune solleva la preliminare eccezione di difetto di giurisdizione, sostenendo che il giudizio pendente rientri nella giurisdizione del giudice ordinario, anziché nella giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto la causa concerne la fase di esecuzione del contratto di una concessione di lavori pubblici.

I giudici del Collegio ritengono a tal riguardo che, in materia di concessioni di pubblico servizio e di esecuzione del contratto, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice ammnistrativo, ad eccezione delle controversie concernenti le indennità, i canoni ed altri corrispettivi, ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario.

In particolare, il collegio stabilisce che: “In queste ipotesi, per stabilire se si sia in presenza di concessione di pubblici servizi (con giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) ovvero di concessione di costruzione e gestione di opera pubblica (rispetto alla quale, con riguardo alla fase esecutiva del contratto, la giurisdizione è del giudice ordinario, venendo in considerazione posizioni paritetiche e non trattandosi di materia rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo) assume rilevanza la considerazione degli importi in gioco nell'insieme della pattuizione negoziale di cui trattasi (cfr. Cass., sez. un., sent. n. 13864 del 2015). Diventa con ciò determinante effettuare una comparazione tra le prestazioni che vengono poste a carico del concessionario: la giurisdizione spetterà quindi al giudice ordinario se risulti preminente - e tale da identificare il vero oggetto del contratto in relazione all'interesse concretamente perseguito dalle parti e da qualificare la concessione come di costruzione e gestione - la realizzazione delle opere rispetto alla gestione degli impianti: gestione che, per la misura del canone richiesto (e rapportato all'importo complessivo pattuito), assume in questo caso rilievo solo quale mezzo per conseguire, dal lato dell'impresa, la remunerazione necessaria, restando al contempo soddisfatto l'interesse dell'amministrazione al funzionamento del servizio (così Cass., sez. un., n. 13864 del 2015, cit.). La giurisdizione spetterà invece al giudice amministrativo se, al contrario, risulti preminente la gestione delle opere rispetto alla loro realizzazione, venendo in questo caso in rilievo l'essenza stessa della concessione di pubblico servizio e, con essa, la giurisdizione esclusiva indicata dall'art. 133, comma 1, lett. c), cod. proc. amm. (cfr. T.A.R. Piemonte, sez. II, 12/11/2015, n. 1564).

Nel caso di specie, il Collegio statuisce che il bando di gara in questione, il quale ripartisce un importo equivalente al corrispettivo della concessione ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 del contratto “vendite di oculi, ossari e cappelle”, da intendersi come pertinenti ai relativi affidamenti in concessione concernenti sia il vecchio sia il nuovo cimitero.

In conclusione, la remunerazione della anzidetta costruzione rientra nell’ampio spettro della remunerazione della gestione, configurando i profili della figura della concessione di servizio pubblico con la conseguenziale giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, come peraltro già ampiamente confermato dall’orientamento prevalente in giurisprudenza.



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Inserito in data 04/04/2018
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - 26 marzo 2018, n. 1882

Informativa antimafia e responsabilità precontrattuale

Il Cds sez. terza con la seguente ordinanza ritiene che non si produca risarcimento del danno a seguito della richiesta dell’informativa antimafia alla Prefettura da parte dell’A.P. atta a  non stipulare il contratto con l’aggiudicatario.

A seguito di aggiudicazione, l’A.P. richiedeva, in via facoltativa, informativa antimafia e non stipulava il contratto di aggiudicazione facendo spirare i 45 giorni senza provvedervi.

Si aggiunge, altresì che pur essendo spirato il termine per la stipula del contratto,60 giorni dall’aggiudicazione, ciò non configura risarcimento danni dal momento che ciò risulta giustificato dalle fondate esigenze antimafia.

Pertanto, puntualizza Il Cds che non si possa parlare di  responsabilità precontrattuale né di violazione del principio di correttezza, buona fede o di  legittimo affidamento maturato dall’aggiudicatario.

La domanda risarcitoria va quindi respinta.

Il CdS accoglie la domanda proposta diretta ad ottenere il rimborso delle spese documentate e sostenute per la partecipazione alla gara, ordinando al Comune di acquisire la documentazione probatoria. Carola Parano



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Inserito in data 03/04/2018
TAR CALABRIA - CATANZARO - SEZ. I - 21 marzo 2018, n. 685

Partecipazione in gara di associazioni sportive

Sulla partecipazione in gara di associazioni sportive dilettantistiche e sul requisito di capacità economico – finanziaria. Le ASD possono partecipare alle procedure di evidenza pubblica dopo aver dimostrato la misura dei corrispettivi percepito a seguito di determinate prestazioni.

Il tar ha specificato che non vanno intese corrispettivi le sole quote associative perché hanno in se lo scopo previsto da statuto non corrispondente alla partecipazione a procedure di evidenza pubblica. Carola Parano 


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Inserito in data 30/03/2018
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 27 marzo 2018, n. 175

Oneri di urbanizzazione e rimessione alla Plenaria

Con ordinanza di rimessione all’A.P. il CGA in sede giurisdizionale analizza la pretesa dell’amministrazione di rideterminare gli oneri di urbanizzazione a distanza di diversi anni dal primigenio rilascio e la possibilità di conciliarla con il principio di affidamento su un determinato preventivo di spesa del programmato intervento edilizio e la clausola “ salvo conguaglio”.

Il CGA ha ritenuto di dover rimettere la questione al giudice della nomofilachia alfine di comprendere  se la rideterminazione degli oneri di urbanizzazione sia attività di autotutela amministrativa  ex art. 21 nonies della L.241/90 o sia un normale rapporto paritetico di debito- credito sottoposto alle regole di diritto comune e quindi basato sulla lealtà e sulla buona fede delle prestazioni contrattuali. Carola Parano

 



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Inserito in data 29/03/2018
CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE QUINTA, SENTENZA 23 marzo 2018, n. 1843

Facoltà delle stazioni appaltanti di adottare la doppia riparametrazione

Il Cds sez. V si pronuncia sulla libertà delle stazioni appaltanti di applicare alla migliore offerta tecnica il criterio della doppia riparametrazione prevista espressamente dalla legge di gara.

Il Cds precisa che le linee guida n.2 di attuazione del dlgs n. 50/2016 approvata dall’ Anac prevedono che sia previsto dal bando di gara la libertà della stazione appaltante di riparametrazione dei punteggi.

Aggiunge infine il CdS che tale facoltà è stata affermata più volte dalla giurisprudenza prevalente. Carola Parano

 



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Inserito in data 23/02/2018
TAR Sezione Autonoma di Bolzano, sentenza n. 62 del 22 febbraio 2018

Regime normativo nell’ipotesi di rigetto del progetto per il rilascio di concessione edilizia in sanatoria di una canna fumaria.

La società Ro. G. s.r.l. propone ricorso avanti al TAR contro il Comune di Merano e nei confronti della società Pa. S.r.l. al fine di ottenere l’annullamento della comunicazione del Sindaco del Comune di Merano, a mezzo della quale respinge il progetto per il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria, avente ad oggetto “modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, installazione di un impianto tecnico nonché di una canna fumaria, in sanatoria”, nonché della previacomunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano; della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda da parte del Comune di Merano; della comunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano; della comunicazione dell’Ufficio urbanistica ed edilizia privata del Comune di Merano, nonché di ogni ulteriore atto presupposto, anche non conosciuto, infraprocedimentale, connesso e conseguente.

I giudici del Collegio rilevano che l’impugnato provvedimento di rigetto si fonda sul presupposto che “L’installazione della canna fumaria per dimensioni e struttura, risulta essere intervento in facciata lesivo del decoro architettonico dell’edificio, necessitando del consenso condominiale all’unanimità dei comproprietari, non prodotto. La modifica dell’utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale, che vede nell’installazione di un impianto tecnico e soprattutto, per quanto qui rilevante, di una canna fumaria un presupposto indispensabile, è conseguentemente respinta. Parimenti e per le stesse motivazioni respinta l’istanza di scissione del procedimento con rilascio di concessione edilizia parziale per la modifica di utilizzo dei locali al piano cantina da secondario a principale”.

E’ evidente, a parere dei giudici del TAR, che il diniego della sanatoria è fondato sulla lesione del decoro architettonico dell’edificio, necessitando pertanto il consenso condominiale all’unanimità.

Il Collegio osserva, a tal proposito, che: “in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014). In ordine alla collocazione di canne fumarie sul muro perimetrale di un edificio la giurisprudenza amministrativa afferma che “in base alla pacifica giurisprudenza, per “decoro architettonico” deve intendersi l'estetica dell'edificio, costituita dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante ed imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, senza che occorra che si tratti di edifici di particolare pregio artistico (cfr. Cass. Civ. 1718/2016; 10350/11; 27551/05), e per innovazione lesiva del decoro architettonico si intende non solo quella che alteri le linee architettoniche dell’edificio, ma anche quella che comunque si rifletta negativamente sull’aspetto armonico di esso, a prescindere dal pregio estetico che possa avere l’edificio (cfr. Cass. Civ. n. 20985/2014).

I giudici del Collegio sostengono che si tratti, pertanto, di un manufatto, che tocca gli interessi e i diritti egli altri condomini, in quanto pregiudica l’armonia ed il decoro della facciata dell’edificio, soprattutto, determinato dalla funzione della canna di espulsione, che è di espellere verso l’esterno fumi, vapori e odori vari derivanti.

In conclusione, il TAR, sulla scorta di recente e precedente giurisprudenza, sostiene che: “Come affermato dalla giurisprudenza, la necessità di acquisire il previo assenso dei condomini risponde (anche) all’esigenza di prevenire controversie in ordine alla gestione della cosa comune ed alla potenziale lesione delle prerogative proprietarie (cfr. TAR Reggio Calabria, 6.2.2017, n. 85).In riferimento alla relativa censura, osserva il collegio che la dimostrazione della disponibilità del consenso unanime dei condomini rientra, invero, nell’ambito dell’istruttoria preliminare tesa alla verifica della sussistenza, in capo al richiedente, della necessaria legittimazione ad ottenere il titolo edilizio.

Ed ancora, puntualizza che: “Pertanto tale attività, riguardando la mera regolarità formale dell’istanza di concessione edilizia (nel caso di specie in sanatoria), si distingue da quelle elencate all’art. 70 L.U.P., soggette ex lege al parere della commissione edilizia comunale, cui spetta esprimersi riguardo agli aspetti urbanistici, edilizi e architettonici del progetto presentato dall’istante.Né è qui conferente il richiamo alla disciplina prevista dall’art. 19, comma 3 della legge n. 241/1990, perché in tale ipotesi la SCIA deve precedere l’inizio dell’attività mentre nel caso in esame è avvenuto esattamente il contrario, atteso che il mutamento di destinazione d’uso del locale interrato p.m. 12 e l’installazione della canna fumaria sulla facciata dell’edificio p.ed. 194/1 era già stato effettuato al momento della presentazione della richiesta di concessione edilizia in sanatoria.Conseguentemente, non rileva nel presente giudizio procedere all’esame della manifesta fondatezza o infondatezza dell’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 21bis della L.P. n. 17 del 1993, nonché degli artt. 132 e 84/bis L.P. n. 13/1997, perviolazione degli artt. 3 e 117, co 1, lett. m), della Costituzione in relazione agli artt. 19 e 29 della L. n. 241/1990.”



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Inserito in data 22/02/2018
TAR CALABRIA – Catanzaro, Seconda Sezione, sentenza n. 496 del 21 febbraio 2018

La competenza del giudice ordinario nel fallimento della società in house

La Banca S. S.p.A. promuove un giudizio, in sede ammnistrativa, contro il Comune Cerenzia, il Comune Ciro', il Comune Crucoli, il Comune Melissa, il Comune San Nicola dell'Alto ed il Comune Scandale e nei confronti della società So. al fine di ottenere la condanna al risarcimento dei danni conseguenti al fallimento della società So..

La Banca S. S.p.A. chiede al giudiceamministrativo di accertare l’illiceità delle condotte, attive e omissive, ascrivibili alle Amministrazioni intimate, poste in essere nella gestione di una società in house, al fine di dimostrarne la responsabilità nel fallimento di questa e, di conseguenza, nell’inadempimento alle obbligazioni assunte.

Il giudice amministrativo adito statuisce di non essere competente a conoscere della vicenda, ritenendo altresì che la competenza sia del giudice ordinario.

Attraverso un articolato quadro giurisprudenziale, il TAR sostiene che la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, anche se la P.A. possiede, in tutto o in parte, le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, ed in particolare decide  quanto segue: “E’ evidente, infatti, come l’attività censurata s’inquadri nell’ambito di moduli di carattere privatistico, riguardando le forme dell’esercizio (o del mancato esercizio) degli ordinari poteri dell’azionista pubblico.Né può invocarsi la giurisdizione esclusiva prevista nel settore di pubblici servizi, che richiede il necessario concorso di due presupposti: a) l’uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto intimato fra le “pubbliche amministrazioni”, come definite dal comma 2 dell’art. 7 del c.p.a.; b) l’altro oggettivo, consistente nell’avere la controversia ad oggetto, non qualsivoglia atto o attività dei soggetti suindicati, ma atti o condotte riconducibili all’esercizio delle funzioni istituzionali del soggetto procedente (cfr. Cass. civ., Sez. un., 23 ottobre 2017, n. 24968 e 24 luglio 2013 n. 17935; Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2015 n. 1299).Mentre, nella fattispecie, per come detto, manca “la riconducibilità dell’atto, del provvedimento o del comportamento all’esercizio di un pubblico potere” (cfr. Cass. civ., Sez. un., 22 dicembre 2011 n. 28330).Come pure non vale il fatto che ad essere dichiarata fallita sia – secondo la tesi del ricorrente, contestata dalla Provincia di Crotone – una società in house, posto che l’art. 1, comma 3, del D.lgs. n. 175/2016 ha oramai eliminato ogni dubbio circa l’inquadramento privatistico di quest’ultima.Infatti, la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato, sol perché la P.A. ne possegga – in tutto o in parte – le azioni, in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al soggetto pubblico non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, potendo solo avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario (cfr. Cass. civ., Sez. un., 14 settembre 2017 n. 21299, 1 dicembre 2016 n. 24591 e 23 gennaio 2015 n. 1237).



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Inserito in data 19/02/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 999 del 16 febbraio 2018

La giurisdizione del giudice amministrativo nella ricusazione del contrassegno dell’associazione per l’ammissione alle elezioni politiche.

L’Associazione Politica N. propone appello contro il Ministero dell’Interno al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Lazio, vertente l’annullamento della ricusazione del contrassegno dell’associazione per l’ammissione alle elezioni politiche del 04 marzo 2018 di Camera e Senato.

Il giudice di prime cure sostiene che, a norma dell’art. 129 c.p.a., i procedimenti elettorali preparatori delle elezioni politiche non rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo e neanche nella giurisdizione del giudice ordinario.

l’Associazione Politica N. propone appello avverso tale decisione ed insiste per l’accoglimento della domanda proposta in primo grado, senza articolare specifici motivi di gravame avverso la decisione impugnata.

In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Collegio affrontano la problematica legata alla giurisdizione del giudice amministrativo in materia di operazioni elettorali, statuendo quanto segue: “Ai sensi del combinato disposto degli artt. 126 e 129 del codice del processo amministrativo, Il giudice amministrativo ha giurisdizione in materia di operazioni elettorali relative al rinnovo degli organi elettivi dei comuni, delle province, delle regioni e all'elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, ma non anche in materia di elezioni “politiche” nazionali.Tali norme delimitano con chiarezza l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale, dal quale sono escluse le controversie – come quella oggetto del presente appello - concernenti l’esclusione delle liste dalle elezioni politiche e, dunque, riferite al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni politiche alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica.Peraltro la legge delega n. 69 del 2009, nell’ambito del riassetto del processo amministrativo, aveva conferito al Governo il potere di introdurre “la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, ma non è stata, sul punto, esercitata.”

Dal quadro normativo delineato dal Consiglio di Stato si individua chiaramente l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in materia di contenzioso elettorale: le controversie, concernenti l’esclusione delle liste dalle elezioni politiche, sono escluse dalla giurisdizione del giudice amministrativo e pertanto, anche il caso contemplato dall’appello in esame, non può rientrare nella giurisdizione del giudice amministrativo.

I giudici del Collegio precisano inoltre che i mezzi di tutela avverso i provvedimenti simili all’oggetto dell’odierna impugnazione sono disciplinati dall’art. 23 del D.P.R. n. 361 del 1957, il quale sancisceche avverso le decisioni di eliminazione di liste o di candidati adottate dall'Ufficio centrale circoscrizionale, può essere proposto ricorso all'Ufficio centrale nazionale, istituito presso la Corte Suprema di Cassazione.

In conclusione, il Consiglio di Stato statuisce che: “Anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione è orientata in tal senso avendo precisato che “né il giudice amministrativo né il giudice ordinario sono dotati di giurisdizione” in relazione a controversie concernenti l’ammissione e/o l’esclusione delle liste dei candidati (cfr. Cass. S.U, n. 9151 del 2008), ponendo in evidenza che gli organi a cui risulta affidato il compito di definire le controversie di cui si discute, seppure privi della natura giurisdizionale, sono comunque in grado di garantire la necessaria imparzialità e indipendenza, fornendo un servizio di verifica delle fasi preliminari e delle operazioni preparatorie del procedimento elettorale che può assimilarsi a quello svolto in sede giurisdizionale.

Peraltro, l’attribuzione della competenza a decidere i reclami contro le esclusioni delle liste e dei candidati adottate, ai sensi dell’art. 22 del D.P.R. n. 361 del 1957, dall’Ufficio Centrale Circoscrizionale (costituito presso la Corte d’Appello o il Tribunale competente) innanzi all’Ufficio Elettorale Centrale Nazionale (costituito presso la Corte di Cassazione), tenuto conto dalla sua composizione soggettiva (essendo i relativi membri tutti magistrati, ai sensi degli artt. 12 e 13 del D.P.R. n. 361 del 1957), garantisce la necessaria imparzialità e indipendenza, in quanto organo neutrale e titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza.



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Inserito in data 16/02/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 971 del 15 febbraio 2018

Elementi determinati per individuare il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Il Ministero dell’Interno e l’Ufficio Territoriale del Governo Genova propone appello contro Caio al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR concernente l’annullamento del provvedimento di cancellazione dall’elenco provinciale dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, operanti nei settori esposti maggiormente a rischio (cd. “whitelist”).

Le Amministrazioni appellanti contestano gli assunti in cui si articola la motivazione della sentenza appellata, sostenendo, con il supporto di richiami giurisprudenziali, che gli elementi fattuali sulla base dei quali è stata condotta l’analisi, si possa correttamente desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa nell’impresa appellata.

In occasione del caso di specie, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alle condizioni necessarie affinchè la Prefettura, nell’esercizio di un potere di estrema delicatezza, possa attribuire rilevanza indiziaria nei confronti di un’impresa commerciale ad eventuali rapporti parenterali in ordine al pericolo della sua condizionabilità criminale.

Attraverso la ricostruzione di un vasto quadro giurisprudenziale, i giudici della Collegio hanno statuito che: “i legami familiari non sono sufficienti a denotare il pericolo di condizionamento mafioso, se non si colorino di ulteriori connotati – di cui è onere dell’Amministrazione dare conto nel contesto motivazionale del provvedimento interdittivo, dopo averli puntualmente lumeggiati in sede istruttoria – atti ad attribuire ad essi valore sintomatico di un collegamento che vada oltre il mero e passivo dato genealogico, ma si traduca nella volontaria condivisione di aspetti importanti di vita quotidiana ovvero, nelle ipotesi di maggiore evidenza dell’influenza mafiosa, nella sussistenza di cointeressenze economiche e commistioni imprenditoriali. E’ quindi evidente che, se il dato parentale può essere tipizzato nella sua graduazione ed intensità (secondo i criteri classificatori dettati dagli artt. 74 ss c.c.), non altrettanto prevedibili e schematizzabili si presentano gli elementi suscettibili di attribuire ad esso significato indiziante, dei quali è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione valutare il peso in ciascuna specifica vicenda: elementi che possono risultare intrinseci al rapporto parentale (quando esso si presenti connotato da particolare intensità) o alla sua genesi (quando la stessa costituzione del rapporto appaia funzionale, in relazione alle concrete circostanze, ad instaurare un legame di carattere mafioso), ovvero collocarsi sul piano delle modalità della sua concreta “gestione” (in termini di forme ed intensità di frequentazione), o ancora situarsi nel contesto anche ambientale che fa da sfondo al rapporto familiare. Tali ulteriori elementi qualificanti tuttavia, per consentire di fondarvi il ragionamento logico-presuntivo che mette capo alla valutazione di permeabilità criminale dell’impresa, devono essere dotati di sufficienti requisiti di certezza storico-fattuale, mentre la catena deduttiva che di essi si alimenta per approdare alla conclusione interdittiva deve ispirarsi a canoni di logica e verosimiglianza, la cui corretta applicazione spetta in ultima analisi al giudice, nella eventuale sede contenziosa, verificare.”

Il Collegio ritiene che, attraverso l’atto di appello, l’Amministrazione ha attribuito valore sintomatico del pericolo di ingerenza mafiosa nella gestione dell’impresa della società appellata al rapporto di coniugio esistente tra i soci e amministratore unico della società appellata ed il sig. Sempronio, pregiudicato e destinatario di misure di prevenzione personale e patrimoniale, oltre che a sua volta condannato per fatti riconducibili a faide mafiose.In realtà, i giudici del Collegio sostengono che l’Amministrazione non sia stata in grado di fornire elementi valutativi idonei a far trasmodare il mero rapporto di affinità in un vero e proprio collegamento rilevante per gli effetti della prevenzione antimafia.

A tal proposito, il Consiglio di Stato conclude statuendo che: “a prescindere dal carattere risalente di tali episodi e dal fatto che essi non hanno costituito oggetto di alcun accertamento giudiziario, deve rilevarsi che anche il potere preventivo in materia antimafia, nonostante la funzione anticipatrice della soglia di difesa sociale che allo stesso viene pacificamente riconosciuta, non può fondarsi su valutazioni di carattere personalistico e/o soggettivistico, sganciate da comportamenti materiali che denotino la propensione, o comunque l’influenzabilità mafiosa del soggetto.

Nella specie, le condotte criminose del -OMISSIS- non vengono censurate per sé stesse, ma perché ritenute sintomatiche di una “personalità mafiosa” che tuttavia, per poter essere ragionevolmente configurata, richiederebbe l’imputabilità al suddetto di azioni effettivamente riconducibili al modus operandi proprio delle organizzazioni criminali (e non solo espressive di una generica ed astratta “mentalità” mafiosa).

Deve solo aggiungersi che questo giudice è consapevole che gli elementi indiziari menzionati nel provvedimento interdittivo non possono costituire l’oggetto di una disamina parcellizzata, dovendo essere soppesati nell’ottica di una analisi e di una visione complessive e d’insieme: deve tuttavia ritenersi che i singoli segmenti del quadro valutativo posto dall’Amministrazione a fondamento della prognosi di condizionamento mafioso devono comunque essere caratterizzati da un minimum di pregnanza indiziaria, in mancanza del quale il costrutto indiziario elaborato dall’Amministrazione, pur fondato su una pluralità di elementi, rivela la sua intrinseca fragilità.



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Inserito in data 15/02/2018
TAR Lazio – Roma, Sezione Prima, sentenza n. 1739 del 14 febbraio 2018

La c.d. informativa economica di sistema (IES)

La Google Ireland Limited propone ricorso contro l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e nei confronti di F. s.r.l. al fine di ottenere l’annullamento della delibera, a mezzo della quale, la predetta l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha ricompreso le concessionarie di pubblicità attive sul web e le società con sede all’estero tra i soggetti obbligati a comunicare la c.d. informativa economica di sistema (IES). Le ricorrenti chiedono anche l’accertamento dell’inesistenza dei presupposti legali per imporre ad esse, l’obbligo di comunicazione della IES ai sensi della vigente normativa.

Le ricorrenti puntualizzano di essere, rispettivamente, una società di diritto irlandese del gruppo Google, che sottoscrive in Italia i contratti con gli inserzionisti pubblicitari, senza operare nel settore audiovisivo o in quello editoriale e una società che svolge attività di consulenza a favore di altre società del gruppo Google in materia di marketing, servizi legali, relazione istituzionali, ricerca della clientela. Le predette ricorrenti infine rilevano che l’informativa economica di sistema sia una comunicazione annuale di dati contabili ed extracontabili prevista dall’art. 1, commi 28 – 30, della legge n. 650/1996, al cui invio sono obbligati gli operatori dei settori dell’editoria e della radiodiffusione sonora e televisiva ed inoltre, le ricorrenti ritengono di non rientrare in alcuna di dette tipologie e pertanto, l’AgCom le avrebbe sottoposte all’adempimento illegittimamente, con la delibera gravata.

Il Collegio rileva in punto di fatto che la comunicazione, come risulta dal modello allegato alla delibera gravata, vanta come oggetto, oltre ad alcune informazioni concernenti il soggetto dichiarante, una serie di dati riguardanti i ricavi relativi all’anno precedente. A tal proposito, precisa che: “I dati raccolti vengono quindi utilizzati, tra l’altro, per la valorizzazione del sistema integrato delle comunicazioni (SIC), in relazione al quale l’art. 43 del d.lgs. 31 luglio 2005, n.177 (TUSMAR) ha affidato all’AgCom il compito di verificare l’esistenza di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni e di adottare le determinazioni necessarie ad eliminarle o ad impedirne la formazione.In particolare, il comma 9 del citato articolo 43 stabilisce che “Fermo restando il divieto di costituzione di posizioni dominanti nei singoli mercati che compongono il sistema integrato delle comunicazioni, i soggetti tenuti all'iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione costituito ai sensi dell' articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5), della legge 31 luglio 1997, n. 249, non possono né direttamente, né attraverso soggetti controllati o collegati ai sensi dei commi 14 e 15, conseguire ricavi superiori al 20 per cento dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni”.Il successivo comma 10 - nel testo modificato dall’articolo 3, comma 5-bis, del d.l. 18 maggio 2012, n. 63, convertito, con modificazioni, nella legge 16 luglio 2012, n. 103, vigente al momento dell’adozione della delibera impugnata - stabilisce che “I ricavi di cui al comma 9 sono quelli derivanti dal finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo al netto dei diritti dell'erario, da pubblicità nazionale e locale anche in forma diretta, da televendite, da sponsorizzazioni, da attività di diffusione del prodotto realizzata al punto vendita con esclusione di azioni sui prezzi, da convenzioni con soggetti pubblici a carattere continuativo e da provvidenze pubbliche erogate direttamente ai soggetti esercenti le attività indicate all'articolo 2, comma 1, lettera s), da offerte televisive a pagamento, dagli abbonamenti e dalla vendita di quotidiani e periodici inclusi i prodotti librari e fonografici commercializzati in allegato, nonché dalle agenzie di stampa a carattere nazionale, dall'editoria elettronica e annuaristica anche per il tramite di internet, da pubblicità on line e sulle diverse piattaforme anche in forma diretta, incluse le risorse raccolte da motori di ricerca, da piattaforme sociali e di condivisione, e dalla utilizzazione delle opere cinematografiche nelle diverse forme di fruizione del pubblico”, così espressamente prevedendo, tra i ricavi rilevanti ai fini della verifica del pluralismo nel mercato pubblicitario, quelli derivanti dall’attività di raccolta di pubblicità on line.Proprio al fine di adeguare la raccolta di dati contenuti nella IES alla specifica finalità di redazione del SIC, l’Autorità ha adottato il provvedimento impugnato, nel quale, ridefinendo i soggetti obbligati alla comunicazione dei ricavi, ha incluso le imprese concessionarie di pubblicità che esercitano, direttamente o per contro terzi, attività di negoziazione o conclusione di contratti di vendita di spazi pubblicitari da trasmettere sul web e, limitatamente ai ricavi realizzati sul territorio nazionale, le società aventi sede all’estero, ancorché non direttamente operanti nel settore radio televisivo o dell’editoria.”

I giudici chiariscono che la ridefinizione dei soggetti obbligati a comunicare l’IES si basa su un chiaro fondamento normativo, rispondendo, più in generale, ad una necessaria esigenza “di interpretazione adeguatrice e finalistica delle norme”, apparendo coerente con tutta una serie di previsioni, nazionali e comunitarie cheequiparano le attività svolte sul web a quelle più tradizionali nel campo delle comunicazioni.

Tale decisione viene operata dai giudici del TAR, riprendendo quanto recentemente espresso dal Consiglio di Stato, che, seppure con riferimento a fattispecie relativa ad una diversa ipotesi di estensione dei soggetti tenuti alla comunicazione dell’IES, ha osservato che l’art. 1, comma 28, del D.L. n. 545 del 1996, non propone un rigido e chiuso catalogo di fattispecie, ma, alla luce della sua ratio nonché dell’utilizzo di formule generali, si presenta come una clausola aperta, che fonda il potere dell’Autorità di determinare, anche dal punto di vista soggettivo, le modalità applicative della IES (cft.Consiglio di Stato, sez. III, 5 febbraio 2015, n. 582).

A tal riguardo, il Collegio rileva infine che: “L’opzione interpretativa proposta in gravame, dunque, al pari di quella prospettata nel ricorso all’esame del giudice di appello, condurrebbe “all’inaccettabile conseguenza di precludere la conoscenza di un segmento rilevante del mercato, che resterebbe, quindi, sconosciuto alla stessa, con un’evidente e inaccettabile menomazione delle possibilità conoscitive che, invece, la normativa di riferimento ha voluto assicurare, in misura integrale, alle Autorità di regolazione” (Consiglio di Stato, n. 582/2005).”



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Inserito in data 13/02/2018
CONSIGLIO DI STATO, Sesta Sezione, sentenza n. 873 del 12 febbraio 2018

Al rapporto di concessione demaniale marittima trova applicazione la statuizione della Corte di giustizia, per cui l’articolo 12, paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE.

La Regione autonoma della Sardegna propone appello contro il Comune di Portoscuso e nei confronti di S. G. s.r.l. per la riforma della sentenza emessa dal TAR Sardegna, concernete la proroga della concessione demaniale marittima.

In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Consiglio di Stato esaminano una problematica rilevante i presupposti per le concessioni demaniali marittime.

In particolare, la concessione oggetto di appello, rilasciata dalla Capitaneria di Porto di Cagliari in favore della S. s.r.l. ha ad oggetto un’area demaniale di mq 75.745,00 di specchio acqueo e un’area di mq 2.455,00 a terra “costituenti il porto destinato al diporto nautico nonché alla pesca situato nel Comune di Portoscuso, con tutte le relative pertinenza demaniali comprensive anche dei pontili galleggianti posti in opera a cura della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato Lavori Pubblici - allo scopo di mantenerlo e gestirlo direttamente come approdo turistico (…)”, verso il pagamento del canone ivi stabilito e con l’obbligo di riconsegna del bene alla scadenza all’Amministrazione marittima, “salvo che questa non consenta di presentare la presente licenza su nuova domanda, da presentarsi prima di detta scadenza, in modo che all’epoca in cui questa dovrà verificarsi sino pagati il canone e le tasse relative al nuovo periodo della concessione

Il Collegio sostiene che si tratti di bene infungibile di scarsa risorsa naturale e che formi oggetto di un numero limitato di autorizzazioni, rientrando, pertanto, nell’ambito di applicabilità dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE.

I Giudici ritengono, in particolare, che “Al rapporto concessorio in esame trova dunque applicazione la statuizione della Corte di giustizia, per cui l’articolo 12, paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui agli articoli 1, comma 18, del decreto legge n. 194/2009, convertito con legge n.25/2010, e 34-duodecies del decreto legge n. 179/2012, convertito con l. n. 221/12, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per le attività ivi contemplate, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati (v. punto 57 della sentenza), poiché una normativa nazionale quale quella sopra citata, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123/CE. Né nel caso di specie può trovare applicazione, ai fini dell’invocata tutela dell’affidamento, la fattispecie limitativa di cui al paragrafo 3 dell’articolo 12 della direttiva 2006/123/CE (per cui «[…] gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto [dell’Unione]»)”

Il Consiglio di Stato puntualizza che: “secondo la Corte di giustizia, l’articolo 49 TFUE – che garantisce la libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro – osta a una normativa nazionale che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo (v. punto 74 della sentenza), poiché il loro rilascio in totale assenza di trasparenza ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione concedente costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate alle concessioni. Si precisa, con riguardo a quest’ultimo punto, che – come già rilevato nella sentenza parziale con contestuale ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 3936/2015 – la concessione in questione presenta un interesse transfrontaliero certo, in considerazione dei criteri elaborati dalla Corte di giustizia e, segnatamente, quelli del luogo geografico di collocazione del bene demaniale e del valore economico della concessione medesima, in correlazione con il tipo di attività da svolgere, nonché dell’assenza di elementi di specificità tali da concentrare l’interesse a conseguirla solo in capo alle imprese stabilite in un delimitato ambito territoriale.

In conclusione, i Giudici del Consiglio di Stato statuiscono che devono trovare accoglimento le statuizioni di annullamento adottate nell’impugnata sentenza, seppure con una motivazione diversa da quella sviluppata dal TAR., ossia non perché il rapporto concessorio non sia assoggettabile alla disciplina della proroga ex lege di cui agli articoli 1, comma 18, del decreto legge n. 194/2009, convertito con la legge n.25/2010, e 34-duodecies del decreto legge n. 179/2012, convertito con la legge n. 221/12, ma per il contrasto di detta disciplina di proroga legale con l’ordinamento eurounitario.



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Inserito in data 06/02/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 744 del 5 febbraio 2018

Sull’utilizzo della firma digitale alla luce delle norme disciplinanti il P.A.T.

Il sindaco di Codogno, candidato alle elezioni del Presidente della Provincia di Lodi, propone appello contro il sig. Gi. Ru. E nei confronti dell’Ufficio Elettorale Provinciale di Lodi al fine di ottenere la riforma della sentenza del TAR Lombardia – Milano resa tra le parti, in merito alla ricusazione della candidatura alle lezioni di presidente della Provincia di Lodi.

In tale occasione, avanti i giudici del Consiglio di Stato viene affrontata la problematica inerente ad una delle possibili causa d’inammissibilità dell’appello. “L’appellante lamenta, nello specifico, che la procura alle liti è una copia digitale per immagini priva dell’attestazione di conformità all’originale di cui all’art. 22 del c.a.d., in violazione degli artt. 136, comma 2-ter, cod. proc. amm., 8, comma 2, e 14 dell’Allegato del d.P.C.M. 40/2016, con conseguente difetto dello iuspostulandi; nullità dell’appello e della procura alle liti, in quanto i relativi file sono stati sottoscritti con firma digitale PAdES-BASIC, anziché PAdES-BES come prescritto dall’art. 24 del c.a.d. richiamato dall’art. 9 del d.P.C.M., cit. e dal successivo art. 12, comma 6 dell’Allegato.

Il Collegio, sotto tale profilo, statuisce che: “l'asseverazione della procura risulta effettuata mediante attestazione in calce al documento depositato; senza contare che, in ogni caso, l'irregolarità degli atti redatti in violazione delle norme disciplinanti il P.A.T. sarebbe sanabile mediante l'assegnazione di un termine perentorio per la regolarizzazione nelle forme di legge (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1541/2017; V, n. 652/2018); l'utilizzazione per la firma digitale di un formato diverso da quello prescritto dalle norme tecniche costituisce difformità che, in applicazione dell'art. 156, comma 3, c.p.c., non si traduce in nullità, avendo l'atto raggiunto il suo scopo; infatti, il rilievo di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non è volto a tutelare l'interesse all'astratta regolarità del processo, ma a garantire solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della rilevata violazione (cfr. Cass. Civ., S.U., n. 7665/2016).



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Inserito in data 05/02/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 693 del 2 febbraio 2018

La lettera di invito nella procedura negoziata “snella”.

La S. s.r.l. propone appello contro il Comune di Santa Maria La Longa e nei confronti della Ri. S.r.l. al fine di ottenere la riforma della sentenza emessa dal TAR Friuli Venezia Giulia, concernente l’aggiudicazione dei lavori di manutenzione straordinaria della palestra comunale – fornitura e posa in opera di nuova pavimentazione a seguito della procedura negoziata semplificata ex art. 36, co. 2, lettera b) del D. Lgs. n. 50 del 2016,alla società Ri. S.r.l., avendo offerto il maggior ribasso.

La società appellante sostiene, nel suo unico motivo di appello, che la controinteressata doveva essere esclusa dalla gara in quanto non ha rispettato la previsione dell’Allegato A sul disciplinare di gara, il quale impone, a pena di esclusione, la presentazione in sede di gara delle certificazioni dei materiali offerti per la realizzazione della pavimentazione della palestra. Tale manchevolezza non poteva essere sanata dalla controinteressata con il ricorso al soccorso istruttorio.

Il Collegio accoglie le doglianze della società appellante.

I giudici del Consiglio di Stato osservano, in punto di fatto, che il materiale da utilizzare per il rifacimento della palestra comunale era di qualità deteriore, rispetto alle caratteristiche indicate in maniera dettagliata nell’allegato “A” della lettera di invito.Quest’ultima sancisce l’esclusione nell’ipotesi in cui: la “fornitura di materiale con caratteristiche, anche in parte, diverse da quelle riportate nel sopraccitato allegato “A””.

Il caso esaminato rientra nella procedura negoziata indetta, ai sensi dell’art. 36 comma 2 lett. b) del d. lgs. n. 50 del 2016, e prevista per le gare sotto soglia, quindi senza previo bando di gara e pertanto, governata dalla lettera di invito che svolge anche il ruolo di disciplinare di gara.

Il Collegio sostiene in punto di diritto quanto segue: “Ma le forme maggiormente snelle della procedura negoziata non permettono che la lettera di invito posta a governo della procedura ed in cui sono fissate le regole procedurali preventive di qualificazione soggettiva ed oggettiva e di selezione che presiedono alla scelta del contraente venga a perdere il carattere normativo - procedimentale di lexspecialis, per cui nella sua specifica funzione di atto di portata precettiva non può essere derogato, né possono prevalerne interpretazioni ambigue, come il successivo richiamo ai requisiti richiesti come unico limite alla partecipazione, laddove la medesima lettera rechi tra le sue regole cardine indicate nel capo I e particolarmente evidenziate la non ammissibilità di materiale con caratteristiche differenti da quelle specificamente riportate l’allegato A che è parte integrante e sostanziale della stessa lettera di invito.”

In conclusione, l’offerta della Ri. S.r.l. non deve essere accolta, in quanto è palesemente difforme con quanto previsto dall’allegato A.

L’appellante S. s.r.l. deve essere conseguentemente ritenuta come aggiudicataria della gara, essendo la seconda classificata ed unica ditta ad essersi operata a produrre i certificati di qualità corrispondenti a quanto richiesto dalla lettera di invito. Precisano i giudici del Consiglio di Stato che i lavori essendo ormai conclusi, si può riconoscere il risarcimento in via equivalente dell’utile dell’impresa commisurato nel 5% dell’importo offerto in gara secondo un corrente id quodplerumqueaccidit.



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Inserito in data 02/02/2018
TAR Lazio – Roma, Prima Sezione, sentenza n. 1210 del 1 febbraio 2018

Art. 8, comma 1bis, della l. n. 374/1991

Il dott. Br. Ma. impugna il decreto, a mezzo del quale il Ministero della Giustizia ha stabilito di non confermare il suo incarico di Giudice di Pace ed anche la delibera del medesimo contenuto, emessa dal Consiglio Superiore della Magistratura.

In punto di fatto, il dott. Br. Ma.espone di essere stato immesso nelle funzioni di Giudice di Pace, a seguito di concorso per titoli e di tirocinio; con delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 2006, era stato confermato per il secondo mandato quadriennale.

In data 15.10.2009, il ricorrentepresenta domanda per la conferma del terzo mandato quadriennale, allegando sentenze e verbali di udienza al fine di ottenere il prescritto parere.

Il Coordinatore dell’Ufficio del Giudice di Pace, esprime parere favorevole alla conferma; ma il Presidente del Tribunaleesprime perplessità in merito, rilevando che dalla lettura delle sentenze, di cui molte relative ad opposizioni a sanzioni per violazione del codice della strada (in particolare sull’uso di autovelox) risulta che le motivazioni non tengono conto del costante orientamento della Corte di Cassazione e denotano un insufficiente aggiornamento giurisprudenziale.

Il Consiglio Giudiziario esprime parere contrario alla conferma del dott. Ma., a causa:dei numerosi rinvii di udienze per impedimento del giudice;delle “perplessità” espresse dal Presidente del Tribunale in merito alla motivazione di alcuni provvedimenti giudiziari;della situazione di evidente incompatibilità ambientale determinatasi con alcuni avvocati del luogo e della pendenza di un procedimento penale in fase dibattimentale per diffamazione.

In occasione dell’esame del caso di specie, i giudici del Collegio fanno luce sulla problematica legata all’eventuale incompatibilità del ruolo di Giudice di Pace rispetto al circondario ove hanno svolto precedentemente la professione di avvocato.

Il Collegio sostiene che: “Va premesso che, secondo l’art. 8, comma 1bis, della l. n. 374/1991, “Gli avvocati non possono esercitare le funzioni di giudice di pace nel circondario del tribunale nel quale esercitano la professione forense ovvero nel quale esercitano la professione forense i loro associati di studio, il coniuge, i conviventi, i parenti fino al secondo grado o gli affini entro il primo grado”. (…) La contestazione in ordine all’esiguità del numero dei procedimenti patrocinati non è idonea a confutare efficacemente tale assunto, se si considera che anche 7 procedimenti, tenuto conto delle dimensioni esigue dell’ufficio giudiziario e della costanza nel tempo di tale dato numerico (in quanto era stata rilevata in occasione della precedente conferma la pendenza di 17 procedimenti patrocinati dal ricorrente e 6 procedimenti patrocinati dalla moglie), integrano pienamente il presupposto previsto affinché sia ravvisata l’incompatibilità.”

In merito, invece, alle problematiche attinenti alle qualità che deve possedere il Giudice di Pace, il Collegio osserva quanto segue: “Al riguardo va premesso che, in materia di nomina e conferma dei giudici di pace, l’art. 5, l. n. 374 del 1991, dopo aver individuato ai commi 1 e 3 i requisiti necessari per la nomina, stabilisce che la designazione deve cadere “su persone capaci di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale, le funzioni di magistrato onorario”.Come correttamente osservato nella delibera impugnata, la valutazione demandata all’organo di autogoverno della magistratura nella procedura di conferma dei giudici di pace non assume contorni distinti rispetto a quella relativa alla prima nomina, per cui anche nella fase della conferma si deve accertare la sussistenza dei requisiti previsti dal comma 3 dell’art. 5 citato, ovvero la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, desunta anche dall’esame dell’attività svolta.Il Consiglio Superiore della Magistratura, pertanto, sia in sede di nomina che di conferma dei giudici di pace, deve individuare coloro che appaiono in grado di assolvere degnamente le funzioni di magistrato onorario, sia per “indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito”, sia per “esperienza giuridica e culturale” (Cons. Stato, sez. IV, 29 agosto 2013, n. 4317).”

In conclusione, il TAR Lazio non accoglie i motivi del ricorso proposti dal dott. Ma. ritenendo che il CSM ha adeguatamente motivato in ordine alle ragioni della mancata riconferma, alla luce di rilievi afferenti alla quantità e qualità dell’attività giudiziaria da questi posta in essere, alla frequenza dei rinvii disposti e ai rapporti intercorsi con uno degli avvocati che esercitavano la propria attività presso l’Ufficio del Giudice di Pace ed in particolare,“La delibera ha infatti menzionato, in primo luogo, il parere in data 22 dicembre 2009 del Presidente del Tribunale di Rieti il quale ha espresso “perplessità per la conferma del giudice di pace dott. Mattei”, rilevando che dalla lettura delle sentenze, di cui molte relative ad opposizioni a sanzioni per violazione del codice della strada – in particolare sull’uso di autovelox – appariva trattarsi “di motivazioni che non tengono conto del costante orientamento della Corte di Cassazione e che denotano un insufficiente aggiornamento giurisprudenziale”, prive di esame critico degli orientamenti espressi in sede di legittimità e delle ragioni per cui ci si discosti dagli stessi ed espresse in forma seriale.

 



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Inserito in data 01/02/2018
TAR LAZIO – ROMA, Prima Sezione, sentenza n. 1119 del 31 gennaio 2018

Gli illeciti anticoncorrenziali.

La B.S.F.M. s.p.a. ricorre avanti al TAR Roma al fine di impugnare la nota di H. s.p.a. del 31 marzo 2017, con la quale è stata comunicata l’aggiudicazione al r.t.i. M. F. M. s.p.a. e Consorzio I. soc. coop. della procedura negoziata per l’affidamento del “servizio integrato e coordinato di manutenzione e gestione del patrimonio immobiliare, impiantistico e di tutte le attività connesse e gestione degli spazi nell’ambito dei territori di competenza di H. s.p.a. ed anche al fine di impugnare l’aggiudicazione a favore del r.t.i. M. F. M. s.p.a. e Consorzio I. soc. Coop. nonché, tutti i verbali di gara.

Con il primo motivo di impugnazione, la B.S.F.M. s.p.a.lamenta l’illegittimità dell’aggiudicazione in favore del raggruppamento con capogruppo M.F. M. s.p.a.,ritenendo che quest'ultimadoveva essere esclusa in quanto la mandataria era stata sanzionata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato per un illecito anticoncorrenziale di particolare gravità. Le argomentazioni utilizzate dalla stazione appaltante, nei verbali in cui ha esaminato la questione, non legittimanola mancata esclusione in corso di gara, dato che haerroneamente ritenuto che la pendenza di un contenzioso sulla sanzione paralizzasse l’effetto escludente.

Il Collegio accoglie tale deduzione sia in punto di fatto sia in punto di diritto.

Nella motivazione, il TAR statuisce secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale che: “Con riferimento ai motivi di esclusione, l'art. 80, comma 5, del d.lgs. 50/2016 stabilisce che:<Le stazioni appaltanti escludono dalla partecipazione alla procedura d’appalto un operatore economico in una delle seguenti situazioni, anche riferita a un suo subappaltatore nei casi di cui all'articolo 105, comma 6, qualora: ... c) la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità. Tra questi rientrano: le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione>”.

I giudici del Collegio specificano che la disposizione, come peraltro secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, innova rispetto alla previgente disciplina contenuta nell'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, individuando una nozione di “illecito professionale” che “abbraccia molteplici fattispecie, anche diverse dall'errore o negligenza, e include condotte che intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella disciplina previgente (Cons. St., V, 21.7.2015 n. 3595), ma anche in fase di gara” (parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato, 3 novembre 2016 n. 2286; nello stesso senso Consiglio di Stato, sez. V, 4 dicembre 2017, n. 5704).” Ed ancora, il TAR ritiene che la lettera c) dell’art. 80, c. 5, non contempla un numero chiuso di illeciti professionali, ma disegna una fattispecie aperta contenente una elencazione avente chiara natura esemplificativa e non tassativa, rimettendo alle stazioni appaltanti la possibilità di individuare altre ipotesi, non espressamente indicate dalla norma primaria o dalle linee guida Anac, che siano oggettivamente riconducibili alla fattispecie astratta del grave illecito professionale.

Tale tesi trova riscontro nell’utilizzo dell’espressione “tra questi rientrano” e dalla correlazione dell'effetto escludente ad una particolare sintomaticità dei fatti, piuttosto che al loro inquadramento entro un concetto giuridico definito.

E’conseguenza inevitabile che la necessità di una motivazione indicata ad hoc comporti per la stazione appaltante una indagine mirata al fine di scongiurare possibili pericoli.

In conclusione, il TAR statuisce quanto segue: “Accertata la legittimità della ascrizione dell'illecito anticoncorrenziale ad un'ipotesi escludente, deve, poi, rilevarsi come la norma primaria non contenga, nel citato art. 80, comma 5, lettera c), un'indicazione generale di mezzi esclusivi o privilegiati di prova in ordine alla commissione dell'illecito professionale. Sul punto va, pertanto, sicuramente condivisa la prospettazione di parte ricorrente secondo cui, anche alla luce delle particolari garanzie che assistono l'adozione del provvedimento antitrust (emanazione da parte di un'autorità in posizione di terzietà, rispetto delle garanzie partecipative e del principio del contraddittorio), appare sufficiente, al fine di imporre alla stazione appaltante un onere di valutazione in ordine all'incidenza dei fatti sulla gara in corso di svolgimento, la mera idoneità del provvedimento sanzionatorio a spiegare, in via anche solo temporanea, i suoi effetti, o perché non (o non ancora) gravato o perché, ove impugnato, non sospeso, senza che rilevi se la decisione giudiziale sia stata assunta in sede cautelare o di merito e, in quest'ultimo caso, se la sentenza sia passata o meno in giudicato. La ricostruzione prospettata dalla ricorrente va pure condivisa laddove evidenzia come la pretesa definitività della sentenza offrirebbe agli operatori economici destinatari di sanzioni per comportamenti anticoncorrenziali una possibilità di elusione della disposizione in esame, attesa la necessaria delimitazione temporale della causa ostativa (nel senso della non necessità di un giudicato si è infatti espressa, modificando il suo precedente avviso, l'Anac nelle linee guida, n. 6, aggiornate con determina dell'11 ottobre 2017, ove, al punto 2.2.3.1, n. 1, menziona, tra le altre situazioni idonee a porre in dubbio l'integrità e l'affidabilità dell'operatore economico che la stazione appaltante deve valutare, i provvedimenti "esecutivi" dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato di condanna per pratiche commerciali scorrette o per illeciti antitrust gravi aventi effetti sulla contrattualistica pubblica e posti in essere nel medesimo mercato oggetto del contratto da affidare).



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Inserito in data 30/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 591 del 29 gennaio 2018

Il soccorso istruttorio nell’ipotesi di sostituzione della garanzia prestata.

La S. s.p.a., in proprio e quale mandataria Costituenda ATI ATI Coop., propone appello contro l’Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale e nei confronti dell’Impresa Costruzioni M. s.r.l., per la riforma della sentenza emessa dal TAR Marche concernente l’annullamento della Delibera del Presidente dell'Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale n. 3 del 12.01.2017 e degli atti ivi richiamati, con la quale è stata definitivamente aggiudicata alla costituenda associazione temporanea Costruzioni M. A.Srl (mandataria), I.C.A.M. Impresa Costruzioni Appalti M., C. Consorzio Imprenditori Edili e Un. Società Cooperativa, la procedura aperta per l'appalto di esecuzione dei lavori “opere di ammodernamento e potenziamento in attuazione del Piano regolatore portuale – 2a fase delle Opere a mare – 1° stralcio – lavori di completamento e funzionalizzazione della Nuova banchina rettilinea e dei piazzali retrostanti – 1° stralcio funzionale” e degli altri atti connessi.Nel corso della seduta di gara del 13 luglio 2015, la commissione ha proceduto al sorteggio per individuare un concorrente da sottoporre alla cd. verifica a campione, ai sensi del disciplinare e dell’art. 48 d.lgs. n. 163-2006.

I risultati della verifica sono stati evidenziati nel cd “documento istruttorio” del 28 settembre 2015, alla cui stregua l’ATI M. è stata ammessa al prosieguo della procedura, ammissione che è stata contestata dall’odierna parte appellante.All’esito dei lavori della Commissione, l’ATI M. è risultata prima in graduatoria con il punteggio complessivo di 97,3631 punti.L’offerta dell’ATI M. è stata sottoposta a verifica di anomalia ai sensi dell’art. 86, comma 2, d.lgs. n. 163-2006.Espletato il subprocedimento di verifica, l’offerta è stata ritenuta congrua e, quindi con delibera del 12 gennaio 2017 n. 3, comunicata con nota del 13 gennaio 2017 n. 73, il Presidente dell’Autorità ha aggiudicato definitivamente la gara alla costituenda ATI M.

Il primo motivo di appello, con cui si sostiene l’assenza dei requisiti di regolarità contributiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 163-2006, in capo alla Un. è da ritenersi infondato.

In ossequio ad un principio sostanzialistico in tema di possesso dei requisiti di partecipazione alle gare d’appalto, il Collegio sostiene che non si può dare prevalenza alle modalità meramente formali di verifica dei requisiti di partecipazione prescritti dalla lexspecialis del bando di gara. La P.A. ha pertanto legittimamente esercitato una facoltà di approfondimento istruttorio per assolvere compiutamente all’obbligo di verifica dei requisiti, in quanto ha richiesto ed ottenuto ulteriori informazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate sulla posizione fiscale della concorrente, sulla presenza di eventuali irregolarità fiscali e sul loro importo, sulla data di definitivo accertamento della stessa, sull’eventuale presenza di un piano di rateizzazione del debito e sull’eventuale presentazione di un ricorso da parte della Un. rispetto a quel debito. La sopraggiunta procedura concorsuale della Un. non può incidere sulla legittimità di atti già adottati prima della sua dichiarazione; potrà semmai essere valutata dall’Amministrazione in relazione agli atti ancora da adottare dopo il suo intervento.

I giudici del Consiglio di Stato rigettano anche il secondo motivo di appello con cui si deduce l’inidoneità della fideiussione presentata a corredo dell'offerta.

Il Collegio sostiene che la lexspecialis prevede unicamente l'obbligo di prestare una “cauzione provvisoria di cui all'art. 75 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, costituita nei modi e di ammontare previsti dal Disciplinare di gara”.

Il TAR ha rilevato, nella sentenza impugnata, l'esistenza di una obiettiva situazione di incertezza al tempo della presentazione dell'offerta, chiarita solo con il comunicato dell'ANAC del 6 luglio 2015, tale da poter concretare un errore scusabile rispetto alle modalità di presentazione della cauzione.L’ATI M.ha infatti allegato alla sua offerta una cauzione prestata in data 26.5.2015 dalla GBM Finanziaria la quale, però, si scopre successivamente non essere abilitata a rilasciare garanzie nei confronti del pubblico.

I giudici del Collegio sostengono, in motivazione, che: “La Stazione Appaltante ha attivato legittimamente il soccorso istruttorio, stante l’obiettiva incertezza delle norme di riferimento, sopra evidenziata, e l’aggiudicataria ha potuto sostituire la garanzia prestata con altra, rilasciata da un istituto autorizzato, senza alcun nocumento per gli interessi pubblici. Infatti, la disciplina contenuta nel testo unico bancario d.lgs. n. 385-1993, e relativa all’individuazione degli intermediari finanziari abilitati al rilascio di garanzie nei confronti del pubblico, è stata modificata dal legislatore mediante accorpamento in un’unica lista degli enti a ciò autorizzati.

Solo in un momento successivo (comunicato dell'ANAC del 6 luglio 2015) si è data certezza interpretativa alla nuova disciplina normativa, fugando ogni dubbio sul contenuto di tale lista. Pertanto, è inequivocabilmente ammissibile e doveroso il ricorso all'istituto del soccorso istruttorio in tale situazione”con conseguente legittimità della presentazione di una nuova fideiussione da parte dell'appellata ATI M.



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Inserito in data 27/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 565 del 26 gennaio 2018

Il dies a quo per l'attivazione del rimedio ex art. 120 co. 2 bis c.p.a. e carattere vincolatorio delle prescrizioni dei bandi anche nei confronti dell’Amministrazione.

La F. K. I. s.r.l. propone appello contro l’ESTAR e nei confronti della B. B. Milano s.p.a. per la riforma della sentenza emessa dal TAR per la Toscana, con la quale si è escluso l’offerta di F. K. I. s.r.l. dalla procedura ristretta per la fornitura di soluzioni infusionali di largo impiego.

In particolare, la B. B. Milano s.p.a., ricorrente in primo grado nonché appellata, ha contestato l’aggiudicazione disposta in favore di F. K. I. s.r.l., sottolineando come i flaconi da 500 ml offerti da quest’ultima non fossero dotati della scala di misurazione prevista dal citato art. 11.2 del capitolato di gara. A causa di tale contestazione, la stazione appaltante ha chiesto chiarimenti alla F. K. I. s.r.l. che, con la nota del 10 marzo 2017, ha confermato la diversità tra la scala di misurazione riportata sui flaconi offerti e quella prevista dall’art. 11.2 del capitolato. A mezzo della determinazione n. 386 del 15 marzo 2017, è stata disposta l’aggiudicazione definitiva a favore di F. K. I. s.r.l.

Con una successiva determinazione del 31 marzo 2017, il 5% del lotto n. 281 veniva aggiudicato a B. s.p.a., in virtù delle caratteristiche esclusive delle sacche offerte da tale società, mentre per il resto è stata confermata l’aggiudicazione in favore di F. K. I. s.r.l.

Avverso quest’ultima aggiudicazione, la B. B. Milano s.p.a. propone ricorso avanti al TAR per la Toscana, chiedendo l’annullamento degli atti e la conseguenziale esclusione dalla gara della F. K. I. s.r.l. e l’aggiudicazione della stessa in proprio favore, lamentando, in particolare, la non conformità dei flaconi da 500 ml offerti dalla stessa F. K. I. s.r.l. alle specifiche stabilite dall’art. 11.2 del capitolato. Il TAR per la Toscana accoglie il ricorso B. B. Milano s.p.a. e pertanto, la F. K. I. s.r.l. propone appello.

Il primo motivo di appello riguarda la tardività del ricorso proposto da B. B. Milano s.p.a.,avendo notificato il ricorso il 13 aprile 2017 e pertanto, non avendo rispettato il termine di decadenza di 30 giorni“sia considerando quale dies a quo il giorno 3 febbraio 2017, come già eccepito in primo grado, sia considerando il giorno 7 marzo ovvero il giorno 9 marzo 2017.

Il Consiglio di Stato rigetta il motivo di impugnazione osservando dapprima, in punto di fatto, che: “La data del 3 febbraio 2017 si riferisce all’ammissione di F. K. Italia s.r.l. al Sistema Dinamico di Acquisizione e, secondo l’appellante, B. B. Milano s.p.a. avrebbe dovuto impugnare il provvedimento di ammissione entro 30 giorni ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.

Il Collegio, alla luce delle considerazioni svolte dal TAR per la Toscana, ritiene che l’onere di impugnazione dell’altrui ammissione è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l’impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso senza poter visionare gli atti di causa.

Nel motivo di appello, si legge il riferimento alla data del 7 marzo 2017, che si riferisce alla data della proposta di aggiudicazione in favore dell’appellante. A tal riguardo, il Consiglio di Stato ritiene che: “non solo si può rilevare come l’art. 120, comma 2-bis, c.p.a. vieti di impugnare la proposta di aggiudicazione, assimilabile alla vecchia aggiudicazione provvisoria, ma anche come già prima dell’introduzione di tale disposizione la giurisprudenza considerasse l’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria meramente facoltativa.” ed ancora si legge in motivazione: “È pertanto solo con la determinazione di aggiudicazione definitiva n. 386 del 15 marzo 2017, alla quale era allegato il verbale del 10 marzo 2017 da cui si evincevano le esatte caratteristiche tecniche dell’offerta di F. K. Italia s.r.l., che B. B. Milano s.p.a. ha avuto una conoscenza certa della difformità del prodotto concretamente offerto dalla stessa F.. Ne discende che è solo nel 15 marzo 2017 che deve essere individuato il dies a quo per la decorrenza del termine utile alla proposizione del ricorso.

Un altro motivo di impugnazione, concerne la derogabilità o meno del contenuto dei bandi di gara con la conseguenziale esclusione del partecipante dall’aggiudicazione, qualora non vengano rispettate le prescrizioni.

Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, “le prescrizioni dei bandi hanno carattere inderogabile e vincolano anche l’Amministrazione che, pertanto, non può disattendere tali disposizioni, costituenti la cosiddetta lexspecialis della gara o del concorso, e, anche nel caso in cui esse siano illegittime, non può disapplicarle”.

Tale interpretazione della norma, deve essere estesa al caso concreto, esaminato nella sentenza in commento, in cui il Collegio ribadisce “il carattere vincolante dell’art. 11.2 del capitolato, anche nella parte in cui prevede che i flaconi in materiale plastico debbano essere dotati di una scala di misurazione «almeno ogni 100 ml»”, contenuto precettivo non rispettato e pertanto, anche questo motivo di appello è stato rigettato.



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Inserito in data 26/01/2018
TAR PUGLIA – BARI, Seconda Sezione, sentenza n. 101 del 25 gennaio 2018

La produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare "ex se" l'esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara.

La Lu. Ga. Propone ricorso contro l’Anas s.p.a. e nei confronti di Pr. Gi. S.a.s. al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento adottato dall’Anas s.p.a., recante l’aggiudicazione definitiva della gara, con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per l’appalto triennale dei Servizi di manutenzione delle opere a verde, dei servizi di raccolta e rimozione dei rifiuti e dei servizi di manutenzione invernali sgombraneve ed antighiaccio sulle strade statali e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali.

La Lu. Ga. è risultata seconda in graduatoria.

Con il primo motivo di impugnazione, l’appellante lamenta quanto segue: “l'avvalimento posto in essere dalla mandataria del raggruppamento aggiudicatario ai fini della dimostrazione del fatturato specifico per i servizi di manutenzione delle opere in verde -asseritamente- in violazione delle prescrizioni della lexspecialis, la quale avrebbe previsto un requisito più stringente attraverso l'imposizione della non frazionabilità dello stesso.”

I giudici del TAR ritengono che tale motivo sia infondato, in quanto nel bando di gara si legge, tra i requisiti, che: “il fatturato "specifico" per i servizi di manutenzione delle opere in verde (cioè per servizi corrispondenti a quelli da eseguire) dovesse essere posseduto dall'operatore che si fosse impegnato ad espletare il servizio, facendo seguire la dizione "requisito non frazionabile”.Il Collegio spiega a tal proposito che il predetto requisito deve interpretarsi nel diverso significato dell’“indivisibilità” del requisito, nell’ipotesi di partecipazione in raggruppamenti temporanei.

Tale opzione ermeneutica trova innanzitutto conferma nel dato testuale della lex di gara, che consente espressamente l’avvalimento in relazione a ciascuno dei requisiti previsti,che si tratti di concorrente singolo, consorziato, raggruppato o aggregato in rete, come prevede altresì il quadro normativo di riferimento, come interpretato dalla giurisprudenza amministrativa e comunitaria.

In particolare, l'art. 49, comma 6 d.lgs. n. 163/2006, nel testo modificato dall'art. 21, comma 1 della legge n. 161/2014, dopo la pronunzia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea n. 94/12 del 10 ottobre 2013, dispone che: “È ammesso l'avvalimento di più imprese ausiliarie, fermo restando, per i lavori, il divieto di utilizzo frazionato per il concorrente dei singoli requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di cui all'articolo 40, comma 3, lettera b), che hanno consentito il rilascio dell'attestazione in quella categoria.”

Medesimo giudizio è stato espresso dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 2184 del 11 maggio 2017 ed in particolare, la medesima Sezione, precedentemente con sentenza n. 277 del 22 gennaio 2015, ha stabilito quanto segue: “Non sussiste il divieto dell'utilizzo dell'avvalimento frazionato alla luce della sentenza della CGUE, 10 ottobre 2013, C-94/12, secondo la quale l'integrazione dei requisiti minimi di capacità imposti dall'amministrazione aggiudicatrice può essere dimostrata, sia utilizzando l'avvalimento frazionato che l'avvalimento plurimo, poiché ciò che rileva è la dimostrazione da parte del candidato o dell'offerente, che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti, di poter disporre effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all'esecuzione dell'appalto”.

L’altro motivo di impugnazione è inerente all’“attestato di certificazione del proprio Sistema di Gestione Ambientale”, prodotto dalla Pr. Gi. s.a.s., il quale, secondo l’appellante, non è idoneo a comprovare il requisito tecnico relativo alla certificazione ISO 14001, dato che “l'Ente certificatore non sarebbe “accreditato al rilascio della detta Certificazione ISO 14001, ma della sola Certificazione ISO 9001:2008 (certificazione di sistemi di gestione per la qualità)”.

Secondo la ricorrente, la certificazione ambientale non è stata rilasciata da un ente autorizzato e pertanto, comporta l’esclusione dalla gara.

Sul punto, il Collegio ritiene di non poter accogliere il motivo di appello, richiamando quanto deciso dalla Quinta Sezione, del Consiglio di Stato con sentenza n. 4471 del 9 settembre 2013, in materia di norme di garanzia della qualità e di gestione ambientale di cui agli art. 43 e 44 del d.lgs. n. 163 del 2006, ove si legge: “..la produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare "ex se" l'esclusione dell'operatore economico da una procedura di gara, ma impone alla stazione appaltante una valutazione in ordine all'effettivo possesso dei requisiti in capo al concorrente”; sicché ”...l'impresa partecipante deve poter provare l'esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione”.

In conclusione, la produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non comporta ex se l’esclusione dalla gara, impone altresì alla stazione appaltante una valutazione in ordine all’effettivo possesso dei requisiti in capo al concorrente e la conseguente, aggiudicazione della gara.

 



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Inserito in data 25/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 490 del 24 gennaio 2018

Presupposto per l’applicazione dell’art. 3 della L. n. 68 del 1999.

La Cooperativa Sociale E. s.c.s. propone ricorso, contro A.T.S. – Azienda per la Tutela della Salute della Sardegna e nei confronti di M. I. s.p.a.,al fine di ottenere la riforma della sentenza n. 201/2017, emessa dal TAR per la Sardegna, con la quale sentenza si rigetta il ricorso di primo grado proposto dallaCooperativa Sociale E. s.c.s. avverso la deliberazione del Commissario Straordinario, con cui l’Azienda Sanitaria Locale di Cagliari ha deliberato di approvare i verbali di gara e di aggiudicare al r.t.i., costituito da M. I. s.p.a.e da N.S.O. Coop. Soc. per la procedura aperta per l’affidamento del servizio di Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), per due anni nonché, tutti gli atti connessi, presupposti e consequenziali, incluso il bando di gara e le relative integrazioni.

Nello specifico, la Cooperativa lamenta l’erroneità della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto che solo due dipendenti della N.S.O. Coop. Soc. dovessero essere computati nella c.d. quota di riserva dei lavoratori ai sensi della L. n. 68 del 1999.

L’appellante ritiene che la N.S.O. Coop. Soc.vanta la presenza di 168 dipendenti rilevanti ai fini del computo della quota di riserva, “non potendosi escludere i 166 dipendenti assunti per il c.d. "cambio appalto" e, cioè, in ragione delle clausole sociali, che secondo tale tesi devono essere computati nella quota di riserva ai sensi dell'art. 3 della l. n. 68 del 1999.”

Il Collegio rigetta tale doglianza sulla base della seguente motivazione: “Appare conforme alla ratio dell'art. 3 della l. n. 68 del 1999 l'interpretazione di questa, fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali nell'interpello n. 23 del 1° agosto 2012, e cioè che “nell'ipotesi di acquisizione di personale già impiegato in appalto, c.d. "cambio appalto", l'incremento occupazione assume carattere provvisorio, in quanto destinato a subire, inevitabilmente, una contrazione al termine dell'esecuzione dell'appalto stesso” e che, di conseguenza, “il personale che transita dall'azienda uscente all'azienda subentrante non dovrà essere computato nella quota di riserva ai fini dell'art. 3, l. n. 68/1999”. Sul punto, peraltro, è intervenuto questo Consiglio di Stato, di recente, chiarendo che “anche a prescindere dall'applicazione dell'art. 23 CCNL, dal computo dei lavoratori impiegati ai fini della quota di riserva devono essere esclusi i lavoratori assunti in virtù delle c.d. clausole sociali, ossia il personale assunto a seguito e in ragione dell'aggiudicazione di un appalto e destinato, al termine dello stesso, a transitare alla dipendente del nuovo aggiudicatario (cfr. in questi termini nota del Ministero del Lavoro, in risposta ad interpello, n. 23 del 1° agosto 2012)” (Cons. St., sez. V, 31 gennaio 2017, n. 383).

Alla luce della nota chiarificatrice fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, i giudici del Consiglio di Stato fanno luce sui criteri di acquisizione del personale già impegnato nel c.d. “cambio appalto”, specificando che l’incremento occupazionale assume un carattere meramente provvisorio, in quanto è destinato a subire un inevitabile contrazione al termine dell’esecuzione dell’appalto e conseguentemente, il personale che transita dall’azienda uscente all’azienda subentrante non può essere computato nella quota di riserva, sancita dall’art. 3 della L. n. 68/1999.

Si deve anche considerare quanto deciso precedentemente dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 383 del 2017, con la quale si è statuito che nella quota di riserva devono essere esclusi i lavoratori assunti in virtù delle c.d. clausole sociali, dato che sono lavoratori in transito da una società all’altra e la loro posizione non è stabile, ma destinata a subire dei cambiamenti.



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Inserito in data 24/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 430 del 23 gennaio 2018

L’obbligo di inserire un geologo o un architetto tra i progettisti in sede di gara dipende da quanto disposto dalla lexspecialis.

La società G. s.r.l. propone appello contro la Provincia di Barletta-Andria-Trani nei confronti di P. Imp. s.r.l. per la riforma della sentenza del TAR Puglia – Bari avente ad oggetto il provvedimento di aggiudicazione dei lavori di recupero e di risanamento conservativo di un istituto scolastico, in quanto, all'esito delle operazioni concorsuali ed esperito altresì il sub-procedimento di verifica dell'anomalia delle offerte, nella seduta di gara del 22 ottobre 2015, la Commissione giudicatrice disponeva l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto in favore della P. Imp. S.r.l.

La società G. lamenta che la sentenza impugnata ha disatteso la censura, con la quale aveva sollevato il vizio d’illegittimità della disposta aggiudicazione della commessa a favore della P.Imp. S.r.l.,avendo la ditta aggiudicataria omesso di includere nella propria compagine la figura del geologo, come pure di includere nella propria offerta tecnica la relazione geologica, in asserita violazione della lexspecialis di procedura e della normativa positiva vigente rationetemporis.

La predetta società appellante ritiene che, essendo un elemento essenziale dell’offerta, la sua omissione avrebbe dovuto determinare l'esclusione della P.Imp. S.r.l. dalla gara, con consequenziale caducazione anche della disposta aggiudicazione della gara in suo favore. Il giudice di prime cure non accoglie tale censura.

Il Consiglio di Stato rileva a tal riguardo che, in merito alla problematica della automatica eterointegrazione della normativa di gara ad opera degli artt. 24, 26 (e 35) del regolamento di esecuzione al previgente Codice dei Contratti Pubblici di cui al d.P.R. n. 207 del 2010, sussistono dei precedenti giurisprudenziali non univoci, (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28 agosto 2017, n. 4080),secondo i quali, la formulazione delle predette norme deponga per il carattere solo eventuale delle relazioni specialistiche in sede di progettazione sia definitiva sia esecutiva.

Sul punto nella motivazione della sentenza in commento si legge quanto segue: “alla luce di una più comprensiva disamina della normativa sui livelli di progettazione recata dal d.P.R. n. 207 del 2010 ed in particolare in relazione all'art. 33, relativo ai "Documenti componenti il progetto esecutivo" (secondo cui quest'ultimo deve essere composto di tutte le relazioni specialistiche, "salva diversa motivata determinazione del responsabile del procedimento"), va ribadito che tale disposizione "afferisce tuttavia all'attività progettuale che si svolge all'interno delle stazioni appaltanti, cosicché non ne può essere desunta una rilevanza "esterna", sotto forma di requisito di partecipazione alle procedure di gara in cui un segmento della progettazione [...] sia affidato all'appaltatore privato" (cfr. ancora Cons. Stato, n. 4080/2017 cit.). Siffatto ordine di rilievi, del resto, si correla all'esigenza di non introdurre obblighi documentali sanzionati a pena di esclusione dalla gara in assenza di una specifica ed univoca previsione del bando, e dunque di una espressa richiesta da parte della stazione appaltante (esigenza, all'evidenza, non soddisfatta, neanche in implausibile prospettiva eterointegrativa, dal riferimento per relationem a previsioni regolamentari formulate in termini condizionati e di mera eventualità), posto che risulterebbero, altrimenti, violati i superiori principi eurocomuni di certezza e di salvaguardia dell'affidamento enunciati dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza 2 giugno 2016, C-27/15.Per l'effetto, deve ribadirsi l'intendimento per cui l'obbligo di indicare un geologo tra i progettisti in sede di gara e di corredare l'offerta tecnica con la relazione geologica dipende, in concreto, dalla natura delle prestazioni affidate all'appaltatore, laddove cioè queste implichino una modificazione sostanziale delle previsioni progettuali formulate dalla stazione appaltante e a condizione che la relativa necessità sia espressamente prefigurata nelle regole operative di gara.Depone in questi sensi l'esigenza che la determinazione degli obblighi progettuali e documentali imposti dalle stazioni appaltanti ai concorrenti siano chiaramente definiti nei documenti di gara e che a tali soggetti non siano addossati oneri che le prime, nell'ambito della loro discrezionalità e sulla base del grado di dettaglio della progettazione a base di gara, delle caratteristiche delle opere e delle migliorie consentite, hanno ritenuto non necessari.Per contro, l'applicazione meccanicistica dei più volte citati artt. 35 e 26 d.P.R. n. 207 del 2010, nei termini e con gli esiti propugnati dall'odierna appellante, condurrebbe proprio a tali incoerenti ed irragionevoli conseguenze, determinando un aggravio documentale ed economico per i concorrenti che, da un lato, non risponde ad esigenze effettive delle amministrazioni e le cui conseguenze si pongono, dall'altro lato, in tensione con i richiamati principi di certezza affermati in ambito sovranazionale (cfr., ancora, Cons. Stato, sez. V, n. 4080/2017) e con divieto di enucleare cause di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici non previste in modo espresso dal bando di gara (cfr., sul punto, Cons. Stato, ad. plen., 27 luglio 2016, n. 19).

Il Collegio rileva pertanto che nella lexspecialis non si legge alcun obbligo espresso di corredare l’offerta tecnica della relazione geologica e di indicare la relativa figura del geologo e pertanto, tale motivo di appello non viene accolto.

Con altro motivo di appello, la società G. s.r.l. impugna la sentenza di primo grado, nella parte in cui, ha respinto la doglianza sull’illegittimità della determinazione di aggiudicazione dell’appalto in favore della controinteressata per avere quest’ultima omesso di includere nello staff dei progettisti la figura dell’architetto, reputata necessaria in quanto il fabbricato oggetto della gara di appalto è sottoposto a vincolo architettonico-paesaggistico, ai sensi “dellart. 52, co. 2, R.D. n. 2537/1925, laddove riserva ai soli architetti le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico nonché il restauro e il ripristino degli edifici soggetti a vincolo storico-artistico”.

I giudici del Consiglio di Stato rigettano anche questo motivo di appello, in quanto la disciplina di gara non richiede esplicitamente, anche sotto questo profilo, “a pena di esclusione” l’inserimento della figura dell’architetto nello staff dei progettisti, “Semmai (come risulta dalla nota del RUP in data 20 ottobre 2015), la stazione appaltante aveva ritenuto pienamente equipollente a quest'ultima quella dell'ingegnere, ai sensi dell'art. 52 del r.d. n. 2537/1925, in considerazione della natura prettamente tecnica dei lavori oggetto di appalto. Per tal via (…) anche sotto il profilo in questione non potrebbe ritenersi operante il valorizzato meccanismo eterointegrativo; né la controinteressata avrebbe potuto essere espulsa dalla gara, in forza del principio di tassatività delle cause di esclusione e di quello di tutela dell'affidamento dei concorrenti sulle indicazioni della stazione appaltante.”

 



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Inserito in data 21/01/2018
TAR LAZIO – ROMA, Seconda Sezione, sentenza n. 667 del 19 gennaio 2018.

Il concetto di ente ed il Codice Antimafia.

L’associazione K-S.impugna la determinazione dirigenziale, assunta da Roma Capitale, Dipartimento Attività Culturali, Direzione Organismi Partecipati eSpazi Culturali, con la quale ha escluso dalla procedura ad evidenza pubblicaper la concessione a titolo gratuito dell'immobile confiscato allamafia denominato Nuovo Cinema Aquila l'Associazione Culturale K-SHOTe ha ammesso la C. M. Società CooperativaOnlus alle fasi successive della procedura. La predetta amministrazione ha operato l’anzidetta decisione di esclusione, in quanto ha riscontrato un’irregolarità relativa al DURC intestato all’associazione K-S., come inviata dall’INPS. Si costituisce la società ATI, costituenda C. M. Società Cooperativa Onlus, depositando ricorso incidentale e chiedendo di ritenere illegittima l’ammissione alla gara della ricorrente K-S.e per l’effetto, annullare il verbale con ilquale si dispone l'ammissionedella ricorrente Associazione CulturaleK-S. alla selezione di cui all'avviso pubblico del 27marzo 2017. 

I giudici del TAR rigettano sia il ricorso principale sia quello incidentale.

In ordine al ricorso principale, il TAR sostiene che: “È infatti assunto consolidato che l'amministrazione non è competente a sindacare il rapporto interno tra INPS e impresa, né può entrare nel merito nella contestata irregolarità contributiva, vagliandone il livello di “gravità” onde ritenere il DURC negativo privo di efficacia escludente. Sia la definitività della violazione sia la valutazione del requisito della gravità è infatti rimesso all'esclusivo apprezzamento dell'INPS, la cui certificazione si impone alle stazioni appaltanti, le quali non possono che prendere atto della situazione di regolarità e/o irregolarità della posizione previdenziale.”

Il Collegio ribadisce che la regolarità contributiva delle imprese partecipanti deve essere sottoposto alla esclusiva verifica degli istituti di previdenza.

La stazione appaltante ha correttamente proceduto all’esclusione dell’associazione alla luce della disciplina normativa contenuta nell’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016, come formulata ante correttivo.

In ordine al ricorso incidentale, il TAR sostiene che l’associazione in questione (di natura culturale), può partecipare alla procedura ad evidenza pubblica in quanto rientra nel concetto di “ente” di cui all’art. 48, comma 3, lett. c) del D. Lgs. n. 159/2011 – Codice Antimafia.

Il Collegio ritiene, sotto un profilo civilistico, che nella nozione di “ente” rientrano le associazioni previste dal titolo II capo II Libro I del codice civile e che possono svolgere anche attività di tipo economico “purchè la stessa sia strumentale ed ancillare rispetto ai fini dell’ente.”

Ed ancora, in motivazione, si legge: “È infatti consentito l'esercizio di un'attività commerciale purché ciò non avvenga in maniera esclusiva ed incompatibile con la natura di ente morale dell'associazione; con la riveniente preclusione alla distribuzione di utili fra gli associati, come correttamente esposto dalla difesa comunale.Ma anche riguardando il caso alla luce della normativa in tema di contratti pubblici, essa ricomprende nella nozione di “operatore economico”, in linea sostanziale, anche gli enti privati senza fini di lucro; essi possono partecipare alle gare quando abbiano comunque la sostanza di operatore economico (offrendo ad esempio sul mercato beni o servizi, al fine di ricavare somme da destinare alla realizzazione del fine non lucrativo che perseguono).

In conclusione, secondo il Collegio, tale associazione rientra nella categoria di “ente” e pertanto, in ragione della sua natura può essere ricondotto alla categoria di “ente” menzionato nell’art. 48, comma 3, lett. c) del Codice Antimafia.



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Inserito in data 20/01/2018
TAR LOMBARDIA - MILANO, Quarta Sezione, sentenza n. 141 del 18 gennaio 2018.

L’impugnabilità della determinazione conclusiva della prima fase di selezione di una proposta, nel procedimento di projectfinancing.

La società Saie srlchiede l’annullamento: della lexspecialis - composta da Bando, pubblicato in GUUE il 2 dicembre 2016, Disciplinare e “Documentazione progettuale”, a sua volta composta da una “relazione tecnica relativa all'impianto crematorio” e da uno “studio di prefattibilità ambientale” - della gara indetta dal Comune di Pavia per l'affidamento in concessione del servizio di cremazione ai sensi dell'articolo 183, comma 15, D.Lgs. 50/2016; della Deliberazione di Giunta n. 149 del 21 luglio 2016 con la quale l’Amministrazione ha nominato il controinteressato promotore dell’iniziativa, ponendo la proposta di quest’ultimo a base di gara e la condannadella stazione appaltante al risarcimento del danno.

L’appello si fonda su due motivi di impugnazione:il primo motivocontesta una violazione di legge, in quanto il progetto posto a base di gara non è stato previamente inserito in alcuno strumento di programmazione e non è stato approvato dal Consiglio comunale “quantomeno sotto il profilo della sua inserzione negli strumenti di programmazione del Comune”; l'altro motivo è diretto a lamentare la ritenuta assenza nel progetto posto a base di gara di alcuni elaborati asseritamente necessari, ex art. 23 del D.L.vo n. 50/2016 e art. 17 del D.P.R. n. 207/2010.

I vizi degli atti di causa censurati attengono alla scelta del promotore e del relativo progetto, posto alla base della gara per la individuazione del concessionario, con particolare riguardo alla contestazione della delibera comunale, a mezzo della quale l’ente locale ha individuato il r.t.i. controinteressato come promotore dell’iniziativa, ponendo proprio la sua proposta progettuale a base della gara, di cui vengono impugnati gli atti indittivi. La società impugna anche la determinazione relativa alla scelta del promotore, alla valutazione della fattibilità del progetto e all’individuazione del progetto, non potendo differire tale impugnazione al momento della contestazione della lexspecialis della gara relativa alla scelta del concessionario.

Sul punto, il Collegio ha risolto la quaestio iuris riportando la decisione dell’adunanza plenaria Consiglio di Stato n. 1 del 2012, nella quale si legge quanto segue: “nel procedimento di projectfinancing l’atto con cui la stazione appaltante conclude la c.d. prima fase di selezione di una proposta, da porre a base della successiva gara, sia immediatamente impugnabile da coloro che abbiano presentato proposte concorrenti in relazione alla medesima opera pubblica”, in quantoil procedimento di aggiudicazione della concessione al promotore finanziario si articola in una fattispecie a formazione progressiva, che si realizza mediante sottofasi procedimentali, idonee a produrre effetti immediatamente lesivi nei confronti dei concorrenti e, come tali, da aggredire immediatamente.

In conclusione, la società Saie s.r.l. non ha presentato una proposta, rimanendo così estranea alla prima fase della selezione, venendo meno pertanto qualsiasi interesse concreto ed attuale a censurare la scelta del promotore e del progetto posto alla base della gara; inoltre, la ricorrente non deduce vizi direttamente riferibili alla lexspecialis impugnata, ma a provvedimenti diversi, immediatamente lesivi, anche se prodromici alla gara, che rendono inammissibile il ricorso per carenza di interesse.



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Inserito in data 19/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 254 del 17 gennaio 2018

La domanda di subentro nella gara per l’appalto, l’affidamento provvisorio ed il risarcimento del danno da perdita di chance.

Una cooperativa sociale ha proposto appello avverso la sentenza del TAR per il Lazio, con la quale è stato accolto il ricorso proposto dalla predetta appellante, contro il verbale avente ad oggetto l’aggiudicazione provvisoria della gara per l’appalto relativo alla gestione del servizio di assistenza educativa scolastica agli alunni diversamente abili, indetta dal Comune di Subiaco.

L’appello della cooperativa sociale ha ad oggetto la statuizione del giudice di primo grado, in quanto non deduce che non avrebbe statuito sulla domanda di subentro nel contratto e quella con cui ha respinto la domanda di risarcimento dei danni.

I giudici del Consiglio di Stato ritengono che il primo motivo di appello non sia fondato.

In particolare, nella motivazione della sentenza in commento, sulla base di un pacifico orientamento giurisprudenziale, si legge quanto segue: “La domanda di subentro nel contratto, ai sensi dell’art. 122 c.p.a., costituisce la condizione perché possa essere pronunciata l’inefficacia del contratto, ma ciò non significa che ove vi sia stato un affidamento provvisorio, è possibile il subentro. Ostano a tale conclusione vari argomenti, tra cui quello riveniente dalla disposizione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., alla cui stregua in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Tale regola vale anche quando il giudice, ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a., dichiara l’inefficacia del contratto, potendo in tale caso disporre il subentro del ricorrente solo quando l’accoglimento del ricorso non renda necessaria un’ulteriore attività procedimentale dell’Amministrazione per l’individuazione del nuovo aggiudicatario della gara (Cons. Stato, Sez. III, 1 agosto 2013, n. 4039). L’annullamento dell’aggiudicazione connesso al mancato rispetto del principio di pubblicità della gara fa conseguire che il diritto al risarcimento del danno può realizzarsi solamente nei limiti della perdita di chance all’aggiudicazione della gara stessa (Cons. St., Sez. V, 28 settembre 2015, n. 4499).

Altra quaestio iuris, affrontata dal Consiglio di Stato, concerne il c.d. preavviso di ricorso. Si legge, nella motivazione della sentenza in esame, che il preavviso di ricorso non comporta per l’Amministrazione: alcun obbligo di riesame; nessun obbligo di sospensione della procedura e nessun obbligo di risposta espressa. Conseguentemente, l’operatore economico partecipante al procedimento di evidenza pubblica non è gravato da oneri di diligenza, “peraltro oggettivamente non pretendibili in ragione della situazione di asimmetria informativa esistente tra il privato e l'Amministrazione, in difetto configurando l'evenienza, in qualche misura sanzionatoria, del concorso del fatto colposo del creditore nella causazione del danno.”

Il Consiglio di Stato sostiene pertanto che il “preavviso di ricorso” è proposto “allo stato degli atti” e soltanto,entro tale limite può ritenersi espressione di ordinaria diligenza.

L’altro motivo di appello, esaminato dai giudici del Consiglio di Stato, riguarda il risarcimento del danno conseguente all’annullamento dell’aggiudicazione della gara.

Sul punto, il Collegio si è espresso nel seguente modo: “L'annullamento dell'aggiudicazione è peraltro connesso al mancato rispetto del principio di pubblicità della gara, con la conseguenza che l’(eventuale) attività rinnovatoria della gara pone in termini di mera ipotesi il soddisfacimento dell'interesse finale del concorrente vittorioso; corollario di ciò è che il diritto al risarcimento del danno può realizzarsi solamente nei limiti della perdita di chance all'aggiudicazione della gara (Cons. Stato, V, 28 settembre 2015, n. 4499), pur nella consapevolezza della difficile applicazione di tale tema al diritto dei contratti pubblici ed al diritto amministrativo in generale, ma al contempo nella consapevolezza di dover garantire una forma di tutela per equivalente allorché quella in forma specifica non sia possibile. Il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno c.d. curricolare, e cioè il pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare nello stesso l'avvenuta esecuzione dell'appalto (in termini Cons. Stato, Ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2). Può ritenersi provata la perdita di un'occasione concreta di aggiudicazione dell'appalto, in quanto il giudizio di probabilità, basato sull'id quodplerumqueaccidit (in virtù della regola della "inferenza probabilistica"), discende dal fatto che ad avere partecipato alla gara siano stati cinque operatori economici e che l'appellante sia risultata seconda graduata.

In conclusione, secondo i giudici del Consiglio di Stato, l’onere della prova ricade sull’impresa danneggiata, la quale deve dimostrare che avrebbe conseguito, ove fosse risultata aggiudicataria, un utile di impresa e che ha invece sofferto conseguentemente un danno, non essendo l’aggiudicataria.

Nel caso di specie, si ritiene che il lucro cessante sia determinabile equitativamente, tenendo conto anche del numero dei partecipanti. Il danno emergente, consistente nelle spese sostenute per la partecipazione alla gara, invece non è risarcibile, in quanto il predetto costo deve rimanere a carico dell’impresa sia nell’ipotesi di aggiudicazione sia nell’ipotesi di mancata aggiudicazione.



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Inserito in data 17/01/2018
TAR-TRENTO, Prima Sezione, sentenza n. 12 del 16 gennaio 2018.

Parametri e criteri di valutazione delle offerte.

La società SCA. H. P. s.p.a. partecipa alla gara, indetta con bando del 18 aprile 2016 dalla Provincia autonoma di Trento, mediante procedura aperta sopra soglia comunitaria, per la conclusione di una convenzione destinata alla fornitura di dispositivi, monouso e pluriuso, per l'incontinenza e per l'igiene personale e dei servizi connessi, destinati alle aziende pubbliche dei servizi alla persona (APSP) - RSA operanti nel territorio provinciale, da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa ai sensi degli artt. 16 e 17 della legge provinciale 9 marzo 2016 n. 2. La lexspecialis di gara, che comprende il bando, il capitolato tecnico e i “parametri e criteri di valutazione delle offerte”, prevede la suddivisione della procedura in due lotti distinti e precisamente il lotto 1: dispositivi per l'incontinenza e il lotto 2: prodotti per l'igiene personale.Alla procedura per l'aggiudicazione del lotto 1, hanno partecipato quattro società concorrenti, (F.s.p.a., S. s.p.a., SCA.H.P.s.p.a. e S.s.p.a.) e per due di queste (F.s.p.a. e S.s.p.a.) le operazioni della commissione sono proseguite fino alla compiuta disamina delle rispettive offerte tecniche, al cui esito è stata disposta l'esclusione di entrambe per non aver raggiunto, relativamente ad alcuni dei prodotti offerti, la soglia di sbarramento richiesta. Per le altre due partecipanti, SCA H. P.s.p.a. e S. s.p.a., rispettivamente appellante e controinteressata, la commissione ha, invece, interrotto le proprie operazioni e ne ha disposto l'esclusione per incompletezza della documentazione riferita al rispetto dei criteri minimi ambientali (CAM) e al possesso dei requisiti minimi richiesti dal capitolato relativamente ai prodotti.La società SCA.H.P. s.p.a., pur risultando sospesa, in attesa della valutazione di congruità della offerta, ha ritenuto l'esclusione dalla procedura relativa al lotto 1 immediatamente lesiva e illegittima ed ha, quindi, proposto ricorso deducendo l'illegittimità dell'operato della commissione incaricata della valutazione delle offerte tecniche. Successivamente, a seguito del ricorso proposto da SCA.H.P. s.p.a.e S.s.p.a., viene riconosciuto l’istituto del soccorso istruttorio, venendo riammesse alla procedura di gara del lotto n. 1, ma viene al termine della procedura esclusa “non avendo la medesima raggiunto nelle esperite prove pratiche relative agli elementi di valutazione riguardanti uno dei prodotti offerti il punteggio indicato quale soglia di sbarramento per accedere alla fase successiva di valutazione dell'offerta economica.

Lasocietà SCA.H.P.s.p.a. propone appello, ma viene rigettato.

I giudici del TAR, in occasione della sentenza in commento, fanno luce sui parametri e criteri di valutazione delle offerte ed il relativo ambito di discrezionalità. IlCollegio sostiene che “Il modus procedendi della commissione, che, sulla base delle previsioni contenute nei "parametri e criteri di valutazione delle offerte" e nell'ambito della ampia discrezionalità di cui dispone, ha ritenuto di ripetere il sorteggio e la selezione della tipologia dei prodotti sui quali eseguire le prove pratiche, nonostante il precedente sorteggio non fosse affetto da alcun vizio di illegittimità, non risulta censurabile. Se anche l'annullamento dell'aggiudicazione di un pubblico appalto non implica necessariamente la rinnovazione della medesima gara con salvezza degli atti legittimi già compiuti ed è consentita la rinnovazione dell'intero procedimento mediante indizione di una nuova procedura (cfr., TAR Friuli Venezia Giulia, n. 95/2017; TAR Toscana, sez. III, n. 1196/2017), a maggior ragione la ripetizione del sorteggio non viola il principio di par condicio fra i partecipanti alla gara. Si consideri, inoltre, al riguardo, che il rispetto delle soglie minime di idoneità deve essere garantito per ogni singolo prodotto, non solo per quelli sorteggiati, per cui il dolersi della scelta non assume rilevanza alcuna.”Ne consegue che, la discrezionale decisione assunta dalla commissione tecnica di reiterare le operazioni antecedenti l'effettuazione delle prove pratiche, non determina alcuna lesione del principio della parità di trattamento dei concorrenti e pertanto,il principio della par condicio non è stato assolutamente violato dalla commissione.

In conclusione, la reiterazione del sorteggio non genera vizi sulla regolarità sostanziale della procedura competitiva e rientra tra gli ampi poteri della commissione senza, soggiacere ad obblighi di comunicazione.



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Inserito in data 16/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n.182 del 15 gennaio 2018

Applicazione della disciplina dell’affidamento in house.

Il Consiglio di Stato viene adito al fine di riformare la sentenza, emessa dal TAR della Lombardia, Sezione Quinta. Nella predetta sentenza, il TAR accoglie la domanda di annullamento della società P. ed annulla gli atti impugnati in primo grado, riconoscendo la fondatezza del primo motivo di gravame con cui, la ricorrente società P. contesta la sussistenza in capo al Comune di Roncaro del requisito del “controllo analogo” nei confronti della società A. ed ha dichiarato assorbiti gli altri motivi articolati nel ricorso, rigettando i rimanenti. Nello specifico, la società P., azienda operante nel settore dell’igiene urbana, svolgeva il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti nel Comune di Roncaro (PV), giusto contratto stipulato all’esito di un’apposita procedura ad evidenza pubblica, prorogato sino alla data del 28 febbraio 2015. Con delibera n. 3 del 12 febbraio 2015, il predetto Comune stabilisce che alla scadenza del termine contrattuale avrebbe affidato la gestione dei servizi alla società A., appellante avanti il Consiglio di Stato, secondo il modulo di affidamento c.d. in house, in quanto è titolare di una quota minore del relativo capitale sociale.

La società A. chiede la riforma della predetta decisione.

I giudici del Consiglio di Stato accolgono l’appello proposto dalla società A., ritenendolo fondato in quanto dalle risultanze degli atti, si evince che sussistono le condizioni perché si possa inquadrare un’ipotesi di in housepluripartecipato o a “controllo analogo congiunto” ed in particolare, ritengono che la res controversa può essere analizzata alla luce dei dettami dell’art. 12 della Direttiva 2014/24/UE in tema di “in houseproviding”, la quale enuncia i presupposti e le condizioni per procedere ad un affidamento diretto in regime di controllo. Il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, riprende quanto deciso dalla Sezione VI, con sentenza del 03 aprile 2007, n. 1514, nella quale si legge: “Occorre, in particolare, verificare che l’ente pubblico affidante (rispettivamente la totalità dei soci pubblici) eserciti(no), pur se con moduli societari su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario, caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria, sicché risulta indispensabile, che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante o, in caso di in house frazionato – come nella fattispecie in esame –, della totalità degli enti pubblici soci.

Nella predetta decisione n. 1514/2007, si legge inoltre che al fine di un legittimo affidamento in house occorre: “- (i) che l’attività della società affidataria sia limitata allo svolgimento dei servizi pubblici nel territorio degli enti soci (e si tratta di un requisito sussistente nel caso in esame),- (ii) che venga esercitata fondamentalmente a beneficio di questi ultimi (e si tratta anche in questo caso di un requisito sussistente nel caso dell’appellante),- (iii) che si svolga tramite organi statutari composti da rappresentanti di detti enti (si tratta anche in questo caso di un requisito che, secondo quanto di seguito si dirà, sussiste nel caso in esame),- (iv) che gli enti soci esercitino un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti di detta società (in tal senso: CGCE, Sez. II, 17 luglio 2008, C-371/05, caso Comune di Mantova; CGCE, Sez. III, 13 novembre 2008, C-324/07, caso CoditelBrabant; CGCE, Sez. III, 10 settembre 2009, causa C-573/07, caso SEA).”

In conclusione, applicando i presupposti anzidetti al caso di specie, il Consiglio di Stato ritiene che la delibera consiliare di affidamento del servizio all’anzidetta società A. sia legittima in quanto quest’ultima società appare essere interamente partecipata da enti pubblici locali e da altri Comuni minori.



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Inserito in data 14/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 120 del 11 gennaio 2018

Linee guida per la revoca dell’aggiudicazione in materia di appalti pubblici.

Una società a responsabilità limitata a socio unico propone ricorso in appello contro il Comune di Pavia e nei confronti di altra società cooperativa per la riforma di una sentenza del TAR Lombardia – Milano, con la quale veniva rigettato il ricorso, riscontrando la legittimità dei provvedimenti adottati dall’anzidetto Comune. Quest’ultimo si era adoperato infatti ad inviare all’ANAC tutta la documentazione inerente ad un accordo siglato tra la società a responsabilità limitata a socio unico, classificata al secondo posto in una procedura di evidenza pubblica, ed un’altra società, ritenendo che vi fosse una grave violazione degli obblighi professionali.

L’ANAC revoca l’aggiudicazione dell’appalto a favore della società a responsabilità limitata a socio unico, avendo riscontrato una grave irregolarità. Tale provvedimento viene impugnato dalla società.

Il Consiglio di Stato si pronuncia pertanto in merito alle problematiche applicative legate alla revoca dell’aggiudicazione operata ai sensi dell’art. 21-quinquies L. n. 241/1990.

I giudici del Consiglio di Stato ritengono che nel caso esaminato il Comune abbia agito regolarmente, dato che non ha contestato alla società delle inadempienze nell’esecuzione della prestazione, ma di aver tenuto un comportamento scorretto nella fase antecedente alla consegna anticipata del servizio, consistente nella stipulazione di un accordo transattivo finalizzato, secondo la stazione appaltante, ad affidare in subappalto in violazione di legge tutte le prestazioni oggetto del contratto.

Nel caso concreto, il Consiglio di Stato ritiene che non sussiste un contratto e pertanto, non vi è contestazione di inadempimento contrattuale. Ne consegue che non è stato esercitato alcun potere di risoluzione, in quanto si è configurata invece una revoca dell’aggiudicazione nei confronti della società appellante.

I giudici del Consiglio di Stato riprendono, nella motivazione della sentenza in commento, la decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 14 del 20 giugno 2014), che offre dei chiarimenti sull’esercizio dei poteri di revoca dell’aggiudicazione: “Resta perciò impregiudicata, nell’inerenza all’azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso.” (principio ribadito da Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026). Ciò conformemente alla previsione dell’art. 11, comma 9, d.lgs. 163 cit. che fa salvo “l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”.

Secondo un pacifico orientamento della giurisprudenza le ragioni, che appaiano idonee a giustificare la revoca legittima dell’aggiudicazione, sono individuate in: “a) revoca per sopravvenuta non corrispondenza dell’appalto alle esigenze dell’amministrazione; b) revoca per sopravvenuta indisponibilità di risorse finanziarie ovvero per sopravvenuta non convenienza economica dell’appalto (fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 21 aprile 2016, n. 1599, Sez. III, 29 luglio 2015, n. 3748); c) revoca per inidoneità della prestazione descritta nella lexspecialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l'avvio della procedura (sulla quale, ampiamente, Cons. Stato, sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026). Tra i “sopravvenuti motivi di pubblico interesse” ben possono rientrare anche comportamenti scorretti dell’aggiudicatario che si siano manifestati successivamente all’aggiudicazione definitiva (fattispecie già conosciuta in giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 giugno 2017, n. 2804 avente ad oggetto il mancato assolvimento agli obblighi contributivi emerso successivamente all’aggiudicazione; Cons. Stato, sez. V, 11 luglio 2016, n. 3054, ove la revoca era giustificata dal rifiuto dell’aggiudicatario di stipulare il contratto prima che fossero modificate talune clausole contenute nel capitolato di gara; Cons. Stato, sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 143, revoca giustificata per violazione delle clausole dei Protocolli di legalità; e TAR Liguria, sez. II, 27 gennaio 2017, n. 55). In detti casi la revoca assume quella particolare connotazione di revoca – sanzione, poiché la caducazione degli effetti del provvedimento è giustificata da condotte scorrette del privato beneficiario di precedente provvedimento favorevole dell’amministrazione; tuttavia si tratta pur sempre di “motivi di pubblico interesse”, successivi al provvedimento favorevole (o successivamente conosciuti dalla stazione appaltante, e per questo “sopravvenuti”) che giustificano la revoca. La particolarità di tale revoca consiste nel fatto che l’amministrazione non è tenuta a soppesare l’affidamento maturato dal privato sul provvedimento a sé favorevole e, d’altra parte, non ricorrono pregiudizi imputabili all’amministrazione e ristorabili mediante indennizzo poiché ogni conseguenza, ivi comprese eventuali perdite economiche, è imputabile esclusivamente alla condotta del privato (non dando luogo a responsabilità dell’amministrazione, neppure da atto lecito).”

In conclusione, la condotta della società appellante viene condannata da parte del Consiglio di Stato in quanto contraria alla disciplina legislativa in materia di subappalto (data la scrittura privata siglata tra le parti) e come tale, legittima la revoca dell’aggiudicazione dell’appalto.



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Inserito in data 13/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 93 del 10 gennaio 2018

I presupposti e le finalità applicative della gestione commissariale ex art. 32 del D. L. anticorruzione.

Il Consiglio di stato viene adito da una società, al fine di riformare una sentenza emanata dal TAR – Lombardia, concernente l’annullamento di un provvedimento, con il quale il Prefetto della Provincia di Monza e della Brianza ha decretato, nei confronti della ricorrente, la misura “della straordinaria e temporanea gestione” dell’impresa ai fini della completa esecuzione degli appalti dei servizi di igiene ambientale dei Comuni. A tale provvedimento, si deve anche aggiungere quello emanato dal Presidente dell’ANAC, a mezzo del quale, ha disposto l’emissione della misura del commissariamento oltre, a comunicare l’avvio dei procedimenti di richiesta di emissione delle misure di cui all’art. 32, co. 1, della L. n. 114/2014, nonché l’eventuale inserimento nel casellario informatico dell’ANAC del decreto.

Il predetto provvedimento impugnato è stato emesso sulla base della seguente motivazione: “a carico dell’impresa appaltante risultavano riscontrate “situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali” di matrice corruttiva, commessi in occasione di varie procedure d’appalto al fine di ottenere l’aggiudicazione” oltre “fatti delittuosi in ordine dei quali è, peraltro, intervenuta un sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, pronunciata ai sensi dell’art. 444 c.p.p.

I giudici del Consiglio di Stato rigettano l’appello proposto dalla società e motivano la decisione sulla base di un recente orientamento giurisprudenziale, spiegando la finalità, l’obiettivo ed i presupposti per l’applicazione dell’art. 32, co. 1, della L. n. 114/2014.

Con la sentenza n. 5563 del 2017, il Consiglio di Stato sostiene che l’art. 32 della L. anticorruzione vanta un duplice obiettivo: garantire la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare il rischio di fare infiltrare la criminalità nelle imprese, utilizzando lo strumento del commissariamento.

I giudici del Consiglio di Stato illustrano, nella motivazione di diritto della sentenza in commento, che “la gestione commissariale è volta, attraverso l’intervento del Prefetto, non soltanto a garantire l’interesse pubblico alla completa esecuzione dell’appalto ma anche a sterilizzare la gestione del contratto “oggetto del procedimento penale” dal pericolo di acquisizione delle utilità illecitamente captate in danno della pubblica amministrazione. E non si è mancato di sottolineare che, sotto tale profilo, l’istituto si manifesta come uno strumento di autotutela contrattuale previsto direttamente dalla legge. Questa speciale forma di commissariamento riguarda soltanto il contratto (e la sua attuazione) e non la governance dell’impresa in quanto tale ed in ciò si distingue dalle misure di prevenzione patrimoniali disposte ai sensi del D.Lgs n. 159 del n. 2011 (c.d. codice antimafia), essendo ratio della norma quella di consentire il completamento dell’opera (ovvero, come nella fattispecie, la gestione del servizio appaltato) nell’esclusivo interesse dell’amministrazione concedente mediante la gestione del contratto in regime di “legalità controllata”. In tal senso depone lo stesso tenore letterale della norma laddove si afferma che il commissariamento ha luogo “limitatamente alla completa esecuzione del contratto o della concessione”.

I giudici del Consiglio di Stato spiegano che la ratio della norma è di garantire il completamento dell’opera nell’interesse esclusivo dell’amministrazione concedente, a mezzo la gestione del contratto in regime di “legalità controllata” e pertanto, sotto tale prospettiva, bisogna leggere il settimo comma dell’art. 32, ove si impone l’accantonamento degli utili che derivano dal contratto commissariato.

In ordine alla problematica attinente all’applicabilità del principio di irretroattività ai sensi dell’art. 11 delle preleggi, il Consiglio di Stato sostiene che il commissariamento deve ritenersi applicabile a tutti i rapporti contrattuali in esecuzione, al momento dell’entrata in vigore della Legge anticorruzione, senza trovare alcuna applicazione il principio dell’irretroattività, secondo il principio del tempusregitactum.

In conclusione, il Consiglio di Stato rigetta l’appello proposto, in quanto il provvedimento emanato dalla Prefettura e dall’ANAC sono fondati su un giudizio vertente “un collaudato sistema corruttivo e di una capillare rete di contatti e di appoggi”, che sono espressione di una permanente attualità del pericolo di infiltrazioni criminali di tipo corruttivo.



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Inserito in data 12/01/2018
TAR VENETO – VENEZIA, Prima Sezione, sentenza n. 21 del 09 gennaio 2018

Profili di illegittimità del divieto di transito dei mezzi pesanti adottato dal Comune.

Il TAR Venezia si pronuncia, con la sentenza n. 21 del 09 gennaio 2018, in merito ad una problematica ricorrente in qualsiasi realtà cittadina quale: l’emissione di un’ordinanza di divieto di transito dei mezzi pesanti e le ricadute negative sugli interessi economici dei commercianti locali.

Nello specifico, il caso riguarda un’ordinanza di divieto di circolazione per i mezzi pesanti su una strada locale, adottata dal Comune di Rovigo, al fine di inibire il traffico ai mezzi pesanti, cagionando delle difficoltà inevitabili agli operatori economici, operanti nella zona artigianale.

Alcuni commercianti impugnano il predetto provvedimento comunaleavanti al TAR.

Il Collegio accoglie le doglianze motivate nel ricorso introduttivo, reputando la predetta ordinanza illegittima.

Il Comune si costituisce in giudizio sostenendo che: “il divieto in questione è stato adottato “a tutela della salute e della sicurezza dei propri cittadini residenti nelle frazioni di Mardimago e di Sarzano”, giacché la strada comunale non sarebbe più “in grado di assorbire l'elevato numero di transiti di autoveicoli, soprattutto per quanto riguarda i mezzi pesanti in questione”.

I giudici del Collegio ritengono che il ricorso, proposto dai commercianti, solleva due importanti problemi di illegittimità: da un lato, si contesta una non corretta ponderazione degli interessi in gioco anche in ragione di un’istruttoria deficitaria, avendo l’Amministrazione comunale trascurato le ripercussioni che tale provvedimento avrebbe potuto avere sulla viabilità provinciale, con particolare riguardo all’accessibilità all’area artigianale; dall’altro, si contesta la mancanza della partecipazione degli altri enti provinciali, mediante l’adozione di una Conferenza dei Servizi.

Il TAR sostiene che il Comune di Rovigo abbia agito illegittimamente, in quanto ha adottato un provvedimento “in violazione del principio di leale collaborazione e del diritto di partecipazione degli altri enti interessati dalle ricadute viarie che esso avrebbe determinato.”

In conclusione, secondo i giudici del Collegio, “tale violazione si è tradotta conseguentemente in un insanabile difetto di istruttoria, che ha falsato l'esatta portata di tutti gli interessi in gioco, compreso quello imprenditoriale delle ditte ricorrenti, impedendone un'adeguata ponderazione da parte dell'Amministrazione procedente.



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Inserito in data 09/01/2018
TAR – TRENTO, Prima Sezione, sentenza n. 4 del 08 gennaio 2018

La certificazione di autenticità della firma digitale.

Il TAR si pronuncia in tema di procedure telematiche, con particolare riguardo alla produzione del certificato della firma digitale nelle gare di appalto, al fine di assicurare l’originalità della firma apposta.

La società ricorrente viene invitata, a mezzo di lettera di invito, a partecipare alla gara telematica per l’affidamento dei lavori di “completamento delle nuove reti fognarie bianche e nere al servizio delle frazioni del comune di Valfloriana”. L’anzidetta lettera di invito contiene integralmente tutte le modalità per partecipare alla gara, compresa l’indicazione del formato delle firme da apporre sui files ovvero, “Lista delle lavorazioni e forniture", che contiene le firme in formato PAdES-T (.pdf) del Responsabile della Struttura di merito e del Dirigente del Servizio Appalti e già compilato con le modalità sopra indicate da parte del concorrente; - si attiva la funzione del software di firma che permette di apporre la propria firma sul file selezionato; - si carica a sistema il file così firmato, che avrà ora estensione .pdf.p7m, a corredo dell'offerta”.

La società ricorrente viene esclusa dall’aggiudicazione dell’appalto, in quanto la Commissione di gara rileva che: “il file denominato "Lista delle lavorazioni e Forniture" allegato dall'impresa S.T.E. Costruzioni Generali srl risulta essere una copia riprodotta mediante scanner rispetto al modulo fornito dall'Amministrazione e pertanto privo dei certificati di firma del "Servizio Competente" e della "Stazione Appaltante”.

L’anzidetta società impugna il provvedimento di esclusione, deducendo: la “violazione della lexspecialis ed in particolare del paragrafo 3.1.1 della lettera d'invito; violazione dell'art. 83, comma 8, del decreto legislativo n. 50/2016 e dell'art. 57, comma 5, D.P.P. n. 9-84/Leg in data 11 maggio 2012; eccesso di potere per travisamento dei fatti e ingiustizia manifesta.” ed anchela “violazione dell'art. 83, comma 9, del decreto legislativo n. 50/2016; eccesso di potere per travisamento e/o erronea valutazione dei fatti, difetto di istruttoria, disparità di trattamento e ingiustizia manifesta.

I giudici del TAR vengono investiti da un ricorso concernente questioni innovative.

Con sentenza n. 4050 del 03 novembre 2016, il Consiglio di Stato ha fatto luce sulle modalità di svolgimento delle gare di appalto telematiche, affermando che le predette gare si caratterizzano per l’utilizzo di una piattaforma on–line di e-procurement e di strumenti di comunicazione digitali (quali firma digitale e pec), che rendono la gara più efficiente, veloce e sicura rispetto al modo tradizionale, basato esclusivamente sull’invio cartaceo della documentazione e delle offerte.

In occasione di una vicenda analoga, il TAR della medesima sezione ha chiarito che: “il formalismo che caratterizza la disciplina delle procedure di gara corrisponde anche alla necessità di garantire l'imparzialità dell'azione amministrativa e la parità di condizioni tra i concorrenti", sicché "solo in presenza di un'equivoca formulazione della lettera di invito, a fronte cioè di una pluralità di possibili interpretazioni, può ammettersi la preferenza per quella che può condurre alla partecipazione del maggior numero di aspiranti, ma non quando la prescrizione sia univoca e venga imposta dall'amministrazione appaltante a pena di esclusione", e che la misura espulsiva sancita dall'art. 57, comma 6 per il caso di mancato utilizzo del modulo relativo alla lista delle lavorazioni e forniture predisposto dalla stazione appaltante soddisfa, "viepiù in ragione della tipologia di gara e dello svolgimento della stessa in via telematica, le prevalenti esigenze di certezza e celerità perseguite dall'amministrazione". (TAR – TRENTO, sentenza n. 305 del 20 novembre 2017)

Infine, la Corte sottolinea, nel caso concreto esaminato, che non sussiste alcuna violazione della lexspecialis ed in particolare del paragrafo 3.1.1 della lettera d'invito, in quanto sono state inviate tutte le informazioni necessarie per la corretta formulazione dell’offerta non solo sotto il profilo sostanziale ma anche, sotto il profilo formale ed in merito alla paventata violazione della disposizione dell’art. 83, comma 9, del D. L. n. 50/2016, per mancata attivazione del c.d. soccorso istruttorio, la Corte sostiene che non sussista alcuna violazione, in quanto la Commissione di gara non ha correttamente attivato la predetta procedura, avendo rilevato irregolarità formali.



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Inserito in data 07/01/2018
TAR LAZIO - ROMA, Terza Sezione, sentenza n. 107 del 05 gennaio 2018

Ai fini di una eventuale impugnazione, il termine decorre dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto approvata ex lege.

Con la sentenza n. 107 del 05 gennaio 2018, il TAR Lazio si pronuncia su un tema abbastanza controverso in giurisprudenza: da quale momento decorre il dies a quo per l’eventuale impugnazione della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto approvata dal competente organo.

Con lettera di invito del 16 maggio 2017, la società G.S. comunica di voler affidare, mediante procedura negoziata, “il servizio di progettazione di prevenzione incendi del complesso immobiliare della Stazione Roma Termini” ed invita alcune imprese a presentare le proprie offerte entro la data del 5 giugno 2017.

L'importo stimato del contratto da affidare era di Euro 326.941,04 (inferiore alla soglia comunitaria vigente per i c.d. settori speciali). La gara sarebbe stata aggiudicata mediante applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa “sulla base degli elementi indicati al successivo paragrafo 6”. In particolare, la Commissione avrebbe assegnato un punteggio massimo di 70 punti per l'offerta tecnica migliore e un punteggio massimo di 30 punti per la migliore offerta economica. Al punto 4 della lettera di invito, è previsto che "Qualora ritenuto opportuno, la SA si riserva la facoltà di esaminare le offerte tecniche e successivamente le offerte economiche prima della verifica dell'idoneità degli offerenti. In tal caso troveranno applicazione le disposizioni di cui all'art. 133, co. 8 del d.lgs. n. 50/2016".

Al predetto invito, rispondono quattro imprese. La ricorrente società Gae E. presenta la migliore offerta tecnica ottenendo il punteggio massimo di 70. La società G.S. comunica alla Gae E., tramite pec del 28/06/2017, che l’appalto viene aggiudicato da un’altra società. La Gae E. chiede accesso ai documenti di gara ed in data 04/08/17, la stazione Appaltante provvede a consegnare tutta la documentazione inerente alla procedura della gara di appalto.

La Gae E. impugna, avanti al Tar Lazio-Roma, l’aggiudicazione in favore di un’altra società dell’appalto de quo, sulla base di sette motivazioni.

La resistente G.S. preliminarmente solleva l’eccezione di irricevibilità del gravame per tardività, in quanto “in quanto la comunicazione di aggiudicazione indirizzata alla Gae E., come documentata anche da quest'ultima, risale al 28.6.2017, mentre l'accesso ai documenti di gara è stato richiesto dalla Gae soltanto il successivo 28 luglio; il ricorso, infine, è stato spedito a notifica soltanto il 7 settembre 2017, quando il termine breve per la proposizione del ricorso era ormai ampiamente scaduto.

Il Collegio ritiene che non sia assolutamente fondata la questione preliminare sollevata dalla resistente, in quanto la comunicazione del 28/06/2017 deve essere intesa come un’informazione preliminare relativa all’esito dei lavori della Commissione.

I giudici del Collegio precisano a tal riguardo che la procedura di affidamento dell’appalto è sottoposta alla disciplina del nuovo Codice Appalti (D. Lgs. n. 50 del 2016).

Il Collegio chiarisce che il nuovo Codice ha ridisegnato in parte la disciplina relativa alla conclusione della procedura di selezione delle offerte. Specificatamente, l'art. 32, comma 5, prevede che “la stazione appaltante, previa verifica dell'aggiudicazione provvisoria ai sensi dell'art. 33, comma 1, provvede all'aggiudicazione”; l’art. 33, comma 1, sancisce che “La proposta di aggiudicazione è soggetta ad approvazione dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo competente secondo l'ordinamento della stazione appaltante e nel rispetto dei termini previsti, decorrenti dal ricevimento della proposta di aggiudicazione da parte dell'organo competente”. Secondo recente giurisprudenza (TAR Lombardia, 8 luglio 2016, n. 1383), si ritiene, che:“la comunicazione di cui all'art. 76, comma 5, lett. a), che deve essere fatta d'ufficio immediatamente (e comunque non oltre gg. 5) da parte della S.A., nel riferirsi all' “aggiudicazione” (non ulteriormente qualificata), si riferisca in realtà all'atto conseguente all'approvazione dell'organo competente e non alla “proposta di aggiudicazione” (di cui all'art. 33) o “aggiudicazione provvisoria” secondo la terminologia del codice previgente (l'espressione ritorna peraltro nell'art. 32, comma 5, precitato dell'attuale Codice Appalti). La proposta di aggiudicazione, peraltro, fa nascere una mera aspettativa in capo all'interessato alla positiva definizione del procedimento stesso, in quanto in essa non si individua il provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo per sua natura un'efficacia destinata ad essere superata. Non a caso l'art. 204 del nuovo Codice Appalti sancisce espressamente l'inammissibilità della impugnazione della proposta di aggiudicazione di cui agli artt. 32 e 33 citati.”

Alla luce del predetto orientamento giurisprudenziale e del quadro normativo di riferimento,il Collegio sostiene che la decadenza della ricorrente dall'impugnativa per superamento del termine di rito, potrebbe essere dichiarata soltanto di fronte ad una comunicazione della S.A. che in termini chiari e univoci, risulti idonea a portare a conoscenza della destinataria Gae E. l'aggiudicazione definitiva dell'appalto nei confronti di un’altra società e non si afferma in alcun punto del documento che vi è stata aggiudicazione approvata dal competente organo di G. S..



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Inserito in data 05/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Sezione Quinta, ordinanza n. 56 del 04 gennaio 2018

Nel processo amministrativo telematico, il ricorso notificato in modalità cartacea con firma autografa del difensore è inficiato di nullità.

Il Collegio del Consiglio di Stato si pronuncia in tema di processo amministrativo e le modalità di notifica del ricorso introduttivo del giudizio alla luce dell’art. 136, co. 2-bis, cod. proc. amm, stabilendo che: “l'atto di appello è stato notificato in modalità cartacea con firma autografa del difensore e, dunque, non essendo stato firmato digitalmente (mediante l'utilizzo del formato PAdES) è nullo per violazione dell'art. 136, comma 2-bis, Cod. proc. amm. (a tenore del quale "[...] tutti gli atti e i provvedimenti del giudice, dei suoi ausiliari, del personale degli uffici giudiziari e delle parti sono sottoscritti con firma digitale") e dell'art. 9 (Atti delle parti e degli ausiliari del giudice), comma 1, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico) (in base al quale gli atti processuali "sono redatti in formato di documento informatico sottoscritto con firma digitale conforme ai requisiti di cui all'articolo 24 del CAD"), norme il cui combinato disposto vuole che l'appello, atto processuale introduttivo del giudizio di secondo grado, abbia la forma risultante da un'estrazione di formato digitale pdf nativo, sottoscritto dal legale con firma digitale PAdES.”

Il Consiglio di Stato ha sottolineato che il ricorso in appello redatto in formato cartaceo, sottoscritto con firma autografa del difensore ed in egual modo notificato alla parte appellata deve ritenersi meramente irregolare anziché nullo o inesistente, sulla base di una duplice motivazione: non rientra tra le ipotesi di nullità sancite dalla legge e l’atto in questione raggiunge comunque il suo fine tipico, essendo rintracciabile la paternità e realizzando comunque la chiamata in ius del convenuto ed ottenendo la sua costituzione in giudizio.



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Inserito in data 04/01/2018
TAR CAMPANIA - NAPOLI, Ottava Sezione, sentenza n. 37 del 03 gennaio 2018

Tempo ragionevole e modalità di pagamento dell’indennizzo per eccessiva durata del processo nel caso di ottemperanza.

Il ricorrente agisce per l’ottemperanza ad un decreto decisorio, emesso dalla Corte di appello di Napoli, a mezzo del quale, in accoglimento dell’istanza proposta ai sensi della Legge Pinto, viene liquidato un equo indennizzo in favore del predetto ricorrente e le spese di lite in danno del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Contro tale decreto non è stata mai proposta alcuna impugnazione e pertanto, ha acquistato la natura definitiva. Il citato Ministero non si adopera al fine di effettuare il pagamento dovuto. 

Il TAR si pronuncia favorevolmente nei confronti del ricorrente.

I giudici del Collegio rilevano che nel caso di specie sussistono i presupposti per l’accoglimento del ricorso, essendo il decreto de quo divenuto definitivo, in seguito alla mancata proposizione di impugnazione avverso il medesimo ed essendo trascorso anche il termine di centoventi giorni dalla data della notifica del decreto decisorio in forma esecutiva ex art. 14, co. 1, del D. L. n. 669 del 1996 convertito in legge 28 febbraio 1997 n. 30, senza che il Ministero abbia adempiuto al pagamento di quanto dovuto nei confronti del ricorrente.

Nelle more del processo, è intervenuta una modifica legislativa, con la legge di stabilità 2016,che ha inserito l’art. 5-sexies nella L. Pinto.

Quest'ultimo articolo ha mutato le modalità di pagamento delle somme dovute per condanne ai sensi della stessa legge Pinto, introducendo delle disposizioni che incidono anche sulla proponibilità dei processi di esecuzione di tali pronunce e pertanto, anche dei giudizi di ottemperanza.

Viene, infatti, richiesto al creditore di rilasciare una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà, attestante la non avvenuta riscossione di quanto dovuto e altri dati e documenti inerenti al pagamento, pena l'impossibilità di ottenere dalla p.a. debitrice il pagamento e di agire in via esecutiva.

Nello specifico, i giudici del TAR sostengono che per i processi di ottemperanza già incardinati alla data del 01 gennaio 2016, deve trovare applicazione il comma 11 dell'art. 5-sexies, in quanto disciplina i termini di applicabilità della normativa in questione, mentre il comma 12 dello stesso articolo risolve la problematica del contenuto degli obblighi di comunicazione anche nelle more di adozione dei decreti ministeriali che approveranno i modelli di dichiarazione.

Il comma 11sancisce, infatti, che "nel processo di esecuzione forzata, anche in corso, non può essere disposto il pagamento di somme o l'assegnazione di crediti in favore dei creditori di somme liquidate a norma della presente legge in caso di mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione. La disposizione di cui al presente comma si applica anche al pagamento compiuto dal commissario ad acta".

Sulla base di tale quadro normativo, il TAR decide che: “In particolare, tenendosi conto delle disposizioni di cui al comma 11 dell'emendato art. 5-sexies della legge Pinto, la domanda di ottemperanza proposta prima dell'entrata in vigore della novella legislativa può essere accolta, ma l'ordine giudiziale susseguente, volto a disporre le misure necessarie ad assicurare l'esecuzione del giudicato, deve essere emesso nel rispetto delle modalità legali attualmente vigenti, ovverosia considerando il comma 11 che, per i processi di esecuzione in corso, prevede l'assolvimento degli obblighi di comunicazione, e cioè il rilascio da parte dei creditori, anche in assenza dei decreti attuativi, di una "dichiarazione, ai sensi degli articoli 46 e 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l'esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l'ammontare degli importi che l'amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, la modalità di riscossione prescelta ai sensi del comma 9 del presente articolo...".

Il Collegio ritiene, inoltre, che, per le esecuzioni in corso, come quella del caso di specie, il riferimento all'assolvimento degli obblighi di comunicazione sia riferibile solo alla presentazione della dichiarazione e non anche al decorso dei sei mesi.

Quest'ultimo termine dilatorio esula del tutto dagli obblighi di comunicazione imposti al creditore.

La disposizione del comma 11 si richiama, infatti, ai soli obblighi di comunicazione e non all'intera procedura di liquidazione, e il riferimento della disposizione a una fase giudiziaria prettamente esecutiva - quale quella del giudizio di ottemperanza o di esecuzione forzata nel processo civile - fa venir meno l'esigenza di garantire uno spatiumdeliberandi all'amministrazione per pagare, mentre fa salva quella di evitare duplicazioni di pagamento e, in ogni caso, di avere una chiara situazione debitoria.

Tale interpretazione è, peraltro, conforme all'esigenza che il giudicato trovi pronta esecuzione, in linea con il principio costituzionale di pienezza della tutela giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost., così come con i principi in tema di equità del processo ed effettività della tutela, di cui agli artt. 6 e 13 della Convenzione CEDU.

Inoltre, anche in giurisprudenza è stato da tempo affermato che, in sede di giudizio di ottemperanza, le azioni sostitutive poste in essere dal giudice o, per esso, dal commissario ad acta per eseguire il giudicato, possono anche esulare dal rispetto delle ordinarie procedure cui è tenuta l'amministrazione nell'ambito della sua azione, anche in ipotesi riguardanti il pagamento di somme di denaro (T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-quater, 8 giugno 2015, n. 7987; T.A.R. Molise, 17 aprile 2015, n. 147; Cons. Stato, sez. III, 7 giugno 2013, n. 3124; Cons. Stato, sez. V, 1 marzo 2012, n. 1194; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 21 giugno 2012, n. 1763).”



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Inserito in data 03/01/2018
CONSIGLIO DI STATO, Terza Sezione, sentenza n. 6195 del 30 dicembre 2017

La straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi della Legge n. 90 del 2014.

Con la sentenza n. 6195 del 30 dicembre 2017, il Consiglio di Sato si pronuncia in tema di straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi della Legge n. 90 del 2014.

Il caso esaminato trae origine dalla procedura di gara indetta dal Comune di Arcore per l’affidamento del servizio di refezione scolastica. L’appellante ha preso parte alla gara, aggiudicandosi provvisoriamente la concessione del servizio.

La Prefettura di Roma dispone la temporanea e straordinaria gestione dell’impresa ai sensi dell’art. 31 del D.L. n. 90 del 2014. Il Comune dispone però la revoca immediata, comunicando di affidare il servizio alla seconda classificata tra i partecipanti alla procedura di evidenza pubblica.

L’appellante chiede, al Comune di Arcore, l’annullamento in autotutela del provvedimento di revocadell’aggiudicazione.

Il provvedimento comunale viene impugnato davanti al TAR al fine di chiederne l’annullamento. Il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Il Consiglio di Stato si pronuncia in merito, facendo luce sulla disciplina della straordinaria e temporanea gestione dell’impresa ai sensi dell’art. 32 della Legge n. 90 del 2014.

In punto di diritto il Collegio osserva che: “ La motivazione del primo giudice non è condivisibile, anzitutto in punto di diritto, perché la disposizione dell'art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, al comma 1, stabilisce che la straordinaria e temporanea gestione dell'impresa operi "limitatamente alla completa esecuzione del contratto d'appalto ovvero dell'accordo contrattuale o della concessione" e, al comma 2, che la sua durata sia commisurata "in ragione delle esigenze funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, al servizio o alla fornitura oggetto del contratto ovvero dell'accordo contrattuale e comunque non oltre il collaudo". L'operatività limitata quoadeffectum dell'istituto non estende l'efficacia sospensiva dei poteri gestori spettanti agli amministratori a quei contratti e/o rapporti che non siano espresso e specifico oggetto di gestione straordinaria da parte dell'autorità prefettizia, dando questa luogo solo ad una "gestione separata di quella parte dell'azienda che dovrà eseguire l'appalto pubblico" (così anche l'ANAC nelle Seconde Linee Guida per l'applicazione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell'ambito della prevenzione anticorruzione e antimafia adottate il 28 gennaio 2015), sicché rispetto a tali contratti gli amministratori della società mantengono inalterati i propri poteri, non escluso quello di conferire la procura ad litem per impugnare i provvedimenti di revoca e/o recesso esercitati dalla stazione appaltante, consequenziali all'informativa antimafia, rispetto a rapporti in essere con l'Amministrazione sino a quel momento, almeno e appunto, non ricompresi nel provvedimento di straordinaria e temporanea gestione ai sensi dell'art. 32 del d.l. n. 90 del 2012.”



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Inserito in data 30/12/2017
TAR PIEMONTE - TORINO, Seconda Sezione, sentenza n. 1378 del 29 dicembre 2017.

Il giudice ordinario è competente a pronunciarsi sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo.

Con la sentenza n. 1378 del 2017, il TAR Piemonte si pronuncia al fine di fare chiarezza sul discusso riparto di giurisdizione in relazione al provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo.

I NAS dei Carabinieri effettuano un’ispezione presso la proprietà dei ricorrenti e rilevano la presenza di ventinove cani, detenuti in condizioni non compatibili con la nature degli stessi sia per numero sia per condizioni di custodia sia per promiscuità. Ordinano pertanto il sequestro amministrativo.

Tale provvedimento viene convalidato con ordinanza del direttore del capo di polizia municipale.

Avverso la predetta ordinanza, presentano opposizione, la quale viene parzialmente accolta.

Nello specifico, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione del DPR n. 320/1954 e della L. n. 281/199, in combinato disposto con il regolamento di attuazione della legge regionale Piemonte n. 34/1193, oltre la violazione e falsa applicazione degli artt. 50 e 54 del D.Lgs. n. 267/2000.

Il Tar dichiara il ricorso in parte inammissibile ed in parte improcedibile.

I giudici del TAR colgono l’occasione per chiarire quale natura vanta l’atto impugnato.

Il provvedimento sindacale oggetto di censure è stato adottato ai sensi della L. n. 689/1981, in seguito dell'opposizione che i ricorrenti hanno proposto al sequestro adottato dai Nas. Il provvedimento confermato in sede di opposizione, mantiene la propria natura cautelare, destinato pertanto a perdere automaticamente efficacia nell’ipotesi in cui non intervenga la confisca (ex lege entro sei mesi).

Secondo costante giurisprudenza, “La giurisprudenza amministrativa, esprimendo un orientamento condivisibile, ha avuto modo di chiarire che la giurisdizione sul provvedimento di convalida del sequestro cautelare amministrativo spetta al giudice ordinario, inerendo ad un procedimento volto all’irrogazione di sanzione amministrativa. (a titolo esemplificativo TAR Basilicata, 5 settembre 2011, n. 459; TAR Campania, Napoli, sez. III, 20 agosto 2010, n. 17205; questo stesso Tribunale, sez. I, 20 gennaio 2006, n. 103). Peraltro, la stessa Corte di Cassazione ha affermato che né l'atto che dispone la misura cautelare, né il provvedimento di rigetto dell'opposizione in sede amministrativa contro la medesima (ovvero dell'istanza di dissequestro) sono impugnabili in sede giurisdizionale, mentre l'accertamento dell'illegittimità della suddetta misura può essere richiesto con ricorso ex art. 22 della legge n. 689/1981 contro il provvedimento di confisca (Cass., sez. III, 9 agosto 2000, n. 10534) (Tar Veneto n. 834/2014).



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Inserito in data 23/12/2017
CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA, sentenza n. 13 del 22 dicembre 2017

Il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, formulate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 42 del 2004, cessa nell’ipotesi in cui il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni.

Una società produttrice di energia rinnovabile propone ricorso in appello contro il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo al fine di riformare la sentenza emessa dal TAR per il Molise, concernete il diniego dell’autorizzazione per la realizzazione di un impianto di produzione di energia eolica.

La società chiede, alla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Molise, l’esistenza o meno di procedimenti di tutela paesaggistica o di accertamento della sussistenza di beni archeologici, in corso alla data di presentazione della sua istanza. Dapprima, la Soprintendenza afferma che non sussistono vincoli nell’intero territorio. Successivamente, la Soprintendenza comunica alla società che risultano vincoli di tutela paesaggistica a seguito delle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, risalenti all’anno 2001 ed all’anno 2002. La società replica sostenendo che sono solo delle “mere proposte di vincolo”, il cui procedimento non si è mai concluso.

Il TAR decide in favore del Ministerodei beni e delle attività culturali e del turismo, reputando preferibile l’interpretazione secondo la quale la proposta di vincolo formulata prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 conserva la propria efficacia anche, nell’ipotesi in cui non ci sia approvazione mediante adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico. Avverso tale decisione, la Società propone appello. All’esito dell’adunanza, la VI Sezione ravvisa un contrasto giurisprudenziale. Decide pertanto di deferire la quaestio iuris all’Adunanza Plenaria: “se, a mente del combinato disposto degli articoli 140,141 e 157, co. 2 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 - come modificati dapprima con il d.lgs. 24 marzo 2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26 marzo 2008 n. 63 - le proposte di vincolo formulate prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l'adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto”.

Il Supremo Consesso al plenum ricostruisce il quadro normativo di riferimento. La normativa anteriore all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 prevedeva che la tutela paesaggistica aveva il suo inizio sin dal momento in cui la proposta di dichiarazione di notevole interesse pubblico veniva pubblica nell’albo del Comune di riferimento e perdurava sine die, in quanto non era previsto un termine di efficacia della misura ovvero di consumazione del potere vincolistico, consentendo che l’adozione del provvedimento finale poteva avvenire dopo molto tempo, senza pregiudicare l’effetto preliminare del vincolo.

L’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004 ha suscitato notevoli perplessità sulla conservazione dell’efficacia limitativa delle proposte di vincolo anteriori al predetto decreto legislativo, nel caso in cui i relativi procedimenti non siano conclusi nel termine legale, alla luce delle modifiche all’art. 141.

Secondo un orientamento maggioritario della giurisprudenza, bisognerebbe ravvisare un legame di continuità tra la precedente disciplina e quella contenuta nel D. Lgs. n. 42 del 2004, in ossequio sia ad un’interpretazione costituzionalmente orientata che persegue il fine ultimo di tutelare il paesaggio, evitando di travolgere negativamente delle proposte di vincolo non ancora approvate sia alla luce della scelta del legislatore di non voler novellare l’art. 157, comma 2, del Codice che sancisce la non applicabilità della decadenza alle proposte formulate anteriormente alla sua entrata in vigore (cft.Cons. di Stato, VI sezione, 27 luglio 2015 n. 3663).

Un recente orientamento minoritariosostiene che per le “proposte di vincolo più antiche (..) valga piuttosto proprio l'assunto logico contrario, ossia che la mancata conclusione del provvedimento di trasformazione del vincolo da proposto a definitivo denoti invece l'affievolimento e poi lo svanire, col passar del tempo, dell'interesse pubblico che aveva inizialmente giustificato la misura precauzionale (connessa alla proposta di vincolo) tesa ad assicurare particolare protezione a determinati beni o loro insiemi ...” (Cons. di Stato, VI sezione, sentenza 16 novembre 2016 n. 4746).

L’Adunanza Plenaria risolve tale contrasto, statuendo che: “Il combinato disposto - nell'ordine logico - dell'art. 157, comma 2, dell'art. 141, comma 5, dell'art. 140, comma 1 e dell'art. 139, comma 5 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell'entrata in vigore del medesimo decreto legislativo - come modificato con il d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 e con il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 - cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni".

"L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni:

a) un'obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare;

b) l'esistenza di un orientamento prevalente contrario all'interpretazione adottata;

c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche”.

“Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza”.

In conclusione, il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico, sorte in data antecedente all’entrata in vigore del D. Lgs. n. 42 del 2004, cessa nell’ipotesi in cui il relativo procedimento non si sia concluso entro i 180 giorni.



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Inserito in data 22/12/2017
CONSIGLIO DI STATO – ADUNANZA PLENARIA, sentenza n. 12 del 20 dicembre 2017

I casi di revocazione delle sentenze, tassativamente previsti dagli artt. 395 e 396 c.p.c., soggiacciono alla stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 delle preleggi.

Il caso di specie trae origine dal ricorso proposto avanti al Consiglio di Stato, da parte di alcuni ricorrenti che hanno svolto funzioni assistenziali presso una struttura universitaria pubblica. I predetti ricorrenti sostengono di avere svolto la propria attività professionale sulla base di contratti a termine ed a tempo indeterminato, remunerati a gettone e con inquadramento nella categoria del personale non docente di “elevata professionalità”.

Gli anzidetti ricorrenti propongono ricorso avanti al TAR per la Campania al fine di ottenere il riconoscimento ab origine dell’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente con l’Università, sostenendo che la qualificazione di “attività professionale”, attribuita ai propri compiti espletati, dissimula un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato e pertanto, chiedono il riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali.

Il TAR accoglie in parte il ricorso, ritenendo di assimilare la loro attività ai “ricercatori universitari”. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ritiene applicabile alla controversia in oggetto, invece, l’art. 45, co. 17 del D. Lgs. n. 80 del 1998(confluito nell’art. 69, co. 7, del T.U. n. 165 del 2001), il quale sancisce che le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”, attinenti al rapporto di lavoro sorto anteriormente al 1998, rimangono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nell’ipotesi in cui vengano proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.

Alcuni ricorrenti, soccombenti avanti all’Adunanza Plenaria, propongono ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’UomoCorte, la quale ha censurato il diniego di accesso alla giustizia conseguente al mutamento di indirizzi giurisprudenziali e normativi ed ha riconosciuto che il termine fissato dalla norma, “a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000”,sia “finalizzato alla buona amministrazione della giustizia” e “in sé non eccessivamente breve”.

I ricorrenti richiedono pertanto che venga sollevata la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 106 c.p.a. e degli artt. 395 e 396 c.p.c. per violazione degli artt. 111 e 117, co. 1 Cost. e nel merito del ricorso per revocazione, chiedono al Consiglio di Stato di “prendere atto della sentenza della Corte europea per i diritti umani e da essa trarre tutte le conseguenze che, nell'ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell'art. 117, co. 1, Cost come interpretato dalla Corte costituzionale. Si chiede, pertanto, in conformità al sistema di tutela dei diritti convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea, che i ricorrenti vengano rimessi nei termini di legge e che a loro venga applicato l'art. 45, co. 17 del decreto legislativo n. 80 del 1998, oggi art. 69 co. 7 del T.U. n. 165/2001, nella sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della corte europea, e cioè nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della giurisdizione”, con il fine precipuo di ottenere da parte del giudice amministrativo una diretta applicazione al giudicato della Corte europea, evitando il controllo di costituzionalità della norma contenuta nel D. Lgs. n. 165/2001.

La Corte Costituzionale si pronuncia in merito alla predetta questione di legittimità con sentenza n. 123 del 26 maggio 2017, dichiarandola infondata.

Il giudizio, pertanto, trova seguito avanti l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Il Supremo Consesso al plenum riprende l’analisi effettuata dal Giudice di legittimità al n. 15 ed in particolare: “nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l'esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco") ed approda alla conclusione (considerando n. 17) per cui nel "nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell'art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore.” e sulla scorta di tale analisi, ritiene che il ricorso per revocazione, avendo il petitum per l’eventuale fase rescissoria postulante la reiezione degli appelli proposti dalle amministrazioni e, per l'effetto, la conferma delle sentenze di primo grado impugnate e la corresponsione agli odierni ricorrenti del pagamento della contribuzione previdenziale e dell'indennità di fine rapporto, deve ritenersi inammissibile in quanto risulta essere proposto per una ipotesi non rientrante tra quelle contemplate tassativamente dall’ordinamento giuridico ovvero, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall'art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle preleggi.”



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Inserito in data 19/12/2017
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 5934 del 18 dicembre 2017

Funzioni e competenze del RUP.

Una società cooperativa propone appello avverso la sentenza emessa dal TAR Piemonte – Torino, nella caus promossa contro il consorzio Valorizzazione La Venaria Reale e nei confronti del Consorzio Nazionale Servizi soc. coop., concernente l’annullamento del provvedimento con cui il Rup della gara di appalto per l’affidamento del contratto misto di concessione e appalto relativo ai servizi di biglietteria, vigilanza e sorveglianza, accoglienza e assistenza al pubblico, attività didattiche e laboratori presso la Reggia di Venaria Reale ha aggiudicato definitivamente l’appalto alConsorzio Nazionale Servizi soc. coop.

Il TAR per il Piemonte ha accolto il ricorso dell’appellante società cooperativa e per l’effetto, ha annullato il provvedimento del Rup, mediante il quale ha aggiudicato il servizio per cui è causa al Consorzio Nazionale Servizi; disponendo inoltre che il Rup provveda, ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, co. 3, del D.Lgs. n. 163/2006 ad esaminare la nota con la quale la aggiudicataria provvisoria ha riscontrato la richiesta di chiarimenti del Rup, concludendo il procedimento di verifica con provvedimento espresso ed assumendo le determinazioni conseguenziali.

I giudici del Consiglio di Stato ritengono che l’appello sia infondato.

Nello specifico il Collegio si sofferma sull’esame delle funzioni e delle competenze del Rup, facendo luce sulla normativa di riferimento.

L’art. 6 della Legge n. 241 del 1990 prevede che: “Il responsabile del procedimento adotta, ove ne abbia la competenza, il provvedimento finale, ovvero trasmette gli atti all'organo competente per l'adozione. L'organo competente per l'adozione del provvedimento finale, ove diverso dal responsabile del procedimento, non può discostarsi dalle risultanze dell'istruttoria condotta dal responsabile del procedimento se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale”.

I giudici sostengono, pertanto, che il Rup, per ripartizione interna di competenze, possiede non solo il potere di manifestare all’esterno la volontà della stazione appaltante ma anche, la competenza di adottare il provvedimento finale della procedura.

L’art. 10, co. 2, del D. Lgs. n. 163 del 2006 prevede che: “Il responsabile del procedimento svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal presente codice, ivi compresi gli affidamenti in economia, e alla vigilanza sulla corretta esecuzione dei contratti, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti”.

Nel caso di specie, il Rup aveva emanato il provvedimento finale e pertanto, aveva anche la competenza a nominare la commissione giudicatrice ai sensi dell’art. 84, co. 2, del D. Lgs. n. 163 del 2006. Quest’ultima norma stabilisce infatti che la nomina della commissione competa all’organo della stazione appaltante “competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”.

I giudici del Collegio osservano inoltre che l’art. 84 del D. Lgs. n. 163 del 2006 si limita a prevedere che il Presidente deve essere un dirigente o un funzionario con incarichi apicali della stazione appaltante. Per quanto concerne i Commissari, la norma non sancisce alcun criterio selettivo: bisogna seguire i principi di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa.

Nel caso di specie, il Rup ha proceduto secondo norma, richiedendo altresì, alla Fondazione Musei al Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo, al Teatro Stabile di Torino ed all’Ente Regionale per il diritto allo studio di proporre una “rosa di figure professionali competenti in materia, da nominare come membri della commissione giudicatrice”.

Infine, al fine di evitare errate valutazioni, il Consiglio di Stato chiarisce quale sia la differenza tra Rup e Commissione, in quanto entrambi vantano ambiti di azione e ruoli differenti: la Commissione è deputata a giudicare le offerte (tecnica ed economica); il RUP ha invece essenzialmente una funzione di gestione del procedimento di gara e il ruolo di fornire alla stazione appaltante gli elementi idonei per una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell'Amministrazione.



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Inserito in data 15/12/2017
CONSIGLIO DI STATO, Quinta Sezione, sentenza n. 5854 del 13 dicembre 2017

Il rispetto del c.d. “principio di rotazione” nei contratti di servizi e forniture sotto soglia.

I Giudici della Quinta Sezione del Consiglio di Stato si pronunciano in merito al rispetto del c.d. “principio di rotazione”.

In particolare, la ditta appellante lamenta, principalmente, deduce l’errata applicazione del c.d. principio di rotazione di cui all’art. 36, co. 1, del D. Lgs. n. 50 del 2016, in quanto la predetta norma non può giustificare il mancato invito dell’operatore economico che, nell’anno precedente, era risultato affidatario dello stesso servizio oggetto della gara.

Il Consiglio di Stato, riprendendo una precedente propria decisione, presa dalla Sesta Sezione, con sentenza del 31 agosto 2017 n. 4125, sostiene che il principio di rotazione per gare e lavori, servizi e forniture negli appalti c.d. “sotto soglia” sia obbligatorio.

A tal riguardo, i giudici del Collegio statuiscono che: “il principio di rotazione - che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte - trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l'ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che l'invito all'affidatario uscente riveste carattere eccezionale.”

I Giudici specificano inoltre che nell’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia l’intenzione di procedere comunque all’invito di un gestore uscente, dovrà motivare tale decisione, facendo riferimento: all’eventuale numero ridotto degli operatori presenti sul mercato; al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto ed alle caratteristiche del mercato di riferimento.

Nel caso di specie, esaminato dai giudici del Consiglio di Stato, la stazione appaltante, quale il comune di Trieste, aveva due possibili scelte da effettuare: non invitare il gestore uscente oppure, nel caso contrario, motivare la propria scelta, indicando le ragioni a causa delle quali riteneva di non poter prescindere dall’invito.

Il Consiglio di Stato ritiene pertanto che la scelta del Comune di Trieste, ovvero di non invitare il gestore uscente, sia del tutto legittima.



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Inserito in data 14/12/2017
TAR MOLISE – CAMPOBASSO, Prima Sezione, sentenza n. 529 del 12 dicembre 2017

Il principio del giusto processo deve trovare spazio anche nel procedimento disciplinare.

Un assistente capo della Polizia di Stato rassegna al suo Questore una relazione di servizio al fine di segnalare alcune criticità all’interno del proprio Ufficio. Ottiene, inoltre, un colloquio con la Dirigente al fine di spiegare le ragioni sottostanti la stesura e l’invio della predetta relazione. Tale colloquio si svolge a porte chiuse. A conclusione, la dirigente segnala per iscritto al dirigente della Divisione del Personale della Questura che l’assistente capo ha assunto un comportamento irriguardoso.

Successivamente, viene sollevata una contestazione d’addebito e l’applicazione della misura disciplinare in danno dell’assistente capo. Quest’ultimo impugna i predetti atti sulla base dei seguenti motivi: “ 1) violazione dell'art. 2967 c.c. e difetto di istruttoria del procedimento; 2) violazione e falsa applicazione dell'art. 120 del T.U. 10.1.1957 n. 3; 3) violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 737/1981 e del D.P.R.n. 782/1985, violazione dell'art. 3 della legge n. 241/1990, violazione dell'art. 97 Cost., violazione del DPCM n. 214/2012, difetto di motivazione, contraddittorietà, illogicità nella motivazione, eccesso di potere, erroneità manifesta.”

Il Collegio accoglie il ricorso proposto dall’assistente capo della Polizia di Statosia sulla base di una pregressa giurisprudenza di legittimità sia sulla base dei precetti emanati dalla Corte di Giustizia, oltre che sulla base della normativa nazionale.

Con sentenza n. 182 del 2008, la Corte Costituzionale ha statuito che: “la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).Ha, tuttavia, sottolineato che l'art. 24 Cost. se indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, non manca tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l'agire amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995).Un procedimento disciplinare che, come quello in esame, può concludersi con la destituzione, tocca le condizioni di vita della persona, incidendo sulla sua sfera lavorativa, e richiede perciò il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell'interessato al procedimento.”

Con sentenza C-32/95P. del 24 ottobre 1996, la Corte di Giustizia dell’UE ha interpretato il concetto di diritto di difesa nel seguente modo: “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista”.

Ed ancora, i giudici del Tar puntualizzano che l’art. 13 del D.P.R. n. 737/1981 disciplina le modalità con cui devono essere irrogate le sanzioni disciplinari per gli appartenenti alla Polizia di Stato, sancendo che: “Nello svolgimento del procedimento deve essere garantito il contraddittorio”.

La Legge n. 241/1190 ha egualmente introdotto il principio del giusto procedimento ossia, la determinazione del pubblico interesse si deve realizzare anche attraverso l’istaurazione del contraddittorio nei confronti dei portatori di contrapposti interessi coinvolti dall’esercizio del potere pubblico.

Alla luce delle suestese considerazioni, il Tar decide che: “Il rispetto di tale regola non può esaurirsi nel passaggio formale dell'audizione o nell'acquisizione acritica delle deduzioni scritte dell'incolpato, ma deve integrare una completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare. Nel caso di specie, tale emersione non si è verificata, sicché anche il censurato profilo del difetto di motivazione del provvedimento impugnato è da ritenersi attendibile.



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Inserito in data 08/12/2017
TAR LAZIO - ROMA, Prima Sezione, sentenza n. 12121 del 07 dicembre 2017

I termini previsti dal Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’ANAC hanno natura ordinatoria.

La vicenda trae origine dall’impugnazione avverso un provvedimento, adottato dall’ANAC, a mezzo del quale si dispone nei confronti di una società la dichiarazione di decadenza di determinate attestazioni di qualificazione ad essa rilasciate sulla base di documentazione che non ha trovato riscontro oggettivo da parte dei soggetti emittenti e/o depositari, irrogando una sanzione pecuniaria di € 3.000,00 e disponendo l’annotazione per tre mesi nel casellario informatico dell’adozione del provvedimento di decadenza.

La società chiede che venga annullato il predetto provvedimento, in quanto sostiene che vi sia: violazione del principio di tempestività di cui all’art. 8 D. Lgs. n. 163/2006; violazione e falsa applicazione dell’art. 40, comma 9 quater, D. Lgs. n. 163/06; violazione e falsa applicazione dell’art. 70 del D.p.r. n. 207/2010; violazione e falsa applicazione degli artt. 15 e 25 D.p.r. n. 34/2000 e violazione di ogni norma e principio in materia di colpa professionale, irragionevolezza, erroneità e/o carenza dei presupposti, carenza d’istruttoria, motivazione erronea, carente e perplessa e contradditorietà.

Il TAR rigetta il ricorso proposto dalla società nei confronti dell’ANAC, ritenendolo infondato.

I giudici del TAR ritengono che “Gli artt. 6, comma 1, lett. b), e 35, comma 1, lett. b) del Regolamento unico in materia di esercizio del potere sanzionatorio da parte dell’ANAC, pur prevedendo una scansione temporale dell’attività dell’Autorità, non qualificano espressamente i termini previsti come perentori, né individuano ipotesi di decadenza dalla potestà sanzionatoria, né, infine, prevedono una specifica illegittimità del provvedimento tardivamente adottato. Da tanto discende la natura ordinatoria del termine, così che al superamento dello stesso non consegue l’esaurirsi del potere di provvedere in capo all’Amministrazione.

I giudici chiariscono che a favore della natura meramente sollecitatoria o ordinatoria del termine e della consequenziale mera irregolarità dell'atto adottato dopo la scadenza del medesimo, depongono pure la ricorrenza di un interesse pubblico di particolare rilievo, al cui raggiungimento è finalizzata la norma sanzionatoria, nonché la natura non legislativa dell'atto che individua il termine in questione, trovando un chiaro riscontro per consolidato orientamento giurisprudenziale: Consiglio di Stato, sez. VI, 2 maggio 2015, n. 468, Tar Lazio, Roma, sez. I, 17 maggio 2016, n. 5812 e 12 aprile 2017, n. 4518.

In merito al contestato comportamento qualificabile in termine di colpa grave nei confronti dell’ANAC, il TAR sostiene che non può essere ascritta tale responsabilità nei confronti dell’Autorità anzidetta, in quanto “l’ascrivibilità ad un'ipotesi di colpa grave della violazione dell'ordinario obbligo di diligenza che grava sull'operatore economico che proponga una domanda di attestazione da utilizzare al fine di partecipare a pubblici appalti, ritiene il Collegio sufficiente richiamare il consolidato orientamento del giudice di ultimo grado, secondo cui "l'accertata omissione delle verifiche esigibili in base all'ordinaria diligenza" legittima l'Autorità "del tutto ragionevolmente, a formulare l'imputazione in termini di colpa grave" atteso che il criterio indicato dall'art. 40, comma 9 quater, del d.lgs. 163/2006, "specifica che la colpa grave (così come il dolo) può essere desunta dalla rilevanza o dalla gravità dei fatti oggetto della falsa dichiarazione o della presentazione di falsa documentazione, con ciò evidenziando un concetto di "colpa" del tutto indipendente dall'elemento soggettivo, e declinato unicamente sull'effetto e sulla portata della condotta in esame" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 2 febbraio 2015, n. 468).

Alla luce delle considerazioni suesposte dei giudici del TAR, si può ritenere che il comportamento tenuto dell’Anac sia corretto e rispettoso dei parametri di legge, dato che nessuna norma solleva l’impresa dall’ onere di verifica della domanda di attestazione di qualificazione. Conseguentemente, la Società organismo di attestazione avrebbe potuto esercitare i propri poteri di controllo, solo in seguito al sollecito effettuato dall’impresa in questione.

A parere dei giudici del TAR, sussiste invece una responsabilità per colpa grave proprio in capo alla società ricorrente, in quanto non si è adoperata in tale senso e a nulla rileva pertanto la circostanza che l’Autorità abbia utilizzato, nel provvedimento impugnato, ulteriori argomentazioni, secondo cui l’onere si sarebbe spinto alla consultazione del registro delle imprese.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, “quando il provvedimento amministrativo impugnato si fonda su una pluralità di argomenti autonomi, è sufficiente accertare la resistenza di uno solo di essi ai mezzi di impugnazione per escluderne l'annullamento (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 20 aprile 2016, n. 1557).”



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Inserito in data 07/12/2017
TAR LAZIO - ROMA, Terza Sezione, sentenza n. 12045 del 06 dicembre 2017

La notifica telematica degli atti processuali alle Pubbliche Amministrazioni è valida, se l’indirizzo della pec è inserito nel registro tenuto dal Ministero della Giustizia.

Il TAR Roma si pronuncia in merito alla domanda di inammissibilità dell’impugnativa proposta dalla controinteressata società Ka. S.r.l., avverso il ricorso promosso dalla Violatech s.r.l. contro Regione Lazio e Azienda Unità Locale di Viterbo (non costituita in giudizio), in materia di contratti pubblici, sostenendo quanto segue: “(…) per essere stato notificato il ricorso introduttivo a un indirizzo p.e.c. dell'ASL di Viterbo e della Regione Lazio diverso da quello estratto dal Registro Generale degli Indirizzi Eelettronici, c.d. ReGinde, tenuto dal Ministero della Giustizia (…)”

L’art. 14 del D. M. n. 40/2016 prevede che le notificazioni nei confronti delle amministrazioni non costituite in giudizio sono eseguite agli indirizzi p.e.c. di cui all’art. 16, comma 12, del D. L. n. 179 del 2012, convertito dalla L. n. 221/2012. La Legge n. 221 del 2012, come modificata dal d.l. n. 90/2014, convertito in legge n. 114/2014, onera le amministrazioni pubbliche di comunicare entro il 30 novembre 2014 l’indirizzo p.e.c. ai fini della formazione dell’elenco presso il Ministero della Giustizia.

Ed ancora, l’art. 16-ter del d.l. n. 179/2012 stabilisce che, “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto; dall'articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, dall'articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” (comma 1) e che "le disposizioni del comma 1 si applicano anche alla giustizia amministrativa” (comma 1-bis)

Alla luce del quadro normativo ricostruito, il Collegio ritiene che, ai fini della notificazione di un atto processuale ad un’amministrazione pubblica, si possa utilizzare esclusivamente l’indirizzo p.e.c. inserito nell’appositi registro tenuto presso il Ministero della Giustizia.

I giudici del Collegio stabiliscono pertanto che: “la notifica dell'atto introduttivo del giudizio venga effettuata a un indirizzo p.e.c. diverso da quello estraibile dal registro de quo, la notifica è nulla e, come tale, suscettibile di essere sanata esclusivamente mediante la costituzione in giudizio della parte interessata.”



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Inserito in data 06/12/2017
CONSIGLIO DI STATO, Sezione Quinta, sentenza n. 5693 del 04 dicembre 2017

Lo stravolgimento delle procedure di valutazione rispetto ai criteri stabiliti nella lexspecialis a tutela della trasparenza e dell’imparzialità è un vizio che inficia interamente la procedura selettiva.

Una società propone appello avverso la sentenza emessa dal TAR Lombardia – Sez. staccata di Brescia, concernente l’affidamento di servizi di ristorazione.

L’appellante sostiene che non siano stati rispettati i criteri stabiliti nel bando di gara per l’aggiudicazione con riferimento al subappalto, lamentando un atteggiamento ostruzionistico della stazione appaltante, in quanto le ha precluso l’accesso all’offerta tecnica della vincitrice ed alle giustificazioni sulla sua congruità economica.

Il giudice di prime cure accoglie il ricorso ed annulla i provvedimenti impugnati dalla società, disponendo la procedura selettiva. L’originaria aggiudicataria propone pertanto appello avverso tale decisione.

Il Collegio rigetta l’appello, ritenendolo infondato.

Il Consiglio di Sato sostiene che la procedura di aggiudicazione, seguita nel caso di specie, sia diversa rispetto a quella prevista dalla lexspecialis ed anche incompatibile sia riguardo agli “obiettivi” sia riguardo agli “effetti”, in quanto la disciplina codificata presenta il fine precipuo di assicurare un doppio livello di giudizio, nell’ipotesi in cui la necessaria autonomia delle valutazioni espresse dai singoli commissari appaia chiaramente finalizzata a garantire una maggiore trasparenza e ponderatezza dell’iter valutativo della commissione di gara. Tale finalità appare leso dal momento in cui, avviene una scelta concordata e palesata mediante un solo giudizio, precludendo la possibilità di evincere il contenuto del preventivo giudizio formulato dal singolo commissario.

In conclusione, il Collegio statuisce che: “laddove - come nel caso di specie - non venga riscontrata la mancata valutazione di un'offerta, bensì uno stravolgimento (in termini generali) delle stesse procedure di valutazione rispetto ai criteri indicati nella lexspecialis a tutela della trasparenza e dell'imparzialità amministrativa, non può operare a priori il criterio della conservazione degli atti e ben può il giudice rilevare se il vulnus arrecato ai suddetti principi generali (di matrice altresì eurounitaria) abbia avuto un'incidenza così strutturale sullo svolgimento della procedura di gara da comportarne l'invalidità.”



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Inserito in data 04/12/2017
CONSIGLIO DI STATO, Sezione Terza, sentenza n. 5641 del 01 dicembre 2017

L’art. 4 della Legge n. 302/1990“Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata” deve essere soggetta ad un’interpretazione estensiva.

Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello proposto dal Ministero dell’Interno e confermata, altresì, la decisione di primo grado, che ha ritenuto illegittimo il rigetto pronunciato da parte del Ministero dell’Interno relativamente all’istanza di riconoscimento dei benefici di cui all’art. 4 della Legge n. 302 del 1990 rubricato come “Limiti alla concessione dei benefici di legge ai superstiti della vittima della criminalità organizzata”, presentata da un autista di autovettura blindata adibita a scorta, rimasto gravemente ferito durante un attentato camorristico a danno del magistrato, da lui scortato.

Il Ministero degli Interni rigetta la domanda proposta dall’autista, in quanto l’istante presenta un legame di parentela con due cugini, i quali hanno riportato condanne ex art. 416 bis c.p.

Il Collegio ritiene che non vi siano i presupposti per effettuare un’interpretazione estensiva della norma in commento.

Il Consiglio di Stato ha statuito che il procedimento interpretativo per analogia, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, non è applicabile alle norme eccezionali (art. 14 disp. prel.). 

Il Collegio ritiene che, ai fini di una corretta soluzione della questione esegetica prospettata, sia necessario individuare la ratio della norma. Quest’ultima contempla infatti i “familiari della vittima”e non, la vittima stessa.

In conclusione, il Consiglio di Stato statuisce che: “Nel caso di specie, la vittima, oltre ad essere totalmente estranea ad ambienti e logiche criminali, svolgeva, al momento dell'agguato, una funzione istituzionale di contrasto alle associazioni criminali (autista di un magistrato sottoposto a particolari misure di protezione), che lo ha messo in condizione di rischiare la propria vita, e lo ha altresì indotto a compiere azioni tali da salvare persino la vita altrui. In nessun atto si adombrano sospetti di vicinanza agli ambienti mafiosi, né si indicano elementi concreti, o rapporti, che possano minimamente offuscare la limpidezza e la significatività del comportamento della vittima, prima, durante e dopo i fatti. L'appello è pertanto respinto. Ne consegue l'obbligo per l'amministrazione di provvedere al riconoscimento dell'indennizzo ed alla liquidazione delle somme spettanti.”



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Inserito in data 30/09/2017
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 19 settembre 2017, n. 6

La notifica a mezzo PEC è valida anche prima dell’entrata in vigore del PAT

Con la pronuncia emarginata in epigrafe, l’Adunanza Plenaria ha risolto il contrasto giurisprudenziale in materia di notifica del ricorso introduttivo del giudizio amministrativo a mezzo di posta elettronica certificata (“PEC”).

Nella specie, il Supremo Consesso al plenum conferma l’ammissibilità di siffatta notificazione anche in assenza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, c.p.a., anche prima dell’entrata in vigore delle norme tecniche e regolamentari relative al processo amministrativo telematico (“PAT”) di cui al d.P.C.M. 16 febbraio 2016 n. 40 (“Regole tecnico - operative per la sperimentazione, la graduale applicazione, l’aggiornamento del processo amministrativo telematico”).

Se da un lato, l’orientamento minoritario asseriva l’inammissibilità del ricorso giurisdizionale notificato a mezzo PEC, in assenza di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52 co. 2, Cpa, dall’altro, l’orientamento prevalente riconosceva, al contrario, l’immediata applicazione nel processo amministrativo delle norme sancite dagli artt. 1 e 3-bis della legge n. 53/1994, secondo cui “la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata” (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2017 n. 998; Id, 22 novembre 2016, n. 4895; sez. V, 4 novembre 2016, n. 4631; sez. VI, 26 ottobre 2016, n. 4490; sez. III, 10 agosto 2016, n. 3565; sez. III, 6 luglio 2016, n. 3007; sez. III, 14 gennaio 2016, n. 91; sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 4862; sez. III, 9 luglio 2015, n. 4270; sez. VI, 28 maggio 2015, n. 2682; C.g.a.r.s., 8 luglio 2015, n. 615).

In definitiva, secondo tale prevalente indirizzo, “stante l’immediata applicabilità della l. n. 53/1994, la mancata autorizzazione presidenziale non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC, atteso che la disposizione di cui all’art. 52, co. 2, Cpa, si riferisce a “forme speciali” di notifica, quale non è . . . quella in esame”.

L’Adunanza Plenaria rileva come, nel testo vigente - dopo le ulteriori modificazioni introdotte dall’art. 46, lett. a) d.l. 14 giugno 2014 n. 90, conv. in l. 11 agosto 2014 n. 114 - l’art. 1 della legge n. 53/1994 dispone che “ L'avvocato o il procuratore legale, munito di procura alle liti a norma dell'art. 83 del codice di procedura civile e della autorizzazione del consiglio dell'ordine nel cui albo è iscritto a norma dell'art. 7 della presente legge, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale, secondo le modalità previste dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, salvo che l'autorità giudiziaria disponga che la notifica sia eseguita personalmente. Quando ricorrono i requisiti di cui al periodo precedente, fatta eccezione per l'autorizzazione del consiglio dell'ordine, la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata”.

Dalla lettura delle successive versioni dell’art. 1 della legge n. 53/1994, pertanto, appare possibile affermare che il legislatore considera - almeno dal 1 gennaio 2012 - la notificazione a mezzo PEC di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale, come un mezzo ordinario di notificazione, che, in quanto tale, non necessita di particolari autorizzazioni da parte del giudice.

In definitiva è dunque possibile riconoscere alla notifica a mezzo PEC natura di mezzo ordinario di notificazione, peraltro, di immediata operatività nell’ambito del processo amministrativo, senza che alcun ostacolo si possa riscontrare nel disposto dell’art. 16-quater del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (inserito dall'art. 1, comma 19, n. 2), l. 24 dicembre 2012, n. 228, a decorrere dal 1° gennaio 2013); ciò in quanto il comma 3- bis, che prevede che “le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano alla giustizia amministrativa”, lungi dal poter essere interpretato nel senso di non consentire l’applicabilità immediata al processo amministrativo della notifica a mezzo PEC, esclude proprio che disposizioni specificamente previste per il processo civile e penale - e segnatamente quella sul differimento dell’entrata in vigore - possano intendersi estese anche al processo amministrativo, per di più producendo un effetto di “paralisi” della notifica a mezzo PEC nell’ambito di quest’ultimo. DU

 



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Inserito in data 11/08/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 8 agosto 2017, n. 1752

Istanza di assegnazione temporanea ex art. 42-bis, del D. lgs. n. 151/2001

Il ricorrente, agente scelto della Polizia di Stato e padre di una bimba ancora in tenera età, impugna il diniego paventato dall’Amministrazione competente a fronte di una sua istanza di assegnazione temporanea ex art. 42-bis, del D. lgs. n. 151/2001.

Ne contesta, in specie, l’eccesso di potere manifestato dal Ministero di appartenenza, in considerazione delle prospettazioni fondanti il diniego assolutamente irrazionali, prive di logica e del tutto contraddittorie.

L’altra parte invece, in sede di costituzione in giudizio, paventa – piuttosto - che la disciplina di cui all’articolo 42-bis del D. lgs. n. 151/2001 non configurerebbe una posizione di diritto soggettivo e che l’amministrazione, nell’ambito della propria valutazione discrezionale, non avrebbe considerato le esigenze delle sedi richieste prevalenti rispetto a quelle della sede di appartenenza.

Il Collegio milanese statuisce, invece, la fondatezza delle doglianze di parte ricorrente.

Ricorda, infatti, come il comma 1 dell’art. 42-bis del D. lgs. 26 marzo 2001, n. 151, recante Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, nel testo vigente in ragione delle modifiche disposte dall’art. 14, comma 7, della legge 7 agosto 2015, n. 124, così recita «Il genitore con figli minori fino a tre anni di età dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, può essere assegnato, a richiesta, anche in modo frazionato e per un periodo complessivamente non superiore a tre anni, ad una sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale l’altro genitore esercita la propria attività lavorativa, subordinatamente alla sussistenza di un posto vacante e disponibile di corrispondente posizione retributiva e previo assenso delle amministrazioni di provenienza e destinazione. L’eventuale dissenso deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali. L’assenso o il dissenso devono essere comunicati all’interessato entro trenta giorni dalla domanda.».

Insiste, ancora, riportando interventi recenti della giurisprudenza amministrativa che ha avuto condivisibilmente modo di affermare che «…è pacifico, nella giurisprudenza amministrativa, che l’articolo 42 bis del decreto legislativo 151 del 2001 trova applicazione anche al personale delle forze di polizia (tra le tante Consiglio di Stato, sez. III, 01/04/2016, n. 1317, Cons. Stato, sez. III, 16 dicembre 2013, n. 6061, T.A.R. Milano, (Lombardia), sez. III, 29/12/2016, n. 2481. 5. Tale disposizione è rivolta a dare protezione a valori di rilievo costituzionale e, pertanto, un’eventuale dissenso “deve essere motivato e limitato a casi o esigenze eccezionali” come chiarito testualmente dalla suddetta disposizione, a seguito della recente modifica normativa per effetto dell’articolo 14, comma settimo, della legge n. 124 del 2015. Conseguentemente, le ordinarie esigenze di servizio, evidenziate dall’amministrazione nel provvedimento impugnato, non possono costituire motivi ostativi al riconoscimento del beneficio previsto dalla suddetta disposizione normativa, introdotta dal legislatore a tutela dei minori (vedi recentemente Consiglio di Stato, sez. III, ord. 26 febbraio 2016, n. 685, Cons. St., sez. IV, 14.5.2015, n. 2426) ben potendo l’amministrazione sopperire a dette carenze mediante altri istituti…» (TAR Lombardia – Milano, Sez. III, 25 maggio 2017, n. 1181).

In ragione di tutto ciò, non sussistendo i “casi o esigenze eccezionali” che potrebbero giustificare un diniego, si accoglie il ricorso, affermando come l’attività discrezionale dell’amministrazione nella vicenda risulta limitata alla individuazione del reparto cui assegnare il ricorrente fra quelli indicati nella istanza di assegnazione temporanea. CC

 



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Inserito in data 10/08/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 agosto 2017, n. 3967

Sulla effettiva portata dell’errore revocatorio

I Giudici della terza sezione intervengono sulla natura dell’errore revocatorio, paventato – nel caso di specie – dalle Amministrazioni appellanti in merito alla pronuncia ivi gravata.

Più nel dettaglio, esse contestano che la prospettata erroneità della tempistica delle notifiche dell’atto di appello – valutata come tardiva dal Collegio durante la prima fase di giudizio, sia tale da aver dato luogo ad un errore revocatorio – ex art. 365 n. 4 c.p.c..

Ad avviso degli appellanti, in sostanza, la decisione oggi impugnata sarebbe stata emessa sulla base di un’erronea valutazione della documentazione relativa alla notificazione dell’atto di appello depositata in atti.

Il Collegio contesta una simile asserzione ricordando, invece, come ”l'errore revocatorio è sempre escluso qualora il punto relativo sia stato espressamente preso in considerazione dal giudice, in quanto in tale ipotesi non è consentito alla parte soccombente proporre un istanza di revocazione, che aprirebbe un'inammissibile terzo grado di giudizio” (Cfr. Cons. Stato, sez. III, 30.9.2016, n. 4049).

Tanto sarebbe potuto accadere se fosse stata accolta la tesi degli appellanti.

Il profilo da costoro dedotto, infatti, affermano i Giudici dirime un punto controverso della causa in risposta ad una specifica eccezione preliminare delle parti controinteressate, e quindi è frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione del giudice delle risultanze processuali.

In particolare, la sentenza qui gravata per revocazione esamina accuratamente la disciplina di cui all’art. 93, comma 2, c.p.a. ed i suoi risvolti applicativi, individuando, per giunta, la ratio sottesa a tale disciplina “nell’esigenza di sostituire al termine perentorio stabilito dal codice per la proposizione dell’impugnazione (e, ormai, scaduto, ma per una causa ritenuta ad essa non imputabile) un nuovo termine di decadenza (questa volta assegnato, su istanza della parte interessata, dal Presidente del Consiglio di Stato), in riferimento al quale dev’essere verificata la tempestività della nuova notificazione” e concludendo, in definitiva, che la norma deve essere interpretata come impositiva di un adempimento processuale “la cui inosservanza implica il consolidamento della decadenza della parte appellante dal potere di impugnazione”.

E’ dunque evidente che non possa configurarsi alcun errore revocatorio, in quanto una valutazione dei fatti processuali si è svolta.

Proprio perché tale, dunque, il Collegio esclude ogni prospettata ipotesi rescissoria e rigetta le doglianze palesate dalle Amministrazioni appellanti. CC 


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Inserito in data 09/08/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 8 agosto 2017, n. 1754

Le prestazioni sanitarie costituiscono un diritto “finanziariamente condizionato”

Con la pronuncia in epigrafe, il Tar ha chiarito che al di fuori dei vincoli relativi ai livelli essenziali di assistenza e da oggettivi criteri di economicità e di appropriatezza, le scelte organizzative in materia di servizio pubblico sanitario rientrano nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa, demandata dal d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 all'Amministrazione regionale (v., ex plurimis, Cons. Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. Stato, sez. III, 7 dicembre 2015, n. 5538).

Ad avviso del Supremo Consesso Amministrativo compete all'Amministrazione sanitaria, quindi, il compito di fissare le condizioni e i limiti e, più in generale, la cornice delle linee organizzative e delle modalità procedurali entro la quale si attua il concreto esercizio del diritto alla salute e l'effettiva erogazione delle prestazioni sanitarie.

Il giudice amministrativo deve limitarsi, pertanto, a valutare se sussistano profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza nella scelta amministrativa (v., sul punto, Cons. Stato, sez. III, 6 febbraio 2015, n. 604; Cons. Stato, sez. III, 10 giugno 2016, n. 2501).

Il riconoscimento del diritto alla salute non è assoluto e incontra limiti sia esterni - posti dall'esistenza di diritti costituzionali di pari rango - sia interni, posti appunto dall'organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.

Il più rilevante limite interno è certamente quello finanziario, che si riflette in modo inevitabile, sull'organizzazione regionale del servizio sanitario.

Evidenzia il Collegio come la Corte Costituzionale ha ribadito, ormai da tempo, la configurazione del diritto alle prestazioni sanitarie come "finanziariamente condizionato", giacché "l'esigenza di assicurare la universalità e la completezza del sistema assistenziale nel nostro Paese si è scontrata, e si scontra ancora attualmente, con la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario" (Corte cost., 27 luglio 2011, n. 248).

A fronte di tale incisivo limite, ne deriva che la scelta delle Regioni di porre a carico del SSR (e quindi della finanza pubblica) determinate prestazioni – oltre quelle rispondenti a livelli essenziali di assistenza, stabiliti a livello nazionale – deve rispondere a stringenti criteri di appropriatezza, al fine di non disperdere le limitate risorse finanziarie.

Il criterio di appropriatezza di determinate categorie di prestazioni sanitarie, come scelta di programmazione volta al contenimento della spesa pubblica, assume, dunque, connotazioni di ampia discrezionalità, sindacabile in sede giurisdizionale solo entro i consueti limiti della manifesta irragionevolezza ed errore di fatto (T.A.R. Napoli sez. I, 11 febbraio 2016, n. 831). DU

 



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Inserito in data 08/08/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, DECRETO PRESIDENZIALE 19 luglio 2017, n. 3015

Sulla inappellabilità del decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 C.p.A.

Nella decisione emarginata in epigrafe il Consiglio di Stato afferma che il decreto presidenziale emesso ai sensi dell’art. 56 del c.p.a. non è appellabile avendo tale misura cautelare un carattere “eccezionale” con funzione strettamente interinale  e, pertanto, assume efficacia sino alla Camera di consiglio la quale costituisce “la giusta sede per l’esame della istanza cautelare”.

La Sezione aggiunge, altresì, che con riferimento alla misura cautelare ex art. 56 C.p.A. non è previsto dal sistema processuale amministrativo nessun distinto ed autonomo diritto di appello della misura stessa.

In senso contrario, vedi Consiglio di Stato, sez. III, 11 dicembre 2014 n. 5650 ove, diversamente, era stato ritenuto ammissibile l’appello avverso il decreto presidenziale ex art. 56 c.p.a.  non essendo espressamente previsto il divieto di appello della misura cautelare dall’art. 56 c.p.a. , e dovendo la disposizione predetta “essere interpretata secondo ragionevolezza, giacché prevale la funzione cautelare anticipatoria sottesa alle misure cautelari provvisorie, quando l’esigenza cautelare rappresentata è, per la natura degli interessi coinvolti o per la specificità della statuizione della P.A., di natura tale da dover esser protetta senza neppure attenderne la trattazione collegiale in camera di consiglio, anche in sede d’appello”. PC

 



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Inserito in data 07/08/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 4 agosto 2017, n. 3907

Motivazione per relationem: è sufficiente indicare estremi o tipologia dell’atto richiamato

Ai sensi del comma 3 dell’articolo 3 della l. 241 del 1990, “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell'amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest'ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l'atto cui essa si richiama”.

“Ai fini della motivazione per relationem è sufficiente che siano indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, mentre non è necessario che esso sia allegato materialmente o riprodotto, dovendo piuttosto essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, III, 20 marzo 2015, n. 1537)”.

“Il richiamato articolo 3 della l. 241 del 1990 non si limita a garantire al destinatario del provvedimento la possibilità di agire tempestivamente in giudizio avverso una determinazione amministrativa lesiva di carattere immotivato, ma è volta a garantire – in senso più ampio – un’adeguata partecipazione procedimentale e la piena e contestuale conoscenza delle ragioni sottese a un atto amministrativo illegittimo e svantaggioso.”

Un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale esclude, peraltro, la possibilità di applicare il comma 2 dell’articolo 21-octies della l. 241 del 1990 (in tema di cc.dd. ‘illegittimità non invalidanti’) a fronte di un atto amministrativo che non sia stato adottato in violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, ma che risulti in radice carente di motivazione (in tal senso – ex multis – Cons. Stato, V. 27 giugno 2017, n. 3136; id., VI, 7 agosto 2015, n. 3099). GB

 



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Inserito in data 04/08/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA, 3 agosto 2017, n. 249

Assegnazione di sede farmaceutica e posizione del farmicista socio di una s.n.c.

Per un primo profilo, il Collegio rileva che la “titolarità dell’esercizio della farmacia privata è riservata a persone fisiche, a società di persone ed a società cooperative a responsabilità limitata (art. 7 Legge n. 362/1991), e che la partecipazione a tali società è incompatibile con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore (solo) di altra farmacia, essendo inoltre previsto che, nel caso di sospensione del socio direttore responsabile, la direzione della farmacia gestita da una società viene affidata ad un altro dei soci (art. 8)”.

Ne consegue che “già nell’ambito della normativa regolante il riordino del settore farmaceutico non è ravvisabile alcuna discrasia fra la titolarità di farmacie esercitate in forma individuale e quella inerente le farmacie esercitate in forma collettiva, nei limiti delle tipologie ammesse, al cui interno la direzione compete ad uno dei soci con possibilità di avvicendamento degli stessi”.

Sotto altro profilo, i Giudici rilevano che “nelle società di persone (ad eccezione delle società in accomandita semplice), come tali sfornite di personalità giuridica, sussiste la responsabilità illimitata e solidale dei soci per le obbligazioni sociali, il che comporta, per ciascun socio, in termini giuridici di dover rispondere dell’adempimento “con tutti i suoi beni presenti e futuri” (art. 2740 cod. civ.), ed in termini economici di sopportare un rischio di impresa non limitato al denaro o ai beni conferiti, a ciò corrispondendo l’attribuzione ex lege (artt. 2257 e 2258 cod. civ.) del potere di amministrazione e, come riconosciuto dalla dottrina, di concorrere nella direzione dell’impresa sociale”.

Alla luce delle considerazioni di cui sopra, anche sotto il profilo civilistico, “non sussistono valide ragioni per discriminare la titolarità di una farmacia operante quale impresa individuale e quella di una farmacia organizzata in impresa collettiva, esercitata nelle forme di società di persone ed in particolare di società in nome collettivo, al cui interno deve ritenersi che ciascun socio sia compartecipe alla titolarità dell’esercizio farmaceutico”. EF

 



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Inserito in data 03/08/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 1 agosto 2017, n. 1011

La risoluzione anticipata di un precedente contratto non determina la esclusione automatica per un nuovo affidamento

Nella sentenza emarginata in epigrafe, si afferma che la risoluzione anticipata (non contestata o divenuta definitiva a seguito di giudizio) di un precedente contratto, per gravi illeciti commessi dal concorrente (art. 80 co. 5, lett. C del d.lgs n. 50/2016), non determina automaticamente la esclusione automatica dalla procedura di gara, dovendo la stazione appaltante dimostrare - eventualmente in sede giudiziale - la prova della gravità e della rilevanza dell’inadempimento contrattuale pregresso e, conseguentemente, la inaffidabilità del concorrente sul quale, dunque, non grava l’onere di dimostrare la sua affidabilità.

Si evidenzia, altresì, che al fine di disporre la esclusione dalla gara, non è sufficiente che la stazione appaltante richiami l’esistenza di una risoluzione anticipata non contestata, “dovendo invece tale esclusione essere limitata ai soli casi in cui sia dimostrato in concreto, con riferimento alle specifiche esigenze della singola procedura di gara, il nesso causale tra il pregresso illecito professionale e la esclusione fondata su un giudizio discrezionale di inaffidabilità”.

Detto altrimenti, non ogni inadempimento pregresso, per quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione dalla partecipazione a gare successive, occorrendo un provvedimento discrezionale della appaltante contenente una valutazione prognostica circa la affidabilità o inaffidabilità della concorrente di eseguire correttamente le prestazioni oggetto del nuovo affidamento. PC

 



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Inserito in data 02/08/2017
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 28 luglio 2017, n. 4

Legittimazione della parte vittoriosa e difetto di giurisdizione del giudice amministrativo

La controversia sottoposta dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana all’esame dell’Adunanza Plenaria della pronuncia in epigrafe, riguarda la legittimazione della parte vittoriosa in primo grado a sollevare per la prima volta in appello la questione sul difetto di giurisdizione del giudice adito.

È noto come siffatta problematica sia stata risolta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza 20 ottobre 2016, n. 21260 - resa con il contributo di una relazione dell’Ufficio Studi, Massimario e Formazione della Giustizia Amministrativa inviata all’Ufficio del massimario della Cassazione su richiesta del Primo presidente della Suprema Corte al Presidente del Consiglio di Stato – con la quale la Corte regolatrice ha condiviso le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato circa l’ammissibilità di essa, (a partire dalla sentenza della Quinta Sezione 7 giugno 2012, n. 656) prendendo però le mosse dal principio per cui la questione di giurisdizione costituisce un capo della pronuncia in ordine al quale si individua una parte vittoriosa e una parte soccombente, piuttosto che dalla tesi, sostenuta dal Consiglio di Stato, basata sul concetto di abuso del processo.

Afferma il Collegio il principio generale secondo il quale l’appello può essere proposto solo dalla parte soccombente in quanto la soccombenza “del potere di impugnativa rappresenta l’antecedente necessario” (così la richiamata sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 20 ottobre 2016, n. 21260).

Con la pronuncia in epigrafe, quindi, l’Adunanza Plenaria riconferma le conclusioni cui erano pervenute le sezioni semplici, pur con le puntualizzazioni della Corte di cassazione, affermando, ai sensi dell’art. 99, quinto comma, del codice del processo amministrativo il seguente principio di diritto: “la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di domanda relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo”.

Infine il Collegio si sofferma su un profilo: la mancata rilevazione da parte del giudice rimettente della questione relativa all’ordine logico delle questioni da trattare. Come infatti evidenziato dalla Adunanza Plenaria (ad es. sentenza n. 4 del 2011) “la necessità di definire la controversia muovendo dall'esame delle questioni preliminari, costituisce, oltre che una regola di giudizio da sempre pacificamente ritenuta applicabile, anche una espressa previsione positiva, ora stabilita dal codice del processo amministrativo. Se dunque, per norma, tutte le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito (cfr. art. 187 cod. proc. civ.) vanno esaminate prima di affrontare il merito della controversia, ciò a maggior ragione vale per le eccezioni relative al difetto di giurisdizione le quali hanno precedenza su tutte le altre questioni anche processuali (cfr. Ap. n. 10 del 2011). Infatti, come è stato precisamente osservato, la questione relativa alla giurisdizione del giudice adito va necessariamente definita con assoluta priorità rispetto ad ogni altra questione, in rito e nel merito, atteso che il potere del giudice adito di definire la controversia sottoposta al suo esame postula che su di essa egli sia munito della potestas iudicandi, imprescindibile presupposto processuale della sua determinazione”.

In tale prospettiva – ad avviso del Supremo Consesso al plenum - vagliare l’appello incidentale sul difetto di giurisdizione solo dopo aver giudicato fondato nel merito l’appello principale rischia di risultare, in definitiva, alquanto contraddittorio poiché se il difetto di giurisdizione sussiste veramente tutto l’esame del merito (ricorso principale) sarà stato svolto da un giudice non titolato a farlo, in quanto privo di potestas iudicandi.

Deve ricordarsi che le sentenze rese dal Consiglio di Stato sono suscettibili di essere impugnate per difetto di giurisdizione e che quindi la parte ivi vittoriosa nel merito è potenzialmente esposta all’alea di siffatta impugnazione.

Tuttavia, al Collegio “non sembra immediatamente trasponibile nel processo amministrativo l’impostazione consolidata nella giurisprudenza della Suprema Corte (a far tempo da SS.UU. n. 5456 del 2009), secondo cui, in sintesi, nel giudizio civile di legittimità la parte vittoriosa nel merito non ha interesse a chiedere appunto che la Cassazione dichiari il difetto di giurisdizione di quel plesso giurisdizionale ordinario che le ha definitivamente dato ragione.”

Il Collegio al Plenum, rilevando la rimessione di siffatta causa alla Suprema Corte di Cassazione, restituisce gli atti al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, ai sensi dell'art. 99, co. 1, ultimo periodo, e 4, c.p.a. DU

 



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Inserito in data 01/08/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 31 luglio 2017, n. 3805

Sull’interpretazione dei principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria

Il Collegio ritiene di dover rimettere all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione “se, ed in quale misura, ai principi da essa enunciati possa applicarsi l’ «autorità di cosa giudicata», e, dunque, in quale misura con riferimento a detto principio, possa ricorrere l’ipotesi revocatoria, di cui all’art. 395 n. 5 c.p.c., una volta che lo stesso risultasse «non applicato» dalla Sezione, che non ha invece disposto ai sensi dell’art. 99, co. 3, Cpa.”.

“Allo steso tempo (ed in eventuale connessione con l’affermazione innanzi sollecitata), il Collegio reputa opportuno che l’Adunanza Plenaria affermi, in via generale, se l’interpretazione del principio di diritto da essa enunciato, ove ne sia in discussione la  «portata» competa alla medesima Adunanza Plenaria, cui il giudice remittente, ove abbia perplessità (ex officio o a ciò sollecitato dalle parti), è tenuto a rimettere la questione, ovvero se tale interpretazione possa essere svolta dalla stessa Sezione cui è assegnato il ricorso, esulando tale fattispecie dall’obbligo di cui all’art. 99, co. 3, Cpa.”

“A favore della prima conclusione, milita la considerazione che, diversamente opinando, la interpretazione «resa a valle» dalla Sezione semplice potrebbe incidere sul contenuto precettivo e nomofilattico del principio enunciato dall’Adunanza Plenaria.

A favore della seconda conclusione, militano considerazioni volte ad evitare un eccessivo «ingessamento» del rapporto tra Adunanza Plenaria e Sezione semplice, che comporterebbe sia una incisione sensibile dei normali poteri di interpretazione del giudice di rinvio, sia la possibilità di appesantimenti processuali, dovuta a reiterate «navette» tra Sezione ed Adunanza Plenaria. GB

 



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Inserito in data 31/07/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 luglio 2017, n. 985

Carenza di potere della P.A.: si radica la giurisdizione del G.O.

Nella fattispecie posta al suo esame, il Collegio dichiara inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, spettando questa al giudice ordinario.

Oltre a dolersi della concreta applicazione del canone, parte ricorrente contesta infatti la qualificazione della pretesa, che non sarebbe in alcun modo riconducibile all'esercizio di un potere amministrativo da parte dell’Agenzia del Demanio.

La controversia sfugge perciò all’inquadramento in una delle fattispecie disciplinate dall’art. 133 c.p.a., “senza che la circostanza che le parti siano entrambe delle pubbliche amministrazioni sposti i termini della questione”.

In particolare, se il giudice amministrativo è il giudice del potere amministrativo che si pretende illegittimamente esercitato, di converso “spetta al giudice ordinario la giurisdizione in tutte le controversie in cui si denunci un comportamento della P.A. privo di ogni interferenza con un atto autoritativo, non potendosi reputare neanche mediatamente espressione dell’esercizio del potere autoritativo, ovvero quando questo sia anche in astratto inesistente” (si argomenta da Cass. civ., sez. un., 29 dicembre 2016 n. 27455).

Invero, affinché “possa radicarsi la giurisdizione del giudice amministrativo è necessario il concorso di due presupposti: a) l'uno soggettivo, consistente nel rientrare il soggetto procedente fra le pubbliche amministrazioni come definite dal comma 2 del citato art. 7 [c.p.a.]; b) l'altro oggettivo, consistente nell'avere la controversia a oggetto non qualsivoglia atto o attività dei soggetti suindicati, ma atti o condotte riconducibili all'esercizio delle funzioni istituzionali del soggetto procedente” (Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 2016 n. 5011). EF

 



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Inserito in data 27/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 luglio 2017, n. 3665

Per le regole organizzative non vale il principio di leale collaborazione

Nella pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato si sofferma sulla «valorizzazione dei beni culturali» e sulla «disciplina e l’esercizio delle funzioni dirette alla migliore conoscenza, utilizzazione e fruizione di quel patrimonio», richiamando la giurisprudenza della Corte Costituzionale in relazione alla questione sulla competenza legislativa Stato-Regioni alla luce del principio di leale collaborazione.

In particolare, la Corte ha affermato che si realizza un concorso di competenze statali e regionali nella fase di organizzazione degli uffici – non anche nella fase di svolgimento comune di attività amministrativa di gestione dell’area da valorizzare - risolto secondo le tecniche della prevalenza o della leale collaborazione, poiché è stato sancito che «nonostante tale diversificazione, l’ontologica e teleologica contiguità delle suddette aree determina, nella naturale dinamica della produzione legislativa, la possibilità (…) che alla predisposizione di strumenti concreti di tutela del patrimonio culturale si accompagnino contestualmente, quali naturali appendici, anche interventi diretti alla valorizzazione dello stesso» (Corte cost. n. 140 del 2015).

Nella specie, l’orientamento citato, prendendo le mosse dal combinato disposto dell’art. 118 Cost. e dell’art. 114, enuclea il principio di sussidiarietà amministrativa verticale, che impone che le funzioni pubbliche vengano preferibilmente attribuite agli enti territoriali che si trovano in una posizione di maggiore vicinanza  ai cittadini. Sul piano legislativo, occorre, invece, ricostruire il quadro normativo rilevante distinguendo il profilo di disciplina afferente all’organizzazione del Ministero e quello relativo allo svolgimento delle funzioni amministrative.

Il 23 gennaio 2016 è stato adottato il decreto ministeriale per la “Riorganizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, ai sensi dell’articolo 1, comma 327, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, che ha inciso profondamente sulla organizzazione centrale e periferica del Ministero.

È evidente come già a livello costituzionale, l’art. 117 Cost. sia chiaro nel ripartire tra Stato e Regioni le funzioni legislative esclusive in materia di organizzazione statale e organizzazione delle autonomie regionali e locali, senza prevedere alcun tipo di cooperazione.

Il Collegio evidenzia come “non sarebbe conforme al modello delineato, in mancanza di una espressa e giustificata previsione, postulare, evocando il principio di leale collaborazione, un coinvolgimento delle Regioni o degli enti locali, nel momento di regolazione della fase afferente all’organizzazione degli uffici statali e alla costruzione delle relazioni organizzative tra gli uffici stessi”.

Diversamente, le funzioni amministrative si svolgono in attuazione del principio di sussidiarietà, nel cui ambito il legislatore ha contemplato forme di leale cooperazione nella fase concreta afferente all’attività amministrativa nel settore del patrimonio culturale. Si tratta, pertanto, di una cooperazione che attiene all’esercizio delle funzioni amministrative e non, si ribadisce, a quella a monte della creazione dell’ufficio che quelle funzioni poi dovrà espletare.

Nonostante vi sia stretta connessione tra organizzazione e attività amministrativa – in ossequio al principio di buon andamento – essa non rende possibile lo spostamento di regole organizzative le regole che la Costituzione e le fonti primarie hanno previsto a livello di attività amministrativa. DU

 



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Inserito in data 26/07/2017
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - 20 luglio 2017, n. 1170

Occupazione illegittima; Transito debito risarcitorio per creazione di nuovo ente. Legittimazione passiva e prescrizione

La controversia decisa dal Collegio riguarda una ipotesi di successione a titolo particolare tra enti locali, verificatasi a seguito di distacco e di creazione di un ulteriore nuovo ente locale.

Più esattamente si tratta di stabilire quale sia l’ente legittimato passivo innanzi ad una pretesa risarcitoria avanzata dal privato a seguito di una procedura ablativa rivelatasi illegittima.

Il Collegio chiarisce che  “al fine di accertare quale tra i due enti sia legittimato passivo dinnanzi alla pretesa creditoria privata a seguito di una occupazione illegittima (procedura di esproprio illegittima), occorre indagare sul momento in cui è sorto il debito risarcitorio, ossia se in epoca anteriore o successiva alla costituzione della nuova Provincia”.

Inoltre rileva  “la natura permanente dell'illecito della P.A. finché dura l’illegittima occupazione del bene in assenza di un valido titolo che determini il trasferimento della proprietà in capo ad essa, onde non si configura alcuna prescrizione del relativo diritto al risarcimento” per come le amministrazioni resistenti asseriscono nelle rispettive difese.

Conseguentemente, “il termine quinquennale di detta prescrizione non decorre finché v’è tal illecito ed al più esso inizia a farlo solo dalla proposizione della domanda per quanto riguarda la reintegrazione per equivalente o dalle singole annualità relativamente alla domanda risarcitoria sul mancato godimento del bene (cfr. Cons. St., IV, n. 4636 del 2016; IV, n.5364 del 2016)”.

Alla luce di tali principi, la domanda risarcitoria a seguito di occupazione illegittima non può dirsi prescritta né per l’ente originario né per il nuovo ente.

Inoltre, in punto di illiceità della condotta tenuta dalle Amministrazioni, si mette in rilievo l’arresto della Adunanza plenaria del supremo consesso amministrativo (n. 2 del 2016) ove si afferma il generale principio secondo il quale, “quale che sia la sua forma di manifestazione (vie di fatto, occupazione usurpativa, occupazione acquisitiva), la condotta illecita della P.A. incidente sul diritto di proprietà non può comportare l’acquisizione del fondo e configura un illecito permanente ex art. 2043 c.c. – con la conseguente decorrenza del termine di prescrizione quinquennale dalla proposizione della domanda basata sull’occupazione contra ius”. PC 

 



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Inserito in data 25/07/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER - 20 luglio 2017, n. 8818

Accordi di programma: potere di ratifica del Consiglio comunale e merito dell’accordo

L’istituto dell’accordo di programma “costituisce un'ipotesi di urbanistica negoziata”.

“Esso rappresenta una speciale tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono per la loro completa realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici (Cons. St., sez. IV, 21 novembre 2005, n. 6467).”

In base al  comma 5 dell’art. 34 d.lgs. 267/2000, “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.

Si tratta di un “meccanismo di ratifica ex lege, in cui, l’incompetenza del Sindaco firmatario dell’accordo è presupposta ab origine e necessita del placet dell’organo consiliare per consentire all’atto di spiegare i suoi effetti.”

“La questione che si pone, dunque, all’attenzione del collegio è se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali”.

La risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e sistematico.

“In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla espressamente di “ratifica” e quindi non può lasciare dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un atto adottato da organo incompetente, con l’unica precisazione che trattasi di incompetenza sancita direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato (accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta competenza dell’ente pubblico, quali le modifiche agli strumenti urbanistici.”

“Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di competenza non vi sono dubbi, perché, diversamente opinando, il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica, bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il quale l’amministrazione elimina un vizio di legittimità dall’atto che ne era affetto.”

“In secondo luogo, la funzione di formale presa d’atto della ratifica di cui al comma 5, risiede nell’essenza stessa del sistema di attività amministrativa negoziata di cui all’art. 34 d.lgs. 267/2000, che è frutto del binomio conferenza di servizi - accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34.

Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da parte del consiglio comunale, che entri nel merito dell’accordo già negoziato.

“La circostanza che il successivo comma 5 imponga la ratifica del consiglio comunale “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici” costituisce dunque circostanza eccezionale, isolata, coerente con il sistema, ma di fatto circoscritta al caso di specie e finalizzata a evitare che le variazioni degli strumenti urbanistici […] avvengano senza il consenso del Comune, che di fatto va a approvare, con la ratifica, l’operato di un organo – il Sindaco – che in materia urbanistica non ha alcuna competenza specifica tale da legittimare la presenza del suo solo consenso per apportare variazioni decisive nel tessuto urbanistico”.

“Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione di potere, è evidente che la ratifica non può essere intesa come disponibilità di un potere di autotutela nel merito della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di programma.”

Non risulta, pertanto, legittimo che il Comune “si spinga oltre, fino a negare la ratifica per ragioni che, di fatto, esulano dai suoi poteri e dalla sua sfera di competenza, in quanto neppure aventi ad oggetto valutazioni di carattere urbanistico”. GB

 



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Inserito in data 24/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 luglio 2017, n. 3664

Richiesta di titolo edilizio in presenza di giudicato civile sullo stesso

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato ritiene che: “la consumazione del potere di impugnare, giusta l’art. 358 del codice di procedura civile, applicabile al procedimento amministrativo, presuppone necessariamente l’intervenuta declaratoria di inammissibilità o improcedibilità del primo gravame, potendo altrimenti essere proposto un secondo atto di appello”.

Invero, tale principio è stato affermato anche dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. 23-1-1998, n. 643; 21-7-2000, n. 9569; 7 -9-1999, n. 9475), la quale ha precisato che “il principio di consumazione del potere di impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di una impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai vizi della precedente e destinata a sostituirla, evidenziandosi che la consumazione del diritto di impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente, sicché, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di contenuto identico o diverso), in sostituzione della precedente, sempreché il relativo termine non sia decorso”.

Ciò premesso, il Collegio conferma l’orientamento giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 12-3-2013, n. 1482; V, 10-12-1990, n. 856) secondo cui, “in presenza di un giudicato civile, a questo deve essere data esecuzione e, dunque, l’amministrazione non può esimersi dal rilasciare il titolo edilizio necessario”.

D’altra parte, “la portata oggettiva e soggettiva del giudicato, nell’imporre una esecuzione materiale di quanto illecitamente realizzato, in realtà esclude la stessa necessità giuridica (id est: imprescindibilità) della concessione edilizia, rilevando che in effetti proprio la puntualità e cogenza del giudicato a tutela del diritto dominicale esclude ogni potere dell’amministrazione di sottrarsi (ovvero di consentire di sottrarsi) al dictum giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, IV, n. 1482/2013).

Peraltro, “ove la richiesta del titolo edilizio venga comunque proposta, il Comune deve provvedere in merito”.

Orbene, nell’affermare tali principi, involgenti proprio l’impugnativa di dinieghi edilizi resi nel corso di procedimenti di esecuzione civile, il Consiglio di Stato non ha mai declinato la giurisdizione in materia.

È ben vero che “il titolo edilizio costituisce un elemento che il giudice dell’esecuzione, all’interno del procedimento giurisdizionale ex art. 612 c.p.c., ha ritenuto necessario per poter dar luogo all’esecuzione della sentenza”.

Tuttavia, la sua richiesta innesca un procedimento amministrativo, “il quale si conclude con un provvedimento amministrativo, sulla cui cognizione di legittimità non v’è dubbio che ci sia giurisdizione del giudice amministrativo”.

Vuole in buona sostanza affermarsi che “tale procedimento amministrativo ed il provvedimento conclusivo di esso, pur se occasionati dal giudizio di esecuzione civile pendente, mantengono la loro autonomia in termini di atti qualificabili come amministrativi e, pertanto, l’ordinario loro regime di impugnazione e di cognizione”. EF

 



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Inserito in data 20/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2017, n. 3415

Sul conflitto di interessi in tema di gare pubbliche: art. 42, c. 2', D.lgs. 50/16

Nella pronuncia in epigrafe viene confermata la sentenza resa dal Giudice di prime cure nella quale, dando ragione al ricorrente non aggiudicatario, è stata dichiarata la inefficacia del contratto di aggiudicazione per la rilevata situazione di conflitto di interessi esistente tra la stazione appaltante e la società aggiudicataria (la odierna appellante).

La Sezione chiarisce e specifica la portata generale dell’art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016, riferendosi la locuzione “personale”, in essa contenuta, non solo ai dipendenti in senso stretto dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti siano – in base ad un titolo giuridico – in grado di impegnare nei confronti dei terzi i propri danti causa o, comunque, “rivestano un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna”.

La norma ha infatti una  manifesta funzione preventiva la quale, “se và applicata ai c.d. dipendenti operativi, ossia i lavoratori subordinati, a fortiori deve essere applicata anche agli altri organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché dirigenti ed amministratori pubblici) dovendo la disposizione essere letta in combinato disposto con l’art. 7 D.P.R. 2013 n. 62 (Codice di comportamento dei pubblici dipendenti).

Motivo per cui il Collegio afferma che “ E’ legittima l’esclusione dalla gara per l’affidamento di servizi assicurativi, disposta ai sensi dell’art. 42, comma 2, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per conflitto di interesse nascente dai particolari rapporti (societari e personali) tra l’operatore economico  (in particolare l’agente generale di una Compagnia di assicurazione territorialmente competente per l’esecuzione del servizio oggetto della gara) ed una terza società incaricata di redigere i Capitolati di gara”. 

(1) Ha chiarito la Sezione che l’espressione “personale”, contenuta nel comma 2 dell’art. 42,  d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 si riferisce non solo ai dipendenti in senso stretto (ossia, i lavoratori subordinati) dei soggetti giuridici ivi richiamati, ma anche a quanti, in base ad un valido titolo giuridico (legislativo o contrattuale), siano in grado di validamente impegnare, nei confronti dei terzi, i propri danti causa o comunque rivestano, di fatto o di diritto, un ruolo tale da poterne obiettivamente influenzare l’attività esterna. Diversamente, si entrerebbe nella contraddizione di escludere dalla portata della norma – dalla manifesta funzione preventiva – proprio quei soggetti che più di altri sono in grado di condizionare l’operato dei vari operatori del settore (pubblici e privati) e dunque si darebbe vita a situazioni di conflitto che la norma vuol prevenire, ossia i componenti degli organi di amministrazione e controllo. Invero, se la norma sul conflitto di interessi si applica sicuramente ai dipendenti “operativi”, a maggior ragione andrà applicata anche agli organi ed uffici direttivi e di vertice (nonché ai dirigenti e amministratori pubblici), come si evince proprio dal richiamo all’art. 7, d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 (Codice di comportamento dei pubblici dipendenti), per indicare le ampie categorie di soggetti cui fare riferimento.

 

Ha ancora ricordato il giudice di appello che le ipotesi previste nel comma 2 dell’art. 42,  d.lgs. n. 56 del 2016 (in termini generali ed astratti) si riferiscono a situazioni in grado di compromettere, anche solo potenzialmente, l’imparzialità richiesta nell’esercizio del potere decisionale. Si verificano quando il “dipendente” pubblico (ad esempio, il Rup ed i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali ed il provvedimento finale, esecuzione contratto e collaudi) ovvero colui (anche un soggetto privato) che sia chiamato a svolgere una funzione strumentale alla conduzione della gara d’appalto, è portatore di interessi della propria o dell’altrui sfera privata, che potrebbero influenzare negativamente l’esercizio imparziale ed obiettivo delle sue funzioni. La definizione normativa, del resto, appare coerente con lo ius receptum per cui le regole sull’incompatibilità, oltre ad assicurare l’imparzialità dell’azione amministrativa, sono rivolte ad assicurare il prestigio della Pubblica amministrazione, ponendola al di sopra di ogni sospetto, indipendentemente dal fatto che la situazione incompatibile abbia in concreto creato o meno un risultato illegittimo (Cons. St., sez. VI, 13 febbraio 2004, n. 563). PC



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Inserito in data 19/07/2017
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 17 luglio 2017, n. 861

Sulla revoca dell’aggiudicazione di un immobile pubblico

Con la pronuncia in epigrafe, il Consesso Amministrativo piemontese asserisce che la verifica dei requisiti soggettivi dell’aggiudicatario, prevista dall’art. 38 comma 6, non produce ipso iure la trasformazione dell’aggiudicazione da “provvisoria” a “definitiva”, ma richiede l’adozione da parte dell’amministrazione di un atto formale di accertamento, che nella specie è mancato.

A tal fine, il TAR rinviando a taluni consolidati principi giurisprudenziali, evidenzia come “nelle procedure di evidenza pubblica l'aggiudicazione provvisoria è un atto endoprocedimentale, di natura provvisoria, che si inserisce nell'ambito della procedura di scelta del contraente come sub-procedimento e quindi come fase necessaria, ma non decisiva, atteso che la definitiva individuazione del contraente risulta consacrata solo con l'aggiudicazione definitiva, quindi inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita; ne deriva che all’amministrazione è riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto all'aggiudicazione definitiva” (Consiglio di Stato sez. IV  12 gennaio 2016 n. 67).

Ad avviso del Collegio la sussistenza di ragioni di pubblico interesse, non sarebbe neanche da classificare come attività di secondo grado - diversamente dal ritiro dell'aggiudicazione definitiva - atteso che l'aggiudicatario provvisorio vanta solo un'aspettativa non qualificata o di mero fatto alla conclusione del procedimento e che la non conferma o revoca dell'aggiudicazione provvisoria non costituisce attività di secondo grado, ma rientra nell'unico procedimento di gara e nella medesima sequenza procedimentale.

Nel caso di specie – rileva il Consesso – “i provvedimenti impugnati sono stati adottati allorchè la procedura di gara era pervenuta alla fase della sola aggiudicazione provvisoria, e sono stati determinati da un esplicito ripensamento dell’amministrazione comunale in ordine alla destinazione funzionale del bene oggetto della procedura di gara.”

In un primo tempo il consiglio comunale aveva ritenuto che l’immobile potesse essere alienato per esigenze sostanzialmente “di cassa”; tuttavia, nel corso del giudizio, emerge come la decisione era stata assunta non senza perplessità e riserve, principalmente legata alle preponderanti esigenze di bilancio. Invero, dal tenore del provvedimento e della sua motivazione si rileva come “l’amministrazione non abbia ancora le idee sufficientemente chiare su quale concreta destinazione pubblica imprimere al bene: viene ipotizzato l’utilizzo da parte del Parco Nazionale, a cui anche il Comune pare aver aderito, ma nel contempo non si escludono altre finalità istituzionali, allo stato ancora tutte da definire”.

È evidente come siffatte incertezze non sono in grado di configurare - come adotto da parte ricorrente - un profilo di illegittimità del provvedimento impugnato, perché se pure non è chiara la concreta destinazione pubblica che l’amministrazione intende imprimere al bene, è però chiaro, per contro, che l’amministrazione intende vincolare il bene ad un utilizzo pubblico/istituzionale, quale che sia; e in tale prospettiva ritiene indispensabile conservare la proprietà dell’immobile per poter valutare in tempi più o meno prossimi a quale concreta finalità istituzionale destinare l’immobile.

Si tratta, secondo il Collegio, di un interesse pubblico meritevole di tutela, benchè non ancora pervenuto ad una definizione di dettaglio, tanto più in considerazione della fase in cui, nel caso di specie, è sopravvenuta la decisione dell’amministrazione di revocare la procedura di gara, e cioè subito dopo l’aggiudicazione provvisoria e prima dell’aggiudicazione definitiva: ossia “una fase in cui, alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, l’aggiudicatario provvisorio non è ancora titolare in modo stabile del bene della vita, ma di una mera aspettativa non qualificata o di fatto alla conclusione del procedimento”, sicchè all’amministrazione è riconosciuta la possibilità di procedere alla revoca o all’annullamento dell’aggiudicazione o anche dell’intera procedura di gara, senza neppure speciali oneri motivazionali. DU



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Inserito in data 18/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2017, n. 3400

Requisiti di professionalità delle Commissioni giudicatrici

In base ad un condiviso orientamento, nelle gare pubbliche, la legittima composizione della Commissione presuppone solo la prevalente, seppure non esclusiva, presenza di membri esperti del settore oggetto dell'appalto (in tal senso – ex multis -: Cons. Stato, V, 9 aprile 2015; id., VI, 2 luglio 2015, n. 3295; id., V, 5 maggio 2016, n. 1817).

Né può essere condivisa la tesi secondo cui, il rispetto del requisito di professionalità e omogeneità di cui all’articolo 84, comma 2 del decreto legislativo n. 163 del 2006 potrebbe dirsi soddisfatto solo in caso di membri della Commissione con specifiche esperienze in settori progettuali identici a quello posto a fondamento della gara.

“La proposta soluzione interpretativa, laddove condivisa, finirebbe per eccedere dai confini della (pur rigorosa) previsione di legge, rendendo praticamente impossibile – e comunque estremamente difficoltoso – per gli Enti la valida formazione di Commissioni giudicatrici, in assenza di effettive ragioni giustificatrici.” GB

 



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Inserito in data 17/07/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 14 luglio 2017, n. 8529

ASN: occorre anche una disamina qualitativa sulle pubblicazioni

L'art. 16 della Legge n. 240/2010 (“Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario”) ha istituito l’“abilitazione scientifica nazionale”, quale requisito di qualificazione necessario per la partecipazione alle procedure selettive per l’accesso alla prima ed alla seconda fascia dei professori universitari.

L'abilitazione viene attribuita, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte dal candidato, con motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche ed espresso “sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare, definiti con decreto del Ministro” (art. 16, comma 3, lett. a), L. n. 240/2010).

In particolare l’art. 3 del D.M. n. 76/2012 prevede che “nelle procedure di abilitazione per l'accesso alle funzioni di professore di prima e di seconda fascia, la commissione formula un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate. La valutazione si basa sui criteri e i parametri definiti per ciascuna fascia agli articoli 4 e 5”, i quali, per la valutazione delle pubblicazioni scientifiche, stabiliscono che la Commissione si attiene, tra gli altri parametri, all'impatto della produzione scientifica complessiva all'interno del settore concorsuale valutata mediante gli indicatori di cui all'art. 6 e agli allegati A e E del D.M. cit..

L’art. 6, comma 5, del medesimo D.M. n. 76/2012, stabilisce che “le Commissioni possano discostarsi dai criteri e parametri disciplinati dal D.M. 76/2012, incluso quello della valutazione dell'impatto della produzione scientifica, dandone motivazione sia al momento della fissazione dei criteri di valutazione dei candidati sia nel giudizio finale espresso sui medesimi”.

Alla luce di tali premesse il Collegio accoglie la tesi ricorsuale, che censura “la Commissione per avere sostanzialmente esaurito la valutazione nel solo calcolo della produttività scientifica della ricorrente, ritenendola inidonea alla prima fascia soltanto in ragione del mancato superamento delle tre mediane di settore (rispettivamente relative: ai libri; agli articoli in rivista e ai capitoli di libro; alle pubblicazioni in riviste di classe A), senza che questo rilievo sia stato accompagnato da una adeguata disamina di tipo qualitativo sulle pubblicazioni e sugli altri titoli posseduti dalla ricorrente”.

Non a caso l’Amministrazione, con la circolare dell’11 gennaio 2013, n. 754 ha chiarito le modalità di valutazione alle quali devono attenersi le commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale dei candidati, “affermando, in particolare, che la valutazione complessiva del candidato deve fondarsi sull’analisi di merito della produzione scientifica dello stesso”. Secondo la menzionata circolare, quindi, “il superamento degli indicatori numerici specifici non costituisce di per sé condizione sufficiente ai fini del conseguimento dell’abilitazione. Di norma, pertanto, l’abilitazione deve essere attribuita esclusivamente ai candidati che abbiano soddisfatto entrambe le condizioni (superamento degli indicatori di impatto della produzione scientifica e positivo giudizio di merito)”. Tuttavia, “le commissioni, come già osservato, ai sensi dell’art. 6, comma 5 del decreto ministeriale 76/2012, possono discostarsi da tale regola generale. Ciò comporta che le commissioni possano non attribuire l’abilitazione ai candidati che pure superino le mediane per il settore di appartenenza, purché ciò avvenga sulla base di un giudizio di merito negativo della commissione, ovvero possono attribuire l’abilitazione ai candidati che, pur non avendo superato le mediane prescritte, siano valutati dalla commissione con un giudizio di merito estremamente positivo”.

L’articolata disciplina in esame è espressione di “un principio generale volto a selezionare i docenti che siano al di sopra della media nazionale degli insegnati del settore di riferimento; ciò al fine evidente di evitare un appiattimento nella selezione dei professori di prima e di seconda fascia e del ruolo peculiare che i candidati andranno a rivestire”.

Nel caso posto al vaglio del Consesso, dunque, “la Commissione avrebbe dovuto indicare le ragioni per cui non ha concesso l’abilitazione all’interessata, non solo soffermandosi sulla (presunta) insufficienza quantitativa delle sua produzione scientifica, ma anche attraverso un’adeguata valutazione del suo merito scientifico, la quale doveva necessariamente investire sia le pubblicazioni che i titoli presentati”.

Si deve infatti sempre rammentare la già citata regola basilare introdotta dal MIUR con il decreto ministeriale n. 76 del 2012 (recante il regolamento sui criteri e i parametri che le Commissioni di valutazione debbono osservare) secondo cui “1. Nelle procedure di abilitazione per l'accesso alle funzioni di professore di prima e di seconda fascia, la commissione formula un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate. La valutazione si basa sui criteri e i parametri definiti per ciascuna fascia agli articoli 4 e 5” (art. 1, comma 1, D.M. cit.).

Del resto, come più volte ritenuto da questa Sezione “nelle ipotesi, come quella in esame, in cui è attribuita all'Amministrazione un'ampia discrezionalità, è necessaria una ancor più rigorosa motivazione che dia conto in concreto degli elementi sui quali la Commissione ha fondato il proprio giudizio, in modo da comprendere quale sia stato l’iter logico seguito….” (cfr. TAR Lazio, Sez. III, 30.12.2014, n. 13288; id. 31.3.2015, n. 4776).

Va precisato altresì che, “ai fini del conseguimento dell’abilitazione, rispetto al superamento delle mediane, essendo gli indici correlati alle stesse a carattere meramente quantitativo (cfr. allegati A e B al D.M. n.76 del 2012), risulta preminente il giudizio di merito della Commissione sulla maturità scientifica raggiunta dai candidati, ex art. 5 del D.M. n.76 del 2012” (cfr., “ex plurimis”, TAR Lazio, sez. III, 22 settembre 2016, n. 9901; id. sez. III-bis, 7 luglio 2016, n. 7828; v. altresì sez. III n. 11500 del 2014 ). EF

 



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Inserito in data 07/07/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 5 luglio 2017, n. 3292

La revocazione è un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio

Con la pronuncia in commento la Sesta Sezione dichiara inammissibile il ricorso avente ad oggetto la revocazione della sentenza n. 3 del 2015 proposto da una società, per mancata pronuncia del Consiglio di Stato sulla domanda di risarcimento da ritardo.

In particolare, in virtù del rinvio di cui all’art. 106 cod. proc. amm. è possibile in tale sede richiamre il disposto dell’art. 395, comma 1, numero 4, cod. proc. civ., il quale dispone che la revocazione è ammissibile «se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa», specificando che «vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare».

Inoltre, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che l’istituto della revocazione è un rimedio eccezionale che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2014, n. 1334). Nella specie, si ritiene costantemente che per aversi errore di fatto revocatorio e conseguente «abbaglio dei sensi» del giudice devono sussistere, contestualmente, tre requisiti: quali l’attinenza dell’errore ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; la «pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale» di atti ritualmente prodotti nel giudizio; la valenza decisiva dell’errore sulla decisione, essendo necessario che vi sia «un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa».

Devono, invece, ritenersi vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell’erronea interpretazione e valutazione dei fatti e, più in generale, delle risultanze processuali (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599; id., sez. VI, 5 settembre 2011, n. 4987).

In definitiva, «mentre l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale» esso non ricorre, tra l’altro, «nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali», che può dare luogo «se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione» (Cons. Stato, Ad. plen., 10 gennaio 2013, n. 1).

In più si aggiunga che da alcuni passaggi motivazionali della sentenza impugnata si afferma che il ritardo dell’Autorità nella determinazione delle tariffe è addebitabile alla condotta della società, la quale non avrebbe fornito la documentazione richiesta. Ne deriva l’esclusione di ogni responsabilità per danno da ritardo.

In altri termini, osserva il Collegio, la rilevata infondatezza della domanda d’annullamento ha comportato la statuizione sulla carenza di interesse a coltivare la domanda risarcitoria. DU

 



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Inserito in data 06/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 5 luglio 2017, n. 3319

Sul valore del diploma di fisioterapista rilasciato ex l. 19/5/1971, n. 403

Il Collegio rimette all’esame dell’Adunanza Plenaria la questione concernente “il valore da riconoscere ai fini di un’iscrizione universitaria al diploma di fisioterapista rilasciato ai sensi della l. 19 maggio 1971, n. 403.

Secondo un primo orientamento, “il diploma di masso fisioterapista, rilasciato ai sensi della l. 19 maggio 1971, n. 403, consentirebbe senz’altro l’accesso ad una facoltà universitaria, nella specie alla facoltà di fisioterapia”.

Tale orientamento, espresso da C.d.S., sez. VI 5 marzo 2015, n. 1105, e più di recente da C.G.A., 10 maggio 2017, n. 212, parte anzitutto dal dato per cui il diploma di cui alla l. 403/1971, in considerazione del D.M. 27 luglio 2000 e dell’art. 4 l. 42/1999, è equipollente al diploma di cui al d. lgs. 502/1999.

Ciò posto, per implicito ma inequivocabilmente, rileva che il diploma di cui al d. lgs. 502/1999 è un diploma universitario, che per il conseguimento richiede di aver già conseguito un diploma di scuola secondaria superiore di durata quinquennale.

Su questa base di equipollenza, tale orientamento ritiene quindi che il diplomato di cui alla l. 403/1971 possa per ciò solo iscriversi alla facoltà universitaria di proprio interesse, appunto perché in possesso di un diploma che presuppone il previo ottenimento di un diploma di scuola secondaria superiore della durata indicata.

Il Collegio osserva, tuttavia, che l’equiparazione invocata dall’appellante dovrebbe essere disposta da una norma espressa.

Si potrebbe affermare, infatti, che le disposizioni in materia di equiparazione abbiano un carattere eccezionale, poiché «ciò che si equipara è per definizione diverso», con la conseguente inammissibilità di interpretazioni analogiche o estensive. GB

 



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Inserito in data 05/07/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 3 luglio 2017, n. 898

Diniego di accesso, esposto e diritto all’ostensibilità della fase di pre - iniziativa

La pronuncia dei Giudici fiorentini traccia, con estremo dettaglio, i confini del diritto di accesso – specie in un’ipotesi particolare, pari a quella oggetto dell’odierno contenzioso.

La parte ricorrente, in specie una società – impresa agricola - operante nel territorio toscano, era stata destinataria di una serie di esposti, presentati all’Ente comunale, riguardo ai quali aveva postulato la provenienza che, invece, era stata occultata dall’Amministrazione competente.

Impugnato il diniego di accesso, il Collegio ne condivide le motivazioni, in ragione del fatto che l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, e di conseguenza il denunciante perde consapevolmente e scientemente il “controllo” e la disponibilità sulla propria segnalazione: quest’ultima, infatti, uscita dalla sfera volitiva del suo autore diventa un elemento del procedimento amministrativo, come tale nella disponibilità dell'amministrazione. La sua divulgazione, pertanto, non è preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale da includere il diritto all'anonimato di colui che rende una dichiarazione che comunque va ad incidere nella sfera giuridica di terzi (Cfr. Cons. St., sez. V, 19 maggio 2009 n. 3081; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 11 febbraio 2016 n. 396).

Né, ricordano ancora i Giudici toscani, il nostro ordinamento, ispirato a principi democratici di trasparenza, imparzialità e responsabilità ammette la possibilità di denunce segrete: sicché colui il quale subisce un procedimento di controllo o ispettivo ha un interesse qualificato a conoscere integralmente tutti i documenti amministrativi utilizzati nell'esercizio del potere di vigilanza, a cominciare dagli atti di iniziativa e di preiniziativa, quali, appunto, denunce, segnalazioni o esposti (Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 12 luglio 2016 n. 980, T.A.R. Campania, sez. VI, 4 febbraio 2016 n. 639).

Di conseguenza, il ricorso va accolto e, per l’effetto, il Collegio annulla gli atti impugnati e condanna il Comune a consentire alla società ricorrente l’accesso e l’estrazione di copia dei documenti richiesti. CC

 



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Inserito in data 04/07/2017
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 3 luglio 2017, n. 3

Cessione del ramo di azienda e validità delle attestazioni SOA

Nella decisione emarginata in epigrafe, il Supremo Consesso amministrativo prende posizione sull’annosa questione relativa alla permanenza della validità dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla società cedente un suo ramo aziendale.

Più precisamente, la controversia ha ad oggetto la impugnazione, da parte della società seconda classificata, della aggiudicazione in favore della prima classificata (la cedente il ramo di azienda), sul presupposto che quest’ultima avrebbe perduto la qualificazione utile alla partecipazione alla gara di appalto, in conseguenza del contratto di cessione del suo ramo di azienda intervenuto nel periodo compreso tra la domanda di partecipazione alla gara e la successiva presentazione dell’offerta.

Il Giudice di prime cure, “dando atto della esistenza in giurisprudenza di due contrapposti orientamenti in ordine agli effetti della cessione d’azienda sulla qualificazione SOA posseduta dalla cedente”, aveva giudicato il ricorso infondato, aderendo alle pronunce giurisprudenziali “che avevano ravvisato in tale atto negoziale una soluzione di continuità nel possesso del requisito di qualificazione in capo alla società resistente”.

Avverso la decisione del T.a.r. viene proposta impugnativa sul rilievo che la conferma postuma delle qualificazioni de quibus in capo alla aggiudicataria era, peraltro, già stata smentita da altrettante precedenti pronunce dello stesso Consiglio di Stato; in particolare, si allude alla sentenza n. 5573/2014 della III Sezione ove si è affermato che “nel caso di cessione di ramo d’azienda né il cedente né il cessionario possono valersi dell’attestazione di qualificazione posseduta dall’azienda ceduta, pur potendone richiedere una nuova alla società di attestazione”.

Chiariti i termini del contrasto giurisprudenziale sorto sul punto, la questione viene deferita alla Adunanza Plenaria oggetto della presente disamina. In particolare, ci si chiede se:

i) ai sensi dell’art. 76, comma 11, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza di nuova richiesta di attestazione SOA, la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione o, piuttosto, se debba prevalere la tesi che limita le fattispecie di cessione, contemplate dal comma 11 art. 76 solo a quelle che, dando vita ad un nuovo soggetto, presuppongono che il cedente se ne sia definitivamente spogliato, così escludendo le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cessionario di ottenere la qualificazione;

ii) se l’accertamento effettuato dalle SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo alla cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità.

Ora, con riferimento alla prima questione, l’Adunanza dà atto della presenza di due opposti orientamenti.

Secondo un primo approccio, c.d. formalistico perché rigidamente ancorato al principio del consenso traslativo ed alla concezione astratta della causa contrattuale (cfr. Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 811, n. 812 e n. 813), “nel caso di cessione di ramo d’azienda, il cedente perde automaticamente le qualificazioni, ancorché resti - per avventura - in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione, poiché ciò non lo esonera dal chiedere a una Società Organismo di Attestazione l’attestazione di qualificazione che, a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207 del 2010, costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici”. Secondo questo orientamento non potrebbe darsi rilievo alla conferma ex post dei requisiti operati dalla SOA in sede di verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione.

Per converso, secondo altro orientamento, (approccio c.d. “sostanzialistico” ed al quale aderisce l’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria, giacché si fonda su un approccio concreto al contenuto negoziale e sulla vincolatività della conferma dell’attestazione SOA (Cons. St., sez. III, 9 gennaio 2017, n. 30; id., sez. V, 18 ottobre 2016, n. 4347 e n. 4348; id. 17 dicembre 2015, n. 5706)   “bisogna escludere qualsiasi automatismo decadenziale (a danno della cedente) conseguente alla cessione d’azienda, occorrendo aver riguardo alla causa in concreto del negozio di cessione e al sottostante regolamento di interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza, complessità e particolarità, per determinare se la cessione dei beni aziendali comporti o meno la perdita dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente”.

Nella decisione in commento l’Adunanza aderisce alla tesi sostanzialistica affermando che la disposizione di cui all’art. 76, comma 11 d.P.R. n. 207 del 2010, che attribuisce la facoltà alla cedente di chiedere una nuova attestazione SOA per i requisiti oggetto di trasferimento “deve essere interpretata nel senso che “la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento”, non traducendosi, pertanto, nella automatica decadenza dei requisiti de quibus all’atto della cessione contrattuale.

Ne discende che in caso di trasferimento del ramo d’azienda “non sono automaticamente trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1, d.P.R. n. 207 del 2010”.

Viene, altresì, chiarito nella decisione che qui ci occupa che  “la verifica operata dall’organismo attestatore ha un’efficacia probatoria e non già sostanziale e che gli atti di accertamento hanno intrinseca valenza retroattiva, perché dichiarano una realtà giuridica preesistente.

Ne discende che postulare l’efficacia ex nunc della verifica positiva da parte dell’organismo SOA sarebbe in contrasto con la sua natura. Pertanto, nella suddetta ipotesi di cessione di ramo di aziendam il successivo accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente, comporta la conservazione dell’attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità.

D’altra parte, rileva la Adunanza che, non ammettere una soluzione di continuità alle attestazioni SOA determinerebbe l’effetto distorto di generare qualificazioni per così dire intermittenti, dunque in contrasto con la normativa di riferimento. PC 

 



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Inserito in data 03/07/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 giugno 2017, n. 879

Esclusi i benefici combattentistici per i militari impegnati in missioni per conto dell’ONU

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio riprende la giurisprudenza del Consiglio di Stato da tempo consolidata “nell’escludere l’applicabilità, ai militari operanti in zone d’intervento per conto dell’ONU, della supervalutazione prevista dalla legge n. 390/1950, la quale si riferisce ai soli militari impegnati nelle campagne di guerra del periodo bellico 1940 – 1945, senza possibilità di estensione ad eventuali campagne successive. Se così è, l’art. unico delle legge n. 1746/1962 deve intendersi come originariamente riferito agli incrementi stipendiali previsti dagli artt. 9 e 7 del r.d. n. 1427/1922, i quali potevano logicamente trovare applicazione solo in presenza di una struttura stipendiale fondata su un sistema di progressione economica per classi e scatti, e pertanto non sono più attuali – sono divenuti inapplicabili – a far tempo dal 1 gennaio 1987, a seguito dell’estensione anche al personale militare non dirigenziale dell’istituto della retribuzione individuale di anzianità (R.I.A.) in luogo dei precedenti meccanismi di progressione economica per classi e scatti, ai sensi dell’art. 1 co. 3 del d.l. n. 379/1987, convertito con modificazioni dalla legge n. 478/1987” (in questi termini, Cons. Stato, sez. IV, 21 ottobre 2014, n. 5172; id., 8 maggio 2013, n. 2480; id., 25 maggio 2012, n. 3084; id., 19 ottobre 2007, n. 5475).

Invero, tale interpretazione della legge n. 1746/1962, assurgendo a diritto vivente, “ha superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale, con sentenza 11 novembre 2016, n. 240, ha respinto la questione di legittimità sottopostale in relazione all’art. 3 Cost.”.

In particolare, il Tar ritiene di non doversi discostare dalle indicazioni della Consulta e precisa che:

- “la legge n. 1746/1962 trova occasione in un episodio drammatico (l’eccidio di militari italiani a Kindu, nell’ex Congo belga, avvenuto nel novembre del 1961) ed ha lo scopo di fronteggiare una situazione nuova e all’epoca non disciplinata (la partecipazione delle forze armate italiane a missioni in zone di conflitto per conto dell'ONU), attraverso l’estensione al personale della missione della disciplina prevista per le campagne di guerra”;

- “è di molti anni successiva la nascita di una legislazione specificamente dedicata alle "missioni di pace" condotte sotto l'egida delle Nazioni Unite, di regola dettata per singole missioni o per gruppi di missioni: fra le molte disposizioni, la Corte ricorda il d.l. 7 gennaio 2000, n. 1 (Disposizioni urgenti per prorogare la partecipazione militare italiana a missioni internazionali di pace), convertito dall'art. 1, comma 1, della legge 7 marzo 2000, n. 44; l'art. 3 della legge 3 agosto 2009, n. 108 (Proroga della partecipazione italiana a missioni internazionali); la recente legge 21 luglio 2016, n. 145 (Disposizioni concernenti la partecipazione dell'Italia alle missioni internazionali), in vigore dal 31 dicembre 2016”;

- “tale disciplina specifica contiene tra l'altro previsioni dettagliate in materia di trattamento economico e previdenziale, di indennità di missione e di coperture assicurative specifiche in favore del personale militare coinvolto (sono riconosciuti: il trattamento di missione all'estero; la percezione di altre indennità o rimborsi, tra le quali l'indennità di lungo servizio all'estero; l'estensione delle disposizioni in materia di missione all'estero; il godimento di un trattamento assicurativo specifico)”;

- “per effetto del mutato contesto internazionale e dell'evoluzione dell'ordinamento militare, non è più possibile arrestarsi alla generale equiparazione posta dalla legge del 1962 tra i militari impegnati in missioni per conto dell'ONU ed i “combattenti” impegnati in “campagne di guerra”, in quanto per i primi il legislatore ha di volta in volta individuato regole specifiche incidenti sul trattamento retributivo e pensionistico nonché dirette anche a compensare gli specifici rischi connessi agli interventi”;

- “il legislatore ha sempre dimostrato di aver avuto presente la distinzione tra campagne di guerra e missioni ONU, tanto che ha ritenuto di estendere ai partecipanti alle suddette missioni alcune provvidenze riservate alle campagne di guerra, mentre per le altre ha escluso espressamente tale estensione”;

- “il concetto di "combattente" è riferito dalla legge ai partecipanti a vario titolo al secondo conflitto mondiale, come testimonia il decreto legislativo 4 marzo 1948, n. 137, che individua i destinatari di tali benefici (militari, militarizzati, prigionieri e partigiani)”;

- “l’art. 18 del d.P.R. n. 1092/1973… si applica a situazioni ben diverse da quelle dell'impiego di militari nelle missioni ONU”;

- “l'esame della disciplina entrata in vigore successivamente alla legge n. 1746/1962 restituisce un quadro particolarmente articolato, stratificatosi nel corso degli ultimi decenni, nei quali buona parte dei benefici sono stati destinati esclusivamente a soggetti coinvolti a vario titolo nell'ultimo conflitto mondiale, e solo alcuni di tali benefici sono stati successivamente estesi anche ai militari impiegati nelle missioni ONU, il tutto in conseguenza di scelte non irragionevoli del legislatore”;

- “guerre e missioni di pace non sono equiparabili sotto il profilo dei rischi mortali egualmente presenti in entrambe le situazioni: ben diversa è infatti la situazione di una partecipazione di limitati contingenti di soldati professionisti in missioni svolte in territorio estero e quella di “guerre” o “crisi internazionali” che imponessero addirittura il ricorso alla leva obbligatoria generalizzata, e tanto basta a giustificare la scelta del legislatore di non estendere tout court ai militari impegnati in missioni ONU tutti i benefici combattentistici, quali essi siano”;

- “non sussiste alcuna sperequazione tra la posizione del militare che nell'ambito di un servizio svolto professionalmente decida volontariamente di partecipare a missioni internazionali – e che quindi riceva un peculiare trattamento retributivo e stipendiale, comunque migliorativo rispetto a quello normalmente percepito nel corso del rapporto di lavoro – e quella dell'arruolato in seguito a provvedimenti più o meno generali di richiamo alle armi, cui spetterebbe, allo stato della legislazione esistente, oltre alla sola supervalutazione di cui all'art. 18 del d.P.R. n. 1092 del 1973, un compenso giornaliero, il cosiddetto “soldo”, poco più che simbolico”. EF

 



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Inserito in data 30/06/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 27 giugno 2017, n. 891

La residenza dei concorrenti come requisito di partecipazione al concorso

L’art. 35, comma 5 ter, del d.lgs. n. 165/2001 statuisce che “il principio della parità di condizioni per l'accesso ai pubblici uffici è garantito, mediante specifiche disposizioni del bando, con riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando tale requisito sia strumentale all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato”.

Orbene, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, non è ammissibile qualificare il requisito della residenza presso il Comune che ha indetto la selezione come aprioristica condizione di partecipazione alla procedura concorsuale (TAR Sicilia, Palermo, III, 31.5.2011, n. 1010) anziché, ad esempio, quale obbligo da assolvere in caso di assunzione in servizio ad esito della procedura stessa.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, "l'accesso in condizioni di parità ai pubblici uffici può subire deroghe, con specifico riferimento al luogo di residenza dei concorrenti, quando il requisito medesimo sia ricollegabile, come mezzo al fine, all'assolvimento di servizi altrimenti non attuabili o almeno non attuabili con identico risultato" (sent. n. 158 del 1969, n. 86 del 1963, n. 13 del 1961, n. 15 del 1960, secondo la ricostruzione effettuata dall'ordinanza n. 33 del 1988).

Peraltro, "non é razionale né corrisponde propriamente al fine di una migliore organizzazione del servizio, che sia data prevalenza assoluta, in materia di assunzioni impiegatizie, a situazioni estrinseche di residenza su situazioni intrinseche di merito.", con la conseguenza che deve considerarsi illegittima una norma che "escludendo la possibilità di valutazione del merito comparativo, concede un aprioristico titolo preferenziale ai soli residenti in sede regionale"(vedi sentenza n. 158 del 1969).

Risultano ammesse, pertanto, ragionevoli discriminazioni fra concorrenti basate sulla residenza purché queste siano corrispondenti a situazioni connesse con l'esistenza di particolari e razionali motivi di più idonea organizzazione di servizi.

Si riconduce, infatti, una valutazione di illegittimità alle norme che annettono all'elemento residenza un "valore condizionante", tale da conferire ad esso la priorità su ogni altra valutazione comparativa di merito.

Tali considerazioni sono suffragate dall’articolo 39 del Trattato dell’Unione che assicura la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità europea, intesa come abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro, nonché come diritto di spostarsi liberamente a scopi lavorativi nel territorio degli Stati membri e di prendere dimora in uno di questi al fine di svolgervi un’attività di lavoro. GB

 



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Inserito in data 29/06/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZIONE UNICA, 27 giugno 2017, n. 213

Finanziamenti richiesti da una Fondazione collegata ad una società detenuta da ente pubblico. Diniego

Nel giudizio emarginato in epigrafe, la ricorrente agisce per l’annullamento del provvedimento di diniego di accoglimento della domanda presentata alla Agenzia per la incentivazione delle attività economiche, al fine di ottenere la erogazione di fondi pubblici, così come previsto dalla legge provinciale 13 dicembre 1999 n. 6.

La ricorrente, se è vero che è una Fondazione senza scopo di lucro, è anche vero che  svolge  attività d’impresa, risultando fondata da una società per azioni detenuta al cento per cento da un ente pubblico.

La suddetta legge, al fine della individuazione dei criteri da adottare per la individuazione dei beneficiari degli incentivi pubblici, richiama la Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE del 6 maggio 2003 ove viene previsto che “le grandi imprese possano accedere ai contributi nel rispetto della normativa unionale in materia di aiuti di importanza minore e che le domande di contributo vengano esaminate secondo procedure di tipo valutativo o negoziale, sulla base dell’importo richiesto”.

Nella decisione in commento si rileva, preliminarmente, la natura giuridica della ricorrente la quale, sebbene abbia natura non lucrativa, svolge anche attività di impresa. Più precisamente trattasi di Fondazione c.d. di partecipazione “caratterizzata da una pluralità di fondatori che possono partecipare attivamente alla gestione dell’ente”.

Ebbene, ha chiarito il Tar che “mentre al fine della definizione della categoria micro, piccola e media, delle imprese caratterizzate da relazioni di associazione o di collegamento, la Raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE prevede (art. 6) le modalità di determinazione dei dati riguardanti gli effettivi e le soglie finanziarie da impiegarsi per stabilire la dimensione dell’impresa, nell’ipotesi specifica di coinvolgimento dell’ente pubblico di cui al citato par. 4 dell’art. 3, la definizione di grande impresa (“non può essere considerata PMI”) consegue direttamente dal controllo diretto o indiretto dell’ente pubblico di almeno il 25% del capitale o dei diritti di voto”. PC 

 



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Inserito in data 28/06/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 27 giugno 2017, n. 1453

Precisazioni sulla giurisdizione in materia di “ecotasse”

Il Tar ha chiarito come la qualificazione tributaria di taluni prelievi, finisca con il ridondare inesorabilmente sulla giurisdizione del giudice tributario.

Nella specie, la controversia verteva sul diniego di riduzione di un tributo per il conferimento di rifiuti in discarica, la cd. “ecotassa”, e per questo ritenuta dal Supremo Consesso amministrativo imprescindibilmente collegata alla natura fiscale del rapporto.

Ad avviso della Terza Sezione, infatti, la fattispecie in esame, presentando i tre caratteri enucleati dalla giurisprudenza costituzionale della doverosità della prestazione, della mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e del collegamento della prestazione alla pubblica spesa, rientra a pieno regime nel paradigma del prelievo tributario.

Il suddetto approdo si allinea inoltre con il dato normativo di cui all’art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, ai sensi del quale appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali, restando escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento.

Inoltre, l'obbligo di pagamento dell'ecotassa sorge da presupposti interamente regolati dalla legge, senza che siano riservati alla PA spazi di discrezionalità circa la concreta individuazione dei soggetti obbligati, dei presupposti oggettivi o del quantum del corrispettivo dovuto, ragion per cui la giurisdizione del giudice tributario è da intendersi come imprescindibilmente collegata unicamente alla natura fiscale del rapporto.

In ordine alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie relative al “ciclo dei rifiuti”, il Collegio osserva che “come si desume chiaramente dalle note sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 e dalla stessa formulazione dell’art. 7, comma 1, c.p.a., la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone sempre che l’oggetto della controversia abbia un collegamento, sia pure indiretto o mediato, con l’esercizio del potere. Nei casi in cui, invece, la questione oggetto della controversia sia meramente patrimoniale e risultino ad essa estranee al thema decidendum le modalità attraverso la quali il potere è stato esercitato, la controversia rimane fuori dalla giurisdizione amministrativa, pur in ambiti ricollegabili alla sua giurisdizione esclusiva. Tanto si deve ritenere perché difetta la condizione primaria richiesta dall’art. 7, comma 1, c.p.a., in conformità alla tradizionale riconducibilità della giurisdizione amministrativa ad una controversia sull'esercizio del potere o sul suo mancato esercizio” (così anche Cons. Stato sez. V 31 gennaio 2017 n. 382).

Pertanto, il Tar ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. DU

 



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Inserito in data 27/06/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 22 giugno 2017, n. 858

P.A.: recupero al netto delle ritenute di somme indebitamente erogate

La pronuncia è particolarmente significativa giacchè, con essa, il Collegio toscano – dato il reiterarsi – da parte dell’Amministrazione - della condotta quivi censurata, rimette la questione, oggetto dell’odierno contenzioso, all’attenzione della Procura regionale della Corte dei Conti, al Presidente del Consiglio dei Ministri ed anche al Ministro dell’Economia.

In sostanza, è condannata l’Amministrazione finanziaria per aver disposto la ripetizione di somme, erroneamente erogate ai propri dipendenti, al lordo e non al netto delle ritenute previdenziali, fiscali ed assistenziali.

I Giudici non esitano a ricordare come costituisca ius receptum che il datore di lavoro possa ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali, invero mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

Da questo punto di vista è coerente l’insegnamento sia della Suprema Corte che dei Collegi amministrativi (Cfr. Cass. Civ., sez. I, 4 settembre 2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 2 febbraio 2012, n. 1464; TAR Toscana, sez. I, 25 gennaio 2017, n. 199;T.A.R. Lazio Roma Sez. I bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR Bologna, sez. I, 4 giugno 2015, n. 525).

Ribadito, dunque, tale punto di partenza,  i Giudici fiorentini definiscono temeraria la richiesta della suddetta Amministrazione, sostenendo che non risulta né logico, né equo, né lecito chiedere all’interessato un adempimento che può essere posto in essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di imposte e contributi.

Il Collegio conclude la pronuncia con il medesimo tono incalzante fin qui accennato, non riconoscendo alcuno spessore giuridico agli atti adottati dall’Amministrazione resistente ed oggi impugnati.

Ricorda, infatti, come – in forza della teoria della disapplicazione - una circolare amministrativa (o altro atto analogo) contra legem possa essere disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione.

In tal guisa, riconoscendosi tale facoltà, il Collegio accoglie le censure di parte ricorrente e, peraltro, ravvisando negligenza ed imperizia nella condotta amministrativa, tale da ingenerare un contenzioso ormai divenuto frequente, ne denuncia la mala gestio alle Autorità competenti – come sopra detto. CC

 



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Inserito in data 26/06/2017
TAR UMBRIA - PERUGIA, SEZ. I, 16 giugno 2017, n. 457

Valutazione delle offerte anomale: criteri e giustificazioni del ribasso

I Giudici umbri, rigettando le doglianze di una ditta esclusa nel corso di una gara per mancato superamento della verifica di anomalia dell’offerta, ribadiscono il contenuto dell’art. 97, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei Contratti pubblici).

Questo, come si ricorda, serve a far fornire all’eventuale ditta concorrente le spiegazioni sul prezzo o sui costi proposti nelle offerte se queste appaiono anormalmente basse, sulla base di un giudizio tecnico sulla congruità, serietà, sostenibilità e realizzabilità dell'offerta.

Tanto è accaduto nel caso di specie ove, tuttavia, le giustificazioni rese dall’offerente non sono state ritenute idonee: esse sono state fondate, infatti, su elementi estranei all’offerta medesima. La candidata ha supportato la propria offerta anormalmente bassa, adducendo possibili, futuri guadagni derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per mezzo di un negozio giuridico differente.

Ad avviso del Collegio, invece, occorre che le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta debbano riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti.

Si comprende, dunque, l’intento annullatorio dei Giudici nei riguardi delle censure sollevate da parte ricorrente, stante l’estraneità e l’aleatorietà degli strumenti, dalla medesima richiamati, per sorreggere l’anomalia della propria offerta. CC 


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Inserito in data 23/06/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 giugno 2017, n. 3087

Il condono edilizio deve essere correlato da adeguata motivazione

Con la sentenza indicata in epigrafe, il Consesso conferma il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui “il rilascio del titolo abilitativo – sia per la realizzazione di opere, sia per il condono di quelle realizzate – si deve basare sulla esplicitazione delle specifiche ragioni che abbiano indotto ad accogliere l’istanza, con richiami alla concreta situazione di fatto”.

In particolare, il Collegio richiama i principi formulati dall’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2001, secondo cui il potere di annullamento dei titoli abilitati delle autorità, delegate o subdelegate, preposte alla tutela del vincolo “poteva essere esercitato per qualsiasi motivo di legittimità e, dunque, per tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere” (tra le altre, v. anche Sez. VI, 30 marzo 2017, n. 1485; Sez. VI, 9 aprile 2013, n. 1905).

Pertanto, i Giudici ritengono di non dover disattendere il provvedimento con cui una Soprintendenza ha constatato l’inadeguata motivazione di un condono edilizio, “il cui richiamo generico alla assenza di lesioni alle esigenza di tutela del vincolo ha comportato un vizio di eccesso di potere”. EF

 



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Inserito in data 22/06/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 22 giugno 2017, n. 1409

Diritto di accesso agli atti adottati in seduta riservata da un Comune

L’art. 22 c. 3 della legge 241/90 stabilisce che tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6, riservando così alla legge la disciplina della segretezza documentale.

A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo le norme di legge che lo prevedono.

Tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso.

Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura. Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali possono essere secretate in quanto attinenti ad attività amministrativa.

Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28 della L. 241/90.

A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (comma 7).

Principio rafforzato dalla giurisprudenza costante secondo cui ,“qualora l’accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di riservatezza dei terzi (Consiglio di Stato, VI, 5 marzo 2015, n. 1113; IV, 10 marzo 2014, n. 1134)”. GB 


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Inserito in data 21/06/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 giugno 2017, n. 3005

La P.A. può acquisire la proprietà di un bene privato tramite specificazione?

Nella vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe, l’amministrazione, per effetto delle opere realizzate, trasformava irreversibilmente un terreno privato ad uso pubblico, senza che fosse stata perfezionata alcuna procedura di esproprio.

Ad avviso della VI Sezione, l’orientamento riportato dalla difesa dell’amministrazione, ricavato in via interpretativa dall’art. 940 c.c., e per il quale nell’istituto della specificazione “se taluno ha adoperato una materia che non gli apparteneva per formare una nuova cosa, possa o non possa la materia riprendere la sua prima forma, ne acquista la proprietà pagando al proprietario il prezzo della materia, salvo che il valore della materia sorpassi notevolmente quello della mano d’opera”, va disatteso. E’ infatti evidente, da una semplice lettura della norma, che l’art. 940 c.c. presuppone la trasformazione di una cosa mobile, e quindi non contempla il caso di attività compiute su un fondo.

E’ del tutto noto che in passato la fattispecie descritta comportava l’acquisto della proprietà del bene così trasformato in capo all’amministrazione, tenuta soltanto al risarcimento del danno, in base ad un istituto di creazione giurisprudenziale, denominato per tal motivo “occupazione acquisitiva” ovvero “espropriazione di fatto”,

E’ però altrettanto noto che, a partire dalle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 30 maggio 2000 Belvedere Alberghiera S.r.l. contro Italia, causa n.31524/96 e 11 dicembre 2003 Carbonara e Ventura contro Italia causa n.24638/94, tale istituto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo - CEDU, che stabilisce: “(Protezione della proprietà) Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni (comma 1). Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale (comma2). Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende (comma 3).”

Il passaggio di proprietà in capo all’amministrazione può infatti avvenire - escluse le ipotesi particolari, nella specie nemmeno allegate, di un accordo transattivo o di un’usucapione di cui effettivamente ricorrano tutti i presupposti - solo in due casi.

Il primo è quello in cui il privato agisca contro l’amministrazione non per la restituzione del bene - come invece qui è avvenuto - ma soltanto per la condanna all’equivalente in denaro, domanda in cui si ritiene implicita una rinuncia abdicativa al diritto.

Il secondo è quello in cui l’amministrazione emetta un provvedimento di acquisizione ai sensi dell’art. 42 bis del citato T.U. 327/2001, norma che è stata introdotta dall'art. 34, comma 1, d.l. 6 luglio 2011 n.98, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011 n.111, prevede in estrema sintesi una procedura espropriativa abbreviata, con onere rafforzato di motivazione, ed è stata giudicata conforme a Costituzione, anche sotto il profilo del rispetto della CEDU, da C. cost. 30 aprile 2015 n.71.

Tuttavia, nel caso in esame non si è verificata alcuna delle predette ipotesi, sicché, per ragioni ignote, del citato art. 42 bis l’amministrazione non ha ritenuto di fare uso. Ne è derivato il rigetto del ricorso e la condanna alle spese di giudizio dell’amministrazione. DU

 



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Inserito in data 20/06/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZIONE UNICA, 19 giugno 2017, n. 211

Risarcimento del danno causato dall’affidamento incolpevole su provvedimenti edilizi dichiarati illegittimi. Giurisdizione

Nel giudizio emarginato in epigrafe, avente ad oggetto la domanda risarcitoria per affidamento incolpevole ingenerato dall’adozione di provvedimenti favorevoli successivamente dichiarati illegittimi, il Collegio condivide ed accoglie la eccezione preliminare, riguardante il difetto di giurisdizione, formulata dalla convenuta amministrazione comunale, esulando tale domanda dalla giurisdizione del giudice amministrativo e ricadendo - al contrario – in quella del giudice ordinario.

Preliminarmente viene rilevato che “l’interesse legittimo pretensivo che radica la giurisdizione generale di legittimità si sostanzia nell’interesse ad ottenere provvedimenti favorevoli, non potendo coincidere con il mero interesse a che l’amministrazione provveda sulle istanze del privato adottando provvedimenti legittimi”.

Secondariamente, viene chiarito che la questione non può neanche ricadere nella giurisdizione esclusiva ex art. 133 co. 1 lett. f del c.p.a. (controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia urbanistica e edilizia, “non riguardando più né atti e provvedimenti (peraltro già adottati) né - più in generale - l’esercizio del potere amministrativo (già espletatosi   con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il rilascio delle concessioni edilizie).

In conclusione viene affermato che la domanda della ricorrente ricade nella giurisdizione ordinaria in quanto essa non attiene, come detto,  né ad atti, né a provvedimenti, “involgendo la questione non solo l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione, ma, altresì, la sua attitudine a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella permanenza della situazione di vantaggio ottenuta  (cfr. Cass. SU, ord. 4.9.2015 n. 17586; idem 22.1.2015 n. 1162, 3.5.2013 n. 10305 e 23.3.2011 n. 6594). PC

 



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Inserito in data 19/06/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 12 giugno 2017, n. 2808

Rimesse alla CGUE alcune questioni relative alla concessione del gioco del lotto

Con la sentenza indicata in epigrafe, la V Sezione rimette alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali:

A) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - debba essere interpretato nel senso che osta ad una disciplina come quella posta dell’art. 1, comma 653, della legge di stabilità 2015 e dai relativi atti attuativi, che prevede un modello di concessionario monoproviding esclusivo in relazione al servizio del gioco del Lotto, e non già per altri giochi, concorsi pronostici e scommesse”;

B) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi e la direttiva 2014/23/UE, nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - debba essere interpretato nel senso che osta ad un bando di gara che prevede una base d’asta di gran lunga superiore ed ingiustificata rispetto ai requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativi, del tipo di quelli previsti dai punti 5.3, 5.4, 11, 12.4 e 15.3 del capitolati d’oneri della gara per l’assegnazione della concessione del gioco del Lotto”;

C) “se il diritto dell’Unione - e, in particolare, il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi nonché e la direttiva 2014/23/UE, nonché i principi di non discriminazione, trasparenza, libertà di concorrenza, proporzionalità e coerenza - deve essere interpretato nel senso che osta ad una disciplina che prevede l’imposizione di un’alternatività di fatto fra divenire assegnatari di una nuova concessione e continuare ad esercitare la libertà di prestazione dei diversi servizi di scommessa su base transfrontaliera, alternatività del tipo di quella che discende dall’art. 30 dello Schema di Convenzione, cosi che la decisione di partecipare alla gara per l’attribuzione della nuova concessione comporterebbe la rinunzia all’attività transfrontaliera, nonostante la legittimità di quest’ultima attività sia stata riconosciuta più volte dalla Corte di Giustizia”.

D’altra parte, il Collegio chiosa come tali questioni, oltre ad essere rilevanti per la decisione della causa, escludono l’applicabilità della cosiddetta teoria dell'atto chiaro, “in base alla quale il giudice nazionale non deve nemmeno operare il rinvio pregiudiziale, qualora il contenuto della norma comunitaria che intende applicare si ponga agli occhi dell'interprete con un'evidenza tale da non lasciare spazio al alcun ragionevole dubbio” (cfr., per tutte, Corte Giust. CE, 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit).

Peraltro, come è noto, “il mancato rinvio pregiudiziale, al di fuori dell’ipotesi dell’atto chiaro sopra indicata costituisce, nel nostro ordinamento nazionale, un caso di responsabilità del giudice ex legge 27 febbraio 2015, n. 18 che ha modificato l’art. 2, comma 3 Legge 13 aprile 1988, n. 117 sul Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati e ha introdotto il comma 3-bis al predetto art. 2, prevedendo proprio la fattispecie di mancato rinvio alla Corte di Giustizia”. EF

 



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Inserito in data 16/06/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 giugno 2017, n. 834

Concorso per ricercatore universitario:Criteri di valutazione delle pubblicazioni

Nella valutazione delle opere prodotte in collaborazione fra più autori, laddove non sia possibile determinare con esattezza “le quote del lavoro scientifico” riferibili in modo esclusivo a ciascuno di essi, “il contributo del singolo viene considerato paritetico ed equivalente a quello degli altri coautori”, atteso che , in tale specifica ipotesi, “l'elaborato costituisce nella sua interezza il risultato dell’apporto comune e inscindibile di tutti”.

Dalla mancata specifica attribuzione di apporti più chiaramente distinguibili, si desume, infatti, la volontà implicita dei coautori di ritenere assolutamente equivalente il loro apporto (come evenienza normale) e quindi, giustificato e razionale il criterio di attribuzione paritaria ai coautori dei lavori collettivi (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013 n. 4943).

Deve pertanto attribuirsi carattere meramente indicativo al criterio volto a riconoscere maggiore rilievo al posizionamento del nominativo del singolo coautore (in particolare, a quelli indicati come primo e come ultimo nell'ambito dell'elenco), in specie laddove la Commissione abbia congruamente optato per un diverso criterio (anche laddove tale ultimo criterio si traduca nella motivata attribuzione di un valore ponderale analogo a tutti gli apporti indicati)” (Cons. Stato, sez. VI, 8 ottobre 2013 n. 4943, nello stesso senso Cons. St., sez. VI, 28 marzo 2003, n. 1615). GB

  


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Inserito in data 15/06/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 13 giugno 2017, n. 3226

Appalti e rito super accelerato. Il termine previsto dal comma 6 bis dell’art. 120 si estende sia alle udienze camerali che a quelle pubbliche

Nella sentenza emarginata in epigrafe riguardante il nuovo rito super accelerato in materia di appalti, il Giudice amministrativo campano – preliminarmente - non ritiene di poter condividere le osservazioni rese in giudizio dalla società appaltante (resistente e ricorrente incidentale) secondo cui “il termine di 6 giorni liberi previsto dal nuovo rito super accelerato riguarderebbe l’ipotesi di trattazione del giudizio in udienza pubblica - e non in camera di consiglio – in materia di appalti pubblici”.

Invero, afferma il T.A.R. che  “il termine di 6 giorni liberi previsti per il deposito dei documenti, delle memorie e delle eventuali repliche dall’art. 120, comma 6 bis, c.p.a riguarda sia  l’ipotesi di trattazione del giudizio in udienza pubblica  che in camera di consiglio  del c.d. rito superaccelerato in materia di appalti pubblici”. 

Al riguardo viene chiarito che sebbene nel comma 6 bis dell’art. 120 c.p.a. figurano disposizioni che riguardano pacificamente l’udienza pubblica (cfr. secondo periodo) ed altre che, viceversa, disciplinano la camera di consiglio (primo periodo e parte finale dell’ultimo periodo), “deve ritenersi che tale disposizione estenda ad entrambe le ipotesi di rito la previsione sui termini di deposito dei documenti, delle memorie e delle eventuali repliche”.

Ed infatti, “laddove il legislatore, nell’ultimo periodo del citato comma 6 bis, ha utilizzato il termine udienza, ha inteso riferirsi sia all’udienza pubblica che all’udienza camerale, tenuto conto dell’esigenza di speditezza del nuovo rito che impone la previsione, in ogni caso e a prescindere dalle formalità del giudizio, di termini chiari e ridotti per il deposito di atti processuali”.

Peraltro, a conferma della predetta interpretazione, si osserva che il comma 9 del medesimo art. 120 c.p.a. prevede un unico termine processuale per il deposito della sentenza (7 giorni), disponendo espressamente che esso si applica sia nel caso dell’udienza pubblica che della camera di consiglio, uniformando così la disciplina dei termini processuali in entrambe le ipotesi di possibile sbocco del rito c.d. “super speciale” in materia di appalti pubblici. 

In secondo luogo, sempre in punto di rito, viene accolta la eccezione di rito sollevata dalla ricorrente principale in merito alla irricevibilità del ricorso incidentale escludente proposto dalla società resistente (la ricorrente incidentale) in quanto “tardivamente proposto e notificato oltre il termine di 30 giorni che vanno fatti decorrere, non dalla notifica del ricorso principale, ma dalla conoscenza del provvedimento di ammissione della ricorrente principale”.

Al riguardo, chiarisce il Collegio che “la previsione di un rito superaccelerato introdotto dall’art. 204 comma 1 lett. d) del D.Lgs. n. 50/2016 per l'impugnativa dei provvedimenti di esclusione ed ammissione è volta, nella sua ratio legis, a consentire la pronta definizione del giudizio prima che si giunga al provvedimento di aggiudicazione e, quindi, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all'esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione (cfr. Consiglio di Stato, parere n. 855/2016 sul codice degli appalti pubblici)”.

La ratio sottesa alla novella legislativa è, dunque, quella di evitare che con l’impugnazione dell’aggiudicazione possano essere fatti valere vizi attinenti alla fase della verifica dei requisiti di partecipazione alla gara (cioè la fase di ammissione), il cui eventuale accoglimento “farebbe regredire il procedimento alla fase appunto di ammissione, con grave spreco di tempo e di energie lavorative, oltre pericolo di perdita di eventuali finanziamenti, il tutto nell’ottica dei principi di efficienza, speditezza ed economicità, oltre che di proporzionalità del procedimento di gara (Consiglio di Stato, parere n. 782/2017 sul decreto correttivo al nuovo codice degli appalti pubblici)”.

Tale norma pone evidentemente un onere di immediata impugnativa dei provvedimenti in questione, a pena di decadenza, non consentendo di far valere successivamente i vizi inerenti agli atti non impugnati.

Ed invero “l’omessa attivazione del rimedio processuale entro il termine preclude al concorrente la possibilità di dedurre le relative censure in sede di impugnazione della successiva aggiudicazione, ovvero di paralizzare, mediante lo strumento del ricorso incidentale, il gravame principale proposto da altro partecipante avverso la sua ammissione alla procedura.

Peraltro, a conferma di quanto appena detto, si veda l’art. 120, comma 2 bis, del c.p.a.  ove si statuisce che “l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale. PC

 



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Inserito in data 14/06/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 13 giugno 2017, n. 1326

Sulla responsabilità da inquinamento

Con la sentenza in epigrafe, il TAR afferma che la fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende societarie complesse, che nel caso di specie coinvolgevano un noto gruppo industriale.

Prendendo le mosse dalla Direttiva 2004/35/CE, che all’art. 2 definisce “operatore” “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”, riconduce a tale figura la responsabilità per danno ambientale.

Tuttavia, il Supremo Consesso rileva come nel caso in esame siano del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante, tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del gruppo industriale.

Il Tar ha inoltre aggiunto che l'inquadramento della contaminazione come situazione permanente non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali.

Invero, nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua – e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati – le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006). DU

 



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Inserito in data 13/06/2017
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 8 giugno 2017, n. 394

Determinazione regionale di diniego autorizzazione paesaggistica: silenzio assenso

I Giudici sardi accolgono il ricorso prospettato da cittadini che, a seguito di un’istanza di autorizzazione paesaggistica, ricevevano una determinazione di diniego da parte della Regione.

In specie, i ricorrenti ne contestavano la legittimità – affermando che la volontà dell’Ente regionale si fosse formata in violazione dell’articolo 146, commi 5 e 8, del d.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio).

Tali ultime disposizioni prevedono, infatti, la necessaria e previa acquisizione – da parte della Regione - di un parere tecnico ad hoc rilasciato dalla Soprintendenza.

Nel caso di specie, questo si otteneva in forza del “comportamento silenzioso” del suddetto Organo tecnico, con la conseguenza che avrebbe dovuto comunque vincolare la susseguente determinazione regionale – a dispetto di quanto, invece, accaduto.

Ricorda, infatti, il Collegio cagliaritano, come anche a tali fattispecie si applichi l’articolo 17-bis della legge n. 241 del 1990, secondo cui le disposizioni sulla formazione del silenzio-assenso tra amministrazioni pubbliche «si applicano anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all'articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito» (comma 3 dell’art. 17-bis cit.).

Pertanto, posto che tanto è accaduto nella vicenda in esame, la Regione, per la natura vincolante del parere favorevole della Soprintendenza (Cfr. art. 146, comma 5, cit.), era tenuta al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, non potendo rimettere in discussione il risultato procedimentale cui si era pervenuti – sebbene per silentium.

Sulla base di tali valutazioni, pertanto, si accoglie il ricorso, con il conseguente annullamento della determinazione regionale di diniego dell’autorizzazione paesaggistica – evidentemente emessa in modo erroneo dalla Regione sarda. CC



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Inserito in data 12/06/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 8 giugno 2017, n. 783

In base a quali presupposti si può aderire al contratto stipulato da altra P.A.?

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio esamina la fattispecie dell’adesione di una amministrazione aggiudicatrice ad un contratto stipulato da altra amministrazione, rilevandone la problematicità “sia sul piano dell’inquadramento normativo sia su quello della compatibilità con i principi comunitari che disciplinano la concorrenza fra operatori economici nel mercato delle commesse pubbliche”.

In particolare, il Consiglio di Stato, nella sentenza 442 del 2016 (da cui vorrebbe trarre le mosse il provvedimento impugnato) ha qualificato sul piano civilistico il contratto contenente la clausola di adesione come “contratto ad oggetto multiplo” avente ad oggetto servizi “identici o analoghi” che possono essere estesi ad amministrazioni diverse da quelle che hanno indetto la procedura di gara “qualora individuate o individuabili in base a criteri enunciati a priori dalla lex specialis”.

Invero, il fondamento normativo della estensione contrattuale a nuove amministrazioni è stato ravvisato nei principi di economicità e buon andamento della p.a., “ai quali risponderebbero sistemi di aggiudicazione volti ad sollevare le amministrazioni e le imprese dagli oneri connessi alla indizione ed alla partecipazione di “gare fotocopia”, e, più specificamente, nelle numerose norme sparse nell’ordinamento nazionale e comunitario che prevedono e promuovono (fino renderle in taluni casi obbligatorie) i sistemi centralizzati di acquisizione di beni e servizi attraverso le cd. “centrali di committenza”. Il tutto con la precisazione che proprio nell’ordinamento della sanità l’impulso legislativo alle centralizzazione degli acquisiti si sarebbe tradotto in specifiche disposizioni che consentono alle aziende sanitarie locali di stipulare contratti aderendo a convenzioni quadro (art. 17 d.l. 98/2011) e di accedere alle convenzioni stipulate dalle centrali di acquisito appositamente istituite dalle regioni (art. 1 comma 449 L. 296/2006)”.

Più di recente il Consiglio di Stato ha approfondito l’argomento nell’ordinanza di rimessione alla Corte di giustizia n. 1690 del 2017 (resa in un giudizio che vedeva parte ricorrente anche l’Autorità garante per la concorrenza) nella quale “il contratto con clausola di adesione non è stato più ricondotto alle discipline generali e di settore sulle centrali di committenza ma all’istituto dell’accordo quadro. Ciò soprattutto al fine di rinvenire una base normativa del fenomeno anche nel diritto comunitario, vista la sua atipicità nel panorama dei sistemi di aggiudicazione”.

Orbene, “l’operazione ermeneutica compiuta dalla citata ordinanza merita, a giudizio del Collegio, condivisione”.

E’ infatti “nella disciplina degli accordi quadro che le fonti comunitarie stabiliscono a quali condizioni il contratto stipulato fra un’amministrazione aggiudicatrice (sia essa o meno una centrale di committenza) ed un operatore economico all’esito di una gara possa essere utilizzato da amministrazioni aggiudicatrici diverse, prevedendo che queste debbano essere chiaramente individuate nell’avviso di indizione di gara (art. 33 comma 2 direttiva 24/2014) anche quando la stessa venga bandita da una centrale di committenza (la quale dovrebbe preventivamente rendere identificabili alle imprese interessate le identità delle amministrazioni aggiudicatrici che potenzialmente potrebbero far ricorso all’accordo quadro e la data in cui le stesse hanno acquisito il diritto di avvalersene – 60° considerando direttiva 24/2014)”.

Tale disciplina, pur essendo dettata con specifico riguardo agli accordi quadro, “è espressione del più generale principio comunitario di pubblicità che sta alla base di tutti i confronti concorrenziali e risulta quindi applicabile anche nel caso in cui il contratto aperto non abbia carattere normativo ma definisca in modo puntuale quantità e qualità delle prestazioni da eseguire”.

Siffatta situazione, tuttavia, “non può ravvisarsi nei casi in cui la variazione del contratto in corso d’opera non sia richiesta dalla medesima amministrazione in favore della quale l’aggiudicatario sta già eseguendo la prestazione ma da una diversa amministrazione che vorrebbe aderirvi ex novo avvalendosi della clausola di estensione”.

A tal proposito, questa stessa Sezione ha già affermato che “ la adesione, in forza di specifica clausola, ad un contratto stipulato da altra amministrazione aggiudicatrice ha come presupposto l’identità dell’oggetto dei due contratti o, comunque, che le prestazioni acquisite attraverso l’estensione siano determinabili in base a criteri trasparenti che possano evincersi dalla stessa lex specialis in modo che nessuna incertezza possa sussistere al riguardo” (TAR Toscana, III, 183/ 2017; Cons. Stato, V, 663/2014).

Pertanto, “appare incompatibile con il modulo della adesione una rinegoziazione delle condizioni contrattuali operata sulla base di scelte discrezionali della stazione appaltante che non siano state oggetto di un previo confronto concorrenziale aperto a tutte le imprese in possesso dei necessari requisiti”.

Tali affermazioni trovano, peraltro, supporto anche “nella disciplina dell’accordo quadro (che come si è detto può costituire l’unico paradigma normativo di riferimento in cui inquadrare la fattispecie della adesione) nella quale è chiaramente previsto che il contenuto dei contratti esecutivi può essere specificato in una fase successiva ma solo se e nella parte in cui ciò sia espressamente previsto e consentito nei documenti di gara relativi all’aggiudicazione dell’accordo base”. EF

 



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Inserito in data 09/06/2017
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 26 maggio 2017, n. 121

Tetto massimo orario lavorativo settimanale, incostituzionale la legge regionale

I Giudici della Consulta accolgono, con la pronuncia in esame, le doglianze relative ad una legge regionale in tema di delimitazione dell’orario di lavoro settimanale.

In specie, è censurata una legge pugliese nella parte in cui impone a tutte le aziende sanitarie locali (ASL) locali l’obbligo del rispetto nei confronti di tutto il personale sanitario, medici ed infermieri, del tetto massimo di quarantotto ore settimanali di lavoro, ricomprendendovi sia il lavoro svolto all’esterno degli istituti di pena, che quello svolto in regime di parasubordinazione all’interno degli stessi.

Ad avviso del Collegio costituzionale, una simile statuizione da parte del Legislatore regionale è eccessiva, posto che la disciplina dei vari profili del tempo della prestazione lavorativa, così come l’inquadramento di una prestazione lavorativa come autonoma o parasubordinata, siano da ricondurre alla materia dell’ordinamento civile (Cfr. ex plurimis, sentenze n. 257 del 2016, n. 18 del 2013, n. 290, n. 215 e n. 213 del 2012, n. 339 e n. 77 del 2011, n. 324 del 2010).

Sulla base di tali approdi, pertanto, il Collegio ritiene che le suddette previsioni del Legislatore pugliese siano violative dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione e, come tali, abbiano invaso la competenza legislativa dello Stato.

Si ravvede, altresì, l’avvenuta contravvenzione rispetto ai vincoli europei, con conseguente violazione anche dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.

Risulta, pertanto, inevitabile la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 21, comma 7 della legge della Regione Puglia 25 febbraio 2010, n. 4 (Norme urgenti in materia di sanità e servizi sociali) – cui giunge il Collegio. CC

 



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Inserito in data 08/06/2017
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 26 maggio 2017, n. 124

Trattamento economico dei magistrati. Tetto massimo e cumulo fra trattamento retributivo e pensionistico. Infondatezza

Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Collegio della Consulta respinge le doglianze formulate dal T.A.R. Lazio in talune ordinanze di rimessione riguardanti la applicazione del tetto massimo di 240.000,00 euro annui per il trattamento economico dei magistrati, anche di nomina governativa.

Più precisamente, le questioni di legittimità costituzionale concernono gli artt. 23 ter D.L. 6.12.2011 n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011 n. 214 e l’art. 13, comma 1, D.L. 24.04.2014 n. 66, convertito, con modificazioni dalla legge 23 giugno 2014 n. 89 i quali, sostanzialmente, vietano alle amministrazioni e agli enti pubblici di erogare trattamenti economici che superino il limite di 240.000,00 euro annui.

In particolare, i dubbi di legittimità costituzionale delle predette disposizioni vengono sollevati con riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 100, 101, 104 e 108 della Costituzione, sinteticamente riguardanti la violazione del diritto al lavoro e ad una equa retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; la disparità di trattamento fra soggetti che svolgono medesime attività nonché una irrazionale organizzazione della Giustizia amministrativa; l’indebolimento delle garanzie di indipendenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.

La Consulta ritiene imprescindibile una preliminare disamina della disciplina del limite massimo delle retribuzioni e delle pensioni giacché essa rappresenta il paradigma generale da cui prender le mosse.

Secondo la Corte, detta disciplina “si iscrive in un contesto di risorse pubbliche limitate le quali debbono esser ripartite in maniera congrua e trasparente”. Questo limite  si rivolge al legislatore  affinché questi effettui “scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto ad un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
Al riguardo viene dalla Corte detto che “nel settore pubblico non è precluso al legislatore dettare un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni, a condizione che la scelta, volta a bilanciare i diversi valori coinvolti, non sia manifestamente irragionevole”.

Occorre, cioè, tener conto delle risorse pubbliche concretamente disponibili, senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate. Viene, altresì, rilevato che “la indicazione precisa di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non contrasta con i princìpi appena richiamati in quanto essa persegue finalità di contenimento e complessiva razionalizzazione della spesa, in una prospettiva di garanzia degli altri interessi generali coinvolti, in presenza di risorse limitate”.
Peraltro, la disciplina del limite massimo ha portata generale ed è stata estesa (man mano) dalle amministrazioni statali alle amministrazioni pubbliche, alle Authorities e via dicendo; e la detta portata generale di disciplina che non riguarda solamente la magistratura “fa venir meno la consistenza della censura riguardante la violazione dell’autonomia e dell’indipendenza della funzione giurisdizionale”.  
Procedendo con ordine, la Corte ha ritenuto non irragionevole le scelte operate dal legislatore con  riguardo: i) al limite dei 240.000 euro annui  previsto per il Primo Presidente della Corte di cassazione; ii) alla disciplina del cumulo tra retribuzioni e pensioni a carico delle finanze pubbliche sottolineando la sua portata generale contraddistinta da una grande “latitudine, rivolgendosi alla vasta categoria delle amministrazioni inserite nell’elenco ISTAT e anche gli organi costituzionali, chiamati ad attuarla nel rispetto dei propri ordinamenti”.
Pertanto, la predeterminazione del limite di tetto massimo delle retribuzioni viene giustificata dal carattere limitato delle risorse pubbliche che “l’Amministrazione può corrispondere a titolo di retribuzioni e pensioni”.

La Corte conclude affermando che “sono infondate le questioni di legittimità costituzionale delle leggi che vietano alle Amministrazioni ed agli enti pubblici di erogare trattamenti economici che superino il tetto massimo di € 240.000 nonché quelle che vietano alle medesime di erogare, a beneficio di soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche (ivi compresi i vitalizi), trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, superino il limite di 240.000,00 euro annui”. PC

 



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Inserito in data 07/06/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 6 giugno 2017, n. 2719

Sulla praticabilità del principio della compensatio lucri cum damno

Nell’ordinanza in esame, viene deferita all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato la questione “se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali.

Il punto di diritto oggetto dell’ordinanza verte, dunque, sulla corretta interpretazione del principio, forgiato in ambito pretorio, della compensatio lucri cum damno atteso il mancato consolidamento di un unanime consenso ermeneutico in relazione alla sua praticabilità.

Al tradizionale e tuttora maggioritario indirizzo giurisprudenziale contrario a riconoscere l’operatività del principio della compensatio lucri cum damno si contrappone, infatti, un orientamento critico di segno opposto.

L’orientamento tradizionale fornisce al quesito una risposta negativa sulla base di una rigorosa interpretazione del requisito della unicità (ovvero identità) della causa.

Secondo questa impostazione esegetica, cui si è uniformata la sentenza gravata, affinché possa richiamarsi il principio della compensatio lucri cum damno il vantaggio deve derivare direttamente dal fatto illecito e non da fattori causativi distinti ed ulteriori, pur se questi a loro volta conseguano ope legis (ovvero ex contractu) al dato materiale del pregiudizio subito dal danneggiato: il nesso che lega illecito e vantaggio deve, quindi, essere anche materialisticamente immediato e non tollera intermediazioni eziologiche di alcun genere.

In questo senso si è espressa la Cassazione civile, sez III,, 30 settembre 2014, n. 20548 la quale ha affermato che “il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall'atto illecito e non hanno finalità risarcitorie”.

Parimenti significativa dell’humus concettuale sotteso all’indirizzo esegetico in discorso è, poi, Cass. civ., Sez. III, 2 marzo 2010, n. 4950, ad avviso della quale il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno, non potendo il lucro compensarsi con il danno se trae la sua fonte da titolo diverso.”

Secondo l’orientamento minoritario di segno opposto,” la diversità di presupposti fra le varie provvidenze indennitarie previste dal contratto o dalla legge ed il risarcimento del danno da illecito civile (sia esso contrattuale od extracontrattuale) non giustifica le conclusioni cui perviene l’orientamento tradizionale: l’oggettiva identità del pregiudizio che ambedue gli istituti vanno a riparare, si sostiene, ne esclude la cumulabilità ed impone, di contro, di defalcare dalla somma dovuta a titolo di risarcimento l’eventuale importo riconosciuto al danneggiato in via indennitaria, che, in quanto avvinto al fatto illecito da un nesso (di carattere normativo o negoziale) di regolarità causale, né è, agli effetti giuridici, conseguenza “immediata e diretta” nell’accezione che di essa dà il diritto vivente”.

Questo secondo indirizzo si fonda sull’interpretazione dell’art.1223 c.c. che , nel perimetrare, ai fini della responsabilità civile, la rilevanza giuridica dell’evento materiale di danno, stabilisce che tutto ciò che è conseguenza immediata e diretta della condotta del danneggiante rileva nell’ottica della responsabilità civile.

Secondo tale orientamento, “ove la legge od il contratto stipulato dal danneggiato con terzi contemplino, in dipendenza di un danno, benefici, indennità, provvidenze o trattamenti preferenziali di vario genere, i conseguenti vantaggi economici sono legati alla condotta del danneggiante (che quel danno ha provocato) da un nesso eziologico che non può non essere qualificato, in ottica giuridica, esso pure immediato e diretto, stante la strutturale ed ineludibile cogenza della legge (cui, quoad effectum, è parificato il contratto – art. 1372 c.c.)”.

Laddove il danno sia, dunque, anche “elemento costitutivo di una fattispecie, di fonte normativa o negoziale, costitutiva di una provvidenza a favore del danneggiato, non può essere negato che, alla luce dell’unitaria teoria della causalità accolta nel nostro ordinamento (articoli 40 e seguenti c.p.), siffatta provvidenza sia un effetto giuridico immediato e diretto della condotta che quel danno ha provocato, giacché da esso deriva secondo un processo di lineare regolarità causale.”

A ciò si aggiunga che, “l’eventuale somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario esclude comunque funditus la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno: un danno indennizzato, infatti, non è più, per la parte indennizzata, tale, almeno nell’orbita di un sistema di responsabilità civile come il nostro che, salvo spunti di carattere (ancora) settoriale, rifugge da intenti punitivi, sanzionatori o, comunque, lato sensu afflittivi per il danneggiante  e si pone il solo scopo di rimediare, mediante la ricostituzione del patrimonio del danneggiato, ad un’alterazione patrimoniale o patrimonialmente valutabile della di lui sfera giuridica occorsa non jure e contra jus”.

“Del resto, il cumulo di benefici di carattere indennitario, da un lato, e del risarcimento del danno, dall’altro, determinerebbe una locupletazione del danneggiato (il cui patrimonio, dopo l’evento di danno, risulterebbe addirittura incrementato rispetto a prima), strutturalmente incompatibile con la richiamata natura meramente reintegratoria della responsabilità civile”.

“L’adesione a tale approccio ermeneutico consentirebbe, infine all’assicuratore privato o sociale, ovvero agli enti di previdenza, di agire in rivalsa nei confronti del danneggiante per ripetere l’importo della provvidenza indennitaria corrisposta”.

Rilevato il contrasto interpretativo e dato atto che le Sezioni Unite, seppure adite, non hanno affrontato il merito del problema, sulla scorta della sua ravvisata possibile irrilevanza nel caso concreto, la Quarta Sezione rimette la questione all’Adunanza Plenaria. GB

 



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Inserito in data 06/06/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II- QUATER, 24 maggio 2017, n. 6171

L’internazionalità del reclutamento dei direttori museali non estende la platea dei partecipanti

Nella pronuncia in esame, il Collegio, prendendo le mosse dal contesto normativo vigente, desume una deroga al sistema di reclutamento dei dirigenti provenienti ab externo per il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (da ora “MIBACT”), rispetto alla regola generale declinata nell’art. 19, comma 6, d.lgs. 165/2001, nella previsione dell’art. 14, comma 2-bis, d.l. 83/2014, convertito in l. 106/2014, che non si limita a svincolare il meccanismo dal conteggio dei contingenti di personale dirigenziale che possono essere reclutati al di fuori dell’amministrazione, ma si estende sino a trasformare la procedura di reperimento di tale personale di altissima professionalità, escludendo che il suo avvio sia condizionato dalla previa ricerca all’interno del ruolo dell’amministrazione di dipendenti in possesso del background culturale e professionale preteso per divenire titolari dell’incarico e per esercitare la relativa funzione.

Nella specie, la ricorrente impugnava i decreti di nomina, le graduatorie, relative alle posizioni dirigenziali per l’assegnazione delle quali aveva presentato domanda, poiché restava esclusa nella fase selettiva, a causa dell’illegittimità della valutazione, nonché il bando.

Evidenzia il Collegio che “il voto numerico attribuito dalle competenti commissioni alle prove scritte od orali di un concorso pubblico o di un esame esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della commissione stessa, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni o chiarimenti, e ciò in quanto la motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità amministrativa di valutazione, assicura la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute dalla commissione nell'àmbito del punteggio disponibile e del potere amministrativo da essa esercitato, sempreché siano stati puntualmente predeterminati dalla commissione esaminatrice i criteri in base ai quali essa procederà alla valutazione delle prove” (cfr., tra le altre, Cons. Stato, Sez. V, 22 dicembre 2014 n. 6306).

Ad avviso del Collegio, tuttavia, nel caso di specie, la magmatica riconduzione dei punti non consente di comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato, anche in ordine al criterio di graduazione di ogni singolo punto da assegnare all’andamento della prova orale, a conclusione del colloquio sostenuto.

Inoltre, decisiva, per la dichiarazione di illegittimità della procedura di svolgimento della c.d. prova orale, appare la circostanza che quest’ultima sia avvenuta “a porte chiuse” o “da remoto”, attraverso skype, senza che sia stato verbalizzato nulla circa la presenza di uditori estranei ai membri della commissione durante lo svolgimento del colloquio e in spregio ai principi di trasparenza e parità di trattamento tra i candidati.

In base a quanto previsto dal bando non è inoltre possibile estendere la platea degli aspiranti alla posizione dirigenziale in esame, ricomprendendo anche cittadini non italiani, sebbene il carattere “internazionale” dell’esperienza maturata dal cittadino all’estero sia stata valorizzata nell’odierna procedura concorsuale.

In definitiva, il Collegio annulla il bando, laddove non escluda la partecipazione di stranieri alla selezione, nonché gli atti di ciascuna selezione avvenuta con i criteri dichiarati illegittimi. DU

 



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Inserito in data 05/06/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 29 maggio 2017, n. 2843

L’onere di immediata impugnazione è esigibile solo se opera l’art. 29 D.Lgs 50/16

L’onere di immediata impugnazione dell’ammissione alla gara “risulta esigibile solo a fronte della contestuale operatività della disposizione che consente l’immediata conoscenza dell’ammissione alla gara da parte delle imprese partecipanti e, segnatamente, dell’art. 29 del D.Lgs. n. 50/2016 (pubblicazione sul profilo del committente nella sezione “Amministrazione trasparente” con l’applicazione delle disposizioni in materia di accesso civico ex D.Lgs. n. 33/2013)”.

In proposito, il citato art. 120, comma 2 bis prevede che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici adottato in attuazione della legge 28 gennaio 2016, n. 11”.

Del resto, come affermato dalla recente giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sez. III, sent. 4994/2016; T.A.R. Puglia, n. 340/2017; T.A.R. Toscana n. 239/2017; T.A.R. Basilicata, n. 24/2017), “in difetto del contestuale funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione - che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile - la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito”.

Si è infatti rilevato che “il neonato rito speciale in materia di impugnazione contro esclusioni ed ammissioni costituisce eccezione al regime ‘ordinario’ del processo appalti (a sua volta eccezione rispetto al rito ordinario e allo stesso rito accelerato ex art. 119 c.p.a.) e, perciò, deve essere applicato solo nel caso espressamente previsto (T.A.R. Puglia - Bari I, 7 dicembre 2016 n. 1367), e cioè quando sia stato emanato il provvedimento di cui all’art. 29, comma 1, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016; in caso contrario l’impugnativa non può che essere rivolta, congiuntamente, avverso l’ammissione dell’aggiudicatario ed il provvedimento di aggiudicazione laddove il secondo sia, come dedotto nel primo motivo, conseguenza del primo” (T.A.R. Toscana, n. 239/2017).

Pertanto, una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito superaccelerato di cui all’art. 120 comma 2 bis del c.p.a., “non vi è che da richiamare l’orientamento giurisprudenziale precedente che nega valenza procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al provvedimento di aggiudicazione”. EF 



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Inserito in data 03/06/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 29 maggio 2017, n. 745

Reclutamento di personale ad opera di un Organismo di diritto pubblico e giurisdizione 

La pronuncia in esame si colloca in un ambito importante ed estremamente attuale, quale quello relativo allo status delle società in house e degli organismi di diritto pubblico e sui conseguenti riflessi in punto di giurisdizione.

In specie, il Collegio toscano accoglie l’eccezione circa il difetto della propria giurisdizione – come sollevata dall’Organismo resistente e, attraverso un significativo excursus giurisprudenziale e normativo, declina l’odierno contenzioso all’Autorità giurisdizionale ordinaria.

Più nel dettaglio, i Giudici fiorentini ricordano che l’articolo 18 del D.L. 1112/08 – intitolato “Reclutamento del personale delle aziende e istituzioni pubbliche” – recava una disciplina di stampo pubblicistico in merito all’adozione di provvedimenti per la gestione e reclutamento di professionalità in seno alle società pubbliche.

Sottolineano, altresì, la subentrata modifica normativa, peraltro recentissima, ad opera della riforma sulle società a partecipazione pubblica - introdotta dal D.Lgs. 19/08/2016, n. 175 (attuativa della delega conferita dalla legge Madia n. 124/2015) – con cui, invece, si è inteso conferire un’impronta privatistica in tema di pubblico impiego.

Basti pensare che il comma 1 dell’articolo 19 del suddetto D. Lgs. dispone che “Salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa”.

E come, altresì, persino il Giudice regolatore della giurisdizione abbia da ultimo chiarito che  "il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 18, il quale detta regole diverse per le procedure di reclutamento del personale da parte, da un lato, delle società in mano pubblica di gestione dei servizi pubblici locali (comma 1), e, dall'altro, delle altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo (comma 2), è una norma di diritto sostanziale, la quale non incide in alcun modo sui criteri di riparto della giurisdizione in materia di assunzione dei dipendenti…. Le procedure seguite dalle società cosidette in house providing per l'assunzione di personale dipendente sono sottoposte alla giurisdizione del Giudice ordinario" (Cfr. SC. Sez. Un. n. 7759/17).

Pertanto, sulla falsariga di tali nuovi approdi ed operando anche in ragione di esigenze di speditezza, certezza giuridica e celerità, in doveroso e disciplinato rispetto dell’articolo 111 – 8’ co. - della Costituzione, il Collegio fiorentino declina la propria giurisdizione, dichiarando quella del Giudice ordinario. CC



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Inserito in data 01/06/2017
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - ORDINANZA 26 maggio 2017, n. 512

Diritto di accesso, azione ex art. 116, 2’ c. CpA soggetto legittimato, controinteressato

Nella ordinanza emarginata in epigrafe si afferma, preliminarmente, che la facoltà di azionare la tutela in materia di accesso in via incidentale ex art. 116 comma 2 c.p.a. “può essere riconosciuta solo alla parte ricorrente nel giudizio principale e non anche alla contro interessata nel medesimo giudizio per la quale, infatti, si pone una carenza di legittimazione attiva”.

A fortiori, alla società contro interessata, “non avendo la stessa proposto alcuna domanda sostanziale, neppure in via incidentale o riconvenzionale, nell’ambito del ricorso principale, non può esser riconosciuto il potere processuale d’innestare all’interno di quest’ultimo giudizio, il ricorso incidentale previsto dall’art. 116, comma 2, c.p.a., avente natura strumentale rispetto ad un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la possibilità di proporre un autonomo processo di accesso”.

Secondariamente, con riguardo al diniego opposto dalla Amministrazione alla società ricorrente nel giudizio principale, circa la istanza di accesso fatta da quest’ultima, il predetto diniego viene dal Collegio reputato illegittimo “non essendo condivisibile l’assunto dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs n. 50 del 2016, è differito fino al momento dell’aggiudicazione”.

Ed infatti, chiarisce il Collegio che, “ la norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa contenuta normalmente nella busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni”.

Pertanto la istanza di accesso presentata dalla ricorrente deve essere accolta. PC 


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Inserito in data 31/05/2017
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - 29 maggio 2017, n. 867

Principio della parità di accesso tra uomini e donne nelle Giunte municipali

“Il principio della parità di accesso alle cariche amministrative tra uomini e donne costituisce espressione di un principio fondamentale del nostro ordinamento costituzionale, sancito dagli artt. 3, 49, 51 e 97 Cost., sicché lo stesso opera direttamente quale limite conformativo all'esercizio del potere amministrativo, anche in mancanza di specifiche disposizioni attuative.”

Sul piano legislativo, l’art. 1, comma 137°, della Legge 7 aprile 2014, n. 56 (“Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”) costituisce la “trasposizione in sede normativa dei precitati principi”.

Ai sensi della predetta disposizione, “nelle giunte dei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento, con arrotondamento aritmetico.”

In coerenza con i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza 14.1.2010 n. 4, secondo cui gli articoli della Costituzione 51, comma 1, e 117 comma 7 hanno la finalità di ottenere “un riequilibrio della rappresentanza politica dei due sessi”, anche la disposizione di cui al comma 137°dell’art.1 della Legge 7 aprile 2014, n. 56 acquista “carattere permanente e finalistico.”

Da una mera interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma “emerge chiaramente l’intenzione del legislatore di attribuire valore cogente e precettivo alla percentuale indicata, come altresì rimarcato dall’endiadi «arrotondamento aritmetico», che denota la scelta di voler ancorare la percentuale minima di rappresentanza ad un valore numerico oggettivo, preciso e puntuale.”

Richiamando la giurisprudenza del Consiglio di Stato, il Tar chiarisce che “il limite intrinseco di operatività dell' art. 1, comma 137, della legge Delrio” risiede unicamente “nell'effettiva impossibilità, di carattere tendenzialmente oggettivo, di assicurare nella composizione della Giunta comunale la presenza dei due generi nella misura stabilita dalla legge”

.“Tale impossibilità deve esser adeguatamente provata attraverso lo svolgimento da parte del Sindaco di una preventiva, accurata ed approfondita attività istruttoria preordinata ad acquisire la disponibilità allo svolgimento delle funzioni assessorili da parte di persone di entrambi i generi, ed alla necessità di un'adeguata e puntuale motivazione sulle ragioni della mancata applicabilità del principio di pari opportunità (Cons. Stato sez V n.406/2016)”. GB

 



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Inserito in data 30/05/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 maggio 2017, n. 2533

Il rito appalti si applica anche agli affidamenti in house

Con la pronuncia rassegnata in epigrafe, la Quinta Sezione reputa che “anche le impugnazioni di affidamenti in house di contratti pubblici di lavori servizi e forniture siano soggetti allo speciale “rito appalti” di cui agli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 del codice del processo amministrativo, con il corollario del dimezzamento del termine per proporre il ricorso di primo grado, ai sensi del comma 5 di quest’ultima disposizione”.

A tale conclusione giunge il Collegio prendendo le mosse dall’ampiezza delle formule impiegate dal legislatore: «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture» e «atti delle procedure di affidamento», utilizzate nelle disposizioni richiamate. Come osservato, infatti, esse s’incentrano sul concetto di «procedure», che nella sua latitudine è idoneo a racchiudere tutta l’attività della pubblica amministrazione espressiva del suo potere di supremazia, che si manifesta attraverso atti autoritativi e nelle forme tipiche del procedimento amministrativo.

Con specifico riguardo alla materia degli affidamenti di contratti di lavori servizi e forniture, il concetto di «procedure» è pertanto idoneo ad individuare nel suo complesso la fase che precede la stipula del contratto, ove l’affidamento in questione è sempre espressione della presupposta potestà autoritativa della pubblica amministrazione, manifestatasi nelle forme del procedimento amministrativo cui quest’ultima è soggetta in via generale, nell’esercizio dei suoi poteri, ancorché intesi con modalità estremamente semplificate, con conseguenze che si riflettono in punto di riparto, determinando la giurisdizione del giudice amministrativo.

Ad avviso del Supremo Consesso, depone nel senso suddetto anche la medesima esigenza di spiccata celerità e la pienezza di tutela assicurata dai provvedimenti adottabili ai sensi degli artt. 120 – 124 c.p.a., dei contratti così stipulati.

In particolare, spicca la possibilità per il giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto stipulato sulla base del provvedimento autoritativo di affidamento, incidendo così sul rapporto negoziale già instaurato “a valle” di quest’ultimo.

Da questa ampiezza di poteri e dalle conseguenti ricadute su assetti contrattuali già instauratisi si coglie pertanto la necessità sul piano logico e di complessiva coerenza normativa di assoggettare anche gli affidamenti in house al rito concernente in generale i contratti di lavori, servizi e forniture.

In caso contrario, rimarrebbero immuni dal rischio di declaratoria giurisdizionale di inefficacia proprio gli affidamenti connotati maxime dalla violazione del principio generale, di matrice anche europea, dell’evidenza pubblica. DU

 



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Inserito in data 29/05/2017
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 22 maggio 2017, n. 852

Si al decreto di acquisizione sanante dopo la scadenza del termine fissato in sentenza

La questione posta al vaglio del Tar Catanzaro concerne la “possibilità o meno per l’amministrazione, condannata con sentenza a restituire l’immobile e pagare le somme dovute oppure, in alternativa, ad emettere il decreto di acquisizione sanante ex art.42-bis, di emettere il detto decreto una volta scaduto il termine fissato in sentenza”.

A tal proposito, il Supremo Consesso (sent. n. 2/2016) ritiene che, in tali casi, “non vi è ragione di discostarsi dai principi recentemente enucleati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (cfr. sentenza 15 gennaio 2013, n. 2), in sintonia con la Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza 18 novembre 2004, Zazanis), alla stregua dei quali l’effettività delle tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell’autorità o l’attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest’ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli artt. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti dianzi illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l’acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis”.

Sulla base di tali principi, il Collegio ritiene di potere trarre le seguenti conseguenze:

a) “a fronte di un giudicato alternativo, quale quello in questione, in caso di inadempienza dell’amministrazione, parte ricorrente potrà ricorrere allo strumento del ricorso per l’ottemperanza e, in tal caso, il commissario, se nominato dal giudice a mente dell’art.114, co 3, lett. d) c.p.a. ed insediatosi a seguito della persistenza dell’inottemperanza, darà esecuzione al giudicato e pertanto potrà emanare anche il provvedimento di acquisizione coattiva, in quanto previsto in sentenza”;

b) “la circostanza che in sentenza sia stato previsto un termine entro il quale restituire l’immobile e corrispondere le somme dovute oppure emanare il decreto di acquisizione coattiva non esclude la legittimità del provvedimento ex art.42-bis cit. emesso successivamente, ove tale adempimento costituisca pur sempre esecuzione secondo buona fede della sentenza e non frustri la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale”;

c) “l’amministrazione, condannata in via alternativa, perde il potere di emanare il provvedimento di acquisizione ex art.42-bis cit. solo se, a seguito dell’instaurazione del giudizio di ottemperanza (volto all’esecuzione del giudicato nella sua interezza), nella persistenza dell’inadempienza, si insedi il commissario ad acta nominato a provvedere in sua sostituzione”.

Conclusivamente, ritiene il Collegio che “persista il potere dell’amministrazione a emanare il provvedimento ex art.42-bis del d.P.R. n.327/2000 anche successivamente al termine fissato in sentenza, nella sussistenza dei presupposti di cui si è detto”. EF

 



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Inserito in data 26/05/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 maggio 2017, n. 2444

Il dimezzamento dei termini si applica anche per impugnare gli atti di esclusione

Il comma 5 dell’art. 120 cod. proc. amm. - che assoggetta al termine di «trenta giorni» il ricorso in sede giurisdizionale contro gli atti delle procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori, servizi e forniture-  si applica anche agli “atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura di gara”.

Tale assunto si desume da una “interpretazione letterale”delle formule normative in materia di appalti, corroborata da “un argomento di ordine logico”.

Sul piano testuale, l’art. 120 cod. proc. amm. assoggetta, “al c.d. rito appalti, ovvero al giudizio ordinario di legittimità che si svolge davanti al giudice amministrativo, e che ha ad oggetto la complessiva attività della pubblica amministrazione finalizzata alla conclusione di contratti, gli «atti delle procedure di affidamento» relative «a pubblici lavori, servizi o forniture».

In termini analoghi dispone “l’art. 119, comma 1, lett. a), cod. proc. amm., attraverso l’impiego dell’espressione «procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture».”

Entrambe le formule normative hanno “carattere generale” e si riferiscono “a tutti gli atti che si collocano nella fase c.d. pubblicistica di selezione del contraente privato e che precedono la stipula del contratto.”

Da ciò discende l’applicazione di tale regime “anche gli atti di esclusione di concorrenti adottati dalla stazione appaltante nell’ambito della procedura di gara”.

Sul piano logico, “deve essere esclusa l’opzione volta a distinguere regimi processuali diversi, sotto il fondamentale profilo del termine per proporre l’impugnativa giurisdizionale, nell’ambito di un’unica attività amministrativa quale appunto quella ad evidenza pubblica che precede la stipula di contratti”.

Se si guarda, peraltro, all’«intenzione del legislatore», “appare manifestamente irrazionale assoggettare a termini differenziati, ed in particolare esentare alcuni atti della procedura di gara dal dimezzamento del termine per ricorrere ai sensi del citato art. 120, comma 5, pur a fronte dell’unitaria esigenza di politica legislativa di celere definizione del contenzioso relativo all’attività contrattuale della pubblica amministrazione. Si tratta in particolare dell’esigenza che è alla base della specialità del rito appalti e della conseguente deroga prevista in materia rispetto al termine ordinario per ricorrere in sede giurisdizionale amministrativa.” GB

 



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Inserito in data 25/05/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 24 maggio 2017, n. 179

Concordato preventivo con continuità aziendale: illegittimità della esclusione dalla gara per mancata produzione di autorizzazione del Giudice delegato

Nella controversia i cui estremi sono emarginati in epigrafe ed avente ad oggetto la impugnativa delle note della Amministrazione provinciale con cui veniva richiesto alla ricorrente, società in concordato preventivo con continuità aziendale, di presentare - ai fini della ammissione alla  gara per l’affidamento di lavori pubblici -  l'autorizzazione del Giudice delegato, di cui all'articolo 110 del decreto legislativo n. 50/2016, il T.A.R. chiarisce preliminarmente che “il concordato con continuità aziendale non costituisce motivo di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, e dalla stipula dei relativi contratti”.

In secondo luogo si evidenzia che la procedura di concordato, per le finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di omologa ex art. 181 L.F., il quale rappresenta per la impresa assoggettatane, il passaggio dal regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura, al riacquisto della piena capacità di agire.

Motivo per cui è illegittima la richiesta, avanzata dalla Amministrazione trentina, di ottenere la autorizzazione del Giudice delegato al fine di poter partecipare alla gara, “pena la esclusione dalla stessa”, non sol perché contrastante con l’insegnamento giurisprudenziale in materia secondo il quale “il decreto di omologa conclude la procedura di concordato”, ma anche perché subordinare la ammissione alla gara al rilascio della predetta autorizzazione “contrasta con l’intero impianto normativo della legge fallimentare rivelandosi irragionevole, considerati i tempi normalmente non ristretti e neppure esattamente prevedibili, necessari per la chiusura della liquidazione, assoggettando la parte interessata ad un prolungato ed ingiustificato obbligo dimostrativo ed allegativo”.

Ne consegue l’annullamento degli atti impugnati, ferme le ulteriori determinazioni dell’amministrazione nel rispetto della presente decisione. PC

 



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Inserito in data 24/05/2017
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I - 22 maggio 2017, n. 830

Diritto di accesso e contratto secretato ex art. 162 d.lgs. n. 50/16: bilanciamento

I Giudici calabresi accolgono le doglianze della ditta ricorrente che, avendo preso parte ad una gara pubblica relativa a un contratto secretato ex art. 162 d.lgs. n. 50/16 - Codice dei Contratti pubblici, ha ricevuto un diniego tacito dinanzi alla propria istanza di accesso prospettata all’Amministrazione aggiudicatrice.

Il Collegio, se da un lato evidenzia come la segretezza imposta sulla gara incide senza dubbio sul diritto d’accesso, dall’altra parte ammonisce l’Amministrazione intimata, regolarmente costituitasi in giudizio, circa l’assenza di previsioni specifiche limitatamente alla ostensibilità di informazioni proprie di tali categorie di contratti secretati.

Si ricorda, pertanto, la necessità di contemperare l’interesse alla non divulgazione di notizie sensibili e il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost., al cui esercizio l’accesso è finalizzato; e come, altresì, le procedure del tipo di quelle odierne siano puntualmente sottoposte al vaglio del Giudice contabile.

In ragione della suddetta stratificazione giurisprudenziale e normativa e, pertanto, dell’estrema delicatezza della questione affrontata, i Giudici ricordano l’importanza dell’interprete.

E’ a questi, infatti, che spetta valutare, caso per caso, l’opportunità o meno circa l’accessibilità dei documenti.

Un ruolo simile non è  stato tenuto dall’Amministrazione resistente che, a fronte dell’istanza, non ha palesato specifiche ragioni per le quali tutti gli atti della procedura ad evidenza pubblica debbano ritenersi segreti. Né, peraltro, ha tenuto nella giusta considerazione il fatto che l’istanza fosse stata presentata da uno dei soggetti partecipanti alla gara e, quindi, perfettamente legittimato.

In ragione di ciò, il ricorso va accolto. CC 


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Inserito in data 23/05/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 maggio 2017, n. 689

Riparametrazione delle offerte tecnica ed economica

I Giudici fiorentini intervengono in tema di riparametrazione delle offerte, respingendo le doglianze di una ditta che, collocatasi seconda, impugna l’esito della gara proprio alla luce della suddetta tecnica, esercitata presuntivamente in modo iniquo.

Più nel dettaglio, la ricorrente ritiene che la commissione giudicatrice avrebbe proceduto all’assegnazione dei punteggi relativi alle offerte economiche previa riparametrazione degli stessi al punteggio massimo previsto dalla legge di gara, mentre i punteggi relativi alle offerte tecniche sarebbero stati attribuiti senza riparametrazione. Questo modo di procedere avrebbe alterato l’esito del confronto tra i concorrenti e lo stesso rapporto tra elemento economico ed elemento tecnico espresso dalla lex specialis: eseguendo la riparametrazione delle offerte tecniche, infatti, sarebbe la ricorrente a risultare vincitrice.

Il Collegio toscano, invece, non giunge alla medesima valutazione.

Si ritiene, infatti, che il punto di equilibrio tra riparametrazione delle offerte economiche o tecniche, o separatamente di una delle due – come nel caso di specie – appartenga soltanto alla discrezionalità della stazione appaltante.

Ad essa spetta ponderare gli elementi di valutazione e comparazione delle offerte nelle gare da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

Ricordano i Giudici che la riparametrazione ha la funzione di garantire l’equilibrio tra elementi qualitativi e quantitativi di giudizio, in modo da assicurare la completa attuazione della volontà manifestata al riguardo dalla stazione appaltante: applicando la riparametrazione a una delle componenti dell’offerta, o a entrambe, il peso ne viene valorizzato, nel senso che il concorrente titolare dell’offerta anche di poco migliore rispetto alle altre si vede assegnato il punteggio massimo astrattamente previsto, come se si trattasse di un’offerta tecnicamente eccellente, ovvero considerevolmente conveniente sul piano economico.

Pertanto, muovendosi da tali valutazioni, non vi è stato alcun vizio metodologico – quale quello addebitato alla stazione appaltante dalla ditta ricorrente.

Il fatto che siano stati riparametrate solo le offerte economiche dipende, infatti, unicamente da una valutazione discrezionale nei cui confronti la ricorrente si è limitata a critiche generiche, inidonee a evidenziare obiettivi profili di manifesta illogicità o irragionevolezza.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, con conseguente soccombenza della ricorrente. CC

 



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Inserito in data 22/05/2017
TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - ORDINANZA 9 maggio 2017, n. 13

Consiglieri regionali sospesi ex art. 8, d.lgs. n. 235/12 e quorum strutturale

I Giudici aostani si pronunciano in tema di sospensione (necessitata) dalla carica dei Consiglieri regionali – ex art. 8, d.lgs. n. 235/12 (cd. Legge Severino) - a seguito di condanna penale non definitiva, e sulle relative ripercussioni sull’operatività dell’Organo rappresentativo interno alla Regione.

Più nel dettaglio, il Collegio respinge le censure mosse dai ricorrenti esclusi, ritenendo non condivisibile l’asserito difetto funzionale dell’Organo inciso dalla suddetta sospensione.

Si ricorda, infatti, che la volontà del Legislatore del 2012 è, indubbiamente, quella di evitare che soggetti non più ritenuti idonei – a seguito di condanna – possano influenzare l’operatività dell’organismo.

E’ talmente netta la volontà di depotenziare tali soggetti al punto da impedirne il computo nel quorum strutturale: ovvero, si intende evitare che persino con l’assenza questi possano aver parte nel funzionamento del Soggetto pubblico.

Pertanto, a dispetto della previsione dello Statuto aostano – come è noto di rango costituzionale – tesa a custodire un quorum strutturale “ordinario”, i Giudici evidenziano l’impossibilità di modificare la ratio della Legge Severino e, per l’effetto, respingono le doglianze dei consiglieri esclusi, poiché non aventi titolo alcuno per accedere alle decisioni consiliari – alla luce delle suddette previsioni del Legislatore nazionale. CC

 



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Inserito in data 19/05/2017
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 11 maggio 2017, n. 108

Contrasto alla diffusione gioco d’azzardo patologico (GAP), distanze minime

Il Collegio della Consulta respinge le doglianze sollevate dal TAR pugliese – sezione distaccata di Lecce - che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2013, n. 43, recante «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP).

In particolare, i Giudici rimettenti contestano la parte in cui il Legislatore regionale ha vietato il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di sale da gioco e all’installazione di apparecchi da gioco nel caso di ubicazione a distanza inferiore a cinquecento metri pedonali dai luoghi cosiddetti “sensibili” ivi indicati.

Viene, in primo luogo, rigettata la prima doglianza di incostituzionalità – relativa al possibile vulnus all’art. 117 Cost. – posto che l’intervento del Legislatore pugliese, volto a regolamentare l’allocazione di sale da gioco nei pressi di punti cc.dd. maggiormente sensibili, è diretto alla tutela della salute – in linea, del resto, con i recenti interventi legislativi sul punto, sia in ambito nazionale che comunitario.

I Giudici della Consulta, in sostanza, racchiudono ed allocano l’operato del Legislatore pugliese nel quadro dell’art. 117 – 3’ co. Cost. – ovvero in materia di tutela della salute; in un ambito, quindi, rientrante nella potestà legislativa concorrente.

La Regione, quindi, ha potuto legiferare sul punto, sia pure nel quadro dei principi fondanti la materia – fissati dal Legislatore nazionale; non vi è stato, dunque, alcun superamento del parametro costituzionale di cui all’articolo 117 – come prospettato dai Rimettenti – posto che non di «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.) si tratta.

Parimenti destituita di fondamento la seconda censura, riguardo alla dedotta violazione dei principi fondamentali posti dallo Stato nella materia di competenza concorrente della «tutela della salute».

La Corte, infatti, dopo aver richiamato il diritto vivente in punto di legittimità degli interventi di contrasto della ludopatia basati sul rispetto di distanze minime dai luoghi “sensibili” senza la necessità della previa definizione della relativa pianificazione a livello nazionale, ha escluso la violazione – da parte del Legislatore pugliese - anche di questo parametro.

In guisa di ciò, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2013, n. 43, recante «Contrasto alla diffusione del gioco d’azzardo patologico (GAP)», come sollevate dai Giudici amministrativi leccesi. CC

 



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Inserito in data 18/05/2017
TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - 15 maggio 2017, n. 29

Giudizio sull’anomalia delle offerte e spessore del sindacato del GA

Il Collegio valdostano ricorda, con la pronuncia in commento, l’effettiva natura del giudizio sull’anomalia delle offerte presentate nel corso di una gara pubblica.

A fronte delle censure sollevate dalla ditta ricorrente, che contesta l’operato della Stazione appaltante sia sotto il profilo procedimentale che sotto l’aspetto prettamente contenutistico dell’opinione espressa, i Giudici confermano, invece, l’azione del Soggetto pubblico, ricordando principi basilari che persistono, anche alla luce della sopravvenuta disciplina ex D. Lgs. 50/2016.

Il Tribunale valdostano rammenta, infatti, come il giudizio sull’anomalia delle offerte presentate in una pubblica gara di appalto è un giudizio ampiamente discrezionale, espressione paradigmatica di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di manifesta e macroscopica erroneità e irragionevolezza, sicché il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della P.A., sotto i profili suindicati, ma non può procedere ad un’autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle sue singole voci, il che costituirebbe un’indebita invasione della sfera propria dell’Amministrazione (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. III, 6.II.2017, n. 514).

Ribadisce, altresì, come nell’esercizio del contestato giudizio di anomalia si persegua unicamente un interesse, quello pubblico.

Non v’è traccia alcuna del carattere sanzionatorio ravvisato dall’odierno ricorrente; vi è, semmai, la necessità di accertare se in concreto l’offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto.

Il giudizio di anomalia, ricordano i Giudici, mira quindi a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’Amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto, così che l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta è l’effetto della valutazione (operata dall’Amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 21.XI. 2016, n. 4888).

Sulla base di tali valutazioni e considerata, altresì, la totale carenza di mezzi istruttori – volti a palesare l’erroneità del suddetto giudizio – come lamentata da parte ricorrente, i Giudici rigettano il ricorso, stante l’infondatezza delle doglianze della ditta ricorrente. CC

 



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Inserito in data 17/05/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 16 maggio 2017, n. 694

Illegittimità delle ordinanze sindacali extra ordinem qualora non sorrette da adeguata istruttoria

Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la contestazione di una ordinanza sindacale di divieto di accesso ai parchi pubblici ai cani anche se accompagnati dai padroni, il Collegio accoglie il ricorso e ritiene la ordinanza impugnata illegittima in quanto essa non è stata preceduta dall’accertamento di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica .

Ha, infatti, ricordato il Tar che “l’esercizio del potere sindacale extra ordinem presuppone il requisito della necessità di un intervento immediato, al fine di rimuovere uno stato di grave pericolo per l'igiene e/o la salute pubblica e caratterizzato da una situazione eccezionale e/o imprevedibile da fronteggiare per mezzo di misure straordinarie di carattere provvisorio e, pertanto, non adeguatamente contrastabile tramite l'utilizzo degli ordinari mezzi di carattere definitivo previsti dall'ordinamento giuridico”.

Ciò in quanto, le ordinanze contingibili e urgenti, derogando al principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi, “impongono la precisa indicazione del limite temporale di efficacia, in quanto solo in via temporanea può essere consentito l'uso di strumenti extra ordinem, che permettono la compressione di diritti ed interessi privati con mezzi diversi da quelli tipici indicati dalla legge”.

Nel caso di specie si rileva che il provvedimento impugnato, oltre a non recare alcuna indicazione in ordine ai suoi limiti temporali di efficacia, “non è sorretto da una adeguata istruttoria in ordine all’esistenza effettiva di un’emergenza sanitaria o di igiene pubblica, tale evidentemente non potendo considerarsi la mera rilevazione di escrementi canini in ambito urbano comunale”.

D’altra parte il Tar ha ricordato che la Regione Toscana, con la legge n. 59 del 2009 ha disciplinato la tutela degli animali da affezione, stabilendo all'art. 19 che “ai cani accompagnati dal proprietario o da altro detentore è consentito l'accesso a tutte le aree pubbliche e di uso pubblico, compresi i giardini, i parchi e le spiagge; in tali luoghi è obbligatorio l'uso del guinzaglio e della museruola qualora previsto dalle norme statali”. Stabilendo al secondo comma che è vietato l'accesso ai cani solamente “in aree destinate e attrezzate per particolari scopi, come le aree gioco per bambini, qualora a tal fine sono chiaramente delimitate e segnalate con appositi cartelli di divieto”. PC

 



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Inserito in data 16/05/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 maggio 2017, n. 2299

Il GA non può entrare nel merito delle valutazioni della Commissione avanzamento Ufficiali

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato traccia le coordinate in ordine allo scrutinio giurisdizionale delle decisioni assunte dalla Commissione per il giudizio di avanzamento di cui agli artt. 25 e 26, l. 1137/1955, abrogati a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 66/2010.

A tal proposito, la Quarta Sezione nega al Giudice Amministrativo “il potere di entrare nel merito delle valutazioni della Commissione di avanzamento per gli Ufficiali delle forze armate, dovendo il giudizio essere limitato ad una generale verifica della logicità e razionalità dei criteri seguiti in sede di scrutinio” (Cons. St., Sez. IV, 11 dicembre 2014, n. 6084). Invero, “Questa tipologia di sindacato si applica sia in relazione ai quattro elementi di cui al comma secondo dell’art. 26, che in relazione al complessivo giudizio globale che ne deriva” (Cons. St., Se. IV, 11 febbraio 2011, n. 926).

In particolare, “il Giudice amministrativo non può sostituirsi alla Commissione di avanzamento nella valutazione della qualità dei singoli elementi presi in considerazione dall'art. 26 L. n. 1137/1955 (che prescrive che la valutazione per l'avanzamento a scelta degli ufficiali, deve essere effettuata sulla base di una molteplicità di elementi, ossia, qualità morali, di carattere e fisiche; benemerenze di guerra, comportamento in guerra e qualità professionali dimostrate durante la carriera, specialmente nel grado rivestito, con particolare riguardo all'esercizio del comando o delle attribuzioni specifiche, qualora richiesti da tale legge ai fini dell'avanzamento, al servizio prestato presso reparti o in imbarco; doti intellettuali e di cultura con particolare riguardo ai risultati di corsi, esami, esperimenti)”.

In conclusione, devono ritenersi inammissibili “le censure fondate su una analisi puntuale delle presunte aporie motivazionali a sostegno dei punti assegnati per ciascuna delle lettere di cui all'art. 26 suddetto o peggio, per ciascuna delle qualità prese in considerazioni dalle singole lettere” (Cons. St., Sez. IV, 1 marzo 2006, n. 1008). EF

 



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Inserito in data 15/05/2017
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 12 maggio 2017, n. 2

L’impossibilità sopravvenuta di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente da giudicato

Con la sentenza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sull’ottemperanza della sentenza n. 6/2016 emessa dall’Adunanza Plenaria, la quale, a sua volta, dichiarava esclusa la possibilità di ammettere la c.d. regolarizzazione del DURC negativo, sancendo il principio per cui “l’impresa deve essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.”

Con il presente ricorso in ottemperanza, le ricorrenti lamentano l’inadempimento del giudicato formatosi sulla sentenza della citata Plenaria da parte dell’Amministrazione.

Nel dettaglio, il danno lamentato è proprio quello connesso all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato, a causa dell’avvenuta ultimazione dei lavori oggetto della gara anteriormente alla pubblicazione della predetta sentenza dell’Adunanza plenaria.

Il Supremo Consesso al plenum, prendendo le mosse dalla natura dell’azione prevista dall’art. 112, comma 3, c.p.a., ne enuclea i presupposti e ne perimetra l’ambito soggettivo, pervenendo così ad un’attenta ricostruzione della forma di responsabilità ad essa sottesa.

Come emerge dalla lettera della citata norma, l’azione suddetta fornisce un rimedio risarcitorio, che evoca l’istituto della responsabilità civile. Tuttavia, rispetto al tradizionale risarcimento del danno – ad avviso della Plenaria - l’azione in esame presenta significativi profili di peculiarità.

Nella specie, siffatta previsione consente l’estensione del rimedio in esame alle ipotesi in cui il danno, pur in assenza di violazione o elusione del giudicato, è comunque “connesso” all’impossibilità di ottenerne l’esecuzione in forma specifica.

Da questo punto di vista, la norma ha una portata non solo processuale ma anche sostanziale, perché, in deroga alla disciplina generale della responsabilità civile - ossia quella prevista dall’art.1218 c.c. - ammette una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato.

Secondo quanto si legge nella pronuncia in esame “al giudicato amministrativo che riconosca la fondatezza della pretesa sostanziale, nasce ex lege, in capo all’amministrazione (ed in certi casi anche in capo alle parti private soccombenti) un’obbligazione, il cui oggetto (la prestazione) consiste proprio nel concedere “in natura” (cioè in forma specifica) il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza”.

Ne deriva che, rispetto alla disciplina civilistica sull’inadempimento dell’obbligazione, l’art. 112, comma 3, c.p.a. introduce “un elemento di specialità”, perché dispone che l’impossibilità derivante da causa non imputabile - non dovuta cioè a violazione o elusione del giudicato - non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura “risarcitoria”, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato (ossia in debito di valore).

Ad avviso del Supremo Collegio si profila, quindi, una forma di responsabilità oggettiva un’ottica, per l’appunto, “rimediale” della tutela, perché non è ammessa alcuna prova liberatoria fondata sulla carenza dell’elemento soggettivo, stante la sussistenza degli altri elementi minimi ed essenziali ai fini della configurazione di un illecito: ossia il rapporto di causalità e l’antigiuridicità della condotta (questo orientamento si è andato delineando a partire dalle sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006 della Corte costituzionale).

Quanto ai soggetti cui estendere il suddetto obbligo risarcitorio, si tratta di questione di rilevanza cruciale, in quanto le società ricorrenti hanno chiesto la condanna in solido sia dell’amministrazione sia della parte privata che, nelle more del giudizio, come anticipato, eseguiva il contratto, rendendo impossibile l’esecuzione in forma specifica del subentro nel rapporto contrattuale.

A tale riguardo, richiamando quella giurisprudenza amministrativa che ammette la possibilità per il giudice amministrativo sia di pronunciare la condanna in solido al risarcimento del danno sia di ripartire le quote interne di responsabilità, l’Adunanza dichiara gravante su tutte la parti soccombenti l’obbligo di eseguire il giudicato, ivi compresa la parte privata. In base all’art. 41, comma 2, ultimo periodo c.p.a., infatti, il privato non è destinatario di una domanda di risarcimento del danno contro di lui diretta, ma solo destinatario della notificazione della domanda proposta contro l’amministrazione, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato. Ne deriva che lo speciale regime di responsabilità oggettiva sopra delineato, possa estendersi anche ai privati soccombenti.

Così argomentando, si delinea, inoltre, un’azione di regresso esperibile dall’amministrazione, collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco (in presenza, tuttavia, di un’apposita domanda in tal senso, non sussistente nel caso di specie).

Tuttavia la peculiarità della vicenda, legata e influenzata dall’andamento processuale della controversia che ne è insorta, non è idonea – ad avviso del Collegio - a far venir meno l’obbligazione ex lege scaturente dal fatto oggettivo dell’impossibilità di eseguire il giudicato, proprio per la chiarita irrilevanza di una colpa.

Le sopra evidenziate caratteristiche in termini “oggettivi” della responsabilità delineata dall’art. 112, comma 3, c.p.a., peraltro, si allineano peraltro ad un costante orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea,  che, in materia di mancata aggiudicazione di un contratto d’appalto, sgancia la responsabilità dell’amministrazione  aggiudicatrice dalla colpa, poiché  riconduce il rimedio risarcitorio al principio di effettività della tutela previsto dalla stessa normativa comunitaria (Corte di giustizia, sez. III, 30 settembre 2010, C-314/09, Stadt Graz).

La Plenaria ribadisce, inoltre, i più volte ribaditi principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione. In particolare, dichiara che, nel caso di mancata aggiudicazione, “il risarcimento del danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto)”, poiché considerato chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti.

Il Supremo Consesso non manca di precisare che spetta all’impresa danneggiata la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, chiarendo che “nell’azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento”, che si giustifica “in quanto sussista la necessità di equilibrare l’asimmetria informativa tra amministrazione e privato, la quale contraddistingue l’esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell’azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella di risarcimento dei danni”.

Quanto al “mancato utile”, il Consiglio al plenum ne chiarisce la portata: spetta integralmente “solo se si dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa”.

In difetto di tale dimostrazione, viceversa, vale la presunzione che l’impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori ovvero che avrebbe dovuto agire in tal senso, secondo i dettami dell’ordinaria diligenza, volta a escludere ogni forma di concorso del danneggiato nell’aggravamento del danno, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum. DU

 



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Inserito in data 12/05/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 9 MAGGIO 2017, n. 2119

Termine dimididato anche per impugnare il diniego di sostituzione del contraente

Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la impugnazione della sentenza resa dal T.A.R. riguardante il diniego di subentro nel contratto per i lavori di riqualificazione di un complesso edilizio, il Collegio, non condividendo il motivo di doglianza formulato dalla impresa ricorrente (secondo cui il termine dimidiato previsto dall’art. 120 comma 5 del c.p.a. avrebbe carattere eccezionale, applicabile esclusivamente per il caso di ricorso avverso provvedimenti di aggiudicazione, pertanto non estensibile analogicamente ad ipotesi non espressamente disciplinate), partendo dal dato letterale della disposizione su richiamata, afferma che “non è, corretto affermare che la dimidiazione del termine per ricorrere riguardi solo i giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, risultando la norma applicabile a tutti gli atti che concernono le procedure di affidamento dei contratti pubblici, ivi compresi quelli che intervengono nell’eventuale fase di sostituzione del contraente, disciplinata dall’art. 116 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

Invero, come viene sostenuto dal Collegio, anche in relazione al diniego di subentro di nuovo contraente (e più in generale agli atti che si inseriscono nell’ambito delle procedure di affidamento) “si pone quell’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di celere definizione delle controversie che è alla base del dimezzamento del termine per impugnare”.

Ne consegue che il diniego di autorizzazione al subentro, espresso ai sensi dell’art. 116, comma 2, del citato decreto legislativo n. 163 del 2006, va impugnato nel termine breve di trenta giorni.

Conseguentemente la Sezione ritiene inconferente il riferimento fatto dall’appellante al divieto di applicazione analogica delle norme di carattere eccezionale, “atteso che la fattispecie per cui è causa rientra, pleno iure, tra quelle espressamente disciplinate dall’art. 120, comma 5, del codice del processo amministrativo”. PC 

 



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Inserito in data 11/05/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 maggio 2017, n. 2173

Il collegamento sostanziale tra imprese è una situazione di fatto

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato accoglie la domanda di annullamento dell’aggiudicazione di un appalto, per un’asserita situazione di collegamento sostanziale fra un’impresa partecipante alla gara e il raggruppamento temporaneo di imprese (da ora “r.t.i”) aggiudicatario, ribaltando il giudizio di primo grado.

Ad avviso del Collegio, emerge con evidenza la violazione dell’art. 38, comma 1, lettera m-quater), del d.lgs. nr. 163/2006, lamentata dal ricorrente, poiché il r.t.i. aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso dalla gara, in considerazione della situazione di collegamento sostanziale esistente fra la sua mandante e altra impresa partecipante in costituendo r.t.i., essendo emerso che la medesima persona fisica ricopriva la carica di Presidente del Consiglio di Amministrazione in entrambe le società.

Ripercorrendo l’evoluzione normativo – giurisprudenziale del “collegamento sostanziale” fra imprese partecipanti a una medesima gara - culminata nell’introduzione nel 2009 della citata lettera m-quater) – emerge come il legislatore abbia cristallizzato il principio comunitario per cui “non può mai predicarsi una presunzione assoluta di condizionamento delle offerte, tale da comportare l’automatica esclusione delle imprese interessate, atteso che tale grave determinazione può conseguire soltanto all’esito di una valutazione discrezionale fondata su di un quadro indiziario tale da denunciare univocamente che le due offerte possano essere ascrivibili a un unico centro decisionale”.

Al riguardo, sottolinea il Supremo Consesso che la formula degli “indizi gravi, precisi e concordanti”, è da tempo impiegata dalla giurisprudenza (nel silenzio del legislatore) per fornire alle stazioni appaltanti un parametro obiettivo e tendenzialmente certo su cui esercitare una valutazione discrezionale, in ordine alle situazioni di collegamento fatto fra imprese concorrenti.

Tale formula è stata però recepita solo parzialmente dalla novella del 2009, laddove si è preferito, laddove si è preferito fare un più generico riferimento a “univoci elementi”, con la precisazione che questi devono attenere a una realtà oggettivamente verificabile, e cioè a una accertata “relazione di fatto” tra imprese partecipanti a una medesima gara, ed essere idonei a denunciare la verosimile provenienza delle relative offerte da un unico centro decisionale.

Così stando le cose, è proprio prendendo le mosse dalla comunanza dell’organo di vertice fra le due imprese partecipanti alla procedura selettiva per cui è causa, che la Sezione deduce quell’elemento che, per la sua consistenza e gravità, è idoneo e sufficiente - anche di per sé solo - a denunciare l’esistenza di una relazione di fatto tra i concorrenti interessati, tale da far ritenere che le rispettive offerte potessero provenire da un unico centro decisionale

Inoltre, nel corso del giudizio il Collegio rilevava ulteriori rapporti di collaborazione intrattenuti in passato dalle due imprese de quibus, segno, quest’ultimo, che, al di là del dato “formale” della comunanza della persona del Presidente, è un ulteriore indice dei suddetti rapporti di cointeressenza e sinergia.

Invero, dal delineato assetto societario, non può ritenersi possibile escludere in radice la reciproca conoscenza o conoscibilità delle rispettive strategie imprenditoriali e, quindi, anche delle offerte formulate nella gara di che trattasi.

Il Collegio ribadisce che per pacifica e consolidata giurisprudenza, ai fini della sussistenza della situazione di collegamento sostanziale fra imprese rilevante ai fini della loro esclusione dalla gara, la valutazione da compiere sull’unicità del centro decisionale postula che sia provata l’astratta idoneità della situazione a determinare un concordamento delle offerte, e non anche necessariamente che l’alterazione del confronto concorrenziale vi sia stata effettivamente e in concreto (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 16 febbraio 2017, nr. 496; id., sez. III, 23 dicembre 2014, nr. 6379; id., sez. V, 18 luglio 2012, nr. 4189).

In definitiva, e contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, nel caso esaminato sussisteva una situazione idonea a determinare l’esclusione dalla procedura selettiva delle imprese in questione, e quindi anche del r.t.i. risultato aggiudicatario. DU

 



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Inserito in data 10/05/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II - 9 maggio 2017, n. 5573

Sulla proroga automatica delle concessioni demaniali marittime

Il caso in esame, sottoposto al vaglio del Collegio, verte su una richiesta di proroga di concessione d’area demaniale marittima di una S.r.l. per effetto dell’art. 34 duodecies del d.l. n. 179/2012, negata dal Comune.

Quest’ultimo, infatti, riteneva il termine di concessione prorogabile solo in presenza di una certa rilevanza economica degli investimenti e delle opere da realizzare, per concessioni di durata compresa tra i sei ed i venti anni.

Con motivi aggiunti, ritualmente notificati, parte ricorrente chiedeva altresì, l’annullamento della determinazione con la quale, consequenzialmente, era stato disposto lo sgombero dell'area demaniale occupata dal proprio stabilimento balneare, nonché degli ordini di introito, emessi a titolo di indennizzo per occupazione senza titolo di area demaniale marittima dei periodi successivi alla scadenza, poiché illegittimi e posti in essere in violazione degli artt. 3 e ss. e 21 nonies della l. n. 241/1990.

Il Tar adito respinge le censure di parte ricorrente ritenendole infondate.

Il Collegio affronta la questione prendendo le mosse dall’articolata esegesi normativa dell’attuale disciplina in materia di concessioni demaniali marittime.

Nella specie, evidenzia che, sebbene da un lato, l’art. 1, comma 18 del d.l. n. 194/2009, originariamente, si limitava “solo a prorogare fino al 31.12.2012 la scadenza delle concessioni in essere al momento dell’entrata in vigore del citato decreto legge”, dall’altro, le modifiche introdotte in sede di conversione, ne avessero prolungato il termine, “facendo salve”, così, le disposizioni di cui all’art. 3, comma 4 bis, del d.l. n. 400/1993 (“Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime”), come convertito dalla legge n. 494/1993.

Il Collegio osserva, inoltre, come l’art. 3 della legge finanziaria 2007 prescrive che, sebbene le concessioni possano avere durata superiore a sei anni e comunque non superiore a venti anni in ragione dell'entità e della rilevanza economica delle opere da realizzare, siffatte disposizioni, esse non si applicano alle concessioni rilasciate nell'ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali dalle autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84 (“Riordino delle disposizione in materia di Autorità Portuali”).

Quindi, dal quadro normativo attualmente vigente è possibile dedurre un termine di durata delle concessioni di beni demaniali marittimi con finalità turistico-ricreative, prorogabile, ma in ossequio al limite massimo ex art. 3 d.l. n. 400/1993, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 494/1993.

È in questo quadro che, ad avviso del Collegio, s’inserisce la disposizione di cui all’art. 34 duodecies del d.l. n. 179/2012 invocata, che ha appunto disposto la proroga automatica delle suddette concessioni fino al 31.12.2020.

Tuttavia, tale modifica ha sollevato non pochi dubbi di compatibilità della disciplina così delineata con i principi comunitari (libertà di stabilimento, non discriminazione, tutela della concorrenza, trasparenza, parità di trattamento), suscitando tutta una serie di problemi interpretativi, poi risolti con la sentenza del 14 luglio 2016, dalla Corte di Giustizia, che ne ha sancito il contrasto in contrasto sia con l’art. 12, par. 1-2, della direttiva 2006/123/CE sia con l’art. 49 TFUE, qualora si procedesse senza il previo espletamento di procedure di selezione tra i candidati.

Così argomentando, il Supremo Consesso, per un’interpretazione dell’attuale disciplina conforme al diritto comunitario conclude anch’esso per il divieto di rinnovo automatico predetto, se effettuato senza il previo espletamento della procedura ad evidenza pubblica e rigetta il ricorso.

Quanto alle richieste di indennizzo dell’Amministrazione per occupazione sine titulo dell’area demaniale, il Tar ritiene che costituiscono mera conferma dell’avvenuta scadenza della concessione in esame, alla stessa stregua del provvedimento di sgombero. DU

 



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Inserito in data 09/05/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 5 maggio 2017, n. 647

La Regione predispone elenco Comuni abilitati ad imporre l’imposta di soggiorno

L’art. 4, co.1, d.lgs. n. 23/2011 consente ai comuni capoluogo e alle unioni di comuni di istituire un’imposta di soggiorno a carico di coloro che alloggiano nelle strutture ricreative situate sul proprio territorio.

Per gli altri comuni, invece, risulterebbe necessaria “l’inclusione nell'elenco regionale delle località turistiche, previo accertamento da parte della regione stessa della vocazione turistica del comune”.

“Secondo una condivisibile interpretazione l'attribuzione alla Regione, ai sensi dell'art. 4, d.lgs. 14 marzo 2011 n. 23, del compito di predisporre gli elenchi dei Comuni abilitati ad imporre l'imposta di soggiorno, s'inquadra nel riparto di competenze tra Stato e Regioni disegnato dall'art. 117 Cost. che, nell'ambito della legislazione concorrente, assegna alla Regione il coordinamento del sistema tributario”.

Da ciò discende che, “ anche per ragioni di ordine costituzionale, riveste carattere fondamentale l'accertamento dell'effettiva vocazione turistica del Comune nel quale si intenda istituire l'imposta di soggiorno; accertamento che l'art. 4 del d.lgs. n. 23/2011 ha rimesso all'esclusivo scrutinio della Regione (con l'eccezione delle Unioni di Comuni e dei capoluoghi di Provincia per i quali vige una sorta di presunzione di legge), con una disposizione da ritenersi ragionevole e volta a conservare la corrispondenza tra carattere prevalentemente turistico del soggiorno dei non residenti e imposizione tributaria” (T.A.R. Molise, 25/07/2014, n. 4779).

Né risulta sufficiente “l’inclusione nell’elenco dei comuni ad economia prevalentemente turistica, adottato ai sensi della l. reg. n. 28/1999, di recepimento del d.lgs. n. 114/1998”, la cui finalità è diversa da quella di cui al del d.lgs. n. 23/2011, “al quale si riconnette un potere impositivo che, per il suo corretto esercizio, richiede il rigoroso rispetto di tutti i passaggi procedurali dal medesimo stabiliti”. GB

 



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Inserito in data 08/05/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII, 5 maggio 2017, n. 2420

Procura alle liti nel PAT: ammissibile anche se apposta a margine

La procura ad litem può essere ritualmente apposta a margine dell’atto introduttivo del giudizio.

Tale assunto si desume dal tenore dell’art. 8, comma 3, DPCM 40/2016 che, nel rendere alcune precisazioni in ordine alla procura alle liti, non ne esclude l’apposizione a margine.

Ai sensi del predetto articolo, infatti, “La procura alle liti si considera apposta in calce all'atto cui si riferisce: a) quando è rilasciata su documento informatico separato depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce; b) quando è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine, depositato con modalità telematiche unitamente all'atto a cui si riferisce. GB

 



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Inserito in data 06/05/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. III - 3 maggio 2017, n. 2358

Sull’obbligo legale inderogabile di indicare gli oneri di sicurezza aziendali

La questione posta al vaglio del Collegio campano involge principalmente la legittimità dell’esclusione da una gara di un operatore per “insussistenza della dichiarazione relativa agli oneri di sicurezza aziendali interni, in base a quanto dispone l’art. 95, comma 10, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50”, a tenore del quale: <<Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro>>.

Invero, è acclarato che “la nuova disciplina fissa un obbligo legale inderogabile a carico dei partecipanti alla gara pubblica, cosicché resta ininfluente che gli atti della procedura non dispongano espressamente al riguardo, operando piuttosto il meccanismo dell’eterointegrazione con l’obbligo discendente dalla norma primaria”.

Né, d’altra parte, può ammettersi il soccorso istruttorio (previsto dall’art. 83, nono comma, del d.lgs. n. 50 del 2016 per <<la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica>>), “in quanto gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all’offerta economica e, per la loro finalità di tutela della sicurezza del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale” (cfr. T.A.R. Campania, sez. I di Salerno, 5/1/2017 n. 34 e T.A.R. Veneto, sez. I, 21/2/2017 n. 182).

In particolare, le argomentazioni ex adverso addotte vanno disattese, fondandosi su un orientamento maturato nel regime previgente, in base alla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 19 del 2016 (orientamento di recente ribadito, ma pur tuttavia con esplicito riferimento alle “gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del c.d. nuovo Codice dei contratti pubblici”: Cons. Stato, sez. V, 7/3/2017 n. 1073; conf., Cons. Stato, sez. V, 7/11/2016 n. 4646).

Neppure rileva “il richiamo alle ordinanze C.G.U.E. (Sesta Sezione) del 10/11/2016, trattandosi anche in tal caso di decisione emessa nei riguardi della normativa previgente ed in relazione alla Direttiva abrogata 2004/18 (come esplicitato ai punti 21, 22 e 23 dell’ordinanza nella causa C-697/15; idem per le ulteriori ordinanze CGUE, in differenti punti)”.

Difatti, in relazione al regime antecedente, “la Corte di Giustizia ha ritenuto contrastante con il principio della parità di trattamento e con l’obbligo di trasparenza l’esclusione per omessa separata indicazione nell’offerta dei costi aziendali, la quale sia frutto di un’interpretazione e non risulti espressamente, oltre che dai documenti di gara, “dalla normativa nazionale” (cfr. punto 34 ord. cit.)”.

Viceversa, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016 è superata ogni incertezza interpretativa, nel senso sopra illustrato dell’inderogabilità dell’obbligo derivante dall’art. 95, comma 10 (cfr. T.A.R. Campania, sez. I di Salerno, 6/7/2016 n. 1604: “tale disposizione configura un preciso ed ineludibile obbligo legale in sede di predisposizione dell’offerta economica”; cfr., altresì, T.A.R. Veneto, sez. I, 21/2/2017 n. 182, cit.: “in presenza di una così esplicita disposizione di legge, è del tutto irrilevante che né la lex specialis di gara (bando e disciplinare), né il modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante avessero previsto la dichiarazione separata di tali oneri, discendendo direttamente ed inequivocabilmente dalla legge l’obbligo (rectius, l’onere) di effettuare la dichiarazione stessa: il ché – occorre aggiungere – è proprio il quid novi contenuto nella disciplina dettata sul punto dall’art. 95, comma 10, cit., che ha inteso porre fine, una volta per tutte, ai ben noti contrasti insorti nel preesistente assetto normativo”; (…) né, va infine rimarcato, emergono allo stato profili di incompatibilità fra le disposizioni di diritto interno che impongono, ora in modo tassativo, l’indicazione degli oneri in questione ed il pertinente paradigma normativo eurounitario (C.d.S., Sez. V, ord. n. 5582/2016, cit.)”). EF

 



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Inserito in data 05/05/2017
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I - 3 maggio 2017, n. 281

L’amicizia su Facebook con gli esaminatori non è causa di incompatibilità

“Nei pubblici concorsi i componenti delle commissioni esaminatrici hanno l’obbligo di astenersi solo ed esclusivamente se ricorre una delle condizioni tassativamente previste dall’art. 51 del c.p.c., senza che le cause di incompatibilità previste dalla predetta norma, proprio per detto motivo, possano essere oggetto di estensione analogica (Cons. Stato, sez. V, 24 luglio 2014, n. 3956, T.a.r. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 28 dicembre 2016, n. 986)”.

Le c.d. “amicizie su Facebook”non concretizzano una delle cause di incompatibilità di cui all’art. 51 c.p.c., risultando “del tutto irrilevanti”, atteso che “lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute”.

“Come è noto, Facebook implica una possibile diffusione del materiale pubblicato sul profilo dell'utente a un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti se l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni che peraltro il social network consente. “

“Né si può pretendere che gli utenti (escluso un utilizzo sconveniente del mezzo) debbano controllare ogni possibile controindicazione del social network posto che esso, per come si è evoluto, costituisce ormai una modalità di comunicazione difficilmente classificabile.”

Allo stesso modo, le foto “scaricate” dal social network “non valgono a provare la “commensalità abituale” prevista dall’art. 51 c.p.c., intesa come non occasionalità della stessa.

La suddetta prova dell’abitualità “non può essere certo fornita mediante Facebook”. GB

 



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Inserito in data 04/05/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 aprile 2017, n. 1960

I “claims” dalla veridicità non verificabile, integrano pratiche di pubblicità ingannevole

Con la sentenza in epigrafe, la Sesta Sezione accoglie l’appello dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, avente ad oggetto pratiche di pubblicità ingannevole poste in essere da una nota multinazionale nel campo delle acque minerali.

Nella specie, la scorrettezza lamentata - che si appuntava sull’apoditticità dei messaggi della campagna pubblicitaria, con la quale la società affermava il contenimento nel consumo di plastica delle bottiglie del 30% e, dunque, di energia nella produzione, pari a 16.000 ettari di nuovo bosco – si estrinsecava nell’uso da parte del professionista di “claims” pubblicitari diffusi, in cui la compatibilità ambientale delle bottiglie veniva prospettata ai consumatori attraverso “vanti prestazionali specifici e quantificati”.

Si accertava,  segnatamente, “la scorrettezza dei messaggi, per ciò che riguarda le affermazioni rivolte a enfatizzare la compatibilità ambientale della nuova linea di bottiglie utilizzate per la commercializzazione dell’acqua minerale, in relazione a una caratteristica percepita dai consumatori come fondamentale nelle proprie scelte di acquisto, in quanto, nei termini vantati, sfornite di qualsiasi evidenza documentale attendibile idonea a renderle verificabili, come previsto ai sensi degli articoli 20 e 21, comma 1, lett. b) del codice del consumo”.

Dinanzi a tali asserzioni, l’Autorità avviava il procedimento, rilevando il possibile contrasto dei messaggi descritti con gli articoli 20 e 21, lett. b), del codice del consumo, con riferimento, in particolare, alla possibile ingannevolezza dei messaggi rispetto ai risultati ottenuti dal professionista nella riduzione del peso delle bottiglie utilizzate e al conseguente risparmio energetico.

Contestualmente, venivano richieste alla multinazionale informazioni e documentazione giustificative, idonee a comprovare le affermazioni contenute nei messaggi, le quali – emergeva nel corso dell’istruttoria – venivano acquisite da quest’ultima, con l’avvio del procedimento stesso.

Così, l’Autorità vietava la diffusione ulteriore dei messaggi pubblicitari, comminando alla società una sanzione amministrativa pecuniaria di 70.000 euro.

Ripercorrendo la tesi difensiva dell’Autorità, il Supremo Consesso richiama, in via preliminare, gli orientamenti del 25.5.2016 della Commissione europea, per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali poste in essere dagli imprenditori nei confronti dei consumatori.

In particolare, siffatti orientamenti chiariscono che, quando le asserzioni non sono veritiere o non possono essere altrimenti verificate, la pratica è di frequente definita «greenwashing», ovvero appropriazione indebita di virtù ambientaliste finalizzata alla creazione di un'immagine "verde".

L’obiettivo è quello di creare una base giuridica, sintetizzabile in due principi essenziali: a) “i professionisti devono presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore” (ai sensi dell’art. 6 e 7 della Direttiva); b) “i professionisti devono disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata” (ai sensi dell’art. 12 della Direttiva).

A tal fine, è necessario che le asserzioni ambientali siano comprovate.

Ad avviso della Sesta Sezione, la questione cruciale s’incentra nel vagliare la complessiva verificabilità e attendibilità della documentazione presentata dal professionista su richiesta dell’autorità, a fronte del carattere assertivo e della precisione quantitativa con cui, nel messaggio stampa, si esprimevano i vanti ambientali della bottiglia “eco friendly”.

Non emergendo nel caso di specie, alcuno studio del professionista, idoneo a dimostrare e/o certificare la veridicità e attendibilità delle affermazioni circa le caratteristiche dei prodotti pubblicizzati, il Collegio ritiene che i suddetti “claims” integrino una pratica commerciale da ritenersi scorretta, ai sensi del Codice del Consumo. DU 


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Inserito in data 03/05/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 27 aprile 2017, n. 1955

La precedente risoluzione contrattuale non definitiva non comporta esclusione dalla gara

Nella decisione emarginata in epigrafe il Collegio chiarisce che l’art. 80 comma 5 lett. c) del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), “consente alle stazioni appaltanti di escludere dalle procedure di affidamento le società partecipanti che abbiano commesso gravi illeciti professionali tali da renderne dubbia la loro integrità o affidabilità, tra i quali, le significative carenze nella esecuzione dei lavori di un precedente appalto o concessione che, dunque, ne abbiano causato la risoluzione anticipata”. 

Prosegue il Collegio, “è inoltre necessario che l’illecito professionale risulti confermato all’esito di un giudizio già definito” e non pendente. Situazione non riscontrabile nel caso di specie in quanto la risoluzione contrattuale precedentemente pronunciata da altra Stazione appaltante risulta essere “impugnata in sede civile ed in sede amministrativa”, cosicché è pacifico ritenere che il giudizio avente ad oggetto la risoluzione anticipata del rapporto non sia ancora giunto a definizione.

Sostanzialmente il Collegio mette in rilievo che la disposizione predetta si applica soltanto qualora gli illeciti professionali giustificanti una risoluzione anticipata non siano contestati in giudizio dall’appaltatore privato, oppure qualora siano stati giudizialmente accertati. Situazione non riscontrabile nel caso posto alla attenzione del Collegio proprio perché difetta il presupposto della acquiescenza e/o della definitività in quanto la esclusione è stata prontamente impugnata dalla società esclusa innanzi alla Autorità, sia amministrativa che civile.

In particolare il Collegio specifica che “sebbene la elencazione dei gravi illeciti professionali contenuta nella norma predetta non sia tassativa, ma esemplificativa”, è altresì vero “l’elenco esemplificativo contenuto in essa si riferisca espressamente a significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni”.

La Sezione giunge alla predetta conclusione in base ad una interpretazione letterale (ex art. 12 delle preleggi) della disposizione che vuole che al provvedimento di risoluzione “sia stata prestata acquiescenza o che lo stesso sia stato confermato in sede giurisdizionale”. PC

 



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Inserito in data 02/05/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 28 aprile 2017, n. 5038

Effetti della translatio iudicii sulla domanda “riproposta”

Il ricorso giunge al Collegio romano a seguito della translatio iudicii operata in applicazione dell’art. 11 c.p.a., dopo che l’AGO aveva declinato la giurisdizione.

E’ vero che, in quella sede, “il ricorrente aveva proposto –in consonanza con i poteri riconosciuti alla giurisdizione ordinaria cui egli si era rivolto- una domanda che non comprendeva un petitum di annullamento degli atti della procedura concorsuale, bensì una domanda di accertamento del diritto alla superiore qualifica ed al risarcimento dei danni” conseguenti al mancato riconoscimento da parte dell’Amministrazione interessata.

In particolare, occorre considerare che <<(come affermato dal Giudice della giurisdizione: cfr. Cassazione civile sez. lav. 22 luglio 2016 n. 15223), l'unicità del giudizio, dal quale discende la salvezza degli effetti della domanda originaria, riconosciuta dall'art. 59 della l. n. 69 del 2009, sussiste anche quando la domanda non venga "riassunta", bensì "riproposta", con le modifiche rese necessarie dalla diversità di rito e di poteri delle diverse giurisdizioni in rilievo, sicché al momento della prosecuzione la parte può anche formulare una nuova e distinta domanda, connessa con quella originariamente proposta, dovendosi riconoscere all'atto di prosecuzione anche natura di atto introduttivo di un nuovo giudizio limitatamente al diverso "petitum" ed alla diversa "causa petendi", senza che, rispetto ad esso, operino gli effetti che discendono dalla "translatio", ferma restando la maturazione delle sole decadenze sostanziali e non anche di quelle endoprocessuali, suscettibili di operare soltanto in relazione al rito applicabile dinanzi al giudice "ad quem">>.

Nel merito, i Giudici  escludono la violazione del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato e a tempo indeterminato, allorquando, per tale voce, la P.A. abbia riconosciuto il servizio prestato dal dipendente ceduto per mobilità. EF 



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Inserito in data 29/04/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II - ORDINANZA CAUTELARE 27 aprile 2017, n. 2012

Sospesa ordinanza contingibile e urgente che vieta foto a pagamento con i centurioni

Nella pronuncia in esame il Tar sospende in via cautelare l’efficacia dell’ordinanza contingibile ed urgente con la quale “è stato disposto il divieto in un’ampia zona, costituente praticamente tutto il Centro storico di Roma, di qualsiasi attività che prevede la disponibilità di essere ritratto come soggetto di abbigliamento storico, in fotografie o filmati, dietro corrispettivo in denaro".

Il Tar, rilevando che “le ordinanze contingibili ed urgenti rappresentano il rimedio approntato dall'ordinamento per far fronte a situazioni di emergenza impreviste”, non ravvisa la sussistenza di tale presupposto nel caso di specie.

Le deroghe alla normativa primaria, da parte delle autorità amministrative munite di potere di ordinanza sono consentite, infatti, solo se «temporalmente delimitate» e, comunque, nei limiti della «concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare» (Corte Cost., sentenza n. 115 del 2011).

In particolare, “gli episodi richiamati nelle relazioni depositate in atti, non appaiono di entità tale da configurare una vera e propria emergenza, non altrimenti fronteggiabile (cfr. Cons. St., sez. III, sentenza n. 2697 del 29.5.2015) e non giustificano, pertanto, il divieto indiscriminato e più volte reiterato, di svolgere un’attività lecita e comunque avente caratteristiche analoghe a quella dei c.d. artisti di strada, oggetto di specifica regolamentazione da parte di Roma Capitale”.

Peraltro, non risulta neppure avviata da parte del comune la regolamentazione dell’attività svolta dai c.d. centurioni. GB 


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Inserito in data 28/04/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2017, n. 1894

La dismissione di partecipazioni pubbliche costituisce iure privatorum

La vicenda oggetto della pronuncia in epigrafe, prende le mosse dalla declinazione di giurisdizione del giudice amministrativo, su una controversia avente ad oggetto la procedura ad evidenza pubblica per la cessione delle azioni di una società per azioni e il collegato diritto di prelazione.

Nella specie, con ricorso al T.A.R., s’impugnavano gli atti, con i quali l’amministrazione comunale rendeva nota l’impossibilità di procedere all’aggiudicazione definitiva - e alla stipula del contratto - per effetto dell’esercizio del diritto di prelazione da parte della controinteressata, secondo quanto previsto dallo statuto della società, nonché il bando di gara, nella parte in cui subordinava il perfezionamento dell’aggiudicazione definitiva - e la stipula del contratto - al mancato esercizio del diritto di prelazione da parte degli altri soci.

Ad avviso del Supremo Consesso, nel caso in esame, ad esser contestato non è tanto l’esito della gara e le sue modalità di svolgimento, ma il valido esercizio da parte del socio privato del diritto di prelazione, riconosciuto da una clausola dello statuto societario.

L’oggetto principale della lite è, quindi, la validità di un atto negoziale (la clausola statutaria che prevede il diritto di prelazione) e il conseguente legittimo esercizio di un diritto soggettivo (il diritto di prelazione), il che conferma la sussistenza della giurisdizione ordinaria.

Richiamato il criterio generale di riparto di giurisdizione in materia di società a partecipazione pubbliche, sancito dalle Sezioni Unite del 20 settembre 2013, la Quinta Sezione conferma quanto sostenuto dal Giudice di primo grado. Secondo la suddetta pronuncia: “In tema di riparto di giurisdizione, spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l'attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con la quale un ente pubblico delibera di costituire una società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa.

Sono, invece, attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito. Ne consegue che appartengono alla giurisdizione ordinaria le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista pubblico-privata, nonché all'acquisizione, da parte del socio privato minoritario, del quarantanove per cento delle azioni della società stessa, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio” (così nella sent. n. 21588).

La Quinta sezione dichiara, dunque, che l’applicazione di tali principi alla fattispecie in esame conduce al riconoscimento della giurisdizione ordinaria, poiché la scelta dell’ente pubblico di dismettere l’intero pacchetto pubblico costituisce, invero, “scelta a valle” del modello societario, anche considerato che, per effetto di essa, il soggetto pubblico si ritrae completamente dalla vicenda, lasciandovi solo soggetti privati, per cui non si pongono problemi di selezione pubblicistica di un socio destinato a usufruire della collaborazione privilegiata con il soggetto pubblico, come accade, invece, nella fase iniziale di scelta del partner privato. DU

 



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Inserito in data 27/04/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA CAUTELARE 21 aprile 2017, n. 1662

Legittime le vaccinazioni obbligatorie per l’accesso ai servizi educativi comunali

Con Ordinanza cautelare i Giudici della terza Sezione si pronunciano in tema di legittimità o meno delle vaccinazioni obbligatorie, in special modo per l’accesso ai servizi educativi comunali.

Il Collegio, infatti, respinge l’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia di una pronuncia con cui il Tar friulano aveva rigettato le rimostranze dei genitori, odierni appellanti, avverso la statuita obbligatorietà.

I Giudici del gravame, anticipando in parte le ragioni della prossima pronuncia, sottolineano come la tutela della salute pubblica, e in particolare della comunità in età prescolare, assume un valore dirimente, che prevale sulle prerogative sottese alla responsabilità genitoriale.

Peraltro, insiste il Collegio, la prescrizione di vaccinazioni obbligatorie per l’accesso ai servizi educativi comunali, oltre ad essere coerente con il sistema normativo generale in materia sanitaria e con le esigenze di profilassi imposte dai cambiamenti in atto (minore copertura vaccinale in Europa e aumento dell’esposizione al contatto con soggetti provenienti da Paesi in cui anche malattie debellate in Europa sono ancora presenti), non si pone in conflitto con i principi di precauzione e proporzionalità – come addotto, invece, dagli appellanti.

In particolare, a dispetto del timore genitoriale che la vaccinazione possa essere nociva alla salute umana, si contrappone la valutazione – avallata dall’assenza di prove contrarie – che un tale atteggiamento preventivo, quale quello imposto ed oggi gravato, sia funzionale all’età prescolare e proporzionale all’importanza di tutelare la salute delle generazioni future.

In ragione di ciò, con un arresto netto e deciso, i Giudici della terza Sezione respingono la domanda cautelare. CC

 



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Inserito in data 26/04/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, ORDINANZA CAUTELARE 19 aprile 2017, n. 581

Prova della notifica del ricorso a mezzo p.e.c. – insufficienza della scansione per immagini

Nella ordinanza emarginata in epigrafe, il Collegio si pronuncia in merito alla prova in giudizio della notifica di un ricorso a mezzo di posta elettronica certificata ( c.d. p.e.c.).

A comprova dell’avvenuta notifica, parte ricorrente deposita la scansione per immagini della ricevuta di accettazione e della ricevuta di avvenuta consegna dell’impugnazione trasmessa via p.e.c. alla Amministrazione (peraltro non costituitasi in giudizio). 

Partendo dal dato normativo (art. 14 Decreto Presidente Consiglio dei Ministri n. 40 del 2016), il Collegio avanza dubbi in merito alla rituale instaurazione del contraddittorio in quanto la norma stabilisce che “ai fini della dimostrazione della regolare instaurazione del contraddittorio, non è sufficiente l’inserimento nel fascicolo informatico della mera  scansione per immagini della ricevuta di avvenuta consegna che non contenga i documenti notificati via p.e.c. in formato cliccabile” giacché “una tale modalità di notifica non consente al Collegio di verificare quale atto sia stato concretamente notificato alla controparte”.

Detto altrimenti, il mero deposito della scansione per immagini della ricevuta di accettazione e della ricevuta di avvenuta consegna non è sufficiente al fine di una corretta instaurazione del contraddittorio.

Pertanto, il Collegio invita la ricorrente a regolarizzare il contraddittorio mediante comprova della ritualità della notifica ai sensi dell’art. 14 sopra richiamato “mediante trasmissione informatica delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna con allegati i documenti notificati via p.e.c.”.

Peraltro, aggiunge il Collegio, “la disposta regolarizzazione non dà luogo ad elusione dei termini decadenziali, controvertendosi in materia di diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, lett. e), n. 2) del c.p.a.”. PC 

 



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Inserito in data 24/04/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 aprile 2017, n. 582

Sulla decorrenza del termine per impugnare l’ammissione alla gara

Con ricorso incidentale si contesta l’ammissione alla gara del RTI ricorrente di cui viene rilevata l’assenza di alcuni requisiti di ammissione.

A tal uopo, l’art. 120, co. 2 bis, c.p.a. dispone che “Il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante” e “l'omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l’illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale”.

Invero, la “norma in parola non pone dubbi interpretativi conseguendone l’irricevibilità del ricorso proposto avverso l’aggiudicazione nel quale si sollevano censure contro il provvedimento di ammissione dell’aggiudicatario che, come tali, avrebbero dovuto essere tempestivamente proposte entro il termine di cui all’art. 120, comma 2 bis c.p.a.” (T.A.R. Campania, sez. VIII, 2 febbraio 2017, n. 696, T.A.R. Lazio, sez. I, 4 aprile 2017, n. 4190).

Alla luce di quanto suddetto, deve confutarsi la tesi di parte ricorrente “secondo cui il ricorso sarebbe tempestivo non avendo la stazione appaltante provveduto alla pubblicazione del provvedimento di ammissione alla gara dei concorrenti con le modalità previste dall’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 sul profilo del committente, nella sezione "Amministrazione trasparente", con l'applicazione delle disposizioni di cui al d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33”.

D’altra parte, anche a prescindere dalla pubblicazione del provvedimento de quo con le modalità di cui al citato art. 29 “non può esservi dubbio che parte ricorrente ne fosse a conoscenza, dal momento che la stazione appaltante aveva provveduto ad informarla ...con comunicazione e-mail, allegando il verbale della seduta pubblica appena conclusa recante i punteggi conseguiti da ciascun operatore economico e dunque anche l’ammissione alla gara degli RTP partecipanti”.

In conclusione, deve ritenersi che “la vigenza dell’art. 29, d.lgs. n. 50/2016 non reca motivi per discostarsi, anche nella materia della contrattualistica pubblica, dal consolidato principio per cui in difetto della formale comunicazione dell'atto e nel caso in cui il ricorrente viene ad aver contezza dell'atto prima della sua comunicazione formale, il termine di impugnazione decorre dal momento dell'avvenuta conoscenza dell'atto purché siano percepibili quei profili che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato” (tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 17 marzo 2017 n. 1212; id., sez. IV, 19 agosto 2016 n. 3645). EF

 



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Inserito in data 21/04/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 19 aprile 2017, n. 1830

Obbligo di motivazione annullamento d’ufficio concessione edilizia in sanatoria

Nell’ordinanza in esame, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la questione relativa alla sussistenza di un obbligo di motivazione dell’annullamento d’ufficio della concessione edilizia in sanatoria, qualora tale annullamento sia stato previsto a notevole distanza temporale dal suo rilascio.

Il Collegio motiva l’opportunità del suddetto deferimento a causa di un irrisolto contrasto giurisprudenziale in materia.

Secondo un orientamento più recente, il potere di annullamento “ha un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e due presupposti riferiti a concetti indeterminati, affidati all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione (la ragionevolezza del termine di adozione dell’atto; la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari).

Pertanto, la rimozione dell’atto presuppone “una necessaria valutazione dell’interesse pubblico in concreto in rapporto agli interessi dei destinatari (e dei controinteressati) degli originari provvedimenti, in un tempo ragionevole”.

Esigenza ancora più sentita in presenza di un provvedimento in materia edilizia “ destinato ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, dove assume maggiore rilevanza l’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza quello pubblico all’eliminazione di effetti che si sono prodotti in via definitiva. Con l’ulteriore corollario che l’interesse pubblico alla rimozione attuale dell’atto non può coincidere con l’esigenza del mero ripristino della legalità violata e deve essere integrato da ragioni differenti.”

Secondo l’orientamento maggioritario, invece, non è necessaria una valutazione dell’interesse pubblico in concreto, in quanto “il provvedimento di annullamento di concessione edilizia illegittima è da ritenersi in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino della legalità violata, atteso che il rilascio del titolo edilizio comporta la sussistenza di una permanente situazione contra legem e di conseguenza ingenera nell’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo la concessione illegittimamente assentita (CdS sez. IV, n. 3660 del 2016; CdS, sez. V, n. 5691 del 2012)”.

Rilevato il suddetto contrasto la Sezione rimette all’Adunanza Plenaria la seguente questione: “Se, nella vigenza dell’art. 21- nonies, come introdotto dalla legge n. 15 del 2005, l’annullamento di un provvedimento amministrativo illegittimo, sub specie di concessione in sanatoria, intervenuta ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, debba o meno essere motivata in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico valutato in concreto in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento ampliativo e agli eventuali interessi dei controinteressati, indipendentemente dalla circostanza che il comportamento dei privati possa aver determinato o reso possibile il provvedimento illegittimo, anche in considerazione della valenza – sia pure solo a fini interpretativi – della ulteriore novella apportata al citato articolo, la quale appare richiedere tale valutazione comparativa anche per il provvedimento emesso nel termine di 18 mesi, individuato come ragionevole, e appare consentire un legittimo provvedimento di annullamento successivo solo nel caso di false rappresentazioni accertate con sentenza penale passata in giudicato”. GB

 



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Inserito in data 20/04/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 19 aprile 2017, n. 1828

Sul silenzio-assenso in materia edilizia e la cedevolezza delle norme regionali

Nella specie, la controversia oggetto della pronuncia segnalata verte intorno al diniego del provvedimento di rilascio del permesso di costruire reso dal comune resistente nei confronti del privato appellante.

Il Collegio fornisce un interessante excursus normativo sul silenzio-assenso in materia edilizia in raccordo alle norme regionali, talora confliggenti con le norme di principio statali anche nei casi di competenza legislativa concorrente.

Ad avviso del Collegio, l’esistenza di una legge regionale che, ai fini specifici del rilancio economico attraverso la riqualificazione e la trasformazione urbanistica ed edilizia (si tratta della legge n. 19 del 2009) ammetta ampliamenti volumetrici di edifici residenziali, va intesa come “disciplina derogatoria e temporanea,  di stretta interpretazione e senza possibilità di applicazioni estensive, proprio al fine di evitare lo stravolgimento dell’ordinata pianificazione del territorio” (così anche CdS., sez. IV, n. 3805 del 2016; sez. VI, 21 marzo 2016 n. 1153).  

In materia edilizia, l’art. 20, co. 8 del DPR 380/2001 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”), in relazione al silenzio-assenso, prevede che «… decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente… non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio - assenso…», tranne per i casi in cui sussistano vincoli idrogeologici, ambientali, paesaggistici o culturali,

Sebbene siffatta norma rappresenti un principio generale in materia edilizia, il Collegio ritiene “non sicura la sua applicabilità al caso in esame”.

Prendendo le mosse dall'art. 20 della l. 7 agosto 1990 n. 241, emerge come - fuori dai casi di SCIA - «…nei procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell'amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima… non comunica all'interessato, nel termine di cui all'art. 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego…» o non indice una conferenza di servizi, ferma in ogni caso la possibilità, per la P.A. competente, di assumere determinazioni in autotutela, ai sensi dei successivi artt. 21-quinquies e 21-nonies.

Tuttavia, la giurisprudenza costituzionale e amministrativa declina all’unisono l’applicabilità dell'istituto al settore edilizio come la regola, il quale, quindi, non può dirsi in sé in contrasto coi principi generali, ove esso riguardi casi di attività vincolata (cfr. C. cost., 5 maggio 1994 n. 169; id., 27 luglio 1995 n. 408). Invero, pure il permesso di costruire, conseguendo la verifica di conformità urbanistico - edilizia del progetto presentato con le norme in materia e con quanto previsto dagli atti di pianificazione, è un provvedimento tendenzialmente vincolato (cfr., da ultimo, Cons. St., sez. IV, 5 settembre 2016 n. 5805).

Tuttavia, il decorso del tempo, senza che la P.A. abbia provveduto, rende sì possibile l'esistenza di un provvedimento implicito di accoglimento dell'istanza del privato, però a condizione della «… piena conformità delle opere in materia urbanistica…» (cfr. Sez. IV, n. 3805 del 2016).

Chiarisce il Supremo Consesso Amministrativo che, affinché il relativo assetto si possa dire legittimo, “occorre che sussistano tutte le condizioni normativamente previste per la sua emanazione, non potendosi ottenere per silentium, quel che non sarebbe altrimenti possibile mediante l'esercizio espresso del potere da parte della P.A, neppure quando sia riconosciuto, come nella specie, un incentivo o un premio di cubatura se poi il relativo risultato confligga con altre e parimenti stringenti norme.” (cfr. Cons. St., sez. IV, n. 3805 del 2016 cit.; sez. V, 27 giugno 2006 n. 4114; 20 marzo 2007 n. 1339; 12 marzo 2012 n. 1364).

Pertanto, in assenza dei rigorosi presupposti per la formazione del silenzio-assenso di cui al ripetuto art. 20 del DPR 380/2001, il Collegio esclude che si possa applicare nella specie l’invocata regola di cedevolezza delle norme regionali non conformi con le norme di principio statali, ma continuano ad applicarsi quelle che in ciascuna Regione disciplinano il superamento dell’inerzia procedimentale. DU

 



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Inserito in data 19/04/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 aprile 2017, n. 580

Affidamento del servizio di pulizia di specchi acquei di porti: requisiti

Il Collegio toscano interviene con un arresto interessante che, seppur in parte, incide sui ben noti principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei beni – dandone un’applicazione più circoscritta.

In particolare, pronunciandosi in seno ad una gara per l’affidamento del servizio di pulizia di specchi acquei di porti, i Giudici fiorentini richiedono, quale requisito per prendervi parte, l’iscrizione del mezzo nautico al relativo registro nazionale – ex art. 146 Cod. della Navigazione.

Infatti, non si valuta come sufficiente l’iscrizione del mezzo concorrente ad altri registri di altri Stati dell’Unione europea – come nel caso in esame. E, peraltro senza che ciò collida, per l’appunto, con i principi comunitari di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei beni, si ravvede nella richiesta iscrizione in albo nazionale un maggior potere di controllo da parte dell’Amministrazione italiana.

Il Tribunale, richiamando i principi già espressi dal Tar Liguria, n. 1569/07, secondo cui “il diritto internazionale pretende che il collegamento fra nave e Stato di bandiera sia non solo formale, ma effettivo (c.d. genuine link), nel senso che lo Stato deve essere in grado di esercitare il controllo effettivo sulla nave”, riconferma anche oggi tale necessità.

Solo in tal modo, infatti, asserisce il Collegio, è possibile che lo Stato eserciti un controllo pieno – tanto sul mezzo, la composizione del medesimo e la relativa, regolare partecipazione ad un’eventuale gara d’appalto – quale quella qui scrutinata.

In ragione di ciò, conclude il Collegio, non è arbitraria, né viziata da eccesso di potere una disposizione del bando – del tenore di quella gravata in questa sede – che prevede la necessaria iscrizione ad un registro nazionale.

Si tratta, semmai, di una previsione che risponde alla finalità pubblica di rendere effettiva la possibilità di controllo dell’Amministrazione sulla nave dell’aggiudicataria. CC

 



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Inserito in data 18/04/2017
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 12 aprile 2017, n. 255

Locazione immobili comunali a prezzo simbolico: annullamento d’ufficio

Nella sentenza emarginata in epigrafe, riguardante l’annullamento d’ufficio di una determina dirigenziale quantificante il canone locatizio di un immobile comunale, il Tribunale regionale chiarisce che “una comunicazione d’avvio del procedimento è solo una comunicazione d’avvio, non deve già contenere i motivi del provvedimento finale”, ciò in quanto: la motivazione per la quale l’Amministrazione ha inteso avviare il procedimento per l’annullamento d’ufficio, non è elemento essenziale previsto dall’art. 8 L. 241 del 1990.

Per di più, si afferma che “chiedere una adeguata motivazione già nella comunicazione d’avvio significa trasformarla in un provvedimento anticipato, cosa che è senz’altro fuori dalla prospettiva del legislatore della l. 241/90” (cfr. TAR Lombardia, Brescia, n. 314 del 18 febbraio 2011).

Non viene condiviso neanche il secondo motivo di ricorso con il quale la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990 in quanto il provvedimento di annullamento in autotutela non sarebbe intervenuto, come richiesto dalla legge, entro un termine ragionevole ma ben 4 anni dopo l’adozione dell’atto annullato.

Sotto tale profilo viene chiarito che “l’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici sottesa dall’art. 21 nonies citato vale, infatti, con riferimento ai provvedimenti amministrativi volti a definire in via immediata l’assetto di interessi tra privati e pubblica amministrazione. Diversa è invece la vicenda di provvedimenti volti a regolamentare, come nella specie, rapporti di durata, in relazione ai quali l’accertamento dell’originaria illegittimità può sempre determinare un intervento in autotutela da parte dell’amministrazione al fine di scongiurare il perpetuarsi di situazioni di pregiudizio – nella specie economico - per l’ente pubblico”.

Il Collegio rileva, altresì, che nell’annullamento d’ufficio, “l’interesse patrimoniale sotteso dalla determinazione dell’ente, finalizzata all’adeguamento del canone di locazione ai parametri di legge, costituisce ex se, senza necessità di ulteriori dissertazioni argomentative, una valida attestazione della sussistenza dell’interesse pubblico prevalente ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241/1990”.

D’altronde,  la regola generale prevista dalla normativa sulla locazione di immobili pubblici (l’art. 32, comma 8, l. 23 dicembre 1994, n. 724 e l’art. 32, comma 8, 7 dicembre 2000, n. 383),  è quella della locazione ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, con facoltà di deroga per il caso di perseguimento di scopi di promozione sociale.

Sotto tale profilo, la decisione dell’Amministrazione di applicare la regola generale di concessione in locazione al prezzo di mercato “è connotata da ampia discrezionalità, pertanto insindacabile (come noto) in sede giurisdizionale.  PC

 



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Inserito in data 14/04/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 10 aprile 2017, n. 835

Valutazioni su prestazioni sanitarie e rapporto tra Stato e Regioni

Il Collegio milanese interviene in un ambito parecchio delicato, quale quello relativo alla delimitazione delle competenze tra Stato e Regioni in tema di prestazioni sanitarie e relativi, necessari finanziamenti.

I Giudici, infatti, accogliendo il ricorso, statuiscono l’illegittimità di una determina con cui la Giunta regionale lombarda aveva sancito la riduzione del finanziamento per le attività di riabilitazione ospedaliera svolte presso alcune sedi della Regione, a causa dell’inappropriatezza delle prestazioni erogate.

Si ritiene, per l’appunto, che tale valutazione fuoriesca dall’ambito delle competenze degli Organi regionali e che, pertanto, sia stata incisa la competenza statale in materia di determinazione delle prestazioni sanitarie e, in specie, l’ articolo 9 quater, comma 1, D.L. 19 giugno 2015, n. 78, che ha attribuito tale competenza al Ministro della salute, previo accordo con le altre Regioni.

Ricorda il Collegio che, la previsione appena richiamata va letta sia in ragione della competenza statale in materia sanitaria; sia considerata la necessità che l'introduzione di criteri di inappropriatezza clinica nella riabilitazione non rappresenta il riconoscimento formale di protocolli già acquisiti dalla scienza medica o comunque condivisi nel settore, ma ha un carattere tipicamente innovativo.

Come tale, pertanto, diventa opportuno e prioritario che i parametri di valutazione siano univoci ed uniformi su tutto il territorio nazionale, a dispetto di quanto accaduto nella vicenda in esame – ove la Giunta lombarda aveva, invece, provveduto in maniera autonoma.

In guisa di ciò si comprende, dunque, l’intento dei Giudici milanesi e la susseguente declaratoria di illegittimità della determina regionale qui impugnata. CC 


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Inserito in data 13/04/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 31 marzo 2017, n. 1501

Termine per la proposizione dell’appello nel rito appalti superaccelerato:  dies a quo

Con la pronuncia in esame, la quinta Sezione del Collegio amministrativo interviene su questioni di natura strettamente processuale.

I giudici si pronunciano, infatti, sul cd. rito appalti superaccelerato – di cui al 6’ comma – ultimo periodo - dell’art. 120 del Codice del processo amministrativo – introdotto nel corpo del suddetto Codice dall’art. 204 del D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.

Tale norma prevede che «l’appello deve essere proposto entro trenta giorni dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della sentenza e non trova applicazione il termine lungo decorrente dalla sua pubblicazione».

Nel caso di specie, sussistendo l’avviso di deposito della sentenza al 14 novembre 2016 e la notifica dell’appello alla data del 30 dicembre 2016, è evidente – insiste il Collegio – la tardività dell’avvio dell’odierno gravame.

Sono, infatti, incontestabilmente decorsi i trenta giorni previsti dalla norma, né può  condividersi l’assunto secondo cui – ad avviso di alcuni - la “comunicazione della sentenza”, che l’art. 120, comma 6-bis, Cod. proc. amm. enuclea quale dies a quo del termine per la proposizione dell’appello, non coincide con la comunicazione dell’avviso di deposito, in quanto si tratterebbe di adempimenti di diversa natura formale ed anche sostanziale, nella misura in cui il mero avviso di deposito non consente la conoscenza del corredo motivazionale della sentenza, e pertanto, conseguentemente, non garantisce la pienezza del termine breve di trenta giorni per l’impugnazione.

Infatti, ritengono i Giudici della Quinta sezione, la regola è quella per cui la comunicazione della sentenza consiste nella comunicazione dell’avviso di deposito della medesima, adempimento che prelude poi alla acquisizione del testo integrale, del resto subito agevolmente reperibile nel sito istituzionale della Giustizia amministrativa, senza necessità, a fini di conoscenza, di un accesso fisico presso la segreteria del giudice amministrativo.

Sulla base di tali considerazioni, pertanto, non può che ritenersi tardivo l’appello oggi in esame – considerato il lasso temporale – sopra richiamato ed effettivamente decorso. CC

 



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Inserito in data 12/04/2017
TAR MARCHE - ANCONA, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 6 aprile 2017, n. 272

Questione di legittimità costituzionale dell’art. 119 DP.R. n. 115/02 (T.U. in materia di spese di giustizia)

Nell’ordinanza in esame, il Collegio solleva la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 119 del d.p.r. n. 115 del 2002 (Testo unico in materia di spese di giustizia), per contrasto con gli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui esclude dal beneficio dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, gli enti e le associazioni che esercitano attività economica.

Il Collegio richiama le argomentazioni sviluppate dal Tar di Reggio Calabria  che - con ordinanza di rimessione n. 486 del 2015-  aveva sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte costituzionale per difetto di motivazione sulla sua rilevanza.

Secondo la ricostruzione approntata dal Tar di Reggio Calabria, “affinché un ente possa essere ammesso al c.d. gratuito patrocinio (sempre che sussistano anche le ulteriori condizioni previste dalla legge quali il rispetto dei limiti reddituali e la non manifesta infondatezza della pretesa) non è sufficiente l’assenza dello scopo di lucro, ma è altresì necessario che l’ente non profit non eserciti attività economica”.

Ricorre lo “scopo di lucro” “quando le modalità di gestione tendono alla realizzazione di ricavi eccedenti i costi”; “il metodo economico”, invece si configura “quando le ridette modalità di gestione tendono alla copertura dei costi con i ricavi”.

“Il significato dell’espressione attività economica è chiaramente presente agli aziendalisti, che su di esso fondano la distinzione tra aziende di produzione e aziende di erogazione”.

“Non può qualificarsi come economica l’attività che si svolge strutturalmente e necessariamente in perdita. Al contrario svolge attività con metodo economico il soggetto che eroga servizi di utilità sociale, anche se ispirato da un fine ideale ed anche se le condizioni di mercato non gli consentono poi di remunerare, in fatto, i fattori produttivi. Questi ultimi possono ben essere rappresentati dalle prestazioni spontanee e gratuite degli aderenti all’associazione di volontariato”.

Consentire l’accesso al gratuito patrocinio ad una persona fisica che eserciti attività economica e non a un ente che eserciti la stessa attività genera una grave ed ingiustificata disparità di trattamento, con conseguente violazione del principio di uguaglianza formale e sostanziale, e comporta l’ ulteriore violazione del diritto inviolabile di azione e di difesa di cui all’art. 24 Cost

“La violazione del principio di uguaglianza si apprezza anche in ragione della ingiustificata disparità di trattamento tra gli organismi di volontariato che esercitano attività economica e quelli che non la esercitano, dato che è il legislatore stesso a ritenere che, ove si tratti di attività commerciali e produttive marginali (cfr. art. 5, comma 1, lett. g, della legge quadro n. 266 del 1991), esse non incidono in alcun modo sulla disciplina giuridica degli stessi (Tar Reggio Calabria, ordinanza n. 486 del 2015, cit.).”

Il Collegio ritiene, altresì, che “la citata violazione del principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. si presenti anche nella veste dell’irragionevolezza, nella parte in cui l’articolo 119 del d.p.r. n. 115 del 2002 non consente, apparentemente, alcun sindacato sulla rilevanza o sulla marginalità dell’attività economica prestata, escludendo senz’altro dall’ammissione al gratuito patrocinio tutti gli enti che esercitino attività economica”.

Per le ragioni sopra esposte, il Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’articolo 119, ultima parte, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, in relazione agli articoli 2, 3 e 24 della Costituzione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. GB 



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Inserito in data 11/04/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZIONE UNICA, 10 aprile 2017, n. 127

Il concordato preventivo omologato non dà diritto alle agevolazioni pubbliche

Con la pronuncia in esame, i Giudici ricordano che: “La normativa comunitaria in materia di aiuti di stato di cui ai regolamenti della Commissione UE n. 651 e n. 702 del 2014 definisce in difficoltà una impresa oggetto di procedura concorsuale per insolvenza o che soddisfi le condizioni previste dal diritto nazionale per l’apertura nei suoi confronti di una tale procedura su richiesta dei creditori”.

Orbene, se “si è chiusa, secondo la locuzione utilizzata dall’art. 181 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 e successive modificazioni, la procedura di concordato preventivo, nondimeno per la società ha preso avvio, ai sensi dell’art. 136 della richiamata legge fallimentare, la fase, di rilevanza sostanziale, di esecuzione ed adempimento del concordato, che si svolge sotto la sorveglianza del giudice delegato, secondo le modalità stabilite dal decreto di omologazione, sulla base delle previsioni contenute nel piano proposto dall’impresa per l’uscita dalla situazione di crisi e il raggiungimento di una condizione di equilibrio economico-finanziario”.

Nel corso di tale fase del concordato, “la società è tenuta a proseguire l’attività d’impresa in funzione del miglior soddisfacimento dei creditori: la situazione di crisi non si è quindi risolta, né è stata ancora raggiunta una condizione di equilibrio economico-finanziario, così come l’esposizione al rischio di fallire sussiste in modo più accentuato rispetto alla generalità delle imprese. La completa esecuzione del concordato verrà, infine, accertata solo dal giudice delegato ai sensi del citato art. 136 della legge fallimentare”.

E, d’altra parte, non si possono invocare “le disposizioni che consentono la partecipazione a procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici delle imprese in concordato preventivo con continuità aziendale, proponendone, per così dire, una lettura e applicazione per analogia. Infatti, le norme di cui agli artt. 80, comma 5 lett.b), e 110, commi 3, 4 e 5, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 e dell’art. 186 bis, comma 5, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, recanti il puntuale riferimento al concordato con continuità aziendale, costituiscono “una disciplina speciale, che, pur evidenziando il favor riservato dal legislatore verso l’istituto del concordato con continuità aziendale (che può permettere alle imprese in difficoltà di superare la fase di crisi e di soddisfare i diritti dei creditori, tra l’altro, anche e proprio attraverso i flussi generati dalla prosecuzione dell’attività aziendale), si pone in deroga a regole di principio e non consente di essere utilizzata quale canone ermeneutico per l’applicazione di disposizioni, quali quelle rilevanti nel caso di specie, concernenti il settore generale delle agevolazioni alle imprese”.

Del resto, deve escludersi che l’omologazione comporti l’automatica definizione della società come in bonis ai fini del riconoscimento del diritto alle agevolazioni, la cui sussistenza è esclusa sia “dal dato testuale, sia dalla lettura sistematica delle disposizioni della suddetta legge e dei relativi criteri applicativi”.

Invero, opinare diversamente significherebbe “consentire il raggiungimento della finalità del concordato (e così il soddisfacimento dei creditori) mediante risorse pubbliche, con ciò distorcendo la ratio sia del concordato stesso, teso al raggiungimento dell’equilibrio dell’impresa con le sue forze, sia del beneficio in esame, funzionale all’espansione della nuova imprenditoria e al sostegno dell’economia”. EF 


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Inserito in data 10/04/2017
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I - 7 aprile 2017, n. 244

Al G.O. la giurisdizione sulla dismissione di quote di società mista pubblico-privata

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio afferma che “la dismissione di quote azionarie pubbliche nelle società di gestione aeroportuale non è soggetta alle norme sull’evidenza pubblica, e nemmeno a quelle sulla contabilità generale dello Stato, risolvendosi in un’operazione che l’ente pubblico pone in essere con modalità privatistiche, dovendosi soltanto attenere ai generali principi di trasparenza e non discriminazione, il che giustifica pienamente la non ricomprensione delle relative controversie nella giurisdizione del giudice amministrativo”.

In particolare, i Giudici osservano che la procedura oggetto della controversia non rientra nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), relativa alle “procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale…”, perché “l’oggetto della gara (dismissione di quote azionarie pubbliche in una società di gestione aeroportuale) è differente da quello descritto dalla norma (lavori, servizi e forniture), tanto da essere destinatario di una disciplina ad hoc dettata da decreto ministeriale 12 novembre 1997, n. 521 -Regolamento recante norme di attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 10, comma 13, della l. 24 dicembre 1993, n. 537- che si occupa specificamente delle società di capitali per la gestione dei servizi e infrastrutture degli aeroporti gestiti, anche in parte, da soggetti pubblici”.

Invero, l’art. 2, comma 3, del citato d.m. richiama le procedure di cui al decreto legge 30 maggio 1994, n. 322, secondo cui “1. Le vigenti norme di legge e di regolamento sulla contabilità generale dello Stato non si applicano alle alienazioni delle partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni e ai conferimenti delle stesse società partecipate, nonché agli atti ed alle operazioni complementari e strumentali alle medesime alienazioni inclusa la concessione di indennità e manleva secondo la prassi dei mercati. 2. L'alienazione delle partecipazioni di cui al comma 1 è effettuata con modalità trasparenti e non discriminatorie, finalizzate anche alla diffusione dell'azionariato tra il pubblico dei risparmiatori e degli investitori istituzionali. Dette modalità di alienazione sono preventivamente individuate, per ciascuna società, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro delle attività produttive”.

Neppure può trovare applicazione l’ipotesi di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133, comma 1, lett. c), del c.p.a., relativa alle “concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità”.

Difatti, come emerge da un condivisibile e prevalente orientamento giurisprudenziale (cfr., da ultimo, T.A.R. Torino, Sez. I, 22 febbraio 2017, n. 348), “non è a questi fini sufficiente che la controversia rientri, in termini generali, nella materia “servizi pubblici”, occorrendo, pur sempre, che l’amministrazione abbia agito esercitando il proprio potere autoritativo” (Corte Costituzionale, sentenza 6 luglio 2004, n. 204).

Del resto questa soluzione pare coerente con il criterio generale di riparto delineato nella fondamentale pronuncia della Cassazione civile, a Sez. Un., 20 settembre 2013, n. 21588, secondo cui “In tema di riparto di giurisdizione, spettano alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l'attività unilaterale prodromica alla vicenda societaria, considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con la quale un ente pubblico delibera di costituire una società o di parteciparvi o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della stessa. Sono, invece, attribuite alla giurisdizione ordinaria le controversie aventi ad oggetto gli atti societari a valle della scelta di fondo di utilizzo del modello societario, i quali restano interamente soggetti alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito. Ne consegue che appartengono alla giurisdizione ordinaria le domande relative alla validità ed efficacia della costituzione della società mista pubblico-privata, nonché all'acquisizione, da parte del socio privato minoritario, del quarantanove per cento delle azioni della società stessa, mentre appartengono al giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto la procedura di selezione del socio privato, la conseguente aggiudicazione, nonché quella relativa all'affidamento della gestione del servizio (nella specie, idrico, con realizzazione anche delle opere infrastrutturali di acquedotto, fognatura e depurazione)”.

Alla luce di quando suddetto, “la scelta di dismettere l’intero pacchetto pubblico costituisce “scelta a valle” del modello societario, anche considerato che, per effetto di essa, il soggetto pubblico si ritrae completamente dalla vicenda, lasciandovi solo soggetti privati, per cui non si pongono problemi di selezione pubblicistica di un socio destinato a usufruire della collaborazione privilegiata con il soggetto pubblico, come accade, invece, nella fase iniziale di scelta del partner privato”.

Né, infine, depone in senso contrario il fatto che l'art. 119, comma 1, lett. c), del c.p.a. preveda un rito speciale in materia di “privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici, nonché quelli relativi alla costituzione, modificazione o soppressione di società, aziende e istituzioni da parte degli enti locali”; essendo tale previsione normativa “limitata al rito applicabile, senza che ciò implichi una riconduzione di tutte le controversie in materia alla cognizione del giudice amministrativo” (cfr. T.A.R. Venezia, Sez. I, 18 febbraio 2013, n. 241; T.A.R. Palermo, Sez. II, 14 settembre 2016, n. 2153; T.A.R. Lecce, Sez. II, 12 marzo 2014, n. 751).  A tal uopo, deve ritenersi che la norma in questione, come emerge anche dalla sua collocazione all’esterno dell’art. 133 c.p.c., non modifica i normali criteri di riparto.

Del resto, “all’interno di un’unica vicenda di dismissione possono emergere senz’altro sia profili pubblicistici (si pensi alle deliberazioni con cui l’ente decida, a monte, decide la dimissione), impugnabili innanzi al G.A., sia profili privatistici, come quello ora in esame, rimessi alla cognizione del giudice ordinario; deve, quindi, ritenersi che l’art. 119, comma 1, lett. c) sopra cit. si riferisca solo ai primi e non a questi ultimi”. EF 


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Inserito in data 08/04/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - 4 aprile 2017, n. 4190

La non tempestiva impugnazione del provvedimento finale determina la improcedibilità del ricorso avverso l’atto endoprocedimentale

Nella sentenza emarginata in epigrafe, resa  nell’ambito di una controversia riguardante la impugnazione di atti endoprocedimentali, il Collegio chiarisce che, in linea generale,  “non è possibile la impugnazione immediata ed autonoma degli atti preparatori poiché nei provvedimenti de quibus manca il requisito della immediata lesività nei confronti dei loro destinatari”, ad eccezione dei casi in cui gli atti endoprocedimentali siano, in ragione della loro natura vincolata, “idonei a conformare in maniera netta la determinazione conclusiva del procedimento, ovvero, quando questi spieghino in via diretta ed immediata una autonoma portata pregiudizievole della sfera giuridica dei destinatari”.

Viene, altresì, affermato che se è vero che la garanzia dell’ampliamento della tutela giurisdizionale attribuisca agli interessati la possibilità di impugnare gli atti preparatori immediatamente lesivi, ciò non toglie che “tale possibilità di immediata impugnazione dell'atto lesivo non può certo tradursi in un esonero dal dovere di impugnare anche l'atto finale”.

Sotto tale profilo, si precisa che, se la deroga alla regola generale secondo cui va impugnato solo l’atto finale e conclusivo del procedimento, consente l'anticipazione della tutela di impugnazione degli atti preparatori, ampliando così gli strumenti di tutela degli interessati, è pur vero che i destinatari dei provvedimenti endoprocedimentali  “debbono far valere (anche contro il provvedimento conclusivo del procedimento) i medesimi vizi già sollevati avverso gli atti preparatori, ancorché in via derivata; diversamente, in assenza di impugnativa del provvedimento finale, questi si consoliderà nei suoi effetti e diverrà inoppugnabile”.

Tale soluzione è, ad avviso del Collegio, la più corretta dal punto di vista giuridico (non per mero formalismo o volontà di aggravare con inutili adempimenti i diritti di difesa dei soggetti interessati) perché, diversamente opinando, “sarebbe vanificata la pur  meritevole esigenza di tutela di eventuali controinteressati che potrebbero essere individuati solo all’esito finale del procedimento e che, invece, rimarrebbero estranei dal giudizio avente ad oggetto un atto preparatorio, ai medesimi non notificato”.

Pertanto, “è improcedibile il ricorso proposto contro l’atto endoprocedimentale con il quale la stazione appaltante ha comunicato l’intenzione di procedere in autotutela all’annullamento della gara qualora, poi, non sia stato  impugnato tempestivamente lo stesso provvedimento finale di annullamento d’ufficio”.  PC

 



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Inserito in data 07/04/2017
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 aprile 2017, n. 1

L’incidenza delle sopravvenienze nel giudizio di ottemperanza

Con l’articolata pronuncia emarginata in epigrafe, l’Adunanza Plenaria dichiara inammissibile il ricorso per revocazione ex artt. 106, comma 1, cod. proc. amm. e 395, n. 5), cod. proc. civ. della sentenza n. 11 del 9 giungo 2016 dell’Adunanza Plenaria concernente un giudizio di ottemperanza reso tra le parti.

Con tale sentenza, l’Adunanza Plenaria respingeva i ricorsi, i quali erano vòlti a conseguire l’ottemperanza alla sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quinta, n. 4267/2007 e alle successive sentenze di ottemperanza della stessa Sezione - nella specie le n. 3817/2008, n. 2153/2010 e n. 8420/2010 - nonché vertenti sulle richieste di chiarimenti formulate dal commissario ad acta ai sensi degli artt. 112, comma 5, e 114, comma 7, cod. proc. amm., sulla base dell’assorbente rilievo che «le sentenze ottemperande riconoscono solo un obbligo di natura procedimentale, la cui ulteriore attuazione risulta, peraltro, ormai preclusa dall’insormontabile ostacolo rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13, la quale, intervenendo su un tratto di procedimento non investito dal giudicato, ha diretta applicazione e prevale, secondo un criterio di successione temporale, sulla “regola conformativa” desumibile dalle sentenze amministrative rese dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nel corso della vicenda in oggetto».

L’Adunanza Plenaria richiamata rimarcava al riguardo che alle sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di giustizia doveva attribuirsi la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate, nel senso che la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto, delineandosi una sorta di “sopravvenienza normativa”, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto da giudicato, determinava una vera e propria successione cronologica di regole sulla medesima situazione giuridica, rispondente ai dettami dell’ordinamento nazionale sul rapporto tra giudicato e sopravvenienze.

La predetta Plenaria si poneva inoltre nel medesimo solco delle Sezioni Unite, le quali avevano recentemente ribadito che l’interpretazione, da parte del giudice amministrativo, di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione Europea, dà luogo alla violazione di un  “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi”, in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, e in cui, pertanto, si impone la cassazione della sentenza amministrativa, la quale è “indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria”.

Aggiungeva, infine, l’Adunanza Plenaria che “tale preminente esigenza di conformità al diritto comunitario certamente rileva anche in sede di ottemperanza”, ove “la dinamicità e la relativa flessibilità che spesso caratterizza il giudicato amministrativo nel costante dialogo che esso instaura con il successivo esercizio del potere amministrativo, permettono al giudice dell’ottemperanza - nell’ambito di ’attività in cui si sostanzia l’istituto del giudicato a formazione progressiva - non solo di completare il giudicato con nuove statuizioni ‘integrative’, ma anche di specificarne la portata e gli effetti, al fine di impedire il consolidamento di effetti irreversibili contrari al diritto sovranazionale”.

Nella controversia oggetto della sentenza in esame, il mancato superamento della fase rescindente  ha impedito l’ingresso delle questioni rilevanti ai fini fase rescissoria, tra queste: le questioni relative all’individuazione della disciplina, comunitaria e nazionale, del settore degli appalti pubblici di lavori applicabile ratione temporis; le questioni inerenti all’interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13 e dei suoi effetti nell’ambito del giudizio di ottemperanza; e infine, le questioni di competenza (nel procedimento) e di legittimazione (processuale) conseguenti al trasferimento, a decorrere dal 1° settembre 2015, delle attribuzioni in materia di edilizia giudiziaria dai comuni al Ministero della Giustizia, in forza dell’art. 1, comma 526, l. 23 dicembre 2014, n. 190 (“Legge di stabilità 2015”).

La Plenaria ha rilevato infatti come la sentenza revocanda non abbia fatto altro che applicare, da una parte, la valutazione di incompatibilità comunitaria della procedura amministrativa in atto, con riferimento a un tratto di procedimento non ancora coperto dal giudicato; e dall’altro, abbia dato attuazione alla relativa interpretazione della Corte di giustizia alla procedura in corso, poiché, diversamente, il contrasto con la normativa europea avrebbe esposto lo Stato a responsabilità nei confronti dell’Unione europea e la stessa sentenza dell’Adunanza plenaria al vizio di violazione del limite esterno della giurisdizione in relazione alla intervenuta incompatibilità comunitaria.

Ad avviso del Supremo Consesso, la revocazione ex artt. 106, c. 1 Cod .proc. amm. e 395, n. 5, Cod. proc. civ., postula che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto.

 A tal fine, dovrà aversi riguardo ai limiti oggettivi del giudicato quali risultano determinati dal decisum, ossia alla questione principale decisa nel giudizio che sorregge causalmente gli effetti scaturenti dal dispositivo della sentenza, i quali, a seconda della natura della giurisdizione esercitata (di legittimità, esclusiva, di merito), potranno essere effetti di accertamento, di condanna o costitutivi/determinativi (questi ultimi, a loro, volta, potranno essere annullatori-demolitori, ripristinatori e/o conformativi).

Infatti, come ripetutamente statuito dal Consiglio di Stato, ai fini dell’applicazione dell’art. 395, n. 5), cod. proc. civ., “perché una sentenza possa considerarsi contraria ad un precedente giudicato, occorre che le decisioni a confronto risultino fra loro incompatibili in quanto dirette a tutelare beni ed interessi di identico contenuto, nei confronti delle stesse parti, con riferimento ad identici elementi di identificazione della domanda (petitum e causa petendi) confluiti nel decisum”.

All’esito di tale interpretazione/ricostruzione della portata conformativa della sentenza cognitoria ottemperanda e delle successive sentenze di ottemperanza, la Plenaria ha rilevato come la sentenza n. 11/2016 abbia accertato che la trasformazione dell’interesse procedimentale in interesse finale (e, quindi, la conclusione positiva del procedimento) fosse risultata definitivamente preclusa dalla sopravvenienza rappresentata dalla sentenza della Corte di Giustizia 10 luglio 2014, C-213/13.

Invero, quest’ultima sanciva l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea della procedura adottata, in forza della contrarietà dell’interesse finale reclamato da parte ricorrente con la disciplina europea.

In via preliminare il Supremo Consesso rileva che, ai fini dell’integrazione del motivo revocatorio di cui all’art. 395, n. 5), cod. proc. civ., devono concorrere, in via cumulativa, due presupposti: il contrasto della sentenza revocanda con un’altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata sostanziale; e la mancata pronuncia sulla relativa eccezione da parte del giudice della sentenza revocanda.

Invero, il proprium del giudizio di ottemperanza si risolve “nella concreta individuazione dell’ambito oggettivo del giudicato amministrativo che il giudice dell’ottemperanza, nella fase esecutiva, è chiamato a risolvere, tra il soddisfacimento dell’interesse sostanziale della parte e la salvaguardia della discrezionalità dell’amministrazione, quando la discrezionalità residui all’esito del giudizio”.

La Plenaria evidenzia come tale problematica assuma rilevanza centrale quando si verta in materia di giudicato cognitorio sul silenzio – come nel caso di specie - particolarmente esposto alle sopravvenienze, e si tratti di valutare l’incidenza della normativa europea - cui è equiparata la sentenza della Corte di giustizia sulle questioni pregiudiziali - sull’attuazione del giudicato, tenuto conto che l’eventuale omessa considerazione di tale incidenza potrebbe dar luogo, ‘nei casi estremi’, al vizio di eccesso di potere giurisdizionale (v. sul punto, ex plurimis, Cass. Sez. Un. Civ., 8 aprile 2016, n. 6891; Cass. Sez. Un., 6 febbraio 2015, n. 2242).

In definitiva, il Consiglio di Stato al plenum ritiene insussistenti i presupposti del vizio revocatorio dell’impugnata sentenza n. 11/2016 dell’Adunanza Plenaria dedotto dalla ricorrente, con conseguente declaratoria di inammissibilità del ricorso. DU

 



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Inserito in data 06/04/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 aprile 2017, n.1541

Processo telematico: gli atti cartacei o sprovvisti di firma digitale sono irregolari 

Nel processo amministrativo telematico (PAT), la formazione, notificazione e deposito, in formato cartaceo, degli atti di parte, non implica l’inesistenza, l’ abnormità o nullità degli atti stessi, ma solo un caso di mera irregolarità.

La tesi dell’inesistenza non è sostenibile perché “anche alla luce del principio di strumentalità delle forme processuali”, il ricorso non redatto o comunque non sottoscritto in forma digitale, benché certamente non conforme alle prescrizioni di legge, “non si configura in termini di non atto”.

Per analoghe ragioni non appare sostenibile la tesi dell’abnormità, atteso che la riflessione sull’atto abnorme è stata sviluppata con riguardo agli atti del giudice.

Né è condivisibile la tesi della nullità, in virtù del principio generale sancito dall’art. 156, primo comma, c.p.c., secondo il quale l’inosservanza di forme comporta la nullità degli atti del processo solo in caso di espressa comminatoria da parte della legge.

Pertanto, nell’ambito del PAT, dal 1° gennaio 2017, la formazione, notificazione e deposito, in formato cartaceo degli atti di parte, con la mancanza di sottoscrizione digitale determinano una mera irregolarità e non una nullità degli stessi.

Dal 1 gennaio 2017, il giudice amministrativo, a mente del combinato disposto degli artt. 44, comma 2, e 52, comma 1, c.p.a., deve ordinare alla parte che ha redatto, notificato o depositato un atto in formato cartaceo di regolarizzarlo in formato digitale nel termine perentorio all’uopo fissato. GB



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Inserito in data 05/04/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III - 3 aprile 2017, n. 776

La gratuità dell’accesso ai documenti esula dalla giurisdizione esclusiva del G.A.

Con la pronuncia emarginata in epigrafe, il TAR dichiara il difetto della propria giurisdizione, poiché la vicenda sottoposta al suo esame si inserisce in un rapporto negoziale in cui non si ravvisano i tratti tipici dell’esercizio del potere autoritativo.

Nella specie, il ricorrente - un comune - chiedeva l’accertamento del proprio diritto di accedere gratuitamente alla banca dati del centro di elaborazione della motorizzazione civile e la conseguente condanna del ministero intimato alla restituzione dei canoni indebitamente versati negli anni precedenti.

Il comune ricorreva al Giudice amministrativo, invocando a sostegno della sussistenza della sua giurisdizione esclusiva gli artt. 133 c. 1, lett. a), n. 2, n. 6 e lett. d. del Codice del processo amministrativo (da ora “C.P.A.”).

L’art. 133 c. 1 lett. a) n. 2 C.P.A., attribuendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi tra le pubbliche amministrazioni”, si riferisce alla fattispecie sostanziale di cui all’art. 15 della L. 241/1990, che consente alle pubbliche amministrazioni di concludere tra loro accordi “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”.

Ad avviso del Collegio la vicenda oggetto del giudizio non può essere ascritta al paradigma normativo di cui all’art. 15 della L. 241/1990: sia perché non sussisteva alcun accordo tra comune e ministero (stante il mancato rinnovo della convenzione esistente tra i due enti), sia perché il rapporto negoziale – eventualmente da costituire - non sarebbe comunque rientrato tra gli accordi di cui alla norma richiamata.

Dalla convenzione novennale intercorsa, emergeva, infatti, un “contratto per adesione” in cui il comune era definito “utente”.

Il TAR ritiene che la vicenda in esame non è ascrivibile all’ipotesi di cui all’art. 15 della L. 241/1990 difettando il necessario presupposto della sussistenza di un’attività di interesse comune da disciplinare in collaborazione. Come asserito dal Consiglio di Stato, "gli accordi tra enti pubblici stipulati ai sensi dell'art. 15, l. 241/1990, anche denominati contratti "a oggetto pubblico", differiscono dal contratto privatistico di cui all'art. 1321 c.c., del quale condividono solo l'elemento strutturale dell'accordo, senza che a esso si accompagni l'ulteriore elemento del carattere patrimoniale del rapporto regolato. Le amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano all'accordo in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune" (Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013 n. 3849).

Quanto all’operatività dell’art. 133, c. 1, lett. a) n. 6 C.P.A.. sulla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di controversie in materia di diritto di accesso ai documenti amministrativi, il Collegio osserva che oggetto della controversia in questione non è il diniego di accesso a documenti amministrativi ma l’accertamento del diritto del comune ad accedervi “gratuitamente”.

Il Supremo Consesso ritiene che “ci si trovi al di fuori del perimetro entro cui l’art. 133 comma 1 lett. a) n. 6 c.p.a. attribuisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva”.

Riguardo all’invocato art. 133, c. 1, lett. d) C.P.A., che assegna alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie concernenti l’esercizio del diritto a chiedere ed ottenere gratuitamente l'uso delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni con le pubbliche amministrazioni, va precisato che esso non è pertinente al caso di specie, poiché non si fa questione di richieste di comunicazioni con modalità diverse da quelle telematiche.

In definitiva, in relazione alle domande formulate dal ricorrente si è al cospetto di posizioni di diritto soggettivo, imputabili alla capacità negoziale del comune, e non si configura alcuna forma di esercizio di potere autoritativo da parte del ministero. Per tali ragioni, il Tar dichiara il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, che declina in favore del giudice ordinario, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a. DU

 



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Inserito in data 04/04/2017
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 27 marzo 2017, n. 414

Offerta economicamente più vantaggiosa: i criteri devono essere indicati analiticamente

Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva che, secondo la concorde giurisprudenza di primo e secondo grado, “il punteggio numerico assegnato agli elementi di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa integra una sufficiente motivazione allorché siano prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio i criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un massimo; in questo caso, infatti, sussiste comunque la possibilità di ripercorrere il percorso valutativo e quindi di controllare la logicità e la congruità del giudizio tecnico (cfr., T.A.R. Umbria, sez. I, 11 settembre 2015, n. 365; T.A.R. Salerno, sez. II, 12 marzo 2014, n. 567; (T.A.R. Piemonte, sez. II, 15 novembre 2013, n. 1207; Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2011 n. 222; sez. V, 16 giugno 2010 n. 3806; 11 maggio 2007 n. 2355; 9 aprile 2010 n. 1999)”.

Viceversa, “in assenza della predisposizione di subcriteri o di griglie di valutazione particolarmente dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a criteri preventivi di giudizio non sufficientemente specifici, esplicitando le ragioni dell'attribuzione del punteggio stesso: sicché, pur ammettendosi che la mancata predeterminazione di parametri precisi e puntuali possa far sì che l'assegnazione dei punteggi in forma esclusivamente numerica determini un deficit motivazionale, nondimeno si ammette che a tale carenza la stazione appaltante possa rimediare illustrando le ragioni della valutazione effettuata, in relazione ai vari elementi in cui si articola ciascun criterio (Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 2012, n. 1332 e 18 aprile 2013, n. 2142; TAR Milano, III, 16 ottobre 2012, n. 2537; TAR Umbria, 2 novembre 2011, n. 355)”.

In senso conforme a questa impostazione si pongono sia le previsioni contenute all’art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. 50/2016; sia le "Linee Guida n. 2 dell' ANAC "di attuazione del D.lgs 18 aprile 2016 n. 50 recanti offerta economicamente più vantaggiosa" del 21 settembre 2016 n. 1005", le quali prevedono che "in relazione a ciascun criterio o subcriterio di valutazione la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Con riferimento a ciascun criterio o subcriterio devono essere indicati i relativi descrittori che consentono di definire i livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la coerenza delle valutazioni". EF

 



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Inserito in data 03/04/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 31 marzo 2017, n. 499

Atti a contenuto generale ed accertamento dell’obbligo di provvedere della P.A.

Nella sentenza emarginata in epigrafe, avente ad oggetto la proposizione di un ricorso avverso l’asserito silenzio inadempimento della amministrazione comunale nonché per l’accertamento dell’obbligo di provvedere in capo alla stessa, il Giudice amministrativo toscano, preliminarmente, chiarisce che il ricorso ex art. 117 c.p.a. è esperibile tutte le volte in cui l’amministrazione sia rimasta inerte nonostante la presenza di un preciso obbligo di provvedere derivante dalla legge, dai principi generali o dalle peculiarità del caso (C.d.S. n. 4235 del 2016).

Viene, altresì, precisato che la fondatezza della istanza può dal Giudice essere valutata “solo ove l'attività che essa avrebbe dovuto porre in essere abbia carattere vincolato, discendendone che, in caso contrario, la sentenza deve limitarsi alla declaratoria dell'obbligo di provvedere “(T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 7 febbraio 2007 n. 179).

Nel caso di specie, il Collegio rileva che “non appare sussistere l’affermato silenzio inadempimento dell’amministrazione comunale avendo la stessa più volte motivatamente dato riscontro all’istanza della parte”.

Si evidenzia, in particolare, che il rito del silenzio non può trovare applicazione “allorquando si sia in presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta discrezionale dell'Amministrazione e rispetto alla quale non sia configurabile un interesse qualificato del privato tale da poter rivendicare l'esistenza di un obbligo per l'Ente di procedere all'adozione di atti a contenuto pianificatorio” (Cons. Stato Sez. IV, 11-12-2014, n. 6081).

Si precisa, ancora, che i vincoli di destinazione urbanistica sono soggetti a decadenza “solo se sono preordinati all'espropriazione e, dunque, se svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene”.

Non può, dunque, essere condivisa la tesi della ricorrente secondo cui la destinazione impressa alla proprietà della medesima avrebbe natura espropriativa giacché la destinazione di un’area a verde pubblico ed attrezzatura ha natura di vincolo conformativo “con la conseguenza che non era configurabile alcun obbligo per il Comune di provvedere a rimodulare ex novo tale destinazione per sua natura di durata indeterminata” (T.A.R. Toscana, sez. III, 7 gennaio 2015 n. 7).

Alla luce di quanto detto, il T.A.R. dichiara inammissibile il ricorso. PC 

 



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Inserito in data 01/04/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 29 marzo 2017, n. 112

Rito appalti: Rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale  

Il Tar, in ordine al rapporto intercorrente fra ricorso principale ed incidentale, richiama la recente pronuncia - Consiglio di Stato, sez. III, 26.8.2016, n. 3708-  che rifiuta l’interpretazione che ammette sempre l’obbligo dell’esame del ricorso principale, a prescindere da qualsivoglia scrutinio in concreto della sussistenza di un interesse (anche strumentale) alla sua decisione.

Tale interpretazione risulterebbe, infatti, “del tutto incoerente sia con il richiamo all’art. 1 della direttiva n. 89/665 CEE, sia con il rispetto del principio generale, di ordine processuale, codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art. 39, comma 1, c.p.a.).”

I suddetti principi corrispondono al “punto di equilibrio fra la tutela piena ed effettiva assicurata dalla giurisdizione amministrativa secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo (art. 1 c.p.a.) e le necessarie condizioni cui rimane assoggettato l’esperimento delle domande processuali, e dunque in primis l’effettiva sussistenza dell’interesse ad agire o resistere in giudizio (art. 100 c.p.c.).”

Peraltro, in materia di appalti, la ratio sottesa alle “disposizioni specifiche” inerenti ai giudizi di cui agli artt. 120 e segg. del c.p.a. depone per l’accentuata affermazione dei principi di celerità ed efficacia della pronuncia del giudice amministrativo, il che contraddice la necessità di dover sistematicamente esaminare anche il ricorso principale, qualora quello incidentale risulti fondato e di per sé precluda la conservazione di un effettivo interesse in capo al ricorrente principale, quest’ultimo così definibile solo in relazione al momento introduttivo dell’intero giudizio. GB

 



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Inserito in data 31/03/2017
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II - 22 marzo 2017, n. 256

Reiezione domanda rinnovo autorizzazione al porto di pistola per difesa personale

Il Collegio ligure, con la pronuncia in esame, accoglie il ricorso con cui l’istante contesta il diniego – paventato dall’Amministrazione competente – circa il rinnovo dell’autorizzazione al porto di pistola per difesa personale – da sempre richiesta per specifiche esigenze professionali.

Tra le censure addotte in ricorso e condivise dai Giudici si desume il difetto di motivazione, la carenza di istruttoria e, in particolare, la violazione del principio di affidamento – considerata la pregressa, reiterata autorizzazione.

I Giudici, infatti, richiamando posizioni consolidate, ritengono che se è vero che la licenza di portare rivoltelle costituisce una deroga al generale divieto di portare armi, e che la facoltà di rilasciarla è oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale, è altrettanto vero che, in presenza di un’autorizzazione di polizia risalente nel tempo ed oggetto di plurimi rinnovi, l' amministrazione, in sede di diniego, deve darsi carico di dimostrare il venir meno delle condizioni iniziali, che avevano formato oggetto di positiva valutazione in punto di "dimostrato bisogno", ed il sopravvenire di nuove ragioni giustificative del diniego (Cons. di St., III, 6.5.2014, n. 2313).

Tanto non è accaduto nel caso in esame, ove l’Amministrazione – in sede di diniego - si è limitata ad invitare il ricorrente ad avvalersi di altri mezzi – al fine di trasportare la propria merce – evitando così a monte la necessità del rinnovo di porto di pistola richiesto.

I Giudici, data la genericità della difesa di parte resistente e ricordando, altresì, come sia scriminata - e dunque consentito - l’uso di un'arma legittimamente detenuta anche al fine di difendere i propri beni all'interno di un luogo ove venga esercitata un'attività imprenditoriale (art. 52 commi 2 e 3 c.p., aggiunti dall'art. 1 della 13 febbraio 2006, n. 59), avallano la posizione del ricorrente. CC

 



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Inserito in data 30/03/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 marzo 2017, n. 1388

Le benedizioni pasquali rese fuori dall’orario scolastico non ledono la libertà di culto

La vicenda oggetto della pronuncia in esame prende le mosse dalla concessione in uso di locali fuori dell’orario scolastico.

Nella specie, il Consiglio di Stato è chiamato a vagliare la compatibilità dello svolgimento libero di un atto di culto facoltativo con l’aconfessionalità della scuola, rilevandone – ove sussistano – le potenziali conseguenze discriminatorie nei confronti di altre confessioni religiose e di lesione e compromissione della libertà di religione in senso lato.

Il diritto di libertà religiosa - intesa quale libertà di non credere in alcuna religione o di credere e professarne una in particolare – rappresenta un’irrinunciabile aspetto della dignità umana, consacrato nell’art. 2 Cost., che fa dello Stato il garante del “diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi o confessioni religiose di fruire delle eventuali facilitazioni disposte in via generale dalla disciplina comune ... perché ciascuno possa in concreto più agevolmente esercitare il culto della propria fede religiosa” ( così Corte Cost. sent. n. 334/1996).

Ad avviso della Sesta Sezione, la benedizione pasquale, quale vero e proprio rito religioso riservato alla sfera individuale dei consociati, “non può in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.”

Com’è noto – ricorda il Collegio - la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi. Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.

Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.”

Di conseguenza, si tratta di un rito che può ritenersi tale in quanto celebrato in un luogo determinato da chi, spinto dalla fede, voglia prenderne parte, sicché non può estrinsecare la sua funzione autentica se celebrato in luoghi diversi da quelli adibiti al culto, quali le scuole.

Ne deriva che presenziare all’evento al di fuori dall’orario scolastico - il quale viene così isolato dal contesto pubblicistico - non sia in grado di minimamente ledere - neppure indirettamente - il pensiero o il sentimento religioso o no, di chiunque altro che non vi partecipi.

Infatti, il Supremo Consesso ritiene che “non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.”

Va aggiunto che “per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima”, ciò in virtù del disposto costituzionale ex art. 20, che, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.

Del resto, il D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275 (“Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche”), all’art. 4 - relativo all’autonomia didattica – dispone che: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi verso tutte quelle iniziative che si rivolgano a determinati gruppi di studenti, individuati per avere specifici interessi od appartenenze di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione.

Per tali ragioni, il Collegio ritiene i provvedimenti impugnati legittimi. DU

 



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Inserito in data 29/03/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - SEZIONE AUTONOMA DI BOLZANO, 22 marzo 2017, n. 107

Istanza di erogazione di pasto vegano, diniego e profili di illegittimità

I Giudici bolzanini, accogliendo in parte le doglianze di parte ricorrente, statuiscono l’illegittimità del provvedimento oggi impugnato.

Più nel dettaglio, a fronte di un’istanza, presentata dalla mamma di un bambino prossimo all’iscrizione presso una scuola dell’infanzia, tesa ad ottenere l’erogazione di un menù vegano per il proprio figlio, l’Amministrazione comunale la rigetta senza motivazione alcuna.

Il Collegio, condividendo le censure mosse in ricorso, evidenzia come l’Ente non abbia palesato nessuna ragione giuridica fondante il diniego, impedendo – in tal guisa - all’interessata di verificare la precisa corrispondenza tra situazione astratta prevista dalla norma e situazione concreta accertata dall’Amministrazione procedente.

I Giudici ricordano, infatti, come l’Amministrazione non sia mai libera di agire secondo arbitrio, dovendo sempre e comunque operare secondo legge. La norma, in altri termini, delinea un’ipotesi astratta e collega al suo concreto verificarsi l’insorgere del potere di provvedere. Al di fuori di tale ipotesi quello specifico potere non può essere esercitato, pena l’illegittimità dell’atto.

E’ quanto ricorre nel caso in esame, in cui l’Amministrazione non ha ancòrato ad alcun parametro normativo o regolamentare il proprio diniego che, pertanto, appare del tutto arbitrario.

A fronte di ciò, il Consesso altoatesino pronuncia la declaratoria di illegittimità di un simile provvedimento. Provvede a specificare, in ultimo, il rigetto dell’altro motivo di ricorso – relativo all’adozione della lingua tedesca nell’emissione dell’odierno provvedimento censurato.

Ad avviso dei Giudici, l’Amministrazione ha provveduto semplicemente ad adeguarsi alla medesima lingua adottata dall’istante – oggi ricorrente; prassi possibile in una Regione bilingue, quale quella altoatesina.

Di conseguenza, sotto questo aspetto non è ravvisabile alcun profilo di irregolarità. CC 

 



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Inserito in data 28/03/2017
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 23 marzo 2017, n. 697

L’obbligazione pubblica di assistenza presuppone solo lo stato oggettivo di necessità

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio richiama l'art. 38, primo comma, della Costituzione, che sancisce il principio di solidarietà sociale, “stabilendo che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di una proficua attività lavorativa”.

In applicazione di tale principio l’art. 6, comma 4 della legge 328 del 2000 stabilisce che “Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.

Secondo la giurisprudenza un’interpretazione ragionevole dell’art. 6 c. 4 della L. 328/2000 è nel senso che “l’obbligo a carico del Comune sorge nel momento in cui si verificano le condizioni per procedere alla erogazione del contributo, momento che si verifica quando la situazione economica della persona assistita si deteriora «a tale punto da non potersi permettere di corrispondere la retta alla casa di riposo con le proprie risorse economiche» (Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46; Cons. St., sez. III, 23 agosto 2012, n. 4594)”.

Deve, quindi, escludersi che “per le prestazioni sociali valga quanto stabilito dalla legge per le prestazioni sanitarie, cioè l’assunzione in via principale e diretta della spesa a carico dell’ente pubblico”.

In merito alla definizione della condizione economica dell’assistito l'art. 2 co. 1 del d.P.C.M. n. 159/2013 prevede che "La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competente regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".

Ed, invero, l’art. 8 c.2 della Legge Regionale 12 marzo 2008, n. 3 prevede <<L’accesso agevolato alle prestazioni sociosanitarie e sociali e il relativo livello di compartecipazione al costo delle medesime è stabilito dai comuni nel rispetto della disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente e dei criteri ulteriori, che tengano conto del bisogno assistenziale, stabiliti con deliberazione della Giunta regionale>>.

In sostanza, sia la norma statale che quella regionale stabiliscono chiaramente che “non solo l’accesso, ma anche la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali è stabilito avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente”.

La norma regionale stabilisce, inoltre, che “criteri ulteriori sono definiti dalla Giunta regionale. Deve quindi escludersi che il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai fini della determinazione della compartecipazione possa essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi”.

Per quanto riguarda poi la “definizione del c.d. minimo vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non debba essere computato ai fini della determinazione della compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi che il potere comunale di determinazione sia assoluto”.

Infatti, “l’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000 delega il Governo un decreto legislativo recante norme per il riordino degli assegni e delle indennita' spettanti ai sensi delle leggi 10 febbraio 1962, n. 66, 26 maggio 1970, n. 381, 27 maggio 1970, n. 382, 30 marzo 1971, n. 118, e 11 febbraio 1980, n. 18, e successive modificazioni che preveda il riconoscimento degli emolumenti anche ai disabili o agli anziani ospitati in strutture residenziali, in termini di pari opportunita' con i soggetti non ricoverati, prevedendo l'utilizzo di parte degli emolumenti come partecipazione alla spesa per l'assistenza fornita, ferma restando la conservazione di una quota, pari al 50 per cento del reddito minimo di inserimento di cui all'articolo 23, a diretto beneficio dell'assistito”.

Alla luce di quanto suddetto, il Tar ritiene che la fissazione di un limite d’indigenza totale o astratto è in contrasto con la quantificazione del minimo vitale effettuato dall’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000,  atteso che “l'obbligazione pubblica di assistenza sorge in considerazione soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi propri)”.

In conclusione, in questa materia va ritenuta esistente l'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, “che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, “è lo stato oggettivo di necessità - di cura come di assistenza - per nulla influenzato dalla causa del suo insorgere”. EF 

 



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Inserito in data 27/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 22 marzo 2017, n. 1315

Delitti spia ex art. 84 d.lgs. n. 159/11 ed informativa antimafia

Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alla emissione, ad opera della Prefettura, di una informativa antimafia nei riguardi di una società (operante nel settore rifiuti) e dalla stessa impugnata  innanzi al T.A.R. per vederne dichiarare l’annullamento.

Il Giudice di prime cure, condividendo la tesi difensiva della ricorrente (appellata in secondo grado), annullava la informativa de quo nonché gli atti adottati dalla Amministrazione sul presupposto della informativa medesima.

Avverso la sentenza di annullamento viene proposto appello dalla stessa Prefettura e dal Ministero dell’Interno.

I motivi di appello vengono, dal Collegio, ritenuti fondati in quanto la informativa a carico della società è stata emessa sul  presupposto di una Ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di – omissis - nei confronti del Presidente del Consiglio di amministrazione della società oltre ad altri amministratori di società collegate alla prima “per i delitti di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e di traffico illecito di rifiuti (art. 260 del D.L.vo n. 152 del 2006)”.

Secondo il primo Giudice, i provvedimenti penali emessi a carico dei soggetti amministratori della società non sarebbero ex se idonei a giustificare la valutazione prefettizia circa la permeabilità  mafiosa degli stessi, con conseguente emanazione della informativa oggetto della impugnazione.

Più precisamente, secondo il T.A.R.,  “non è detto che i soggetti sottoposti a misura cautelare o rinviati a giudizio con l’imputazione di essere coinvolti nel traffico illecito di rifiuti siano ipso facto a rischio di collusione con ambienti della criminalità organizzata” giacché “questa valutazione o, in altri termini, presunzione non può essere assoluta, tenuto conto degli effetti dirompenti prodotti dall’informativa, ma deve essere relativa, dovendo il Prefetto comunque verificare, prima di adottare il provvedimento, l’esistenza della concreta possibilità di interferenze mafiose”.

Detto altrimenti, “a giustificare la emanazione della informativa antimafia non basta il titolo del reato riportato nel provvedimento del giudice penale, ma occorre esaminare il contenuto dell’ordinanza o della sentenza del giudice penale e rintracciare nel provvedimento stesso gli indizi da cui desumere il rischio di contiguità con la malavita organizzata, e dunque l’inaffidabilità dell’impresa”.

Al contrario,   stando ai motivi di doglianza proposti in appello dalle odierne appellanti (Ministero e Prefettura) “l’elencazione dei titoli di reato, contenuta nell’art. 84, comma 4, lett. a), del D.L.vo n. 159 del 2011, sarebbe di per sé esaustiva, nel senso che per quei reati il legislatore ha inteso operare a monte una valutazione circa il pericolo di infiltrazione mafiosa, in quanto si tratta di fattispecie che destano maggiore allarme sociale, intorno alle quali con maggiore regolarità statistica, gravita il mondo della criminalità organizzata di stampo mafioso”.

Orbene, il Collegio condivide il motivo di doglianza esposto nel gravame e ricorda che il Prefetto “può e non deve già desumere elementi di infiltrazione mafiosa dalla contestazione dei reati previsti dall’art. 84 citato a mente del quale “le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia sono desunte, tra l’altro, dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluni dei delitti di cui agli articoli 353, 353-bis etc.

La Sezione, quindi, opera una distinzione tra “il valore estrinseco del provvedimento giurisdizionale emanato in sede penale sulla base dei delitti spia di cui all’art. 84 ed il valore intrinseco di tale provvedimento, dato dall’apprezzamento che il Prefetto compie della sentenza – o di altro provvedimento reso in sede penale.

Sotto tale profilo viene in rilievo il valore intrinseco che il contenuto della sentenza assume nella valutazione discrezionale compiuta dalla Prefettura (Cons. Stato, sez. III, 24 luglio 2015, n. 3653) definendo così la informativa antimafia quale “provvedimento discrezionale, e non vincolato, che deve fondarsi su di un autonomo apprezzamento degli elementi delle indagini svolte, o dei provvedimenti emessi in sede penale, da parte dell’autorità prefettizia”.

In sostanza, il provvedimento giurisdizionale emesso in sede penale deve essere considerato quale “indice sintomatico di fenomeni di infiltrazione mafiosa, ma ciò non deve far venir meno l’autonomo apprezzamento delle predette risultanze penali da parte del Prefetto che giustifichino la emissione della informativa de quo a carattere interdittivo”.

Viene, altresì, evidenziato che non vi debba essere automatismo alcuno tra la “emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa antimafia”.

Ed invero, nel caso di specie, contrariamente al ragionamento di cui alla sentenza impugnata, l’Autorità prefettizia ha singolarmente elencato e valutato la posizione del presidente della società e degli altri soggetti amministratori delle società ricollegabili alla prima. Pertanto la Prefettura ha emesso la nota antimafia sulla base di un’autonoma e ponderata valutazione dei fatti che ne giustificano la emanazione.

A completamento dell’iter argomentativo, il Collegio rileva che “il delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006 (traffico illecito di rifiuti) è elemento in sé bastevole a giustificare l’emissione dell’informativa, perché il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti rappresentano, già da soli, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al rischio di infiltrazioni di malaffare che hanno caratteristiche e modalità di stampo mafioso (cfr. Cons. Stato, sez. III, 21 dicembre 2012, n. 6618; Cons. Stato, sez. III, 28 aprile 2016, n. 1632; Cons. Stato, sez. III, 28 ottobre 2016, n. 4555 e n. 4556).

Per di più, “la presenza di legami con la criminalità organizzata (a fronte del grave delitto di cui all’art. 260 d.lgs. n. 152 del 2006) è data per presupposta dal legislatore, con una praesumptio iuris tantum che deve ammettere la prova contraria che, nel caso di specie, non è stata offerta dalle appellanti”.

Alla luce di quanto sopra detto, il Consiglio accoglie l’appello avverso la decisione del TAR e, per l’effetto, respinge il ricorso ed i motivi aggiunti proposto innanzi al Primo Giudice. PC 

 



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Inserito in data 25/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 24 marzo 2017, n. 1337

Motivazione ordinanza comunale di demolizione notificata dopo anni dall’abuso non commesso dall’attuale titolare

Con l’ordinanza in esame, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione “se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.

Oggetto della vicenda è un’ordinanza di demolizione di opere edili abusivamente realizzate, notificata dal Comune ben 32 anni dopo l’ultimazione delle stesse opere. Tale inerzia aveva ingenerato una posizione di affidamento nei proprietari dell’immobile de quo, i quali, peraltro, semplicemente ereditando la proprietà dell’edificio anni dopo il suo completamento, risultavano addirittura estranei a qualsivoglia realizzazione abusiva. Veniva, quindi, “lamentato che, nonostante il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente affidamento medio tempore maturato dagli attuali proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse, diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al provvedimento sanzionatorio”.

In primo grado, il ricorso veniva respinto alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, Sez. IV, 11 gennaio 2011, n. 79) secondo il quale “l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.

La questione è stata, poi, riproposta in appello e la Sesta Sezione, nell’ordinanza in commento, ha subito chiarito che sul tema sussistono due orientamenti giurisprudenziali.

Secondo un primo orientamento (che sembrerebbe maggioritario), “l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa” (VI, 10 maggio 2016 n. 1774; VI, 11 dicembre 2013 n. 5943; VI, 23 ottobre 2015 n. 4880; V, 11 luglio 2014 n. 4892; IV, 4 maggio 2012 n. 2592). Lo stesso orientamento precisa, inoltre, che “ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto” (VI, 5 gennaio 2015 n. 13).

Invece, per un secondo orientamento (conforme alla difesa degli appellanti), pur nella consapevolezza del prevalente indirizzo contrario, sussistono “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (VI, 14 agosto 2015 n. 3933). Tali considerazioni fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, attraverso il trasferimento del bene, di un intento volto a eludere l’applicazione del provvedimento sanzionatorio. Nello stesso solco, aggiunge la Sesta Sezione  - ma il riferimento è a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio - si pone quella giurisprudenza secondo cui “il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa” (V, 15 luglio 2013 n. 3847, seguìta da V, 24 novembre 2013 n. 2013 e IV, 4 marzo 2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29 maggio 2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”).

Alla luce, dunque, del contrasto tra quel filone giurisprudenziale che ritiene ininfluente il decorso del tempo e quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a determinate condizioni, richiede invece una specifica motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento sanzionatorio, il Collegio ritiene di dover rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, non prima, però, di aver fatto delle importanti osservazioni al riguardo.

Il primo rilievo attiene alla circostanza che “nell’arco temporale decorrente dalla commissione dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni edilizi disciplinati dalle leggi 28 febbraio 1985, n. 47, 23 dicembre 1994, n. 724 e 24 novembre 2003, n. 326. Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume che la loro dante causa non ha ritenuto di avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato, previa corresponsione delle somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero, nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione della presentazione delle domande di condono, realizzando una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed esonerando ratione temporis gli appellanti da una presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che -osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile)”.

Con la seconda osservazione, invece, il Collegio evidenzia “che la sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di un preesistente provvedimento valutato in seguito illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al “fatto illecito” (quale deve considerarsi una costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che originariamente era richiesto solo per un “atto illegittimo”. E’ peraltro vero che un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso; affidamento che, se non può certo elidere in radice il potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre circostanze fattuali che si assumano rilevanti”. FM

 



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Inserito in data 24/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 23 marzo 2017 - n. 1322

Notifica del ricorso introduttivo a mezzo PEC in difetto di autorizzazione presidenziale

Nell’ordinanza in esame, il Consiglio di Stato ritiene di dover devolvere all’Adunanza plenaria la questione di diritto se, nel sistema anteriore all’entrata in vigore dell’art. 14 del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, nr. 40 (“Regolamento recante le regole tecnico-operative per l'attuazione del processo amministrativo telematico”), è ammissibile nel processo amministrativo la notifica del ricorso introduttivo a mezzo PEC anche in difetto di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm.

La Sezione deferisce all’Adunanza plenaria la suddetta questione, atteso che, in relazione alla stessa sussistono difformità di indirizzi in giurisprudenza potenzialmente idonei a pregiudicare l’equa ed uniforme applicazione della normativa di riferimento.

“In base all’orientamento minoritario, nel processo amministrativo, in assenza di apposita autorizzazione presidenziale ex art. 52 comma 2, cod. proc. amm. è inammissibile la notifica del ricorso giurisdizionale mediante posta elettronica certificata ai sensi della legge 21 gennaio 1994, nr. 53 (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17 gennaio 2017, nr. 130; id., 17 gennaio 2017, nr. 156; id., 13 dicembre 2016, nr. 5226; id., sez. III, 20 gennaio 2016, nr. 189”.

“L’altro orientamento, di gran lunga prevalente, riconosce, al contrario, l’immediata applicazione nel processo amministrativo delle norme sancite dagli artt. 1 e 3-bis della legge nr. 53/1994, secondo cui la notificazione degli atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale può essere eseguita a mezzo di posta elettronica certificata (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 22 novembre 2016, nr. 4895; id., sez. V, 4 novembre 2016, nr. 4631; id., sez. VI, 26 ottobre 2016, nr. 4490; id, sez. III, 10 agosto 2016, nr. 3565; id., 6 luglio 2016, nr. 3007; id., 14 gennaio 2016, nr. 91; id., sez. VI, 22 ottobre 2015, nr. 4862; id., sez. III, 9 luglio 2015, nr. 4270; id., sez. VI, 28 maggio 2015, nr. 2682; C.g.a.r.s., 8 luglio 2015, nr. 615).” GB

 



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Inserito in data 23/03/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VII, 20 marzo 2017, n. 1531

Sgombero di bene appartenente al patrimonio disponibile: giurisdizione giudice ordinario

La sentenza in esame affronta il tema della diversità del regime giuridico a cui i beni pubblici sono soggetti, a seconda che facciano parte del demanio pubblico (nonché del patrimonio indisponibile) oppure del patrimonio disponibile e la conseguente questione del riparto di giurisdizione.

Nei fatti, un Comune aveva inteso esercitare un potere autoritativo (e non inviare una semplice diffida iure privatorum) per ordinare lo sgombero di un locale occupato, appartenente al proprio patrimonio disponibile.

Orbene, chiamato a pronunciarsi sul punto, il TAR ha immediatamente rilevato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, esponendo le ragioni per le quali la questione sottesa al rapporto controverso rientri, invece, nella giurisdizione del giudice ordinario.

Il Collegio, ponendosi nel solco di una costante giurisprudenza, richiama, in primo luogo, l'art. 823 c.c., il quale stabilisce che l'Amministrazione possa ricorrere all'esercizio dei poteri amministrativi solo per tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, con la conseguenza che, l’ordinanza in questione, essendo rivolta ad un bene appartenente al patrimonio disponibile dell'Ente Territoriale, vada qualificata come atto nullo (secondo i principi sanciti dall'art. 21 septies, l. 7 agosto 1990, n. 241), in quanto adottata in carenza assoluta di potere.

Soffermandosi sulla nullità del provvedimento, il giudice di prime cure afferma poi che esso “non produce alcun effetto degradatorio delle posizioni soggettive di cui si assume la lesione, e se dalla esecuzione del provvedimento sono derivati effetti pregiudizievoli, gli stessi vanno considerati come violazioni di diritti soggettivi la cui tutela appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario” (v. Cons. Stato n. 1331/2010; T.a.r. Sicilia- Palermo n. 169/2016).

Infine, ritenendo di non doversi discostare da una consolidata giurisprudenza, il Collegio Campano afferma che, “la controversia relativa ad un ordine di sgombero di un locale di proprietà comunale facente parte del patrimonio disponibile dell'ente territoriale, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di un rapporto di matrice negoziale, da cui derivano in capo ai contraenti posizioni giuridiche paritetiche qualificabili in termini di diritto soggettivo, nel cui ambito l'Amministrazione agisce "iure privatorum" - al di fuori cioè dell'esplicazione di qualsivoglia potestà pubblicistica - non soltanto nella fase genetica e funzionale del rapporto, ma anche nella fase patologica, il che, più specificamente, si traduce nell'assenza di poteri autoritativi sia sul versante della chiusura del rapporto stesso, sia su quello connesso del rilascio del bene” (cfr. ex multis T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, n. 931/2015). FM

 



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Inserito in data 22/03/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 marzo 2017, n. 1276

La libertà d’impresa è comprimibile solo dinanzi a interessi superiori

Il Collegio, chiamato a pronunciarsi sull’applicazione di una norma di legge regionale del piano arenile (art. 23 del piano), che fornisce la disciplina urbanistica ed edilizia della parte del territorio comunale compresa tra il lungomare e la battigia, ne dichiara l’illegittimità ove impedisce l’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e consente solo la prosecuzione delle attività già autorizzate al momento dell’adozione dello strumento urbanistico, poiché violativa della normativa statale ed espressiva di una scelta discrezionale irragionevole e contraddittoria.

Ad avviso della Sesta Sezione, siffatta previsione, si rivela, infatti, da un lato, confliggente con la disciplina normativa sulla “liberalizzazione” delle attività commerciali, dall’altro affetta dal vizio di eccesso di potere, per effetto della irragionevolezza e della contraddittorietà della scelta.

In ordine al primo profilo, osserva il Collegio che il combinato disposto degli artt. 3, comma 1, D.L. n. 223 del 2006 ("Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale") e 64, D.Lgs. n. 59 del 2010 ("Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno") descrive un sistema di regole che, per un verso, “esclude la possibilità di limitare e contingentare le attività di somministrazione di alimenti e bevande, in coerenza con la dichiarata finalità di apertura alla concorrenza del relativo settore di mercato, e, per un altro, consente ai Comuni una programmazione limitativa dell’apertura di nuovo esercizi solo nelle situazioni in cui la salvaguardia dei preminenti valori della sostenibilità ambientale o sociale, non diversamente tutelabili, impediscano l’aggravio del carico urbanistico implicato dall’insediamento di nuove attività”.

Il Supremo Consesso evidenzia il profilarsi di un regime fortemente liberalizzato, in cui le restrizioni di accesso di nuovi esercenti sono programmabili solo nei casi, eccezionali e limitati, in cui la protezione di interessi generali - superiori a quello connesso alla libertà d’impresa - esige una proporzionata ed adeguata limitazione dell’apertura di nuovi esercizi di somministrazione di alimenti e bevande.

Rileva il Collegio che sebbene “discrezionale, la decisione pianificatoria in esame resta soggetta alle regole di azione stabilite dalla diposizione legislativa di riferimento e, in ogni caso, ai canoni generali della ragionevolezza e della proporzionalità (cfr. ex multis Cons St., sez. IV, 16 aprile 2015, n.1949), appare agevole il rilievo che la contestuale previsione della possibilità di aumentare la superficie degli esercizi esistenti, fino a mq 200, rivela palesi profili di contraddittorietà e di illogicità, che si traducono nel vizio di eccesso di potere per uso sviato della discrezionalità”.

In tale contesto, le esigenze di tutela dell’ambiente risultano smentite e contraddette proprio dalla incoerente previsione della possibilità di aumento della superficie destinata all’esercizio delle attività esistenti di somministrazione di alimenti e bevande; “non solo, ma il combinato disposto delle due misure rivela anche un significativo profilo di sviamento, integrato dal sintomo di una decisione preordinata a cristallizzare l’assetto di mercato esistente al momento dell’adozione della delibera, impedendo, in chiave anticoncorrenziale, l’accesso ad esso di nuovi esercenti”.

Per le ragioni sopra esposte, la Sesta Sezione accoglie il ricorso e annulla la disposizione censurata. DU



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Inserito in data 21/03/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 marzo 2017, n.1175

Lesione dei diritti partecipativi, violazione delle norme sul contraddittorio  nel caso di interessi contrastanti 

La decisione i cui estremi vengono emarginati in epigrafe, concerne una controversia avente ad oggetto la impugnazione del diniego di autorizzazione apertura di passo carrabile.

In primo grado il T.A.R., non condividendo i motivi di impugnazione avverso il predetto diniego, respinge il ricorso.

Più precisamente, il Giudice di prime cure ritiene di poter condividere la opposizione della Amministrazione resistente, fondata sulla base della presunta interferenza dell’ipotizzato passo carrabile con la realizzazione di un parcheggio pubblico sotterraneo, in quanto una delle rampe da realizzare sarebbe stata posta in corrispondenza del passo carrabile richiesto, con conseguente incompatibilità del progetto privato (presentato dalle società ricorrenti).

In secondo grado le parti ripropongono, sostanzialmente, i medesimi motivi di impugnazione respinti dal T.A.R., fondati sulla violazione delle garanzie partecipative ex L. 241 del ’90 e  riguardanti il procedimento amministrativo conclusosi con la delibera di approvazione del parcheggio pubblico nonché sulla antecedenza temporale della richiesta del permesso di passo carrabile ed il progetto di parcheggio pubblico.

In particolare, “le appellanti ritengono errato il presupposto da cui il TAR avrebbe preso le mosse e, cioè, l’antecedenza cronologica del progetto inerente alla realizzazione del parcheggio interrato rispetto alla richiesta di apertura del passo carrabile”.

Il Collegio afferma la fondatezza della doglianza in quanto la richiesta di passo carrabile, unitamente all’intero progetto posto in essere dalle società appellanti, precede temporalmente l’inizio del procedimento di approvazione del parcheggio.

Ed è sotto tale profilo che emerge la illegittimità del comportamento dell’Amministrazione Comunale la quale, “non avrebbe coinvolto le appellanti nell’iter di approvazione del progetto del parcheggio interrato” giacché risulta “evidente l’interferenza del progetto relativo alla realizzazione del parcheggio interrato rispetto alle opere già realizzate dalle appellanti ed a quelle delle quali si richiedeva la realizzazione”.

Il Collegio rileva, dunque, il mancato rispetto delle “adeguate garanzie procedimentali che la l. n. 241 del 1990 pone a favore dei soggetti coinvolti direttamente in un procedimento” o in favore di soggetti i cui interessi privatistici sono interferenti rispetto all’interesse pubblico.

Tra l’altro, l’intero progetto di ammodernamento dell’edificio in cui le appellanti hanno cominciato la loro attività “risale ad epoca decisamente anteriore rispetto all’inizio del procedimento conclusosi con la delibera di approvazione del parcheggio pubblico”.

La Sezione prosegue che in caso di interferenza tra interesse pubblicistico e privatistico, “se è vero che non è ragionevole pretendere la negoziazione del contenuto di un’opera pubblica con tutti i proprietari frontisti, è altresì, incontestabile che il coinvolgimento del privato debba avvenire nel momento in cui questi abbia un interesse differenziato rispetto alla generalità dei consociati”.

Dunque nel caso di specie, viene ravvisata “la lesione dei diritti partecipativi sanciti dalla l. n. 241 del 1990 che, a ben vedere, potevano anche essere valutati in sede di conferenza di servizi” giacché l’Amministrazione, stante l’anteriorità delle opere realizzate dalle appellanti, “avrebbe dovuto renderle edotte dell’iter concernente la realizzazione del parcheggio interrato”.

Per quanto sopra detto, il Collegio accoglie l’appello ed annulla i provvedimenti impugnati in primo grado. PC 



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Inserito in data 20/03/2017
TAR CALABRIA – SEZIONE STACCATA DI REGGIO CALABRIA, 15 marzo 2017, n. 209

La clausola sociale promuove la stabilità occupazionale del personale già impiegato

Con la pronuncia in esame, il Collegio avalla l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui:

La clausola sociale dell’obbligo di continuità nell’assunzione è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato nel senso che l’appaltatore subentrante«deve prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell’appaltatore uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore subentrante» mentre «i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali» (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 dicembre 2013, n. 5725);

La clausola sociale, la quale prevede, secondo numerose disposizioni, «l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto», (così l’art. dell’art. 29, comma 3, del d. lgs. 276/2003, ma altrettanto rilevanti sono la generale previsione dell’art. 69, comma 1, del d. lgs. 163/2006 e quella dell’art. 63, comma 4, del d. lgs. n. 112/1999), perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità dell’occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall’impresa uscente nell’esecuzione dell’appalto, è costituzionalmente legittima, quale forma di tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con l’organigramma dell’appaltatore subentrante e con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di impresa pure tutelata dall’art. 41 Cost.” (Consiglio di Stato, Sez. III, 9 dicembre 2015, n. 5598).

In sostanza, il principio guida è che “la clausola di salvaguardia dei livelli occupazionali non si trasformi, da elemento afferente all’esecuzione dell’appalto, in un elemento tendenzialmente preclusivo della partecipazione”.

D’altronde, la formulazione del (nuovo) art. 50 del d.lgs. 50/2016 prevede che “i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti possono inserire, nel rispetto dei principi dell'Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81”: un richiamo, indiretto, al principio di proporzionalità per cui l’aggiudicatario dev’essere messo nelle condizioni di poter garantire l’applicazione del C.C.N.L., il che val quanto dire che non si possono imporre, con la lex specialis, condizioni che rendano soggettivamente impossibile tale obiettivo.

Tali conclusioni sono state condivisibilmente ribadite dal T.A.R. Toscana, Sez. III, con sentenza n. 231 del 13 febbraio 2017 nella quale si legge che:

a) la clausola sociale deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione;

b) conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante;

c) la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria (cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1896/2013)”.

In conclusione, il Tar afferma che la “medesima sentenza, che si richiama anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 74, seconda parte, c.p.a., ribadisce che tale esito interpretativo non cambia alla luce della nuova disciplina dei contratti”. EF

 



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Inserito in data 18/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 marzo 2017, n. 1173

Sull’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale

 

Nella decisione emarginata in epigrafe, il Collegio conferma la sentenza del Giudice di prime cure  nella quale viene declinata la giurisdizione del Giudice amministrativo sulla sanzione della preclusione a vita alla permanenza presso la Federazione italiana gioco calcio nei confronti del ricorrente in primo grado ed odierno appellante.

Più precisamente, il ricorso veniva dichiarato inammissibile innanzi al T.A.R. Lazio per difetto di giurisdizione del Giudice statale, affermando la giurisdizione del Giudice sportivo ai sensi dell’art. 2 c.1 d.l. 17.10.2003 n. 280.

La Sezione rileva la natura disciplinare della predetta sanzione, evidenziando che i rapporti tra ordinamento sportivo (c.d. giustizia sportiva) ed ordinamento statale sono disciplinati dall’ordinamento sportivo.

Il Collegio osserva come la disposizione di cui al citato art. 2, comma 1, riservi  “all'ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto l'osservanza e l'applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive ed i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l'irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”.

Il successivo art. 3 riserva allo stesso giudice amministrativo “una tutela residuale attinente domande risarcitorie non sussistenti nel caso di specie e ciò anche per i soggetti divenuti estranei all’ordinamento sportivo, come nel caso di specie a seguito delle dimissioni rassegnate dall’interessato nel 2006”.

Del resto ciò è confermato anche da precedenti pronunce dello stesso Consiglio di Stato (sentenza VI, 24 settembre 2012, n. 5065) che ha avuto modo di ribadire “la inammissibilità, per difetto di giurisdizione amministrativa, del ricorso con cui si chiede l'annullamento delle sanzioni disciplinari inflitte dagli organi della giustizia sportiva a fronte della commissione di un illecito sportivo”.

Pertanto, per i motivi suddetti, il Collegio respinge il ricorso e per l’effetto conferma la sentenza impugnata del Giudice di prime cure. PC 



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Inserito in data 17/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 13 marzo 2017 - n. 1151

Offerta anomala: Criteri di calcolo delle offerte da accantonare nel c.d. taglio delle ali 

Nell’ordinanza in esame, il Consiglio di Stato sottopone al vaglio dell’Adunanza Plenaria un quesito in ordine alla corretta interpretazione delle disposizioni che disciplinano i criteri di calcolo delle offerte da accantonare nel meccanismo del c.d. “taglio delle ali”.

Il Consiglio di Stato osserva preliminarmente che, nelle gare aggiudicate secondo il criterio del  prezzo più basso, per individuare la soglia di anomalia oltre la quale le offerte sono considerate anormalmente basse, il legislatore ha previsto un meccanismo articolato in più fasi (Il c.d.taglio delle ali; il calcolo della media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le residue offerte; il calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che in tali offerte superano la predetta media; la somma dei dati relativi alla media aritmetica e allo scarto medio aritmetico).

Il meccanismo del taglio delle ali, oggetto dell’ordinanza di rimessione, è “un’ operazione aritmetica di accantonamento che comporta l’esclusione, dal successivo calcolo della soglia, del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso”.

Tale meccanismo è disciplinato dall’art. 86 comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006 e dell’art. 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010.

In particolare, risulta controverso il secondo periodo del predetto art. 121 nella parte in cui “prevede che, nell’effettuare il c.d. taglio delle ali e nell’escludere dal calcolo il 10% delle offerte aventi il maggiore e minore ribasso, qualora vi siano una o più offerte di eguale valore rispetto a quelle comprese nel 10%, anche dette offerte devono essere accantonate nel meccanismo di calcolo della soglia di anomalia.”

La Sezione rileva che sul punto si sono registrati due diversi orientamenti.

Secondo un primo orientamento, da ritenersi prevalente almeno fino al 2014,” nel caso in cui siano state presentate due o più offerte, aventi la medesima riduzione percentuale, che si trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10%, ogni offerta deve essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto), perché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del limite, fissato dal legislatore nel 10%, e si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006, in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 28 agosto 2014, n. 4429).”

Né vi sarebbero elementi “dai quali possa desumersi, come regola generale, che in caso di offerte con identico ribasso le stesse vadano considerate unitariamente come unica entità (c.d. criterio relativo).”

L’unica eccezione a questa regola viene desunta per le offerte che, nel calcolo per il taglio delle ali, vengono a trovarsi a cavallo della percentuale del 10%”.

Un secondo indirizzo interpretativo, “sostenuto dall’allora Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nel parere n. 133 del 24 luglio 2013 e, poi, dall’ANAC nel parere n. 87 del 23 aprile 2014 e recepito, infine, dal Consiglio di Stato in diverse pronunce ha affermato che il taglio delle ali “intercetta il problema delle offerte identiche in due situazioni e, precisamente, quando vi siano più offerte identiche all’interno delle ali e quanto vi siano più offerte identiche a cavallo delle ali.”

“Una volta ammesso che il tenore letterale dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006 possa essere superato in via interpretativa per le offerte a cavallo delle ali, non vi sono ragioni, secondo l’ANAC, per non applicare lo stesso metodo al caso delle offerte che rimangono interne alle ali.”

Infatti, “identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso, accorpando le offerte con valori identici, consente, nella fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo dai ribassi effettivamente marginali, definiti ex lege nel limite del 10%, superiore e inferiore, di oscillazione delle offerte.”

A giudizio dell’ANAC, in tale prospettiva, “è irrilevante che i ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali, perché si tratta comunque di valori che se considerati distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e ampliano eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i risultati” (parere n. 87 dell’8 maggio 2014).

Pertanto, “per individuare le offerte da accantonare, si fa riferimento ai valori di ribasso, accorpando i valori identici, mentre nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici, essendo ragionevole che, allorché sia stato circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia, alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate (parere n. 87 dell’8 maggio 2014).

Le argomentazioni dell’Autorità sono state riprese dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato la quale ha evidenziato che questa interpretazione “è più garantista dell’interesse pubblico e previene manipolazioni della gara e del suo esito, ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso” (Cons. St., sez. V, 8 giugno 2015, n. 2813).

Preso atto del contrasto giurisprudenziale sopra rassegnato, il Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria la questione:

“a) se nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli ribassi;

b) se la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano considerate, “accantonate” e accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo).” GB



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Inserito in data 16/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 13 marzo 2017 - n. 1152

Il cessionario di ramo d’azienda può avvalersi della qualificazione posseduta dal cedente?

Il caso portato all’attenzione del Supremo Consesso è paradigmatico e attiene alla cessione di un “ramo d’azienda” a società totalmente partecipata dal cedente, composto in larghissima parte dal solo “avviamento”, contabilizzato sulla base di un precedente contratto quadro di avvalimento tra le due società, e solo in infinitesima parte da beni materiali.

La controversia verte sull’ammissibilità o meno dell’esclusione dell’aggiudicataria dalla gara per la perdita della qualificazione richiesta per la partecipazione a seguito della cessione tra il momento della domanda di partecipazione e la successiva presentazione dell’offerta.

Il fuoco della discussione s’incentra sulla possibilità o meno che la vicenda negoziale sortisca effetti decadenziali automatici, a prescindere da un espresso provvedimento di decadenza per effetto della cessione sui requisiti di qualificazione.

La Terza Sezione con l’ordinanza in esame ha rilevato come la medesima quaestio iuris ricevesse diverse soluzioni interpretative dalla Quarta e dalla Quinta sezione e le ha passate in rassegna come di seguito.

Nella specie, le sentenze n. 811, 812 e 813 del 2016 della IV Sezione, escludevano che la circostanza della cessione di un ramo d’azienda esonerasse il soggetto cedente - che resti per avventura in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione -  dal chiedere all’organismo di attestazione la certificazione della qualificazione, la quale - a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207/2010 - “costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell'esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell'affidamento di lavori pubblici”.

Nelle sentenze n. 4347 e 4348 del 2016, la V Sezione, invece, “consapevole del contrario orientamento espresso in alcune decisioni di questo Consiglio”, riteneva di dover condividere e far propria la conclusione secondo la quale con il contratto di cessione non fosse possibile trasferire i requisiti del cedente, occorrenti per la gara, posto che il contratto avesse avuto ad oggetto soltanto il trasferimento di singoli beni e requisiti.

Conclusione, quest’ultima, che avrebbe trovato conferma nella nota del 10 aprile 2014 dell’AVCP (oggi ANAC), ove si dubita dell’idoneità dell’atto di cessione di ramo di azienda ai fini della qualificazione, qualora non emerga l’esposizione di una specifica autonomia funzionale e produttiva dei beni che lo compongono da una perizia giurata ex art. 76, comma 10, del DPR n. 207 del 2010.

È con questo iter argomentativo che il Collegio ritiene che il quadro delle valutazioni svolte sulla natura giuridica dell’atto di cessione ed i suoi effetti sulla qualificazione sia talmente ampio e disallineato da esigere l’intervento dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a.

Si tratta di stabilire se, ai fini della conservazione della qualificazione, possa assumere rilevanza l’attestazione successiva con cui l’organismo SOA accerti che, anche in seguito alla cessione di una parte del compendio aziendale, l’impresa cedente mantenga tutti i prescritti requisiti.

In definitiva, la Terza Sezione con l’ordinanza in epigrafe sottopone all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:

“1. Se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, del d.P.R. n. 207/2010 debba affermarsi il principio per il quale la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, solo a quelle che presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato, escludendo dunque le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale -“rami aziendali”- che si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente di ottenere la qualificazione.

2. Se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità.” DU


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Inserito in data 15/03/2017
TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZIONE I, 10 marzo 2017, n. 94

Appalti: assegnazione di un solo lotto ed integrazione della lex specialis

La questione posta al vaglio del Collegio riguarda l’assegnazione di uno solo dei due lotti in cui è stato suddiviso un appalto allorquando il bando di gara non disciplini l’ipotesi in cui lo stesso concorrente abbia presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa per entrambi i lotti.

Trattasi, invero, di una fattispecie non conforme a quanto disposto nella seconda parte del terzo comma dell’art. 51 del D. Lgs. n. 50/2016, secondo cui le stazioni appaltanti “nei medesimi documenti di gara indicano, altresì, le regole o i criteri oggettivi e non discriminatori che intendono applicare per determinare quali lotti saranno aggiudicati, qualora l'applicazione dei criteri di aggiudicazione comporti l'aggiudicazione ad un solo offerente di un numero di lotti superiore al numero massimo”.

La previsione di un criterio che regoli l’eventualità in commento deve ritenersi doverosa in quanto, sotto un primo profilo, è imposta dalla norma e, sotto altro profilo, rientra “nella piena discrezionalità della Stazione appaltante”.

In particolare, i Giudici, nell’accogliere l’eccezione di parte resistente, ritengono che l’annullamento del criterio carente specificato dalla stazione appaltante comporti la stessa espunzione della clausola contestata; con la conseguenza che “non residuerebbe nella lex specialis di gara un diverso criterio in base al quale procedere”, se la stessa stazione appaltante non avesse provveduto all’integrazione di cui all’art. 79, comma 3, d.lgs. n. 50 (nel caso di specie prevedendo che il lotto fosse assegnato al concorrente che avesse raggiunto la combinazione di punteggi più conveniente per la stazione appaltante).

Né ritengono invocabile “l’applicabilità del chiarimento cronologicamente precedente poiché, a tacere del fatto che veniva posto nel nulla dalla successiva integrazione (il cui eventuale annullamento non ne determinerebbe comunque la riviviscenza), ai sensi della seconda parte del già richiamato comma 3 dell’art. 51 del D. Lgs. n. 50/2016 il criterio in esame deve essere contenuto nella disciplina di gara”.   

Alla luce di quanto suddetto, il Tar osserva che, opinando diversamente, la Stazione appaltante “si troverebbe nella condizione di non poter procedere all’aggiudicazione dei lotti causa l’assenza nei documenti di gara di uno specifico criterio applicabile la caso di specie”. EF

 



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Inserito in data 14/03/2017
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I - 6 marzo 2017, n. 444

Danni provenienti da fauna selvatica e questioni in punto di giurisdizione

Il Collegio etneo interviene, con la pronuncia in esame, in tema di richiesta ex art.7 della L. Reg. Sicilia n. 33/1997 – archiviata dall’Amministrazione competente.

L’istante, odierna ricorrente, nella qualità di coltivatrice diretta e proprietaria di un fondo agricolo, avanzava la suddetta richiesta di indennizzo – lamentando gli ingenti e cospicui danni subiti dalla fauna selvatica presente sul posto in cui insistono i propri latifondi.

La Ripartizione faunistico venatoria, territorialmente competente, disponeva la procedura di archiviazione in ragione della ritenuta, carente documentazione allegata a supporto dell’istanza, che potesse comprovare i danni subìti.

In ragione di ciò, la ricorrente – oltre a lamentare l’eccesso di potere in cui era incorsa la suddetta Amministrazione – formulava, altresì, istanza di risarcimento del “mancato guadagno sofferto a causa del ritardato rilascio del provvedimento favorevole”.

I Giudici catanesi, statuendo l’infondatezza del ricorso in ragione dell’estrema genericità dell’istanza con cui è chiesta la corresponsione di un emolumento per i danni patiti, ne chiariscono la natura indennitaria e, per l’effetto, si pronunciano in tema di giurisdizione.

Essi, infatti, nel ricordare che l’art. 7 della L.R. 33/1997 dispone che “l'Assessore regionale per l'agricoltura e le foreste è autorizzato a corrispondere agli agricoltori e agli allevatori indennizzi, nella misura del 100 per cento, per i danni non altrimenti risarcibili, arrecati dalla fauna selvatica, in specie da quella protetta, alla produzione agricola, al patrimonio zootecnico ed alle opere approntate sui terreni coltivati o destinati a pascolo nonché su quelli vincolati per le finalità di protezione, rifugio e riproduzione di cui alla presente legge. La richiesta di indennizzo, dettagliatamente motivata, è inoltrata entro il termine di sette giorni dalla data dell'evento dannoso alla Ripartizione faunistico - venatoria competente per territorio che accerta la sussistenza e la consistenza del danno entro i successivi trenta giorni (…)”, così contemplando l’esercizio da parte della Ripartizione faunistico - venatoria di un vero e proprio potere discrezionale di verifica dei presupposti per il riconoscimento di tale indennizzo nonché di quantificazione del suo ammontare, rispetto al quale le posizioni dei privati acquistano, quindi, la consistenza di interessi legittimi.

In guisa di ciò, spiegano ancora i Giudici, ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ad indennizzi rispetto al cui riconoscimento sia attribuito un potere discrezionale alla p.a., ancorché limitato al "quantum" (in tal senso, Cass. Civ., Sez. Un., n. 1232/2000).

Pertanto, applicando tali coordinate all’odierna fattispecie, l'indennizzo in favore dei proprietari di fondi danneggiati dalla fauna selvatica, nella disciplina posta dall'art. 7 della L.R. n. 33/1997 ha natura di contributo indennitario, giacché, in mancanza anche di criteri predeterminati di liquidazione, sussiste un potere discrezionale dell'Amministrazione pubblica almeno con riguardo al "quantum" dell'indennizzo da erogare.

Ne consegue che la controversia – quale quella in esame, inerente al riconoscimento ed alla liquidazione di detto indennizzo, ricollegandosi a interessi legittimi, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo. CC

 



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Inserito in data 13/03/2017
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I - 10 marzo 2017, n. 354

Presupposti necessari per l’adozione del “daspo”

Oggetto della sentenza in esame è il provvedimento, adottato dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, gergalmente denominato “daspo” ossia divieto di accesso alle manifestazioni sportive.

Precisamente il TAR si sofferma sulla disamina dei presupposti necessari per l’adozione di detto provvedimento e sulla sussistenza degli stessi nell’ambito di una fattispecie relativa ad un gruppo di tifosi che, avuto accesso ad un autogrill, prelevano, approfittando dello stato di confusione appositamente creato, beni di varia natura degli scaffali occultandoli all’interno degli indumenti indossati e degli zaini.

Il Collegio richiama innanzitutto l'art. 6, comma 1, della legge n. 401/1989 (nella formulazione attualmente in vigore dopo varie modifiche) e rileva che nel caso di specie i ricorrenti sono stati denunciati per un reato (furto) che non rientra nell’elencazione di cui alla prima parte del primo comma di detto articolo, elencazione ritenuta tassativa da dottrina e giurisprudenza.

Il Giudice di prime cure, pertanto, sposta la propria analisi sulle residue ipotesi alternative di cui all’ultima parte del medesimo art. 6 primo comma ed afferma, riferendosi al primo degli elementi tassativamente indicati: la connessione (“in occasione o a causa”) con la manifestazione sportiva, che nel caso di specie esso deve  ritenersi sussistente, poiché, riguardo alla sfasatura temporale tra lo stesso evento sportivo e le condotte ascritte ai ricorrenti,  la giurisprudenza sul punto ha già ritenuto non ostativa la circostanza che lo specifico episodio contestato in sede di Daspo avvenga alcune ore prima dell’inizio della partita e in un luogo relativamente distante dallo stadio. Ciò che occorre, invece, accertare - continua il TAR - è la sussistenza anche dell’ulteriore elemento tassativamente richiesto dalla norma: e cioè il carattere violento dell’episodio contestato, “sub specie di violenza su persone o cose ovvero di incitamento, inneggiamento o induzione alla violenza”.

La sentenza in commento, a questo punto, richiama una serie di precedenti giurisprudenziali che delineano concretamente il suddetto concetto di “violenza”. Il primo riferimento è alla Cassazione penale, la quale nella sentenza n. 12352/2014 ha fornito “una chiave di lettura ufficiale che, di fatto, limita le condotte punibili con l'adozione di una misura di polizia (il c.d. DASPO) soltanto a quelle che specificamente istighino alla violenza, con esclusione, quindi, di comportamenti minacciosi o offensivi o denigratori o anche discriminatori che, seppur sanzionabili penalmente, non consentono l'adozione della misura di polizia”.

Altro riferimento è alla giurisprudenza amministrativa, la quale ha affermato, tra l’altro, che:

“…l’adozione del provvedimento di divieto de quo, che costituisce una misura di prevenzione o di polizia, deve pertanto risultare motivata con riferimento a comportamenti concreti ed attuali del destinatario dai quali possano desumersi talune delle ipotesi previste dalla legge come indice di pericolosità per la sicurezza e la moralità pubblica” (T.A.R. Piemonte-Sez. I sentenza n. 872 del 2016 e altri…);

“…è necessario che al destinatario del divieto sia ascrivibile un comportamento volto con chiarezza e univocità alla commissione del fatto violento (direttamente o per interposta persona); comportamento che, seppure non necessariamente riconducibile a una fattispecie di reato, deve essere pur sempre connotato da fattori inequivocabili, quali l'atteggiamento di chi "induca o inneggi alla violenza, con movimenti corporei o espressioni verbali” (T.A.R. Lecce, sez. I, 17/02/2016, n. 325);

“…il Daspo presuppone e dunque si fonda precipuamente sulla pericolosità specifica dimostrata dal soggetto in occasione di una manifestazione sportiva” (T.A.R. Pescara, 25/01/2016, n. 12).

La stessa giurisprudenza amministrativa riconosce altresì  “l’ampia discrezionalità di cui dispone in materia l’Autorità di P.S. circa la valutazione in ordine al profilo per cui “il soggetto, sulla base dei comportamenti tenuti nella circostanza, non dia affidamento di tenere, per il futuro, una condotta scevra dalla partecipazione a ulteriori episodi di violenza”; valutazione che “non può essere censurata se congruamente motivata con riferimento alle specifiche circostanze di fatto che l'hanno determinata” (Cons. di Stato, n. 6808/2011; TAR Toscana, n. 403/2014, ex pluris)

L’analisi giurisprudenziale condotta dal TAR di Brescia si concentra poi sulle fattispecie analoghe a quella di cui è causa e da cui risulta: che il solo “furto in autogrill (…) fuoriesce dalla tipicità della violenza negli stadi che il legislatore intende reprimere con la L. n. 401/1989” (T.A.R. Umbria n. 199 del 2012); “viceversa esso rientra nel perimetro di applicazione della norma tutte le volte in cui è accompagnato (e qualificato) da un <<di più>> in termini di specifiche connotazioni violente”, come quando il contesto è quello in cui i membri di gruppo di ultras “hanno elevato cori e grida offensive, minacciato i gestori del bar ed anche prelevato, senza pagarle, bibite”(lo stesso T.A.R. Umbria, 10/05/2016, n. 397).

Orbene, un simile “di più” di violenza (e di vero e proprio salto di qualità) rispetto al mero furto aggravato non è ravvisabile nella vicenda in esame, così come essa risulta descritta nelle varie relazioni e comunicazioni di servizio degli organi di polizia, infatti, sottolinea il Collegio bresciano, nel caso de quo, anche se nelle relazioni degli agenti si riferisce di un ingresso del gruppo di tifosi in autogrill e di situazione di confusione creata dallo stesso gruppo, ciò appare comunque non decisivo nelle modalità di esecuzione, poiché non si dà conto di comportamenti in sé violenti o minacciosi o intimidatori o anche solo potenzialmente atti a porre in pericolo la sicurezza pubblica o a creare turbative per l'ordine pubblico, così come espressamente richiesto dall’ultimo inciso del comma 1 art. 6 legge 401/89. Oltre al furto di bevande e di altri oggetti, l’unico ulteriore e più grave elemento obiettivo ascritto negli atti di polizia al gruppo di giovani supporters (tra cui i ricorrenti) entrato nell’autogrill è quello di aver messo “a soqquadro l'ambiente in modo da creare un notevole ed incontrollabile stato di confusione all'interno del locale”, con tutta probabilità finalizzato a (o comunque oggettivamente favorente) la successiva commissione dei furti. Nessun riferimento viene fatto “a minacce e/o intimidazioni rivolte espressamente nei confronti dell’unica addetta presente, la quale nella sua dichiarazione non attribuisce ai “giovani ultras” alcun specifico gesto o espressione in tal senso, bensì dà conto di una comprensibile ma pur sempre soggettiva percezione ovvero stato d’animo personale di paura, plausibilmente indotto dalle circostanze di tempo e di luogo (cioè l’essere donna ed essere sola a quell’ora di notte)”: quello che la stessa autorità di pubblica sicurezza si limita a definire “<<evidente timore>> incusso nell’unica dipendente dai giovani appartenenti alla tifoseria della squadra di calcio”.

Un siffatto riflesso piscologico, conclude il TAR, non è  sufficiente a “integrare il rigoroso e specifico presupposto obiettivo (atti in sé violenti o potenzialmente pericolosi per la sicurezza pubblica) richiesto dal diritto vivente, cioè dalla norma così come posta dal conditor legis e come interpretata dalla giurisprudenza, ai fini della sanzionabilità mediante Daspo”. Devono, quindi, essere annullati gli impugnati provvedimenti. FM

 



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Inserito in data 11/03/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II - 8 marzo 2017, n. 1336

Procedure semplificate di affidamento di servizi e principio di rotazione

Le procedure “semplificate” di affidamento di servizi, ai sensi dell’art. 36 del DLgs n. 50/2016, sono connotate dall’ampia discrezionalità dell’Amministrazione, “anche nella fase dell’individuazione delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla procedura”.

Tale discrezionalità appare temperata dal “principio di trasparenza (come antidoto preventivo a comportamenti arbitrari e, più in generale, alla questione “corruzione”) e dal principio della “rotazione (funzionale ad assicurare l’avvicendamento delle imprese affidatarie per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo)”.

Sebbene il combinato disposto dagli artt. 36, I comma e 30, I comma del codice degli appalti ponga i suddetti principi sullo stesso piano, il principio di rotazione risulterebbe vanificato se non si privilegiasse “l’affidamento a soggetti diversi da quelli che in passato hanno svolto il servizio stesso, e ciò con l’evidente scopo di evitare la formazione di rendite di posizione e conseguire, così, un’effettiva concorrenza.

“La rotazione, dunque – che nei contratti sotto soglia è la regola e non l’eccezione, si configura come strumento idoneo a perseguire l’effettività del principio di concorrenza e, per essere efficace e reale, comporta, sussistendone i presupposti (e cioè l’esistenza di diversi operatori del settore), l’esclusione dall’invito di coloro che siano risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette all’assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di quello da aggiudicare.”

Tuttavia, la mancata applicazione del principio di rotazione,“ non vale ex se, in linea di massima, ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l’aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza affidatario del servizio e sia comprovato che la gara sia stata effettivamente competitiva, si sia svolta nel rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità e si sia conclusa con l’individuazione dell’offerta più vantaggiosa per la stazione appaltante (cfr. TAR Napoli, II, 27.10.2016 n. 4981)”. GB

 



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Inserito in data 10/03/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA - 6 marzo 2017, n. 75

Ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato

Oggetto della sentenza in esame è l’obbligo di notifica ad almeno un controinteressato del ricorso proposto avverso il diniego di accesso ai documenti. Precisamente, il TAR distingue le ipotesi in cui detto obbligo incombe sulla Pubblica Amministrazione, da quelle, invece, in cui l’effettuazione della notifica spetta al ricorrente.

Nella fattispecie la ricorrente, pur avendo individuato espressamente e nominativamente le persone fisiche alla cui documentazione pensionistica intendeva accedere (accesso rispetto al quale era maturato un silenzio rigetto), non aveva provveduto alla notificazione del ricorso ad alcuno di questi.

Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, nel dichiarare il ricorso inammissibile, delinea il quadro normativo di riferimento e menziona, in primo luogo, l’art. 22 della Legge n. 241/1990, secondo cui sono “controinteressati” “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”. Successivamente viene richiamato l’art. 116 del c.p.a. il quale, a propria volta stabilisce al primo comma che “il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno uno dei controinteressati”.

Approfondendo la propria analisi, il giudice di prime cure chiarisce che il principio - sostenuto da qualificata giurisprudenza - secondo cui “non può essere dichiarato inammissibile il ricorso avverso il diniego di accesso non notificato al controinteressato ove questi non sia stato precedentemente reso edotto dall’amministrazione”, riguarda il caso in cui “i controinteressati siano da individuare in coloro che, titolari del diritto alla riservatezza, sono in qualche modo chiamati in causa dal documento richiesto; in tal caso, infatti, ai sensi dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 184 è sull’amministrazione, <<se individua soggetti controinteressati>>, che incombe l’obbligo di coinvolgerli nel procedimento”.

Orbene, nella vicenda in esame, continua la Sezione Unica,  è lo stesso ricorrente che individua i soggetti potenzialmente lesi dall’ostensione dei dati richiesti e, quindi, controinteressati rispetto alla domanda di accesso, pertanto il suesposto principio, che legittimerebbe l’operato della ricorrente, non può trovare applicazione.

In altri termini, conclude il TAR, “ove l’accesso sia potenzialmente lesivo di posizioni soggettive non specificabili a priori, e dunque conoscibili solo dall’amministrazione procedente, è su questa che incombe l’obbligo di individuare i controinteressati e provvedere alla notificazione prescritta dalla norma appena citata; ove invece, come nel caso in esame, di tali posizioni siano titolari determinati soggetti nominativamente indicati, ed anzi i documenti ai quali si chiede l’accesso sia specificamente relativo ad essi, la natura impugnatoria del giudizio, chiarita fin dall’Adunanza plenaria 24 giugno 1999, n. 16, lo sottopone alla generale disciplina del processo amministrativo, compreso l’obbligo di notifica ai sensi dell’art. 41 cod. proc.amm. ad almeno uno dei controinteressati, dei quali è indubitabile il riferimento nella documentazione richiesta”. FM

 



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Inserito in data 09/03/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 marzo 2017, n. 1038

La perimetrazione dei lotti può determinare una situazione di oligopolio

Dalla pronuncia segnalata in epigrafe emerge come “nella definizione dei lotti si deve tenere conto del “rischio di domanda”, ovvero del rischio che la convenzione stipulata per ciascuno di essi all’esito della gara sia saturata da pochi ordinativi da parte di amministrazioni pubbliche di maggiori dimensioni e che dunque il lotto diventi <<mono-contratto>>.”

Dall’analisi di mercato svolta tra il 2011-2013 tramite l’estrazione dalla banca dati dell’Autorità nazionale anticorruzione delle gare per i servizi di vigilanza indette dal settore pubblico, emerge che sono stati banditi «molteplici appalti di singole amministrazioni aventi valore rilevantissimo».

Ad avviso della Sezione, il Tribunale amministrativo adito, ha correttamente focalizzato il fulcro delle questioni controverse.

L’originaria ricorrente ha lamentato un’istruttoria carente nella perimetrazione dei lotti funzionali, derivante dalla mancata considerazione della «struttura del mercato» di riferimento ed ha sostenuto che la segmentazione fatta dall’appellante favorirebbe l’instaurazione di un mercato oligopolistico e di ridotta competitività, con detrimento dell’interesse della pubblica amministrazione ad ottenere servizi di sicurezza a costi ridotti, grazie all’aggregazione della domanda pubblica a livello centralizzato.

Come disposto dal considerando 59 della stessa direttiva 2014/24/UE, invocata dall’appellante a tutela del favor partecipationis, «l’aggregazione e la centralizzazione delle committenze dovrebbero essere attentamente monitorate al fine di evitare un’eccessiva concentrazione del potere d’acquisto e collusioni, nonché di preservare la trasparenza e la concorrenza e la possibilità di accesso al mercato per le PMI».

Il Supremo Consesso ascrive la segnalata restrizione della concorrenza al fatto che solo ventiquattro delle imprese partecipanti alla gara possedevano un fatturato in grado di coprire una tale suddivisione in lotti, in violazione del principio di massima concorrenzialità.

Ad avviso del Collegio dinnanzi a tale segmentazione perfino “gli istituti finalizzati alla massima partecipazione alle gare per l’affidamento di contratti pubblici, quali il raggruppamento temporaneo di imprese o l’avvalimento possono rivelarsi insufficienti, e determinare quindi l’illegittimità della normativa di gara”.

La Quinta Sezione ritiene che la suddivisione in lotti di un contratto pubblico, come qualsiasi scelta della pubblica amministrazione, si presti ad essere sindacata in sede giurisdizionale amministrativa nei noti limiti rappresentati dai canoni generali dell’agire amministrativo, ovvero della ragionevolezza e della proporzionalità oltre che dell’adeguatezza dell’istruttoria, senza alcun tipo di sconfinamento (cfr. sul punto, con riguardo alla suddivisione in lotti: Cons. Stato, III, 23 gennaio 2017, n. 272).

In questa prospettiva, il Giudice Amministrativo si è - correttamente - mosso entro i limiti del sindacato di legittimità, ove il privato non vanta alcun diritto pieno, ma un interesse legittimo alla corretta estrinsecazione del potere discrezionale in ragione dei vincoli posti dalla legge.

Tutte queste circostanze – osserva il Collegio - confermano che le dimensioni dei lotti, i requisiti di fatturato richiesti, la possibilità di partecipare a più di lotti e il cumulo di requisiti imposto per questa eventualità sono sproporzionate rispetto alle esigenze di massima concorrenzialità e irragionevolmente lesive dell’interesse della stessa amministrazione a favorire la più ampia partecipazione di operatori privati al fine di conseguire i maggiori risparmi economici che solo un confronto competitivo ampio può assicurare”. DU

 



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Inserito in data 08/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA 3 marzo 2017, n. 880

Processo amministrativo telematico, tempi e modi deposito della cd. copia d’obbligo

Con la pronuncia in esame la Sesta Sezione del Consiglio di Stato fornisce indicazioni utili in tema di processo amministrativo telematico (cd. PAT).

Esso, previsto dalla L. n. 197 del 25 ottobre 2016 – di conversione del D.L. n. 168/16 ed entrato in vigore a far data dal 1’ gennaio 2017, sta suscitando non poche difficoltà applicative tra gli operatori del diritto.

Pertanto, si reputano essenziali, oltrechè particolarmente utili, i primi suggerimenti provenienti dalle pronunce che ne stanno dando un’iniziale applicazione.

In particolare, nel caso di specie, i Giudici statuiscono l’obbligatorietà del deposito - di cui all’art. 7 – co. 4’ del D.L. n. 168/16 – di una cd. una copia cartacea del ricorso e degli scritti difensivi, con l'attestazione di conformità al relativo deposito telematico, tanto da denominarla cd. copia d’obbligo.

Il Collegio della Sesta sezione sottolinea, per l’appunto, che siffatto deposito è condizione per l’inizio del decorso del termine dilatorio di 10 giorni liberi a ritroso dall’udienza camerale (ovvero 5 nei casi di termini dimidiati), di cui all’art. 55, comma 5, c.p.a., con conseguente impossibilità che, prima dell’inizio di tale decorso, sia fissata detta udienza (ovvero, comunque, che, in caso di fissazione comunque avvenuta, il ricorso cautelare sia trattato e definito in un’udienza camerale anteriore al completo decorso del medesimo termine).

Prosegue, poi, ricordando che nel giudizio di merito, il suddetto deposito è precondizione per il corretto esercizio della potestà presidenziale di fissazione dell’udienza ex art. 71, comma 3, c.p.a.

Si comprende, dunque, l’essenzialità del deposito della copia cartacea degli scritti difensivi divenuta – ad avviso di Codesto Collegio - condizione per discutere l’istanza cautelare ed il merito del ricorso e per garantire, in un’ottica applicativa del generalissimo principio di conservazione degli atti – ex art. 12 Preleggi, un significato alla norma oggi discussa. CC

 



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Inserito in data 07/03/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 2 marzo 2017, n. 1231

Errata domanda di partecipazione ad un concorso pubblico e favor partecipationis

I Giudici napoletani, confermando la posizione già assunta in fase cautelare, sanciscono l’illegittimità del provvedimento di diniego con cui il Ministero dell'Istruzione, dell'Universita' e della Ricerca scientifica non aveva consentito al ricorrente – candidato al concorso per il reclutamento dei docenti, di rettificare la propria domanda on line – con conseguente preclusione (poi emendata in forza del provvedimento cautelare) di prendere parte alle selezioni.

Il Collegio partenopeo ravvisa nella condotta di parte ricorrente, tempestivamente tesa a correggere la svista in cui era incorsa nella fase di compilazione telematica della domanda e nella susseguente azione giudiziaria in fase cautelare, la conferma di un errore essenziale e scusabile e, come tale, passibile di rettifica.

I Giudici, evocando le categorie civilistiche ex artt. 1428 e ss c.c., sanciscono che l’errore in esame è oltrechè essenziale, anche riconoscibile per la descritta incoerenza tra il contenuto della domanda e la classe (di abilitazione professionale) richiesta.

In presenza di simili dati di fatto, prosegue il Collegio, l’Amministrazione avrebbe senz’altro dovuto consentire la rettifica in conformità al principio di correttezza e di buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) e dovendosi privilegiare il principio del favor partecipationis nei concorsi pubblici in rapporto a errori meramente formali, avrebbe dovuto provvedere alla rettifica della domanda erroneamente presentata dal ricorrente, ammettendolo alle relative prove d’esame senza indurlo ad attività processuali, cui il medesimo si trovava costretto al fine di prendere parte alla selezione ambita.

In guisa di ciò, i Giudici accolgono il ricorso, consolidando, quindi, l’ammissione del ricorrente e la sua conseguente collocazione in graduatoria (frattanto conseguita in forza del giudizio cautelare).

In virtù del principio di soccombenza, peraltro, statuiscono l’aggravio delle spese sull’Amministrazione resistente. CC 

 



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Inserito in data 06/03/2017
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 1 marzo 2017, n. 81

Il bando può richiedere che il concorrente dimostri il pareggio di bilancio

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio osserva che gli operatori economici interessati a partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali, devono possedere “la capacità economica e finanziaria necessaria ad assicurare l’osservanza delle obbligazioni contrattuali”.

D’altra parte, “in un periodo economicamente critico, come quello attuale, in cui la solidità patrimoniale e finanziaria di molte aziende è messa seriamente in pericolo, non può prescindersi, a maggior ragione, da una puntuale e rigorosa verifica dello stato di salute delle imprese partecipanti alle gare di appalto pubbliche, in quanto accertamento funzionale allo svolgimento positivo degli appalti stessi e ciò a prescindere dalle capacità tecniche e professionali, che pure devono essere possedute”.

La necessità di affidare il contratto a soggetti che dimostrino, tra le altre, anche la capacità economica e finanziaria idonea a garantire l'esecuzione delle prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti, “un fondamentale principio ricavabile dalla complessiva disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al punto di compromettere o comunque mettere seriamente in pericolo la regolare esecuzione del contratto”.

L’art. 83 del (nuovo) codice appalti, come del resto già il previgente art. 41 del d.lgs. n 163/2006, lascia, peraltro, libertà alle stazioni appaltanti di individuare nella legge di gara gli indici di capacità economica più adatti, col solo limite della “attinenza” e “proporzionalità” all’oggetto dell’appalto, nella ricerca di un costante bilanciamento con l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione” (vedi art. 83, comma 2).

Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra attività e passività” (vedi art. 83, comma 4, lett. b).

Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che, avuto riguardo alla durata del servizio di ristorazione scolastica e, in genere, alle obbligazioni contrattuali cui l’impresa aggiudicataria sarà chiamata a far fronte con i propri mezzi, non solo tecnici e professionali, ma anche, appunto, finanziari, “non pare, dunque, sproporzionata e/o irragionevole la disposizione, contenuta nella lex specialis di gara, di condizionare la partecipazione degli operatori economici interessati alla dimostrazione del possesso del pareggio di bilancio al netto delle imposte negli ultimi tre esercizi. Anzi, tale disposizione pare espressione di legittimo esercizio di potere discrezionale, declinato, peraltro, nel rispetto delle norme di legge”. EF

 



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Inserito in data 04/03/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 2 marzo 2017, n. 975

Sul soccorso istruttorio c.d. processuale

Nella sentenza emarginata in epigrafe, il Consiglio di Stato afferma che “la successiva correzione, o integrazione documentale della dichiarazione (ex art. 38 “Requisiti di ordine generale”) non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti “, - per come sostenuto dalla contro interessata - giacché essa mira ad attestare l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento del soccorso istruttorio”.

Viene così affermato il principio secondo cui, la eventuale violazione dell’obbligo di produrre la predetta dichiarazione, configura un vizio meramente formale che non può essere sanzionato con un provvedimento di esclusione dalla gara.

Invero, “un vizio siffatto è sanabile a mezzo del procedimento del soccorso istruttorio processuale”.

Il Collegio mette in rilievo che la carenza dei requisiti soggettivi di partecipazione alla gara, qualora riscontrata in corso di gara, “non avrebbe consentito la immediata esclusione dell’offerta, ma avrebbe imposto alla Amministrazione la attivazione dell’istituto del soccorso istruttorio sostanziale”.

La Sezione , al riguardo, ricorda l’ampia giurisprudenza formatasi sul soccorso istruttorio quale “istituto di derivazione europea, che attua ed enfatizza nell’ ordinamento  nazionale  una impostazione sostanzialistica delle procedure di affidamento le quali devono mirare ad appurare quale sia la scelta migliore tra i diversi offerenti”.

Il soccorso istruttorio è infatti un istituto che “tende ad evitare che le mere irregolarità formali possano pregiudicare gli operatori economici più meritevoli”.

Ora, con riguardo alla controversia oggetto della decisione che qui ci occupa, si tratta di stabilire se può invocarsi (o meno) il soccorso istruttorio ad aggiudicazione avvenuta, e cioè in sede processuale.

L’obiezione processuale della contro interessata risiede nella considerazione che “ammettere una integrazione documentale nel corso del giudizio, violerebbe il principio della par condicio tra i concorrenti”.

Il Collegio contesta la predetta  obiezione, ritenendola infondata giacché non in linea con la scelta sostanzialistica del legislatore diretta ad impedire le esclusioni per vizi formali nella dichiarazione “quando vi è comunque prova del possesso del requisito”.

Invero, un tale approccio sostanziale “deve  applicarsi anche quando l’incompletezza della dichiarazione viene dedotta come motivo di impugnazione dell’aggiudicazione da parte di altra impresa partecipante alla selezione (non essendosene avveduta la stazione appaltante in sede di gara), ma è provato che la concorrente fosse effettivamente in possesso del prescritto requisito soggettivo fin dall’inizio della procedura e per tutto il suo svolgimento”.

In tale caso, infatti, l’irregolarità della dichiarazione si configura come vizio solo formale e non sostanziale, emendabile secondo l’obbligatoria procedura del soccorso istruttorio.

Peraltro, “la successiva correzione, o integrazione documentale della dichiarazione non viola affatto il principio della par condicio tra i concorrenti, in quanto essa mira ad attestare, correttamente, l’esistenza di circostanze preesistenti, riparando una incompletezza o irregolarità che la stazione appaltante, se avesse tempestivamente rilevato, avrebbe dovuto comunicare alla concorrente, attivando l’obbligatorio procedimento di soccorso istruttorio”.

Non è pertanto condivisibile la tesi della impossibilità di ricorrere in sede processuale all’istituto del soccorso istruttorio, per il sol fatto che lo stesso procedimento non sia stato attivato dalla Amministrazione durante la procedura di aggiudicazione.

La tesi della impossibilità  “comporterebbe effetti eccessivamente gravosi sia per la Amministrazione che per l’impresa: quest’ultima sarebbe privata della possibilità di stipulare il contratto, pur disponendo, in via sostanziale, dei necessari requisiti”.

Fatte tali considerazioni, la Sezione si interroga in merito alle modalità attraverso le quali il soccorso istruttorio possa essere esaminato in giudizio.

In primis, viene rilevato che la questione non possa essere esaminata d’ufficio, ma richiede una iniziativa della aggiudicataria la quale intende affermare la legittimità sostanziale della propria ammissione alla gara.

Per invocare il soccorso istruttorio, finalizzato a paralizzare la doglianza della contro  parte finalizzata ad ottenere la esclusione, la interessata aggiudicataria di cui si contesta la ammissione, sarà gravata dell’onere – ex art. 2697 cc – “della dimostrazione della natura meramente formale dell’errore contenuto nella dichiarazione”. Principio di vicinanza della prova.

In sintesi, la aggiudicataria non può limitarsi ad eccepire la violazione del principio del soccorso istruttorio da parte della Amministrazione, “ma deve dimostrare in giudizio che, ove fosse stato attivato, correttamente, tale rimedio, l’esito sarebbe stato ad essa favorevole, disponendo del requisito in contestazione”. PC

 



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Inserito in data 03/03/2017
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - CASO Talpis c. ITALIA - SEZ. I, SENTENZA 2 marzo 2017 - Ric. n. 41237/14

Violenza domestica, condannata l’Italia

I giudici di Strasburgo, con la pronuncia in esame, esprimono un duro monito nei riguardi dell’Italia – censurandone l’operato, sia in fase prodromica che prettamente processuale, in materia di maltrattamenti in famiglia.

Tale fattispecie criminosa, prevista dal nostro Ordinamento all’articolo 572 c.p., dovrebbe – ad avviso del Collegio francese - essere oggetto di costante attenzione già nelle prime fasi della denuncia da parte delle vittime.

Queste ultime, evidentemente non "ascoltate" nelle fasi antecedenti, stante la carenza di strumenti giudiziari ed extra – processuali  propria del sistema italico, si ritrovano con il subire oltremodo.

Si finisce, pertanto, con l’aver creato un contesto d’impunità in favore dell’uomo, con le conseguenti, gravissime ripercussioni sul piano fisico e morale – pari a quelle lamentate dall’odierna vittima.

La Corte di Strasburgo, pertanto, condanna severamente l’Italia, posto che la ricorrente rientra nella categoria di «persone vulnerabili» bisognose di protezione dallo Stato, tutelata dall’art.3 Cedu.

I Giudici, infatti, richiamando propria giurisprudenza pregressa, ricordano che le violenze, quando si traducono in lesioni personali e pressioni psicologiche sufficientemente gravi, si inseriscono nei maltrattamenti sanzionati da questa norma (Cfr. M.B. cv. Romania del 3/11/11) e, in guisa di ciò, non possono non condannare la colpevole inerzia del nostro Ordinamento che, con una condotta simile, ha finito per avallarle. CC 


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Inserito in data 02/03/2017
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 28 febbraio 2017, n. 145

Il soccorso istruttorio nel nuovo Codice dei Contratti Pubblici

È legittima, ad avviso del TAR Liguria, l’esclusione della possibilità per la ricorrente di produrre documentazione ulteriore afferente all’offerta tecnica.

Il Consesso Amministrativo rileva come siffatta circostanza esulerebbe dall’ambito dell’istituto del soccorso istruttorio come strutturato dal nuovo codice dei contratti.

A tal riguardo occorre rilevare come l’art. 83, comma 9, D.Lgs n. 50/2016 abbia escluso la sanabilità mediante il soccorso istruttorio degli elementi dell’offerta tecnica e economica.

In particolare l’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50/2016 per quanto di interesse in questa sede stabilisce che: “ Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma … con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica”,

Va evidenziato come il Legislatore abbia delineato un soccorso istruttorio significativamente differente dall’omologa fattispecie previgente, di cui all’art. 46, comma 1-ter, D.Lgs. n.163/2006, che lo ammetteva anche rispetto all’offerta, con l’unico limite di quelle mancanze, incompletezze o irregolarità tali da determinare una totale incertezza sul contenuto o sulla provenienza della stessa.

A ben vedere, la nuova norma esclude in radice la possibilità di operare mediante il soccorso istruttorio in favore di elementi afferenti l’offerta.

In sostanza si lamenta che la Commissione avesse dapprima richiesto la dimostrazione dalla circostanza che i sistemi della ricorrente possedessero i requisiti di ignifugicità richiesti per poi, contraddittoriamente, escludere la ricorrente.

Ad avviso del Collegio “il fatto che la Commissione abbia comunque cercato di agevolare la ricorrente ed abbia espresso il giudizio di inammissibilità della documentazione solo una volta ottenuta, non viene a colorare di illegittimità un provvedimento che, come si è detto, appare conforme alla disciplina di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. 50/16, illegittimo essendo se mai l’invito della Commissione a dimostrare ex post il possesso di requisiti non adeguatamente documentati in sede di offerta.” DU 



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Inserito in data 01/03/2017
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 27 febbraio 2017, n. 68

Rilevanza delle specificità dei partecipanti ad un appalto: discostamento dalle tabelle ministeriali sul costo del personale

Con la sentenza in esame il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana affronta il tema della possibilità o meno per una stazione appaltante, in sede di verifica delle offerte anomale, di tener conto della specifica condizione di ciascun partecipante ed in particolare, per il costo del personale, di ritenere congrua una offerta che preveda un costo inferiore alle tabelle ministeriali.

Nei fatti, un’impresa specializzata nel servizio di vigilanza impugnava dinanzi al TAR Sicilia l’aggiudicazione dello stesso servizio in favore di un’altra impresa, ritenendo irragionevole il giudizio di congruità svolto dalla stazione appaltante in sede di verifica di anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria in ordine al costo del personale. In particolare la ricorrente lamentava l’inadeguatezza delle giustificazioni addotte dalla società aggiudicataria in merito alla riduzione del costo del personale e al discostamento dai parametri generali contenuti nelle tabelle ministeriali relative ai costi della manodopera. Ma i giudici di primo grado, ritenendo legittime le valutazioni svolte dalla stazione appaltante sulla congruità delle spiegazioni fornite dalla società vincitrice, rigettavano il ricorso.

Chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, il CGA afferma di condividere la decisione assunta dal TAR e chiarisce, innanzitutto, la natura delle tabelle ministeriali relative ai costi della mano d’opera, richiamando il costante orientamento giurisprudenziale che le qualifica come parametri generali di riferimento (idonei a valutare la congruità dei costi rappresentati nelle offerte degli operatori economici) non ex se vincolanti. L’impresa sottoposta a verifica, continua il giudice d’appello, è, quindi, ammessa a fornire spiegazioni in ordine alle eventuali ragioni di scostamento della propria offerta da quei parametri generali.

La decisione in commento si sofferma poi sui rilievi censori svolti dalla società appellante che evidenziano come “il giudizio di congruità e di appropriatezza dell’offerta dovrebbe trovare un limite invalicabile in relazione allo specifico appalto oggetto di gara, senza poter tener conto di esternalità positive di cui il concorrente possa eventualmente giovarsi in relazione ad altri contestuali servizi in corso di esecuzione”; nel caso di specie il riferimento è alle altre commesse in corso di svolgimento, che hanno consentito alla società aggiudicataria un oggettivo risparmio, delle spese relative al personale, sull’appalto oggetto di impugnazione. La  finalità della prospettazione della parte appellante sarebbe quella di non favorire le imprese di maggiori dimensioni.

Orbene, il CGA sottolinea come i suesposti rilievi censori svolti dalla società appellante non appaiono condivisibili, in quanto non si rinviene in alcuna disposizione del codice dei contratti pubblici il divieto, per la P.A. appaltante, di tener conto della specifica condizione di ciascun partecipante, inoltre quest’ultima valutazione non appare ex se discriminatoria, “in quanto non legata necessariamente all’elemento dimensionale dell’impresa (essendo d’altronde sempre consentita, per elidere tale profilo, la partecipazione alle gare in composizione plurisoggettiva)”.

Piuttosto, conclude il Consiglio, appare evidente “l’interesse pubblico sotteso alla scelta del contraente che riesca a formulare un’offerta maggiormente attrattiva per la stazione appaltante a prescindere dalle condizioni contingenti (purché giustificate e conformi a legge) che hanno in concreto consentito la formulazione di tale offerta (nello specifico, la simultanea esecuzione di altre analoghe commesse)”.

Alla luce dei rilievi che precedono, ritenuta, nel caso di specie, congrua e legittima la valutazione svolta dalla stazione appaltante, Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. FM

 



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Inserito in data 28/02/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 27 febbraio 2017, n. 897

Occupazione illegittima: Prova della proprietà e natura del danno

In sede di risarcimento per occupazione illegittima di un terreno da parte della P.A. “non è richiesta la prova rigorosa della proprietà (c.d. probatio diabolica), “atteso che oggetto della pretesa azionata è, non già il diretto e rigoroso accertamento della proprietà del fondo, bensì l'individuazione del titolare del bene avente diritto al risarcimento”.

Pertanto, il convincimento del giudice in ordine alla legittimazione alla pretesa risarcitoria può formarsi “sulla base di qualsiasi elemento documentale e presuntivo sufficiente ad escludere un'erronea destinazione del pagamento dovuto (Cass. n. 18841 del 2016).”

Per quanto attiene al riconoscimento del risarcimento del danno e alla sua quantificazione, la giurisprudenza della Corte di legittimità ricorre alla categoria del danno in re ipsa.

Il danno risulta, pertanto, ricollegato “alla perdita di disponibilità del bene, la cui natura è naturalmente fruttifera, e alla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile nell’esercizio delle facoltà di godimento e disponibilità, insite nel diritto dominicale”.

“L’esistenza di un danno costituisce, così, oggetto di una presunzione iuris tantum superabile ove si accerti che il proprietario si sia intenzionalmente disinteressato dell’immobile (Cass. n. 16670 del 2016, n. 20823 del 2015, n. 14222 del 2012).” GB

 



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Inserito in data 27/02/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER, 24 febbraio 2017, n. 2817

L’abilitazione regionale per la professione di guida turistica limita la concorrenza

L’art. 3 della legge n. 97 del 6-8-2013, legge europea 2013, norma dettata sulla base dell’apertura da parte della Commissione europea del caso EU Pilot 4277/2012, prevede espressamente la validità “su tutto il territorio nazionale” dell’abilitazione alla professione di guida turistica.

Inoltre, “ai fini dell'esercizio stabile in Italia dell'attività di guida turistica, il riconoscimento ai sensi del decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, della qualifica professionale conseguita da un cittadino dell'Unione europea in un altro Stato membro ha efficacia su tutto il territorio nazionale”. In base al secondo comma dell’art. 3, “fermo restando quanto previsto dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, i cittadini dell'Unione europea abilitati allo svolgimento dell'attività di guida turistica nell'ambito dell'ordinamento giuridico di un altro Stato membro operano in regime di libera prestazione dei servizi senza necessità di alcuna autorizzazione nè abilitazione, sia essa generale o specifica”.

Dopo tali previsioni di carattere generale, “il terzo comma ha, invece, attribuito al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, sentita la Conferenza unificata, il potere di individuare, con apposito decreto ministeriale, i siti di particolare interesse storico, artistico o archeologico per i quali occorre una specifica abilitazione”.

Successivamente, con il decreto legge n. 83 del 31-5-2014 convertito nella legge n. 106 del 29-7-2014, “il potere ministeriale è stato esteso ai requisiti necessari ad ottenere tale abilitazione e alla disciplina del procedimento di rilascio della stessa, disciplina da adottarsi previa intesa con la Conferenza unificata. Sulla base del potere attribuito da tale norma è stato adottato il decreto ministeriale dell’11 dicembre 2015”.

La disciplina legislativa dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013 è stata anche oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2014, che ha dichiarato “la illegittimità dell’art. 73 comma 4 della legge regionale dell’Umbria n. 13 del 2013, che aveva subordinato la possibilità di svolgere l’attività per le guide turistiche, che avessero conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione presso altre Regioni e che intendevano svolgere la propria attività nella Regione Umbria, all'accertamento, da parte della Provincia, della conoscenza del territorio, con le modalità stabilite dalla Giunta regionale”. La Corte ha espressamente affermato, in tale sentenza, che la norma regionale impugnata “introduce una barriera all'ingresso nel mercato, in contrasto con il principio di liberalizzazione introdotto dal legislatore statale”, richiamando la propria giurisprudenza per cui l'efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l'agire degli operatori sul mercato: “una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva - cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) - genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L'eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale (sentenza n. 200 del 2012)”.

La Corte Costituzionale, quindi, pur pronunciandosi rispetto alla competenza della legge regionale, “ha espressamente fatto riferimento ad un principio di liberalizzazione nell’attività delle guide turistiche contenuto nella disciplina della legge n. 97 del 2013”.

Dalla espressa previsione legislativa e da quanto già affermato dalla Corte Costituzionale, deriva che la previsione del terzo comma dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013, che “consente l’introduzione di un limite alla libera concorrenza in relazione alla tutela di siti particolarmente rilevanti, non può che essere interpretato in via restrittiva, nel senso di attribuire al Ministero un potere eccezionale di escludere l’applicazione della disciplina generale di cui al comma 1”.

Tale interpretazione è anche conforme a quanto affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia del 26 febbraio 1991 che “ha ritenuto compatibili alcune restrizioni alla prestazione di servizi qualora sussistano esigenze imperative di interesse generale e lo stesso risultato non potrebbe essere ottenuto con provvedimenti meno incisivi”.

Sotto tali profili, sono evidenti l’illogicità e irragionevolezza del decreto ministeriale 7 aprile 2015, che ha individuato più di tremila siti, in tutte le Regioni ed in molti Comuni di Italia, e della disciplina del decreto dell’11 dicembre 2015, che ha previsto una specifica abilitazione, rilasciata da parte delle Regioni (e delle Province autonome), che “nelle forme e nei modi di cui al successivo articolo 5, rilascia, per i siti individuati dal decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo di cui al comma 1, localizzati sul proprio territorio, una specifica abilitazione per l'esercizio della professione di guida turistica”. Con tale norma è stata introdotta “una abilitazione regionale con efficacia limitata all’ambito regionale, in contrasto, quindi, con la stessa previsione dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013 e con le indicazioni della Corte Costituzionale”.

Le disposizioni del comma 1 e del comma 3, infatti, non contengono alcun riferimento ad una abilitazione regionale: “il rispetto della competenza regionale è assicurato dalla norma primaria con la previsione dell’intesa con la conferenza unificata per l’esercizio del potere ministeriale (Corte Costituzionale n. 284 del 2016; n. 211 del 2016; n. 62 del 2013), rispetto alla disciplina dell’abilitazione”.

Orbene, il potere attribuito alle Regioni per il rilascio di un’ulteriore abilitazione all’esercizio della professione di guida turistica con ambito limitato alla Regione, oltre che generico ed indeterminato (“procedono ad organizzare sessioni d’esame”- restando, quindi, indeterminato se una per tutti i siti regionali o per gruppi di siti o anche per un singolo sito ) è “limitativo della concorrenza alla prestazioni di servizi in contrasto con l’articolo 117 della Costituzione ed il rispetto dei principi dell’Unione europea”.

La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha, infatti, espressamente affermato, con riferimento alla disciplina delle guide turistiche e alle norme regionali che prevedevano l'indicazione di una limitazione degli ambiti territoriali per i quali sussiste l'abilitazione, nonché degli ambiti territoriali entro i quali la professione può essere esercitata, che “dette limitazioni comportano una lesione al principio della libera prestazione dei servizi, di cui all'art. 40 del Trattato CE e, dunque, la violazione del rispetto del vincolo comunitario di cui all'art. 117, primo comma, Cost., oltre che della libera concorrenza, la cui tutela rientra nella esclusiva competenza statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.“ (sentenza n. 271 del 2009).

Né la limitazione regionale dell’abilitazione può essere superata in via interpretativa con la disposizione dell’art. 7 del decreto ministeriale, che prevede “l'iscrizione nell'Elenco nazionale delle guide turistiche dei siti di particolare interesse storico, artistico o archeologico, tenuto a livello nazionale dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, a seguito del superamento dell’abilitazione regionale. Oltre alla genericità e indeterminatezza della disciplina dell’art. 7 del decreto circa il rapporto tra l’abilitazione regionale e l’elenco nazionale, si deve evidenziare che, se a seguito dell’abilitazione regionale potesse svolgersi l’attività di guida turistica, comunque, su tutto il territorio nazionale, per i siti individuati nel decreto, tale disciplina risulterebbe anche contraddittoria rispetto alla esigenza di garantire una specialità delle conoscenze relativamente a tali siti, posta a base del potere attribuito dal comma 3 dell’art. 3 della legge n. 97 del 2013”. EF

 



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Inserito in data 25/02/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I - 20 febbraio 2017, n. 1023

Indicazione nome subappaltatore, avvalimento e carenza requisito regolarità fiscale

La sentenza emarginata in epigrafe verte su  una controversia con oggetto l’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione di un appalto con due sole imprese partecipanti.

Il Tribunale amministrativo campano ritiene la contestuale disamina dei ricorsi (principale ed incidentale) giacché unadelle due ha impugnato l’ammissione dell’altra (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2014 e Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 5 aprile 2016, C-689/13).

Preliminarmente, rileva il Collegio come  la ricorrente in via incidentale (aggiudicataria dell’appalto) lamenti la mancanza dei requisiti di partecipazione in capo alla ricorrente principale in quanto la stessa “non ha indicato  nominativamente il subappaltatore individuato ai sensi dell’art. 118 del D.Lgs. n. 163/2006”.

Il Collegio afferma la infondatezza di tale doglianza giacché la lex specialis non richiede l’indicazione del nominativo del subappaltatore.

Peraltro ciò è in linea  con l’indirizzo espresso dall’Adunanza Plenaria n. 9/2015, secondo cui, “dall’esame della vigente normativa di riferimento può, in definitiva, ritenersi che “l’indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta, neanche nei casi in cui, ai fini dell’esecuzione delle lavorazioni relative a categorie scorporabili a qualificazione necessaria, risulta indispensabile il loro subappalto a un’impresa provvista delle relative qualificazioni (ipotesi di c.d. subappalto necessario)”.

D’altra parte, il Collegio non condivide neanche le doglianze esposte dal ricorrente principale in ordine alla mancanza, in capo alla aggiudicataria, della attestazione SOA in punto di avvalimento.

Al riguardo i Giudici evidenziano la portata generale dell’istituto dell’avvalimento (a seguito della novella legislativa  di cui al D.Lgs. 152/2008  che ha modificato l’art. 49 d.lgs. 2006 n. 163, rendendolo così compatibile con la direttiva 2004/18/CE).

A seguito del predetto correttivo al codice dei contratti pubblici, viene appurata “la generale operatività dell’istituto di cui al citato art. 49 (cioè dell’avvalimento) che, dunque, consente ad un operatore economico privo di qualificazione di avvalersi anche in toto dell’attestazione SOA di una impresa ausiliaria (Consiglio di Stato, Sez. VI, 1856/2008 secondo cui “anche in mancanza di specifica prescrizione del bando di gara, si può sempre ricorrere, ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione, all’avvalimento parziale verticale”).

Sempre in tema di avvalimento, il Collegio affermae che “le esigenze di puntuale specificazione dei requisiti economico – finanziari oggetto di avvalimento siano assicurate dalla indicazione della SOA oggetto di avvalimento senza che occorra all’uopo indicare gli specifici requisiti sottesi al rilascio dell’attestazione”.

Sotto altro profilo, il Collegio accoglie i motivi di impugnazione esposti dal ricorrente principale e riguardanti la indicazione di un architetto (in luogo dell’ingegnere) per la progettazione esecutiva.

Viene, altresì, accolto il motivo attinente alla carenza del requisito della regolarità contributiva in capo alla aggiudicataria.

Ora, sotto il primo profilo, il Collegio ritiene di dover condividere l’argomento esposto dalla ricorrente principale.

Si vedano, sul punto,  gli artt. 51 e 52 del R.D.  n. 2537/1925 (norme ancora in vigore che costituiscono il punto di riferimento normativo per stabilire il discrimine tra le competenze degli architetti e quelle degli ingegneri), secondo cui “la progettazione delle opere viarie non connesse ai singoli fabbricati sono di pertinenza esclusiva degli ingegneri”.

Tra l’altro ciò è coerente con il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale le predette disposizioni vanno interpretate nel senso che “appartiene alla esclusiva competenza degli ingegneri non solo la progettazione delle opere necessarie alla estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e la progettazione delle costruzioni industriali, ma anche la progettazione delle opere igienico - sanitarie e delle opere di urbanizzazione primaria (viabilità, acquedotti, depuratori etc.)”.

Sotto il secondo profilo, riguardante la lamentata carenza del requisito della regolarità contributiva della aggiudicataria, il Collegio dando ragione alla ricorrente principale, osserva che “in presenza di una situazione di irregolarità contributiva alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura, la commissione di gara avrebbe dovuto escludere la aggiudicataria” (principio giurisprudenzale espresso dalle Adunanze Plenarie n. 5 e n. 6 del 2016).

La correttezza della censura mossa dalla ricorrente è a fortiori confermata anche in base alla lettura della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea n. 199 del 10 novembre 2016 che ha ritenuto compatibile con l’ordinamento comunitario una disciplina nazionale che non ammetta la regolarizzazione postuma del requisito di regolarità contributiva.

Alla luce di quanto sopra detto, il Collegio respinge il ricorso incidentale proposto dalla società aggiudicataria (ricorrente in via incidentale).

Accoglie il ricorso principale della seconda in classifica e condanna l’Amministrazione al risarcimento dei danni subiti a causa della illegittimità del provvedimento di aggiudicazione in favore della società aggiudicataria. PC

 

 



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Inserito in data 24/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 febbraio 2017, n. 890

Ristrutturazione abusiva: la demolizione non può essere evitata monetizzando l’abuso

Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che alla fattispecie riguardante una ristrutturazione abusiva vada applicato l’art. 33 del T.U. 308/2001, che in generale prevede la sanzione della rimessione in pristino (comma 1) e solo qualora essa non sia possibile “sulla base di motivato accertamento dell'ufficio tecnico comunale”, dispone che si applichi una sanzione pecuniaria, commisurata peraltro all’aumento di valore dell’immobile e non compresa entro un minimo e un massimo edittale (comma 2). La stessa norma prevede poi, al comma 3, che “Qualora le opere siano state eseguite su immobili, anche se non vincolati, compresi nelle zone omogenee A, di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, il dirigente o il responsabile dell'ufficio richiede all'amministrazione competente alla tutela dei beni culturali ed ambientali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o la irrogazione della sanzione pecuniaria di cui al precedente comma. Qualora il parere non venga reso entro novanta giorni dalla richiesta il dirigente o il responsabile provvede autonomamente”.

Orbene, la stessa Sesta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 1084/2014, ha chiarito che “la possibilità di irrogare la sanzione pecuniaria rimane anche quando, come accaduto nella specie, la Soprintendenza, regolarmente richiesta del parere, non si sia pronunciata”.

Viene poi in questione l’art. 16 della l.r. 15/2008, che per lo stesso caso di ristrutturazione abusiva prevede al comma 5: “Qualora le opere siano state eseguite su immobili anche non vincolati compresi nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro dei lavori pubblici del 2 aprile 1968… il dirigente o il responsabile della struttura comunale competente decide l'applicazione delle sanzioni previste al comma 4” previa acquisizione del parere della Soprintendenza di cui si è detto e “fermo restando quanto ivi stabilito nell'ipotesi di mancato rilascio dello stesso.

Le sanzioni di cui al richiamato comma 4 sono appunto “la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi” a cura e spese del responsabile e “una sanzione pecuniaria da 2 mila 500 euro a 25 mila euro”. La sanzione applicabile è quindi una “sanzione ripristinatoria, congiunta ad una pecuniaria che però ha soltanto funzione afflittiva, perché non rappresenta in alcun modo, come invece previsto dall’art. 33, l’equivalente in danaro del vantaggio conseguito con l’abuso”.

Pertanto, “la sanzione ripristinatoria e la sanzione pecuniaria afflittiva si applicano congiuntamente, e non c’è la possibilità che la demolizione sia evitata monetizzando, per così dire, l’abuso” (Cfr. Consiglio di Stato, sentenza 7955/2014).

D’altra parte, esso è conforme “alla logica della normativa sulle zone A, che com’è noto sono i centri storici, e vengono in generale tutelate con maggiore intensità rispetto alle altre”. Esemplificando, lo stesso D.M. 1444/1968 prevede per tali zone “limiti di densità edilizia e di altezza più restrittivi che per le altre e si preoccupa di salvaguardarne l’assetto presente”: non consente di modificare le distanze fra gli edifici esistenti, consente invece di non localizzarvi gli standard urbanistici minimi “per ragioni di rispetto ambientale e di salvaguardia delle caratteristiche, della conformazione e delle funzioni della zona stessa”.

Per le stesse ragioni, “si ritiene manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 16 l.r. 15/2008”.

E’, infatti, evidente che “non è incostituzionale una normativa di maggior tutela del “patrimonio storico” nazionale, tutelato dall’art. 9 Cost.”.

In proposito, va richiamata, per identità di logica, la sentenza della Corte costituzionale 29 gennaio 2016, n. 11, “per cui in linea di principio le scelte di politica regionale, anche legislativa, in materia di tutela del paesaggio prevalgono sulle altre”.

Nello stesso senso porta anche l’ordine di idee fatto proprio da Corte costituzionale 19 novembre 2015, n. 233, “per cui è incostituzionale una legge regionale che escluda la sanzione ripristinatoria a favore di quella pecuniaria, in quanto ciò integra un “condono generalizzato” “.

Se ne desume, a contrario, che “è legittima l’operazione opposta, di potenziare la sanzione del ripristino”. EF

 



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Inserito in data 23/02/2017
TAR VALLE D’AOSTA, SEZ. UNICA - 20 febbraio 2017, n. 7

Sull’affidamento diretto di un servizio mediante gara informale, pur in presenza di una società in house

Con la sentenza in esame il TAR Valle d’Aosta affronta il tema della possibilità per un Ente Pubblico di  esperire una gara informale per l’affidamento di un servizio, pur in presenza di una società in house dallo stesso partecipata, che è stata, in precedenza, affidataria del medesimo servizio.

Nei fatti un Comune comunicava alla società che fino a quel momento aveva svolto il servizio di assistenza sistemica, tecnica e manutentiva della propria rete informatica, che, con determina, il medesimo servizio era stato aggiudicato, tramite affidamento diretto – cottimo fiduciario, in favore di un’altra società. La prima azienda faceva pervenire al Comune una nuova offerta, non riscontrata dall’Amministrazione e nemmeno la successiva richiesta di autotutela veniva presa in considerazione dallo stesso Ente Locale. Assumendo l’illegittimità dell’aggiudicazione in questione, la prima società proponeva, quindi, ricorso eccependo la manifesta illogicità e contraddittorietà dell’operato del Comune, nonché la violazione dell’art. 95 del D. Lgs. n. 50 del 2016 e della par condicio.

Con la decisione in commento, il TAR Valle d’Aosta dichiara la doglianza della società ricorrente infondata per diversi ordini di ragioni.

In primo luogo, il Collegio rileva che nella fattispecie non appare possibile qualificare la ricorrente come una società in house del Comune resistente, in quanto, da una parte difetterebbe il requisito del controllo (del Comune sulla società) analogo rispetto a quello espletato sui propri servizi, avuto riguardo alla esiguità della partecipazione societaria comunale – una quota di azioni del valore di 500 € su un capitale sociale pari ad € 5.100.000 (cfr. all. 2 al ricorso e all. 1 del Comune) – , dall’altro lato mancherebbe “la dimostrazione della esistenza di poteri di controllo o di direzione sull’attività societaria da parte del Comune resistente, anche per mezzo di accordi con gli altri enti soci” (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, III, 11 aprile 2011, n. 954).

In ogni caso, continua il TAR, “anche laddove si dovesse assumere la natura di società in house della ricorrente, va considerato che siffatta tipologia di affidamento ha natura eccezionale rispetto alla regola generale che impone il ricorso al libero mercato; difatti, l’affidamento diretto è assoggettato ad un più stringente obbligo motivazionale, rispetto alla scelta di ricorrere all’acquisizione del servizio tramite una procedura di tipo concorrenziale, da ritenersi la modalità ordinaria di individuazione dei contraenti dell’Amministrazione” (cfr., sul punto, artt. 4 e 5 del D. Lgs. n. 175 del 2016, Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica; in giurisprudenza, T.A.R. Lombardia, Milano, III, 3 ottobre 2016, n. 1781).

Approfondendo la propria analisi, il Giudice di prime cure afferma che il Comune resistente ha operato nel rispetto dell’art. 36, comma 2, lettera a, del D. Lgs. n. 50 del 2016 secondo cui “le stazioni appaltanti procedono all’affidamento di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’articolo 35, secondo le seguenti modalità: a) per affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, mediante affidamento diretto, adeguatamente motivato o per i lavori in amministrazione diretta”. Il Collegio richiama anche le Linee guida n. 4, contenute nella Deliberazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.) 26 ottobre 2016, n. 1097, al punto 3.1, le quali stabiliscono che “l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore a 40.000,00 euro può avvenire tramite affidamento diretto, adeguatamente motivato …”. Orbene, il rispetto della normativa indicata, risulta in primo luogo dal fatto che l’affidamento del servizio in questione è avvenuto per un  importo complessivo di € 20.105,60, comprensivo di I.V.A. (quindi entro la soglia di 40.000,00 euro), inoltre, sottolinea il TAR, la determinazione comunale impugnata “motiva adeguatamente in ordine alla scelta dell’affidatario del servizio, evidenziando come l’offerta predisposta dalla ricorrente, posta a confronto con quella dell’aggiudicataria, risulta meno conveniente sia da un punto di vista economico che prestazionale (ad esempio è garantito un minore tempo di intervento dalla chiamata)”.

Infine, la Sezione Unica si sofferma su due ulteriori censure sollevate dalla società ricorrente, respingendole entrambe.

Con riferimento alla eccepita illegittimità dell’aggiudicazione in favore della controinteressata, in quanto sarebbe stato valorizzato eccessivamente l’elemento prezzo a scapito dell’elemento qualitativo dell’offerta, il TAR risponde che la doglianza non merita positivo apprezzamento, in quanto, “dall’esame della determinazione di aggiudicazione emerge con chiarezza che, oltre all’elemento prezzo, è stato altresì valorizzato l’aspetto qualitativo delle prestazioni, che la parte ricorrente non ha censurato, se non genericamente”; sul punto viene anche richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale “le valutazioni della commissione giudicatrice in ordine all’idoneità tecnica dell’offerta dei partecipanti alla gara sono espressione di un potere di natura tecnico-discrezionale a carattere complesso (…) non sindacabile nel merito, salvo che risulti inficiata da profili di erroneità, di illogicità, ovvero sviamento” (Consiglio di Stato, V, 16 gennaio 2017, n. 99).

Riguardo all’eccepito difetto di esplicitazione, nel bando, dei criteri di valutazione che avrebbe impedito la presentazione di una offerta consapevole e completa, il Collegio della Valle d’Aosta afferma che, anche a voler prescindere dalla mancata dimostrazione (da parte della ricorrente) in ordine ad una disparità di trattamento con gli altri operatori invitati - che hanno invece formulato delle offerte complete -, non può comunque essere accolta l’eccezione in esame, “avuto riguardo alla veste di operatore del settore della ricorrente che doveva certamente essere in grado di formulare un’offerta completa e congrua anche in ragione del pregresso svolgimento del medesimo servizio”. FM

 



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Inserito in data 22/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 febbraio 2017, n. 797

Il diniego è legittimo a titolo di misura di salvaguardia

Nella segnalata sentenza, a fronte di una previsione di silenzio-rifiuto, il Consiglio di Stato non esclude il potere dell’Amministrazione di adottare il provvedimento espresso di diniego successivamente alla scadenza del termine di formazione del silenzio.

Ad avviso della Sesta Sezione, si profila un’ipotesi speciale di silenzio-rifiuto che si colloca fuori dalla fattispecie generale di cui all’art. 20, comma 1, della L. n. 241/1990, riconducibile all’art. 20 del D.P.R. n. 380/2001(“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”), non avendo l’interessato invocato i rimedi sostitutivi di cui all’art. 21 del medesimo decreto.

Nella versione vigente all’epoca dei fatti oggetto del ricorso, la suddetta norma speciale stabiliva che “decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-rifiuto” (la versione della norma, che reca adesso la previsione di un silenzio assenso, è invero di molto successiva).

Invero, l’istanza del privato verteva su un intervento edilizio implicante un’opera nuova rispetto al Piano Regolatore Generale locale (da ora “P.R.G. locale”), ossia un pontile di m 200 di lunghezza per m 2 di larghezza, con ai lati bilance per la pesca e al centro uno scivolo per alaggio/varo di natanti, non già precedentemente esistente e come tale non assentibile.

Il Collegio precisa come “in assenza di un piano attuativo sarebbero stati consentiti soltanto, oltre ai rifacimenti di tetti senza aumento dell’altezza del fabbricato, gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i restauri o risanamenti conservativi” previsti dal citato decreto.

Il Supremo Consesso rileva inoltre l’operatività nella fattispecie in esame della misura di salvaguardia di cui all’art. 12, co. 3, del citato d.P.R., per la quale “non può reputarsi implausibile (ed illegittimo) il contegno tenuto dal Comune che, senza rispondere immediatamente alla domanda di parte, si è in pratica avvalso della effettività della misura di salvaguardia in atto.”

Pertanto, il diniego sarebbe stato comunque legittimo, a titolo di misura di salvaguardia ex art. 12, co. 3, del d.P.R. n. 380, secondo il quale “In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione.

A fronte di ciò non può considerarsi validamente opponibile nemmeno il preteso affidamento derivante da un parere – positivo – reso dalla Regione e ciò sia perché tale atto, appunto, esprimeva un mero avviso e non aveva pertanto la forza di un provvedimento di decisione su un caso concreto sia perché esso proveniva peraltro da ente diverso da quello dotato della competenza occorrente alla definizione della domanda di assenso formulata dalla parte privata. DU

 



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Inserito in data 21/02/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 20 febbraio 2017, n. 1020

Esclusione per carenza dell’ offerta: rito superaccelerato e soccorso istruttorio

Il rito camerale “superaccelerato” in materia di appalti pubblici, previsto dall’art. 120, commi 2 bis e 6 bis del c.p.a., introdotti dall’art. 204, comma 1, lett. b) e lett. d), D.lgs n. 50/2016, “è circoscritto esclusivamente ai provvedimenti di esclusione e ammissione ammessi all’esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico- finanziari e tecnico professionali”.

Da ciò discende che tale rito non si applica “in caso di esclusione fondata su presupposti diversi da quelli soggettivi e, quindi, a seguito di estromissione disposta per carenza di elementi essenziali dell’offerta tecnica previsti dalla lex specialis di gara”.

Né è possibile praticare una estensione in via analogica delle nuove disposizioni processuali al di fuori delle ipotesi espressamente previste, “ostandovi la natura eccezionale del rito”.

In particolare, il cronoprogramma costituisce “documento essenziale dell’offerta tecnica” e la sua allegazione “si appalesa necessaria al fine di illustrare sotto il profilo temporale le modalità di svolgimento delle lavorazioni in riferimento alle proposte migliorative e, altresì, per rappresentarne i criteri qualitativi e gli elementi necessari per valutare le relative capacità realizzative delle società partecipanti”.

Assurgendo ad elemento essenziale dell’offerta, la carenza del cronoprogramma non può essere emendata mediante il potere di soccorso istruttorio.

Pertanto, “ove il cronoprogramma sia stato previsto, non solo formalmente, ma soprattutto, sostanzialmente quale elemento imprescindibile per la valutazione della serietà dell’offerta, dalla sua mancata allegazione può legittimamente farsi discendere la sanzione dell’esclusione dell’impresa concorrente inadempiente”. GB

 



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Inserito in data 20/02/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 17 febbraio 2017 - n. 2547

AGCM ha competenza sanzionatoria nel settore energia e gas? Rinvio pregiudiziale alla Corte UE

Nella Ordinanza emarginata in epigrafe, si affronta un problema relativo al riparto di competenze sanzionatorie tra AGCM (Authority Antitrust) ed AEEGSI (Authority energia e gas) nei riguardi di un operatore economico del settore energia e gas per pratiche commerciali asseritamente scorrette (l’odierna ricorrente).

Il Collegio, condividendo la doglianza esposta dalla ricorrente circa la ritenuta incompetenza della AGCM a pronunciarsi in ordine a condotte, peraltro, conformi alle disposizioni settoriali dettate dalla AEEGSI, ritiene di investire la Corte di Giustizia dell’Unione europea della questione pregiudiziale, legata all’interpretazione dell’art. 27 bis, comma 1 del Codice del consumo, in relazione alle disposizioni euro-unitarie applicabili al settore delle forniture di energia elettrica e gas naturale e, in particolare:

i) se il principio di specialità ex art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE , debba essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), ovvero dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali) ovvero, ancora, dei rapporti tra autorità indipendenti preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori;

ii) se la ratio della direttiva generale n. 2005/29/CE, per la tutela dei consumatori, nonché il principio di specialità della medesima direttiva ostino a una norma nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici previsti dalle direttive settoriali n. 2009/72/CE e n. 2009/73/CE a tutela dell’utenza nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’autorità di settore - nel caso di specie AEEGSI - a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta o sleale.

Sostanzialmente la ricorrente lamenta che con il provvedimento sanzionatorio oggetto della impugnativa, la Autorità Antitrust “abbia sanzionato non specifici fatti violativi del diritto dei consumatori, bensì generali regole di condotta, ritenute dagli operatori commerciali del tutto conformi alla disciplina di settore riconducibile alla relativa autorità di regolazione, id est, la AEEGSI”.

Si osserva che la valutazione in ordine alla competenza sanzionatoria della AGCM in un settore già regolamentato da specifiche normative “è di primaria importanza” giacché, “qualora fosse riscontrata l’effettiva incompetenza dall’AGCM ad adottare il provvedimento impugnato, perché invasivo delle competenze già riconosciute alla AEEGSI, il ricorso sarebbe direttamente accolto, senza necessità di valutazione degli altri motivi, certamente subordinati a questo”.

In particolare, viene rilevato dal Collegio come la difesa della ricorrente si fondi sulla considerazione della vigenza di una normativa di settore specifica e riguardante proprio le condotte contestate e sanzionate dalla AGCM.

Sul punto, si rileva la presenza del “Codice di condotta commerciale, adottato in accordo a quanto previsto dal Codice del consumo (art. 27 bis d.lgs. n. 206/2005) ed alle direttive comunitarie in materia energetica (2009/72/CE e 2009/73/CE a tutela dell’utenza nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette e tutela comunitaria dei consumatori), così da formalizzare regole che gli esercenti della vendita di energia elettrica e/o gas naturale devono rispettare nei loro rapporti commerciali con i clienti finali”.

Il Giudice remittente prosegue affermando che “le previsioni di tale codice di condotta costituiscono tutte le regole operative necessarie per dare attuazione alle norme comunitarie riguardanti il comparto energetico, assorbendo nel contempo le previsioni generali del Codice del consumo”.

Dunque, a parere del Collegio, il sistema delineato dal predetto codice di condotta, unitamente alle delibere approvate dalla AEEGSI, rappresenterebbe – ex se - un sistema di regole completo. Ragion per cui, “non residuerebbe spazio per l’ulteriore intervento dell’Autorità antitrust in un settore già sufficientemente regolato”.

D’altra parte viene, altresì, evidenziato il riconoscimento in capo alla AEEGSI, da parte dell’Ordinamento euro unitario, “di una generale potestà sanzionatoria nel mercato energetico, con conseguente applicazione del c.d. principio di specialità, riconosciuto dall’art. 3 paragrafo 4, direttiva 2005/29/CE”.

A parere del T.A.R., l’applicabilità della disciplina generale si pone necessaria solo  nell’ipotesi in cui la disciplina di settore sia carente e non esaustiva, circostanza  che, a ben vedere, non apparirebbe presente nel caso di specie.

Peraltro, ciò è in linea con la lettura della direttiva generale  2005/29/CE (si veda l’art. 3, par. 4 ed il “Considerando 10” della medesima,  secondo cui la stessa opererebbe quale “rete di sicurezza” che garantisce il mantenimento di un elevato livello di tutela dei consumatori contro le pratiche commerciali sleali in tutti i settori, colmando le (eventuali) lacune di altre specifiche normative settoriali.

Motivo per cui, ove tali lacune non siano riscontrabili, “la suddetta rete di sicurezza, codificata nell’ordinamento italiano con il richiamato art. 27, comma 1 bis, Codice del consumo, non opererebbe, risolvendo in tal modo ogni problematica di incertezza giuridica in merito al regime applicabile” e, si noti, al problema del riparto di competenze tra le diverse Authorities. PC 

 



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Inserito in data 18/02/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 16 febbraio 2017, n. 712

Esclusione dalle gare d’appalto per omessa dichiarazione in merito ai precedenti professionali

Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema delle cause di esclusione dalle procedure ad evidenza pubblica ed in particolare della causa consistente nella omessa dichiarazione – da parte di una azienda partecipante – riguardante i propri precedenti professionali.

Nei fatti un’impresa, nell’ambito di una gara concernente l’affidamento del servizio di raccolta integrata dei rifiuti urbani e servizi connessi, aveva omesso di dichiarare che in passato nei suoi confronti erano state pronunciate da ben 12 Amministrazioni le “risoluzioni” di altrettanti contratti.

Chiamato a pronunciarsi sulla questione, il Tar Sardegna affermava che le dichiarazioni rese da un’azienda partecipante ad una procedura ad evidenza pubblica risultano essere necessarie al fine di permettere alla P.A. di esplicare quel legittimo giudizio di rilevanza e gravità, irrinunciabile per poter affidare serenamente un appalto ingente ad un operatore “senza macchie” e che sia in grado effettivamente di garantire (e con valutazione ex ante) l’espletamento di un buon servizio. La dichiarazione negativa resa alla pubblica amministrazione aggiudicatrice – continuava il Tar – “è, quindi, già indice di mancata correttezza e violazione del principio di buona fede (sussistendo la norma a monte che ne impone l’obbligo, art. 38, ripreso dal Disciplinare di gara) del partecipante, che, con la sua condotta, ha voluto omettere elementi di estrema importanza, in questo caso oltretutto “diffusi” e, stante il numero, non certo episodici e/o marginali”. Per tali motivi il giudice di primo grado stabiliva l’esclusione della suddetta impresa dalla gara, con annullamento dell’aggiudicazione decretata in suo favore.

Orbene, le conclusioni del giudice di primo grado sono condivise - in appello - dal Consiglio di Stato, il quale, nella pronuncia in commento osserva, preliminarmente, che lo stesso Consesso in precedenti decisioni  (ex multis, sentenza del 5 ottobre 2016, n. 4108 e del 3 febbraio 2016, n. 404) “ha ribadito che il mancato cenno alle risoluzioni contrattuali disposte è una ragione autonoma per disporre l'esclusione dell'appellante dalla procedura, poiché il combinato disposto della lett. d) del primo comma dell'art. 38 con il comma secondo del medesimo art. 38 milita nel senso dell'obbligatorietà per i concorrenti di dichiarare a pena di esclusione la sussistenza di tutti i propri precedenti professionali dai quali la stazione appaltante può discrezionalmente desumere la loro inaffidabilità”.

Inoltre, continua il giudice d’appello, la falsa dichiarazione resa su un dato sconosciuto alla P.A., come nel caso di specie, impedisce il c.d. soccorso istruttorio, poiché la dichiarazione contestata non può ritenersi incompleta, ma contrastante con un dato reale (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 26 luglio 2016, n. 3375); “in una simile ipotesi, quindi, si attiva il disposto dell'art. 75, d.P.R. n. 445-2000, mentre non può operare il soccorso istruttorio dal momento che non è contestata la mancanza o l'incompletezza della dichiarazione, ma l'aver reso dichiarazione non veritiera”.

Approfondendo la propria analisi, la Quinta Sezione afferma poi che “la circostanza che la disposizione dell’art. 38 in esame stabilisca che la Stazione Appaltante possa accertare "con qualunque mezzo" l'errore grave commesso nell'esercizio dell'attività professionale se rimette alla discrezionalità dell'Amministrazione la valutazione circa l'inaffidabilità dell'impresa attribuendo alla stazione appaltante la facoltà di valutare, in rapporto alle esigenze del contratto che si andrà a stipulare, l'effettiva valenza dell'errore professionale precedentemente commesso dall'impresa, implica l'obbligo di dichiarazione da parte dell'impresa partecipante degli errori commessi nell'esercizio dell'attività professionale. In tale prospettiva viene in evidenza che la ratio della norma risiede nell'esigenza di assicurare l'affidabilità di chi si propone quale contraente, requisito che si ritiene effettivamente garantito solo se si allarga il panorama delle informazioni, comprendendo anche le evenienze patologiche contestate da altri committenti. In tale contesto, la mancanza di tipizzazione da parte dell'ordinamento delle fattispecie rilevanti, non attribuisce alcun filtro sugli episodi di "errore grave" all'impresa partecipante, la quale è tenuta a portare a conoscenza della stazione appaltante ogni episodio di risoluzione o rescissione contrattuale anche non giudiziale, quand'anche transatto, essendo rimessa alla stazione appaltante la valutazione in relazione al nuovo appalto da affidare. Pertanto, non sussiste per l'impresa partecipante ad una gara la facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo al contrario l'obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, spettando alla stazione appaltante il momento valutativo”.

Alla luce delle argomentazioni sopra esposte, il Consiglio di Stato sottolinea, quindi, il buon lavoro svolto in primo grado dal TAR nell’evidenziare l'illogicità e l’irragionevolezza (manifeste) della valutazione compiuta dal Comune interessato circa la non gravità dei molteplici pregressi errori professionali commessi dall’azienda in questione. Nelle gare pubbliche, infatti, - specifica il Consesso - “la valutazione anche in ordine alla gravità degli inadempimenti del concorrente (che li abbia dichiarati, diversamente da quanto comunque accaduto nella vicenda per cui è causa), pur essendo espressione di discrezionalità c.d. tecnica della Stazione Appaltante, è sempre suscettibile di sindacato esterno da parte del Giudice Amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, contraddittorietà”. Le sintetiche ragioni, che esauriscono la motivazione del provvedimento comunale, nel caso di specie - conclude la Quinta Sezione - “sono del tutto generiche, fondate su elementi meramente eventuali e possibili e prive di un minimo riscontro probatorio” “detta motivazione è, pertanto, illegittima e conseguentemente, il provvedimento doveva essere annullato come correttamene ha disposto il TAR”.

Passando all’esame specifico dell'istanza di rinvio alla Corte di Giustizia presentata nel medesimo appello, il Consiglio di Stato afferma essere la stessa del tutto pretestuosa, in quanto, ad avviso del Consesso, non sussiste nella materia in questione alcun contrasto della normativa interna con quella europea. A supporto della propria tesi, la Quinta Sezione richiama in primo luogo l'art. 45, par. 2, della Direttiva n. 18-2004 che stabilisce che "può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico che, nell'esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall'amministrazione aggiudicatrice".

Il Consesso richiama poi  l'art. 57 par. 4, della vigente Direttiva n. 24-2014 il quale prevede che “le Amministrazioni aggiudicatrici possono escludere, oppure gli Stati membri possono chiedere alle amministrazioni aggiudicatrici di escludere, dalla partecipazione alla procedura d'appalto un operatore economico in determinate situazioni, tra cui nell'ipotesi di falsa dichiarazione, che sarebbe stata doverosa anche a norma dell'art. 80 d.lgs. n. 50-2016, allorché “la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l'operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”. Tra questi rientrano: le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.

Nello specifico - conclude il consiglio di Stato - la lettera i) dell'art. 57 par. 4, della vigente Direttiva n. 24-2014 stabilisce l’esclusione "se l'operatore economico ha tentato di influenzare indebitamente il procedimento decisionale dell'amministrazione aggiudicatrice, ha tentato di ottenere informazioni confidenziali che possono conferirgli vantaggi indebiti rispetto alla procedura di aggiudicazione dell'appalto, oppure ha fornito per negligenza informazioni fuorvianti che possono avere un'influenza notevole sulle decisioni riguardanti l'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione", ipotesi quest’ultima che ricorre a pieno titolo nel caso in esame. FM 

 



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Inserito in data 17/02/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 febbraio 2017, n. 677

Revoca revisori dei conti da parte del Sindaco per venir meno del rapporto fiduciario

La revoca di un componente del Collegio sindacale di una società a partecipazione pubblica disposta dal sindaco per venir meno del rapporto fiduciario è illegittima.

Infatti, la fiduciarietà “deve intendersi esaurita nel momento della individuazione del soggetto ritenuto idoneo a svolgere quella funzione, non potendo invece permanere nel concreto ed obiettivo svolgimento della funzione”.

L’esclusione della necessità del collegamento fiduciario tra organo che elegge ed organo eletto, una volta perfezionata la nomina, costituisce “principio immanente in tema di cariche elettive dei revisori dei conti degli enti locali” (Cons. Stato, sez. VI, 8 agosto 2008, n. 3915).

Infatti, “i revisori dei conti chiamati a ricoprire tale funzione delle società a maggioranza pubblica hanno il delicato compito di sorvegliare sulla corretta spendita di denaro pubblico e pertanto devono essere espressione di un alto livello di professionalità e di moralità tipico dei ruoli assolutamente neutrali, qual è appunto quello del controllo, non solo nell’interesse dei soci, ma altresì nell’interesse pubblico generale, che si traduce, sul piano operativo, nel controllo sulla corretta applicazione della legge.”

La peculiarità della funzione dei revisori dei conti “emerge significativamente dal documento approvato dalla C.o.n.s.o.b. il 5 ottobre 2005 […] derivato dalla raccomandazione della Commissione europea 16 maggio 2002, per la quale l’indipendenza si esprime nell’integrità e nell’obiettività, la prima garantita dall’alta qualificazione dei soggetti chiamati, la seconda dalla più assoluta imparzialità dell’azione del revisore medesimo; principi ribaditi dall’art. 38 della Direttiva 2006/43/UCE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006, secondo cui gli Stati membri devono assicurare che la revoca e le dimissioni dei revisori legali o delle imprese di revisione contabile possa avvenire solo per giusta causa e non per divergenze di opinione in merito ai contenuti delle determinazioni da prendere”.

Anche l’ordinamento giuridico italiano (artt. 2399 e 2400 c.c.) e la normativa in tema di enti locali sono ispirati agli stessi principi, giacché l’art. 235, comma 2, del D. Lgs. 17 agosto 2000, n. 267, prevede che “Il revisore è revocabile solo per inadempienza ed in particolare per la mancata presentazione della relazione alla proposta di deliberazione consiliare del rendiconto entro il termine previsto dall'art. 239, comma 1, lettera d )” (in termini, C.G.A., 22 ottobre 2015, n. 736). GB 



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Inserito in data 16/02/2017
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 15 febbraio 2017, n. 36

Le aree marine protette non fanno parte del parco naturale regionale

La Consulta con la pronuncia in epigrafe dichiara l’illegittimità costituzionale della legge regionale del 6 novembre 2015, n. 38 recante «Istituzione del Parco Naturale Regionale Costa dei Trabocchi e modifiche alla legge regionale 21 giugno 1996, n. 38 (Legge-quadro sulle aree protette della Regione Abruzzo per l’Appennino Parco d’Europa)», relativamente a quelle disposizione che istituiscono come area protetta - con la denominazione di parco naturale regionale - un territorio che configura unicamente un’area marina protetta, la cui disciplina afferisce alla competenza esclusiva statale.

Nella specie, le disposizioni contenute negli artt. 1, comma 1, 2, commi 1, 2 e 4, 3, comma 1, 6, 7 e 9 della legge citata, regolamentando la gestione e la salvaguardia di un’istituzione che interessa la <<tutela ambientale>> avrebbero violato l’art. 117, comma 2, lett.s), Cost., dal momento che siffatta materia, , trovava già la sua disciplina nella legislazione statale, agli artt. 19 e 20 della legge n. 394/1991 (“Legge-quadro sulle aree protette”), nonché agli artt. 25 e 26 della legge n. 979/1982 (recante “Disposizioni sulla difesa del mare”).

Prendendo le mosse dalla nozione di <<parco naturale regionale>> tratteggiata dalle disposizioni richiamate, la Corte Costituzionale ne desume le seguenti precise caratteristiche: trattasi di << aree terrestri, fluviali, lacuali ed eventualmente da tratti di mare prospicienti la costa, in cui siano inclusi uno o più ecosistemi intatti o poco alterati da interventi antropici, che costituiscono, nell’ambito di una o più regioni limitrofe, un sistema omogeneo caratterizzato dalla presenza di specie animali, vegetali o siti geomorfologici di rilevante interesse naturalistico, scientifico, culturale, educativo e ricreativo, nonché da valori paesaggistici, artistici e dalle tradizioni delle popolazioni locali.>>

Nel caso in esame l’area tutelata riguardava il tratto di mare prospiciente la costa di due comuni siti sul litorale, a partire dalla linea di costa fino a sei miglia marine, sicché emergeva chiaramente che la perimetrazione del suddetto parco naturale <<comprendeva esclusivamente un tratto di mare prospiciente la costa compreso tra le coordinate indicate>>.

Rilevano i giudici come, nonostante l’area interessata assurga << ad icona di una relazione tra terra e mare, essa non ha mai costituito oggetto di tutela e valorizzazione integrata, conseguentemente, la legge regionale in esame, al menzionato art. 2, comma 3, incoerentemente afferma che la presenza dei “trabocchi”, antichi strumenti di pesca, caratterizza l’ambiente marino.>>

La contraddizione tra le norme di principio istitutive del Parco naturale regionale (art. 1) – che, come già detto, solo marginalmente può comprendere anche tratti di mare prospicienti la costa − e la concreta perimetrazione dello stesso (art. 2), contenente solo un ampio tratto di mare prospiciente la costa, palesa la reale portata della legge in esame, tesa, in realtà, alla creazione di un’area marina protetta in violazione del riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.

Dal momento che il parco naturale regionale istituito con la legge regionale in esame, per le ragioni sopra esposte, non comprende in via prevalente un’area di terra emersa, ma esclusivamente un’area marina da ascrivere alla aree marine protette, il Giudice delle Leggi ne dichiara il contrasto con la legge n. 394 del 1991 e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. DU 


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Inserito in data 15/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 febbraio 2017, n. 584

Va motivata la rimodulazione dei criteri di valutazione delle pubblicazioni scientifiche

La questione sottoposta all’esame della Sezione attiene alla legittimità della procedura di abilitazione nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e di seconda fascia.

Sul punto bisogna ricordare che la “legge 30 dicembre 2010 n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario) ha riformato il sistema di reclutamento dei professori universitari. In attuazione di tale disposizione sono stati adottati il decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011 n. 222 (Regolamento concernente il conferimento dell'abilitazione scientifica nazionale per l'accesso al ruolo dei professori universitari, a norma dell'articolo 16 della legge 30 dicembre 2010, n. 240) e il decreto ministeriale 7 giugno 2012 n. 76 (Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell'attribuzione dell'abilitazione scientifica nazionale per l'accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, nonché le modalità di accertamento della qualificazione dei Commissari, ai sensi dell'articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e degli articoli 4 e 6, commi 4 e 5, del decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222)”.

Per tale via, si è passati “da un sistema fondato su concorso locali ad un sistema a doppio stadio: una prima fase finalizzata ad ottenere l’abilitazione nazionale; una seconda fase rappresentata da una procedura “valutativa” che si svolge presso i singoli Atenei finalizzata all’ingresso nei ruoli di professore associato o ordinario”.

Del resto, la riforma ha chiaramente perseguito “l’obiettivo di ridurre la discrezionalità delle commissioni mediante l’attribuzione di una funzione selettiva rilevante a criteri di tipo quantitativo: le cosiddette mediane”.

Ciò premesso, il Collegio ritiene fondata la violazione degli art. 4 e 5 del decreto ministeriale n. 76 del 2012, “nella parte in cui la commissione aveva deliberato di non utilizzare nella valutazione delle pubblicazioni scientifiche i criteri di cui agli articoli 4, comma 2, lettera d), 5, comma 2, lettera d), 4, comma 4, lettera a), e 5, comma 4, lettera a), del suddetto decreto ministeriale”.

Invero, la stessa Sesta Sezione, in relazione alla medesima procedura de qua, ha già avuto modo di affermare che la “disapplicazione” o, comunque “rimodulazione” dei suddetti criteri non risulta «sorretta da motivazione logica e adeguata» (Cons. Stato, sez. VI, 24 ottobre 2016, n. 4439).

In particolare, si è affermato che «il relativo onere motivazionale deve ritenersi particolarmente accentuato, poiché l’esclusione, dal novero degli elementi valutativi, di criteri e parametri oggettivi e trasparenti di valutazione, ha valenza non solo quantitativa, ma anche qualitativa, idonei a fungere da riscontri oggettivi esterni nella ricostruzione dell’iter logico posto a base dei giudizi, individuali e collettivi, espressi dalla commissione, comporta uno speculare aumento della sfera di discrezionalità della commissione, in linea generale limitata dai criteri e parametri stabiliti dal decreto ministeriale, i quali, di norma, devono trovare applicazione e la cui mancata applicazione assume carattere eccezionale».

Nella citata sentenza si è affermato, inoltre, come tali criteri costituiscano «parametri oggettivi e precostituiti, muniti di un rilevante grado di significatività circa la qualità e la quantità delle pubblicazioni e della produzione scientifica dei candidati, e non manifestamente incompatibili con il macrosettore che qui viene in rilievo». EF 


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Inserito in data 14/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 febbraio 2017, n. 565

Sul rilascio della informativa antimafia  anche con riguardo ai provvedimenti c.d. autorizzatori

Nella sentenza emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato, non condividendo la decisione del Giudice di prime cure, afferma che anche le attività soggette ad autorizzazioni, licenze o s.c.i.a. sono soggette alla c.d. informativa antimafia (art. 89 bis d.lgs n.  159 del 2011).   

Pertanto, il Prefetto rilascia la informativa antimafia non soltanto nei casi di rapporti contrattuali tra imprese ed Amministrazioni (appalti e concessioni) ma anche tutte le volte in cui le imprese intendano svolgere attività per le quali sia necessario ottenere autorizzazioni, licenze o attività soggette a s.c.i.a.

Il Collegio giunge alla predetta conclusione muovendo le mosse dall’art. 2 comma 1 lett. c) della legge n. 136 del 2010 istitutiva della Banca dati unica della documentazione antimafia.

Ed invero, viene rilevato come la disposizione si riferisca “a tutti i rapporti, anche già in essere, con la pubblica amministrazione, finalizzata all’accelerazione delle procedure di rilascio della medesima documentazione e al potenziamento dell’attività di prevenzione dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività di impresa”, senza differenziazione alcuna tra autorizzazioni da un lato,  concessioni e contratti dall’altro.

Non è pertanto possibile ritenere, come fa il primo Giudice, che l’espressione «rapporti» si riferisca solo ai contratti e alle concessioni,  non anche alle autorizzazioni che, secondo una classica concezione degli atti autorizzatori, non costituirebbero un “rapporto” con l’Amministrazione.

Sotto tale ultimo profilo, il Collegio rileva che la idea secondo la quale gli atti autorizzatori non costituirebbero un rapporto tra soggetti economici ed Amministrazioni, “contrasta con una visione moderna, dinamica e non formalistica del diritto amministrativo, quale effettivamente vive e si svolge nel tessuto economico e nell’evoluzione dell’ordinamento, che individua un rapporto tra amministrato e amministrazione in ogni ipotesi in cui l’attività economica sia sottoposta ad attività provvedimentale, che essa sia di tipo concessorio o autorizzatorio o, addirittura soggetta a s.c.i.a.” (vedi parere del Consiglio, in sede consultiva, in ordine all’attuazione del d. lgs. n. 124 del 2015 e tra gli altri, il parere n. 839 del 30 marzo 2016 sulla riforma della disciplina della s.c.i.a.). PC

 



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Inserito in data 13/02/2017
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - 2 febbraio 2017, n. 115

Dichiarazioni bancarie, falso innocuo e revoca dell'aggiudicazione

I Giudici veneti respingono il ricorso di una ditta la cui aggiudicazione è stata revocata per presunta falsità nelle dichiarazioni bancarie all’uopo presentate.

In primo luogo e a dispetto di quanto addotto dalla Difesa di parte ricorrente, si ricorda come le certificazioni bancarie richieste servano, in primo luogo, a comprovare la solidità economico – finanziaria di una concorrente a gara pubblica – ex art. art. 46, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 163 del 2006. Non si può ammettere, pertanto, la paventata nullità della clausola del bando che statuisca una previsione simile.

Né, del resto, è condivisibile l’ulteriore asserzione riguardo ad un possibile falso innocuo delle referenze bancarie depositate – come addotta in seno al ricorso.

Infatti il Collegio veneziano, uniformandosi a giurisprudenza pregressa, ricorda come “in materia di gare pubbliche, in tanto può farsi ricorso all’istituto del falso innocuo, in quanto la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire” (Cfr.  Cons. Stato, n. 583 del 2014 e n. 1494 del 2013; Tar Lazio n. 255 del 2014).

Nel caso di specie, invece, il bando di gara espressamente richiedeva, a pena di esclusione, la presentazione di due referenze bancarie, entrambe presentate dalla ditta – odierna ricorrente e risultate ambedue non autentiche.

Non è possibile, dunque, condividere alcuna delle suddette posizioni di parte ricorrente e, di conseguenza, il gravame va rigettato unitamente alla correlata domanda risarcitoria. CC


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Inserito in data 11/02/2017
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. III, 1 febbraio 2017, n. 229

Diniego del diritto di accesso a verbali della Polizia municipale e segreto istruttorio

Il Collegio etneo interviene, con la pronuncia in esame, su una questione relativa all’esperibilità del diritto di accesso nei riguardi di atti emessi dalla Polizia municipale, in merito ai quali l’Amministrazione aveva palesato il proprio diniego.

Tale ultima posizione era giustificata in forza dell’esercizio dei poteri ispettivi e di vigilanza presuntivamente esercitati dal Corpo dei Vigili urbani – in cui favore si costituisce, per l’appunto, la Difesa comunale che, paventandone l’assimilazione ad atti della magistratura penale, ne aveva sancito l’inaccessibilità.

I Giudici siciliani, invece, intervengono sul punto – delimitando il confine con gli atti coperti dal cd. segreto istruttorio ed accogliendo, per l’effetto, il gravame proposto dalla società istante - odierna ricorrente.

In particolare, richiamando giurisprudenza pregressa sul tema, i Giudici affermano che non rientrano nel divieto in oggetto i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria (Cfr. Corte di Cassazione, V Sezione Penale, sentenza 9 marzo 2011, n. 13494).

Del resto, prosegue il Collegio siciliano, la giurisprudenza ha chiarito che l'esistenza di un'indagine penale non implica, di per sé, la non ostensibilità di tutti gli atti o provvedimenti che in qualsiasi modo possano risultare connessi con i fatti oggetto di indagine: solo gli atti per i quali è stato disposto il sequestro e quelli coperti da segreto possono risultare sottratti al diritto di accesso (cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, n. 2331/2014).

Tanto non è accaduto nel caso di specie ove, come è chiaro, si è in presenza di attività amministrativa (e non di attività di polizia giudiziaria), peraltro posta in essere prima delle denunce e degli esposti presentati all’autorità giudiziaria e per la quale allo stato non risultano essere stati adottati specifici provvedimenti da parte della magistratura penale.

In quanto tale, essa non rientra nel novero degli atti non accessibili – ex art. 24 – co. 6’ Lett. d) L. 241/90 e ss.mm. e, pertanto, i Giudici ne dispongono l’accesso – come chiesto in ricorso. CC 


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Inserito in data 10/02/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I Bis - 8 febbraio 2017, n. 2118

Permanenza interesse al ricorso su ammissioni alla gara anche dopo l’aggiudicazione

Nel “nuovo sistema processuale speciale introdotto dal d.lgs. n. 50/2016”, il legislatore, “derogando al principio dettato dall’art. 100 c.p.c, secondo cui, per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse, ed innovando rispetto alla granitica giurisprudenza amministrativa in merito, ha onerato tutti i partecipanti ad una gara, dell’impugnazione immediata delle ammissioni in una fase antecedente al sorgere della lesione concreta e attuale data dall’aggiudicazione, in ragione dell’impossibilità a far valere poi i profili inerenti all’illegittimità di tali determinazioni mediante un successivo ricorso incidentale, proposto per paralizzare quello principale con cui sia stata impugnata l’aggiudicazione”.

La ratio di tale regime di impugnazione risiede “nella precipua ottica di cristallizzare e rendere intangibile la fase di gara relativa agli operatori economici ammessi a partecipare, ovvero, in altri termini, a definire la platea dei soggetti ammessi alla gara (parere Consiglio di Stato, 1 aprile 2016, n. 855), in un momento antecedente all’esame delle offerte e alla conseguente aggiudicazione, evitando così un possibile annullamento dell’affidamento per un vizio a monte della procedura”.

Nel momento in cui su tale sistema processuale “chiuso e speciale” intervenga l’aggiudicazione, “seguendo un’impostazione classica […] l’azione diventerebbe improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, perché ormai incapace di portare un distinto vantaggio al ricorrente, meglio soddisfatto col bene finale.”

Il Collegio tuttavia ritiene che detta impostazione tradizionale “debba essere rivista alla luce dell’eccezionalità del nuovo rito, che ha definito un modello complessivo di contenzioso appalti a duplice sequenza, in cui il nuovo sottosistema accelerato viene disgiunto da quello successivo delle impugnazioni per altri vizi della procedura di gara (es. vizi del bando, della composizione della commissione, della documentazione prodotta ma verificata dopo l’aggiudicazione, dell’offerta stessa), ovvero per vizi relativi all’esito oggettivo della stessa”.

“Invero, se l’omessa impugnazione dell’ammissione degli altri concorrenti fa consumare, come visto, il potere di dedurre le relative censure in sede di impugnazione dell’aggiudicazione, parimenti tali censure non potranno essere mosse dall’aggiudicatario che volesse paralizzare, con lo strumento del ricorso incidentale, quello principale proposto avverso l’affidamento dell’appalto, allorquando non abbia tempestivamente esercitato detto potere ai sensi dell’art. 120, comma 2bis”.

Pertanto, “dichiarare il ricorso inammissibile, recte improcedibile, in ragione del raggiungimento del bene ultimo dell’aggiudicazione da parte del ricorrente, e quindi del mancato ottenimento di ulteriori benefici dall’esclusione dei controinteressati, non utilmente collocati – secondo la regola classica – comporterebbe da ultimo una situazione alquanto singolare, ove non del tutto violativa del diritto di difesa, per cui il ricorrente aggiudicatario si vedrebbe precluso l’esame delle proprie doglianze nei confronti degli altri concorrenti, i quali, invece, ben potrebbero ottenere l’accoglimento delle proprie ragioni contro l’ammissione del ricorrente, ed in via derivata, l’aggiudicazione ottenuta.”

“In altri termini, in ragione della separazione delle due fasi processuali, cui corrispondono anche riti diversi, la successiva aggiudicazione non può ritenersi tale da incidere sull’interesse a ricorrere ex art. 120, comma 2bis, non essendo venuta meno l’utilità (o la ratio) del ricorso anticipato”. GB



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Inserito in data 09/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 febbraio 2017, n. 547

Erogazione di finanziamenti pubblici, riparto di giurisdizione

Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema del riparto di giurisdizione in materia di erogazione di finanziamenti pubblici.

Nei fatti il Ministero delle Attività Produttive, Direzione Generale per il Coordinamento degli Incentivi alle Imprese, mediante decreto concedeva, in via provvisoria, ad un'impresa un contributo - erogato da una banca concessionaria e ripartito in tre quote annuali - per la realizzazione di un progetto riguardante la costruzione di un opificio commerciale per la vendita all’ingrosso di bevande e stoccaggio di merci. Orbene, le prime due quote di finanziamento venivano erogate, viceversa la terza ed ultima tranche del finanziamento non veniva erogata a causa dell'intervenuta proposta di revoca, formulata dalla banca concessionaria, sul rilievo che la ditta in questione non aveva adempiuto alle condizioni previste per poter fruire del beneficio finanziario.

L’impresa, pertanto, adiva il Tar, ma quest’ultimo dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, infatti, “ricostruita la cornice normativa del beneficio finanziario e della giurisprudenza in tema di revoca dei finanziamenti già erogati, i giudici di prime cure qualificavano la posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio dalla ricorrente di diritto soggettivo, siccome intesa a contestare la sussistenza degli estremi di fatto dell’inadempimento alle condizioni previste per poter fruire del beneficio finanziario, costituente presupposto della revoca dei finanziamenti già erogati”.

Procedendo in appello, la ditta denunciava l’errore di giudizio in cui sarebbe incorso, a suo dire, il Tar nell’escludere la giurisdizione amministrativa sulla vicenda dedotta in giudizio avente ad oggetto la revoca di contributi già erogati, e ciò in quanto - sosteneva l’appellante - il provvedimento contestato costituirebbe esercizio del potere di autotutela ordinariamente devoluto alla cognizione del giudice amministrativo.

La Sesta Sezione assegnataria, mediante la decisione in commento, dichiara l’appello è infondato ed afferma, in premessa, di aderire a quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui “qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. Viceversa è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario” (cfr., Cons. Stato, ad. plen. n. 6 del 2014; Cass. Sez. Un. 24 gennaio 2013, n. 1710)

Il Supremo Consesso si sofferma poi sulla specifica questione della qualificazione del provvedimento impugnato come revoca, ritenuta dall’appellante ex se dirimente della giurisdizione del giudice amministrativo. Orbene, ad avviso del Collegio “la censura si fonda sulla sovrapposizione concettuale fra termini dotati di area semantica diversa: la revoca – o l'annullamento – del provvedimento fondato su meccanismi procedimentali di carattere amministrativo, da un lato; e la revoca dello stesso per inadempimento contrattuale, dall’altro”.

Constatando che nella fattispecie si è in presenza della seconda ipotesi, il Giudice d’Appello (rifacendosi ancora alla giurisprudenza sul punto) conclude affermando che nel caso in esame “non viene in rilievo il generale potere di autotutela pubblicistica (fondato sul riesame della legittimità o dell’opportunità dell’iniziale provvedimento di attribuzione del contributo e sulla valutazione dell’interesse pubblico), ma lo speciale potere di autotutela privatistica dell’Amministrazione (...) con il quale, nell’ambito di un rapporto ormai paritetico, l’Amministrazione fa valere le conseguenze derivanti dall’inadempimento del privato alle obbligazioni assunte per ottenere la sovvenzione”. (cfr. Cons. Stato, ad. plen. n.6 del 2014). FM 


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Inserito in data 08/02/2017
TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. III - 6 febbraio 2017, n. 334

La par condicio va osservata anche negli affidamenti concernenti servizi giuridico - legali

Con la pronuncia in epigrafe, il TAR Palermo accoglie la richiesta di annullamento degli atti di una procedura di affidamento di servizi giuridico – legali, per i profili di illegittimità di seguito riportati.

In primo luogo, il Collegio procede ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

Occorre precisare che la gara su cui si verte è stata indetta ai sensi dell’Allegato II B del codice dei contratti pubblici previgente con bando del 15 aprile 2016 – ove i servizi legali rientravano tra gli appalti di servizi parzialmente esclusi - in data antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.

Invero, si rileva come il nuovo Codice abbia chiarito - all’art. 17 - l’esclusione della propria applicazione agli appalti e alle concessioni di servizi concernenti i servizi legali, pur precisando, tuttavia, la necessità del rispetto – tra gli altri - dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.

La giurisprudenza amministrativa afferma, a riguardo, che anche sotto la soglia comunitaria la scelta del contraente avrebbe dovuto seguire le regole comunitarie della trasparenza, non discriminazione e pubblicità della procedura (TAR Calabria n. 330/2007 e n. 15430/2006; Cons. di Stato n. 3206/2002), differenziandosi tra incarico occasionalmente svolto dal professionista e servizio legale esternalizzato (Autorità di Vigilanza, determinazione n. 4/2011; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2730 dell’11 maggio 2012).

Ad avviso del Collegio, il delineato quadro normativo fa solo da sfondo alle censure di parte ricorrente, le cui prospettazioni risultano tese non solo a sottolineare la violazione delle specifiche norme poste a tutela dell’autonomia e del decoro della professione forense, ma sono dirette ad evidenziare come l’eccessiva riduzione del compenso - ipotizzata in riferimento alla possibile ‘espansione’ dei servizi che potranno essere richiesti al professionista - e la connessa mancanza di determinazione dell’oggetto dell’incarico siano stati elementi idonei a comprimere notevolmente la partecipazione alla procedura selettiva, alterandone in radice lo svolgimento, in violazione delle regole della concorrenza e di buona amministrazione di cui all’art. 97 della Costituzione.

Il Consesso amministrativo rileva inoltre come le disposizioni del disciplinare/schema di contratto allegato al bando, assumono una connotazione specificamente rilevante nella parte in cui dispongono che il professionista dovrà garantire la propria presenza presso gli uffici comunali “ogni volta che l’amministrazione comunale lo ritenga necessario”, a fronte dell’iniziale previsione di svolgere il servizio presso il proprio studio, quindi a scapito della libertà del legale.

La Terza Sezione osserva poi, che se per un verso, è indiscutibile l’eliminazione dei minimi tariffari  - per effetto del sistema plasmato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in L. 4 agosto 2006, n. 248, c.d. decreto Bersani – e inequivoca è la spinta verso la determinazione consensuale e omnicomprensiva del prezzo della prestazione, deve darsi tuttavia atto dell’orientamento espresso dal Consiglio di Stato, che evidenzia criticamente come la prospettiva ordinistica sia tesa a ritenere che un prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione (sentenza 22 gennaio 2015, n. 238). Se ne deduce una reintroduzione, di fatto, dei minimi tariffari, eludendo così l’abolizione degli stessi disposta dal legislatore (art. 2 decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248; art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27).

Nella richiamata pronuncia il Consiglio di Stato non manca di evidenziare che la nozione eurounitaria di impresa include anche l’esercente una professione intellettuale e che il principio secondo cui “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione” è già insito nell’ordinamento all’art. 2233, cod. civ., che espressamente si occupa del contratto d’opera intellettuale, come rapporto che involge solo il professionista e il cliente.

In definitiva, con riguardo al caso in esame, il Collegio ritiene che l’indeterminatezza dei servizi richiesti al professionista e l’accentuazione dell’esiguità del compenso, finiscono con l’incidere gravemente sulla stessa correttezza della attivazione di una procedura di tipo comparativo idonea a consentire, a tutti gli aventi diritto, di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del miglior contraente. DU

 



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Inserito in data 07/02/2017
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I - 2 febbraio 2017, n. 117

Recesso unilaterale del Comune e difetto di giurisdizione

La pronuncia in esame ricorda la distinzione tra atti di natura privatistica e quelli aventi indole pubblicistica, ambedue emessi da un’Amministrazione comunale, nonché le conseguenti ricadute in punto di giurisdizione.

Nel caso di specie, a fronte di un  recesso unilateralmente disposto da un Comune veneto rispetto ad una fondazione destinata a lavori di rifacimento di un campo da golf, quest’ultima contesta la validità di un simile atto, ritenendolo arbitrario, illogico e compiuto in eccesso di potere.

L’Ente, costituitosi in giudizio, contesta in primo luogo la fondatezza del Giudice amministrativo adito – in ragione della natura privatistica del recesso compiuto.

I Giudici veneti, dato il prioritario rilievo della potestas iudicandi, intervengono immediatamente sulla pregiudiziale questione di giurisdizione, condividendo la posizione espressa dall’Amministrazione intimata.

Più nel dettaglio, aderiscono all’asserita natura privatistica del recesso esercitato dal Comune – quale membro della Fondazione ricorrente e contestano la natura di revoca – ex articolo 21 quinquies L. 241/90 – che essa, invece, presuntivamente ravvisa nella condotta dell’Ente.

Si tratta, evidenziano, di una facoltà riconducibile alla libertà di associarsi – ex art. 18 della Costituzione e, come tale, priva di qualsivoglia natura autoritativa.

Come tale, può essere esercitata secondo i moduli privatistici – come ricorda l’art. 1 – co. 1’ bis L. 241/90 – a norma del quale “nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”.

Del tutto inconferente, prosegue il Collegio veneziano, appare il richiamo di parte ricorrente ai principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 10 del 2011 in tema di “atti a monte” e “atti a valle” compiuti in seno ad una vicenda societaria.

Sia pur volendo traslare quest’ultimo aspetto all’ambito delle fondazioni – quale è da considerarsi la ricorrente, è incontestabile la natura di mero fondatore esplicata nella condotta comunale e, come tale, indubbiamente sussumibile nell’alveo della giurisdizione ordinaria.

Infatti, avvalendosi anche dell’aiuto di precedenti giurisprudenziali, si ravvede come l’impugnato atto di recesso rientra appieno negli atti compiuti con spendita, da parte del Comune, della propria capacità di diritto privato, cosicché spetta al G.O. conoscere se i predetti poteri siano stati, o meno, esercitati correttamente (cfr. T.A.R. Lazio, Latina, Sez. I, 9 gennaio 2013, n. 17).

Poste tali valutazioni, il TAR adito declina la propria giurisdizione e si pronuncia ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 C.p.A. – 2’ co. con salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda, ferme restando le preclusioni e le decadenze già intervenute. CC



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Inserito in data 06/02/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 1 febbraio 2017, n. 176

Diniego diritto di accesso del soggetto presunto autore di stalking

Il Collegio fiorentino interviene, con la pronuncia di cui in epigrafe, in un ambito estremamente delicato – quale quello dei confini del diritto di accesso spettante ad un soggetto destinatario della comunicazione di inizio procedimento – ex art. 10, 1° comma lett. a) della l. n. 241/90 – per un procedimento di ammonimento ex art. 8 del d.l. 23 febbraio 2009 n. 11 (conv. in l. 23 aprile 2009, n. 38) su questi ricaduto.

In primo luogo, i Giudici negano la preliminare eccezione di difetto di interesse di parte ricorrente – come sollevata dalle Amministrazioni resistenti.

E’ nella natura, nonché nella ratio dell’art. 10 – 1’ comma L. 241/90 – conferire ai soggetti destinatari della comunicazione di inizio procedimento il diritto di <<prendere visione degli atti del procedimento>> per poter compiutamente esercitare le proprie facoltà partecipative.

Del resto, insiste il Collegio richiamando giurisprudenza recente della medesima Sezione (Cfr. TAR Toscana, 13 gennaio 2017, n. 20) la mancata concessione dell’accesso richiesto ex art. 10, 1° comma lett. a) della l. 7 agosto 1990, n. 241 importa una lesione delle facoltà partecipative del destinatario della comunicazione di inizio procedimento di tale importanza da determinare l’illegittimità del provvedimento finale adottato, sulla base di un contraddittorio incompleto.

I Giudici proseguono riconoscendo, altresì, la fondatezza del ricorso nel merito.

Ricordano, infatti, come l’avvenuto diniego sulla base del mero richiamo all’articolo 24 – 6’ co. Lett. c) L. 241/90 – che fa riferimento ad esigenze difensive da tutelare, nonché ad azioni strettamente strumentali alla tutela dell'ordine pubblico, alla prevenzione e alla repressione della criminalità – sia un rinvio estremamente generalizzato e, come tale non conforme alla portata degli articoli 22 e ss. L. 241/90 in materia di accesso ai documenti amministrativi.

Non sussiste nel caso di specie, ad avviso del Consesso toscano, una specifica esigenza di segreto o di tutela dell’ordine pubblico che non possa non essere tutelata mediante un mero oscuramento dei dati personali del soggetto parte dei documenti oggetto di istanza.

Imponendo tale accortezza, dunque, i Giudici accolgono il ricorso e, per l’effetto, statuiscono l’annullamento del diniego e l’ostensibilità dei documenti originariamente richiesti. CC

 



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Inserito in data 04/02/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 gennaio 2017, n. 319

Risoluzione pubblicistica per sopraggiunta informativa antimafia. Rito applicabile e giurisdizione

Nel giudizio emarginato in epigrafe, avente ad oggetto il recesso esercitato dalla stazione appaltante per sopraggiunta informativa antimafia, il Collegio esprime il principio secondo cui il ricorso proposto avverso una informativa antimafia (d. lgs. n. 159 del 2011) – essendo  la informativa predetta un istituto di portata generale e “trasversale”, che non interseca, cioè, solo la materia dei pubblici appalti – è soggetto al rito ordinario e non al rito appalti, con la conseguenza che il termine di impugnazione è quello ordinario di 60 giorni e non dimezzato di 30 giorni, previsto dall’art. 120, comma 5, c.p.a. 

Sostanzialmente la terza sezione afferma che “non vengono impugnati, unitamente all’informativa antimafia, atti inerenti alla procedura di gara, di cui all’art. art. 119, comma 1, lett. a, c.p.a., per i quali sussiste l’interesse pubblico specifico alla sollecita definizione delle relative controversie, sotteso alla disposizione che dimezza i termini processuali”.

Detto altrimenti, non si può estendere alla impugnazione della informativa la ratio della disciplina acceleratoria di cui all’art. 120 c.p.a.

Sotto altro profilo, il Collegio afferma la natura pubblicistica del recesso esercitato dalla stazione appaltante, “non riconducibile alla nozione di provvedimenti concernenti le procedure di affidamento ex art. 119, comma 1, lett. A) o comunque al novero degli atti di cui all’art.120, comma 1, c.p.a.”, come sostenuto da una precedente decisione dello stesso Consiglio (C.d.S. 20 luglio 2016 n. 3247).  

Pertanto, si evidenzia che il rito “accelerato” previsto nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica si giustifica in quanto venga in rilievo, e sia impugnato, un atto riconducibile all’esercizio (o al mancato) esercizio del potere di scelta, da parte dell’Amministrazione, in una procedura di gara.

Al contrario, il potere di recedere dal contratto, a seguito all’emissione dell’informativa, è “espressione di una speciale potestà amministrativa che compete alla stazione appaltante ai sensi dell’art. 92, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia), anche nella fase esecutiva del contratto, e non già del generale potere “selettivo” attribuitole dall’ordinamento per la scelta del miglior contraente”.

Risoluzione pubblicistica che non costituisce l’oggetto o l’effetto di uno degli “atti delle procedure di affidamento”, ma è il contenuto di un atto vincolato della stazione appaltante, cioè a dire “la conseguenza necessitata, a valle, di una valutazione compiuta dal Prefetto, a monte, in ordine al un requisito fondamentale richiesto dall’ordinamento per la partecipazione alle gare, della “indispensabile capacità giuridica”, cioè  l’impermeabilità mafiosa delle imprese concorrenti.

Inoltre, con riferimento alla giurisdizione, stante la natura pubblicistica di tale potere di recesso, estraneo alla sfera del diritto privato giacché espressione di potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il Collegio chiarisce che “la cognizione della relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo” (cfr. Cass., Sez. Un., 18 novembre 2016, n. 23468). PC

 



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Inserito in data 03/02/2017
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 30 gennaio 2017, n. 641

No al soccorso istruttorio se il documento di offerta economica è illeggibile

Secondo giurisprudenza  consolidata, “nelle gare pubbliche la radicalità del vizio dell'offerta non consente l'esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell'altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione (Consiglio di Stato sez. V 07 novembre 2016 n. 4645), ed ancora, “con l'istituto del soccorso istruttorio, la stazione appaltante supera una mera incompletezza della documentazione attestante i requisiti soggettivi del concorrente, al fine di evitare esclusioni fondate su mere carenze formali; né potrebbe farsi ricorso ad una richiesta di chiarimenti sull'offerta, laddove, invece questa sia totalmente carente degli elementi essenziali” (Consiglio di Stato sez. IV 12 settembre 2016 n. 3847).

Nell’ipotesi di documento di offerta illeggibile e comunque incompleto di elementi essenziali, “la regula iuris è quella contenuta nell’art. 46, comma 1 bis del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e s.m.i., applicabile al caso di specie ratione temporis”, secondo cui “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”.

Pertanto, in siffatta ipotesi di “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali”, “non vi è dubbio alcuno che sull’organo di gara incombesse l’obbligo espresso di estromettere dalla gara parte ricorrente”.

Né può riconoscersi “significatività alcuna a comportamenti del concorrente che possano essere incolpevoli o altrimenti imputabili alla stazione appaltante - magari rilevanti ad altri fini - restando l’accertamento della legittima partecipazione alla gara di un concorrente circoscritto all’oggettiva verifica della sussistenza dei necessari requisiti formali e sostanziali richiesti dalla normativa e dalla lex specialis, nonchè della loro corretta allegazione e rappresentazione”. GB

 



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Inserito in data 02/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 gennaio 2017, n. 341

Annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria: presupposti

Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema dell’autotutela amministrativa, soffermandosi, in particolare, sull’istituto dell’annullamento d’ufficio e sui presupposti per il suo esercizio.

Nei fatti un Comune, mediante provvedimento adottato nel 2014, disponeva l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia in sanatoria rilasciata nel 2001, ordinando la demolizione delle opere costruite sulla base dell’atto annullato. I titolari della concessione ricorrevano al TAR, il quale giudicava legittimo il controverso atto di autotutela, in quanto adottato (ad avviso dello stesso Collegio) in conformità ai canoni di azione cristallizzati all’art.21 nonies della legge n.241 del 1990. I ricorrenti criticavano tale giudizio ed insistevano - dinanzi al Consiglio di Stato - nel sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato in prima istanza, in quanto adottato (a loro dire) in spregio dei parametri normativi afferenti alla ragionevolezza del termine entro cui può essere validamente rimosso (d’ufficio) un provvedimento illegittimo e alla sussistenza di un interesse pubblico (attuale e specifico) che ne legittimi e ne giustifichi l’eliminazione.

La Sesta Sezione assegnataria, nella sentenza in commento, comincia col ricordare che le condizioni per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio (in base a quanto disposto dall’art.21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241) sono: l’illegittimità dell’atto oggetto della decisione di autotutela, la ragionevolezza del termine entro cui può essere adottato l’atto di secondo grado, nonché la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione e la considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento viziato.

La norma - continua il Collegio - individua, dunque, un presupposto rigido (l’illegittimità dell’atto da annullare) e altre condizioni flessibili e duttili (ragionevolezza del termine entro cui annullare, sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento viziato) riferite a concetti indeterminati e, come tali, affidate all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione. Tali ultime condizioni devono intendersi, da un lato poste a garanzia delle esigenze di tutela dell’affidamento dei destinatari di atti ampliativi, in relazione alla stabilità dei titoli ed alla certezza degli effetti giuridici da essi prodotti, dall’altro lato volte a garantire, nell’ambito della valutazione discrezionale dell’amministrazione, il perseguimento del giusto equilibrio tra le esigenze di ripristino della legalità e quelle di conservazione dell’assetto regolativo disposto dal provvedimento viziato.

Il Consiglio di Stato ricorda anche che la suddetta esigenza di equilibrio nel rapporto tra ripristino della legalità e conservazione dell’assetto regolativo recato dal provvedimento viziato, ha ricevuto recentemente un importante contributo, grazie all’introduzione, con la l. 7 agosto 2015, n. 124, della fissazione del termine massimo di diciotto mesi (con una opportuna definizione quantitativa della nozione elastica di “termine ragionevole”), per l’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici e, quindi, mediante una riconfigurazione del potere di autotutela secondo canoni di legalità più stringenti e maggiormente garantisti per le posizioni private originate da atti ampliativi. 

Passando alla valutazione del caso concreto, il Supremo Consesso (avallando la tesi degli appellanti) afferma che l’annullamento d’ufficio in oggetto ha violato i principi posti dal Legislatore per l’esercizio del potere di autotutela. Ad avviso della Sesta Sezione, infatti, i principi introdotti dalla l. n. 124 del 2015, anche se ratione temporis non applicabili al caso sottoposto al suo esame, possono, tuttavia, essere utilizzati come “prezioso (e ineludibile) indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione”

Pertanto - prosegue il Consesso - in primo luogo “la decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione (ed applicazione) da parte dell’amministrazione, dev’essere…compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche, con la conseguenza che, pur non potendo ritenersi consumato, nella fattispecie esaminata, il potere di annullamento d’ufficio decorso il termine massimo stabilito dal legislatore del 2015, deve giudicarsi, comunque, irragionevole un termine notevolmente superiore (nel caso in esame, di oltre sette volte) a quest’ultimo”.

In secondo luogo, continua la Corte, l’annullamento di un provvedimento a distanza di diversi anni (otre tredici anni nella fattispecie) “a fronte della consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della sua efficacia” impone “una motivazione particolarmente convincente, per giustificare la misura di autotutela, circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto (come espressamente prescritto dall’art.21 nonies l. cit.), in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo”. Ma non solo, “la consistenza di tale onere motivazione deve intendersi aggravata dall’efficacia istantanea dell’atto, e, cioè, della sua idoneità a produrre effetti autorizzatori destinati ad esaurirsi con l’adozione dell’atto permissivo, assumendo, in tale fattispecie, nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all’elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento” (Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 816).

Orbene,  dalla lettura dell’atto controverso - rileva la Sesta Sezione - non appaiono riscontrabili convincenti argomentazioni in merito ai profili temporali e motivazionali della sua adozione, quindi, conclude lo stesso Collegio, “la mera indicazione dell’interesse pubblico all’igiene, alla sicurezza e al decoro, senza alcuna ulteriore argomentazione concreta circa le ragioni dell’attualità dell’esigenza della reintegrazione di quei valori (in relazione alla situazione di fatto prodottasi per effetto dell’attuazione dei titoli edilizi originari), si rivela del tutto insufficiente a legittimare la misura di autotutela, soprattutto in una fattispecie in cui, almeno per uno dei titoli annullati (il permesso di costruire in sanatoria), si è ingenerato nei destinatari dell’atto un serio affidamento circa la definitiva stabilità del titolo (in ragione del notevole lasso di tempo decorso tra i due atti)”. FM

 



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Inserito in data 01/02/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 gennaio 2017, n. 394

La procedura di gara si applica anche alle concessioni di beni pubblici

Con la sentenza in epigrafe, la Sesta Sezione si è pronunciata sulla negazione del comune sul rilascio della concessione richiesta da una società per un barcone installato senza titolo in acque pubbliche.

Nella specie, il Supremo Consesso ha dichiarato che “lo spazio acqueo occupato dal barcone costituisce un bene demaniale economicamente contendibile, il quale può essere dato in concessione ai privati, a scopi imprenditoriali, solo all’esito di una procedura comparativa ad evidenza pubblica” (richiamando in tal senso, ex multis, Cons. Stato, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5; Cons. Stato., sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; Cons. Stato, sez. VI, 23 luglio 2008, n. 3642; Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3145; Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2016, n. 4911).

Il Collegio ricorda come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato abbia in più occasioni affermato che “i principi in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, d’imparzialità e di trasparenza, si applicano anche a materie diverse dagli appalti, essendo sufficiente che si tratti di attività suscettibile di apprezzamento in termini economici.”

Pertanto, i detti principi sono applicabili anche alle concessioni di beni pubblici, atteso che la sottoposizione ai principi di evidenza trova il suo presupposto sufficiente nella circostanza che con la concessione dell’area demaniale marittima si fornisca un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato.

A ciò la Sesta Sezione aggiunge l’assunto per il quale “chi occupa abusivamente il bene demaniale anche nel caso in cui l’occupazione abusiva si protragga da anni, non può vantare alcuna aspettativa giuridicamente rilevante o alcun titolo preferenziale al rilascio della concessione, che può conseguire solo attraverso la procedura di gara.”

Il Collegio osserva inoltre che, nel delineato contesto, non assume alcuna rilevanza pregiudiziale né il procedimento di regolarizzazione della situazione debitoria pregressa relativa al mancato pagamento delle somme dovute a titolo di indennità di occupazione senza titolo, né il procedimento di valutazione della compatibilità dei barconi sotto il profilo paesaggistico: poiché, indipendentemente dall’esito di tali procedimenti, il rilascio della concessione alla società istante non implica alcun obbligo del Comune di indizione di gara.

Il fatto, quindi, che il provvedimento di diniego sia stato adottato senza attendere l’esito di tali procedimenti non dà luogo ad alcun difetto di istruttoria e non vale, quindi, ad inficiare la validità del provvedimento impugnato.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il Consiglio di Stato respinge l’appello. DU

 



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Inserito in data 31/01/2017
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 26 gennaio 2017, n. 24

La CGUE è chiamata a chiarire il significato dell’art. 325 TFUE dopo la causa Taricco

Con la pronuncia in esame, la Corte Costituzionale sottopone alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 TFUE, l’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del medesimo Trattato sulla base della sentenza resa in causa Taricco.

In particolare, la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 del TFUE “impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale quando ciò gli impedirebbe di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione”.

E’ evidente, quindi, come la regola tratta dall’art. 325 del TFUE finisca per interferire con il regime legale della prescrizione dei reati, che il giudice sarebbe tenuto a non applicare nei casi indicati in quella decisione.

Invero, “nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’art. 25, secondo comma, Cost.”, come ripetutamente sostenuto dalla stessa Corte Costituzionale (da ultimo sentenza n. 143 del 2014). È perciò necessario che “esso sia analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto”.

Si tratta, infatti, di un istituto che “incide sulla punibilità della persona e la legge, di conseguenza, lo disciplina in ragione di una valutazione che viene compiuta con riferimento al grado di allarme sociale indotto da un certo reato e all’idea che, trascorso del tempo dalla commissione del fatto, si attenuino le esigenze di punizione e maturi un diritto all’oblio in capo all’autore di esso (sentenza n. 23 del 2013)”.

Per contro, alcuni Stati membri “muovono da una concezione processuale della prescrizione, alla quale la sentenza resa in causa Taricco è più vicina, anche sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

Pare utile osservare che su questo aspetto, che non riguarda direttamente né le competenze dell’Unione, né norme dell’Unione, “non sussiste alcuna esigenza di uniformità nell’ambito giuridico europeo. Ciascuno Stato membro è perciò libero di attribuire alla prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o processuale, in conformità alla sua tradizione costituzionale”.

Questa conclusione non è stata posta in dubbio dalla sentenza resa in causa Taricco, che “si è limitata a escludere l’applicazione dell’art. 49 della Carta di Nizza alla prescrizione, ma non ha affermato che lo Stato membro deve rinunciare ad applicare le proprie disposizioni e tradizioni costituzionali, che, rispetto all’art. 49 della Carta di Nizza e all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, risultano per l’imputato di maggior favore. Né ciò sarebbe consentito nell’ordinamento italiano quando esse esprimono un principio supremo dell’ordine costituzionale, come accade per il principio di legalità in campo penale in relazione all’intero ambito materiale a cui esso si rivolge”.

Orbene, proprio sulla base della premessa secondo cui il principio di legalità penale riguarda anche il regime legale della prescrizione, la Corte Costituzionale è chiamata dai giudici rimettenti a valutare, tra l’altro, “se la regola tratta dalla sentenza resa in causa Taricco soddisfi il requisito della determinatezza, che per la Costituzione deve caratterizzare le norme di diritto penale sostanziale”.

Si tratta di un principio che, come è stato riconosciuto dalla stessa Corte di giustizia, “appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto (sentenza 12 dicembre 1996 in cause C-74/95 e C-129/95, punto 25)”.

Si tratta, pertanto, di stabilire “se la persona potesse ragionevolmente prevedere, in base al quadro normativo vigente al tempo del fatto, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’art. 325 del TFUE, avrebbe imposto al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. in presenza delle condizioni enunciate dalla Corte di giustizia in causa Taricco”.

In tale prospettiva, la Corte Costituzionale è convinta che “la persona non potesse ragionevolmente pensare, prima della sentenza resa in causa Taricco, che l’art. 325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen. ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione”.

In secondo luogo, è necessario interrogarsi sia “sul rispetto della riserva di legge, sia sul grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale. In particolare il tempo necessario per la prescrizione di un reato e le operazioni giuridiche da compiersi per calcolarlo devono essere il frutto dell’applicazione, da parte del giudice penale, di regole legali sufficientemente determinate. In caso contrario, il contenuto di queste regole sarebbe deciso da un tribunale caso per caso, cosa che è senza dubbio vietata dal principio di separazione dei poteri di cui l’art. 25, secondo comma, Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale”.

Si tratta, dunque, di “verificare se la regola enunciata dalla sentenza resa in causa Taricco sia idonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria e anche su questo terreno occorre osservare che non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di giustizia”.

Sul punto, l’art. 325 del TFUE, pur formulando un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, secondo quanto precisato dalla Corte di giustizia, “omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo. In questo modo, osservano i Giudici del rinvio pregiudiziale, “si potrebbe permettere al potere giudiziario di disfarsi, in linea potenziale, di qualsivoglia elemento normativo che attiene alla punibilità o al processo, purché esso sia ritenuto di ostacolo alla repressione del reato”.

Questa conclusione “eccede il limite proprio della funzione giurisdizionale nello Stato di diritto quanto meno nella tradizione continentale, e non pare conforme al principio di legalità enunciato dall’art. 49 della Carta di Nizza”.

Alla luce di quanto suddetto, se la Corte di giustizia dovesse concordare con la Consulta sul significato dell’art. 325 del TFUE e della sentenza resa in causa Taricco, “sarebbero superate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici rimettenti”. EF

 



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Inserito in data 30/01/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 26 gennaio 2017, n. 1345

Sul controllo, ad opera del Giudice, della coerenza e ragionevolezza del disciplinare di gara

La sentenza emarginata in epigrafe  riguarda una controversia avente ad oggetto principale la legittimità di un bando di gara che, secondo le doglianze esposte dalle ricorrenti, sarebbe in contrasto con i principi europei e nazionali posti a presidio della libertà di concorrenza e del favor partecipationis nella materia delle procedure ad evidenza pubblica.     

Il Collegio afferma che la questione oggetto della impugnativa non è la legittimità ex se della indizione della gara, bensì “la verifica della legittimità di una disciplina di gara che, sostanzialmente,  preclude alle piccole e medie imprese di poter partecipare individualmente alle procedure selettive dei singoli lotti”.

In particolare, le doglianze esposte nel ricorso sono tutte incentrate sulla formulazione – ad opera della Amministrazione comunale resistente - della lex specialis la quale, di fatto, impedisce la concreta partecipazione delle piccole e medie imprese al procedimento di aggiudicazione dell’appalto.

Il Collegio, preliminarmente, incentra la sua analisi sulla evoluzione della disciplina riguardante le procedure ad evidenza pubblica, mettendo in rilievo come la stessa si ispiri al rispetto dei principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità nonché di pubblicità (principi ispirati alla tutela delle imprese concorrenti e del corretto funzionamento del mercato).

Sotto tali profili, vengono citate diverse norme: i) il comma 7 dell’art. 30 d.lgs. 163 del 2001(vecchio  codice contratti pubblici) secondo cui “i criteri di partecipazione alle gare devono essere tali da non escludere le microimprese, le piccole e medie imprese”; ii) l’art. 51 del nuovo codice appalti secondo cui “al fine di favorire l’accesso delle microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali … in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture”, ma anche che “nel caso di suddivisione in lotti, il relativo valore deve essere adeguato in modo da garantire l’effettiva possibilità di partecipazione da parte delle micro imprese, piccole e medie imprese”; iii) l’art. 83 comma 2 nuovo codice appalti, secondo cui i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche – professionali sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”.

Nella sentenza de qua si evidenzia, altresì, come un ulteriore impulso al rispetto delle regole della concorrenza ed al favor partecipationis è dato dallo strumento c.d. del vincolo di partecipazione “che si estrinseca nella facoltà della stazione appaltante di limitare il numero massimo di lotti che possono essere aggiudicati ad un solo offerente”.

Invero, sotto tale profilo, i ricorrenti espongono che, “il vincolo di partecipazione costituisce uno strumento proconcorrenziale che, nell’impedire ad uno stesso soggetto di essere aggiudicatario di una pluralità di lotti, aumenta le possibilità di successo delle piccole e medie imprese pur in presenza di aziende meglio posizionate sul mercato”.

Ebbene, la stazione appaltante ha suddiviso l’oggetto dell’appalto in diversi lotti. Tale suddivisione (secondo quanto affermato dalla stessa) “sarebbe funzionale al perseguimento dell’obiettivo di favorire il maggior numero di imprese di settore a partecipare alla gara”.

Alla luce di ciò, si tratta per il Collegio di stabilire se la lex specialis oggetto di impugnativa sia ragionevole  o meno. Detto altrimenti, “occorre necessariamente verificare se la concreta suddivisione in lotti territoriali e per materia (operata dalla amministrazione) persegua o meno le finalità suddette”, id est,  la tutela della libera concorrenza e del favor partecipationis.

Più precisamente, una tale verifica va condotta non tanto avendo riguardo alla correttezza del requisito minimo di fatturato richiesto al fine di poter partecipare alla gara, bensì “occorre verificare se la individuazione dell’oggetto dell’appalto in diversi servizi tra di loro eterogenei, oltre alla suddivisione dello stesso in lotti molto estesi, non osti al rispetto delle previsioni di legge atte a favorire la partecipazione del maggior numero di imprese alla partecipazione alla gara”.

Orbene, secondo il Collegio, “la individuazione dell’ambito territoriale ottimale postula, soprattutto in una gara di estrema rilevanza quale quella in esame, un’articolata istruttoria ed uno specifico obbligo motivazionale, tanto più che nella stessa determina a contrarre l’amministrazione ha dato atto che l’appalto in parola è caratterizzato da una straordinaria complessità”.

Proprio sotto quest’ultimo profilo, il Collegio ricorda quanto affermato dalle ricorrenti e non contraddetto dall’amministrazione resistente,  e cioè  che“il mercato italiano dei servizi in esame si connoterebbe per la presenza di un gruppo ristretto di quattro/cinque operatori e da numerosissime imprese di dimensione media e piccola, per cui queste ultime dovrebbero dare vita a raggruppamenti temporanei molto estesi per conseguire il requisito economico-finanziario o altrimenti dovrebbero trovare l’accordo con un grande player; la gara, quindi, prevedrebbe dei macro lotti di importo tale da precludere la concreta partecipazione alla stragrande maggioranza degli operatori economici del mercato”.

Alla luce di tutto quanto sopra detto, il Collegio afferma che sia manifestamente illogico “considerare ambiti territoriali ottimali, lotti per l’affidamento dei quali possono concorrere individualmente soltanto poche imprese di grandi dimensioni con preclusione alla partecipazione individuale delle altre numerosissime imprese, di piccole e medie dimensioni, che compongono il mercato”.

Pertanto, afferma il T.A.R. Lazio che “la scelta della stazione appaltante ha violato il fondamentale principio del favor partecipationis limitando in modo irragionevole la facoltà di presentazione individuale delle offerte e non garantendo in tal modo l’esplicarsi di un piena apertura del mercato alla concorrenza”.

Ed ancora, una corretta individuazione dell’ambito territoriale ottimale “dovrebbe consentire il funzionamento di un mercato in cui la facoltà di presentare offerte in forma singola sia concessa non solo ai player dello stesso, ma anche, per quanto possibile, alle imprese di medie e piccole dimensioni al fine di incentivare una concorrenza piena, con possibilità per ogni impresa di incrementare le proprie qualificazioni e la propria professionalità, e di trarre i potenziali benefici in termini di qualità di servizi resi e di prezzi corrisposti”.

Al contrario, la scelta compiuta dalla amministrazione appaltante, “di aggregare più servizi diversi in un’unica procedura di affidamento e di suddividere un appalto di straordinaria complessità in soli cinque lotti, peraltro, non risulta preceduta da adeguata istruttoria ed è sfornita di una motivazione sufficiente, tale da dare plausibilmente conto della sua non manifesta illogicità”.

In conclusione il Collegio, condividendo i motivi di doglianza esposti dalle ricorrenti, accoglie il ricorso, annullando così la disciplina di gara oggetto della  presente contestazione. PC 


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Inserito in data 28/01/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, 25 gennaio 2017, n. 1324

La partecipazione alle gare dei consorzi stabili in attesa delle linee-guida ANAC

Con la pronuncia in esame, il Collegio non ritiene revocabile in dubbio che “la partecipazione alle gare dei consorzi stabili trovi ancora, allo stato, le proprie disposizioni di riferimento nel precedente ordinamento di settore”.

Se è vero che il d.lgs. 50/2016 ha innovato in ordine alla qualificazione dei consorzi stabili nelle procedure di affidamento pubbliche, è altresì vero che “le nuove regole non sono state compiutamente dettagliate, essendo state rimesse dall’art. 83, comma 2, alla predisposizione di linee-guida da parte dell’ANAC”.

L’art. 83, comma 2, prevede, infatti, che “per i lavori, con linee guida dell'ANAC adottate entro un anno dalla data di entrata in vigore del presente codice, previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, sono disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l'accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti e le capacità che devono essere posseduti dal concorrente, anche in riferimento ai consorzi di cui all'articolo 45, lettere b) e c) e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso di cui all'allegato XVII. Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”.

Invero, “nel previgente ordinamento, per la questione qui controversa, non è rinvenibile alcuna differenziazione tra appalti di lavori e appalti di servizi”.

Non è dunque implausibile ritenere che “le future linee-guida, in disparte ogni questione in ordine alla loro formale riferibilità a una specifica tipologia di gara, siano suscettibili di concretare indicazioni di carattere generale, destinate, in quanto tali, a conformare l’intera materia”.

Del resto, in tale scenario, “la scelta operata dal nuovo codice dei contratti è quella di fare salve, temporaneamente, le regole antecedenti, e tale scelta, ancorchè espressa immediatamente dopo la rimessione all’ANAC del compito di predisporre le linee guida “per i lavori”, è, però, di carattere assoluto (“Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”), non essendo stata richiamata, anche in tal caso, la delimitazione che connota il periodo precedente (“per i lavori”)”.

La prescelta interpretazione trova, pertanto, “conforto in un dato di sistema e in un elemento testuale”.

Vieppiù, la stessa interpretazione è confortata dalle FAQ predisposte dall’ANAC “sulle questioni interpretative relative all’applicazione delle disposizioni del d.lgs. 50/2016 nel periodo transitorio”, di cui al Comunicato 8 giugno 2016, punto 3.

In tal sede, in relazione al quesito su quali siano le norme applicabili alla qualificazione dei consorzi sino all’adozione delle linee-guida previste dall’art. 82, comma 2, del d.lgs. 50/2016, l’ANAC rileva che i requisiti sono individuati in linea generale dall’art. 47 del nuovo codice, e, sul rilievo che “l’art. 261, comma 14, prevede che fino all’adozione delle linee-guida previste dall’art. 83, comma 2, del codice (che attengono anche ai requisiti e alle capacità che devono essere posseduti dai consorzi) si applica la parte II, titolo III, del D.P.R. 207/2010. Tra queste disposizioni sono ricomprese anche quelle che disciplinano la qualificazione dei consorzi e, in particolare, l’art. 81, che, attraverso un rinvio recettizio, dispone che la qualificazione dei consorzi stabili avviene secondo le disposizioni dell’art. 36, comma 7, del codice”.

L’ANAC non risulta, quindi, aver in alcun modo “limitato il periodo transitorio di ultravigenza delle previgenti disposizioni agli appalti di lavori”.

In ultimo, soccorre il criterio teleologico.

L’art. 83 del nuovo codice di cui al d.lgs. 50/2016, nel prescrivere che i requisiti e le capacità per le qualificazioni devono essere attinenti e proporzionali all'oggetto dell'appalto, richiama l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”.

Tale finalità risulterebbe compromessa “laddove – in presenza di un nuovo quadro normativo che non offre una compiuta regolamentazione delle modalità di partecipazione alle gare dei consorzi stabili, in quanto destinato a essere integrato da disposizioni di carattere secondario non ancora predisposte e di cui non si è in grado di apprezzare, allo stato, la latitudine, e in vista delle quali ricorre a un periodo transitorio di ultravigenza delle norme anteriori – dovesse ritenersi, in assenza di inequivocabili previsioni in tal senso, che, solo per una parte della materia, il nuovo codice abbia previsto il repentino e generale sovvertimento delle norme previgenti”.

Deve concludersi, pertanto, che “la locuzione di cui all’art. 83, comma 2, del d.lgs. 50/2016 (“Fino all'adozione di dette linee guida, si applica l'articolo 216, comma 14”) si interpreta nel senso dell’applicabilità della disposizione anche agli appalti di servizi”. EF

 



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Inserito in data 27/01/2017
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 19 gennaio 2017, n. 26

Gara pubblica e servizi analoghi

Il servizio di spazzamento strade e il servizio di ripristino delle condizioni stradali post incidente non sono “servizi analoghi” ai fini della partecipazione alla procedura concorsuale in sede di gara pubblica.

“Il semplice spazzamento delle strade ed il mantenimento dell’igiene pubblica non comportano […] l’attività […]  di ripristino dello status quo ante dei luoghi circa le pertinenze stradali danneggiate da incidenti stradali (barriere metalliche e in calcestruzzo, segnaletica, muri, cancellate, recinzioni, impianti semaforici, pali per l’illuminazione stradale ecc). Ovviamente la struttura tecnica necessaria per assolvere a tale servizio non può essere la stessa e la sola impiegata per lo spazzamento delle strade”.

L’esclusione di possibili analogie tra i due servizi è peraltro avvalorata  dal fatto che il suddetto servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale ricomprende anche l’attività di surroga nei confronti delle compagnie assicuratrici presso le quali risultino assicurati gli autori degli incidenti stradali che hanno provocato  i danneggiamenti.

“Evidentemente anche questa attività di natura amministrativa, connessa con quella materiale di ripristino dei luoghi, nulla ha a che fare con il semplice servizio di spazzatura delle strade”. GB 

 



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Inserito in data 26/01/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 23 gennaio 2017, n. 272

Applicazione del principio della divisione degli appalti in lotti funzionali

Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta il tema dell’applicazione del principio, contenuto nell’art. 2, comma 1 bis, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, secondo cui al fine di favorire l'accesso delle piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti devono, ove possibile ed economicamente conveniente, suddividere gli appalti in lotti funzionali.

Più in dettaglio, nel caso di specie si è posta la questione della applicabilità del suddetto principio anche ai servizi di cui all’allegato IIB dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006 (tra i quali, i servizi sanitari).

Nei fatti, una società specializzata in servizi odontoiatrici ha impugnato, in primo grado, il bando di gara di un’Azienda Ospedaliera contenente una procedura diretta all’affidamento, ad un unico soggetto, dell’attività di assistenza specialistica di odontoiatria da prestarsi presso i centri odontostomatologici dell’Azienda stessa. Secondo la ricorrente (odierna appellata), l’impostazione impressa dall’Amministrazione alla gara, riunendo in un unico lotto il servizio sanitario da affidare, risulterebbe in contrasto con il principio di cui all’art. 2, comma 1 bis, del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163. Tale tesi è stata accolta dal TAR.

La questione è stata riproposta in appello dinanzi alla Terza Sezione del Consiglio di Stato, la quale, con la sentenza in commento, ha in primo luogo affermato che la disposizione contenuta nel comma 1 bis dell’art. 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 - che ha palesemente lo scopo di favorire la massima partecipazione agli appalti, evitando la formazione di situazioni monopolio o di oligopolio - rientra certamente fra i principi generali che presiedono all’impostazione di tutte le gare d’appalto, pur nella diversificazione dei diversi settori.

 Il Collegio ha poi  chiarito, in via generale, che “la norma della cui applicazione si discute non è suscettibile di applicazione vincolata; stabilisce invece un parametro generale di comportamento, da adottare alle caratteristiche di ogni caso specifico.

In altri termini, il principio regola l’esercizio di una facoltà discrezionale dell’Amministrazione, imponendole di verificare la possibilità di scindere gli appalti di grosse dimensioni in appalti di importo più contenuto, escludendo tale ipotesi solo in presenza di valide ragioni in senso contrario.

La discussione deve quindi riguardare la presenza di tali motivazioni, e la loro congruità alla luce dei consueti parametri attraverso i quali il giudice amministrativo conosce dell’esercizio della discrezionalità dell’Amministrazione”.

Focalizzando, infine, l’attenzione sulla fattispecie oggetto di giudizio, il Supremo Consesso ha concluso che “nel caso di specie l’Amministrazione ha dato sufficiente giustificazione della sua scelta, affermando l’opportunità di dare, per quanto possibile, la stessa qualità di servizio a tutti gli utenti, obiettivo facilitato dall’affidamento del contratto a un solo soggetto.

Tale scelta non può essere ritenuta manifestamente illogica, e infatti a essa l’appellata oppone considerazioni apprezzabili ma che sono quanto, se non più, opinabili di quelle svolte dagli organi competenti.

Le censure svolte dall’appellata, ricorrente in primo grado, condivise dal primo giudice, risultano quindi infondate; risultano di conseguenza fondate le argomentazioni dedotte dall’appellante”. FM

 



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Inserito in data 25/01/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 gennaio 2017, n. 194

L’esclusione dalla gara può essere disposta solo dopo l’invito alla regolarizzazione dell’offerta

Con la pronuncia in esame, la Quinta Sezione ha rigettato la richiesta di riforma della sentenza di primo grado dell’appellante, rivedendone tuttavia la motivazione sulle cause di esclusione dalla procedura selettiva.

In particolare, l’appellante si doleva del capo di sentenza con cui il TAR, accogliendo il ricorso incidentale, dichiarava l’erroneità dell’affermazione che la mancata specificazione degli oneri di sicurezza aziendale in sede di offerta potesse costituire causa di esclusione della procedura selettiva, pur in assenza di una specifica prescrizione in tale senso nella disciplina di gara.

Ad avviso del Consiglio di Stato, la pronuncia, invero, contrasterebbe con i principi eurounitari di tutela del legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, di libero stabilimento, di parità di trattamento, di non discriminazione di proporzionalità e di trasparenza.

A ben vedere, di recente, la Adunanza plenaria, intervenuta sulla tematica con la sentenza 27 luglio 2016, n. 19, rettificando il precedente orientamento, ha affermato che per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo c.d. codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale, l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante, nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio (in termini anche Cons. Stato, V, 23 dicembre 2016, n. 5444; III, 27 ottobre 2016, n. 4527).

Peraltro, si tratta del medesimo orientamento della giurisprudenza comunitaria.

Per tali ragioni, il Supremo Consesso rileva che erroneamente il giudice di prime cure avrebbe valutato legittima l’esclusione dalla gara dell’appellante per l’omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendale.

Ne deriva che la l’amministrazione - per pacifico principio - conserva integro il potere di emendare il procedimento amministrativo sino a quando non è definitivamente concluso, salvi gli affidamenti riconosciuti dalla legge.

Che nella specie, le concrete modalità con cui nella fattispecie l’amministrazione abbia attivato il soccorso istruttorio abbiano finito per pregiudicare l’appellante, è, ad avviso del Collegio, circostanza del tutto occasionale, come tale inidonea a viziare il procedimento (non essendo stato provato che tali modalità siano state tali da configurare uno sviamento di potere). Per tali ragioni, rigetta il ricorso. DU 


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Inserito in data 24/01/2017
TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 17 gennaio 2017, n. 26

Oggetto del contratto di avvalimento

L’oggetto dell’avvalimento “menzionato solo genericamente nel contratto” può essere specificato “mediante il riferimento alle ulteriori dichiarazioni versate agli atti di gara”.

Il collegamento negoziale tra la dichiarazione ed il contratto di avvalimento è  “imposto”, “innanzitutto dall’applicazione delle regole ermeneutiche scolpite dagli articoli 1366 c.c. (declinato come obbligo di buona fede teso a salvaguardare l’utilità che la parte ritrae dal contratto), nonché dall’art. 1362 c.c. 1° e 2° comma (declinato sia come ricerca della comune intenzione delle parti in senso sostanziale ed al di là del testo letterale, sia come valutazione del comportamento complessivo insito pure in ulteriori dichiarazioni rese dalle parti stesse)”.

 “Il rapporto di avvalimento si sostanzia infatti in una fattispecie complessa di natura negoziale (incentrata sulla promessa del fatto del terzo di cui alla dichiarazione di avvalimento secondo una logica analoga al cd. contratto “sul patrimonio del terzo”) la quale comporta indubbi riflessi pure nei riguardi della Stazione Appaltante e pertanto i citati canoni ermeneutici valgono pure per l’Amministrazione medesima e non solo per le parti principali del contratto di avvalimento”.

Peraltro, “ anche alla stregua dell’ottica pubblicistico-procedimentale che connota la fase dell’evidenza, non par dubbia la valenza generale del principio di buona fede cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, siccome tesa a salvaguardare l’interesse pretensivo del partecipante entro il limite dell’apprezzabile sacrificio”.

“La determinabilità dell’oggetto nell’avvalimento è altresì imposto dalla doverosità di una lettura sostanziale degli atti di gara, in linea con il formante giurisprudenziale più recente (Ad. Plen n. 23/2016 e Consiglio di Stato sentenza n. 2952/2016, citata dalla difesa dei ricorrenti), il quale privilegia una interpretazione non formalistica del rapporto di avvalimento, alieno a profili formalistici e teso a tutelare il principio dalla massima concorrenzialità”. GB 


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Inserito in data 23/01/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA - 13 gennaio 2017, n. 9

Si può ricorrere all’avvalimento per la determinazione della fascia di classificazione

L’ambito applicativo dell’istituto dell’avvalimento è limitato “ai requisiti oggettivi di ordine speciale, economico - finanziari e tecnico – organizzativi” (per tutte, C.d.S., sez. IV, n. 4406/2012; Id. n. 810/2012). Giova, peraltro, anche evidenziare che “l’avvalimento è istituto di derivazione comunitaria di portata generale che, in quanto posto a presidio della libertà di concorrenza, non tollera comunque interpretazioni limitative volte a restringerne l’applicabilità, ad eccezione dei requisiti soggettivi inerenti alla moralità e alla onorabilità professionale a tutela della serietà ed affidabilità degli offerenti”.

D’altra parte, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha “definitivamente acquisito la legittimità del c.d. avvalimento frazionato ai sensi dell’art. 49 del codice dei contratti pubblici” (cfr. sez. V, n. 2200/2014 e n. 277/2015) escludendo unicamente “l’avvalimento cosiddetto a cascata, che elide il necessario rapporto diretto tra ausiliaria ed ausiliata” (cfr. sez. V, n. 1251/2014; sez. III, 1072/2014).

Orbene, l’iscrizione all’Ente camerale si caratterizza soggettivamente, “con conseguente impossibilità di sostituzione mediante avvalimento” (cfr. Tar Calabria, n. 1/2014); mentre “la determinazione della fascia di classificazione prende in considerazione unicamente il volume di affari, e quindi attiene a requisiti oggettivi speciali”. Ciò risulta, d’altra parte, “confermato da una corretta lettura delle determinazioni e deliberazioni dell’AVCP n. 2 del 2012 e n. 28 del 2013 e dalla recente sentenza del T.A.R. Liguria, sez. II, n. 1201/2016”, nonché “dalla deliberazione n. 64/2009 dell’AVCP e dal pertinente parere ANAC 23 febbraio 2012, n. 22”. EF 

 



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Inserito in data 21/01/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 gennaio 2017, n. 30

Sulla mancata indicazione nell’offerta degli oneri di sicurezza. Soccorso istruttorio

Nella decisione emarginata in epigrafe, il Collegio chiarisce che la mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali (nell’ambito della presentazione di una offerta economica), non giustifica la esclusione - ex art. 87, comma 4, d.lgs. 163 del 2006 - dalla procedura di aggiudicazione di un appalto, così aderendo al più recente orientamento interpretativo formatosi in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato.

    Invero, nel caso di specie, il Giudice di prime cure, aveva condiviso la precedente impostazione giurisprudenziale di cui alle decisioni del Consiglio di Stato in seduta plenaria (sentenze n. 3 e 9 del 2015), secondo cui  “nelle procedure di affidamento di lavori, i partecipanti alla gara devono indicare nell'offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l'esclusione dell'offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara” e, con riferimento all’istituto del soccorso istruttorio, “in sede di gara pubblica non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria 20 marzo 2015, n. 3”.

    Sulla base dei predetti principi, il T.A.R. Marche ha ritenuto di dover accogliere il ricorso proposto dalla contro interessata avverso il provvedimento di aggiudicazione a favore della ricorrente in secondo grado (la società aggiudicataria).

    Invero, nella controversia di cui alla decisione in epigrafe, ritiene il Collegio di dover tener conto del mutamento interpretativo operato in seno alla più recente giurisprudenza dello stesso Consiglio di Stato, la quale rileva che una siffatta esclusione “automatica dalla gara contrasti con i principi euro unitari  della tutela dell’affidamento, della certezza del diritto, della parità di trattamento, della non discriminazione, della proporzionalità e della trasparenza”.

    Secondo questa nuova ottica, espressa dal Consiglio di Stato in seduta plenaria (n. 19/ 2016), si ritiene che “per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50) - che ora risolve la questione prevedendo espressamente, all'art. 95, comma 10, l'obbligo di indicare gli oneri di sicurezza, nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara - l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio”.

    Orbene, secondo il Collegio, il principio appena sintetizzato “si attanaglia perfettamente alla controversia oggetto del ricorso” giacché è incontroverso che: a) l’offerta economica è stata dalla ricorrente presentata alla stazione appaltante in data anteriore alla emanazione del nuovo codice appalti; b) che la legge di gara non ha specificato ai concorrenti che vi fosse un loro obbligo di indicare nell’offerta, a pena di esclusione, gli oneri della sicurezza aziendale.

    Pertanto, stando ai suddetti rilievi, viene affermata la illegittimità della esclusione dalla gara disposta dal giudice di prime cure (T.A.R. Marche) sol perché la società aggiudicataria “non abbia indicato in maniera specifica nella propria offerta economica gli oneri della sicurezza aziendale” costi che, peraltro, non erano stati predeterminati negli atti di gara.

    Stando così le cose, il Collegio accoglie il ricorso principale della società appellante, respinge il ricorso incidentale della appellata e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, respinge il ricorso principale della ricorrente in prima istanza. PC

 



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Inserito in data 20/01/2017
TAR CALABRIA – CATANZARO, SEZ. II - 19 gennaio 2017, n. 78

Precisazioni in ordine alla operatività del cd. remand in sede cautelare

I giudici calabresi, con la pronuncia oggi esaminata, specificano l’estensione del riesame nell’ambito di un giudizio cautelare.

Nella specie l’Amministrazione, intimata dal Giudice di vagliare nuovamente il contenuto del provvedimento impugnato, ne conferma la portata anche alla luce dei nuovi motivi di ricorso frattanto sopravvenuti.

Il Collegio evidenzia come una simile prassi processuale, benchè non codificata né all’articolo 55 C.p.A. né aliunde, trovi comunque un’esperibilità diffusa e sempre più frequente, specie per ragioni di opportunità.

Infatti, affermano i Giudici, tramite tale prassi è possibile rimettere in gioco l’assetto di interessi definiti con l’atto impugnato, restituendo alla P.A. l’intero potere decisionale iniziale, senza pregiudicarne il risultato finale.

In tal guisa, essi proseguono – richiamando anche precedenti in materia, il nuovo atto, quando non sia meramente confermativo, costituendo, come nel caso di specie, una (rinnovata) espressione della funzione amministrativa, porta ad una pronuncia di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere, ove abbia contenuto satisfattivo della pretesa azionata dal ricorrente, oppure d’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l’interesse del ricorrente dall’annullamento dell’atto inizialmente impugnato, all’annullamento di quest’ultimo, che lo ha interamente sostituito (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. II quater, 27 luglio 2015 n. 10245).

Vengono così chiariti i contorni del c.d. “accoglimento della domanda cautelare ai fini del riesame” – la cui operatività è sempre più diffusa, stante il frequente ricorso al giudizio cautelare ai fini di una tutela presuntivamente più immediata. CC 


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Inserito in data 19/01/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 17 gennaio 2017, n. 167

Autorità competente a sanzionare un operatore economico per pratica commerciale scorretta: rinvio alla Corte di giustizia UE

Con l’Ordinanza in esame, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sull’appello proposto dall’AGCM avverso una sentenza con cui il Tar Lazio, accogliendo il ricorso di una società di telefonia mobile, ha annullato la sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla stessa AGCM per pratica commerciale scorretta.

Nello specifico, la condotta sanzionata consiste nell’avere l’operatore di telefonia nei propri punti vendita commercializzato carte SIM, sulle quali erano preimpostati servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica, i cui costi venivano addebitati all’utente se non disattivati su espressa richiesta di quest’ultimo (attraverso il meccanismo c.d. di option-out o opt-out), senza aver previamente informato il consumatore dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità.

Il Giudice di primo grado - richiamando quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con le sentenze nn. 11-16 dell’11 maggio 2012 sul tema del rapporto tra normativa generale in materia di tutela del consumatore e disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, con particolare riguardo al principio di specialità sancito dalla direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio - ha ritenuto fondata l’eccezione con cui era stata rilevata, nel caso in questione, l’incompetenza dell’AGCM ad emettere il provvedimento impugnato, invocando il principio di specialità di cui all’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, ai sensi del quale “In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. In pratica, il TAR Lazio ha affermato che l’AGCM si sia arrogata l’esercizio di una potestà regolamentare che non le compete ”sia sotto il profilo tecnico delle modalità concrete di prestazione dei servizi sia sotto quello dei rapporti interprivati posti in essere dall’operatore telefonico con i propri utenti. Ciò in quanto il provvedimento impugnato, nel vietare la diffusione o continuazione della pratica commerciale descritta, nella sostanza vieta l’utilizzo di determinate modalità di commercializzazione delle carte SIM, in tal modo venendo a porre a carico dell’operatore telefonico una regola di comportamento sconosciuta alla regolazione settoriale e alla stessa legislazione consumeristica, e tanto, nell’esercizio di un potere che esula dalle attribuzioni dell’Antitrust”.

La Sesta Sezione assegnataria, con la presente ordinanza, afferma che “la decisione sulla questione dell’individuazione dell’Autorità competente ad esercitare i poteri sanzionatori in ordine alla pratica commerciale scorretta di cui è causa non può che passare attraverso la risoluzione delle questioni di compatibilità con l’ordinamento euro-unitario della disciplina dei rapporti tra disciplina ‘consumeristica’ generale e disciplina ‘consumeristica’ settoriale di cui all’art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo”.

Ricorda, tuttavia, il Collegio che sulla specifica questione si è già pronunciata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 9 febbraio 2016, n. 4, la quale ha in primo luogo evidenziato che il comma 1 bis dell’art. 27 del Codice del consumo approvato con d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, inserito dall’art. 1, comma 6, lett. a), d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 - che attribuisce all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta anche in settori di competenza dell’Autorità garante delle comunicazioni - ha natura di norma di interpretazione autentica. La stessa Adunanza Plenaria ha, quindi, concluso che la competenza ad irrogare la sanzione per “pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva” è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

Orbene, chiarisce la Sesta Sezione  che “all’ammissibilità del rilievo della questione pregiudiziale ex art. 267 TFUE”… “non osta la circostanza che sull’oggetto del contendere si sia espressa l’Adunanza plenaria con la sentenza n. 4/2016”, infatti, continua il Collegio, nonostante le eccezioni sollevabili sul punto,  “la Corte di giustizia UE – facendo ricorso alla sua nota impostazione secondo cui, pur in mancanza di una (anche soltanto implicita) competenza comunitaria in materia processuale, l’effettività del diritto comunitario comporta che l’autonomia procedurale lasciata agli stati membri incontri i limiti della parità di trattamento tra situazioni interne e situazioni comunitarie (principio di equivalenza) e della garanzia della loro effettiva tutela (principio di effettività), essendo altrimenti il giudice obbligato ad interpretare le regole processuali in modo conforme ad assicurare l’effettiva applicazione del diritto UE  – ha ripetutamente affermato il principio secondo cui può essere messo in discussione anche l’accertamento compiuto nella sentenza del giudice nazionale passata in giudicato, perché in contrasto con il diritto dell’Unione, su cui non sia stato effettuato un rinvio pregiudiziale, al fine di consentire l’effettiva e corretta applicazione della normativa euro-unitaria (v., ex plurimis, Corte giust. UE, 3 settembre 2009, in causa C- 2/08, Olimpiclub; id., 14 dicembre 1995, in causa C-312/93, Peterbroeck; id., 16 dicembre 1976, in causa C-33/76, Rewe)”.

Tutto quanto premesso, “reputa dunque il collegio che, ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE, debbano essere rimesse alla Corte di giustizia UE i seguenti quesiti pregiudiziali (in parte riformulati d’ufficio da questo collegio) di compatibilità con l’ordinamento euro-unitario del citato art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo, anche alla luce dell’interpretazione al riguardo fornita dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 4/2016:”

«1) se la ratio della direttiva ‘generale’ n. 2005/29/CE quale ‘rete di sicurezza’ per la tutela dei consumatori, nonché il considerando 10 e l’articolo 3, comma 4, della medesima direttiva n. 2005/29/CE, ostino ad una disciplina nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici, previsti della direttiva settoriale n. 2002/22/CE a tutela dell’utenza, nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’Autorità competente a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta/sleale;

2) se il principio di specialità sancito dall’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE debba essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), oppure dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali), oppure, ancora, dei rapporti tra Autorità preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori;

3) se la nozione di «contrasto» di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE possa ritenersi integrata solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano specifici aspetti settoriali delle pratiche commerciali, oppure se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette in relazione alle specificità del settore, tale da determinare un concorso di norme (Normenkollision) in relazione ad una stessa fattispecie concreta;

4) Se la nozione di norme comunitarie di cui all’articolo 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29/CE abbia riguardo alle sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché alle norme di diretta trasposizione delle stesse, ovvero se includa anche le disposizioni legislative e regolamentari attuative di principi di diritto europeo;

5) Se il principio di specialità, sancito al considerando 10 e all’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE, e gli articoli 20 e 21 della direttiva 2002/22/CE e 3 e 4 della direttiva 2002/21/CE ostino ad una interpretazione delle corrispondenti norme di trasposizione nazionale per cui si ritenga che, ogniqualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina ‘consumeristica’ settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all’Autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di ‘pratica aggressiva’, ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o ‘in ogni caso aggressiva’ ai sensi dell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei consumatori e fondata su previsioni di diritto dell’Unione, che regoli in modo compiuto le medesime ‘pratiche aggressive’ e ‘in ogni caso aggressive’ o, comunque, le medesime ‘pratiche scorrette’». FM 


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Inserito in data 18/01/2017
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 16 gennaio 2017, n. 108

Sulla natura dell’organismo di diritto pubblico 

Nella pronuncia in epigrafe, opinando in senso contrario rispetto ai Giudici di primo grado, il Supremo Consesso ritiene che sussistano i presupposti per la qualificazione di << organismo di diritto pubblico >> per l’appellante.

Passando dapprima in rassegna gli indirizzi giurisprudenziali che hanno caratterizzato l’iter evolutivo dell’organismo di diritto pubblico (da ora “O.D.P.”)  nella giurisprudenza eurounitaria, la Quinta Sezione ne estrapola i requisiti da applicare al caso in esame.

Asserendo che “non sussistono dubbi sulla titolarità della personalità giuridica e in ordine al fatto che la relativa attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”, il Collegio s’interroga sulla sussistenza del cd. << requisito teleologico >>.

Il Consesso Amministrativo ricorda che sulla circostanza che l’Organismo della cui natura si discute, operi in un mercato aperto alla concorrenza rappresenti di per sé solo un circostanza idonea ad escludere il richiamato requisito teleologico, la giurisprudenza eurounitaria ha visto un’evoluzione suddivisibile essenzialmente in tre fasi: una prima <<pancomunitaria>>, volta alla massima espansione applicativa della categoria (in particolare si ricorda la sentenza BFI Holding);  una seconda fase (contrassegnata dalla sentenza Ente Fiera di Milano) in cui la Corte di Giustizia sembrò segnare una sorta di inversione di tendenza nell’espansione applicativa dell’istituto dell’o.d.p., nella specie si negò che la circostanza che l’ente operasse in un mercato concorrenziale rappresentasse un indizio sostanzialmente determinante al fine di escludere il carattere non industriale o commerciale dei bisogni perseguiti e, in via mediata, la sua configurabilità quale o.d.p.; nella terza e più recente fase, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’esistenza di un mercato in concorrenza rappresenti solo un indice, dovendo tale circostanza essere integrata da ulteriori elementi.

 In definitiva, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che, se in linea generale i bisogni non aventi carattere industriale o commerciale si caratterizzano di norma per il fatto di non trovare una adeguata “risposta” nell’offerta degli operatori sul mercato, è nondimeno possibile che in alcuni casi detti bisogni possano presentare una qualche rilevanza economica, sì da indurre anche operatori economici privati a collocarsi nel settore e senza che ciò incida sulla possibilità di qualificare l’organismo della cui natura si controverte come o.d.p.

Si è in tal modo ammessa la non incompatibilità tra lo svolgimento di attività di impresa e l’operatività in settori contrassegnati a un’economia di mercato, da un lato e la qualificabilità dell’ente come organismo di diritto pubblico dall’altro (in tal senso: CGUE, sentenza 9 giugno 2009 in causa C-480/06, Commissione c. Germania).

Ne consegue la non condivisibilità della tesi richiamata, secondo cui per poter riconoscere a un Organismo la qualificazione di o.d.p. sarebbe sempre e comunque necessario verificare in negativo che lo stesso operi in settori non concorrenziali, ovvero che lo esso operi in regime di sostanziale privativa.

Ad avviso del Collegio, riconducendo i principi appena richiamati alle peculiarità del caso in esame deve ritenersi: che la circostanza per cui il settore del soccorso stradale sia aperto alla concorrenza non depone ex se nel senso della non qualificabilità dell’Organismo come o.d.p. e che, al contrario, prevalenti indici fattuali e sistematici depongono nell’opposto senso di qualificare la società in parola come o.d.p.

Occorre, quindi, svolgere un’indagine in ordine alla sussistenza nel caso in esame di specifiche “esigenze di interesse generale”, il cui “carattere non industriale o commerciale” non può coincidere tout-court con l’impossibilità di ottenerne il soddisfacimento attraverso il ricorso al mercato.

In conclusione, il Collegio ritiene che i prevalenti elementi sistematici e fattuali del caso in esame depongano nel senso della qualificabilità dell’Organismo quale organismo di diritto pubblico ai sensi del pertinente paradigma eurounitario e nazionale, con quanto ne consegue in termini di assoggettamento alle regole dell’evidenza pubblica e di radicamento della giurisdizione del Giudice amministrativo. DU

 



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Inserito in data 17/01/2017
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 11 gennaio 2017, n. 47

Spaccio di sostanze stupefacenti e revoca delle misure di accoglienza

Il Collegio torinese respinge i motivi di ricorso addotti dal ricorrente, cittadino gambiano, ospite di un centro di accoglienza dei migranti richiedenti asilo.

Questi, arrestato in flagranza del reato di spaccio sostanze stupefacenti – ex art. 73, quinto comma, D.P.R. n. 309/90, subiva da parte della competente Autorità prefettizia la revoca della misura di accoglienza appena descritta, poiché incorso nella fattispecie di cui all’art. 23 D.Lgs. n. 142/2015.

Ad avviso del ricorrente, la disposta revoca parrebbe illegittima in forza dell’avvenuta violazione dell’art. 7 L. 241/90 ed in considerazione, altresì, del fatto che la propria condotta non parrebbe presentare estremi tali da giustificare una misura punitiva tanto forte.

I Giudici respingono le valutazioni esposte in ricorso, con riguardo ad entrambi i motivi di gravame.

In relazione al primo, infatti, essi ricordano che la celerità necessaria per far fronte ad una condotta tanto grave – quale quella tenuta dal ricorrente, è strutturalmente incompatibile con il previo avviso di avvio del procedimento amministrativo – ex articolo 7 L. 241/90.

A parere dei Giudici, infatti, è evidente che, seppur l’atto impugnato non indichi le esigenze di celerità che giustificano l’omissione dell’avviso di cui all’art. 7 della L. n. 241/90, l’urgenza di provvedere risulta insita nel comportamento riottoso alle regole posto in essere dal ricorrente che, rendendo incompatibile la sua permanenza all’interno della struttura, anche per prevenire il diffondersi di condotte irregolari, non poteva che determinare l’amministrazione nel provvedere, più velocemente possibile, all’adozione dei provvedimenti necessari alla tutela delle esigenze di ordinata gestione del centro di accoglienza e alla rimozione delle cause idonee a comprometterne il controllo.

A conferma di tale assunto, del resto, l’immediatezza dell’impugnata revoca a seguito dell’intervento dei Carabinieri.

Anche in relazione alla seconda censura i Giudici piemontesi intervengono in modo negativo.

A dispetto di quanto sostenuto dal ricorrente, il comportamento posto in essere non poteva che integrare quanto previsto dall’art. 23 del D.Lgs. 142/2015 nella parte in cui attribuisce al Prefetto il potere di disporre la revoca delle misure d'accoglienza nelle ipotesi di “violazione grave o ripetuta delle regole del centro di accoglienza da parte del richiedente asilo, ivi ospitato, ovvero comportamenti gravemente violenti”.

Tanto ricorre nel caso di specie, ove la condotta certamente illecita del ricorrente non può che contrastare con l’esigenza di una convivenza civile e ordinata in seno ad una struttura simile.

Afferma il Collegio che vale precisare che l’attitudine delinquenziale dimostrata dall’arresto e dalla successiva condanna per reati in materia di stupefacenti preclude la necessaria integrazione nel tessuto sociale e testimonia in effetti la mancata adesione del ricorrente a regole minime di convivenza civile.

Non si può, pertanto, non comprendere la reiezione dei motivi di ricorso e, per l’effetto, la conferma della disposta revoca – come decisi dal Tar torinese. CC

 



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Inserito in data 16/01/2017
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 10 gennaio 2017, n. 13

Gli aventi causa del privato lottizzatore non sono parti delle convenzioni di lottizzazione

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio sardo precisa che “le controversie in materia di esecuzione delle convenzioni di lottizzazione rientrano nella giurisdizione esclusiva (ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera a), n. 2, del codice del processo amministrativo), in quanto - secondo la consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite civili della Cassazione - esse sono riconducibili agli accordi integrativi o sostitutivi di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990 (di recente, si veda Cass. Sez. Un. Civ., 31 ottobre 2014, n. 23256)”; con la conseguenza che solo le parti possono far valere le pretese derivanti dal regolamento contrattuale.

Come ha chiarito da tempo la giurisprudenza della Cassazione, infatti, «l'adempimento dell'obbligazione di realizzare le opere di urbanizzazione (primaria e secondaria), assunta dal privato lottizzatore nei confronti del comune con la convenzione di lottizzazione (ai sensi della legge n. 765 del 1967) può essere preteso in via giurisdizionale e coattiva dal comune, non invece dagli aventi causa dal lottizzatore resisi acquirenti di singoli lotti di terreno edificati, stante la loro estraneità alla convenzione» (così Cass. civ., sez. I, 11 febbraio 1994, n. 1384).

D’altra parte, la costante giurisprudenza della Cassazione, condivisa in diverse occasioni da questa Sezione, “limita la cerchia degli obbligati esclusivamente a coloro che abbiano chiesto e ottenuto le concessioni edilizie, e non a coloro che abbiano in seguito acquistato le abitazioni; i quali utilizzano le opere di urbanizzazione ma non sono tenuti a pagare gli oneri relativi, che gravano solo sui titolari del permesso di costruire (di recente si veda Cass., III sez. civ., 20 agosto 2015, n. 16999, che ha deciso su una tipica fattispecie in cui la società ricorrente «premesso di aver acquistato […]dei terreni, rispetto ai quali la società venditrice aveva stipulato con il Comune […] una convenzione urbanistica per la lottizzazione delle aree, nella quale la [società venditrice] e i suoi aventi causa si obbligavano all'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria, e precisato di aver realizzato tali opere, [conveniva] in giudizio i successivi proprietari dei lotti interessati dalla lottizzazione per ottenerne il rimborso pro quota», sostenendo «che i convenuti, successivi proprietari dei lotti facenti parte della lottizzazione, sarebbero obbligati in solido, quali aventi causa del lottizzatore, con conseguente fondamento dell'azione di regresso pro quota - per le opere di urbanizzazione pacificamente da lui realizzate - esercita dalla società attrice, a sua volta avente causa dalla società che aveva stipulato la convenzione. Argomenta sia con riferimento alla natura di obbligazione propter rem in capo ai successivi acquirenti convenuti in giudizio, sia in riferimento alle previsioni contrattuali stabilite nella convenzione»; la Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha osservato come «l'obbligazione di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione assunta da colui che stipula una convenzione edilizia è propter rem, nel senso che essa va adempiuta non solo da colui che tale convenzione ha stipulato, ma anche da colui, se soggetto diverso, che richiede la concessione edilizia; ovvero nel senso che colui che realizza opere di trasformazione edilizia ed urbanistica, valendosi della concessione edilizia rilasciata al suo dante causa, ha nei confronti del Comune gli stessi obblighi che gravano sull'originario concessionario, ed è con quest'ultimo solidalmente obbligato per il pagamento degli oneri di urbanizzazione. La natura reale dell'obbligazione in esame riguarda, dunque, i soggetti che stipulano la convenzione, quelli che richiedono la concessione, e quelli che realizzano l'edificazione avvalendosi della concessione rilasciata al loro dante causa (Cass. n. 10947 del 1994; n. 6382 dei 1988; n. 5541 del 1996, Cass. n. 12571 del 2002). Ancora più esplicita nell'individuazione dei soggetti obbligati propter rem è una successiva decisione (Cass. n. 11196 del 2007), dove si afferma che la qualificazione di obbligazione propter rem è quella che assume rilievo nel rapporto tra Comune e soggetto proprietario dell'area fabbricabile, cui viene rilasciato il provvedimento permissivo della costruzione. Così, sono esclusi dall'area degli obbligati a tale titolo, i soggetti che utilizzano per una loro diversa edificazione le opere di urbanizzazione realizzate da altri, senza avere con questi alcun rapporto, e che, per ottenere la loro diversa concessione edilizia, devono pagare al Comune concedente, per loro conto, i relativi oneri di urbanizzazione (la specie all'attenzione di Cass. n. 12571 del 2002). Sono anche esclusi i soggetti successivi acquirenti da chi ha realizzato la costruzione sulla base della concessione, con la conseguenza che qualora quest'ultimo abbia anche realizzato le opere di urbanizzazione può rivalersi con i successivi acquirenti della spesa sostenuta solo in virtù di espressa pattuizione negoziale, nella quale non viene più in rilievo il carattere "reale" dell'obbligazione»).

Alla luce di quanto suddetto, gli acquirenti di immobili ubicati all’interno di piani di lottizzazione rimasti inattuati non sono legittimati a chiedere l’emanazione della sentenza ai sensi dell’art. 2932 del codice civile che tenga luogo dei contratti non conclusi.

Inoltre, i Giudici, nel confermare l’orientamento della stessa Sezione, ricordano che “la posizione del Comune nei confronti dei terzi si traduce nel dovere di provvedere all’esercizio dei diritti e poteri derivanti dalla convenzione urbanistica finalizzati all’adempimento degli obblighi contrattuali, anche in via coattiva, ovvero all’esercizio delle garanzie fideiussorie previste e delle pretese risarcitorie per gli inadempimenti accertati; posizione, in cui il dato centrale è rappresentato dalla qualificazione in senso pubblicistico, il che consente anche di identificare la situazione giuridica dei ricorrenti in una correlativa posizione di interesse legittimo”.

Peraltro, “lo strumento di tutela previsto dall’ordinamento processuale amministrativo per l’accertamento dell’obbligo di provvedere, e per l’eventuale condanna dell’amministrazione ad adottare il provvedimento o l’atto idoneo a soddisfare le pretese dei terzi titolari di situazioni di interesse legittimo, è costituito dall’azione avverso il silenzio, prevista e disciplinata dagli articoli 31 e 117 del codice del processo amministrativo”. Azione, la cui proposizione è condizionata, dal comma 2 dell’art. 31, cit., al rispetto del termine decadenziale di «un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento». EP

 



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Inserito in data 14/01/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 13 gennaio 2017, n. 8

Gare d’appalto: necessità del possesso iniziale e continuato dei requisiti utili per parteciparvi

Nella decisione emarginata in epigrafe, il Giudice amministrativo trentino respinge il ricorso proposto dalla ricorrente ritenendolo infondato nel merito e chiarisce che in materia di procedure ad evidenza pubblica “il possesso dei requisiti di partecipazione alla gara si impone a partire dall’atto di presentazione della domanda di partecipazione e in ogni successiva fase della procedura nonché per tutta la durata dell’appalto senza soluzione di continuità e ciò per assicurare alla stazione appaltante di contrarre con un soggetto affidabile in quanto provvisto di tutti i requisiti necessari”.

    Per maggior chiarezza, è opportuno premettere che al fine di partecipare alla gara, la ricorrente utilizzava i requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa del ramo d’azienda in affitto da altra società  (il contratto de quo era stato precedentemente stipulato con una società in concordato preventivo, poi dichiarata fallita). Si precisa, altresì, che il ramo di azienda in affitto veniva, successivamente, acquisito in proprietà dalla ricorrente.

    Si noti, inoltre, che la data della acquisizione in proprietà del ramo di azienda è successiva alla data di scadenza per la presentazione dell’offerta.

    Ora, tra i motivi di gravame avverso gli atti di esclusione, la ricorrente sostiene la illegittimità della esclusione dalla gara giacché, essendo il ramo di azienda stato acquisito (successivamente) in proprietà dalla ricorrente medesima, ciò avrebbe consolidato (in capo alla stessa) il possesso di tutti i requisiti richiesti ai fini della ammissione alla procedura. Si noti, altresì, che la ricorrente utilizzava i requisiti di capacità economica-finanziaria e tecnica-organizzativa del ramo d’azienda in affitto.

    Detti motivi vengono ritenuti infondati. Infatti, il Collegio afferma fondata la non ammissione alla procedura per il mancato possesso dei requisiti di capacità tecnico – organizzativa richiesti dal bando di gara.

    Orbene, “l’esigenza di consentire alla stazione appaltante di aver sempre certezza dell’identità dei propri contraenti e dei soggetti chiamati ad eseguire il contratto posto in gara è un principio immanente nell’ordinamento”e corollario di tale principio è l’ulteriore generale principio della continuità del possesso dei requisiti di partecipazione affermato da costante giurisprudenza e, da ultimo, ribadito nella pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2015” dove è stato autorevolmente affermato che nelle gare di appalto per l'aggiudicazione di contratti pubblici, i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all'aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell'esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità. PC

 



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Inserito in data 13/01/2017
TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 9 gennaio 2017, n. 39

Questione di legittimità costituzionale della legge sul canone dovuto per l’estrazione mineraria in Sicilia

Con l’ordinanza in esame il Tar Sicilia dichiara rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3, 53 e 117  Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, l. reg. Sicilia 7 maggio 2015, n. 9, nella parte in cui modifica i commi 1 e 8 dell’art. 12, l. reg. Sicilia 15 maggio 2013, n. 9, prevedendo, anche con riferimento al precedente anno 2014 (e, quindi, retroattivamente), che il canone dovuto per l’attività di estrazione dei giacimenti minerari di cava non vada più commisurato alla quantità di minerale estratto, ma alla superficie dell’area coltivabile e ai volumi autorizzati.

Precisamente, oggetto della controversia è un decreto dell’Assessore regionale dell’energia e dei servizi di pubblica utilità con cui sono state definite le modalità applicative del canone di produzione annuo dovuto dai titolari di concessioni per lo sfruttamento di giacimenti minerari di cave. Tale decreto è stato adottato in esecuzione dell’art. 83 della legge regionale siciliana n. 9 del 2015, che ha modificato l’art. 12 della legge regionale siciliana n. 9 del 15 maggio 2013, prevedendo che il canone non vada più commisurato alla quantità di minerale estratto, ma alla superficie dell’area coltivabile e ai volumi autorizzati anche con riferimento al precedente anno 2014.

Così inquadrata in termini generali la controversia, va rilevato che, il Collegio ha preliminarmente chiarito - in merito al richiamato art. 53 Cost , cioè al principio della capacità contributiva - che il canone in questione ha natura di tributo, essendo irrilevante il nomen iuris usato dal legislatore ed “occorrendo riscontrare in concreto e caso per caso se si sia o no in presenza di un tributo” (Corte cost. nn. 141 del 2009, 334 del 2006 e 73 del 2005).

Il Tar, richiamando i principi espressi dalla Corte Costituzionale (su cui si fondano gli  indici significativi della natura tributaria di una prestazione imposta), ha evidenziato che, nel caso di specie, l’obbligo del pagamento trova la sua fonte esclusiva nella legge regionale e non costituisce remunerazione dell'uso di beni pubblici; inoltre, la prestazione imposta è finalizzata a dotare i Comuni e la Regione dei mezzi finanziari necessari ad assolvere le funzioni di cura concreta degli interessi generali; infine, mentre la Regione può utilizzare liberamente la propria parte, i Comuni devono destinare le somme al finanziamento di interventi infrastrutturali di recupero, riqualificazione e valorizzazione del territorio, del tessuto urbano e degli edifici scolastici e ad uso istituzionale, nonché alla manutenzione e valorizzazione ambientale ed infrastrutturale connessi all'attività estrattiva o su beni immobili confiscati alla mafia ed alle organizzazioni criminali. Questo carattere funzionale, congiunto al fatto che il prelievo si collega all'attività economica di gestione dei giacimenti, consente di ritenere il canone in questione uno strumento di riparto, ai sensi dell'art. 53 Cost., del carico della spesa pubblica in ragione della capacità economica manifestata dai soggetti gestori (Corte cost. n. 280 del 2011); in altri termini - conclude il Tar - si può affermare che la prestazione in esame è un tributo.

Passando all’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 83, l. reg. Sicilia 7 maggio 2015, n. 9, il giudice a quo ritiene fondata e rilevante l’eccezione che pone la predetta disposizione regionale in contrasto con l’art. 3 Cost., nonché con l’art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, per violazione dei principi d’uguaglianza e di legittimo affidamento.

La nuova disposizione regionale, afferma il Tar, determina, in primo luogo, immotivate discriminazioni all’interno della medesima categoria dei titolari di giacimenti minerari tra quelli che gestiscono cave di piccola dimensione, ma ad elevata resa (es. marmi) e quelli concessionari di cave di grande estensione, ma a bassa resa (inerti). In sostanza, alla medesima ampiezza corrisponde una remuneratività profondamente diversa con conseguente irragionevolezza del riferimento alla superficie dell’area coltivabile ed ai volumi autorizzati della cava ai fini della quantificazione del canone. I titolari di giacimenti di materiali “poveri” sono, quindi, tenuti al pagamento di un canone notevolmente più elevato rispetto a quello dovuto per quelli di minerali pregiati con conseguente irragionevole disparità di trattamento. Sembrerebbe, pertanto, conclude il Tar, che a situazioni differenti si applichi il medesimo trattamento in maniera irragionevole.

Proseguendo nell’esame dei profili di illegittimità costituzionale, la Terza Sezione afferma che la norma in questione, avendo effetto retroattivo, produce la lesione di un “bene” che i concessionari di giacimenti minerari hanno acquisito sulla base di un legittimo affidamento ingenerato dalle previsioni contenute nella previgente formulazione. Sul punto lo stesso Giudice Amministrativo richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale secondo cui una mutazione ex lege dei rapporti di durata è illegittima quando incide sugli stessi in modo “improvviso e imprevedibile”. Orbene, l’esame dell’art. 83, l. reg. n. 9 del 2015 e della sua ratio, conclude il Tar,  porta a dubitare che il legislatore abbia operato una scelta ragionevole e non arbitraria alla stregua dei principi evocati; infatti, può ritenersi  leso l’affidamento che i concessionari delle cave hanno riposto nella quantificazione del canone calcolata con i criteri fissati dalla normativa precedente, poiché è sulla base di tali criteri (e non di quelli successivi e meno favorevoli) che essi hanno determinato le loro strategie imprenditoriali. FM

 



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Inserito in data 12/01/2017
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 20 luglio 2016, n. 193

Considerazioni in ordine alla estensione della retroattività della lex mitior alle sanzioni amministrative

La Consulta viene chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 , nella parte in cui- nel descrivere il principio di legalità riferito alle sanzioni amministrative- non prevede la retroattività del trattamento sanzionatorio più favorevole.

La questione viene sollevata con riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo per violazione dei parametri interposti rappresentati dagli artt. 6 e 7 della CEDU.

La Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale rispetto ad entrambe le censure.

Con riferimento alla denunciata violazione del parametro sovranazionale, la Consulta-  rivendicando la valutazione in ordine all’ incidenza sull’ordinamento costituzionale italiano della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente- sancisce che “ nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite, la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì, singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare, quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche punitive alla luce dell’ordinamento convenzionale”.

Pertanto, “l’intervento additivo” invocato dal remittente, “volto ad estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo”, “risulta travalicare l’obbligo convenzionale”, “finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione […] come convenzionalmente penale, alla luce dei cosiddetti criteri Engel (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento)”.

Non è dato rinvenire, dunque, “nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative”.

Con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., la Consulta osserva che “il limitato riconoscimento della retroattività in mitius” solo ad alcune sanzioni amministrative risponde “a scelte di politica legislativa” e costituisce “espressione della discrezionalità del legislatore”, risultando, pertanto, sindacabile solo laddove trasmodi nella “manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione”.

Infine, la Corte osserva che “l’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale sancirebbe il principio della retroattività della lex mitior per le sanzioni amministrative in maniera persino più ampia di quanto stabilito dall’art. 2 cod. pen., il quale fa salvo il limite del giudicato ed esclude dal proprio ambito di operatività le leggi eccezionali e temporanee”. GB

 



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Inserito in data 11/01/2017
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I - 9 gennaio 2017, n. 7

L’azione negatoria è devoluta alla giurisdizione del Giudice ordinario

A seguito di una delibera di estensione dell’ambito territoriale di un Consorzio, insorgeva il ricorrente, proprietario di un terreno incluso contro lo stesso, lamentando la lesione del diritto di proprietà.

Non può esservi dubbio che l’azione proposta, pur se formalmente diretta all’annullamento della delibera del consorzio, sia una vera e propria azione negatoria, sostanzialmente volta all'accertamento dell'inesistenza di diritti vantati da terzi, in forza del diritto di proprietà rivendicato (Cass. civ., sez. II, 31 dicembre 2014, n. 27564).

Osserva il Collegio che il giudice ammnistrativo non è competente ad accertare in via principale il carattere vicinale, pubblico o privato, della strada in questione o della servitù pubblica di passaggio, poiché in siffatte ipotesi si tratta di un accertamento vertente  sulla sussistenza e sull'estensione di diritti soggettivi, che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, siano essi in capo a privati o al Comune stesso (Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015 n. 1515, T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. II, 9 novembre 2015 n. 2888; T.A.R. Reggio Calabria, 8 aprile 2015 n. 348).

Il Supremo Consesso ha precisato in proposito che quando la strada vicinale è iscritta negli elenchi, in sede amministrativa si deve ritenere sussistente il diritto della collettività ai sensi dell’art. 20, comma 1 della legge 20 marzo 1865 n. 2248 all. F).

Si tratta del caso in cui il Sindaco ben può emanare il provvedimento di autotutela possessoria, sicché colui che contesta l'esistenza del diritto della collettività può agire dinanzi al giudice ordinario, eventualmente esperendo l'actio negatoria servitutis, in base a quanto disposto dalla norma citata (T.A.R. Toscana, sez. I, 7 maggio 2015 n. 729 T.A.R. Lombardia, Brescia, 7 settembre 1999, n. 769).

Ciò vale anche nell’ipotesi in cui il provvedimento non promani da una pubblica amministrazione, ma da un soggetto privato, ossia - come nella fattispecie - da un consorzio.

Ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione (ex plurimis, Cass. civ. Sez. un., ord. 27 gennaio 2010, n. 1624; id., sez. un., 17 marzo 2010 n. 6406; T.A.R. Toscana, sez. I, 8 settembre 2014, n. 970; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 8 aprile 2015, n. 348; T.A.R. Sardegna, sez. II, 17 marzo 2010 n. 312).

Invero, quella posta in essere dalla ricorrente costituisce una vera e propria "actio negatoria servitutis" (art. 949 cod. civ.) nell’esercizio di un diritto soggettivo perfetto rispetto al quale non sussistono margini per l’esercizio di un potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione.

Il Tar rammenta inoltre il tradizionale e non superato principio per cui, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non tanto la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, cioè dell'intrinseca natura della controversia dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico del quale essi sono manifestazione (Cons. Stato Sez. V, 27 aprile 2015, n. 2059; Cass. civ., Sez. un., ord., 22 settembre 2014, n. 19893).

Ne discende l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, fatti salvi gli effetti della translatio iudicii di cui all’art. 11, co. 2, cod. proc. amm.. DU

 

 



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Inserito in data 10/01/2017
TAR LAZIO - ROMA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 3 gennaio 2017, n. 58

Sulla tutela del conseguimento del minimo pensionistico

Con l’Ordinanza emarginata in epigrafe,  il T.A.R. Lazio accoglie i motivi di impugnazione esposti dal ricorrente avverso  gli atti della procedura di collocamento a riposo anticipato, posti in essere dal Ministero della Giustizia e dal Consiglio Superiore della Magistratura, in applicazione del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/20114; doglianze volte all’annullamento degli stessi oltre al risarcimento del danno derivante dai provvedimenti adottati dalle Amministrazioni predette.

    Più in particolare il ricorrente manifestava al CSM la sua volontà di rimanere in servizio fino al raggiungimento del 75° anno di età o, quanto meno, fino al tempo sufficiente per il conseguimento del suo diritto a pensione. Ciò nonostante, il suddetto Ministero ne aveva disposto  il collocamento a riposo in applicazione della normativa su menzionata.

    A maggior chiarezza, si precisa che il diritto al trattenimento in servizio fino al 75° anno di età era già stato dal CSM riconosciuto al ricorrente sulla base di una legge dello Stato.

    Sotto tale profilo,  il ricorrente sostiene la illegittimità del provvedimento di collocamento a riposo anticipato emesso nei suoi confronti,  non solo per violazione del diritto al raggiungimento del minimo pensionistico (tutelato dall’art. 38 Costituzione e dall’art. 4), ma anche per la violazione della tutela del suo legittimo affidamento in ordine alla legittima aspettativa a restare in servizio fino alla data utile per il raggiungimento delle condizioni per conseguire il diritto al minimo della pensione.

    Inoltre, il ricorrente chiede al Giudice amministrativo del Lazio di sollevare innanzi alla Consulta, questione di legittimità costituzionale delle disposizioni contenute nei primi cinque commi dell’art. 1 del d.l. 90 del 2014 (convertito dalla L. 114 del 2014), nella parte in cui escludono i magistrati dal novero delle persone alle quali lo Stato garantisce la possibilità di maturare il diritto a pensione, per contrasto con gli articoli 2, 3, 4, 38, 81 e 97 della Costituzione.

    Fatte tali premesse, il T.A.R. Lazio ricorda, preliminarmente, il fondamentale canone ermeneutico secondo il quale “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime” [o “una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima”] perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (sentenza n. 356/1996 e pronunce successive). Detto altrimenti, viene evidenziato il potere-dovere dei giudici di compiere uno sforzo al fine di interpretare una legge secundum constitutionem.

    Ebbene, afferma il Collegio che la disposizione oggetto della questione di illegittimità (comma 5 dell’art. 1 del decreto legge n. 90/2014,convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014), nel sostituire l’art. 72 del decreto legge n. 112/2008, ha ancorato la possibilità per le Amministrazioni pubbliche di recedere anticipatamente dal rapporto di pubblico impiego, all’avvenuta maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento dei pubblici dipendenti. La modificazione dell’art. 72, prosegue la ordinanza in esame, nell’escludere dalla applicazione del predetto principio il personale della magistratura, determina “un rilevante vulnus al diritto dei  magistrati a maturare i requisiti minimi per la pensione”.

    Pertanto, il collocamento a riposo  anticipato che qui interessa (in virtù dell’art. 1 d.l. 90 del 2014) “preclude al ricorrente di raggiungere il periodo minimo indispensabile per maturare il proprio diritto al pensionamento e pertanto ne viola in maniera irreparabile il diritto a maturare i requisiti minimi per la pensione di vecchiaia, che trova una tutela primaria, rispettivamente, nell’art. 4 e nell’art. 38, comma 2, della Costituzione”.

    Dunque, la applicazione della normativa transitoria di cui all’art. 1 del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014 “conduce a risultati analoghi a quelli di consimili disposizioni di legge, già dichiarate incostituzionali dalla Suprema Corte, nella parte in cui le stesse non consentivano “al personale ivi contemplato, che al raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo, non avesse compiuto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione, di rimanere, su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima” (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013).

    Nella pronuncia in esame viene altresì ricordato, con riferimento al personale scolastico, la sentenza della Consulta n. 444 del 1990  che ha affermato la  illegittimità  costituzionale del comma 3, della l. 30 luglio 1973 n. 477 (delega al governo per l'emanazione di norme sullo stato giuridico del personale direttivo, ispettivo, docente e non docente della scuola elementare, secondaria e artistica dello Stato) nella parte in cui “non consente al personale assunto dopo il 1° ottobre 1974, che al compimento del 65esimo anno di età non abbia raggiunto il numero di anni richiesto per ottenere il minimo della pensione, di rimanere in servizio, su richiesta, fino al conseguimento di tale anzianità minima e comunque non oltre il 70esimo anno di età.

    Pertanto, avuto riguardo al consolidato orientamento espresso dalla Corte Costituzionale in tema di tutela del conseguimento del minimo pensionistico, “la lamentata esclusione del personale della magistratura dal campo di applicazione della disciplina recata dall’art. 72 del decreto legge n. 112/2008 – come modificato dall’art. 1, comma 5, del decreto legge n. 90/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 114/2014 – pone seri dubbi di compatibilità della disposizione con gli artt. 2, 4 e 38 della Costituzione”.

    In conclusione, per una piena attuazione del diritto garantito dall’art. 38, comma 2, Costituzione, “l’interesse del lavoratore ad essere trattenuto in servizio per il tempo necessario al conseguimento della pensione normale è meritevole di considerazione, tanto più che la presunzione secondo cui al compimento dei 65 anni di età si pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con la prosecuzione del rapporto è destinata ad essere vieppiù inficiata dai riflessi positivi del generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro capacità di lavoro” (Corte Costituzionale, sentenza n. 444 del 1990)”.

    Il Collegio ritiene di fondamentale rilievo il richiamo al costante orientamento della Suprema Corte, secondo il quale “il problema della tutela del conseguimento del minimo pensionistico  è strettamente connesso a quello dei limiti di età; la previsione di questi ultimi è rimessa al legislatore nella sua più ampia discrezionalità (sentenza n. 195 del 2000) e quest’ultima può incontrare vincoli – sotto il profilo costituzionale – solo in relazione all’obiettivo di conseguire il minimo della pensione, attraverso lo strumento della deroga ai limiti di età ordinari previsti per ciascuna categoria di dipendente pubblico (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013)”.

A parere dello scrivente, degno di nota è l’analisi ripercorsa nella ordinanza in esame circa il concetto di limite fisiologico allo svolgimento dell’attività lavorativa. Analisi che in questa sede è possibile ricordare molto succintamente.

Ed infatti, il predetto limite fisiologico veniva dalla giurisprudenza costituzionale individuato a sessantacinque anni (sentenza 461 del 19989).

    Successivamente, con la sentenza n. 444 del 1990 l’assunto secondo cui al compimento dei sessantacinque anni si pervenga ad una diminuita disponibilità di energia incompatibile con la prosecuzione del rapporto  “è destinato ad essere inficiato dai riflessi positivi del generale miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori sulla loro capacità di lavoro” (Corte Costituzionale, sentenza n. 33 del 2013). PC 

 



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Inserito in data 09/01/2017
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 3 gennaio 2017, n. 2

Sulla valutazione di offerte non conformi alle specifiche tecniche

“La richiesta della stazione appaltante di ottenere dall’aggiudicataria la dimostrazione […] del rispetto delle specifiche tecniche richieste in gara corrisponde all’esercizio del necessario ed ineludibile potere-dovere dell’amministrazione di verificare l’effettiva conformità del prodotto offerto con quanto per esso prescritto”.

L’offerta non conforme alle caratteristiche tecniche richieste comporta l’esclusione dalla gara, “anche in mancanza di apposita espressa comminatoria”.

L’onere di provare “l’effettivo rispetto delle specifiche tecniche, o l’eventuale equivalenza del prodotto offerto rispetto alle stesse ex art. 68, co. 4, d.lgs. n.163/2006” incombe sull’aggiudicataria.

Le valutazioni sull’equivalenza di un prodotto rientrano nella discrezionalità tecnica della stazione appaltante “ a meno di evidenti aporie logiche o fattuali” (cfr. Tar Friuli Venezia Giulia, sez. I, 21.1.2014 n. 16; Tar. Lombardia Brescia, sez. II, 18.4.2013 n. 381; Tar Sardegna, sez. I, 20.2.2012 n. 137). GB 



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Inserito in data 07/01/2017
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA - SEZ. VIII - 21 dicembre 2016, C-355/15

L’impresa definitivamente esclusa è legittimata ad impugnare la gara?

Il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, alla luce della sentenza del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), debba essere interpretato “nel senso che esso osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico da una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva, e che, pertanto, non è un offerente interessato ai sensi dell’articolo 2 bis di detta direttiva, sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”.

Al riguardo si deve ricordare che, secondo le disposizioni dell’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, “affinché i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice possano essere considerati efficaci, devono essere accessibili per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione (v. sentenza del 5 aprile 2016, PFE, C 689/13, EU:C:2016:199, punto 23)”.

Ai punti 26 e 27 di detta sentenza, la Corte ha sottolineato che “la sentenza del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), costituisce una concretizzazione dei requisiti imposti dalle disposizioni dell’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, e dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665, in circostanze nelle quali, a seguito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, due offerenti presentino ricorsi diretti ad ottenere la reciproca esclusione. In una simile situazione, infatti, ciascuno dei due offerenti ha interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto”.

Tuttavia, “la situazione di cui al procedimento principale è chiaramente distinta dalle situazioni discusse nelle due cause che hanno dato origine alle sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), e del 5 aprile 2016, PFE (C 689/13, EU:C:2016:199)”.

Da un lato, infatti, “le offerte dei soggetti interessati nelle cause che hanno dato origine alle citate sentenze non erano state oggetto di una decisione di esclusione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, a differenza dell’offerta presentata dal gruppo nel procedimento principale”.

Dall’altro lato, “in tali due cause ciascuno degli offerenti contestava la regolarità dell’offerta dell’altro nell’ambito di un solo ed unico procedimento di ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto, ciascuno vantando un analogo legittimo interesse all’esclusione dell’altrui offerta e dette contestazioni potendo indurre l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla selezione di un’offerta regolare (v., in tal senso, sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb, C 100/12, EU:C:2013:448, punto 33, e del 5 aprile 2016, PFE, C 689/13, EU:C:2016:199, punto 24). Nel procedimento principale, per contro, il gruppo ha depositato un ricorso, in primo luogo, avverso la decisione di esclusione adottata nei propri confronti e, in secondo luogo, avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto ed è nell’ambito del secondo ricorso che esso invoca l’irregolarità dell’offerta dell’aggiudicataria”.

Ne consegue che “il principio giurisprudenziale espresso nelle sentenze del 4 luglio 2013, Fastweb (C 100/12, EU:C:2013:448), e del 5 aprile 2016, PFE (C 689/13, EU:C:2016:199), non è applicabile alla situazione procedurale e al contenzioso di cui al procedimento principale”.

Peraltro, si deve rilevare che, “come risulta dall’articolo 1, paragrafo 3, e dall’articolo 2 bis della direttiva 89/665, quest’ultima assicura l’esercizio di ricorsi efficaci avverso le decisioni irregolari nell’ambito di procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, consentendo ad ogni partecipante escluso di contestare non solo la decisione di esclusione, ma anche, fintantoché detta contestazione è pendente, le successive decisioni che gli arrecherebbero pregiudizio ove la propria esclusione fosse annullata”.

In tali circostanze, “l’articolo 1, paragrafo 3, di tale direttiva non può essere interpretato nel senso che osta a che a un offerente quale il gruppo sia negata la possibilità di ricorrere avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto, poiché tale offerente deve essere considerato come un offerente definitivamente escluso ai sensi dell’articolo 2 bis, paragrafo 2, secondo comma, di detta direttiva”.

Tutto ciò considerato, si deve rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 dev’essere interpretato nel senso che esso “non osta a che a un offerente escluso da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice divenuta definitiva sia negato l’accesso ad un ricorso avverso la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi e la conclusione del contratto, allorché a presentare offerte siano stati unicamente l’offerente escluso e l’aggiudicatario e detto offerente sostenga che anche l’offerta dell’aggiudicatario avrebbe dovuto essere esclusa”. EF

 



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Inserito in data 05/01/2017
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I - 4 gennaio 2017, n. 15

Atti gestionali e questioni di giurisdizione

La pronuncia in esame è significativa perché esamina con attenzione la fattispecie di cui all’articolo art. 63, comma 1, del D.Lgs. n. 165/2001, che così dispone “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti….”.

Nell’odierna fattispecie, infatti, il Collegio lombardo accoglie il difetto di giurisdizione amministrativa, come sollevato da parte resistente e dispone la rimessione dinanzi all’Autorità giurisdizionale ordinaria – ex art. 11 – II comma – C.p.A.

Il contenzioso, infatti, è stato avviato per effetto dell’impugnativa di un atto emesso dal Responsabile della Struttura di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza dell’Amministrazione resistente, con cui era stata richiesta la messa a disposizione di fascicoli e atti.

Come tale, questo non ha natura autoritativa perché non è atto di macro – organizzazione e, quindi, non è espressione di un potere provvedimentale ma, meramente gestionale. Pertanto, la relativa questione va rimessa alla giurisdizione ordinaria – stando anche alla lettera del sopra citato articolo 63 T.U. P.I.

Ai Giudici bresciani, dunque, non resta che sancire l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione e disporre la traslatio iudiciiex art. 11 – II comma – C.p.A. CC 

 



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Inserito in data 04/01/2017
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 dicembre 2016, n. 5547

Atti di destinazione urbanistica e tutela dell’affidamento del privato

Oggetto della sentenza in esame è la legittimità degli atti di formazione e approvazione di un piano regolatore generale, nella parte in cui viene impressa ad uno specifico suolo una determinata destinazione urbanistica, comportante un regime urbanistico ritenuto meno favorevole dal proprietario dello stesso terreno.

Più in dettaglio, il suddetto proprietario (una società di costruzioni), avendo visto integralmente respinto il proprio ricorso in primo grado - e giudicate infondate o inammissibili tutte le numerose censure con lo stesso ricorso articolate - lamenta, dinanzi al Consiglio di Stato,  l’omessa pronuncia da parte del primo giudice adito riguardo a due specifiche doglianze: in primo luogo la lesione della posizione di affidamento qualificato consolidatasi in capo alla stessa società  per effetto del più favorevole regime discendente da una convenzione urbanistica, sottoscritta nel lontano 1934, ma rimasta in vigore in quanto espressamente fatta salva dal previgente P.R.G. nonché dalle successive varianti; secondariamente la illegittima disparità di trattamento fra la destinazione impressa al suolo in questione e quella stabilita per altri suoli (considerati dall’azienda costruttrice simili a quello di sua proprietà) rispetto ai quali è stata prevista, in via transitoria, la perdurante efficacia dei previgenti strumenti urbanistici esecutivi già approvati e non ancora decaduti.

Orbene, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, nel dichiarare l’appello infondato, richiama preliminarmente il granitico indirizzo giurisprudenziale (sul quale anche il giudice di primo grado ha fondato la sua decisione) secondo cui  “l’esistenza di una precedente diversa previsione urbanistica non comporta per l’Amministrazione la necessità di fornire particolari spiegazioni sulle ragioni delle differenti scelte operate, anche quando queste siano nettamente peggiorative per i proprietari e per le loro aspettative, dovendosi in tali casi dare prevalente rilievo all’interesse pubblico che le nuove scelte pianificatorie intendono perseguire; più specificamente, la mera esistenza, nella pianificazione previgente, di una destinazione urbanistica più favorevole al proprietario non è circostanza sufficiente a fondare in capo a quest’ultimo quell’aspettativa qualificata la cui sussistenza imporrebbe all’Amministrazione un obbligo di più puntuale e specifica motivazione rispetto a quella, di regola sufficiente, basata sul richiamo alle linee generali di impostazione del piano” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 23 giugno 2015, nr. 3142; in termini, Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2015, nr. 1767; id., 18 novembre 2014, nr. 5661; id., 31 luglio 2014, nr. 4042; id., 25 giugno 2013, nr. 3476; id., 26 ottobre 2012, nr. 5492; id., 15 maggio 2012, nr. 2759). “Le uniche evenienze”, continua il Collegio, “che richiedono una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono date dal superamento degli standards minimi di cui al d.m. 2 aprile 1968, nr. 1444, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree, dalla lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine, dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2015, nr. 2453; id., nr. 4042/2014, cit.; id., 4 dicembre 2013, nr. 5765; id., 18 novembre 2013, nr. 5453).

Passando ad esaminare i singoli motivi di gravame, il Supremo Consesso con riferimento alla prima doglianza afferma che,  pur ammettendo la perdurante efficacia del contenuto della convenzione del 1934 - per essere stato (tale contenuto) fatto salvo dal previgente P.R.G. e recepito dalle successive varianti che ne hanno fatto proprie le prescrizioni urbanistiche, le quali pertanto sono rimaste valide ed efficaci fino al sopravvenire del nuovo P.R.G. - ciò non comporta “automaticamente il permanere in capo agli originari sottoscrittori privati della convenzione, ovvero ai loro aventi causa, di una posizione di affidamento qualificato” nel senso più sopra chiarito dallo stesso Collegio. In altri termini, continua la Quarta Sezione, ciò che è sopravvissuto fino all’attuale piano regolatore non è la convenzione urbanistica in se e per se, bensì la destinazione urbanistica da questa originariamente impressa, per la quale però ormai, una volta esauriti gli effetti obbligatori dell’iniziale accordo (del 1934), occorre far riferimento come fonte non più a quest’ultimo, ma ai successivi atti di pianificazione che ne hanno recepito il contenuto. Pertanto, conclude il Consiglio di Stato, se è indubitabile che fino al sopravvenire dell’odierno P.R.G.  il suolo in questione era effettivamente ancora soggetto alla più favorevole destinazione risalente alla convenzione del 1934, ciò non comporta che la società appellante si trovi, rispetto alle nuove scelte di pianificazione del Comune, in una posizione diversa e più qualificata rispetto a quella di quisque de populo, in modo da poter esigere una più puntuale e articolata motivazione a sostegno delle dette scelte.

Riguardo al secondo motivo di gravame - posto che la parte appellante chiarisce di non aver inteso lamentare in astratto l’illegittimità del diverso regime previsto dal P.R.G., ma più semplicemente di aver sostenuto l’incongruità dell’inclusione del suolo di sua proprietà in una tipologia anziché nell’altra (sottoposta ad un più favorevole regime urbanistico), alla luce delle concrete caratteristiche del suolo medesimo - il Supremo Consesso afferma che, “così intesa, la doglianza costituisce null’altro che la riproposizione in veste diversa di una critica nel merito alle scelte pianificatorie del Comune, delle quali si è già ampiamente visto quale sia il ristrettissimo margine di ammissibilità in sede giurisdizionale; in questa sede, può aggiungersi solo che evidentemente le destinazioni di zona individuate dal Comune in sede di pianificazione dipendono dalla considerazione delle caratteristiche di fatto e delle potenzialità di sviluppo urbanistico delle porzioni di territorio globalmente considerate, ciò che esclude in via di principio che il proprietario di un singolo suolo possa pretendere un trattamento differenziato “puntuale” per il proprio terreno in ragione di sue specifiche caratteristiche: con la sola possibile eccezione di situazioni di affidamento qualificato, che si è già visto non sussistere nel caso di specie”. FM

 



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Inserito in data 03/01/2017
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 30 dicembre 2016, n. 12873

Il costo medio del lavoro indicato nelle tabelle ministeriali ha funzione indicativa

In ordine al giudizio di anomalia dell’offerta, deve premettersi che i vizi “devono essere valutati alla stregua dei principi generali che sovrintendono al sindacato giurisdizionale sulla cd. discrezionalità tecnica, che può essere contestata (e valutata dal giudice) solo ed esclusivamente sotto il profilo dell'attendibilità del giudizio dell'Amministrazione quanto a norme tecniche applicate e al relativo procedimento applicativo”.

In particolare, nel caso posto al suo esame, il Collegio ritiene che il giudizio di anomalia svolto dalla stazione appaltante sull’offerta dell’aggiudicataria sia giunto a violare il principio di ragionevolezza tecnica “con particolare riguardo alle valutazioni del costo della manodopera e del costo dei prodotti”.

A tal uopo, osserva che il quadro normativo “non risulta mutato con l’entrata in vigore del nuovo codice degli appalti, di cui al d. lgs . n. 50/2016, che, benché non si applichi alla procedura in questione (bandita prima della sua entrata in vigore), costituisce un indubbio parametro interpretativo di riferimento”.

La disposizione di cui all’art. 97, comma 5, lett. d), d. lgs. n. 50/2016, appare, a tale riguardo, erroneamente formulata laddove afferma che l’offerta è anormalmente bassa e, quindi, deve essere esclusa, quando “il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 14” (rectius, comma 16): la tabelle di cui all’art. 23, comma 16, infatti, non sono altro che le tabelle già previste, con disposizione perfettamente sovrapponibile, dall’art. 86, comma 3bis, d. lgs. n. 163/2006 secondo cui “il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione.”

Ebbene, “le tabelle ministeriali, predisposte sulla base dei valori economici dalla norma elencati, stabiliscono il costo medio orario del lavoro che è cosa ben diversa dal trattamento minimo salariale stabilito dalla legge o dalla contrattazione collettiva, al quale solo si riferisce la previsione d’inderogabilità di cui all’art. 97, comma 6, d. lgs. n. 50/2016 e all’art. 87, comma 3, d. lgs. n. 163/2006”.

Sulla base di tali considerazioni la giurisprudenza è giunta così ad affermare, con orientamento non solo consolidato ma di perdurante valore, a parere di questo collegio, anche sotto la vigenza del nuovo codice appalti, “che i costi medi della manodopera, indicati nelle tabelle ministeriali, non assumono valore di parametro assoluto ed inderogabile, ma svolgono una funzione indicativa, suscettibile di scostamento in relazione a valutazioni statistiche ed analisi aziendali evidenzianti una particolare organizzazione in grado di giustificare la sostenibilità di costi inferiori “(Cons. Stato Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1176; cfr. Cons. St., sez. V, 14 giugno 2013, n. 3314 e sez. IV, 22 marzo 2013, n. 1633).

Pertanto, posto che esse esprimono solo una funzione di parametro di riferimento, è “possibile discostarsi da tali costi, in sede di giustificazioni dell'anomalia, sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa (cfr. T.A.R. Roma, sez. II, 05 agosto 2016, n. 9182).

Dimostrazione, si aggiunge, che dovrebbe essere tanto più rigorosa quanto maggiore è lo scostamento dai costi medi tabellari”. EF

 



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Inserito in data 02/01/2017
TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 2 gennaio 2017, n. 10

Le cause di esclusione dalla gara per illeciti professionali nel Nuovo Codice dei Contratti

La questione agitata in ricorso involge il tema, dal rilevante spessore ermeneutico, dei requisiti morali di partecipazione ad una gara d’appalto. Nella specie, si controverte sulla riconducibilità alle cause di esclusione per violazione dei doveri professionali della sanzione irrogata alla ditta ricorrente.

Sebbene l’esclusione dei partecipanti dalla gara trovi nell’art. 80 del D.Lgs. n. 50/2016 (recante il nuovo Codice dei contratti pubblici) un’articolata disciplina normativa - che detta, peraltro, ipotesi tassative di esclusione – questa non è del tutto scevra da profili di discrezionalità ascrivibili alle stazioni appaltanti, specie ove si tratti di esclusione per difetto dei requisiti morali.

Osserva il Collegio che “il quadro normativo che connota l’ampia tematica dei requisiti di ordine generale è storicamente caratterizzato da profili di discrezionalità delle stazioni appaltanti, ancorché collocati nella fase nevralgica delle ammissioni/esclusioni dalla gara, che affondano le loro radici nella stessa disciplina comunitaria, anch’essa incline a configurare, sia pure entro certi limiti, diaframmi di discrezionalità in capo alle amministrazioni giudicatrici, segnatamente nelle ipotesi di cosiddetta esclusione discrezionale dalla gara”.

La ratio della norma di cui all’art. 80 risiede appunto nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.

Invero, la norma in esame ripropone il contenuto dell’art. 38 del d.lgs. n. 163/2006 (il vecchio codice dei contratti pubblici), apportando però significative modifiche al testo originario anche per quanto attiene al più specifico ambito dei comportamenti incidenti sulla moralità professionale delle imprese concorrenti.

Va tuttavia ribadito che spiragli di discrezionalità in favore delle stazioni appaltanti attengono non alla individuazione delle fattispecie espulsive – che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa – bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati.

Ad avviso del Collegio, nel caso in esame, la sanzione irrogata dall’AGCM, ritenuta dalla stazione appaltante quale causa di esclusione dalla gara, non può essere astrattamente ricondotta alla norma di cui all’art. 80 laddove discorre di “altre sanzioni” tra le conseguenze che possono derivare dalla violazione dei doveri professionali e, segnatamente, dalle “significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione”.

Ricordando quanto precisato nel parere n. 2286 del 3 novembre 2016 dalla commissione speciale del Consiglio di Stato sulle redigende linee guida ANAC, ossia che <<possono essere considerate come “altre sanzioni”, l’incameramento delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di applicazione di penali in misura modesta >>, il TAR rileva come nel predetto ventaglio di ipotesi escludenti non possono tuttavia rientrarvi anche i comportamenti anti-concorrenziali, poiché estranei al novero delle fattispecie ritenute rilevanti dal legislatore. Inoltre, ogni interpretazione estensiva o analogica sarebbe da escludere, poiché risulterebbe in contrasto con le esigenze di favor partecipationis che ispirano l’ordinamento in subiecta materia.

 Ritiene, quindi, il Collegio che “l’irrogazione di una sanzione da parte dell’Authorithy Antitrust non può consolidare alcuna fattispecie escludente di conio normativo e pertanto si configura la lamentata violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione.”

Inoltre, il disegno normativo che è dato cogliere dalla lettura dell’art. 80 del nuovo plesso normativo sembra escludere, in termini tendenziali, ogni forma di automatismo escludente derivante dalla perpetrazione delle condotte in grado di incidere sulla moralità professionale, contemplando, “in maniera innovativa rispetto al codice previgente, un meccanismo per così dire riabilitativo, cd. self cleaning “.

Ad avviso del TAR, tanto è sufficiente per l’accoglimento del gravame e, dunque, per l’annullamento dell’atto impugnato, con conseguente obbligo della stazione appaltante di riammettere la ditta ricorrente alla gara. DU

 



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Inserito in data 31/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 dicembre 2016, n. 5488

Soccorso istruttorio su elementi essenziali ai fini della partecipazione alla gara

“Nell’ambito dei procedimenti ad evidenza pubblica finalizzati all’affidamento di un contratto, il soccorso istruttorio non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali ai fini della partecipazione) radicalmente mancanti – pena la violazione della par condicio fra concorrenti - ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (Cons. Stato, A. P., 25/2/2014, n. 9; Sez. V, 12/10/2016, n. 4219; 15/7/2016, n. 3153; 21/7/2015, n. 3605; 25/2/2015, n. 927; Sez. III, 24/11/2016, n. 4930; 17/11/2015, n. 5249; Sez. IV, 15/9/2015, n. 4315).”

Pertanto, non è possibile “ovviare all’omessa produzione di documentazione essenziale ai fini dell’ammissione alla gara (dichiarazioni concernenti il possesso dei requisiti generali) mediante il ricorso al soccorso istruttorio […]  perché il rimedio in parola non può essere utilizzato […] per sanare la mancanza di dichiarazioni o documentazione da allegare, a pena di esclusione, alla domanda di partecipazione.” GB

 



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Inserito in data 30/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 19 dicembre 2016, n. 5373

Impiego di medicinali c.d. off label con oneri a carico del SSN, rimessione alla CGUE

Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia una questione interpretativa relativa alla compatibilità della normativa italiana in materia di impiego di medicinali c.d. off label con oneri a carico del SSN,  rispetto alle direttive europee disciplinanti l’autorizzazione alla immissione in commercio di farmaci per uso umano.

La vicenda trae origine da una controversia - insorta tra due case farmaceutiche concorrenti  - concernente l’impiego dei farmaci c.d. off label ovvero dei farmaci che il medico, basandosi sul principio fondamentale di libertà di giudizio e di indipendenza della scelta terapeutica, può prescrivere, quando lo ritenga utile per la salute del paziente, secondo una indicazione terapeutica diversa rispetto a quella per la quale detto farmaco ha ottenuto l’autorizzazione all’immissione in commercio (“AIC”) e che risulta riportata nel “Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto” “RCP. 

Precisamente la materia del contendere riguarda delle delibere dell’AIFA con le quali (verosimilmente per ragioni di risparmio economico) un determinato medicinale, commercializzato da una casa farmaceutica, è stato inserito nella c.d. “lista 648”, consentendone il rimborso da parte del servizio sanitario nazionale (SSN) per l’utilizzo off- label nella cura di una malattia, nonostante sia presente in commercio altro farmaco, commercializzato da altra società e registrato espressamente per la cura di tale patologia.

Orbene, in passato (l. 23 dicembre 1996, n. 648) l’impiego dei farmaci off label poteva avvenire con oneri a carico del SSN mediante inserimento in un elenco speciale definito “lista 648” con provvedimento dell’AIFA , ma solo in caso di “inesistenza di una valida alternativa terapeutica”.

A seguito della modifica normativa introdotta dalla l. n. 79 del 2014, è oggi possibile per l’AIFA inserire nella “lista 648” – e dunque con oneri a carico del servizio sanitario nazionale – farmaci utilizzabili con un’indicazione terapeutica diversa da quella per la quale sono stati autorizzati, nonostante esistano in commercio altri farmaci autorizzati per la cura di quella specifica patologia.

Attraverso l’ordinanza in commento, il Supremo Consesso prospetta che l’attuale sistema di sostanziale fungibilità tra farmaco registrato per una specifica finalità terapeutica (c.d. on label) ed utilizzo off label di altro farmaco possa contrastare con le direttive comunitarie che disciplinano il procedimento di autorizzazione alla immissione in commercio di farmaci per uso umano, tenuto conto che il farmaco off label è formalmente privo della autorizzazione in relazione all’impiego alternativo che si intende fare.

Nello specifico, la Terza Sezione configura la possibile violazione del principio comunitario dell’essenzialità ed inderogabilità dell’AIC sancito dell’art. 6, comma 1, della Direttiva 2001/83/CE, posto che la portata generalizzata del principio di fungibilità introdotto dalla normativa italiana non consentirebbe di ritenere applicabili le eccezioni -previste per casi specifici- di cui all’art. 3 della direttiva (formule galeniche e magistrali, preparate in farmacia, farmaci utilizzati per prove e ricerche, medicinali per terapie avanzate preparate su base non ripetitiva) e di cui all’art. 5, comma 1, della stessa direttiva (che consente allo Stato membro, “conformemente alla legislazione in vigore e per rispondere ad esigenze speciali” di poter “escludere nell’ambito dell’applicazione della presente direttiva i medicinali forniti per rispondere ad un’ordinazione leale e non sollecitata, elaborati conformemente alle prescrizioni di un operatore sanitario autorizzato e destinati ad un determinato paziente sotto la sua personale e diretta responsabilità”).

A sostegno delle proprie argomentazioni il Consiglio di Stato richiama anche un precedente in cui la stessa Corte di Giustizia  - pronunciandosi sull’interpretazione dell’art. 3 n. 1 della direttiva 2001/83/CE, riferito alla cosiddetta “formula magistrale”- ha ritenuto che i medicinali devono essere preparati “in farmacia” “in base alle indicazioni di una farmacopea” e “destinati ad essere forniti direttamente ai pazienti che si servono in tale farmacia” precisando che tali condizioni devono sussistere cumulativamente.

Alla luce delle suesposte considerazioni, il Supremo Consesso ha, quindi, investito la Corte di Giustizia della UE delle seguenti specifiche questioni :

“Se le disposizioni di cui alla Direttiva 2001/83/CE, come successivamente modificata, e segnatamente gli articoli 5 e 6, in relazione anche al secondo considerando della direttiva stessa, ostino all’applicazione di una legge nazionale (il più volte citato art. 1, comma 4-bis del decreto legge) che, al fine di perseguire finalità di contenimento di spesa, incentivi, attraverso l’inclusione nella lista dei medicinali rimborsabili dal servizio sanitario nazionale, l’utilizzazione di un farmaco al di fuori della indicazione terapeutica autorizzata nei confronti della generalità dei pazienti, indipendentemente da qualsiasi considerazione delle esigenze terapeutiche del singolo paziente e nonostante l’esistenza e la disponibilità sul mercato di farmaci autorizzati per la specifica indicazione terapeutica;

Se l’art. 3 n. 1 della Direttiva 2001/83/CE (formula magistrale), possa applicarsi nel caso in cui la preparazione del prodotto farmaceutico, benché eseguita in farmacia sulla base di una prescrizione medica destinata ad un singolo paziente, sia comunque effettuata serialmente, in modo eguale e ripetuto, senza tener conto delle specifiche esigenze del singolo paziente, con dispensazione del prodotto alla struttura ospedaliera e non al paziente (tenuto conto che il farmaco è classificato in classe H-OSP) e con utilizzazione in una struttura anche diversa da quella in cui è stato operato il confezionamento;

Se le disposizioni di cui al Regolamento (CE) n. 726/2004, come successivamente modificato, e segnatamente gli articoli 3, 25 e 26, nonché l’allegato, che assegnano all’Agenzia europea per i medicinali (EMA) la competenza esclusiva a valutare i profili di qualità, sicurezza ed efficacia dei medicinali aventi come indicazione terapeutica il trattamento di patologie oncologiche, sia nell’ambito della procedura di rilascio dell’autorizzazione all’immissione in commercio (Procedura centralizzata obbligatoria), sia al fine del monitoraggio e del coordinamento delle azioni di farmacovigilanza successive all’immissione del farmaco sul mercato, ostino all’applicazione di una legge nazionale che riservi all’autorità regolatoria nazionale (AIFA) la competenza ad assumere determinazioni in merito ai profili di sicurezza dei medicinali, connessi al loro uso off-label, la cui autorizzazione rientra nella competenza esclusiva della Commissione Europea, in considerazione delle valutazioni tecnico scientifiche effettuate dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA);

Se le disposizioni di cui alla Direttiva 89/105/CEE, come successivamente modificata, e segnatamente l’art. 1 par. 3), ostino all’applicazione di una legge nazionale che consenta allo Stato membro, nell’ambito delle proprie decisioni in materia di rimborsabilità delle spese sanitarie sostenute dall’assistito, di prevedere la rimborsabilità di un farmaco utilizzato al di fuori delle indicazioni terapeutiche precisate nell’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dalla Commissione Europea, o da un’Agenzia specializzata europea, all’esito di una procedura di valutazione centralizzata, senza che ricorrano i requisiti previsti dagli art. 3 e 5 della direttiva 2001/83/CE”. FM              



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Inserito in data 29/12/2016
TAR LAZIO, ROMA - SEZIONE SECONDA, DECRETO CAUTELARE 28 dicembre 2016, n. 8302

Divieto di uso di materiale esplodente, illegittima l’ordinanza sindacale

I Giudici romani, con decreto cautelare, manifestano parere contrario rispetto a quanto statuito – in sede di ordinanza contingibile – dal primo Cittadino capitolino.

In particolare, rinviando alla trattazione del merito alla data del 25 gennaio 2017, il Collegio accoglie l’istanza cautelare di una serie di ditte produttrici di materiale pirotecnico – parti ricorrenti nel presente contenzioso.

Si ritiene, infatti, che l’ordinanza emessa dal Sindaco romano – pur essendo contingibile ed urgente – sia carente della dovuta istruttoria, così come del sufficiente, necessario apparato motivazionale.

Se ne desume, pertanto, l’illegittimità e, per l’effetto, viene meno l’inibitoria – ritenuta presuntivamente generica ed immotivata - circa l’utilizzo di materiale esplodente disposta con il provvedimento sindacale qui impugnato. CC

 



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Inserito in data 28/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 dicembre 2016, n. 5423

Nell’avvalimento di garanzia è il fatturato l’indice significativo

Con la sentenza in esame, la Quinta Sezione, chiamata a pronunciarsi sulla necessità di indicare nel contratto di avvalimento gli elementi organizzativi dell’azienda ausiliaria, ritiene che in relazione al cd. avvalimento di garanzia tale indicazione non sia necessaria.

Prendendo le mosse dalla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato sul punto, il Supremo Consesso afferma che nel caso di avvalimento avente ad oggetto il fatturato, non implicando esso necessariamente il coinvolgimento di aspetti specifici dell’organizzazione della impresa, è verosimile la possibilità che siffatti aspetti non siano specificati in contratto (in questo senso: Cons. Stato, III, 17 novembre 2015, n. 5703, 4 novembre 2015, nn. 5038 e 5041, 2 marzo 2015, n. 1020, 6 febbraio 2014, n. 584; IV, 29 febbraio 2016, n. 812).

In ordine a questo decisivo profilo, ad avviso del Collegio, occorre innanzitutto richiamare l’art. 217 del D.Lgs n. 50/2016 (corrispondente agli artt. 41 e 42 del vecchio codice degli appalti).

In particolare, la prima delle citate disposizioni, relativa alla «Capacità economica e finanziaria dei fornitori e dei prestatori di servizi» include tra essi non solo «il fatturato globale d’impresa», ma anche quello «relativo ai servizi o forniture nel settore oggetto della gara» (comma 1, lett. c). Altri sono invece i requisiti di capacità «tecnica e professionale» previsti dal successivo art. 42.

Dall’orientamento sopra richiamato deriva che, allorquando un’impresa intenda avvalersi dei requisiti finanziari di un’altra, «la prestazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi ‘materiali’, ma dal suo impegno a “garantire” con le proprie complessive risorse economiche - il cui indice è costituito dal fatturato - l’impresa ‘ausiliata’», e cioè «il suo valore aggiunto in termini di “solidità finanziaria” e di acclarata “esperienza di settore», dei quali il fatturato costituisce indice significativo (Cons. Stato, III, 4 novembre 2015, nn. 5038 e 5041, 2 ottobre 2015, n. 4617, 6 febbraio 2014, n. 584).

In relazione alla carente allegazione rilevata nel caso oggetto della controversia in esame, la Quinta Sezione, ponendosi nel solco di una recente Adunanza plenaria - sentenza 4 novembre 2016, n. 23 - ha statuito che l’indagine in ordine agli elementi essenziali del contratto di avvalimento «deve essere svolta sulla base delle generali regole sull’ermeneutica contrattuale» ed in particolare deve essere svolta secondo i canoni enunciati dal codice civile di interpretazione complessiva e secondo buona fede delle clausole contrattuali (artt. 1363 e 1367).

A siffatto principio questo Collegio soggiunge che analoga prospettiva interpretativa deve essere osservata per quanto riguarda le clausole del bando e del disciplinare di gara riguardanti i requisiti speciali di partecipazione suscettibili di avvalimento, tenendo conto dell’ampio ambito sull’istituto dell’avvalimento, in modo da approcciarsi alla questione della determinabilità del contratto ex art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006, evitando di incorrere in aprioristici schematismi concettuali che possano irrigidire in modo irragionevole la disciplina sostanziale della gara (in questo specifico senso: Cons. Stato, V, 22 ottobre 2015, n. 4860).

Quindi, in ordine a questo decisivo profilo sarebbe stato onere del ricorrente incidentale enucleare dalla normativa di gara specifiche indicazioni, sulla base delle quali ritenere che il requisito in questione, malgrado il suo ancoraggio al fatturato, avesse in realtà una connotazione squisitamente tecnico-operativa, correlata ad una ben individuata organizzazione produttiva da mettere a disposizione per l’esecuzione del servizio.

Ciò non è tuttavia avvenuto, poiché il controinteressato (aggiudicatario), limitandosi tuttavia ad affermare in modo apodittico che il fatturato specifico ha natura di requisito di capacità tecnico-professionale, non ha assolto l’onere ex art. 2697c.c. di connotare il requisito in contestazione di caratteristiche prettamente tecniche ed operative, tali da ritenere insufficiente l’indicazione del fatturato specifico.

Su questo punto, il Consiglio di Stato accoglie il ricorso, riformando solo in parte la sentenza di primo grado. DU

 



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Inserito in data 27/12/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 dicembre 2016, n. 286

I genitori possono attribuire - di comune accordo -  anche il cognome materno

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale “della norma − desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 – che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori”.

Invero, “l’esistenza della norma censurata e la sua perdurante immanenza nel sistema, desumibili dalle disposizioni che implicitamente la presuppongono, è stata già riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nelle precedenti occasioni in cui ne è stata denunciata l’illegittimità (sentenze n. 61 del 2006 e n. 176 del 1988; ordinanze n. 145 del 2007 e n. 586 del 1988). In queste pronunce, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di tale norma, in quanto presupposta dalle medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dall’odierno rimettente (artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000)”.

Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, ancora una volta, “non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma, in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio”.

Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, sia precedente, sia successiva alle richiamate pronunce di questa Corte, laddove ha riconosciuto che – da tali pur eterogenee previsioni – si desume l’esistenza di una norma che, sebbene non prevista testualmente nell’ambito di alcuna disposizione, è ugualmente presente nel sistema e «certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo» (Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; v. anche Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934).

Ciò posto, “va rilevato che già in precedenti occasioni questa Corte ha esaminato la disciplina della prevalenza del cognome paterno, al momento della sua attribuzione al figlio, ma ha dichiarato inammissibili le relative questioni, ritenendole riservate alla discrezionalità del legislatore, nell’ambito di una rinnovata disciplina.

Tuttavia, già nell’ordinanza n. 176 del 1988, è stato espressamente riconosciuto che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n. 586 del 1988).

Diciotto anni dopo, con ancora maggiore fermezza, nella sentenza n. 61 del 2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, questa Corte ha espressamente rilevato l’incompatibilità della norma in esame con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale sistema di attribuzione del cognome, infatti, è definito come il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna»”.

A distanza di molti anni da queste pronunce, un «criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non è ancora stato introdotto.

Neppure il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, “ha scalfito la norma oggi censurata”.

Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome – con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – “le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita”.

Va, d’altro canto, rilevata “un’intensa attività preparatoria di interventi legislativi volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli. Allo stato, tuttavia, essi risultano ancora in itinere”.

Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora “preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre”.

Orbene, “la Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare”.

Quanto al primo profilo di illegittimità, va rilevato che “la distonia di tale norma rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost., risulta avvalorata nell’attuale quadro ordinamentale”.

Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, “portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.”.

È proprio in tale prospettiva che questa Corte aveva, da tempo, riconosciuto “il diritto al mantenimento dell’originario cognome del figlio, anche in caso di modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da adozione. Tale originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno distintivo della sua identità personale (sentenza n. 297 del 1996), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2001)”.

Il processo di valorizzazione del diritto all’identità personale è culminato nella recente affermazione, da parte di questa Corte, del diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n. 278 del 2013).

In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto “il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848”.

In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che “l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre”.

La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone “l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori”.

Viceversa, “la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno”.

Quanto al concorrente profilo di illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi, va rilevato che “il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.”.

Come già osservato da questa Corte sin da epoca risalente, «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970).

La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, “contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno”.

Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, “non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica”.

Oltre a ritenere assorbita la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost., il Giudice delle Leggi osserva che, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), “la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, alla disposizione dell’art. 262, primo comma, cod. civ., la quale contiene tuttora – con riferimento alla fattispecie del riconoscimento del figlio naturale effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori – una norma identica a quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza”.

Anche tale disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima, “nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno”.

Per le medesime ragioni, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, “all’art. 299, terzo comma, cod. civ., per la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione”.

Va, infine, rilevato che, in assenza dell’accordo dei genitori, “residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. EF

 



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Inserito in data 23/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 23 dicembre 2016, n. 5488

Sulla autonomia funzionale degli avvocati dell’Inps e limiti al potere organizzativo discrezionale dell’Ente

Con la decisione emarginata in epigrafe, la sesta sezione del Consiglio di Stato si pronuncia su una controversia coinvolgente, da un lato, la Federazione legali del Parastato, l’Associazione Nazionale Avvocati e Procuratori Inps nonché taluni avvocati interni dell’Ente (gli odierni appellanti) e, dall’altro, l’Inps  e l’Associazione legali Inail (resistenti in secondo grado).  

    Più precisamente, nel giudizio di primo grado (innanzi al T.A.R. Lazio) vengono impugnati tutti i provvedimenti adottati dall’Istituto di riorganizzazione degli uffici della sua avvocatura interna che hanno inciso sull’attività posta in essere dagli avvocati che compongono gli uffici legali dell’Ente; provvedimenti riguardanti lo status giuridico degli avvocati interni in relazione al potere di coordinamento affidato ai dirigenti amministrativi dell’Istituto nonché la esternalizzazione “per materia” quale conseguenza dell’affidamento ad avvocati “esterni” di taluni affari.

    Ciò posto, il Collegio dapprima ricostruisce il quadro normativo riguardante il rapporto di lavoro degli avvocati che svolgono la propria attività professionale presso gli enti pubblici, evidenziando così le peculiarità della posizione degli avvocati Inps (così come in generale degli avvocati degli enti pubblici), rispetto agli avvocati del libero foro,  operando dunque una distinzione tra le due figure sia su un piano strutturale che su un piano funzionale.

    Ora, sotto il primo profilo, il Collegio afferma che “gli avvocati del libero foro stipulano con i clienti un contratto di prestazione d’opera professionale che è retto interamente dalle regole di diritto privato, con conseguente responsabilità secondo i principi civilistici.

    Gli avvocati degli enti pubblici, invece, stipulano, da un lato, un contratto di lavoro con l’ente pubblico, in veste di datore di lavoro, che li inserisce, con qualifiche di funzionario o dirigente, nell’organizzazione dell’ente, dall’altro, un contratto di prestazione d’opera professionale con il medesimo ente pubblico, in veste di “cliente unico”, con il quale viene conferito, secondo modalità dipendenti dalla tipologia di Ente che viene in rilievo, incarico di svolgere una determinata attività difensiva.

    Sul piano funzionale, l’attività che gli avvocati pongono in essere “risente della indicata duplicità di posizione strutturale, essendo necessario anche, in relazione a tale aspetto, distinguere due ambiti. Un primo ambito attiene allo svolgimento dell’attività professionale che deve essere eseguita in piena autonomia al fine di assicurare il rispetto delle regole che operano per tutti gli avvocati, con la conseguenza che non sono ammesse interferenze da parte dell’Ente (cliente) in grado di condizionare le scelte difensive da assumere, ferma la responsabilità dell’avvocato secondo le regole generali nei confronti del rappresentante legale dell’Ente medesimo. Un secondo ambito attiene al contenuto esterno dell’attività e cioè al suo inserimento nell’ambito della complessiva organizzazione pubblica, in relazione alla quale l’Ente (datore di lavoro) conserva i suoi poteri privati e pubblici volti ad assicurare, mediante ad esempio la previsione di un orario di servizio, l’inserimento coordinato dell’attività svolta dall’avvocato nell’ambito della propria organizzazione, che rispetti sempre il proprium dei compiti assegnati.

Prosegue il Collegio dicendo che il piano strutturale e funzionale sono strettamente connessi.

    Ed invero, l’Ente pubblico, nel regolare a livello organizzativo, in qualità di datore di lavoro, il rapporto di lavoro, gode di ampia discrezionalità la quale, si noti, non può in alcun modo incidere sulla autonomia professionale caratterizzante la professione forense. 

    Ciò posto, nella caso di specie gli appellanti assumono che gli atti organizzativi impugnati, nella parte in cui collocano gli avvocati dell’ufficio legale alle dipendenze del direttore regionale e provinciale, si porrebbero in contrasto con le norme sopra riportate ed inciderebbero sull’autonomia degli avvocati nello svolgimento della loro attività professionale.

   Sulla base delle predette considerazioni, il Collegio  ritiene  illegittimi i provvedimenti impugnati per violazione delle norme di regolazione della materia riguardanti la attività forense espletata alle dipendente degli Enti pubblici.

    Ed infatti, afferma il Collegio che la previsione che la funzione di coordinamento dell’ufficio legale venga assegnata ad un dirigente regionale o locale, sebbene si inserisca nell’ambito del potere organizzativo dell’Ente, nella fattispecie in esame implica un esercizio di potere oltre il limite ad esso posto dal sistema a garanzia dell’autonomia funzionale degli avvocati dell’Istituto (e più in generale a servizio degli Enti).

    Invero, sotto tale ultimo profilo, la circostanza che l’ufficio legale sia inserito nell’ambito di un ufficio regionale o provinciale, il cui titolare è un Dirigente regionale o provinciale che esercita funzioni di direzione nei confronti degli avvocati facenti parte dell’Ente, “comporta una indubbia interferenza di un Dirigente nell’ambito dell’attività professionale propria del singolo avvocato”.

Pertanto, non è conforme alla normativa di riferimento modello legale “che l’attività dell’avvocato debba essere conforme a direttive specifiche adottate da un soggetto esterno” (quale l’ufficio regionale del dirigente).

    Il Collegio conclude affermando la necessità che “sul piano organizzativo, l’ufficio legale sia dotato di una propria autonomia e che sia collegato unicamente al rappresentante legale dell’Ente e non ad altri dirigenti abilitati a guidarne l’attività”. PC 

 



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Inserito in data 22/12/2016
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I - 19 dicembre 2016, n. 2552

Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali nel nuovo Cod. Contratti

L’art. 80 comma 5, lett. c), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 condiziona l’esclusione del concorrente alla dimostrazione, “con mezzi adeguati”, da parte della stazione appaltante, che l'operatore economico si sia reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.

Rientrano tra i “gravi illeciti professionali”: “le significative carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull'esclusione, la selezione o l'aggiudicazione ovvero l'omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”.

Possono essere considerate come “altre sanzioni”,” l’incameramento delle garanzie di esecuzione o l’applicazione di penali, fermo che la sola applicazione di una clausola penale non è di per sé sintomo di grave illecito professionale, specie nel caso di applicazione di penali in misura modesta”.

Rispetto alla precedente formulazione (art. 38, let. f., d.lgs. n. 163/06), l’art. 80, comma 5, lett. c), d. lgs. n. 80/2016 impone che  l’accertamento in ordine alla esistenza della violazione sia effettuato “sulla base delle indicazioni contenute nella medesima disposizione ovvero, anche, secondo altre e differenti modalità analiticamente descritte da parte della stazione appaltante”. GB 



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Inserito in data 21/12/2016
CONSIGLIO DI STATO – SEZ. III, 20 dicembre 2016, n. 5396

Il soccorso istruttorio è espressione del principio di massima partecipazione ai pubblici incanti

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’ammissione alla gara dell’aggiudicataria, e in particolare sulla legittimità del ricorso, in suo favore, all’istituto del soccorso istruttorio di cui all’art. 38, comma secondo bis, del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163.

 Nella specie, la ricorrente impugnava la pronuncia di primo grado di rigetto, ritenendo del tutto esclusa l’applicabilità dell’istituto del soccorso istruttorio in tema di aggiudicazione degli appalti concernenti - come quello in esame - servizi sociosanitari.

La Terza Sezione, condividendo quanto asserito dal giudice di primo grado, ha ritenuto che solo un’espressa previsione normativa avrebbe consentito di escludere l’applicazione del soccorso istruttorio nelle procedure per l’affidamento di contratti relativi a servizi sociosanitari, e ha respinto così il ricorso.

L’appellante sosteneva che l’aggiudicataria avesse omesso la produzione di documenti richiesti dalla normativa di gara a pena di esclusione e che l’essenzialità della loro produzione avrebbe così escluso la possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio.

Il Supremo Consesso ha, invece, condiviso quanto asserito dal primo giudice, per il quale: “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi, forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità”, e ulteriormente sottolineando che “l’istituto del soccorso istruttorio costituisce espressione del principio di massima partecipazione ai pubblici incanti”.

La decisione dell’Amministrazione di consentire all’odierna appellata di completare la documentazione presentata sfuggiva quindi alle censure dedotte.

L’appellante contestava inoltre il bando di gara, lamentando violazione dell’art. 83 del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163, in quanto i criteri stabiliti dalla normativa di gara per l’attribuzione dei punteggi relativi ai servizi aggiuntivi, che definivano la qualità complessiva di ogni proposta, erano privi di una sufficiente specificazione e di adeguati criteri di ponderazione.

Ad avviso del Collegio “in presenza del chiaro dettato della normativa di gara, che esclude la possibilità di attribuire un punteggio superiore al massimo stabilito, questo non possa essere superato”.

Ne deriva che “l’Amministrazione non può essere onerata della specificazione dei criteri di attribuzione dei punteggi, ulteriore rispetto a quella stabilita dalla normativa di gara, a opera della commissione di gara.”

Consequenzialmente solo la contestazione della ragionevolezza delle concrete scelte operate dalla commissione – secondo quanto osservato dalla Terza Sezione - avrebbe potuto condurre all’annullamento dell’aggiudicazione.

Per le ragioni predette, il Supremo Consesso ha respinto l’appello principale e, di conseguenza, ha dichiarato improcedibile l’appello incidentale. DU 


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Inserito in data 20/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 dicembre 2016, n. 5365

Alloggi sociali: requisiti per la loro assegnazione

Nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato affronta il tema degli alloggi sociali e dei requisiti necessari per la loro assegnazione.

Oggetto della vicenda è un provvedimento con cui  il Provveditorato interreg. OO.PP. per Lazio, Abruzzo e Sardegna ha disposto la revoca dell’assegnazione di un alloggio sociale nei confronti dei figli (ed eredi)  dell’assegnatario (deceduto).

La disposizione revocatoria si fonda sul fatto che la coniuge (anch’essa deceduta) dell’assegnatario è risultata essere “già proprietaria di due fabbricati residenziali idonei, ubicati nel medesimo centro urbano”.

Avverso la suddetta statuizione gli eredi hanno, quindi, proposto ricorso al TAR Lazio “deducendo essenzialmente che i due cespiti immobiliari appartenevano certo alla moglie dell’assegnatario, ma i due coniugi erano in regime di separazione dei beni”. L’adito TAR ha accolto la pretesa attorea proprio nei sensi evidenziati dai ricorrenti, anche alla luce di un parere del Consiglio di Stato (sez. II) del 2003.

La P.A. soccombente, pertanto, ha adito il Consiglio di Stato, deducendo l’erroneità della sentenza impugnata per aver confuso la separazione dei beni dei coniugi, con la separazione personale di essi, unica situazione cui fa riferimento l’art. 31, II c. del RD 1165/1938 (testo unico delle disposizioni sull’edilizia popolare ed economica).

Con la pronuncia in commento, il Supremo Consesso  accoglie l’appello ritenendolo  fondato nel merito, in quanto ai sensi del suddetto art. 31, II c., “l'assegnazione in proprietà di un alloggio costruito con il concorso o il contributo dello Stato è impedita dall'esser proprietari nello stesso centro urbano di altro alloggio che risulti "idoneo" ai bisogni della famiglia (cfr. Cons. St., IV, 9 ottobre 2002 n. 5362), idoneità che è predefinita dalla norma stessa, e tal ostacolo riguarda pure la posizione del coniuge non legalmente separato”; l’impossibilità dell’assegnazione, continua il Collegio, “concerne quindi pure tutti i cespiti adeguati alle esigenze abitative non solo del singolo assegnatario, ma pure del di lui nucleo familiare, nel senso che il patrimonio del coniuge concorre, ove adeguato secondo i parametri di legge, a fornire sollievo alle esigenze abitative della famiglia, al di là di qual sia o sia stato il regime patrimoniale dei coniugi”; sottolinea poi, la Quarta Sezione, che il riferimento al regime patrimoniale dei coniugi è da intendersi come “spurio poiché, alla luce del vigente diritto di famiglia, ciascun coniuge ha l’obbligo di metter a disposizione delle esigenze familiari tutto il loro personale patrimonio, donde l’impossibilità di tener conto, nel peculiare caso di specie, del precedente della sez. II” dello stesso Consiglio di Stato.

In conclusione il Supremo Consesso afferma che “come noto, i requisiti di assegnazione devono essere posseduti da tutti i componenti del nucleo familiare e per tutta la durata del rapporto (cfr. fra le tante Cons. St., n. 3756 del 2004), condizione questa che non si è verificata nel caso di specie”; l’appello, quindi, dev’essere accolto. FM

 



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Inserito in data 19/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 dicembre 2016, n. 5362

Sulla normativa riguardante i benefici previsti a favore delle “vittime del dovere”

    Nella sentenza emarginata in epigrafe il Collegio si pronuncia in merito alla applicazione della normativa riguardante i benefici previsti a favore delle “vittime del dovere” di cui alla legge n. 466/1980, alla legge n. 302/1990, alla legge n. 407/1998, alla legge n. 388/2000 (art. 82) ed al D.P.R. n. 243/2006 .

    Più in particolare, il T.A.R. aveva accolto il ricorso (proposto da un ispettore di polizia) avverso il provvedimento di diniego dei benefici di cui alle predette normative; decreto emesso dal Capo della Polizia di Stato.

    Avverso tale sentenza viene proposta impugnazione da parte del Ministero dell’Interno (Appellante). Si costituisce, altresì, con contro ricorso, l’appellato (ricorrente in primo  grado). 

    Preliminarmente il Collegio  precisa che “la tematica dei benefici riconosciuti alle "vittime del dovere" va tenuta ben distinta da quella del ristoro dei pregiudizi patiti per "causa di servizio", in quanto la circostanza che una infermità o lesione sia riconosciuta dipendente da causa di servizio non costituisce elemento sufficiente per l’attribuzione degli ulteriori benefici spettanti alle "vittime del dovere".

    Ed infatti, si prosegue nella decisione che qui interessa, “ai fini del riconoscimento dei benefici previsti a favore delle “vittime del dovere”, la normativa richiede che vi sia uno stretto rapporto di causalità esclusiva fra la lesione subita dal soggetto e uno specifico evento lesivo verificatosi per effetto della peculiare e oggettiva pericolosità dell’operazione di servizio, mentre non è sufficiente un rapporto di mera “occasionalità”, ossia che il danno sia insorto “in occasione” di una determinata operazione di servizio, ma non a causa di questa.

    Detto altrimenti, ai fini del riconoscimento dei benefici de quibus, il rischio affrontato dall’agente deve essere superiore rispetto a quello ordinariamente inerente all’attività di istituto (cfr. sentenze n. 3915 e 3916/2015 di questa Terza Sezione, la sentenza n. 1794/2014, nonché i pareri n. 2324/2011 e n. 5011/2010 della Prima Sezione del Consiglio di Stato).

    Per le esposte considerazioni, quindi, il Consesso amministrativo non ravvisa che nel caso di specie sussistano i requisiti previsti dalla normativa vigente (meglio sopraindicata) ai fini del riconoscimento in capo all’appellato del diritto ai benefici previsti per le “vittime del dovere”.

   Il Consiglio di Stato, per quanto sopra detto, accoglie l’appello proposto dal Ministero e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso proposto in primo grado. PC

 



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Inserito in data 16/12/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, SENTENZA 8 dicembre 2016, C - 553/15

Sulla nozione di “attività prevalente” rilevante per l’affidamento “in house”

La prima questione che il Consiglio di Stato domanda ai Giudici di Lussemburgo riguarda l’ambito di applicazione della giurisprudenza della Corte in materia di affidamenti diretti degli appalti pubblici detti «in house», al fine di stabilire se, «nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci».

Orbene, conformemente alla giurisprudenza della Corte, “l’obiettivo principale delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, ossia la libera circolazione delle merci e dei servizi e l’apertura a una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, implica l’obbligo di applicare le norme sulle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalle direttive pertinenti, qualora un’amministrazione aggiudicatrice, quale un ente territoriale, intenda concludere in forma scritta, con un’entità giuridicamente distinta, un contratto a titolo oneroso, indipendentemente dal fatto che tale entità sia a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice o meno (v., in tal senso, sentenze del 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, EU:C:1999:562, punto 51, nonché dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punti 44 e 47)”.

Peraltro, ”la Corte ha precisato che qualsiasi deroga all’applicazione di tale obbligo deve essere interpretata restrittivamente (sentenze dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punto 46, e dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 23)”.

In particolare, nell’ipotesi in cui un’autorità pubblica abbia la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici o di altro tipo, senza far necessariamente ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi (v., in tal senso, sentenza dell’11 gennaio 2005, Stadt Halle e RPL Lochau, C-26/03, EU:C:2005:5, punto 48), la Corte ha giustificato il riconoscimento dell’eccezione relativa agli affidamenti detti «in house» con l’esistenza “di un legame interno particolare, in un caso del genere, tra l’amministrazione aggiudicatrice e l’ente affidatario, anche se quest’ultima entità è giuridicamente distinta dalla prima (v., in tal senso, sentenza dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 29). In casi siffatti, si può ritenere che l’amministrazione aggiudicatrice ricorra, in realtà, ai propri strumenti (v., in tal senso, sentenza dell’8 maggio 2014, Datenlotsen Informationssysteme, C-15/13, EU:C:2014:303, punto 25) e che l’ente affidatario faccia praticamente parte dei servizi interni della stessa amministrazione”.

Tale eccezione “richiede, oltre al fatto che l’amministrazione aggiudicatrice eserciti sull’ente affidatario un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi, che tale ente svolga l’attività prevalente a favore dell’amministrazione aggiudicatrice o delle amministrazioni aggiudicatrici che lo controllano (v., in tal senso, sentenza del 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, EU:C:1999:562, punto 50)”.

Pertanto, “è indispensabile che l’attività dell’ente affidatario sia rivolta principalmente all’ente o agli enti che lo controllano, mentre ogni altra attività può avere solo carattere marginale. Per verificare se la situazione sia in questi termini, il giudice competente deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative. A tal riguardo, il fatturato rilevante è rappresentato da quello che tale ente realizza in virtù delle decisioni di affidamento adottate dall’ente o dagli enti locali controllanti (v., in tal senso, sentenze dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti 63 e 65, nonché del 17 luglio 2008, Commissione/Italia, C-371/05, non pubblicata, EU:C:2008:410, punto 31)”.

Il requisito che “il soggetto di cui trattasi svolga l’attività prevalente con l’ente o con gli enti locali che lo controllano è finalizzato a garantire che la direttiva 2004/18 trovi applicazione anche nel caso in cui un’impresa controllata da uno o più enti sia attiva sul mercato e possa pertanto entrare in concorrenza con altre imprese. Infatti, un’impresa non è necessariamente privata della libertà di azione per il mero fatto che le decisioni che la riguardano sono prese dall’ente o dagli enti locali che la controllano, se essa può svolgere ancora una parte importante della sua attività economica presso altri operatori. Per contro, qualora le prestazioni di detta impresa siano sostanzialmente destinate in via esclusiva all’ente o agli enti locali in questione, appare giustificato che l’impresa di cui trattasi sia sottratta agli obblighi della direttiva 2004/18, i quali sono dettati dall’intento di tutelare una concorrenza che, in tal caso, non ha più ragion d’essere (v., per analogia, sentenza dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti da 60 a 62)”.

Da tale giurisprudenza deriva che “qualsiasi attività dell’ente affidatario che sia rivolta a persone diverse da quelle che lo controllano, ossia a persone che non hanno alcuna relazione di controllo con tale ente, quand’anche si trattasse di amministrazioni pubbliche, deve essere considerata come svolta a favore di terzi”.

Con la seconda questione interpretativa, invece, il Giudice del rinvio domanda in sostanza “se, al fine di stabilire se l’ente affidatario svolga l’attività prevalente per gli enti territoriali che siano suoi soci e che esercitino su di esso, congiuntamente, un controllo analogo a quello esercitato sui loro stessi servizi, occorra prendere in considerazione altresì l’attività che il medesimo ente abbia svolto per detti enti territoriali prima che divenisse effettivo tale controllo congiunto”.

In proposito, “è d’uopo ricordare che, secondo la giurisprudenza della Corte, per valutare il requisito dello svolgimento dell’attività prevalente, il giudice nazionale deve prendere in considerazione tutte le circostanze del caso di specie, sia qualitative sia quantitative (v. sentenza dell’11 maggio 2006, Carbotermo e Consorzio Alisei, C-340/04, EU:C:2006:308, punti 63 e 64)”.

Tra queste circostanze rientra, all’occorrenza, l’attività che l’ente affidatario abbia svolto per gli enti territoriali prima che divenisse effettivo il controllo congiunto. EF 

 



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Inserito in data 15/12/2016
TAR LAZIO – ROMA, SEZ. II QUATER, 12 dicembre 2016, n. 12317

Nessun limite al diritto di accesso ai fini della difesa in giudizio

Il TAR Lazio con la sentenza in epigrafe, afferma che ai sensi dell’art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241 deve essere garantito l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici,  risolvendo il problema del bilanciamento delle contrapposte esigenze delle parti - diritto di accesso e di difesa da un lato, e diritto di riservatezza dei terzi, dall'altro - va risolto dando prevalenza al diritto di accesso, qualora il primo sia strumentale alla cura o alla difesa dei propri interessi giuridici.

Il Collegio osserva che “per costante giurisprudenza, l'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, senza che possa essere operato, con riferimento al caso specifico, alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale, che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l'accesso, o sulla ammissibilità e la rilevanza dei documenti richiesti rispetto ad un giudizio pendente” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 10 marzo 2014 n. 1134).

Nella specie, la Società richiedente l’accesso impugnava il silenzio - diniego formatosi sulla istanza di accesso documentale presentata al  Comune con la quale chiedeva di prendere visione e di estrarre copia integrale degli atti del fascicolo presente presso gli uffici comunali e relativo alle numerose questioni che la vedevano protagonista, poiché aggiudicataria di un’area sita nell’area urbana del Comune per il fallimento di una società immobiliare e del Condominio controinteressato (del quale essa è, peraltro, condomina).

In particolare, l’interesse all’accesso che muoveva la ricorrente era da ricondurre ad una nota sottoscritta nei suoi confronti dal Comune e depositata nel corso di un giudizio pendente presso il TAR Lazio.

Il Collegio, tenuto conto che l’intimato Comune nulla eccepiva alla parte ricorrente nel corso del presente giudizio rispetto alla richiesta ostensiva e che il Condominio controinteressato, costituendosi in giudizio, fondava le proprie controdeduzioni proprio sull’inesistenza di provvedimenti e titoli abilitavi con i quali “il Comune avrebbe assentito i muri abusivi per cui è causa”.

Rilevata, quindi, l’assenza di elementi utili a negare l’ostensione del contenuto del fascicolo oggetto dell’istanza ostensiva, il TAR Lazio disponeva la visione dei documenti contenuti nel fascicolo medesimo e l’estrazione di copia degli atti, in ossequio al duplice principio generale citato sopra. 

Pertanto, pronunciando in via definitiva sul ricorso, il tribunale amministrativo lo accoglieva e per l'effetto ordinava all'Amministrazione comunale, l'esibizione dei documenti richiesti dalla Società ricorrente. DU

 



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Inserito in data 14/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 dicembre 2016, n. 5229

Sulla natura innovativa o esecutiva di un provvedimento rispetto ad un antecedente ed impugnativa di uno o di entrambi.

Oggetto della sentenza in esame è la legittimità di due consecutivi decreti adottati dal Commissario ad acta per la prosecuzione del Piano di rientro del settore sanitario della Regione Campania e riguardanti il piano di riassetto della rete laboratoristica privata.

Nello specifico, “ il decreto n. 109 del 2013 stabiliva che, i laboratori che si trovavano al di sotto della soglia minima di efficienza avrebbero potuto conservare l’accreditamento solo se si fossero aggregati tra loro, ricorrendo ad una delle forme previste dalla legge (ad esempio, un consorzio), in modo tale da conseguire il requisito in forma cumulativa. Il meccanismo per verificare il raggiungimento di tale soglia veniva individuato nel numero delle prestazioni erogate da ciascuna struttura, che non avrebbero potuto collocarsi, in prima battuta, al di sotto delle 70.000 annue, per poi attestarsi, a regime, ad almeno 200.000. Il decreto n. 109 del 2013 rimandava alla individuazione, ad opera di un futuro provvedimento, della c.d. PEQ (prestazione equivalente). Nel successivo decreto n. 45 del 2014, che, infatti, reca «ulteriori disposizioni» rispetto a quello del 2013, il calcolo della PEQ è stato effettuato sulla base di un criterio che, in realtà, si discosta da quello predeterminato nel precedente decreto n. 109 del 2013, nel quale non si rinviene nessun riferimento al fatturato registrato dalle strutture per il triennio 2010-2012 al netto dello sconto”.

Orbene, la questione centrale dell’intera vicenda attiene alla valutazione del rapporto tra i due succitati provvedimenti, precisamente alla natura innovativa o meramente esecutiva del secondo provvedimento rispetto al precedente, con la consequenziale necessità o meno di impugnarli entrambi.

Nel giudizio di primo grado, i laboratori interessati avevano impugnato il primo decreto commissariale (n. 19 del 2013) sostenendo che fosse viziato in più punti, oltre che adottato in  violazione dell’accordo Stato-Regioni. Nel corso dello stesso giudizio la Regione Campania - costituitasi insieme al Commissario ad acta - aveva depositato un secondo decreto commissariale (n. 45 del 4 luglio 2014) contenente ulteriori disposizioni ed adempimenti successivi rispetto al primo decreto. Tale secondo provvedimento commissariale non era stato oggetto di specifiche censure da parte delle ricorrenti. Il T.A.R. Campania, pertanto, aveva dichiarato “improcedibile il ricorso proposto in primo grado dagli odierni appellanti, poiché queste non avevano impugnato il decreto n. 45 del 2014, avente natura innovativa rispetto al precedente decreto n. 19 del 2013”. 

La questione viene poi posta al Consiglio di Stato, al quale gli stessi laboratori interessati presentano appello riproponendo i motivi articolati in primo grado ed affermando “che il decreto n. 45 del 2014 sarebbe meramente esecutivo del decreto n. 19 del 2013 ed avrebbe, quindi, natura confermativa del precedente (pp. 4-7 del ricorso)”.

La Terza Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, dichiara l’appello infondato ritenendo “corretta la dichiarazione di improcedibilità dell’originario ricorso” alla quale era pervenuto il T.A.R. per la Campania con l’impugnata sentenza n. 4656 del 2 settembre 2014, atteso che il decreto commissariale n. 109 del 19 novembre 2013, gravato in prime cure, era stato superato dal successivo decreto commissariale n. 45 del 4 luglio 2014, non impugnato.

Il Supremo Consesso rileva, in primo luogo, che “la circostanza secondo cui gli odierni appellanti avrebbero impugnato anche il decreto commissariale n. 45 del 4 luglio 2014 era stata rappresentata dagli stessi solo nell’istanza di rinvio depositata in extremis l’8 novembre 2016, e non è mai stata dedotta né nell’appello né nelle memorie depositate ai sensi dell’art. 73 c.p.a.”.

Secondariamente, il Collegio richiama e fa proprie tutte le motivazioni esposte dalla Sezione in altra recentissima sentenza n. 4597 del 2 novembre 2016, avente ad oggetto la medesima questione giuridica, in cui aveva dichiarato improcedibile il ricorso proposto in primo grado da altre strutture avverso il solo decreto n. 109 del 2013, senza impugnare il successivo n. 45 del 2014. Ed invero, questo secondo decreto, contrariamente alla tesi sostenuta dagli appellanti, non aveva natura meramente confermativa del primo decreto, ma innovativa rispetto allo stesso.

Alla luce delle suesposte considerazioni, il Giudice Amministrativo dell’appello dichiara l’improcedibilità, poiché “la mancata impugnativa del decreto n. 45 del 2014, che non costituisce provvedimento meramente attuativo del decreto n. 109 del 2013, rende improcedibile il ricorso di primo grado, come ha correttamente ritenuto il T.A.R. per la Campania nella sentenza impugnata”. FM

 



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Inserito in data 13/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 9 dicembre 2016, n. 5193

La società mista può essere sciolta per violazione del principio di economicità

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Collegio ritiene che il mero profilo del non adeguato perseguimento delle finalità istituzionali da parte di una società mista a prevalente partecipazione pubblica costituita per l’affidamento di un servizio pubblico (gestione di uno stabilimento balneare) “sia congruo e ragionevole per giustificare, dal punto di vista dell’ente pubblico, la decisione di dar luogo al suo scioglimento (visti anche i rilievi generali circa le partecipazioni societarie degli enti locali di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 3 giugno 2010, n. 11)”.

Pertanto, deve ritenersi legittima la delibera consiliare con cui si rileva che le condizioni economiche previste dai «patti parasociali e dallo statuto sono antieconomiche e di fatto spossessano il Comune da ogni beneficio economico».

In tal caso, infatti, “il modello societario per il servizio pubblico di gestione dell’area demaniale non è efficace, né economico, laddove dovrebbe essere improntato all’economicità, efficacia ed efficienza, oltre che corrispondere ad una finalità propria dell’ente”.

Del resto, il Consesso richiama la sentenza della Corte costituzionale 20 luglio 2012, n. 199, secondo cui “i servizi pubblici di rilevanza economica possono essere gestiti vuoi mediante il mercato, vuoi attraverso il partenariato pubblico-privato (ossia mediante una società mista, e dunque con una “gara a doppio oggetto” per la scelta del socio e poi per la gestione del servizio), vuoi attraverso l’affidamento diretto, in house; la preferenza per l’uno o l’altro modello costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che va adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano (in termini anche Cons. Stato, V, 22 gennaio 2015, n. 257)”.

In analoga direzione muove la disposizione di cui all’art. 34, comma 20, d.-l. 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese) convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, secondo cui “l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per l’affidamento della forma prescelta”. EF

 



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Inserito in data 12/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 7 dicembre 2016, n. 5187

Obbligo di provvedere della PA e Commissario ad acta 

Con la decisione emarginata in epigrafe il Collegio accoglie l’appello  proposto avverso una ordinanza emessa dal TAR Lazio concernente la ottemperanza di una sentenza relativa alla illegittimità del silenzio illegittimamente serbato dalla amministrazione sulla istanza di adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi (e per il quale la succitata pronuncia del T.A.R. aveva ordinato alla Amministrazione  comunale di provvedere sull’istanza dei ricorrenti, recante richiesta di adozione dei provvedimenti più idonei a sanzionare le opere realizzate dalla resistente in primo grado su area demaniale contigua alla proprietà dei ricorrenti).

   Nella ordinanza predetta, che ha deciso sulla istanza di nomina del Commissario ad acta) proposta dai ricorrenti, si afferma “di non esservi più luogo a nominare il Commissario” giacché,  “medio tempore, il giudice di primo grado aveva annullato l’annullamento delle SCIA all’epoca presentate dalla contro interessata odierna appellata” .

    Più precisamente, si legge nella ordinanza appellata che “non sussistono più gli estremi per disporre la nomina dell’organo ausiliario del giudice in quanto la succitata sentenza *** ha sostanzialmente contraddetto quanto ritenuto dai ricorrenti nell’atto di significazione e diffida in cui si presupponeva la insussistenza di qualsivoglia titolo edilizio abilitante la realizzazione delle opere allo stato insistenti sull’area demaniale in concessione alla società contro interessata”. Sostanzialmente, nella ordinanza de quo si afferma che, “il commissario ad acta non potrebbe compiere alcun atto se non in violazione della sentenza in argomento”.

    Ed invece, tra le argomentazione contenute nell’appello avverso la ordinanza, si evidenzia che “per concludere il procedimento avviato dall’odierno appellante, è  necessario che l’Amministrazione adotti un provvedimento espresso, anche meramente ricognitorio, con il quale determini effettivamente se i manufatti indicati nell’istanza formulata su citata sono da ritenersi legittimamente realizzati o meno”.

    Al contrario, la odierna appellata (e resistente in primo grado)   afferma la opposta tesi secondo la quale “non via sia più la esigenza di un provvedimento espresso della amministrazione comunale giacché, per effetto della sentenza emessa dal giudice di prime cure, è stata  assodata l’insussistenza dei presupposti per l’annullamento in sede amministrativa delle S.C.I.A. a suo tempo presentate dalla società resistente in primo grado ed odierna appellata”.

    Orbene, il Collegio rileva, accogliendo la tesi della appellante, che “l’intervenuto annullamento giurisdizionale dell’annullamento comunale delle due segnalazioni certificate di inizio attività di cui si è fatta menzione, non integra di per sé adempimento, né dunque superamento dell’obbligo della Amministrazione comunale di provvedere in modo espresso; obbligo che è stato ormai definitivamente accertato dal giudicato della cui ottemperanza qui trattasi”.

    Ed invero, sotto tale profilo, “gli effetti di detto annullamento giurisdizionale dovranno (siccome ancora devono) essere fatti oggetto di valutazione da parte dell’Amministrazione comunale (ovvero, in sua vece, dall’Ausiliario del Giudice che, stante l’inerzia, si va qui a nominare) e, conseguentemente, finché ciò non sia avvenuto resta precluso al giudice amministrativo – stante l’espressa previsione dell’art. 34, comma 2, c.p.a., ai sensi del quale “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” – di conoscere del contenuto di tali valutazioni (come ha erroneamente ritenuto di poter fare l’appellata ordinanza).

    Più in particolare, resta rimesso all’Amministrazione (ovvero in suo luogo al nominando ausiliario, per il caso di persistente inerzia) di valutare gli effetti del predetto annullamento nell’ambito della complessiva sequenza provvedimentale riguardante i manufatti di cui trattasi e la loro tuttora controversa legittimità edilizia. PC

 



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Inserito in data 10/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 7 dicembre 2016, n. 24

Applicabilità delle sanzioni pecuniarie per tardivo pagamento dei contributi di costruzione

“Un’amministrazione comunale ha il pieno potere di applicare, nei confronti dell’intestatario di un titolo edilizio, la sanzione pecuniaria prescritta dalla legge per il caso di ritardo ovvero di omesso pagamento degli oneri relativi al contributo di costruzione anche ove, in caso di pagamento dilazionato di detto contributo, abbia omesso di escutere la garanzia fideiussoria in esito alla infruttuosa scadenza dei singoli ratei di pagamento ovvero abbia comunque omesso di svolgere attività sollecitatoria del pagamento presso il debitore principale”.

Tale principio si impone alla luce delle previsioni delle disposizioni normative applicabili alla fattispecie, nonché alla luce dei principi generali dell’ordinamento.

Risulta, infatti, “sfornita di base normativa ogni opzione interpretativa che correli il potere sanzionatorio del comune al previo esercizio dell’onere di sollecitazione del pagamento presso il debitore principale ovvero presso il fideiussore.”

Infatti, “ il sistema di pagamento del contributo di costruzione è caratterizzato dalla presenza solo eventuale di una garanzia prestata per l’adempimento del debito principale e di un parallelo strumento a sanzioni crescenti, con chiara funzione di deterrenza dell’inadempimento, che trova applicazione, in base alla legge, al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligato principale”.

“In tale sistema, l’amministrazione comunale, allo scadere del termine originario di pagamento della rata ha solo la facoltà di escutere immediatamente il fideiussore onde ottenere il soddisfacimento del suo credito; ma ove ciò non accada, l’amministrazione avrà comunque il dovere/potere di sanzionare il ritardo nel pagamento con la maggiorazione del contributo a percentuali crescenti all’aumentare del ritardo. Peraltro, solo alla scadenza di tutti termini fissati al debitore per l’adempimento (e quindi dopo aver applicato le massime maggiorazioni di legge), l’Amministrazione avrà il potere di agire nelle forme della riscossione coattiva del credito nei confronti del debitore principale ( art. 43 d.P.R. n. 380 del 2001). La portata di tale ultima disposizione è peraltro tale da ritenere che l’amministrazione, se pure non è impedita dallo svolgere attività sollecitatoria dei pagamenti ( senza attingere al rimedio straordinario della riscossione coattiva) in occasione delle scadenze dei termini intermedi cui sono correlati gli aumenti percentuali del contributo secondo il già indicato modello, è certo facultata ad attendere il volontario pagamento da parte del debitore (e eventualmente del suo fideiussore), salvo in ogni caso restando il suo potere-dovere di applicare le sanzioni di legge per il ritardato pagamento”.

Tale  potere/dovere di applicare le sanzioni è subordinato al verificarsi dell’ “unico presupposto fattuale” del ritardo nel pagamento da parte dell’intestatario del titolo edilizio, con la conseguenza che la mancata escussione del fideiussore da parte dell’amministrazione “non può tradursi, in difetto di espressa previsione normativa, in una decadenza dell’amministrazione dal potere di sanzionare il pagamento tardivo dell’obbligato”.

Né la soluzione muterebbe attingendo ai canoni interpretativi di matrice civilistica.

Infatti, “quale che sia l’approccio interpretativo che si voglia seguire, si deve ritenere che resti in ogni caso integro il potere-dovere della amministrazione comunale di applicare le sanzioni pecuniarie per il ritardo nel pagamento dei contributi di costruzione al semplice verificarsi delle condizioni previste dalla legge, dovendosi per contro escludere la sussistenza di un obbligo di preventiva escussione della garanzia fideiussoria”.

“La stretta osservanza del principio di legalità, imposta dalla rigorosa applicazione del canone interpretativo - letterale delle disposizioni richiamate, comporta pertanto che va ritenuta legittima l’applicazione delle sanzioni per il ritardo, a prescindere da richieste di pagamento che siano potute venire all’interessato o al suo fideiussore dalla amministrazione concedente il titolo edilizio”. GB

 



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Inserito in data 09/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 5 dicembre 2016, n. 5106

La demo-ristrutturazione edilizia presuppone l’esatta consistenza dell’immobile preesistente

La controversia decisa dalla Sesta Sezione con la sentenza in epigrafe, verte sull’annullamento del provvedimento amministrativo con cui era stata annullata un’autorizzazione paesaggistica per la ristrutturazione di un fabbricato da adibire a bar e gelateria.

In particolare, i ricorrenti deducevano il mancato rispetto del termine di cui all’articolo 159, comma 3 del d.lgs. n. 42/2004 (“Codice dei beni culturali e del paesaggio”) e l’inesistenza di un valido provvedimento di annullamento, nonché il mancato rispetto dell’art. 8 della legge n. 241/1990 (“Legge sul procedimento amministrativo”) e l’eccesso di potere per erroneità e contraddittorietà della motivazione.

Ad avviso del Supremo Consiglio, il primo giudice ha errato nell’affermare che l’edificio in questione “non esiste più come entità edilizia rilevante nell’attualità e dunque la sua ricostituzione si configura come una nuova trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, assoggettata al rispetto delle relative prescrizioni”.

In realtà, ciò non è condivisibile sia alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato sia in ragione ai contenuti della legge regionale n. 19 del 28 dicembre 2009, come modificata dall’art. 1 della legge regionale n. 1 del 5 gennaio 2011 che, introducendo l’art. 8 bis, consente il recupero edilizio in deroga agli strumenti urbanistici vigenti mediante intervento di ricostruzione in sito di edifici diruti e di ruderi, purché ne siano comprovate la preesistenza, la consistenza e l’autonomia funzionale.

Sul primo motivo, il Collegio osserva che se, da un lato, l’Amministrazione non può adottare il provvedimento oltre il termine di decadenza, dall’altro, essa può provvedere prima della sua scadenza su richiesta dei privati; quel termine è sospeso al fine di consentire all’Amministrazione l’esame della documentazione dagli stessi presentata.  Ne deriva che “la sospensione riguarda solo il termine non anche il potere dell’Amministrazione di provvedere”.

Di conseguenza, la Sesta Sezione rileva parimenti l’infondatezza del motivo di appello diretto a lamentare la violazione del termine previsto dall’art. 159, comma 3 del codice citato, per l’esercizio del potere di annullamento da parte dell’Amministrazione.

Invero, la giurisprudenza amministrativa è pacificamente orientata nel ritenere che entro il termine perentorio di sessanta giorni previsto dall’art. 159, comma 3, debba avvenire solo l’adozione e non anche la successiva comunicazione del provvedimento di annullamento d’ufficio per l’esercizio del potere di controllo da parte dell’Amministrazione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2016, n. 356; Cons. Stato, Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 5101; Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 700).

Nel caso di specie, peraltro, è da escludere l’insorgenza di un affidamento qualificato in capo al privato, poiché la comunicazione del provvedimento di annullamento, sebbene avvenuta dopo la scadenza del termine di sessanta giorni dalla ricezione degli atti, è stata compiuta in un termine ragionevole.

Infondato, infine, il motivo di appello diretto a sostenere che la ricostruzione del rudere sia qualificabile come ristrutturazione edilizia tutte le volte in cui sia possibile risalire comunque alla originaria consistenza del manufatto.

Ad avviso del Collegio, la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15 settembre 2006 n. 5375).

Occorre, quindi, la possibilità di procedere, con un sufficiente grado di certezza, alla ricognizione degli elementi strutturali dell’edificio, in modo tale che, seppur non necessariamente “abitato” o “abitabile”, esso possa essere comunque individuato nei suoi connotati essenziali, come identità strutturale, in relazione anche alla sua destinazione.

Del resto, come chiarito dalla giurisprudenza, “la c.d. demo-ricostruzione – ovvero un’incisiva forma di recupero di preesistenze comunque assimilabile alla ristrutturazione edilizia – tradizionalmente pretende la pressoché fedele ricostruzione di un fabbricato identico a quello già esistente, dalla cui strutturale identificabilità, come organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, non si può dunque, in ogni caso, prescindere” (Cons. Stato, sez. V, 10 febbraio 2004, n. 475).

L'attività di ricostruzione di ruderi è stata invece concordemente considerata, a tutti gli effetti, realizzazione di una nuova costruzione (cfr. Cass. pen. 20 febbraio 2001, n. 13982; Cons. Stato, V, 1° dicembre 1999, n. 2021), avendo questi perduto i caratteri dell’entità urbanisitco - ediliza originaria sia in termini strutturali che funzionali. DU

 



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Inserito in data 07/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 5 dicembre 2016, n. 5108

Il Consiglio di Stato si sofferma sui caratteri della motivazione degli atti processuali e degli atti amministrativi

Oggetto della sentenza in esame è un provvedimento della Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici con cui è stata negata l’autorizzazione ad eseguire un intervento edificatorio su immobile sito in area interessata da vincolo paesaggistico d’insieme non comportante divieto assoluto di edificabilità.

In particolare, il titolare dell’immobile in questione aveva presentato allo Sportello Unico per l’edilizia  la domanda di autorizzazione per un intervento di ristrutturazione edilizia (consistente nella demolizione di un preesistente magazzino e nella conseguente ricostruzione di un piccolo villino bifamiliare di due piani fuori terra), ma la Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici aveva espresso parere negativo, ritenendo l’intervento in questione “molto impattante nel contesto paesaggistico poiché fortemente percepito dal Paesaggio Naturale nelle immediate vicinanze”. Il proprietario aveva, quindi, impugnato il diniego della Soprintendenza innanzi al T.a.r., il quale, con sentenza, aveva accolto il ricorso, ritenendo fondata la contestazione del difetto di motivazione del provvedimento in questione.

Per ottenere la riforma della suddetta sentenza, il Ministero per i beni e le attività culturali e la Soprintendenza per i beni architettonici paesaggistici storici e artistici hanno proposto appello, sostenendo,  in primo luogo, che la sentenza appellata sarebbe nulla in quanto carente di motivazione, perché priva dell’esposizione “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” (mancherebbe, in particolare, secondo le Amministrazioni appellanti, ogni riferimento alla proposta di parere favorevole presentata da un comune della zona). In ogni caso, sempre ad avviso delle Amministrazioni appellanti, la sentenza sarebbe erronea nel merito perché, a differenza di quanto ritenuto dal T.a.r., il parere negativo espresso dalla Soprintendenza sarebbe adeguatamente motivato.

Orbene, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, afferma che entrambe le censure suesposte sono infondate.

 Nello specifico, il Supremo Consesso evidenzia che la sentenza appellata “nel rispetto del principio di sinteticità degli atti processuali, contiene una motivazione del tutto esaustiva, che espone, in maniera concisa, tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti ai fini della decisione”. Infatti, continua il Collegio, la mancata espressa menzione del parere favorevole espresso da un Comune della zona interessata “non incide negativamente sulla tenuta dell’impianto motivazionale della sentenza appellata. Basti considerare che l’oggetto del giudizio non era (e non è) il parere favorevole espresso dal Comune, ma il parere negativo successivamente espresso dalla Soprintendenza. Scrutinando la legittimità di tale parere negativo il T.a.r. ha chiaramente enunciato gli elementi di fatto e di diritto sulla cui base ha ritenuto che esso fosse carente di motivazione e, dunque, illegittimo”. Sul punto la Sesta Sezione richiama anche la costante giurisprudenza secondo cui “nella redazione della motivazione, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione e argomentazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 1 c.p.c., che esponga in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo” (cfr. ex multis, Cass. Civ. Sez. Vi, 2 dicembre 2014, n. 25509). In senso analogo, peraltro, viene anche richiamata l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che, a sua volta, ha precisato che “non costituisce vizio di revocazione per errore di fatto l’omessa pronuncia, da parte del giudice, su tutte le argomentazioni poste dalla parte a sostegno del medesimo motivo di ricorso”.

Passando ad esaminare la vicenda nel merito, il Consiglio di Stato afferma che «il provvedimento impugnato è totalmente carente di motivazione, limitandosi ad affermare, in maniera apodittica e, di fatto, tautologica, che l’intervento edilizio non può essere autorizzato in quanto “l’architettura che ne deriva risulta molto impattante nel contesto paesaggistico, poiché fortemente percepito dal Paesaggio naturale nelle immediate vicinanze”. Al di là del generico richiamo al forte impatto (e alla forte percezione da parte del “Paesaggio Naturale”) non vi è, tuttavia, l’indicazione di alcun concreto elemento volto a supportare tale giudizio negativo o ad esplicitare sotto quale profilo, in che misura, per quale specifica ragione si afferma l’esistenza di un “forte impatto” preclusivo dell’intervento».

Anche in tal caso la Sesta Sezione richiama una pacifica giurisprudenza (cfr., tra le tante, Con. Stato, sez. VI, 24 marzo 2014, n. 1418; Cons.. Stato, sez. VI, 21 febbraio 2008, n. 653) secondo cui “l’Amministrazione non può limitarsi ad esprimere valutazioni apodittiche e stereotipate, ma deve specificare le ragioni del diniego ovvero esplicitare i motivi del contrasto tale opere da realizzarsi e le ragioni di tutela dell’area interessata dall’apposizione del vincolo. Non è sufficiente, quindi, la motivazione del diniego all’istanza di autorizzazione fondata su una generica incompatibilità, non potendo l’Amministrazione limitate la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe e formule stereotipate”.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il Consesso conclude che la sentenza appellata merita, quindi, di essere confermata e l’appello respinto. FM 


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Inserito in data 06/12/2016
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 2 dicembre 2016, n. 1201

Avvalimento e soccorso istruttorio nel nuovo codice dei contratti

L’art. 89 del nuovo codice dei contratti, nel disciplinare l’istituto dell’avvalimento, prescrive specificamente che “… L'operatore economico dimostri alla stazione appaltante che disporrà dei mezzi necessari mediante presentazione di una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria con cui quest'ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell'appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente…”.

Tale assetto normativo ha recepito il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa (recentissimamente suggellato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 4 novembre 2016, n. 23) che ha “rimarcato la necessità di indicare nel contratto di avvalimento, con appropriato grado di determinatezza o determinabilità, i mezzi concreti che l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata, evidenziando altresì che l'esigenza di una puntuale individuazione dell'oggetto dell'avvalimento, oltre ad avere un sicuro ancoraggio sul terreno civilistico negli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., che configurano quale causa di nullità del contratto l'indeterminatezza ed indeterminabilità del relativo oggetto, trova la propria essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 gennaio 2016, n. 264, e 6 giugno 2016, n. 2384).”

Pertanto, “la mera riproduzione tautologica”, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle "risorse necessarie di cui è carente il concorrente", o espressioni equivalenti, è stata ritenuta insufficiente, “con conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara pubblica dell'impresa che abbia fatto ricorso all'avvalimento producendo un contratto che non contiene alcuna analitica e specifica elencazione od indicazione delle risorse e dei mezzi in concreto prestati.”

In particolare, l'avvalimento di un requisito di natura tecnica “non può essere generico (e cioè non si può limitare... ad un richiamo 'meramente cartaceo o dichiarato' allo svolgimento da parte dell'ausiliaria di attività che evidenzino le sue precedenti esperienze), ma deve comportare il trasferimento, dall'ausiliario all'ausiliato, delle competenze tecniche acquisite con le precedenti esperienze (trasferimento che, per sua natura, implica l'esclusività di tale trasferimento, ovvero delle relative risorse per tutto il periodo preso in considerazione dalla gara) (Cons. Stato, sez. V, 23 febbraio 2015, n. 864).”

La rilevata genericità del contratto di avvalimento non può essere sanata attraverso l’attivazione del soccorso istruttorio, atteso che, il nuovo codice dei contratti pubblici detta una disposizione normativa che sancisce espressamente l’inutilizzabilità dell’istituto in esame “per sopperire alle irregolarità che impediscono in maniera radicale di individuare il contenuto della documentazione.” GB

 



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Inserito in data 05/12/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 2 dicembre 2016, n. 5064

Domanda riconoscimento servizi pre ruolo e termine prescrizionale

Con la decisione emarginata in epigrafe, la sesta sezione del Consiglio di Stato afferma, in punto di prescrizione, che “ai fini della presentazione della domanda di riconoscimento dei servizi pre ruolo, il termine annuale previsto dall’art. 103, comma 4, del D.P.R. n. 382 del 1980 (Il riconoscimento dei servizi di cui ai precedenti commi può essere chiesto entro un anno dalla conferma in ruolo), non ha natura perentoria; ed infatti, per costante giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, VI, 27-7-2011, n. 4494; VI, 4-2-2014, n.522) il legislatore delegato non ha ripetuto l’espressione “a pena di decadenza”, contenuta nella precedente normativa, che è stata abrogata per incompatibilità”.

    Esclusa la natura perentoria ed in carenza di contraria previsione normativa derogatoria, il Collegio, dunque, ritiene operante la disposizione generale di cui all’art. 2946 cod. civ. secondo la quale  “Salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”.      Orbene, nella controversia sottoposta allo scrutinio del Collegio, il termine prescrizionale per proporre la domanda finalizzata al riconoscimento del servizio pre ruolo non è decorso.

    Viene, dunque, confermata la reiezione della eccezione di prescrizione sollevata dalla Amministrazione appellante.

    Di conseguenza, rileva il Collegio, “trova applicazione la portata retroattiva della sentenza della Corte Costituzionale n. 191 del 2008” che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 103, comma 3, d.P.R. 11 luglio 1980 n. 382 nella parte in cui non riconosce ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, l'attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati con almeno tre anni di attività di ricerca. PC 

 



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Inserito in data 03/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 29 novembre 2016, n. 5025

Sul nesso di causalità nell’ambito della responsabilità della P.A.

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato, dopo aver ricordato che “gli elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione, sul piano della fattispecie, sono: i) l’elemento oggettivo; ii) l’elemento soggettivo; iii) il nesso di causalità materiale o strutturale; iv) il danno ingiusto, inteso come lesione della posizione di interesse legittimo e, nella materie di giurisdizione esclusiva, di diritto soggettivo”, si sofferma sul rapporto di causalità.

In particolare, osserva che “sul piano delle conseguenze e, dunque, delle modalità di determinazione del danno, il fatto lesivo, così come sopra individuato, deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi subiti dalla parte danneggiata (Cass., 17 settembre 2013, n. 21255, ritiene, invece, che anche tale fase, avendo rilevanza causale, debba essere inserita nell’ambito della fattispecie)”.

A tal uopo, “questa Sezione ha già avuto modo di ricostruire, con la citata sentenza 29 maggio 2014, n. 2792, la nozione di nesso di causalità nell’ambito di una più ampia ricostruzione che ha riguardato anche la natura giuridica della responsabilità della p.a.”.

In tale occasione, infatti, il Collegio ha precisa che “nel modello di responsabilità civile il rapporto di causalità materiale, non sussistendo alcun legame tra danneggiante e danneggiato, è finalizzato ad individuare l'autore del fatto illecito e, in particolare, colui che ha cagionato la lesione della posizione giuridica protetta e dunque il danno ingiusto”.

In particolare, “la giurisprudenza e la dottrina civilistica, mutuando l'elaborazione penalistica e le regole contenute negli articoli 40 e 41 cod. pen., hanno fatto applicazione della cosiddetta teoria condizionalistica. Tale teoria presuppone l'effettuazione di un giudizio controfattuale finalizzato a stabilire se, eliminando o, negli illeciti omissivi, aggiungendo, quella determinata condotta l'evento si sarebbe ugualmente verificato”.

Tuttavia, “la suddetta ricostruzione deve essere integrata con la teoria della sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura nelle ipotesi in cui, alla luce delle conoscenze specialistiche di quel determinato momento storico, non è dato sapere se quella condotta possa avere efficacia causale nella determinazione del danno.

Il rapporto di causalità, così ricostruito, deve essere, poi, delimitato, in applicazione della teoria della causalità adeguata, in modo da assegnare valenza eziologica soltanto a quelle condotte che sono idonee, secondo un giudizio prognostico ex ante, a cagionare quel determinato evento. In altri termini, occorre verificare se vi sia una relazione di regolarità causale tra condotta ed evento”.

Il giudice civile dovrà, infine, “nel corso del giudizio, accertare, applicando le teorie sopra esposte, l'esistenza di un rapporto di causalità secondo la regola probatoria del "più probabile che non" (cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581)”.

E’, dunque, evidente che “la modalità di svolgimento dell'accertamento istruttorio costituisce la principale differenza rispetto alla responsabilità penale, nell'ambito della quale la diversità di beni giuridici tutelati impone che l'autore del reato venga individuato "al di là di ogni ragionevole dubbio" (Cass. pen., sez. un., 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese)”.

Così ricostruito il rapporto di causalità materiale “occorre poi valutare, sul piano della causalità giuridica, quali siano le conseguenze patrimoniali derivanti dal fatto lesivo posto in essere”.

Sul punto, deve rammentarsi che “nel modello della responsabilità contrattuale non è necessario ricorrere alle teorie elaborate per ricostruire il nesso di causalità materiale, in quanto, sussistendo un rapporto giuridico tra creditore e debitore, si conosce già l'autore dell'illecito. In questo ambito rileva soltanto il nesso di causalità giuridica finalizzato a determinare i pregiudizi effettivamente subiti dal danneggiato (art. 1223 cod. civ.).

Nel modello della responsabilità della pubblica amministrazione la sua specialità derivante dall’esistenza di un rapporto tra parte pubblica e privata che la rende maggiormente assimilabile alla responsabilità contrattuale. Tale peculiarità incide anche sulla ricostruzione del rapporto di causalità assegnandogli una valenza non del tutto riconducibile alla teorie elaborate in ambito civilistica”.

Orbene, “la normale esistenza del predetto rapporto induce a ritenere che in questo caso, come in presenza di illeciti contrattuali, non sia necessario individuare l'autore del fatto lesivo”.

D’altra parte, “la rilevanza delle teorie della causalità materiale si apprezza sotto altro aspetto: la ricostruzione del nesso eziologico è necessaria al fine di valutare se la condotta della pubblica amministrazione sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L'accertamento della lesione dell'interesse legittimo - in ragione della stretta connessione con il potere pubblico - richiede, infatti, l'effettuazione di un giudizio prognostico mediante il ricorso alla teoria condizionalistica, integrata, ove occorra, dal modello della sussunzione sotto leggi scientifiche e corretta dalla teoria della causalità adeguata”.

La ricostruzione del nesso eziologico è necessaria “al fine di valutare se la condotta della pubblica amministrazione sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L’accertamento della lesione dell’interesse legittimo – in ragione della stretta connessione con il potere pubblico – richiede, infatti, l’effettuazione di un giudizio prognostico mediante il ricorso alla teoria condizionalistica, integrata, ove occorra, dal modello della sussunzione sotto leggi scientifiche e corretta dalla teoria della causalità adeguata”.

A tale proposito è necessario distinguere due diverse fattispecie.

La prima fattispecie ricorre “nel caso in cui la parte abbia proposto sia l’azione di invalidità sia l’azione di responsabilità e l’esito del giudizio amministrativo di annullamento di un determinato provvedimento consente il riesercizio di poteri amministrativi discrezionali. In queste ipotesi la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha costantemente ritenuto che il giudice amministrativo non possa effettuare, per evitare di invadere sfere di valutazione che la Costituzione riserva alla pubblica amministrazione, il predetto giudizio prognostico. Si ritiene, infatti, necessario attendere che l’amministrazione rinnovi il procedimento emendato dal vizio riscontrato in sede giudiziale e soltanto se all’esito di tale giudizio si accerta che il privato aveva “diritto” a quel determinato bene della vita sarà possibile ottenere, ricorrendo gli altri presupposti, il risarcimento del danno. In questo caso, pertanto, svolgendosi un giudizio di spettanza, la regola probatoria applicata è quella della “certezza” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6260; sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4452; V, 27 marzo 2013, n. 1781; V, 8 febbraio 2011, n. 854)”.

La seconda fattispecie ricorre “nel caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata o l’amministrazione abbia esaurito la discrezionalità ovvero nel caso in cui non sia possibile la rinnovazione procedimentale. In queste ipotesi il giudice amministrativo, senza il rischio di sovrapporre il proprio giudizio alle valutazioni dell’autorità pubblica, può effettuare un giudizio prognostico applicando, con i necessari adattamenti, le regole elaborate in ambito civilistico per ricostruire il nesso di causalità”.

A tale ultimo proposito, “occorre ulteriormente distinguere a seconda che sia stato chiesto il risarcimento del danno da lucro cessante ovvero il danno da perdita di chance ovvero, in via alternativa, entrambi”: nel primo caso la parte “deve dimostrare che è “più probabile che non” che senza l’illegittimità accertata la stessa avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto”; mentre nella seconda ipotesi “la parte deve dimostrare non la perdita del “risultato” favorevole, ma la perdita di una “occasione” favorevole, senza che si possano applicare rigidamente regole statistiche correlate alle percentuali di “successo” (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014 n. 7195)”. EF 


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Inserito in data 02/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 novembre 2016, n. 5026

Illegittimità della revoca dell’aggiudicazione di appalti pubblici

Il corretto esercizio del potere di revoca in autotutela delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici è ancorato a “parametri ancora più stringenti” rispetto alla disciplina generale prevista per la  revoca dei provvedimenti amministrativi, imponendo “l’onere di una ponderazione particolarmente rigorosa di tutti gli interessi coinvolti”.

“Il ritiro di un’aggiudicazione illegittima postula, in particolare, la sopravvenienza di ragioni di interesse pubblico (o una rinnovata valutazione di quelle originarie) particolarmente consistenti e preminenti sulle esigenza di tutela del legittimo affidamento ingenerato nell’impresa che ha diligentemente partecipato alla gara, rispettandone le regole e organizzandosi in modo da vincerla, ed esige, quindi, una motivazione particolarmente convincente circa i contenuti e l’esito della necessaria valutazione comparativa dei predetti interessi (cfr. Cons. St., sez. V, 19 maggio 2016, n.2095)”.

Quando “il ripensamento dell’Amministrazione”  si appunta sulle caratteristiche dell’oggetto dell’appalto, il provvedimento di ritiro dell’aggiudicazione è legittimo se si fonda “sulla sicura verifica dell’inidoneità della prestazione descritta nella lex specialis a soddisfare le esigenze contrattuali che hanno determinato l’avvio della procedura”.

Pertanto,” l’aggiudicazione della gara a un’impresa che ha diligentemente confezionato la sua offerta in conformità alle prescrizioni della lex specialis può essere validamente rimossa, con lo strumento della revoca, solo nell’ipotesi eccezionale in cui una rinnovata (e, comunque, tardiva) istruttoria ha rivelato l’assoluta inidoneità della prestazione inizialmente richiesta dalla stessa Amministrazione (e, quindi, dovuta dall’aggiudicatario) a soddisfare i bisogni per i quali si era determinata a contrarre”.

Né può giudicarsi idoneo a giustificare la revoca “un ripensamento circa il grado di satisfattività della prestazione messa a gara”.

“Se si ammettesse, infatti, la revocabilità delle aggiudicazioni sulla sola base di un differente e sopravvenuto apprezzamento della misura dell’efficacia dell’obbligazione dedotta a base della procedura, si finirebbe, inammissibilmente, per consentire l’indebita alterazione delle regole di imparzialità e di trasparenza che devono presidiare la corretta amministrazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, con inaccettabile sacrificio dell’affidamento ingenerato nelle imprese concorrenti circa la serietà e la stabilità della gara, ma anche con un rischio concreto di inquinamento e di sviamento dell’operato delle stazioni appaltanti”.

L’esercizio dei poteri di autotutela finalizzati al ritiro dell’aggiudicazione definitiva impone, altresì, alla stazione appaltante “di assicurare la partecipazione dell’impresa aggiudicataria, onde consentirle di tutelare adeguatamente, in sede procedimentale, la posizione qualificata validamente acquisita, per mezzo della necessaria osservanza della prescrizione di cui all’art.7 della legge n.241 del 1990 (cfr. ex multis Cons., St., sez. V, 27 aprile 2011, n. 2456)”. GB

 



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Inserito in data 01/12/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 29 novembre 2016, n. 5023

Oneri di bonifica derivanti da inquinamento: il Consiglio di Stato si allinea alla CGUE

Oggetto della sentenza in esame è un decreto direttoriale del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio - riguardante le determinazioni conclusive di una conferenza di servizi decisoria relativa alla bonifica di un sito di interesse nazionale - con cui ad un’importante azienda di idrocarburi sono stati ordinati una serie di onerosi interventi di bonifica, per la salvaguardia e il recupero del territorio interessato.

 L’impresa in questione, ricorrendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, lamenta l’illegittimità del provvedimento ministeriale, in quanto, a suo dire, l’Amministrazione non avrebbe fatto buon uso, nel caso di specie, del principio di derivazione comunitaria secondo il quale “chi inquina paga”, addossando alla stessa azienda oneri gravosi quale conseguenza di comportamenti e risultati (l’inquinamento) ad essa sicuramente non imputabili. Ma non solo, sempre ad avviso di parte ricorrente, sarebbe stata addirittura ribaltata l’impostazione logico-giuridica sottostante al suddetto principio, proprio in considerazione della scelta di addebitare comunque “gli oneri di approntamento della bonifica in attesa della scoperta degli effettivi autori dell’inquinamento, senza preoccupazione alcuna in ordine all’eventualità che detti autori non si individuassero mai ovvero, quando pure individuati, non risultassero in grado di sopportare gli oneri di bonifica”.

Le doglianze suesposte però non sono state accolte né dal TAR né, inizialmente, dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato; quest’ultima, infatti, si è pronunciata con sentenza non definitiva, in quanto ha ritenuto di dover sospendere il giudizio, essendo stata posta dall’Adunanza Plenaria in via incidentale – nell’ambito di altro contenzioso su temi analoghi – una questione interpretativa al vaglio della CGUE.

Il giudice europeo chiamato a valutare disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 (recante norme in materia ambientale) i cui contenuti perimetrano un ambito oggettivo di applicazione sovrapponibile alla vicenda in esame ha affermato che “La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.”.

Orbene, a seguito della suddetta pronuncia della CGUE , il giudizio sospeso è stato riassunto e (in sede di riassunzione) la stessa azienda appellante ha depositato proprie memorie, rilevando la possibile applicazione al suo caso delle conclusioni cui è giunta la Corte di Giustizia Europea disaminando quello ad essa sottoposto. In particolare, sono state evidenziate, a tal riguardo, le disposizioni di cui all’art. 253, co. 4, del citato decreto delegato, le quali stabiliscono che:

 “Nel caso in cui il proprietario non responsabile dell'inquinamento abbia spontaneamente provveduto alla bonifica del sito inquinato, ha diritto di rivalersi nei confronti del responsabile dell'inquinamento per le spese sostenute e per l'eventuale maggior danno subito.”;

 “In ogni caso, il proprietario non responsabile dell'inquinamento può essere tenuto a rimborsare, sulla base di provvedimento motivato e con l'osservanza delle disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, le spese degli interventi adottati dall'autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi.”.

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato, rivalutando la fattispecie alla luce della pronuncia europea, ha, quindi, affermato che nel caso in questione “mancando un intervento di bonifica effettuato direttamente da soggetti privati, all’intervento resti conseguentemente tenuto (d’ufficio) l’ente pubblico a ciò preposto, allo stesso comunque competendo l’onere di garantire alla collettività il recupero (bonifica) dei siti danneggiati da inquinamento”. Pertanto, conclude il Consesso, essendo ignoto (per quanto è dato sapere) il soggetto cui addebitare l’azione di compromissione specifica dell’ambiente interessato, non può essere ascritta all’azienda ricorrente la responsabilità di un inquinamento derivante da fattori che non le si ricollegano, ed è da escludere che da tale società possa ragionevolmente attendersi un’azione diretta e personale di bonifica. FM 


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Inserito in data 30/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 novembre 2016, n. 5001

La rilevanza dell’assolvimento degli obblighi fiscali in materia di tariffe incentivanti

Il punto centrale della controversia oggetto della pronuncia in esame è la sussistenza o meno dell’obbligo della società appellante di presentare la denuncia di attivazione di officina elettrica all’Ufficio Tecnico di Finanza (da ora UTF) insieme alla comunicazione di inizio di attività.

Il Supremo Collegio procede preliminarmente alla ricognizione normativa delle tariffe incentivanti riguardanti l’energia elettrica da impianti solari fotovoltaici, e rileva tutta una serie di obblighi da assolvere, tra i quali gli obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di produzione di energia elettrica.

In particolare, la Quarta Sezione rileva che nell’allegato 3.2 lettera h), del decreto ministeriale n. 212 del 6 agosto 2010 (“Termini, modalità e procedure per la concessione ed erogazione delle agevolazioni in favore dei programmi di investimento riguardanti la produzione di beni strumentali funzionali allo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili e al risparmio energetico nell'edilizia”) si richiede che anche alla richiesta di incentivazione di un impianto, che immette tutta l’energia in rete, debba essere allegata copia della comunicazione fatta all’UTF sulle caratteristiche dell’impianto.

Il Collegio rileva siffatto obbligo anche nel disposto dell’art. 53 bis d.lgs. n. 504/1995 (“Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative”), ove prevede che “contestualmente all'avvio della propria attività, i soggetti che producono energia elettrica non esclusa dal campo di applicazione dell'accisa ai sensi dell'articolo 52, comma 2, diversi dai soggetti obbligati di cui all'articolo 53, ne danno comunicazione al competente Ufficio dell'Agenzia delle Dogane e presentano una dichiarazione annuale contenente l'indicazione dei dati relativi all'energia elettrica prodotta e a quella immessa nella rete di trasmissione o distribuzione”.

Alla luce della richiamata disciplina - in particolare del decreto ministeriale 6 agosto 2010 – il Consiglio di Stato dichiara che “affinché un impianto possa considerarsi effettivamente entrato in esercizio è invece necessario che l’interessato abbia assolto anche gli obblighi di natura fiscale, nel caso di specie quelli previsti dall’art. 53 bis del d.lgs. n. 504/1995”.

Ciò in quanto, osserva il Collegio, “non vi è dubbio infatti che l’obbligo di denuncia di attivazione abbia natura fiscale, giacché è necessario per consentire al competente ufficio dell’Agenzia delle Dogane di espletare i propri compiti anche di verifica dell’applicabilità o meno delle imposte ai soggetti della filiera della produzione di energia elettrica”.

La disciplina contenuta nel decreto ha la finalità di accertare l’adempimento degli “obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di energia elettrica”.

A ben vedere, è pacifico nella giurisprudenza della Quarta Sezione che, l’inoltro della comunicazione all’UTF, siccome previsto da una norma legislativa di rango primario, assume una sua specifica valenza tale da porre siffatto obbligo di natura fiscale sullo stesso piano di tutti gli altri oneri di tipo tecnico- amministrativo, che vanno adempiuti ai fini del perfezionamento dell’entrata in esercizio dell’impianto fotovoltaico. (Così Consiglio di Stato, sezione IV n. 2077/2016)

Non è di conseguenza condivisibile la tesi di parte appellante secondo cui per “obblighi previsti dalla normativa fiscale in materia di produzione dell’energia elettrica, debbano intendersi quelli finalizzati all’applicazione dell’accisa”.

Con le ragioni sopra esposte, la Quarta Sezione respinge l’appello, confermando la sentenza di primo grado. DU

 



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Inserito in data 29/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 25 novembre 2016, n. 4995

Limiti del sindacato giurisdizionale sulle determinazione adottate dalle Commissioni di gara

    Con la decisione emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato affronta, preliminarmente, la eccezione processuale sollevata dalla parte appellata la quale eccepisce la irricevibilità dell’appello  perché notificato oltre la scadenza del termine di trenta giorni dalla comunicazione della sentenza, previsto dall’art.120, comma 2 bis, c.p.a, introdotto dall’art.204 d.lgs. n. 50 del 2016 e asseritamente applicabile anche alla presente controversia.   

   Sul punto il Collegio afferma la infondatezza della eccezione sotto diversi profili attinenti all’ambito di applicazione della norma ed a questioni inerenti al diritto intertemporale applicabile.  

    Ed invero si osserva che, nella fattispecie in esame, “il ricorso di primo grado non è stato “amministrato” con le regole procedurali del rito speciale in questione anche perché il ricorso è stato notificato prima dell’emanazione del d.lgs. n.50 del 2016. Ciò conduce alla conclusione che il giudizio di appello deve intendersi estraneo al perimetro applicativo della prescrizione contenuta nel nuovo codice appalti.

    La disposizione predetta prevede un rito accelerato e “speciale” il cui ambito di applicazione è limitato alle sole impugnazioni delle ammissioni e delle esclusioni dalla procedura di gara. Sotto tale ulteriore profilo si evidenzia che la controversia portata alla attenzione del Collegio esuli dall’ambito applicativo del rito de quo giacché esso “resta circoscritto al solo gravame dei provvedimenti che determinano le ammissione alla (e le esclusioni dalla) procedura di gara (Cons. St., sez, III, 27 ottobre 2016, n.4528)”. Ed invero, “con il ricorso di primo grado è stata impugnata l’aggiudicazione dell’appalto alla gara e non la ammissione, sicchè, anche sotto questo assorbente profilo, la presente controversia esula dai confini dell’ambito di operatività del rito “superspeciale”, nella misura in cui quest’ultimo resta circoscritto al solo gravame dei provvedimenti che determinano l’ammissione alla (e le esclusioni dalla) procedura (Cons. St., sez, III, 27 ottobre 2016, n.4528).

    Sotto un profilo di diritto intertemporale, il Collegio mette in rilievo la impossibilità di applicare il rito accelerato alla causa posta alla fattispecie di cui trattasi.

    Orbene, il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di diritto transitorio e le ha chiaramente risolte scegliendo e utilizzando (tra quelle astrattamente disponibili, ovvero, principio della retroattività o la regola del tempus regit actum) l’opzione dell’ultrattività, mediante, cioè, la previsione generale che le disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice” e, quindi, dopo il 19 aprile 2016 (il comma 1 dell’art. 216 statuisce, infatti, che la disposizione “si applica alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”).

    In punto di merito, la appellante contesta la correttezza dell’operato della Commissione di gara e, segnatamente, la valutazione di alcuni aspetti dell’offerta presentata dalla società aggiudicataria.

Al riguardo il Collegio precisa che il sindacato giurisdizionale sulla legittimità delle determinazioni compiute dalle Commissioni di gara non può estendersi fino a scrutinare il merito dei pertinenti giudizi tecnici, “se non nelle limitate ipotesi in cui gli stessi risultino assunti sulla base di una fallace rappresentazione della realtà fattuale o in esito ad una delibazione del tutto illogica o arbitraria della qualità dell’offerta tecnica” (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 18 gennaio 2016, n.120).

    Si contesta, altresì, la illegittimità delle predette determinazioni perché carenti di motivazione.

    Ritiene il Collegio che anche tale censura è infondata, in quanto “l’assegnazione dei punteggi relativamente ai citati parametri non esigeva un apprezzamento discrezionale della qualità dei prodotti, ma solo il vincolato accertamento della presenza, in quelli offerti da ciascuna impresa concorrente, delle caratteristiche tecniche a cui risulta riferito ognuno dei criteri in questione”.

L’unico motivo di appello che il Collegio accoglie perché ritenuto è quello relativo al capo di condanna alla rifusione delle spese processuali a carico della appellante.

Ed infatti, afferma il Collegio che “la complessità in fatto e la peculiarità in diritto delle questioni controverse giustificavano, infatti, la compensazione delle spese del primo grado di giudizio, così come giustificano la compensazione di quelle del presente grado”. PC

 



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Inserito in data 28/11/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2016, n. 4993

La valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve esaurirsi in una sola seduta

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consesso afferma che “nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa postulano che le sedute della commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e di continuità e che, quindi, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve esaurirsi, di norma, in una sola seduta, senza interruzioni, di guisa da scongiurare possibili influenze esterne e da garantire l’assoluta indipendenza e genuinità del giudizio dell’organo incaricato della valutazione” (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 4 agosto 2015, n.3851).

Il Collegio puntualizza, altresì, che è “la stessa protrazione dei lavori della Commissione per diversi mesi a costituire, di per sé, un vulnus alle esigenze di trasparenza e di imparzialità dei lavori della Commissione, essendo sufficiente, per giudicare integrata la violazione di quest’ultimo, il solo pericolo di indebite influenze esterne, e non essendo, quindi, necessaria la dimostrazione di un concreto inquinamento dei giudizi sulle offerte”.

Tuttavia, tale regola è stata definita “tendenziale”, nel senso che “non si tratta di un precetto inviolabile e che, al contrario, tollera deroghe alla sua operatività, ma è stato anche chiarito che la sua inosservanza resta ammessa solo in presenza di situazioni particolari che impediscano obbiettivamente l’esaurimento di tutte le operazioni di gara in una sola seduta e, comunque, anche in questa evenienza, alle condizioni della durata minima dell’intervallo temporale tra le diverse riunioni e dell’adeguatezza delle modalità di conservazione dei plichi, a presidio dell’imparzialità e della correttezza delle operazioni valutative” (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, 22 gennaio 2015, n.257). EF

 



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Inserito in data 26/11/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 novembre 2016, n. 4765

Obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte EDU e legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.

Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato, rimette nuovamente alla Consulta la questione della possibilità di ampliare le cause di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo stabilite dagli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c.

La Quarta Sezione, infatti, ritiene rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 117 comma 1, 111 e 24 Cost., la questione di costituzionalità degli artt. 106 Cod. proc. amm. e 395 e 396 Cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedono un’ulteriore ipotesi  di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

L’ordinanza de quo, da un lato ribadisce quanto già in passato evidenziato in materia dall’Adunanza Plenaria, dall’altro lato richiama gli argomenti espressi dalla stessa Corte di Strasburgo con la sentenza definitiva resa nella vicenda oggetto della odierna questione di legittimità.

In particolare, nel rimettere la questione alla Consulta, si evidenza, in primo luogo l’art. 41 della CEDU, rubricato “Equa soddisfazione”, il quale dispone che “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”. Si richiama, inoltre, l’art. 46 della CEDU, rubricato “Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”, il quale dispone che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”; quest’ultimo articolo disciplina anche il procedimento di accertamento della violazione dell’obbligo di conformazione alle sentenze definitive individuando nel Comitato dei Ministri l’organo competente ad adire la Corte EDU per ottenere l’accertamento della violazione e, in caso di esito positivo, adottare le misure conseguenti.

Dal quadro normativo esposto - rileva il giudice a quo - risulta, quindi, che in caso di accertata violazione della Convenzione, l’obbligo nascente in capo allo Stato di conformarsi alla sentenza della Corte EDU (ai sensi del citato art. 46) costituisce non un obbligo politico, bensì giuridico e, come tale, coercibile in forza dei poteri riconosciuti al Comitato dei Ministri cui compete il controllo sulla esecuzione.

I giudici di Palazzo Spada riportano, infine, una sentenza con cui la Corte Costituzionale ha già avuto modo di intervenire in una fattispecie analoga a quella odierna - concernente la questione della possibile revisione di un processo penale a seguito di una pronuncia della Corte di Strasburgo - ed ha statuito nei seguenti termini: “È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, comma 1, cost. in relazione all'art. 46, par. 1, Cedu, l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo” (sentenza 7 aprile 2011, n. 113). FM 


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Inserito in data 25/11/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZA 23 novembre 2016, n. 4918

Immodificabilità soggettiva negli appalti pubblici: giurisdizione del G.O.

Tale principio, “lungi dall’essere il portato precettivo di un divieto assoluto, ai sensi del combinato disposto dell’art. 37, comma 9 e commi 18 e 19 del Codice, persegue piuttosto lo scopo di consentire alla p.a. appaltante di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli in grado di impedire le suddette verifiche preliminari (cfr., Consiglio di Stato, 13 maggio 2009, n. 2964) ovvero che tale verifica venga vanificata (cfr., Consiglio di Stato, 2 agosto 2006, n. 5081, nonché Consiglio di Stato 23 luglio 2007, n. 4101)”.

Infatti, dal combinato disposto dell’art. 37 (comma 9 e commi 18 e 19) e dell’art. 116 del D.lgs n. 50 /2006 emerge che il divieto di modificazione della composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta può essere derogato, in specifiche ipotesi, purché sussistano: il necessario possesso dei requisiti di qualificazione da parte del soggetto risultante dalla novazione soggettiva e la comunicazione da parte del richiedente dell’avvenuta trasformazione, non opposta dalla stazione appaltante nel termine di sessanta giorni.

La mancata attivazione da parte della p.a. del potere autoritativo di verifica dei requisiti soggettivi ed oggettivi dei soggetti subentranti non determina il radicamento della giurisdizione dinanzi al giudice amministrativo, poiché le questioni relative a vicende societarie afferiscono a “posizioni di diritto soggettivo nei rapporti interni tra i partecipanti all’a.t.i.”.

Da ciò discende che il giudice competente a decidere le controversie in ordine alla violazione del principio di immodificabilità soggettiva durante la fase di esecuzione del contratto è il giudice ordinario. GB

 



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Inserito in data 24/11/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 novembre 2016, n. 4864

La discrezionalità è sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di illogicità dei motivi

Oggetto della pronuncia in esame è la legittimità del concorso bandito da un’azienda sanitaria locale per la copertura di un posto di dirigente medico di medicina legale.

In particolare, si controverte sulla correttezza della prova orale e di quella pratica.

Con riferimento alla prova orale, il Collegio osserva - in via generale - che “la scelta dei quesiti su cui concentrare l’esame resta riservata a una sfera di discrezionalità piuttosto ampia, che, come tale, deve intendersi sindacabile dal giudice amministrativo negli stretti limiti in cui siano configurabili ipotesi di sviamento o di manifesta irragionevolezza” (cfr. ex multis Cons. St., sez. VI, 8 febbraio 2016, n.506).

Ne deriva che, nel caso in esame, “la dedotta concentrazione della prova orale su temi afferenti alla responsabilità medica deve ritenersi immune, di per sé, da profili di palese illogicità”, e che, quindi, la prova orale contestata si rivela legittimamente incentrata - in coerenza con il paradigma normativo di riferimento - “sui compiti connessi alle funzioni da conferire” (art. 26, comma 1, lett. c, d.P.R. 10 dicembre 1997, n.483 “Regolamento recante la disciplina concorsuale per il personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale”).

Riguardo, invece, alla prova pratica, il Supremo Consesso rileva che la definizione normativa dell’oggetto della prova come afferente a “tecniche e manualità peculiari della disciplina messa a concorso”, che  - secondo quanto disposto dall’art.26, comma 1, lett. b, d.P.R. citato - dev’essere intesa come “significativa di un esame che non implica necessariamente l’esecuzione di operazioni materiali, ma che serva a verificare la capacità e l’abilità del candidato nel risolvere casi o problemi pratici che possono presentarsi al suo esame nel corso del lavoro per cui viene reclutato” (così anche Cons. St., sez. III, 29 novembre 2012, n.6087).

Ad avviso del Collegio, nella fattispecie in esame, il modus procedendi seguito dall’azienda si rivela del tutto coerente con i caratteri sopra indicati, “nella misura in cui non si risolve in una trattazione teorica e, anzi, serve proprio a verificare l’abilità operativa del candidato, e, quindi, immune dai vizi erroneamente riscontrati a suo carico dai giudici di primo grado”.

La Terza Sezione, dunque, conclude escludendo l’omessa predeterminazione dei criteri valutativi, risultando nella specie, al contrario, che la Commissione abbia proceduto al predetto, preliminare adempimento. DU 

 



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Inserito in data 23/11/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - GRANDE CAMERA, SENTENZA 15 novembre 2016 - C - 258/15

Non contrasta con la Dir. 2000/78 il limite d’età per l’accesso al corpo di polizia statale

La domanda di pronuncia pregiudiziale posta al vaglio della Corte riguarda “l’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 2, dell’articolo 4, paragrafo 1, e dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.

In particolare, la domanda suddetta è stata proposta nell’ambito di una controversia incardinata da un cittadino basco contro l’Accademia di polizia del suo Paese, “relativamente alla decisione di quest’ultima di pubblicare un bando di concorso contenente il requisito secondo il quale i candidati ai posti di agenti della polizia della Comunità autonoma dei Paesi Baschi non dovevano aver compiuto 35 anni di età”.

A tal proposito, la Grande Camera ritiene che tale normativa non contrasti con la Direttiva 2000/78/CE, in quanto il limite d’età, da un lato, deve considerarsi adeguato all’obiettivo consistente nel garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del servizio di polizia di cui trattasi e, dall’altro, non eccedente quanto necessario al conseguimento di tale obiettivo.

Opinare diversamente, infatti, avrebbe reso impossibile sia l’assunzione di compiti impegnativi sul piano fisico, che l’espletamento degli stessi per un periodo sufficientemente lungo.

Né può altresì richiamarsi il precedente giurisprudenziale del 13 novembre 2014, Vital Pérez (C‑416/13, EU:C:2014:2371), in cui “non era stato dimostrato che l’obiettivo di garantire il carattere operativo e il buon funzionamento del corpo degli agenti della polizia locale richiedesse di mantenere una certa struttura delle età al suo interno, imponendo di assumere esclusivamente funzionari con età inferiore a 30 anni”. EF 

 



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Inserito in data 22/11/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 18 novembre 2016, n. 4822

Interventi di manutenzione straordinaria e necessità del titolo abilitativo edilizio

Nella decisione oggetto della presente disamina il Collegio, condividendo i motivi a fondamento della impugnazione avverso la sentenza resa dal T.A.R. Calabria, accoglie l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, annulla l’ordinanza comunale di demolizione delle opere edilizie poste in essere dalla appellante (ricorrente in primo grado).

   Ed infatti, il Giudice di prime cure aveva ritenuto legittima la impugnata ordinanza sull’assunto che le opere edilizie poste in essere erano da considerarsi abusive, poiché effettuate in assenza di titolo edilizio ed in mancanza  di preventiva autorizzazione paesaggistica, giacché l’intervento era stato realizzato in area sottoposta a vincolo paesaggistico.

    In particolare, secondo la decisione in esame, è corretto l’argomento sostenuto dalla appellante secondo cui  “l’intervento edilizio posto in essere, consistito nella sostituzione di un solaio di cemento armato in una copertura con intavolato di faggio e nel rifacimento della parete di ingresso del fabbricato con mattoni di antica provenienza aventi anche una funzione decorativa, non necessiti di alcun preventivo titolo abilitativo, potendosi qualificare alla stregua di un’attività edilizia libera ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 ed irrilevante sul piano paesaggistico, ai sensi dell’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio”.

    Ed invero, sotto il profilo della necessità del rilascio del titolo edilizio, afferma il Collegio che “ai sensi dell’art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, rientrano negli interventi di manutenzione straordinaria le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino la volumetria complessiva degli edifici e non comportino modifiche delle destinazioni di uso”.

    Nel caso di specie, rileva il Collegio che, “la sostituzione del solaio eseguita con la modifica del solo materiale utilizzato, senza alterazione delle cubature, è qualificabile alla stregua di un intervento di manutenzione straordinaria, per la cui esecuzione è sufficiente la sola comunicazione di inizio lavori ai sensi dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2011”.

    Inoltre, sotto il profilo della carenza della autorizzazione paesaggistica ex art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, il Collegio dubita che i lavori eseguiti dalla appellante abbiano una incidenza negativa sul piano della loro compatibilità paesaggistica.

    Sotto tale ulteriore profilo, il Consesso evidenzia non solo la carenza di motivazione della ordinanza di demolizione impugnata in primo grado, ma  mette, altresì, in evidenza come l’intervento edilizio posto in essere sia migliorativo rispetto alla stato dei luoghi precedente e, pertanto, l’ordinanza de quo “si appalesa misura eccessiva e non adeguata a salvaguardare l’interesse paesaggistico protetto, tanto più che è mancato ogni riferimento motivazionale ad una ipotetica incompatibilità dei lavori eseguiti con i valori paesaggistici compendiati nei luoghi”. PC 



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Inserito in data 21/11/2016
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III - 16 novembre 2016, n. 1290

Sanzione pecuniaria ex art. 38 DPR 380/01 e terzi destinatari: legittimità

I Giudici baresi chiariscono la natura della sanzione pecuniaria indicata in epigrafe, normalmente irrogata in capo agli autori di abusi edilizi e, nella specie, invece addebitata a carico di un soggetto terzo, odierno ricorrente, avente causa dell’effettivo destinatario.

Proprio in ragione di ciò, viene contestata la legittimità di un simile procedimento sanzionatorio – sia sotto il profilo oggettivo (stante l’estraneità rispetto all’abuso commesso), sia sotto l’aspetto soggettivo – riguardo alla buona fede presuntivamente paventata dal ricorrente.

Il Collegio, analizzando le doglianze provenienti da ambo le parti del presente giudizio, non condivide la posizione del ricorrente.

Esso evidenzia, infatti, come la sanzione irrogata appartenga al genus delle misure ripristinatorie e, a sostegno di tale posizione, ricorda come essa sia generalmente prevista in sostituzione della misura demolitoria, di cui è indiscussa la natura reale.

Pertanto, affermano i Giudici, posto il carattere reale dell’una (quella demolitoria), non può che concludersi che anche l’altra (quella pecuniaria) partecipa dell’identica natura, attesa l’alternatività delle misure in questione.

Stante, dunque, la realità di tale misura – questa non può che seguire le sorti dell’immobile – oggetto di abuso edilizio – anche nei successivi trasferimenti di proprietà; non di certo il soggetto che, eventualmente, ne sia stato artefice – come addotto dal ricorrente che paventa, invece, una natura personale della misura afflittiva subìta e, pertanto, la propria estraneità al fatto contestato.

In considerazione di ciò e richiamando anche giurisprudenza pregressa (Cfr., ex multis, TAR Liguria n. 306 del 2009; TAR Toscana n. 361 del 2012), i Giudici pugliesi riconoscono come legittima la comminatoria in capo all’attuale proprietario dell’opera abusiva – odierno ricorrente e, per l’effetto, ne respingono l’impugnativa. CC 

 



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Inserito in data 19/11/2016
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 15 novembre 2016, n. 1412

Diniego del rilascio del titolo abitativo alla guida, requisiti morali e giurisdizione

Il Collegio piemontese chiarisce la portata dell’art. 120 comma 1 del Codice della strada ricavandone, frattanto, i confini in punto di giurisdizione.

La norma appena richiamata così dispone: “Non possono conseguire la patente di guida i delinquenti abituali, professionali o per tendenza e coloro che sono o sono stati sottoposti a misure di sicurezza personali o alle misure di prevenzione previste dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, ad eccezione di quella di cui all'articolo 2, e dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, le persone condannate per i reati di cui agli articoli 73 e 74 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, fatti salvi gli effetti di provvedimenti riabilitativi, nonché i soggetti destinatari dei divieti di cui agli articoli 75, comma 1, lettera a), e 75-bis, comma 1, lettera f), del medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 per tutta la durata dei predetti divieti. Non possono di nuovo conseguire la patente di guida le persone a cui sia applicata per la seconda volta, con sentenza di condanna per il reato di cui al terzo periodo del comma 2 dell'articolo 222, la revoca della patente ai sensi del quarto periodo del medesimo comma”.

Il secondo comma dell’art. 120 dispone poi che nei confronti dei soggetti titolari di patente di guida che vengano, successivamente al rilascio, a trovarsi nelle condizioni indicate nel comma precedente il prefetto revoca la patente di cui siano in possesso.

I Giudici, intervenendo sul punto e richiamando giurisprudenza consolidatasi in materia, ricordano come il provvedimento emesso ex articolo 120 del Codice della Strada, quivi per l’appunto impugnato, non è espressione di discrezionalità amministrativa, bensì atto vincolato sia nel presupposto (esistenza delle situazioni ivi elencate), sia nel contenuto (impossibilità del rilascio della patente). La parte interessata da tali provvedimenti subisce invero un pregiudizio che investe una posizione di diritto soggettivo che non degrada ad interesse legittimo per effetto della loro adozione (Cass. SS.UU. n.22491 del 2010, CdSez. V, n. 3712 del 29 agosto 2016)”.

In considerazione di ciò, gravando sul diritto soggettivo del ricorrente, il Collegio ritiene fondata l’eccezione circa il sollevato difetto di giurisdizione e, pertanto, rimette l’odierno contenzioso dinanzi all’Autorità giurisdizionale Ordinaria - ai sensi e con gli effetti dell’art. 11 del codice del processo amministrativo. CC

 



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Inserito in data 18/11/2016
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 7 novembre 2016, n. 907

Destituzione dal servizio e reato di induzione indebita ex art. 319 quater cp

Con la pronuncia di cui in epigrafe i Giudici bolognesi intervengono sul delicato rapporto tra la qualificazione penalistica di una fattispecie delittuosa e le accessorie conseguenze sotto il profilo amministrativo – disciplinare.

Nella specie, viene respinto il ricorso di un assistente capo della Polizia di Stato, il quale era stato destituito dal servizio a seguito di una sentenza di condanna per il reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, contemplato dall’articolo 319 quater del codice penale.

A fronte della doglianza sollevata dal ricorrente, circa il limitato rilievo penalistico della condotta dal medesimo tenuta e l’esiguità della somma richiesta in sede di induzione, il Collegio contesta come sia comunque venuto meno, inesorabilmente, il rapporto di fiducia che deve esistere tra il corpo amministrativo ed il dipendente.

Non ha nessuna rilevanza – proseguono i Giudici - la circostanza che per il reato di cui all’art. 319 quater c.p. non sia prevista la destituzione automatica: si tratterebbe in quel caso di una sanzione penale accessoria. Infatti, la circostanza che l’utilità conseguita non abbia un particolare valore, è rilevante a livello processuale per stabilire la quantificazione della pena, ma le conseguenze amministrative non possono essere legate a questi dettagli.

Appare congrua, pertanto, la prevista destituzione dal servizio – irrogata ex articoli 1 e 13 del DPR 737/1981 e, pertanto, il Tribunale emiliano rigetta il gravame, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio. CC 


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Inserito in data 17/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 15 novembre 2016, n. 4704

No all’assunzione di parenti nelle Università

La ratio delle incompatibilità previste dalla legge per le procedure concorsuali di reclutamento dei docenti deve valere, “a maggior ragione” per le “chiamate dirette”.

L’art 18, comma 1, lett. b) della L. 240/2010, relativo alla procedura di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori di prima e di seconda fascia, sancisce che “non possono partecipare a tale procedimento coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo”.

L’estensione delle suddette  preclusioni anche alla speciale procedura di “chiamata diretta” di cui all’art. 24, comma 6, L. 240/2010 è legittima, anche in assenza di espressa previsione legislativa.

Il combinato disposto dell’ art. 18, comma 1, lett. b) e dell’art. 24, comma 6 da cui discende tale estensione non viola i principi costituzionali di proporzionalità e legittimo affidamento ( artt. 1, 3, 4, 35, 51 Cost.), ma, al contrario, trova il suo fondamento nell’art. 97 della Costituzione che mira a tutelare l’imparzialità dell’amministrazione.

Il Consiglio di Stato sottolinea che, come è stato evidenziato dal giudice di primo grado, la normativa in esame appare “ragionevole e proporzionata, in vista del perseguimento dell’obiettivo di evitare, per il futuro, il ripetersi di situazioni di compresenza di congiunti all’interno della stessa università, e ciò a tutela del bene primario del prestigio e della credibilità dell’istituzione, suscettibile, nell’ipotesi opposta, di essere pregiudicato dinanzi all’opinione pubblica ed alla comunità scientifica nazionale ed internazionale”.

“D’altro canto l’aspettativa a svolgere la propria carriera nella medesima sede non appare degna di particolare tutela anche in considerazione della recente proliferazione di nuove sedi universitarie che comunque garantiscono adeguate collocazioni lavorative.” G.B.

 



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Inserito in data 16/11/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2016, n. 240

La Consulta ed i benefici combattentistici: nulla ai militari delle missioni ONU

Oggetto della pronuncia in esame sono i c.d. benefici combattentistici, che costituiscono un istituto generale del pubblico impiego (non riservato allo status di militare) che si traduce in scatti aggiuntivi di cui fruire durante il servizio attivo, ovvero in un ampliamento della base pensionabile al momento del collocamento a riposo.

Con la suddetta pronuncia la Corte Costituzionale dichiara in parte inammissibili ed in parte infondate una serie di questioni, sollevate con diverse ordinanze  (tra febbraio 2015 e gennaio 2016, dal Tar Friuli Venezia Giulia e dal Tar Pescara), riguardanti l’esclusione del riconoscimento dei benefici succitati  a favore dei militari coinvolti in missioni ONU.

In particolare, l’asserita  illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, riguarda l'articolo unico della L. 11 dicembre 1962,  n. 1746 - come interpretato dal diritto vivente e dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato - in quanto limiterebbe i benefici combattentistici ivi previsti espressamente alle sole attività belliche della seconda guerra mondiale, con esclusione dei militari coinvolti in zone di intervento ONU. Ad avviso dei giudici rimettenti, invece,  la nozione di combattente in campagne di guerra potrebbe estendersi, per la identità dei rischi sopportati, a coloro che partecipano a missioni per conto dell’ONU.

Nel pronunciarsi, la Consulta ha ricostruito il complesso quadro normativo disciplinante la materia e stratificatosi negli ultimi decenni, giungendo alla conclusione secondo cui il legislatore ha sempre dimostrato di aver  ben presente la distinzione tra le campagne di guerra e le missioni ONU, tanto che lo stesso, quando ha ritenuto di estendere ai partecipanti alle suddette missioni alcuni benefici riservati alle campagne di guerra lo ha disposto, mentre in altre ipotesi ha escluso espressamente tale estensione (art. 5, l. 9 ottobre 1971, n. 824). Tali scelte discrezionali del legislatore non appaiono irragionevoli alla Corte, anzi, a conferma di ciò si richiama la stessa disciplina delle missioni svolte per conto delle Nazioni Unite che, di volta in volta (ma ora con una previsione stabile, in quanto inserita nella legge quadro di settore n. 145 del 2016), stabilisce il trattamento economico ed accessorio unitamente ad altri benefici, tenendo in considerazione anche le rilevanti specificità e criticità delle singole missioni. Proseguendo nelle sue argomentazioni, la Corte ha inoltre richiamato i propri precedenti negativi  in ordine all’estensione della qualifica di combattente (sentenze n. 234 del 21 aprile 1989, in Cons. Stato, 1989, II, 566 e n. 211 del 3 maggio 1993, id., 1993, II, 837).

Il Giudice delle Leggi ha, infine, respinto l’obiezione secondo cui l’ordinamento interno dovrebbe adeguarsi a quello internazionale, ormai orientato ad assimilare al concetto di guerra altri concetti quali quelli di crisi internazionale o di conflitto armato; tale adeguamento  giustificherebbe  l’estensione dei benefici combattentistici al personale militare impegnato nelle missione di pace svolta per conto dell’ONU. Tuttavia, la Consulta, per un verso esclude l’esistenza nell’ordinamento italiano di un principio generale di assimilazione e, per un altro verso, ribadisce che tale equiparazione tra fattispecie militari possa essere solo frutto di una scelta discrezionale del legislatore, a tal fine richiama un risalente precedente in tema di polizia coloniale (5 maggio 1988, n. 509, in Riv. corte conti, 1988, fasc.4, 223) secondo cui <<non è irragionevole che il legislatore abbia riservato determinati benefici ai soli partecipanti a veri e propri fatti di guerra, ai quali non possono assimilarsi, per il diverso grado di rischio e sacrificio, le operazioni di polizia coloniale>>. FM

 



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Inserito in data 15/11/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 14 novembre 2016, n. 11270

Sui limiti dei poteri di vigilanza dell’ANAC

Con la pronuncia in epigrafe, il TAR chiarisce la portata applicativa dell’art. 16 del d.lgs. n. 39/2013 (“Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190), perimetrando il potere di vigilanza dell’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) in ordine alle disposizioni del citato decreto.

La norma precisa che un simile potere si attua “anche con l'esercizio di poteri ispettivi e di accertamento di singole fattispecie di conferimento degli incarichi” (art. 16, comma 1).

Nella specie, l'ANAC ordinava al soggetto da essa vigilato di avviare un procedimento nei confronti del Presidente dell’ente, nell'ambito del quale contestare la menzionata causa di inconferibilità ed elevare la sanzione inibitoria ai sensi dei commi 1 e 2, dell'art. 18, D.Lgs. n. 39/2013.

In via preliminare va osservato che la legge n. 190/2012, recante le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione, ha previsto, all’art. 1, comma 49, la delega al Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi diretti a modificare la disciplina vigente in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico.

La lettera d) del comma 50, ha previsto che fossero compresi tra gli incarichi oggetto della disciplina quelli “di amministratore di enti pubblici e di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico

In attuazione della delega, il d.lgs. 39/2013, all’art.1, comma 2, lett. b), ha disposto che si intendono per “enti pubblici” gli enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l’incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati.

L’intento del legislatore delegante va, quindi, ricercato attraverso la complessiva analisi delle finalità perseguite, attraverso l’introduzione della disciplina in materia di inconferibilità degli incarichi, che sono chiaramente percepibili nell’esigenza di introdurre meccanismi di tutela atti a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione nel settore pubblico e presso gli enti privati sottoposti a controllo pubblico.

La perimetrazione del campo di applicazione delle previsioni in materia di prevenzione della corruzione deve essere effettuata avendo come obiettivo la tutela delle finalità di pubblico interesse perseguite dal legislatore e quindi la natura delle attività esercitate dai soggetti destinatari delle norme.

Va aggiunto che secondo i ricorrenti, nessuna disposizione, tanto della legge delega n. 190/2012 quanto del d.lgs. n. 39/2013, attribuisce all’ANAC il potere di ordinare ai soggetti vigilati l’adozione di determinati atti in relazione al conferimento di incarichi e, soprattutto, di predeterminarne il contenuto.

Ad avviso del Collegio, le contestazioni svolte sul punto colgono nel segno e meritano accoglimento.

Invocando il principio di legalità dell'azione amministrativa e ricordandone la rilevanza costituzionale (ex artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), il TAR evidenzia come esso imponga che sia la legge a individuare lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l'esercizio in concreto dell'attività amministrativa.

Ne discende che il contenuto dei poteri spettanti all’Autorità nell’ambito dei procedimenti per il conferimento di incarichi va ricercato nel dato normativo primario, non essendo consentito il ricorso ad atti regolatori diversi, quali le linee guida o altri strumenti di cd. soft law, per prevedere l’esercizio di poteri nuovi e ulteriori.

Il TAR Lazio osserva come “la norma delinea chiaramente il ruolo e i compiti dell’ANAC in materia di inconferibilità di incarichi e li descrive nei termini dell’esercizio di un generale potere di vigilanza, rafforzato attraverso il riconoscimento di forme di dissuasione e di indirizzo dell’ente vigilato, che possono financo condurre alla sospensione di un procedimento di conferimento ancora in fieri ma che non possono comunque mai portare alla sostituzione delle proprie determinazioni a quelle che solo l’ente vigilato è competente ad assumere. Neppure è possibile ricavare, in via logica, una portata più ampia del potere d’ordine ivi contemplato, in ragione delle finalità sottostanti al complessivo funzionamento delle norme in materia di prevenzione della corruzione.”

Ad avviso del Collegio, una differente interpretazione, che riconoscesse all’ANAC il suggestivo ruolo di “estremo garante” in materia di anticorruzione, sarebbe inaccettabile, poiché finirebbe con l’introdurre un surrettizio potere sostitutivo dell’ente vigilato a favore dell’Autorità, in palese contrasto con il principio di legalità.

In definitiva, osserva il Collegio che solo ed esclusivamente al responsabile per la prevenzione della corruzione dell’ente, e non anche all’ANAC, spetta il potere di dichiarare la nullità di un incarico ritenuto inconferibile e assumere le conseguenti determinazioni. Invero, una possibile dialettica tra l’Autorità e l’ente vigilato in relazione alle valutazioni compiute, può suggerire al responsabile una correzione del suo operato, ma mai spingersi sino ad obbligare l’ente ad adeguarsi alle considerazioni svolte dall’Autorità. DU

 



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Inserito in data 14/11/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 7 novembre 2016, n. 2057

Accordi quadro ex art. 54 Nuovo codice appalti e bando illegittimo per indeterminatezza criteri di aggiudicazione 

Con la sentenza emarginata in epigrafe il Tribunale amministrativo milanese  dichiara la illegittimità di un bando di gara  finalizzato alla stipula di un accordo quadro ex art. 54 (d.lg.s n. 50 del 2016 - Nuovo codice appalti),  affermando la eccessiva indeterminatezza dei criteri e dei termini che disciplinano la prestazione dei lavori, dei servizi e delle forniture e, pertanto, in violazione della ratio dell’istituto in esame.

    In particolare, la ricorrente lamenta l’illegittimità di una serie di disposizioni contenute nella lex specialis (capitolato tecnico e di oneri) di gara per violazione dell’art. 54, comma 2, del D.Lgs. 50/2016, giacché il bando e gli altri atti di gara non indicherebbero in maniera sufficientemente precisa e determinata i criteri per l’aggiudicazione dei futuri appalti specifici, “rinviando spesso a successive e non ben determinate decisioni dei singoli enti, il che impedirebbe ai partecipanti di presentare offerte ben ponderate, non essendo assolutamente chiare le condizioni di partecipazione agli appalti specifici nonché la lacunosità dei criteri di aggiudicazione degli appalti specifici”.  

    Il Collegio, nella sua decisione,  evidenzia quanto sia complesso valutare la legittimità di un bando finalizzato alla stipulazione di un accordo quadro.

    Ed invero, “le esigenze di flessibilità nella programmazione degli acquisiti, espresse dalla stazione appaltante, non possono comportare un uso distorto dell’istituto, né giustificano soluzioni della lex specialis lesive dei noti principi di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa”.

    Infatti, per come sottolineato nel ricorso circa la genericità del contenuto tecnico ed economico degli appalti specifici, il  Tribunale riscontra una eccessivo numero di rinvii effettuati dalla lex specialis alle successive determinazioni dei singoli enti appaltanti, “non accompagnati però da chiare indicazioni sul contenuto dei successivi appalti specifici,” sicché si tratta di rinvii alquanto lacunosi”.

    Inoltre, alla predetta genericità ed indeterminatezza dei criteri di aggiudicazione, si accompagna, altresì, la previsione dell’obbligo per il fornitore risultato idoneo all’accordo quadro di partecipare ai successivi  appalti specifici.

    Tale obbligo è rafforzato dalla circostanza di dover pagare una “cauzione a garanzia dell’accordo quadro”, che la committente potrà escutere in caso di violazione dell’obbligo di partecipazione agli appalti specifici.

    Ad avviso del Collegio, la previsione della predetta cauzione costituisce un ulteriore motivo per ritenere illegittimo il bando oggetto di impugnativa giacché “il predetto obbligo di partecipazione (salvo il pagamento di una cospicua cauzione/sanzione) a tutte le gare insieme fondate su quel prezzo e poi regolate da svariate, ulteriori specifiche e imprevedibili condizioni, fissate dalle singole stazioni appaltanti, “finirebbe con il trasformare l’istituto dell’accordo quadro, funzionale alla maggiore efficienza nell’individuazione dei fornitori di beni e servizi, in un meccanismo aleatorio, distorsivo della concorrenza ed idoneo a pregiudicare lo stesso principio di remuneratività degli appalti”.

    D’altra parte, il precetto di cui al comma 5 dell’art. 54 vieta  che con gli appalti specifici si possano apportare “modifiche sostanziali” all’accordo quadro e che, in sede di confronto competitivo fra operatori sui singoli appalti, è consentito dalla norma di “precisare” ma non di alterare, le condizioni previste nell’accordo quadro.

   In conclusione, secondo il Collegio “il sistema previsto dal bando oggetto della impugnativa finisce per snaturare la figura dell’accordo quadro, risolvendosi di fatto nella scelta da parte del committente pubblico di un certo numero di fornitori, obbligati successivamente a partecipare ad ulteriori procedure di gara, le cui condizioni saranno però determinate di volta in volta dai singoli enti appaltanti; laddove, viceversa, la libertà di presentazione dell’offerta, in questa seconda fase, avrebbe in qualche modo equilibrato la circostanza della specificazione successiva dei criteri di aggiudicazione degli appalti specifici”. PC 


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Inserito in data 12/11/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III Quater, 9 novembre 2016, n. 11092

La mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica comporta l’esclusione dalla gara

Con la pronuncia in esame, il Collegio romano avalla quella giurisprudenza secondo cui «la sottoscrizione dell'offerta, prescritta ai sensi dell'art. 74 d.lgs. n. 163 del 2006, si configura come lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione contenuta nel documento, serve a renderne nota la paternità ed a vincolare l'autore alla manifestazione di volontà in esso contenuta. Essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, potendosi solo ad essa riconnettere gli effetti dell'offerta come dichiarazione di volontà volta alla costituzione di un rapporto giuridico. La sua mancanza inficia, pertanto, la validità e la ricevibilità della manifestazione di volontà contenuta nell'offerta senza che sia necessaria, ai fini dell'esclusione, una espressa previsione della legge di gara (Cons. St. Sez. V, 7.11.2008, n. 5547). Non può ritenersi equivalente alla sottoscrizione dell'offerta l'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene» (così C.d.S. 25 gennaio 2011, n. 528).

Inoltre, l’art. 46 comma 1-bis del d.lgs. n. 163/2006, relativo all'incertezza sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, va letto “nel senso che può essere sanzionata con l'esclusione dalla gara l'offerta che presenti un margine di incertezza significativo, sia per il contenuto intrinseco della stessa, sia in relazione all'oggetto dell'appalto: analogamente, sono da ritenere essenziali quegli elementi dell'offerta atti ad incidere in maniera significativa sul contenuto della stessa, tanto che la loro mancanza renda l'offerta non soddisfacente rispetto alle richieste della stazione appaltante”.

Pertanto, va escluso il concorrente il quale abbia omesso la sottoscrizione dell'offerta tecnica – la quale non è negozialmente imputabile ad alcuno – mentre la mancata esplicita previsione di tale carenza tra le cause di esclusione è irrilevante "trattandosi di mancanza di un elemento essenziale dell'offerta che anche nell'attuale assetto normativo disegnato dall'attuale art. 46, comma 1-bis, del Codice appalti, in cui è stato codificato il principio di tassatività delle cause di esclusione, rileva quale causa di estromissione del concorrente dalla gara d'appalto” (in questi termini Consiglio di Stato, 21 giugno 2012 n. 3669 e 8 agosto 2013, n. 727).

In conclusione, “la mancata sottoscrizione dell'offerta tecnica, che costituisce uno dei documenti integranti la domanda di partecipazione alla gara, non può essere considerata, in via di principio, un'irregolarità solo formale sanabile nel corso del procedimento, atteso che essa fa venire meno la certezza della provenienza e della piena assunzione di responsabilità in ordine ai contenuti della dichiarazione nel suo complesso posto che la sottoscrizione di un documento è lo strumento mediante il quale l'autore fa propria la dichiarazione anteposta contenuta nello stesso, consentendo così non solo di risalire alla paternità dell'atto, ma anche di rendere l'atto vincolante verso i terzi destinatari della manifestazione di volontà (ibidem)”. EF

 



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Inserito in data 11/11/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - NONA SEZIONE, SENTENZA 10 novembre 2016, C - 199/15

È legittima l’esclusione dalla gara per irregolarità del DURC, anche se poi regolarizzata

La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 - relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi-  sancisce che il suddetto articolo “deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale che obbliga l'amministrazione aggiudicatrice a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali ed assistenziali risultante da un certificato richiesto d'ufficio dall'amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d'appalto, anche se non sussisteva più alla data dell'aggiudicazione o della verifica d'ufficio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice.”

Pertanto, l’esclusione di un’impresa dalla procedura di gara per irregolarità del documento unico di regolarità contributiva (DURC)  è legittima, anche in caso di regolarizzazione successiva.

La Corte di Giustizia argomenta procedendo all’analisi del contesto normativo di riferimento.

 L’art. 45 della direttiva 2004/18, relativo ai criteri di selezione qualitativa della situazione personale del candidato o dell’offerente, contempla, tra le ipotesi di esclusione dalla gara, l’irregolarità degli obblighi di pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali. L’assenza di tale situazione ostativa può essere provata mediante certificato ( rilasciato dall’autorità competente dello Stato membro) che, su invito dell’amministrazione aggiudicatrice, può essere successivamente “integrato o chiarito”.

La corte chiarisce che le “eventuali regolarizzazioni posteriori” devono essere attuate entro un termine che consenta il rispetto dei principi di trasparenza e di parità di trattamento e che le “correzioni o aggiunte possono riguardare esclusivamente dati la cui anteriorità  rispetto alla scadenza del termine fissato per presentare candidatura sia oggettivamente verificabile e non possono riguardare informazioni la cui comunicazione è richiesta a pena di esclusione.”

 Le valutazioni in ordine alla portata non ostativa dell’art. 45 rispetto alla legislazione nazionale in materia si impone anche nel caso di certificato rilasciato dagli istituti previdenziali e richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice. Infatti, osserva la Corte che dalla formulazione delle disposizioni in esame “non si evince assolutamente che alle autorità competenti sia vietato richiedere d’ufficio agli istituti previdenziali il certificato prescritto”.

Inoltre, l’art. 45, paragrafo 2, “non osta ad una normativa nazionale  che obbliga le amministrazioni aggiudicatrici a considerare quale motivo di esclusione una violazione in materia di versamento di contributi previdenziali e assistenziali risultanti da un certificato richiesto d’ufficio dall’amministrazione aggiudicatrice e rilasciato dagli istituti previdenziali, qualora tale violazione sussistesse alla data della partecipazione ad una gara d’appalto, escludendo così ogni margine di discrezionalità   delle amministrazioni aggiudicatrici a tale riguardo.” GB

 



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Inserito in data 10/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, SENTENZA 7 novembre 2016, n. 4645

L’offerta non può essere sottoscritta dal soggetto privo di potere

La questione posta al vaglio del Consesso riguarda l’estensione del potere di rappresentanza conferito con procura speciale avente ad oggetto “la (sola) partecipazione a gare d’appalto di opere e lavori pubblici” e, di conseguenza, la legittimazione alla sottoscrizione dell’offerta.

A tal uopo, il Consiglio di Stato osserva che ”la natura di atto giuridico unilaterale, avente forma scritta (cfr. art. 1392 c.c.), della procura speciale non consente di estenderne in via ermeneutica l’oggetto, fino a ricomprendervi il conferimento di un potere di rappresentanza non conferito sì da contestare la volontà come espressamente manifestata dal rappresentato nell’atto”.

Non soccorrono, “in contrario, le norma dettate dal codice civile in tema di rappresentanza degli enti commerciali con riferimento all’inopponibilità ai terzi delle limitazioni del potere di rappresentanza dell’institore e del procuratori non trascritte nel registro delle imprese”.

Aggiungasi che “l’inopponibilità delle limitazioni del potere di rappresentanza dell’institore non trascritte, di cui agli artt. 2206 e 2207 c.c., è posta da tutela dei terzi contraenti con (eventualmente) pregiudizio dell’impresa rappresentata, vincolata ad un contratto non voluto”.

Del resto, è ingiustificato assoggettare il terzo -stazione appaltante-  “alla decisione del rappresentato di esercitare o meno il potere di ratificare, attesoché la situazione passiva (cfr. art. 1399 , comma 3, c.c.) che non consente al terzo contraente di sciogliersi unilateralmente dal vincolo contrattuale in attesa della ratifica non deriva – diversamente dall’avvenuta stipulazione del contratto con il rappresentante senza potere – da un atto di cui il terzo si sia reso partecipe”.

Esito che, tradotto nell’evidenza pubblica, “condizionerebbe la continuità dello svolgimento del procedimento, conformato al principio di concentrazione delle operazioni di gara, alla decisione del rappresentato il quale, oltretutto, potrebbe liberamente valutare ex post, a gara conclusa (come di fatto avvenuto nel caso in esame), la convenienza di ratificare l’atto, compromettendo in apicibus la par condicio fra i concorrenti” (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. V, 17 dicembre 2008 n. 6292; TAR Lazio, sez. II, 5 maggio 2014 n. 4643).

Ne consegue, dunque, che la sottoscrizione dell’offerta da parte di soggetto privo di potere “non consente d’imputarla alla persona giuridica, esonerandola dall’assunzione di impegni vincolanti nei confronti della stazione appaltante”.

Peraltro, “la radicalità del vizio dell’offerta non consente l’esercizio del soccorso istruttorio che va contemperato con il principio della parità tra i concorrenti, anche alla luce dell’altrettanto generale principio dell'autoresponsabilità dei concorrenti, per il quale ciascuno di essi sopporta le conseguenze di eventuali errori commessi nella formulazione dell'offerta e nella presentazione della documentazione” (cfr., da ultimo, Cons. Stato Sez. V, 15 febbraio 2016, n. 627).

In conclusione, sotto il profilo sistematico, va sottolineato che “il nuovo codice degli appalti (art. 83 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50), pur estendendo i margini di applicabilità del soccorso istruttorio, ha cura di precisare che non sono sanabili la mancanza, l’incompletezza o – omissis – ogni altra irregolarità essenziale afferenti all’offerta tecnica ed economica”. EF

 



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Inserito in data 09/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 7 novembre 2016, n. 4647

Limiti alla responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale di aree interessate da un fenomeno  di inquinamento preesistente

Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato affronta  la discussa questione  dei limiti della responsabilità per danno ambientale del proprietario attuale delle aree interessate da un conclamato fenomeno di inquinamento non addebitabile sul piano eziologico alla sfera di azione del proprietario medesimo.

Nel giudizio di primo grado il TAR Marche aveva annullato il provvedimento e gli altri atti presupposti e conseguenziali con i quali, all’esito di numerose conferenze di servizi, la P.A.  aveva imposto ad un’impresa adempimenti funzionali alla messa in sicurezza delle aree contermini agli edifici aziendali interessate da fenomeni di inquinamento della falda. Le amministrazioni (odierne appellanti) già in primo grado avevano sostenuto la legittimità dei provvedimenti  annullati, poiché ispirati, a loro dire, dall’intento di porre rimedio in via d’urgenza ad una diffusa situazione di inquinamento ambientale. Il TAR marchigiano, però, aveva ritenuto non imputabile l’impresa, sull’assunto che la stessa sarebbe mera proprietaria delle aree, ma non responsabile dell’inquinamento.

Il Consiglio di Stato, respingendo l’appello proposto dal Ministero dell’ambiente, il Ministero della salute ed il Ministero dello sviluppo economico, mostra di condividere la posizione assunta dal  giudice di prime cure.

Nelle sue argomentazioni, il Supremo Consesso richiama, in primo luogo, l’orientamento già in passato espresso dalla Corte di Giustizia U.E. , la quale, interpellata dall'Adunanza Plenaria (dello stesso Consiglio di Stato) sulla compatibilità della disciplina del Codice dell’Ambiente con i principi dell’Unione Europea in materia ambientale, aveva affermato che "la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (...) la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi".

Tale orientamento della giurisprudenza europea, afferma la Sesta Sezione, consolida la legittimità del Codice dell’Ambiente nella parte in cui esclude, per il proprietario estraneo all’inquinamento del sito, l’imposizione di misure di prevenzione o di riparazione, ad eccezione di quelle che il soggetto intraprenda spontaneamente ai sensi dell’art. 245 cit..

Il Consiglio di Stato entra poi nel merito dell’eccezione sollevata dalle amministrazioni appellanti secondo cui gli interventi imposti alla società in questione “rientrerebbero nelle misure di emergenza esigibili anche in confronto del proprietario non responsabile dell’inquinamento il quale, in ogni caso, sarebbe tenuto ad eseguire gli interventi di bonifica prescritti per essersi prestato alle preliminari attività di monitoraggio delle acque di falda; donde sarebbe pienamente legittimo l’ordine di messa in sicurezza di emergenza della falda a mezzo della realizzazione di barriere idrauliche in prossimità delle sorgenti di contaminazione della falda in aggiunta all’eliminazione dei focolai di inquinamento”.

Orbene, tale tesi, ribadisce il Consesso,   non è condivisibile, poiché,  nel caso di specie, le amministrazioni appellanti non forniscono un riscontro probatorio - anche soltanto indiziario - che dimostri un apporto, anche solo concausale, dell’impresa al fenomeno di inquinamento della falda acquifera (come ad esempio potrebbe essere la dimostrazione della corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate nel sito ed i componenti utilizzati dall’impresa nell’attuale processo di lavorazione); inoltre, la natura stessa delle attività imposte dalla P.A., come il “barrieramento idraulico delle falde”, non è qualificabile alla stregua di attività di messa in sicurezza di emergenza, ma piuttosto è riconducibile a vera e propria attività di bonifica del sito (non addossabili al proprietario che non è responsabile dell’inquinamento). Si deve, pertanto, ritenere, conclude il Consiglio, che la società appellata sia estranea al riscontrato inquinamento della falda acquifera, in assenza di sufficienti elementi probatori (neppure di ordine indiziario), ed in subordine, pur ravvisando nella fattispecie la sussistenza di un’autonoma iniziativa della stessa società (proprietaria delle aree) nella fase iniziale del procedimento di recupero ambientale,  occorre escludere che ad essa possano essere imposte le importanti e gravose opere di bonifica previste dai gravati provvedimenti; “ciò in considerazione della oggettiva difficoltà di assimilare le opere imposte al proprietario (barrieramento idraulico delle acque di falda) con quelle di messa in sicurezza di emergenza ( che risultano conseguenti ad eventi di contaminazione repentina e sono funzionali a contenere la diffusione delle sorgenti primarie di contaminazione, impedirne il contatto con altre matrici presenti nel sito, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente, ai sensi dell’ art. 240, comma 1, lett. m) d.lgs. n. 152 del 2006)”.

A sostegno delle proprie conclusioni, la Sesta Sezione richiama sul punto anche il pacifico orientamento giurisprudenziale dello stesso Consiglio di Stato (ex multis, Cons. Stato, VI, n. 550 del 2016; Cons. Stato, VI, n. 4225 del 2015) “che esclude il coinvolgimento coatto del proprietario di un'area inquinata, non responsabile dell'inquinamento, nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza. Al più tale soggetto, in qualità di proprietario dell'area, potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente ( nella specie, il Comune, ai sensi dell’art. 14 della LR Marche 2 agosto 2006 n. 13, come mod. dalla LR 29 novembre 2013 n. 44) nel limite del valore di mercato del sito determinato dopo l'esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell'art. 253 del Codice dell'ambiente”. FM

 



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Inserito in data 08/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 4 novembre 2016, n. 23

Il contratto di avvalimento nelle gare pubbliche

Con la sentenza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria, chiamata a pronunciarsi sulla corretta interpretazione dell’art. 88 del d.P.R. n. 207/2010, in particolare sulla determinazione dell’oggetto del contratto di avvalimento, esclude la nullità del contratto di avvalimento per le ragioni indicate nell’ordinanza di rimessione.

L’Adunanza fornisce un’interessante genesi dell’istituto dell’avvalimento, la cui enucleazione in ambito eurounitario risponde all’obiettivo preciso di garantire “massima partecipazione alle gare, consentendo ai concorrenti di utilizzare i requisiti di capacità tecnico-professionale e economico-finanziaria di soggetti terzi, indipendentemente dalla natura giuridica dei legami con altri soggetti”.

Il Supremo Consesso ricorda che l’istituto dell’avvalimento è stato introdotto nell’ordinamento nazionale in attuazione di puntuali prescrizioni dell’ordinamento UE e che esso risulta volto, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, a conseguire l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, coinvolgendo anche piccole e medie imprese.

Alla luce di ciò, il Collegio osserva che l’applicazione dei richiamati canoni di parità di trattamento e di non discriminazione osta a interpretazioni sottoposte a requisiti ulteriori e più stringenti rispetto a quelli ordinariamente previsti per la generalità dei contratti, ai sensi degli articoli 1325 e 1346 del Cod. Civ.

In realtà, è al contenuto di tali disposizioni che va riportato il disposto di cui all’art. 88, comma 1, del D.P.R. n. 207 del 2010, che va pertanto letto in coerenza con le predette disposizioni codicistiche.

In particolare, l’applicazione dei richiamati canoni osta alla tesi secondo cui per la validità dei contratti in generale, è richiesto un oggetto di carattere determinato ovvero determinabile.

Al contrario per il contratto di avvalimento sarebbe sempre e comunque richiesto un oggetto determinato (restando esclusa la determinabilità dello stesso sulla base degli ordinari criteri dell’ermeneutica contrattuale).

Le considerazioni dinanzi svolte, relative al potenziale contrasto con il diritto UE di un’interpretazione volta ad imporre in modo indefettibile il requisito della determinatezza dell’oggetto del contratto di avvalimento, neppure consentono di prestare adesione alla teoria della nozione di <>, richiamata in sede di ordinanza di rimessione, peraltro enucleata al precipuo fine di tutelare la posizione negoziale dei contraenti deboli, ove la ratio giustificatrice  risiede nella precisa esigenza di colmare, anche attraverso puntuali imposizioni di determinatezza dell’oggetto, le asimmetrie informative che tipicamente sussistono fra le parti contraenti.

Tuttavia, un’analoga ratio non si rinviene nel settore della contrattualistica pubblica, nel cui ambito agiscono operatori professionali.

Per le ragioni esposte, l’Adunanza Plenaria enuncia il seguente principio di diritto: “L’articolo 49 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e l’articolo 88 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, in relazione all’articolo 47, paragrafo 2 della Direttiva 2004/18/CE, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a un’interpretazione tale da configurare la nullità del contratto di avvalimento in ipotesi (quale quella che qui rileva) in cui una parte dell’oggetto del contratto di avvalimento, pur non essendo puntualmente determinata, fosse tuttavia agevolmente determinabile dal tenore complessivo del documento, e ciò anche in applicazione degli articoli 1346, 1363 e 1367 del codice civile”.

Sicché, nella fattispecie in esame non è ravvisabile un’ipotesi di nullità del contratto di avvalimento. DU

 



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Inserito in data 07/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 3 novembre 2016, n. 4617

Subappalto c.d. necessario e nominativo del  subappaltatore in sede di offerta

Con la  pronuncia emarginata in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello proposto avverso la sentenza resa dal T.A.R. Milano, quarta sezione, n. 00391/2016, in una controversia concernente l’aggiudicazione, da parte di una concorrente, di servizi sociosanitari, assistenziali, alberghieri nonché per la fornitura di prestazioni socio sanitarie e assistenziali. Si precisa che taluni dei predetti servizi vengono svolti in subappalto.

    In particolare, la originaria ricorrente (odierna appellante), sul presupposto che si versi in una ipotesi di subappalto necessario, denuncia la mancata indicazione in sede di presentazione della offerta (da parte della aggiudicataria), del nominativo del subappaltatore. Non ritenendo, quindi, sufficiente la semplice dichiarazione della intenzione di subappaltare il servizio.

    Per maggior chiarezza, ricorre il c.d. subappalto necessario nella ipotesi in cui l’appaltatore, pur essendo titolato a partecipare alla gara, deve necessariamente ricorrere al subappalto per l’effettuazione di alcune lavorazioni (non essendo in possesso delle qualifiche necessarie richieste dalla legge) .

    Sotto tale ultimo profilo, la sentenza in esame ribadisce il principio autorevolmente espresso dalla adunanza plenaria (sentenza n. 9 del 2015), secondo cui “in sede di gara pubblica, l'indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell'offerta non è obbligatoria neanche nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all'art. 107, comma 2, d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207”.

    Invero, con il predetto principio, il supremo Consesso amministrativo ha risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di subappalto necessario, che vedeva contrapposte due opposte soluzioni, peraltro entrambe basate su ricostruzioni plausibili e ragionevoli.

    Secondo una prima tesi, infatti, la necessità della dimostrazione della qualificazione per tutte le lavorazioni per le quali la normativa di riferimento la esige implicherebbe la necessità dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase dell’offerta. Ciò in modo da permettere alla stazione appaltante il controllo circa il possesso, da parte della concorrente, di tutti i requisiti di capacità richiesti per l’esecuzione dell’appalto.

    Viceversa, una diversa impostazione esclude che ai fini della partecipazione ad una gara sia necessario il possesso delle qualificazioni anche con riferimento alle categorie scorporabili, ritenendo così sufficiente il solo obbligo della indicazione delle lavorazioni che il concorrente intende affidare in subappalto, ma non anche la indicazione del nominativo della impresa subappaltatrice.

    Come detto, la plenaria del 2015 ha aderito alla seconda delle due sopra riportate ricostruzioni escludendo, pertanto, l'obbligatorietà dell'indicazione del nominativo del subappalto già in sede di presentazione dell'offerta, anche "nell'ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili”, cioè quando si deve necessariamente ricorrere al subappalto.

Al riguardo il Collegio osserva, così come affermato dal Giudice di prime cure, che “il  subappalto è un istituto che attiene alla fase di esecuzione dell'appalto (e che rileva nella gara solo negli stretti limiti della necessaria indicazione delle lavorazioni che ne formeranno oggetto), di talché il suo mancato funzionamento (per qualsivoglia ragione) deve essere trattato alla stregua di un inadempimento contrattuale, anche l’indicazione nominativa del subappaltatore desumibile già in sede di offerta non può avere l’effetto di vincolare il concorrente alla scelta di quell’impresa come subappaltatrice, impedendogli di indicare una diversa impresa al momento opportuno.

     In conclusione, in sede di presentazione delle offerte non è obbligatorio indicare il nominativo della impresa subappaltatrice, essendo sufficiente la mera indicazione dei lavori che si intendono affidare a terzi. Inoltre, la eventuale indicazione del nominativo del subappaltatore in sede di presentazione delle offerte, non deve considerarsi vincolante per il concorrente il quale potrà ben decidere di rivolgersi ad altra impresa per la esecuzione dei lavori. PC 


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Inserito in data 05/11/2016
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 2 novembre 2016, n. 1225

V.I.A. : Intensità del sindacato esercitabile dal Giudice amministrativo

La valutazione d’impatto ambientale (VIA) è “un procedimento teso ad individuare gli effetti negativi e/o positivi che determinati progetti pubblici o privati possono comportare sull’ambiente, al fine di giudicarne la compatibilità con l’ambiente interessato” e rappresenta “un importante terreno d’incontro e d’interazione tra discrezionalità amministrativa e tecnica”.

Nel  giudizio di valutazione di impatto ambientale, infatti, “l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico,  ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale sul piano dell’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti e della loro ponderazione rispetto all'interesse all'esecuzione dell'opera o del progetto”.

Tale apprezzamento  ” è sindacabile dal G.A. soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata, o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all'amministrazione” (Cfr. ex multis, Cons. St., sez. V, 6 luglio 2016 n. 3000, Cons. St., sez. V, 22 marzo 2012 n. 1640; Cons. St., sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3561;).

“Le posizioni soggettive dei soggetti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito previste dall’art. 134 c.p.a.”

La natura discrezionale della decisione finale assunta dalla P.A. in materia di VIA si riflette sulla “intensità del sindacato del G.A.”

 Il sindacato relativo ai profili di discrezionalità tecnica è” intrinseco”, ma non “sostitutivo”, con l’effetto che il Giudice “non può sovrapporre alla valutazione tecnica opinabile del competente organo della PA la propria.  Diversamente ragionando egli finirebbe col farsi amministratore, sostituendo un giudizio opinabile con uno altrettanto incerto e opinabile, assumendo così un potere che la legge riserva alla P.A.”

Quanto al controllo esercitabile dal G.A. sulle valutazioni schiettamente discrezionali,  esso “deve essere svolto ab extrinseco, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare la sussistenza di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione”.

“Sulla scorta di consolidati principi (cfr., Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 2012, nn. 2312 e 2313; Cons. St., sez. V, 22 marzo 2012 n. 1640; Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 871) la sostituzione, da parte del G.A, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla P.A., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto.”

Peraltro,” in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure; conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti e non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa.” GB

 



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Inserito in data 04/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 31 ottobre 2016, n. 4566

L’effetto conformativo del giudicato sull’attività amministrativa discrezionale

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consesso afferma che in presenza “di un’attività amministrativa vincolata, il giudicato produce un effetto conformativo sostanzialmente pieno sull’attività amministrativa successiva al giudicato stesso, perché stabilisce quali sono le modalità di svolgimento della futura azione amministrativa”.

Viceversa, sottolinea che, in presenza di un’attività connotata da discrezionalità, “l’effetto conformativo è solo parziale. Infatti, il principio di separazione dei poteri, che ha rilevanza costituzionale, impedisce “che il giudice possa definire profili del rapporto che attengono al merito delle scelte amministrative. Ne consegue che “l’attività dell’amministrazione successiva al giudicato dovrà rispettare le regole giudiziali e, per le parti non oggetto della sentenza, le regole legali”.  

A tal uopo, la giurisprudenza amministrativa ha rilevato che nuove ragioni ostative al soddisfacimento della pretesa azionata possano essere fatte valere una sola volta dopo il giudicato.

Si è, infatti, affermato che «potendo in teoria l’Amministrazione pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, ove questa ogni volta ponesse a sostegno del “nuovo” provvedimento fatti “nuovi” (in quanto non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione». E’ stato individuato, in via empirica, il punto di equilibrio tra «due opposte esigenze rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere di amministrazione attiva e dalla portata cogente del giudicato» nell’obbligo per amministrazione «dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo, di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati» (in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 11 febbraio 2013, n. 769).

Tuttavia, altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che con il secondo provvedimento l’amministrazione non possa considerarsi «obbligata a fornire una risposta definitiva e coerente rispetto all’istanza di attribuzione del bene delle vita, e che se ciò non avviene quel bene va senz’altro attribuito». Aggiungendosi, però, che «l’adozione di un secondo diniego dopo il giudicato può far soltanto presumere l’atto elusivo del giudicato stesso: ma si tratta di una presunzione non assoluta, che può essere superata sia dall’interessato, sia da considerazioni di ordine sistematico riguardanti il complessivo sviluppo concreto della vicenda che giustifichi l’adozione di un secondo provvedimento non conforme alla pretesa» (Cons. Stato, sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 769). EF

 



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Inserito in data 03/11/2016
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, ORDINANZA di RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 26 ottobre 2016, n. 2742

Legittimità dei limiti dettati, sia dalla legge statale che da quella regionale, in materia  commerciale: chiamata la CgUE

Con l’ordinanza in esame, la Prima Sezione del Tar Catania rimette alla Corte di Giustizia UE alcuni dubbi di compatibilità, con il diritto europeo, della disciplina, sia nazionale che regionale, in materia commerciale.

Nel caso di specie avrebbe dovuto trovare applicazione la l. reg. Sicilia 22 dicembre 1999, n. 28, secondo cui l’apertura, il trasferimento di sede e l'ampliamento della superficie di una grande struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio nel rispetto della programmazione urbanistico-commerciale volta a favorire, per il settore dei generi di largo e generale consumo, una ponderazione tra l’insediamento di nuovi centri commerciali e la capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante.

Nella pronuncia in oggetto, il Tar siciliano ricostruisce – richiamando alcune più risalenti pronunce della Consulta – l’assetto normativo sia nazionale che regionale in materia di attività commerciali. In esito a tale operazione esegetica, la Prima Sezione richiamai i principi ormai consolidati a livello nazionale in base ai quali, ferma restando l’abolizione di “contingenti e limiti territoriali”, è venuta meno anche la possibilità di utilizzare, al fine di negare autorizzazioni commerciali, vincoli che non siano quelli connessi alla “tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali”. In altri termini, esclusa una liberalizzazione totale nella materia in esame, l’ordinanza ribadisce che i predetti vincoli statali non sono estensibili in via interpretativa ed aggiunge che nell’ambito degli stessi non sono ascrivibili quelli concernenti la materia definita “mobilità e traffico”.

A differenza di altre ipotesi in cui i giudici hanno rimesso la questione inerente la legittimità della sola normativa regionale alla Corte Costituzionale (per violazione della competenza legislativa esclusiva statale ad esempio in tema di tutela della concorrenza), in tal caso i giudici siciliani, anche in ragione del carattere speciale della competenza legislativa, come garantita dallo Statuto della Regione Sicilia, hanno preferito rimettere la più ampia questione direttamente al giudice europeo. Tale rinvio pregiudiziale diretto si giustifica, sia in considerazione della sottoposizione alla Corte U.E. del dubbio circa la compatibilità europea della disciplina nazionale, laddove essa pone i predetti possibili vincoli legati alla tutela di interessi sensibili; sia in ragione del fatto che la stessa normativa nazionale di principio, risulta a propria volta emanata in espressa applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi”.

In conclusione i quesiti posti dal Tar Sicilia alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sono:

«se le norme del Trattato e le altre fonti di diritto dell’Unione “in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” ostino oppure no a che una regolamentazione regionale in materia di commercio, esplicazione di potestà legislativa esclusiva, non sia considerata sostituita in toto dalla normativa nazionale – anch’essa esplicazione di potestà legislativa esclusiva, ed emanata in dichiarata applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” – nella parte in cui tale normativa nazionale specifica a tutela di quali interessi e vincoli una attività economica può essere limitata;

se le norme del Trattato e le altre fonti di diritto dell’Unione “in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” ostino conseguentemente oppure no a che una regolamentazione regionale in materia di commercio, esplicazione di potestà legislativa esclusiva, integri la normativa nazionale – anch’essa esplicazione di potestà legislativa esclusiva, ed emanata in dichiarata applicazione della “disciplina dell'Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi” – e indichi quindi anche interessi e vincoli diversi, a tutela dei quali una attività economica può essere limitata, e che possono rendere necessario verificare previamente un rapporto equilibrato tra gli insediamenti commerciali e la capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante». FM



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Inserito in data 02/11/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 31 ottobre 2016, n. 4558

Nelle gare di appalto, la qualificazione delle partecipanti deve essere valutata in gara

Il Consiglio di Stato con la pronuncia in epigrafe, ritiene fondate le censure dell’appallante sull’illegittimità dell’ammissione del raggruppamento temporaneo di imprese aggiudicatario (r.t.i.).

Nella specie, veniva indetta una procedura ristretta per la realizzazione del sistema di collegamento tra un aeroporto e una stazione ferroviaria.

In particolare, si trattava dell’affidamento secondo il criterio del massimo ribasso dei lavori di costruzione di un parcheggio monopiano a servizio del predetto sistema di collegamento per un importo, a base di gara, comprendente gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso.

In seguito all’aggiudicazione, la seconda classificata insorgeva dinnanzi al TAR, per l’annullamento di essa per carenza dei requisiti di partecipazione (sia tecnici che economici), e, consequenzialmente, per il proprio subingresso.

Il Supremo Collegio ritiene fondata la censura sull’irregolarità della posizione fiscale del r.t.i. aggiudicatario, in quanto sulla scorta degli insegnamenti dell’Adunanza plenaria 20 agosto 2013 n. 20, la situazione di irregolarità di fatto è insorta dopo la partecipazione alla gara.

Il Consiglio di Stato ritiene inoltre doveroso, nel caso di specie, osservare il principio di diritto enunciato dall’Adunanza plenaria con la sentenza 20 luglio 2015 n. 8 - come richiamato nell’atto di appello - per il quale “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità”.

Pertanto, ivi si afferma a chiare lettere che in base ai canoni dell'imparzialità e della par condicio non si può consentire che vengano ammesse alla gara offerte provenienti da soggetti sprovvisti dei requisiti. Ciò, in ragione della loro peculiare rilevanza sul piano economico e tecnico, che per la legge deve essere valutata “in gara " (si parla infatti di “qualificazione obbligatoria").

La Quinta Sezione dichiara, inoltre, la piena equiparazione tra gli operatori economici offerenti in via diretta e gli operatori in rapporto di avvalimento; ove, pertanto, è coerente l’esclusione per chi si avvale di un soggetto ausiliario privo di uno di questi requisiti.

Nella specie, ad avviso del Collegio la scopertura, che per quanto di minima entità era comunque sussistente, che era stata corretta grazie a un soccorso istruttorio ammesso dall’interessato, rende inammissibile l’ammissione alla gara.

Dall’esclusione del r.t.i. ,primo aggiudicatario, deriva la qualificazione di prima graduata all’appellante, con il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni in forma generica – vista l’ormai avvenuta conclusione delle opere - commisurato al mancato guadagno per l’ingiusta collocazione in graduatoria, corrispondente all’importo offerto, calcolato nella misura del 10%, oltre alla rivalutazione e interessi legali nella misura legale secondo il tasso vigente al momento della stipula del contratto. DU

 



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Inserito in data 31/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 ottobre 2016 n. 4487

Contributo dovuto dai cittadini dei paesi extra Unione per il rilascio del permesso di soggiorno: illegittimità degli importi dovuti per eccessiva onerosità

Con la sentenza emarginata in epigrafe, il Collegio respinge l'appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (qui di seguito, per brevità, le Amministrazioni), confermando, pertanto, la sentenza del T.A.R. Lazio (Roma), sez. II-quater, n. 6095/2016, dinnanzi al quale era stata proposta impugnazione avverso il decreto ministeriale del 6 ottobre 2011, attuativo degli artt. 5, comma 2-ter, e 14-bis del d. lgs. n. 286 del 1998 (T.U. Immigrazione), adottato dalle Amministrazioni appellanti  per stabilire gli importi relativi ai contributi dovuti per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno.

Si precisa che la predetta impugnativa dinnanzi al T.A.R Lazio è stata proposta da CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) nonchè da INCA (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza).

In primis, è opportuno ricordare che il Giudice di prime cure aveva investito la Corte di Giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale , della questione incidentale riguardante la compatibilità con il diritto europeo della normativa italiana che disciplina la materia dei contributi previsti per il rinnovo o il rilascio dei permessi di soggiorno.

L'oggetto del rinvio è la questione se, alla luce dei principî stabiliti dalla direttiva n. 2003/109/CE - relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo  - ostino ad una normativa, come quella delineata dagli articoli sopra riportati, nella parte in cui si dispone che la richiesta di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno è sottoposta al versamento di un contributo, il cui importo è fissato in un minimo di € 80,00 e in un massimo di € 200,00 con decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, di concerto con il Ministero dell’Interno.

Sul punto la Corte di Giustizia si pronuncia nel senso della incompatibilità della normativa nazionale italiana con il dettato europeo, ritenendo i contributi previsti dal decreto ministeriale sproporzionati (per eccesso) rispetto alle finalità perseguite dalla direttiva e, dunque, idonei a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima.

Il T.A.R. Lazio, preso atto della pronuncia del Giudice europeo e della fondatezza del ricorso proposto da GGIL ed INCA con riferimento alla esosità del contributo de quo, annulla gli articoli (1, comma 1 e 2, commi 1 e 2 del d,lgs citato), nella sola parte in cui si riferiscono al contributo di cui all’art. 1, e l’art. 3 del D.M. 6 ottobre 2011.

Ebbene, avverso la decisione del Giudice di primo grado viene proposto appello dinnanzi al Consiglio di Stato il quale, come vedremo in seguito, respinge  l'impugnativa giudicandola infondata.  

Innanzitutto, con riguardo alla carenza di legittimazione attiva il Collegio, disattendendo i motivi prospettati dalle Amministrazioni a fondamento della asserita inammissibilità del ricorso dinnanzi al T.A.R.,  evidenzia il ragionamento del Giudice regionale il quale "ha correttamente rilevato che un’organizzazione sindacale, quale è la CGIL, sebbene non possa agire per la difesa di singole posizioni o di interessi di una sola parte degli iscritti, è ben legittimata ad agire in giudizio a tutela delle prerogative della stessa organizzazione sindacale, quale istituzione esponenziale di una categoria di lavoratori e degli stessi interessi collettivi della stessa categoria, unitariamente considerata".

Pertanto, in linea con la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, "le associazioni sindacali sono ben legittimate a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti, di cui hanno la rappresentanza istituzionale o di fatto giacchè fanno valere un interesse collettivo dell’intera categoria di tali lavoratori e non già il singolo interesse di ciascuno di essi". L’associazione sindacale risulta senz’altro titolare di una posizione soggettiva che la legittima ad agire per tutelare l’interesse dei cittadini stranieri che richiedono il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno.

Ciò posto, in riferimento al secondo e principale motivo proposto dalle Amministrazioni appellanti, incentrato sulla violazione e falsa applicazione della direttiva CE ad opera della normativa italiana , il Collegio si allinea alla posizione del Giudice di prime cure ed afferma la illegittimità delle previsioni del decreto ministeriale impugnato in primo grado, confermando così il ragionamento del T.A.R. circa la portata della sentenza della Corte di giusitizia la quale "ben comprende che i singoli importi di cui al decreto ministeriale risultano essere sproporzionati e fin troppo elevati in relazione alle finalità della direttiva europea".

Ed invero, "il Giudice europeo mette in primo piano la considerevole incidenza economica che un contributo siffatto può avere su taluni cittadini di paesi terzi che soddisfano le condizioni poste dalla direttiva 2003/109 per il rilascio dei permessi di soggiorno previsti da quest’ultima, e ciò a maggior ragione per il fatto che, in considerazione della durata di tali permessi provvisori, tali cittadini sono costretti a richiedere il rinnovo dei titoli assai di frequente e che all’importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale, cosicché, in tali circostanze, l’obbligo di versare il contributo può rappresentare un ostacolo alla possibilità per i predetti cittadini dei paesi terzi di far valere i diritti conferiti dalla direttiva".

Orbene, con la decisione in epigrafe si rileva che "la necessità di richiedere il rinnovo dei permessi di più breve durata, perché maturi il quinquennio di legale permanenza sul territorio italiano richiesto dall’art. 9, comma 1, del d. lgs. n. 286 del 1998, impone allo straniero di pagare quantomeno, inizialmente, un contributo minimo di € 80,00 e via via, nel corso della sua regolare permanenza, quelli successivi per il rinnovo dei permessi, anche per il superiore importo di € 120,00, fino al pagamento dell’importo finale, pari ad € 200,00, per ottenere il permesso UE per soggiornanti di lungo periodo".

Risulta evidente che trattasi di un sistema contributivo già di per sè oneroso il quale è ulteriormente aggravato dall'affiancamento di ulteriori oneri fissi (segnatamente, marche da bollo, registrazione nel sistema telematico etc.). 

D'altra parte, tra le finalità della diretttiva rientra senza alcun dubbio la protezione della libertà di stabilimento la quale verrebbe, per così dire, vanificata da una normativa nazionale, quale quella italiana che, mediante l’introduzione di una legislazione relativa ai permessi di più breve durata, sostanzialmente penalizzante o addirittura proibitiva, già solo a livello economico, per la stabile permanenza degli stranieri nel territorio nazionale, rende così irraggiungibile o, per lo meno arduo, l’obiettivo di conseguire i permessi di lunga durata.

Alla luce delle argomentazioni predette, il Collegio afferma che "la direttiva 2003/109 osta ad una normativa nazionale, come quella italiana che impone ai cittadini di paesi terzi che richiedono il rilascio o il rinnovo di un permesso di soggiorno nello Stato italiano, di pagare un contributo di importo variabile (tra € 80,00 ed € 200,00), in quanto un siffatto importo risulta sproporzionato rispetto alle finalità perseguite ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti dalla leglislazione europea. Al riguardo viene utilizzata la espressione “vero e proprio percorso ad ostacoli al fine di ottenere un permesso permanente per lo straniero intenzionato a stabilirsi in Italia.

Si consideri, per come ha ben esposto il giudice di prime cure nella ordinanza di rimessione alla Corte europea, che "il costo per il rilascio della carta d’identità italiana ammonta attualmente, nel nostro Paese, a circa 10 euro", somma otto volte inferiore a quella prevista per il rilascio del permesso di minor durata (€ 80,00).

Ne discende, dunque, la infondatezza delle censure sollevate dalle Amministrazioni appellanti.

Conclusivamente il Collegio respinge l'appello, conferma la sentenza impugnata e rimette alle Amministrazioni appellanti, nell'esercizio della loro discrezionalità, la rideterminazione (con decreto ministeriale) degli importi dei contributi de quibus, in modo tale che la loro equilibrata e proporzionale riparametrazione non costituisca un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dalla direttiva n. 2003/109/CE. PC

 



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Inserito in data 29/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 26 ottobre 2016, n. 4475

Diritto di accesso ai documenti relativi a fatture di acquisto materiale: diniego infondato

La pronuncia in esame è interessante poiché delimita, ancora una volta, gli aspetti ed i confini propri del diritto di accesso e dei soggetti a questo legittimati.

Nella specie, la Quinta Sezione accoglie il gravame proposto da un consigliere regionale avverso una sentenza con cui il TAR valdostano, sancendo la natura imprenditoriale di una società totalmente partecipata dalla Regione, aveva negato ai membri dell’Organo consiliare l’ostensibilità del carteggio dalla medesima emesso al termine di una gara pubblica.

Contrariamente a quanto addotto dal Tribunale di prime cure, infatti, i Giudici dell’appello ritengono che sia del tutto indifferente per l’Amministrazione regionale la natura imprenditoriale o meno del soggetto deputato allo svolgimento di simili attività; quel che conta, invero, è che esso sia teso a promuovere e a compiere tutte quelle attività o a porre in essere tutti quegli interventi che, direttamente o indirettamente, favoriscano lo sviluppo socio-economico del territorio regionale, in armonia con le direttive della Regione”.

In considerazione di ciò, pertanto, il Collegio ritiene come ostensibile il carteggio prodotto al termine della gara pubblica – nella specie le fatture di acquisto di materiale.

I Giudici considerano, altresì, come qualificato e meritevole di tutela l’interesse del consigliere regionale – odierno appellante – in vista dell’espletamento del proprio mandato consiliare e, in ragione di ciò, ne accolgono il sollevato gravame. CC

 



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Inserito in data 28/10/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 26 ottobre 2016, n. 4476

La locazione di locali con prestazione di forniture e di servizi richiede la gara 

La locazione di locali “appositamente e inscindibilmente attrezzati di servizi” e “connessi a forniture” necessita l’esperimento di una normale procedura di gara.

Quando la fruizione di un immobile è “strettamente collegata ad una serie di servizi e forniture, che concretizzano prestazioni nient’affatto accessorie o complementari”- senza le quali “la pura disponibilità di locali” risulterebbe  “inidonea a soddisfare le esigenze che muovono l’amministrazione a contrarre”- non è configurabile “la causa oggettiva pura e semplice di una locazione”.

Da ciò discende la mancata operatività dell’ ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici di cui all’art. 19, primo comma.

Infatti, quando la causa concreta del contratto presenta un nesso funzionale inscindibile tra locazione di spazi idonei, fornitura di materiali e suppellettili, prestazione di servizi, non è configurabile un contratto di locazione, ma un contratto misto che rende necessario l’espletamento di una procedura di gara per la scelta del contraente.

Nel caso di specie, si trattava di un contratto di locazione di locali idonei all’espletamento delle prove scritte per l’abilitazione all’esercizio della professione forense , e “al contempo”, di una “prestazione di forniture (c.d. gruppi concorso, allestimenti uffici per la commissione e di tutta la segreteria, le linee telefoniche, le postazioni attrezzate per la commissione e la segreteria, l’amplificazione sonora, servizi igienici, consumi energetici, aerazione locali) e di servizi (presidio conduzione impianti ed antincendio, presidio sanitario con ambulanza e presenza di due medici, pulizie e presidio dei servizi igienici)”. Elementi connessi da un “nesso funzionale inscindibile. GB. 

 



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Inserito in data 27/10/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 ottobre 2016, n. 4454

La stazione appaltante non può sindacare nel merito l’interdittiva antimafia

Con la pronuncia indicata in epigrafe, questa Sezione condivide la costante giurisprudenza (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 23 gennaio 2015, n. 305), secondo cui l’interdittiva antimafia “può fondarsi, oltre che su fatti recenti, anche su fatti più risalenti nel tempo, quando dal complesso delle vicende esaminate, e sulla base degli indizi (anche più risalenti) raccolti, possa ritenersi sussistente un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa”.

In particolare, se “dall’esame dei fatti più recenti non è confermata l’attualità del condizionamento, pur ipotizzabile sulla base dei fatti più risalenti, l’informativa deve essere annullata” (Cons. St., sez. III, 13 marzo 2015, n. 1345).

Tuttavia, la persistenza di legami, vincoli e sodalizi non può essere smentita dal mero decorso del tempo, rivelandosi quest’ultimo insufficiente “se non corroborato da ulteriori e convincenti elementi indiziari”; senza considerare, inoltre, che “l’infiltrazione mafiosa, per la natura stessa delle organizzazioni criminali dalle quali promana e per la durezza e, insieme, durevolezza dei legami che esse instaurano con il mondo imprenditoriale, ha una stabilità di contenuti e, insieme, una mutevolezza di forme, economiche e giuridiche, capace di sfidare il più lungo tempo e di occupare il più ampio spazio possibile, come questa Sezione non ha mancato di rilevare anche nella sua giurisprudenza più recente” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743).

D’altronde, il Collegio puntualizza che l’interdittiva antimafia “può basarsi su una valutazione unitaria delle circostanze emerse nel corso del procedimento, da intendersi richiamate per relationem nel momento in cui vi è la determinazione finale della Prefettura”.

In sostanza, a seguito dell’impugnazione dell’atto, “l’Amministrazione in sede difensiva ben può porre l’attenzione su alcune circostanze richiamate per relationem, senza che ciò implichi una ‘motivazione postuma’: questa è configurabile quando il provvedimento non esplicita la ‘ragione’ dell’atto e in sede difensiva l’Amministrazione la intende evidenziare, ma non anche quando la ragione dell’atto è esplicitata (quando si tratta di una interdittiva, il pericolo del condizionamento mafioso) e si sottopone al giudice la valutazione di circostanze di fatto risultanti dagli atti del procedimento”.

D’altra parte, il Consesso chiosa che “le misure di cui all’art. 32, commi 1, 2 e 8, del d.l. n. 90 del 2014 possono essere applicate contestualmente all’adozione dell’interdittiva antimafia e che l’intervento sostitutivo dell’autorità prefettizia, in ipotesi di interdittiva già in atto, è consentito solo nelle ipotesi eccezionali, previste dal comma 10, che giustificano la prosecuzione del rapporto contrattuale, previa ‘bonifica’ dell’assetto societario, per preminenti ragioni di interesse generale, al punto che l’attività di temporanea e straordinaria gestione dell’impresa è considerata di ‘pubblica utilità’, come chiarisce il comma 4.

Tanto sono preminenti ed eccezionali tali ragioni e tanto esse sono di interesse generale, peraltro, che il successivo art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011 prevede che il procedimento, previsto dall’art. 32, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, debba essere avviato obbligatoriamente d’ufficio dal Prefetto, con la conseguenza che l’impresa interessata è legittimata ad esercitare, nell’ambito di esso, esclusivamente gli strumenti di partecipazione previsti dagli art. 7, 8 e 10 della l. n. 241 del 1990 e non a chiedere l’avvio del procedimento stesso.

L’art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011 prevede che il Prefetto, adottata l’informazione antimafia interdittiva, verifica, altresì, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle misure di cui all’art. 32, comma 10, d.l. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114 del 2014, e, in caso positivo, ne informa tempestivamente il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione”.

Invero, la lettura combinata dell’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014 e dell’art. 92, comma 2-bis, del d. lgs. n. 159 del 2011, inserito dall’art. 3, comma 1, lett. b), numero 2), del d. lgs. n. 153 del 2014, consente di affermare che “l’adozione delle misure previste dall’art. 32 non deve precedere necessariamente l’emissione dell’informativa, ma anzi che il Prefetto, nell’emettere l’informativa, valuta anche dopo la sua emissione la sussistenza dei presupposti eccezionali per l’adozione di tali misure”.

Peraltro, i Giudici di Palazzo Spada avallano il filone interpretativo, secondo cui “l’Amministrazione è esonerata dall’obbligo di comunicazione di cui all’art. 7 della l. 7 agosto 1990, n. 241, relativamente all’informativa antimafia e al successivo provvedimento di revoca un’aggiudicazione rilasciata, atteso che si tratta di procedimento in materia di tutela antimafia, come tale intrinsecamente caratterizzato da profili di urgenza” (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 2 marzo 2009, n. 1148; Cons. St., sez. VI, 7 luglio 2006, n. 6555).

Precisano, altresì, che “in presenza di un’informativa prefettizia antimafia che accerti il pericolo di condizionamento dell’impresa da parte della criminalità organizzata, non residua in capo all’organismo committente alcuna possibilità di sindacato nel merito dei presupposti che hanno indotto il Prefetto alla sua adozione, atteso che si tratta di provvedimento volto alla cura degli interessi di rilievo pubblico – attinenti all’ordine e alla sicurezza pubblica nel settore dei trasferimenti e di impiego di risorse economiche dello Stato, degli enti pubblici e degli altri soggetti contemplati dalla normativa in materia – il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva all’Autorità di pubblica sicurezza e non può essere messo in discussione da parte dei soggetti che alla misura di interdittiva devono prestare osservanza”.

Ne discende che ogni successiva statuizione della stazione appaltante si configura “dovuta e vincolata a fronte del giudizio di disvalore dell’impresa con la quale è stato stipulato il contratto e il provvedimento di revoca o recesso non deve essere corredato da alcuna specifica motivazione, salvo la diversa ipotesi, del tutto eccezionale, in cui a fronte dell’esecuzione di gran parte delle prestazioni e del pagamento dei corrispettivi dovuti, venga riconosciuto prevalente l’interesse alla conclusione della commessa con l’originario affidatario” (Cons. St., sez. III, 12 marzo 2015, n. 1292).

La stazione appaltante non ha, dunque, alcun “specifico potere discrezionale di sindacare l’interdittiva, ma deve emanare l’atto consequenziale”. EF

 



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Inserito in data 26/10/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 20 ottobre 2016, n. 224

La violazione del c.d. giudicato costituzionale: la Consulta ritorna ad occuparsene

Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale nell’accogliere la questione di legittimità sollevata dal Tar Milano - in merito all’art. 17, comma 1, della legge della Regione Lombardia 18 aprile 2012, n. 7 - ribadisce le regole fondamentali in tema di giudicato costituzionale. In particolare, riafferma la incostituzionalità delle norme (statali o regionali) che intervengono al fine di mitigare gli effetti di una pronuncia della Consulta, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, quanto previsto dalla norma dichiarata illegittima.

La fattispecie in oggetto presenta la peculiarità di riguardare una legge regionale che in sostanza  costituisce una riedizione di una precedente norma già oggetto, nel 2011, di declaratoria di illegittimità costituzionale su rimessione del medesimo giudice amministrativo. La Corte, infatti, aveva già dichiarato costituzionalmente illegittime una serie di norme regionali fra cui l'art. 22, l. reg. Lombardia 5 febbraio 2010, n. 7,  che, nello stabilire che la ricostruzione dell'edificio fosse da intendersi senza vincolo di sagoma, risultava in contrasto con il principio fondamentale stabilito dall'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001 T.U. edilizia, che definisce gli "interventi di ristrutturazione edilizia" e, di conseguenza,  si poneva anche in conflitto con il riparto di competenza previsto dall’art. 117, comma 3, Cost., in materia di governo del territorio.

Il legislatore regionale, nonostante la suddetta precedente pronuncia della Consulta, ha adottato la norma oggetto della sentenza in commento, in base alla quale sono dichiarati “validi ed efficaci” gli interventi di ristrutturazione consistenti nella demolizione e ricostruzione senza vincolo di sagoma, a condizione, però, che il titolo sia stato rilasciato prima del 30 novembre 2011 e che la comunicazione di inizio lavori sia stata protocollata prima del 30 aprile 2012.

Orbene, la vicenda da cui trae origine la questione vede la proprietaria di un immobile - confinante con un’area nella quale il Comune interessato ha autorizzato, con permesso di costruire, un intervento di ristrutturazione mediante demolizione dell’edificio esistente e ricostruzione con sagoma diversa - presentare  istanza di autotutela in relazione al permesso di costruire, invocando la sentenza n. 309 del 2011. L’istanza viene, però, respinta dal Comune in ragione dell’art. 17, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 7 del 2012 ed «al fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati». L’istante, quindi, impugnando il provvedimento negativo del Comune, insieme al permesso di costruire, eccepisce l’illegittimità costituzionale della predetta legge regionale, in riferimento all’art. 136 Cost.

Nel pronunciarsi sul ricorso, il Tar milanese solleva diverse questioni di costituzionalità tra cui: in primo luogo, il contrasto con l’art. 136, comma primo, Cost. e con la legge cost. n. 1 del 1948, poiché la norma regionale avrebbe inteso limitare gli effetti per il passato della sentenza n. 309 del 2011, escludendo che essa rilevi per i titoli edilizi anteriori alla sua pubblicazione; in secondo luogo, perché la disposizione impugnata sarebbe affetta dallo stesso vizio accertato dalla sentenza n. 309 del 2011 con riguardo alle disposizioni allora in questione, determinando un contrasto con l’art. 117, comma terzo, Cost., in relazione all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2011, nel testo allora vigente.

La Corte Costituzionale, ritenendo fondata nel merito la questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e all’art. 1 della l. cost. n. 1 del 1948, afferma che essa “ha già stigmatizzato (ex plurimis, sentenza n. 169 del 2015) le disposizioni con cui il legislatore, statale o regionale, interviene per mitigare gli effetti di una pronuncia di illegittimità costituzionale, per conservare o ripristinare, in tutto o in parte, gli effetti della norma dichiarata illegittima.

Tale è il caso della disposizione impugnata, emanata al dichiarato «fine di tutelare il legittimo affidamento dei soggetti interessati» in relazione agli «interventi di ristrutturazione edilizia oggetto della sentenza n. 309 del 2011». Essa, come risulta esplicitamente dal suo tenore letterale, mira a convalidare e a confermare nell’efficacia gli atti amministrativi emessi in diretta applicazione della precedente normativa regionale, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla citata pronuncia di questa Corte, i cui effetti la disposizione regionale vorrebbe parzialmente neutralizzare.

A nulla rilevano, ovviamente, i mutamenti successivamente intervenuti nella legislazione statale, che hanno rimosso il divieto di alterazione della sagoma nelle ristrutturazioni edilizie, su cui si fondavano le dichiarazioni di illegittimità costituzionale contenute nella sentenza n. 309 del 2011…” “l’odierna questione e la norma che ne costituisce oggetto concernono situazioni anteriori a tale innovazione della legislazione statale e non sono da essa interessate.

Per questi motivi la disposizione impugnata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 136 Cost., mentre resta assorbito ogni altro motivo di censura”. FM



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Inserito in data 25/10/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 ottobre 2016, n. 4417

Sullo scorporo degli oneri di urbanizzazione secondaria

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato dichiara la legittimità della condizione che subordina il rilascio della concessione edilizia al preventivo pagamento di un dato importo a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria.

Tale condizione è stata ritenuta illegittima dal giudice di primo grado per violazione dell’art. 8 della convenzione di lottizzazione stipulata dalle parti, la società xxx s.r.l., di seguito, breviter, la “Società e il comune di xxx, di seguito, breviter, il “Comune.

Nella specie, si tratta di una norma il cui contenuto discende dall’art. 86 della Legge Regionale n. 61/1985, che consente espressamente, previo accordo tra le parti,“ lo scomputo totale o parziale della quota di contributo dovuta per oneri di urbanizzazione anche di diversa categoria” .

Nel proprio iter argomentativo, il TAR riconduce alla convenzione di lottizzazione stipulata dalle parti, l’ammissibilità dello scomputo delle somme dovute, ritenendo che con l’espressione “anche per quelle relative ad opere di specie diverse”, le parti intendessero riferirsi proprio allo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria.

Il Supremo Collegio ritiene che “l’accoglimento del ricorso di primo grado si fonda su un presupposto palesemente errato”, ossia sulla lettura della convenzione che riconosce alla Società la possibilità di effettuare il versamento di una somma a titolo di oneri di urbanizzazione primaria in sostituzione delle opere secondarie. Tuttavia, la Quinta Sezione ritiene che “queste ultime non hanno nulla a che vedere con gli oneri di urbanizzazione secondaria, attenendo al costo di realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (oltre al valore delle aree da cedere); somma ampiamente superiore all’importo tabellare degli oneri di urbanizzazione primaria che in ragione di tale maggior valore verranno “scomputati“al 100%”.

Il Collegio precisa che “ai sensi dell’art.86 della Legge Regionale n.61 del 1985, lo “scomputo” che tale norma consente, non deve essere confuso con lo “sconto”, che in essa non è invece in alcun modo previsto né sarebbe stato possibile prevedere”.

In particolare, il Collegio chiarisce che se lo “sconto” consiste nella possibilità di corrispondere per oneri di urbanizzazione “una somma minore rispetto a quella dovuta e richiesta da chi ne ha titolo”, la ratio dello “scomputo” ex art. 86 L.R. cit., consiste nella possibilità di “detrarre dal dovuto” per contributo relativo agli oneri di urbanizzazione tabellari, ciò che viene o sarà (in base ad impegno assunto) corrisposto sotto altra forma. Ciò al fine di evitare che l’obbligato paghi due volte per lo stesso titolo.

La Quinta Sezione precisa che “la particolarità dello scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria dovuti nell’ambito di una lottizzazione convenzionata, consiste nel fatto che normalmente il lottizzante non realizza siffatte opere, ma in accordo con il Comune, cede le aree di cui dispone per la realizzazione di tali opere. Se le prime corrispondono alle aree standard previste per la zona o sono superiori gli oneri dovuti per l’urbanizzazione secondaria, potranno essere scomputati integralmente; se non raggiungono le aree standard, come nella specie, le “monetizza” trattenendo tali aree, ma impegnandosi a corrispondere una somma che esprime il valore delle stesse, senza tuttavia essere esente dall’obbligo di versare in aggiunta quanto ancora dovuto in base alle apposite tabelle parametriche comunali, a titolo di oneri di urbanizzazione secondaria”.

Pertanto, in nessun caso potrà corrispondersi meno di quanto dovuto in base a tali tabelle, poiché, come chiarito, si tratta di “scomputo” e non di “sconto”.

A ben vedere, ciò che occorre tener presente è la profonda diversità fra contributi per spese di urbanizzazione e contributi dovuti per la monetizzazione di aree standard, legata ai rispettivi fini, che esclude ogni possibilità di scomputare dai primi l’importo dei secondi “trattandosi di distinti e ugualmente necessari costi che l’amministrazione deve sopportare per la sostenibilità dell’intervento “(così Cons. Stato Sez. IV , 8 gennaio 2013 n.32). DU

 



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Inserito in data 24/10/2016
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 ottobre 2016, n. 1007

Condizione di procedibilità del ricorso in ottemperanza ex art. 5 sexies L. Pinto: questione di legittimità costituzionale

Con la pronuncia emarginata in epigrafe, il T.A.R. Liguria rileva diversi  profili di incostituzionalità dell’art. 5 sexies (L. Pinto n. 89 del 2001), introdotto dall’art. 1 della legge di stabilità per il 2016 (L. n. 208 del 2015). La disposizione predetta  introduce una condizione di procedibilità necessaria per ottenere il pagamento delle somme dovute dall’Amministrazione a titolo di indennizzo per l’irragionevole durata di un processo.    

    La norma impone al creditore di rilasciare una dichiarazione di autocertificazione e sostitutiva di notorietà, attestante la non avvenuta riscossione di quanto dovuto (comma 1). Detta dichiarazione, come detto, costituisce una vera e propria condizione di procedibilità, giacché il comma 4 della disposizione stabilisce che “la mancanza, l’incompletezza ovvero l’irregolarità della documentazione richiesta precluda all’Amministrazione l’emissione dell’ordine di pagamento”. Inoltre la norma introduce, al comma 5, un nuovo termine semestrale decorrente dalla data in cui sono assolti gli obblighi comunicativi di cui si è detto, termine entro cui l’Amministrazione debitrice può effettuare il pagamento. Il comma medesimo dispone, altresì, che, prima dello spirare di detto termine,  il creditore non può procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto o alla proposizione di un ricorso per l’ottemperanza del provvedimento liquidatorio (comma 7).

    Stando così le cose, il Collegio rileva che il suddetto termine di 180 giorni si aggiunge al termine di 120 giorni già previsto (in via generale) dall’art. 14 del D. L. n. 669/1996, per tutti i crediti vantati nei confronti di un’Amministrazione dello Stato, con ciò evidenziando “la cumulabilità e non la artenatività dei due termini previsti” giacché il successivo comma 11 della disposizione oggetto della pronuncia in esame,  prevede che “in caso di mancato, incompleto o irregolare adempimento degli obblighi di comunicazione di cui al primo comma, il pagamento non possa essere disposto neppure nell’ambito dei procedimenti esecutivi già in corso”, cioè quelli per i quali il termine contemplato dal predetto art. 14 D. L. n. 669/1996 (120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo) costituiva già condizione per procedere ad esecuzione forzata.

    La conseguenza della cumulabilità dei detti termini è  che il creditore non può procedere all’esecuzione forzata, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento, prima che sia decorso un termine complessivo di dieci mesi.

    Dunque, ad avviso del Collegio, la norma richiamata violerebbe  gli articoli  3 e 24 (commi primo e secondo), 111 (commi primo e secondo), 113 comma 2 e 117 comma 1 della Costituzione.

    Più precisamente, con riguardo all’art. 3 Cost., “la nuova condizione di procedibilità rappresenta un ulteriore vulnus al principio di uguaglianza, nella misura in cui determina una graduazione puramente temporale delle ragioni creditorie, in contrasto con il principio della par condicio creditorum di cui all'art. 2741 comma 1 del codice civile”.

   In secondo luogo, per violazione del diritto di difesa di cui agli artt. 24, primo e secondo comma, e 113, secondo comma Cost., in quanto “la previsione di un termine semestrale (ulteriore rispetto al quello di 120 giorni previsto dal citato art. 14, d.l. n. 669 del 1996) comporta l’impossibilità per il cittadino di agire in via immediata e diretta per il soddisfacimento del proprio credito, pur essendo egli in possesso di un titolo esecutivo perfetto”.  Invero, la previsione di un ulteriore termine, oltretutto più lungo di quello che il Legislatore ha ritenuto congruo per il pagamento di tutti gli altri debiti della P.A. (L. 669 del 1996) pare dunque essere una scelta ingiustificata anche rispetto alle esigenze di effettività della tutela creditoria del cittadino. Sul punto la Consulta ha già avuto modo di osservare come “il diritto di difesa sia frustrato non soltanto allorquando le norme vigenti consentono che sia radicalmente impedito il loro esercizio, pur formalmente riconosciuto, ma anche se è possibile che si creino, senza la previsione di adeguati rimedi, situazioni tali da rendere eccessivamente difficile l'esercizio stesso” (sent. 8/5/2009, n. 142).

    Ed invero il Collegio afferma che la previsione di tale ulteriore termine più lungo risulta essere una scelta ingiustificata anche rispetto alle esigenze di effettività della tutela creditoria del cittadino, costituente una non consentita compressione del diritto di agire in giudizio e del diritto di difesa in ambito processuale.

    Sempre con riferimento alla denunciata compressione del diritto di difesa, i giudici liguri rilevano come la disposizione de quo contrasti, altresì, con gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e conl’art. 47 della Carta dei diritti UE.  Al riguardo, anche la giurisprudenza comunitaria ha da sempre affermato la importanza della effettività della tutela dei ricorrenti nei confronti della PA evidenziando che la esigenza di effettività attiene alla definizione delle modalità procedurali che reggono le azioni giudiziarie (cfr. Corte Giust. UE, sent. 18/3/2010, C-317/08, Alassini; sent. 27/6/2013, C-93/12, ET Agrokonsulting).

    Alla luce delle sovra esposte considerazioni, i giudici genovesi rimettono  la questione alla Corte costituzionale affermando che la previsione di una condizione di proponibilità del ricorso per ottemperanza configura, infatti, un ingiustificato privilegio per la Pubblica Amministrazione inadempiente che si traduce, sul piano della tutela giurisdizionale, in una rilevante discriminazione tra situazioni soggettive sostanzialmente analoghe ed in un apprezzabile ostacolo processuale per il soddisfacimento del credito del cittadino.

A questo punto, non rimane che attendere la decisione dei giudici costituzionali. PC

 

 



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Inserito in data 22/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 ottobre 2016, n. 4386

Diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nucleo familiare e requisiti reddituali 

La Terza Sezione del Consiglio di Stato interviene in tema di diniego di permesso di soggiorno e relativi presupposti.

In particolare, la pronuncia in esame è significativa in quanto – nel gravame avverso la suddetta misura emessa da una Questura lombarda - ricorda la necessità di contemperare la regolazione dei flussi migratori con le esigenze di sviluppo del Paese – come la giurisprudenza amministrativa unitamente ormai afferma (Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 11 maggio 2015, n. 2335; 11 luglio 2014, n. 3596).

In considerazione di ciò e stante la particolare condizione di vita del ricorrente, residente in Italia sin dalla tenera età e contornato da uno stabile nucleo familiare, il Collegio ne accoglie l’appello.

Ordina, pertanto, all’Amministrazione competente di intervenire in sede di rilascio, ed intima la necessità ed opportunità di non valutare la carenza del requisito reddituale come ostativo al rilascio del permesso di soggiorno, posto che tale misura possa essere concessa anche in attesa di nuova occupazione – tenendo conto di fattori umani e sociologici di rilievo, quali quelli palesati nel caso oggi in esame. CC

 



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Inserito in data 21/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 ottobre 2016, n. 4346

E’ risarcibile il danno da ritardo nell’adozione del provvedimento favorevole

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato avalla la prevalente giurisprudenza, secondo cui, “il solo ritardo nell’emanazione di un atto amministrativo è elemento sufficiente a configurare un “danno ingiusto”, con conseguente obbligo risarcitorio, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario ovvero se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo” (in termini Cons. Stato, V, 25 marzo 2016, n. 1239; IV, 10 giugno 2014, n. 2964).

Detto altrimenti, a partire dalla sentenza Cons. Stato, Ad. plen., 15 settembre 2005, n. 7, “non è risarcibile il danno da mero ritardo, ma quello da impedimento, caratterizzato dal fatto che la tardiva adozione del provvedimento impedisce di conseguire tempestivamente il bene della vita che spetta. E’ stato infatti ritenuto che il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente la riparazione per equivalente solo allorché l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali; conseguentemente non vi è spazio per il risarcimento quando i provvedimenti adottati in ritardo siano di carattere negativo per colui che ne ha presentato l’istanza”.

D’altre parte, il Consesso conferma l’orientamento “per cui l’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno da ritardo dell’Amministrazione non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo (favorevole), ma il danneggiante deve, in conformità all’art. 2697 Cod. civ., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda, dunque la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo che di quelli di carattere soggettivo”. EF

 



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Inserito in data 20/10/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II BIS - SENTENZA 20 ottobre 2016, n. 10445

Referendum costituzionale: ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione

Il ricorso per l’annullamento del Decreto del Presidente della Repubblica del 27 settembre 2016 per la indizione del referendum popolare confermativo della legge costituzionale, recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”- approvata dal Parlamento e pubblicata nella G.U. n. 88 del 15 aprile 2016-  nonché, di ogni altro atto e/o comportamento presupposto, consequenziale e/o connesso, è inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.

Il T.A.R. Lazio argomenta ripercorrendo l’iter di indizione del referendum costituzionale, di cui il decreto presidenziale oggetto di gravame rappresenta l’atto conclusivo, al fine di “individuare”, alla luce delle norme di riferimento che lo governano, “le singole sfere di attribuzione di potere e di competenza riconosciute ai vari soggetti che vi intervengono, sulla cui base verificare la sindacabilità in sede giurisdizionale degli atti dagli stessi adottati.

Il T.A.R osserva che, in conformità alle previsioni dettate dalla legge n. 352 del 1970 -  recante norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo - i promotori hanno formulato le richieste di consultazione referendaria  che sono state vagliate dall’Ufficio Centrale per il Referendum, costituito presso la Corte Suprema di Cassazione, il quale ha dichiarato -  con le ordinanze del 6 maggio e dell’8 agosto 2016 -  “la conformità delle richieste referendarie e la legittimità del quesito da sottoporre agli elettori”.

Successivamente, con il  decreto del presidente della repubblica oggetto di gravame è stato indetto il “referendum popolare confermativo” avente ad oggetto il medesimo quesito contenuto nelle predette ordinanze.

Come osservato dal T.A.R., il decreto presidenziale “ha contenuti plurimi” aventi “natura e regimi di sindacabilità differenti”.

Il profilo contenutistico inerente al quesito referendario, di cui si contesta la legittimità, è “insindacabile”, “tenuto conto che la formulazione dello stesso proviene dalle ordinanze dell’Ufficio Centrale per il Referendum e che è stato meramente recepito nel conclusivo decreto presidenziale”.

“A tale conclusione si addiviene in ragione della insindacabilità, da parte del giudice amministrativo delle ordinanze adottate, in materia,  dall’Ufficio centrale del Referendum istituito presso la Suprema Corte di Cassazione, stante la natura di organo rigorosamente neutrale dello stesso, essenzialmente titolare di funzioni di controllo esterno espletate in posizione di terzietà ed indipendenza nell’ambito del procedimento referendario costituzionale, con la connessa impossibilità di qualificare gli atti dallo stesso adottati in materia di referendum come atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi”.

Da ciò consegue che “le determinazioni” assunte da tale Ufficio non sono emanate “nell’esplicazione di un potere amministrativo”, ma “nella prospettiva della tutela dell’ordinamento generale dello Stato e nell’esercizio di funzioni pubbliche neutrali affidate ad un organo che, per composizione e struttura, si colloca in posizione di terzietà e di indipendenza, in quanto indifferente rispetto agli interessi in gioco e non chiamato a dirimere conflitti, ma a svolgere un’attività diretta alla soddisfazione di interessi generali garantendo l’osservanza della legge, collocandosi su di un piano diverso rispetto all’esercizio di funzioni amministrative”.

La “natura dei poteri” esercitati dall’Ufficio Centrale per il Referendum, unitamente al “fondamento giustificativo dei poteri attribuiti al Presidente della Repubblica”, che svolge  “analoga funzione neutrale e di garanzia”, rendono il decreto impugnato ed il quesito formulato “insuscettibili di sindacato giurisdizionale, in quanto non riconducibili all’esercizio di attività amministrativa ma all’esplicazione di funzioni di garanzia e di controllo aventi carattere neutrale e poste a presidio dell’ordinamento”.

Il ricorso è, pertanto, dichiarato inammissibile “per difetto assoluto di giurisdizione” con l’ulteriore preclusione della “possibilità di individuare, ai sensi dell’art. 11 del codice del processo amministrativo, un diverso giudice nazionale cui sottoporre la controversia”. GB 

 



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Inserito in data 19/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 30 settembre 2016, n. 4048

Pratiche commerciali scorrette e sanzioni inflitte dall’AGCM

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato si pronuncia sulle sanzioni inflitte ad una Compagnia aerea dall’Autorità Garante della Concorrenza, che, a seguito delle segnalazioni pervenutele,  ha provveduto ad  accertare la sussistenza di alcune pratiche commerciali scorrette poste in essere a danno dei consumatori.

Nei fatti, l’AGCM, sulla base dell’istruttoria compiuta e della documentazione acquisita, ha condannato una  compagnia aerea  per aver posto in essere tre pratiche commerciali ritenute scorrette, ai sensi degli artt. 20-23 del Codice del Consumo, vietandone la continuazione e comminando delle sanzioni amministrative pecuniarie.

La prima condotta censurata consiste nel non essere stati - i consumatori - adeguatamente informati, nel corso della procedura di acquisto del volo, circa una caratteristica essenziale dell'offerta, ovvero riguardo al fatto che alcune tratte non fossero operate direttamente dalla compagnia venditrice del biglietto, bensì da un diverso vettore aereo di nazionalità estera.

Il secondo comportamento sanzionato si riferisce alle modalità ingannevoli di presentazione ai consumatori dell’offerta denominata “Carnet Italia”: precisamente, non si è consentita all’utente un’immediata e chiara comprensione delle limitazioni previste nell’apposita specifica classe tariffaria e delle reali condizioni di utilizzo del prodotto.

In ultimo, la terza pratica commerciale ritenuta scorretta è quella definita  “no show rule”, e consiste nell’annullamento del biglietto di ritorno/sequenziale, in caso di mancata fruizione della tratta di andata/precedente, senza prevedere una specifica procedura per consentire al consumatore di effettuare comunque il volo di ritorno/successivo .

Le suddette sanzioni amministrative sono state impugnate dalla compagnia aerea (nello specifico da due aziende facenti capo al medesimo gruppo imprenditoriale operante nel trasporto aereo), ma il giudice di prime cure, esaminati gli atti e le censure sollevate, ha respinto il ricorso.

Avverso la pronuncia di primo grado è stato, quindi, proposto appello, limitatamente, però, a due delle tre condotte descritte, precisamente: la poco chiara informazione circa la presenza di tratte aeree operate da un vettore straniero e la c. d. “no show rule”.

Chiamato a pronunciarsi, il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha in primo luogo risolto la questione (pregiudiziale) della paventata conflittualità tra discipline di settore e Codice del Consumo; secondariamente ha chiarito la portata del principio di correttezza e buona fede in riferimento alle pratiche commerciali in questione ed, infine, ha delineato i caratteri del sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità Garante della Concorrenza.

Più in dettaglio, il Supremo Consesso afferma, innanzitutto, che «il rispetto delle normativa di settore non vale ad esonerare il professionista dal porre in essere quei comportamenti ulteriori che, pur non espressamente previsti, discendono comunque dall’applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore»

In altri termini, spiega il Collegio, le discipline dettate dal Codice del Consumo e dalle normative di settore possono ritenersi complementari, quindi, correttamente l’Autorità garante della concorrenza ha provveduto, nella fattispecie, ad emanare i provvedimenti sanzionatori.

Argomentando sulla portata del principio di correttezza e buona fede, la Sesta Sezione  ha, inoltre, evidenziato che, nella vicenda in esame, l’AGCM non ha contestato alla compagnia aerea la mancanza di ogni informazione sul vettore aereo operativo - informazione che era dovuta ai sensi della normativa di settore - ma ha contestato  la violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede, tutelata dal Codice del Consumo, «per non aver dato adeguato risalto, in modo chiaro e trasparente, a tale dovuta informazione».

Con riferimento, infine, al sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (di cui l’appellante eccepisce la non corretta effettuazione), il Consiglio di Stato chiarisce che «tale sindacato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato  che si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento,  quando, tuttavia, nei profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità, detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’Autorità garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini». Per principio pacifico, infatti, aggiunge il Supremo Consesso, «il giudice amministrativo in relazione ai provvedimenti dell'AGCM esercita un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: pertanto, deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione di essi operata dall'AGCM sia immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. Laddove residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all'AGCM nella definizione del mercato rilevante, se questa sia, attendibile secondo la scienza economica, immune da vizi di travisamento dei fatti, da vizi logici, da vizi di violazione di legge (fra le più recenti, Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3047 dell’11 luglio 2016) ».

Le eccezioni riguardanti la misura delle sanzioni comminate dall’AGCM sono state rigettate, in considerazione, tra l’altro, della loro esiguità. FM 



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Inserito in data 18/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 12 ottobre 2016, n. 4224

Sul divieto di reformatio in peius nel passaggio di carriera presso diversa Amministrazione dello Stato

Nelle presente fattispecie si controverte sul «passaggio di carriera presso (…) diversa amministrazione» ai sensi dell’art. 202 dello statuto degli impiegati civili dello Stato – d.P.R. n. 3/1957 - avvenuto in seguito al superamento di un concorso esterno, e per effetto del quale al precedente rapporto di impiego si è sostituito quello di nuova costituzione.

Nella specie, il postulante veniva nominato referendario di Tribunale amministrativo regionale con decreto del Presidente della Repubblica in data 31 dicembre 2013, con decorrenza giuridica in pari data, ed economica dalla data di immissione nelle funzioni, avvenuta il successivo 15 gennaio 2014. Con successiva istanza, chiedeva che gli venisse riconosciuto il trattamento economico in godimento all’atto della nomina a referendario di tribunale amministrativo, ovvero quello di avvocato di ruolo della Banca d’Italia, mediante corresponsione dell’assegno personale pari alla differenza dei due trattamenti previsti dall’art. 202 del Testo Unico citato. Avendo ottenuto riscontro negativo, impugnava la nota del Segretario Generale dinnanzi al TAR Lazio, il quale accoglieva il ricorso, annullando la nota e dichiarando il diritto del ricorrente ad ottenere l’assegno previsto dalla citata disposizione del citato d.P.R. n. 3/1957.

Per la riforma della pronuncia, hanno proposto appello la Presidenza del consiglio dei Ministri, il Segretariato Generale ed il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.

In via preliminare, il Supremo Collegio rileva la ratio dell’istituto del trascinamento, ossia lo scopo di garantire al dipendente pubblico il “maturato economico”, a fronte di ordinamenti giuridico-economici differenziati tra le varie amministrazioni presso le quali lo stesso fosse transitato nell’evoluzione della sua carriera. In sostanza, “la norma mirava a incoraggiare la mobilità dei dipendenti pubblici, evitando che l’ingresso nella qualifica iniziale di un ruolo di altra amministrazione pur dopo il superamento di una selezione concorsuale, potesse determinare un una penalizzazione dello stesso sul piano economico”.

Ebbene, per la fattispecie del passaggio di ruolo tra diverse amministrazioni “rileva unicamente il primo periodo del comma 458 in esame, comportante appunto l’abrogazione dell’istituto del trascinamento previsto dalla più volte citata disposizione del testo unico n. 3 del 1957, con effetto a partire dall’anno finanziario 2014, oggetto della legge n. 147 del 2013, senza alcuna previsione di retroattività a situazioni precedentemente costituitesi”.

Alla luce di quanto rilevato, ritiene la Quinta Sezione che “il Tribunale amministrativo ha correttamente applicato al caso di specie il consolidato principio giurisprudenziale in materia di pubblico impiego secondo cui “ai fini di individuare lo stato giuridico ed economico del dipendente pubblico occorre avere riguardo esclusivo al provvedimento (autoritativo) di inquadramento, poiché quest’ultimo delinea in maniera indefettibile non solo la qualificazione professionale e le mansioni ad essa correlate ma anche il trattamento economico del dipendente medesimo” (ex multis: Cons. Stato, Sez. III, 15 dicembre 2011, n. 6576; Sez. V, 23 febbraio 2015, n. 888; Sez. VI, 5 maggio 2016, nn. 1770 - 1772).

Più precisamente, con riguardo al diritto all’assegno personale ex art. 202 T.U. n. 3 del 1957 invocato dall’appellato, rileva non già l’assunzione delle funzioni presso il Tribunale amministrativo di destinazione, ma il decreto presidenziale di nomina del 31 dicembre 2013.

Infatti, è quest’ultimo provvedimento ad avere determinato il trattamento economico spettante all’odierno appellato, rispetto al quale occorre verificare l’eventuale diritto al riconoscimento del trattamento superiore goduto presso l’amministrazione di provenienza, allora vigente, laddove l’assunzione delle funzioni dà invece luogo alla decorrenza di tale trattamento economico.

Il secondo periodo del comma 458, che introduce un divieto di reformatio in melius per la mera titolarità di un incarico avente un regime economico più favorevole rispetto alla posizione di ruolo rivestita, afferisce al diverso caso del rientro nel ruolo di appartenenza a seguito della cessazione di un incarico avente un regime economico più favorevole, rispetto al quale è strumentale l’obbligo di adeguamento ai sensi dell’art. 459, rispetto alle situazioni pregresse, e non riguarda il caso di specie.

Così argomentando, la Quinta Sezione respinge il ricorso. DU

 



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Inserito in data 17/10/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 12 ottobre 2016, n. 219

Q.l.c.: Art. 16 bis, co. 5, L. n. 11 del 2005, azione di rivalsa dello Stato nei confronti degli Enti territoriali per adozione di provvedimenti illegittimi

Con la sentenza emarginata in epigrafe, i Giudici costituzionali hanno dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Bari in merito all’art. 16-bis, comma 5, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), per contrasto con gli articoli artt. 3, 24, 97, 117, primo comma, 114, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione,  nella controversia tra il Comune di San Ferdinando di Puglia e il Presidente del Consiglio dei ministri ed il  Ministero dell’economia e delle finanze .

    La disposizione per la quale è stato promosso il giudizio di costituzionalità prevede il diritto di rivalsa dello Stato nei confronti delle amministrazioni locali responsabili di violazioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, per gli oneri finanziari sostenuti in esecuzione delle sentenze di condanna rese dalla Corte di Strasburgo nei confronti dello Stato.

    Il Giudice rimettente è chiamato a decidere sulla domanda proposta dal Comune di San Ferdinando di Puglia al fine di ottenere l’accertamento negativo del diritto di rivalsa esercitato dallo stesso Ministero per il pagamento della somma di euro 903.100, versata a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione di della condanna  dell’Italia da parte della Corte EDU.   

    Ancor più in dettaglio, la predetta condanna è conseguenza di una procedura espropriativa portata a compimento dal predetto ente Comune; procedura conclusasi con la acquisizione di fatto di un terreno privato senza adozione del provvedimento finale di esproprio prescritto dalla legge e, dunque, illegittimo.

    La disposizione per cui è materia viene, dal Giudice a quo, censurata sotto diversi profili: in primo luogo, viene denunciato il contrasto con il principio di ragionevolezza, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. in quanto il diritto di rivalsa verrebbe, nella specie, esercitato in applicazione di una normativa entrata in vigore successivamente alla condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. Difetterebbero, inoltre, gli elementi costitutivi della responsabilità dell’ente territoriale. Ad avviso del rimettente, infatti, il Comune di San Ferdinando di Puglia avrebbe fatto fedele e doverosa applicazione delle leggi dello Stato. Inoltre, lo Stato italiano avrebbe colpevolmente omesso di svolgere le proprie difese e di presentare osservazioni nel giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo. Nell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio innanzi alla CEDU, la condanna sarebbe la conseguenza del comportamento processuale di inerzia e negligenza dello Stato.

    Ed ancora, la norma violerebbe gli artt. 3, 97 1 117, primo comma, Costituzione perché disciplinante, in modo eguale, attraverso l’uniforme previsione del diritto di rivalsa in capo allo Stato, situazioni che, invece, sono differenti. Ed invero, mentre il contrasto tra il diritto interno ed il diritto comunitario obbliga tanto i giudici quanto le amministrazioni a disapplicare il primo, tale meccanismo non opera nel contrasto tra diritto interno e diritto convenzionale. In quest’ultima ipotesi, infatti, solo la Corte costituzionale può annullare la norma interna per contrasto con la CEDU e con l’art. 117, primo comma, Cost. Invero, nessun giudice e nessuna pubblica amministrazione può disapplicare una normativa interna ritenuta in contrasto con la CEDU.

    D’altra parte, sempre in relazione agli articoli 3 e 97 Costituzione, la norma consentirebbe una deresponsabilizzazione dello Stato laddove permette a quest’ultimo di rivalersi nei confronti di altro ente per comportamenti non direttamente addebitabili al medesimo, bensì per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile, mentre l’ente medesimo ha l’obbligo, e non già la mera facoltà, di attenersi a tale atto normativo primario.

    E ancora, la previsione della rivalsa statale sul bilancio comunale violerebbe, inoltre, l’art. 24 Cost., sul duplice rilievo, da un lato, dell’impossibilità, per il Comune, di partecipare al giudizio dinanzi alla Corte europea, e, dall’altro, dell’inerzia difensiva dello Stato italiano nell’ambito di tale giudizio.

    Per converso, la difesa statale eccepisce, preliminarmente, l’inammissibilità della questione per la mancanza di una congrua motivazione sulla rilevanza nonché sulla genericità delle ragioni esposte a sostegno della tesi della incostituzionalità della norma in esame. Inoltre, non si terrebbe in considerazione l’illegittimità della procedura espropriativa condotta dal Comune, per l’omessa adozione del decreto finale di esproprio e per l’acquisizione di fatto del bene occupato. Viene, inoltre, eccepito l’omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, non vi sarebbe alcun automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa. Infatti, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sia al giudice adìto, sarebbe consentita la valutazione dell’incidenza dell’azione causale delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato. Tale decisivo aspetto sarebbe stato trascurato dal giudice a quo.

    Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato deduce l’infondatezza della questione di costituzionalità.

    Con riferimento alla denunciata retroattività della disposizione censurata, viene,  evidenziato che − secondo la costante giurisprudenza costituzionale − il legislatore può adottare disposizioni con effetto retroattivo al fine di salvaguardare alcuni interessi fondamentali, quali quelli protetti da principi costituzionali, nel rispetto del criterio di ragionevolezza.

        Si rileva, altresì, la finalità della disposizione censurata che è quella di estendere alla fase esecutiva delle sentenze dei giudici europei (Corte di Giustizia e Corte EDU) un istituto generale del diritto civile, qual è la rivalsa, in base al quale avviene il recupero delle somme versate da un soggetto a causa di azioni ascrivibili alla responsabilità di un terzo. Si tratterebbe, infatti, di una disposizione mirante  a porre rimedio allo squilibrio economico conseguente alla violazione di leggi (imputabile all’ente territoriale), da un lato, e all’onere del pagamento del conseguente risarcimento (posto a carico dello Stato), dall’altro lato. In questo senso, la norma de quo non introduce alcuna disciplina sanzionatoria. Pertanto, non vi sarebbe alcuna irrazionalità nella previsione del diritto di rivalsa dello Stato per le somme pagate in conseguenza dell’azione illegittima dell’amministrazione locale.

    La difesa statale descrive i fatti che hanno portato alla condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Strasburgo. Ed invero, la condanna predetta è riconducibile, esclusivamente ed interamente, alla illegittimità del provvedimento di esproprio adottato dalla Amministrazione comunale. D’altra parte, si evidenzia  che il beneficio di tale espropriazione rimarrebbe ad esclusivo vantaggio dell’ente comunale per avere acquisito al suo patrimonio il bene e l’opera pubblica che vi è stata realizzata.

    Con riguardo al denunciato contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., viene sottolineato che il comportamento tenuto dalla Amministrazione, consistente nell’occupazione acquisitiva avvenuta in violazione dell’ordinario procedimento di espropriazione per pubblica utilità,  integra gli estremi di un fatto illecito dal quale discende, ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il diritto al risarcimento del danno a favore del proprietario del terreno occupato.

    L’illecito è, pertanto, ascrivibile alla pubblica amministrazione per avere occupato (sine titulo) il suolo privato, trasformandolo in modo irreversibile, per effetto della realizzazione su di esso di un’opera pubblica. A cagione di ciò, si inverano i presupposti della responsabilità della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., produttiva, come tale, di danno risarcibile.

    In sostanza, anche gli enti territoriali − qualora si rendano responsabili di violazioni del diritto interno costituenti lesioni del diritto sovranazionale − debbono rispondere delle conseguenze negative derivanti dall’inosservanza di tali vincoli.

    Chiariti i termini della controversia, unitamente alle difese ed eccezioni delle parti, possiamo ad una sintetica disamina della sentenza che qui ci occupa.

    Preliminarmente, la Corte costituzionale rileva l’inammissibilità dell’atto di costituzione del Comune di San Ferdinando di Puglia il quale si è costituito oltre il termine di venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (si veda, al riguardo, l’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale). Ed invero, per costante giurisprudenza costituzionale, il termine fissato dall’articolo predetto ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via preliminare ed assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008).

    Non può, altresì, essere accolta la eccezione di invalidità della notifica dell’ordinanza di rimessione, poiché avvenuta mediante posta elettronica certificata. Ebbene, secondo la Consulta, la notifica in esame è regolarmente avvenuta nelle forme previste dall’art. 149-bis del codice di procedura civile. Tale disposizione è applicabile al giudizio dinanzi a questa Corte in forza del rinvio contenuto nell’art. 39 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo).

    La Corte, inoltre, denuncia un difetto di motivazione della ordinanza con la quale viene promossa la questione di legittimità costituzionale della norma censurata per contrasto con i parametri costituzionali di cui agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, Cost.; al riguardo, viene denunciato il carattere assertivo ed apodittico delle motivazioni esposte nella ordinanza di rimessione del Giudice a quo. Ed infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, “è inammissibile la questione di legittimità costituzionale posta senza un’adeguata ed autonoma illustrazione, da parte del giudice rimettente, delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato”.

    Per converso, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la Corte afferma la infondatezza delle le eccezioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale eccepite dalla difesa statale circa la genericità della descrizione della fattispecie, in quanto “non sarebbero specificati i riferimenti temporali della vicenda e non si darebbe risalto al carattere illegittimo della procedura condotta dal Comune, attesa la mancata adozione del decreto finale di esproprio e l’acquisizione di fatto del bene occupato”. Sotto tale ultimo profilo, la Corte, al contrario, rileva che l’ordinanza di rimessione chiarisce, in termini sintetici ma adeguati, la necessità di fare applicazione della disposizione censurata ai fini della decisione della controversia, in quanto il fondamento del diritto vantato dallo Stato e oggetto di contestazione nel giudizio a quo risiede proprio nella disposizione censurata. Il giudice rimettente ha riferito, infatti, di essere investito del giudizio di accertamento negativo del credito azionato dallo Stato in via di rivalsa ai sensi dell’art. 16-bis della legge n. 11 del 2005, per il pagamento di quanto versato a titolo risarcitorio alla parte privata ricorrente, in esecuzione della condanna della Corte di Strasburgo, per violazione del diritto di proprietà derivante da una procedura espropriativa illegittima.

    Con riguardo alla eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per l’omesso tentativo di un’interpretazione conforme, la Corte rileva che  tale possibilità è stata consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale – dopo avere illustrato le ragioni a sostegno della denunciata illegittimità − ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione compatibile con i principi costituzionali evocati. Al riguardo,  la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la compiuta valutazione da parte del giudice a quo degli argomenti svolti dalle parti, ancorché inidonea ad escludere possibili soluzioni difformi, sia indicativa del tentativo, in concreto effettuato dal rimettente, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione.

   In definitiva, “la possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità” (cfr. sentenza n. 221 del 2015).

    Infine, con riguardo all’art. 3 della Costituzione, la Corte ritiene infondata la censura mossa dal Giudice rimettente in riferimento alla irragionevolezza della scelta legislativa per aver introdotto una disciplina di carattere sanzionatorio configurante una responsabilità degli enti sub-statali, non già per attività proprie (e dunque addebitabili agli stessi) quanto, piuttosto, per attività che essi pongono in essere al solo fine di assicurare la fedele attuazione di quanto disposto dalla legge.     Ed infatti, ad avviso del Giudice a quo,  il diritto di rivalsa dello Stato verrebbe esercitato per un atto, quale è la legge, di cui lo Stato stesso è l’unico soggetto giuridicamente responsabile. Sotto tale ultimo profilo, la Corte, partendo dall’esame del dato letterale della disposizione contestata (art. 16-bis, comma 5), mette in rilievo come l’esercizio del diritto statale di rivalsa presuppone che gli enti locali “si siano resi responsabili di violazioni delle disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Il fondamento della rivalsa statale nei confronti degli enti locali viene, quindi, esplicitamente individuato nella responsabilità per condotte, imputabili agli stessi enti, poste in essere in violazione della CEDU. La Corte, dunque, esclude che vi sia un automatismo nella condanna dell’amministrazione locale in sede di rivalsa e, conseguentemente, di una deroga al principio dell’imputabilità. Ed infatti, per come evidenziato dalla stessa Avvocatura generale dello Stato, compete, sia alla Presidenza del Consiglio dei ministri, in sede di adozione del decreto costituente titolo esecutivo, sia al giudice adìto, in sede di contestazione giudiziale dello stesso, la valutazione dell’incidenza causale dell’azione delle amministrazioni territoriali nella produzione del danno e la comparazione delle responsabilità di queste ultime rispetto a quelle dello Stato.

    Per concludere, i Giudici della Consulta, rilevano che l’art. 16-bis è una disposizione di carattere processuale, finalizzata all’esercizio del diritto di rivalsa − di per sé riconducibile all’area della responsabilità aquiliana ai sensi dell’art. 2043 del codice civile – attraverso l’emissione del relativo titolo esecutivo. Pertanto, nessun contrasto con il principio di ragionevolezza è ravvisabile nella predetta disposizione la quale, si noti, ai fini della sua applicabilità è necessario che si accerti il rilievo convenzionale della violazione effettuata, accertamento che è rimesso alla Corte di Strasburgo. Infatti, la disposizione in esame fa testuale riferimento alle ipotesi di responsabilità accertate con “sentenze di condanna rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato”. L’avvenuto accertamento della violazione, espresso nella forma della sentenza di condanna da parte della Corte europea, è quindi l’elemento costitutivo della fattispecie delineata dall’art. 16-bis ed è anche il momento discriminante ai fini della applicazione della disciplina da esso dettata. Ciò vale ad escludere la denunciata retroattività della disposizione censurata, la quale risulta applicabile alle sole ipotesi di responsabilità accertate con sentenza di condanna resa successivamente all’entrata in vigore della legge n. 11 del 2005.

    Alla luce delle sovra esposte considerazioni, la Corte dichiara la questione di legittimità costituzionale inammissibile, in riferimento agli artt. 97, 114, 117, primo comma, 118 e 119, quarto comma, della Costituzione; non fondata, in riferimento all’artt. 3 e 24  della Costituzione. PC

 



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Inserito in data 15/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 14 ottobre 2016, n. 4266

Il sindacato del G.A. sui provvedimenti dell'AGCM si estende anche ai profili tecnici

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato affronta il tema della sostituzione indebita del Giudice Amministrativo nell’esercizio di poteri riservati all’AGCM.

A tal proposito, il Collegio non intende discostarsi dal filone interpretativo fornito dalla Sezione sul punto (v. “ex multis”, sez. VI, n. 6050 del 2014), secondo cui “il giudice amministrativo - nella ricerca di un punto di equilibrio, da verificare di volta in volta in relazione alla fattispecie concreta, tra le esigenze di garantire la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale e di evitare che il giudice possa esercitare egli stesso il potere amministrativo che compete all'Autorità - può sindacare con pienezza di cognizione i fatti oggetto dell'indagine ed il processo valutativo, mediante il quale l'Autorità applica al caso concreto la regola individuata, ma, ove ne accerti la legittimità sulla base di una corretta applicazione delle regole tecniche sottostanti, il suo sindacato deve arrestarsi, in quanto diversamente vi sarebbe un'indebita sostituzione del giudice all'amministrazione, titolare del potere esercitato” (Cons. St., Sez. VI, 13 settembre 2012, n. 4873). Ed, invero, “con rapporto alle valutazioni tecniche, anche quando riferite ai c.d. “concetti giuridici indeterminati”, la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, avvalendosi eventualmente anche di regole e conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall'Autorità.

Il sindacato del giudice amministrativo è, quindi, pieno e particolarmente penetrante e può estendersi sino al controllo dell'analisi (economica o di altro tipo) compiuta dall'Autorità, e, in superamento della distinzione tra sindacato “forte” o “debole”, va posta l'attenzione unicamente sulla ricerca di un sindacato, certamente non debole, tendente ad un modello comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere in materia antitrust, ma di verificare - senza alcuna limitazione - se il potere a tal fine attribuito all'Autorità sia stato correttamente esercitato.

Tale orientamento esclude limiti alla tutela giurisdizionale dei soggetti coinvolti dall'attività dell'A.g.c.m, individuando quale unica preclusione l'impossibilità per il giudice di esercitare direttamente il potere rimesso dal legislatore all'Autorità” (Cons. St., sez. VI, 6 maggio 2014, n. 2302).

Pare il caso di aggiungere che dal canto proprio Cass. civ., SS. UU., 14 maggio 2014, n. 10411, ha statuito che “il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità (come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza), nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell' Autorità Garante”.

D’altra parte, con la sentenza indicata in epigrafe, il Consesso si pronuncia anche sul concetto di “pubblicità ingannevole”.

Sul punto, avalla l’orientamento espresso dalla stessa VI Sezione secondo cui, qualora l'episodio che abbia dato luogo alla segnalazione di ingannevolezza di un messaggio pubblicitario “sia stato generato da un caso isolato, l'episodio stesso è da considerare di scarsa significatività e, come tale, non riconducibile - perché divenga giuridicamente rilevante - ad una vera e propria "pratica" commerciale dal carattere di oggettiva ingannevolezza. Questa unicità dell'episodio è circostanza determinante che esclude l'abitualità, o serialità, propria della "pratica", vale a dire della prassi commerciale scorretta, e che avrebbe dovuto essere adeguatamente valutata alla luce dell'allora vigente art. 2 lett. a) d.lg. 25 gennaio 1992 n,. 74 (in materia di messaggi pubblicitari ingannevoli diffusi attraverso mezzi di comunicazione), e della definizione di pubblicità ivi richiamata (normativa poi abrogata dall'art. 146 e assorbita nel codice del Consumo, e oggi regolata dall'art. 2 comma 1 lett. a) e b) d.lg. 2 agosto 2007 n. 145, di attuazione dell'art. 14 della direttiva 2005/29/Ce che modifica la direttiva 84/450/Cee sulla pubblicità ingannevole)” (così Cons. Stato, VI, 21 settembre 2011, n. 5297).

Inoltre, i Giudici di Palazzo Spada esaminano lo schema della responsabilità aquiliana.

In particolare, se, da un lato, ritengono vero che il risarcimento del danno a carico della P. A. non sia conseguenza automatica e costante “dell'annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo posto che si richiede invece a questo fine la verifica positiva, oltre che della lesione della situazione soggettiva di interesse tutelata dall'ordinamento, della sussistenza della colpa in capo all’Amministrazione e del nesso causale tra provvedimento illegittimo e danno sofferto, dall’altro ribadiscono che anche “l’illegittimità del provvedimento è però un elemento dal quale deriva una presunzione di colpa in capo alla P. A. e che l'onere probatorio gravante sul richiedente può ritenersi assolto con l'indicazione dell’illegittimità del provvedimento, potendo riconoscersi in capo all'amministrazione l'onere di provare l'assenza di colpa attraverso l’errore scusabile” (v. , ex multis, Cons. Stato, III, 10 luglio 2014, n. 3526). EF

 



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Inserito in data 14/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 13 ottobre 2016, n. 4238

Certificato di qualità rilasciato da ente non accreditato

“La produzione di un certificato rilasciato da un ente non accreditato non può comportare ex se l’esclusione da una procedura di gara, ma impone all’amministrazione una valutazione in ordine al concreto possesso dei requisiti in capo al concorrente; valutazione che ben può avvenire anche attraverso l’esame della detta certificazione.”

Il Consiglio di Stato argomenta procedendo ad una lettura “in chiave non formalistica” degli artt. 43 e 44 d.lgs. 163/2006 - rispettivamente in tema di norme di garanzia della qualità e norme di gestione ambientale- secondo la quale “l’impresa partecipante deve poter provare l’esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione (Cons. St., Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4471)”.

Il Consiglio di Stato chiarisce che le suddette norme “stabiliscono che i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara possano essere provati utilizzando tre diversi strumenti: a) certificati rilasciati da organismi indipendenti accreditati; b) certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri; c) altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici.”

Tali strumenti sono “utili allo stesso modo” e sono finalizzati alla dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la partecipazione alla procedura di gara (Cons. St., Sez. V, 12 novembre 2103, n. 5375), con la differenza che, nell’ultima ipotesi “il possesso dei requisiti non può ritenersi in via presuntiva posseduto dal concorrente, ma deve essere oggetto di scrutinio da parte della stazione appaltante.”

“La produzione di una certificazione rilasciata da parte di un soggetto non accreditato”, in particolare, rappresenta “l’ipotesi tipica in cui il possesso dei requisiti non può ritenersi in via presuntiva posseduto dal concorrente, ma deve essere oggetto di scrutinio da parte della stazione appaltante”.

Pertanto, “in assenza di indizi probatori in ragione dei quali si possa affermare il mancato possesso dei requisiti in materia di gestione ambientale da parte dell’aggiudicataria, non si ravvisa alcun uso illegittimo del potere discrezionale in capo alla stazione appaltante circa il giudizio di equivalenza delle prove offerte dall’appellata tramite la certificazione prodotta ovvero di deficit istruttorio al riguardo”. GB

 



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Inserito in data 13/10/2016
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 12 ottobre 2016, n. 220

Art. 140 cpc e presunto vulnus ai principi di cui agli articoli 3, 24 e 111 Cost.

I Giudici della Consulta intervengono su una questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’articolo 140 del codice di procedura civile, nella parte in cui fa decorrere gli effetti della notifica, per il destinatario della stessa, dalla data in cui l’ufficiale giudiziario, depositata la copia dell’atto da notificare nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi ed affisso un avviso dell’avvenuto deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento, anziché prevedere che la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata, con la quale lo si avvisa dell’avvenuto deposito dell’atto presso la casa comunale.

Quest’ultima, infatti, è la prassi prevista dall’articolo 8, quarto comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 e ss. mm. (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari) che, consentendo – come è evidente – un lasso temporale maggiore per il destinatario, parrebbe procurare – in capo al destinatario della notifica ex articolo 140 c.p.c. – un vulnus al diritto di difesa – ex articolo 24 della Costituzione, così come ad un equo contradditorio – implicitamente desumibile ex articoli 3 e 111 della Carta Fondamentale.

I Giudici della Consulta, dirimendo il presunto contrasto, statuiscono la manifesta infondatezza dell’odierna questione.

In particolare, il Collegio evidenzia come trattasi di tematiche profondamente diverse e, in quanto tali, giustificate in termini di ragionevolezza e quindi non illegittime - come la giurisprudenza costituzionale insegna (Cfr. ex multis, sentenza n. 146 del 2016).

Infatti, evidenziano i Giudici, da un lato, l’articolo 140 del codice di procedura civile, per come dichiarato costituzionalmente illegittimo, presuppone, per il perfezionamento del procedimento di notificazione, l’avvenuta ricezione, da parte del destinatario dell’atto, della raccomandata contenente l’avviso di deposito dell’atto stesso, in tal modo ponendo l’accipiens nelle condizioni di poter prendere prontamente contezza del contenuto del medesimo; mentre, dall’altro lato, la previsione di un termine di dieci giorni per il ritiro dell’atto presso l’ufficio postale, previsto dall’art. 8 della legge n. 890 del 1982 in tema di notificazione degli atti a mezzo del servizio postale, si collega non al momento di effettiva ricezione dell’avviso, ma alla spedizione dello stesso, ovvero alla data di ritiro dell’atto se anteriore, con l’ovvio epilogo di individuare una diversa e ragionevole modulazione del termine per il perfezionamento dell’iter notificatorio.

Di conseguenza, chiosa il Collegio, non avrebbe alcun senso estendere il termine “di compiuta giacenza”, di cui al quarto comma dell’articolo 8 della richiamata legge n. 890 del 1982, alla diversa ipotesi disciplinata dall’articolo 140 del codice di procedura civile, considerato che, in tal caso, la conoscenza legale dell’atto coincide con il momento in cui può essere conseguita anche la conoscenza.

Diviene facile, pertanto, comprendere la declaratoria di infondatezza della questione – come dichiarata dalla Consulta – stante la mancata incisione dei parametri costituzionali sopra richiamati. CC 

 



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Inserito in data 12/10/2016
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA DI RIMESSIONE alla CORTE COSTITUZIONALE, 7 ottobre 2016, n. 1943

La tutela dell’ambiente ed i limiti di intervento del legislatore regionale: questione rimessa alla Corte Costituzionale

Con l’Ordinanza in esame, il Tar Catanzaro rimette alla Corte Costituzionale una rilevante questione sul tema del riparto di competenze Stato – Regioni  in materia ambientale. In particolare, il riferimento è ad una norma regionale che, comportando la sospensione “sine die” di alcuni procedimenti, risulta contrastare con la disciplina nazionale, che, al contrario, stabilisce termini certi per l’istruttoria e la definizione dei procedimenti nella medesima materia.

Nei fatti, una legge regionale ha attribuito all’amministrazione titolare del procedimento per il rilascio di VIA e di AIA al fine della realizzazione e gestione di nuovi impianti di smaltimento o recupero rifiuti, il potere/dovere di sospendere provvisoriamente i relativi procedimenti - nel caso in cui all’entrata in vigore della legge essi siano ancora in corso - in attesa dell’adozione del nuovo piano regionale di gestione dei rifiuti e, in ogni caso, per la durata massima di un anno dall’entrata in vigore dell’atto normativo. La legge in questione è, tra l’altro, vincolante per l’amministrazione, nel senso che, una volta ritenuti sussistenti i presupposti della fattispecie concreta nei termini indicati dal legislatore regionale,  l’attuazione della sospensione risulta doverosa. I provvedimenti sospensivi, adottati dalla pubblica amministrazione nel rispetto della normativa regionale, sono stati, quindi, impugnati dall’azienda coinvolta nei procedimenti, e il Tar, riscontrando la discrasia con la disciplina nazionale sulla stessa materia, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale  della legge regionale in oggetto, con riferimento all’art. 117 co.2 lett. s) .

Il Tar Calabria, con la presente ordinanza, oltre ad effettuare un’attenta ricostruzione della fattispecie concreta, ripercorre i punti salienti della giurisprudenza costituzionale che in tema di ambiente, a partire dalla nota sentenza 203 del 2003, ha perimetrato l’area della competenza legislativa esclusiva statale e dei conseguenti spazi residui della normazione regionale.

In particolare, il Collegio calabrese richiama il principio secondo cui le disposizioni legislative statali adottate nella materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” fungono da limite alla normazione regionale (anche per le regioni a statuto speciale),  essendo consentito al legislatore regionale soltanto ed eventualmente di accrescere i livelli della tutela ambientale, senza intaccare l’equilibrio tra esigenze contrapposte espressamente indicato dalla legge statale. Le Regioni, continua il TAR, sono dunque legittimate ad intervenire solo a condizione che perseguano finalità proprie riguardanti competenze regionali e, comunque, garantendo livelli di tutela dell'ambiente più elevati rispetto a quelli previsti dalla legislazione statale. Con riferimento alla fattispecie in oggetto, viene poi richiamata quella giurisprudenza  Costituzionale che indica specificamente la disciplina dei rifiuti come pienamente riconducibile alla materia della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” e, pertanto, attribuita in via esclusiva alla competenza legislativa dello Stato ex art. 117, co. 2, lettera s), Cost..

Nel rimettere la questione alla Consulta, il giudice a quo,  sottolinea il carattere dilatorio della norma regionale in esame e afferma che essa, quindi,  va illegittimamente ad incidere in via derogatoria sulle norme del c.d. codice ambientale,  le quali - a livello statale – mirano, invece, ad una rapida e completa definizione dei procedimenti in materia di impianti di smaltimento e di trattamento dei rifiuti.

In definitiva, afferma il Tar, l’operatività del futuro piano regionale dei rifiuti, viene in concreto perseguita, non mediante l’accelerazione, in ambito amministrativo, dei tempi di approvazione del nuovo atto di pianificazione regionale (così come dovrebbe essere), ma mediante una sospensione ex lege dei procedimenti autorizzatori in corso, e, quindi, in contrasto con le norme primarie statali e gli  obiettivi di tutela ambientale ad esse collegati. FM

 



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Inserito in data 11/10/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 3 ottobre 2016, n. 10012

Soccorso istruttorio a pagamento e principio di concorrenza: la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea

L’ordinanza in epigrafe sottolinea i dubbi nutriti dal Collegio in ordine all’applicazione della disciplina del “soccorso istruttorio a pagamento”, sancita dall’art. 38, comma 2-bis, d.lgs. n. 163 del 2006 – norma abrogata dal nuovo codice degli appalti – oggetto della fattispecie sottoposta al vaglio del Collegio, disposizione di non facile interpretazione a fronte del disposto della nuova direttiva 2014/24/UE, ispirata ai principi di parità di trattamento e trasparenza.

Nel caso di specie, il Collegio rileva come l’art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163/2006, “non contempla la possibilità di graduare la sanzione in ragione della gravità dell’irregolarità commessa o in relazione alle singole fattispecie escludenti contemplate, ciò in ragione del fatto che, in ogni caso, la sanzione è correlata unicamente alla categoria dell’essenzialità, non per mancanza dei requisiti sul piano sostanziale, ma per incompletezza ed irregolarità della relativa attestazione”.

A parere del Collegio, la ratio giustificatrice della norma sarebbe quella di garantire la serietà delle domande di partecipazione e delle offerte presentate dalle imprese partecipanti, da un lato responsabilizzando le partecipanti nella predisposizione della documentazione di gara, e dall’altro tutelando l’esigenza di indennizzare il seggio di gara per l’aggravio e il prolungamento procedimentale per il supplemento dell’istruttoria, dall’altro.

La sanzione è inoltre comminata anche nel caso di presentazione dell’offerta da parte di RTI (come è accaduto nella vicenda sottoposta all’esame del Collegio), il quale non costituisce soggetto diverso dai concorrenti; alla stessa stregua dell’impresa ausiliaria – in ipotesi di avvalimento – qualora la stessa produca una dichiarazione - che deve essere prodotta ai sensi dell’art. 49, comma 2, lettera c) del Codice - carente ex art. 38.

 Al riguardo si osserva come quello che era stato concepito come un beneficio in favore delle imprese, in tal modo, “si tramuterebbe in un disincentivo alla partecipazione alle gare pubbliche”, poiché esporrebbe i concorrenti al rischio di vedersi comminare sanzioni pecuniarie consistenti (il cui importo può arrivare sino a 50.000,00 euro) come conseguenza dell’incompletezza o dell’irregolarità documentale, incentivando una sorta di “caccia all’errore” da parte delle amministrazioni appaltanti, in direzione opposta rispetto alla su indicata ratio legis.

Il Collegio ha infatti osservato come “non a caso, il soccorso istruttorio a pagamento è stato fortemente ridimensionato nel nuovo codice, adottato in attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE”.

Il nuovo testo normativo non può tuttavia trovare applicazione nella fattispecie oggetto del ricorso, atteso che la procedura concorsuale è stata bandita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016.

Con l’ordinanza in epigrafe, la questione è stata posta al vaglio della Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE e dell’art. 23 dello Statuto della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Nella specie, si rimettono alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali sull’interpretazione dell’art. 38, comma 2-bis citato, in rapporto alla disciplina prevista dagli artt. 45 e 51 della Direttiva 2004/18/CE e ai principi di concorrenza, proporzionalità, parità di trattamento e non discriminazione in materia di procedure per l’affidamento di lavori, servizi e forniture:

a) se attribuire carattere oneroso al soccorso istruttorio con efficacia sanante – pur rientrando nelle facoltà degli Stati membri – sia o meno compatibile con il diritto comunitario;

b) se, piuttosto, l’art. 38, comma 2-bis, citato, nel testo previgente, contrasti con i principi di massima apertura del mercato alla concorrenza.

In tale contesto, il pagamento della sanzione nei termini prescritti dall’art. 38, comma 2-bis del d.lgs. n. 163/2006, costituisce una “particolarità” dell’ordinamento italiano, che non trova alcun appiglio nella normativa europea. Ed è sul quantum della sanzione pecuniaria considerata – concepita in termini unitari e onnicomprensivi - che, in particolare, si pone il serio dubbio circa la compatibilità della norma italiana con il principio di proporzionalità nell’ambito degli affidamenti pubblici.

Sebbene, talora si parli di “indennizzo forfettario” in favore dell’Amministrazione per l’aggravio dell’attività amministrativa a cui è stata esposta a causa di “irregolarità essenziali” commesse da un operatore, si tratta di “un costo eccessivo rispetto allo scopo prefissato”.

Ad avviso del Collegio, l’art. 38, comma 2-bis, citato “introduce nella disciplina interna un fattore di potenziale disparità di trattamento tra le imprese che del soccorso intendano avvalersi”, provocando “un’ingiusta sperequazione” di portata “anti-concorrenziale”. DU

 



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Inserito in data 10/10/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 3 ottobre 2016, n. 1415

Nuovo rito in prevenzione ex art. 120 comma 2 bis, C.p.A.: esclusione e lesività

Con la decisione emarginata in epigrafe, il T.A.R. Toscana respinge il ricorso promosso da una società cooperativa sociale avverso il provvedimento di ammissione di altra cooperativa per l’affidamento del servizio di gestione del centro Diurno Anziani comunale.

    Più in particolare, il ricorso viene dichiarato inammissibile per carenza di immediata lesività dell’atto impugnato, stante la inapplicabilità del rito disciplinato dall’art. 120, comma 2 bis, c.p.a., così come modificato dall’ art. 204 del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 2016 n. 50).

    La ricorrente infatti, al fine di impugnare il verbale di ammissione alla gara di altra società concorrente, attiva lo speciale rito disciplinato dall’art. 120, comma 2 bis, introdotto dall’art. 204 del d.lg.s 2016 n. 50. La norma stabilisce che il provvedimento che determina le esclusioni e le ammissioni dalla procedura di affidamento va impugnato nel termine di giorni trenta decorrenti dalla data della sua pubblicazione sul profilo della stazione appaltante (si veda anche l’art. 29 d.lgs. 2016 n. 50).

    Orbene, ritiene il Collegio che la questione della immediata applicabilità del nuovo comma 2 bis dell’art. 120 vada riguardata, preliminarmente, alla luce di quanto stabilito dall’art. 216 del nuovo codice dei contratti pubblici, rubricato disposizioni transitorie e di coordinamento. La norma dispone che “il presente articolo si applica alle procedure ed ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o avvisi, alle procedure o ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano stati ancora inviati gli inviti a presentare le offerte”.

   Il Collegio, rifacendosi al costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, afferma che il concorrente, mentre ha interesse a dolersi della propria esclusione dalla gara ovvero di clausole impeditive della partecipazione, non è titolare di un’analoga posizione nel caso in cui intenda contestare l’ammissione di altro partecipante alla gara; ciò in quanto l’atto di ammissione del concorrente alla gara, avendo natura endoprocedimentale, non possiede autonoma lesività (sul punto cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 4 gennaio 2016 n. 10; Consiglio di Stato, sez. VI, 11 marzo 2015 n. 1261; T.A.R. Toscana, sez. I, 27 ottobre 2011, n. 1596).

   Né d’altra parte – prosegue il Collegio nella decisione de quo - appare condivisibile l’orientamento di altro T.A.R. secondo cui la natura processuale della norma de quo renda la stessa immediatamente operante, giacché essa è entrata in vigore prima della proposizione del ricorso.  Ed infatti, in senso contrario a quanto appena detto ostano ragioni di carattere letterale e sistematico.  Quanto alle prime, è la stessa lettera dell’art. 216 del Codice dei contratti pubblici che induce a ritenere che non vi siano deroghe al criterio generale che stabilisce l’entrata in vigore del nuovo rito rendendolo applicabile solo alle “procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore”; sotto il secondo profilo (di ordine sistematico), pare evidente, dal testuale riferimento contenuto ad altre disposizioni del Codice, segnatamente l’art. 29, co. 1, l’impossibilità di dare immediata applicazione al nuovo rito in prevenzione; la norma da ultimo citata stabilisce, infatti, che “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell’articolo 120 del codice del processo amministrativo, sono altresì pubblicati, (sul profilo del committente, nella sezione Amministrazione trasparente), nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito delle valutazioni dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali”, ed è da tale pubblicazione che decorre il termine per l’impugnazione dei provvedimenti di esclusione e ammissione non a caso contestato dalla controinteressata).

    Il Collegio infine ritiene, altresì, condivisibile l’orientamento dottrinale che definisce il nuovo e speciale sottosistema processuale come un sistema anticipato, preliminare, immediato, autonomo, decadenziale, finalizzato comunque alla rapida costituzione di certezze giuridiche poi incontestabili sui protagonisti della gara, certamente legato al riassetto complessivo del sistema della contrattualistica pubblica, i cui profili sostanziali sono indefettibilmente legati a quelli processuali contestualmente introdotti.

    In sintesi, con la pronuncia in esame e stante le sopraddette considerazioni, ritiene il Collegio, in ragione della inapplicabilità del rito disciplinato dall’art. 120, co 2 bis, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per carenza di immediata lesività dell’atto impugnato. PC

 



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Inserito in data 08/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 5 ottobre 2016, n. 4118

Le dichiarazioni non veritiere nelle gare di appalto sono cause legittime di esclusione

La sanzione espulsiva comminata dalla stazione appaltante a fronte di dichiarazioni non veritiere sui requisiti di partecipazione alla gara, ed, in particolare, su quelli inerenti alle condanne penali subite, è “corretta” e “doverosa”.

“La completezza e la veridicità” di tali dichiarazioni costituiscono, infatti, “valori in sé”, “presidiati dalla più grave sanzione espulsiva in danno del dichiarante infedele, quali significative manifestazioni e, insieme, massime garanzie dell’irrinunciabile interesse pubblico alla trasparenza nelle pubbliche gare”(cfr. ex plurimis, C.d.S. sez. V, 29 aprile 2016, n. 1641).

In conformità a consolidati principi di diritto, affermati dal Consiglio di Stato in materia, “nel caso di mancata dichiarazione di precedenti penali, non può operare il principio del c.d. falso innocuo, laddove si tratti di assenza di dichiarazioni previste dalla legge e dal bando di gara a pena di esclusione (cfr. C.d.S. sez V, 27 dicembre 2013, n.6271)”.

Inoltre, con riferimento all’estinzione del reato, va ribadito che la stessa non può discendere automaticamente per il mero decorso del tempo, ma deve essere accertata da pronuncia espressa del giudice dell’esecuzione penale (cfr., ex multis, C.d.S. sez V, 17 giugno 2014, n.3092; C.d.S. sez. V, 5 settembre 2014, n. 4528).

Pertanto, “la mancanza della dichiarazione circa la condanna subita” rende la ditta partecipante alla gara “inaffidabile” - “a fronte di un preciso e inequivocabile obbligo stabilito dalla lex specialis” - e ne “giustifica l’esclusione”, “indipendentemente da ogni valutazione sulla gravità e sulla moralità professionale dell’impresa”.

Non compete, infatti, “ai candidati” “effettuare alcun filtro in ordine all’importanza o incidenza della condanna subita sulla moralità professionale”, avendo questi  “l’obbligo di menzionare tutte le sentenze penali di condanna” (cfr. C.d.S.sez. V, 30 novembre 2015, n. 5403).

L’omessa menzione rappresenta una “carenza sostanziale” della “dichiarazione non veritiera” che non può essere sanata ricorrendo all’ esercizio del soccorso istruttorio che “può colmare dichiarazioni incomplete o irregolari, ma non può “integrare ex post, dichiarazioni totalmente assenti”. GB

 



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Inserito in data 07/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 5 ottobre 2016, n. 4107

L’intervento in autotutela è esperibile anche dopo l’aggiudicazione provvisoria

Secondo il Collegio l’art. 38, comma 2-bis, ultimo periodo, del d.lgs. 163/2006, introdotto dall’art. 39, comma 1, del d.l. 90/2014 (“ … successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte … ”) va interpretato (cfr. CGA, n. 740/2015) nel senso che che debba ritenersi “precluso (...) un intervento in autotutela soltanto dopo che sia stata adottata l’aggiudicazione definitiva”.

Infatti, “nel solco di quanto affermato dalla predetta sentenza (ed anche tenendo conto di TAR Palermo, I, n. 150/2016, n. 1112/2015 e n. 449/2015), può osservarsi anzitutto che una fase di c.d. “ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte” non figura tra le fasi della procedura di evidenza pubblica individuate dall’art. 11 del d.lgs. 163/2006; rispetto a dette fasi “effettive” (decreto o determina a contrarre; selezione dei contraenti; selezione dell’offerta; aggiudicazione definitiva; stipulazione del contratto), è soltanto dopo la fase conclusa dall’aggiudicazione definitiva che può ipotizzarsi il divieto di ricalcolo delle medie e delle soglie”.

Il comma 2-bis, del resto, “non prescrive una precisa cadenza temporale per l’avvio e la definizione del sub procedimento di regolarizzazione, non essendo neppure chiaro se detta fase, doverosa, debba collocarsi a monte (con qualche aggravio in termini di celerità) o a valle della fase di apertura delle buste contenenti le offerte economiche”.

D’altro canto, “l’atto di aggiudicazione provvisoria non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, tanto che la sua omessa impugnazione non preclude l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, e ai fini della sua revoca o del suo annullamento (a differenza di quanto accade per l’autotutela dell’aggiudicazione definitiva) non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento; pertanto, sarebbe incoerente escludere la possibilità di intervenire in autotutela nei confronti di una pre-decisione come l’aggiudicazione provvisoria”.

Invero, se non si consentisse alla stazione appaltante di “rivedere gli esiti delle decisioni preliminari assunte durante la gara, sarebbe anche difficile individuare uno spazio concreto per l’attività di controllo, che pure l’organo competente ad adottare l’atto di aggiudicazione definitiva è tenuto ad effettuare, sugli atti compiuti dal seggio di gara sino all’aggiudicazione provvisoria”.

Inoltre, “l’interpretazione proposta consente di rendere l’ultimo periodo del comma 2-bis pienamente compatibile con il principio di carattere generale di cura permanente dell’interesse pubblico, sotteso al potere di autotutela amministrativa ed espressione del principio costituzionale di buon andamento dell’azione amministrativa”.

Infine, “sotto il profilo della logicità e della ragionevolezza, detta interpretazione, senza frustrare le esigenze di celerità perseguite dalla norma, evita che l’amministrazione, pur essendosi accorta dell’errore, debba mantenere ferma l’aggiudicazione in favore di un operatore che non lo merita, esponendosi conseguentemente all’azione risarcitoria avanzata da chi, se la gara fosse stata condotta legittimamente, sarebbe risultato aggiudicatario”. EF 


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Inserito in data 06/10/2016
TAR SICILIA - CATANIA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 28 settembre 2016, n. 2337

Dubbi di legittimità costituzionale in ordine alla disciplina dell’art. 89 bis del Codice Antimafia

Con l’ordinanza in esame il Tar Catania ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione inerente l’effettiva portata della disciplina, contenuta nell’art. 89 bis del Codice Antimafia, in tema di accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa.

Nei fatti, un’impresa, mediante segnalazione certificata di inizio attività, otteneva dal Comune di Messina l’autorizzazione per la vendita al dettaglio di prodotti alimentari; in precedenza la stessa azienda aveva partecipato al bando per l’erogazione di un finanziamento dell’Assessorato Regionale dell’Agricoltura e, nel corso del relativo procedimento, l’Amministrazione procedente aveva chiesto alla Prefettura di Messina rituali informazioni ai sensi dell’art. 83 del d.lgs. n. 159/2011 (Codice Antimafia). Il competente Ufficio Territoriale del Governo, ai sensi dell’art. 91 del citato decreto, aveva emanato un’informazione antimafia interdittiva, in cui si evidenziava la sussistenza di possibili tentativi di infiltrazione mafiosa, rilevando che il coniuge del legale rappresentante della società era stato rinviato a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.p.r. n. 309/1990 e che alcuni procedimenti di natura patrimoniale si erano conclusi con provvedimenti di sequestro e confisca di beni riconducibili al gruppo imprenditoriale di cui si tratta. La società, non più interessata a conseguire il finanziamento regionale, aveva omesso di impugnare quell’informazione antimafia della Prefettura.

Il Comune di Messina, in considerazione del provvedimento “lato sensu” autorizzatorio derivante dalla segnalazione certificata di inizio attività, interpellava la Prefettura sull’esistenza di cause ostative ai sensi dell’art. 67 del codice antimafia e la Prefettura comunicava di avere già emesso – in altro procedimento – la sopra indicata informazione antimafia interdittiva. Il Comune chiedeva, quindi, alla Prefettura ulteriori informazioni e la Prefettura trasmetteva una nota ministeriale con allegato il parere del Consiglio di Stato n. 3088/15 del 17 novembre 2015 in merito all’applicabilità dell’art. 89-bis del d.lgs. n. 159/2011 ai provvedimenti di natura meramente autorizzatoria, con conseguente esclusione del soggetto interessato da ogni attività economica sottoposta al preventivo assenso della Pubblica Amministrazione. A quel punto il Comune di Messina comunicava all’impresa in oggetto l’avvio del procedimento per la decadenza della segnalazione certificata di inizio attività e, successivamente, con ordinanza, lo stesso Comune, tenuto conto dell’ambito di applicazione dell’art. 89-bis del codice antimafia, disponeva la decadenza della menzionata segnalazione certificata di inizio attività, vietando alla società di proseguire l’attività di vendita di prodotti alimentari.

L’impresa, quindi, presentava ricorso innanzi al TAR Sicilia – Sez. Staccata di Catania  sostenendo, in primis, che il provvedimento del Comune era illegittimo, giacché assunto al di fuori delle ipotesi contemplate dall’art. 89-bis del codice antimafia, posto che tale disposizione fa espresso riferimento all’espletamento delle verifiche di cui al precedente art. 88, secondo comma, le quali sono risultate eseguite quanto al procedimento relativo al bando dell’Assessorato Regionale dell’Agricoltura, ma non in relazione al procedimento relativo alla segnalazione certificata di inizio attività presentata al Comune di Messina. In secondo luogo, continuava l’impresa,  a differenza di quanto ritenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 3088/15 del 17 novembre 2015 (contenuto nella nota ministeriale richiamata dal Prefetto), “l’informazione antimafia, in quanto relativa all’ipotesi in cui l’Amministrazione debba stipulare contratti, rilasciare concessioni o disporre erogazioni, va sempre distinta dalla comunicazione antimafia, che, invece, concerne attività private sottoposte a regime autorizzatorio, e l’art. 89-bis del codice antimafia, in armonia con quanto indicato nella relazione ministeriale allo schema di decreto legislativo n. 153/2014, assolve la finalità di evitare l’ingerenza della criminalità organizzata nel settore degli appalti e dei rapporti con l’Amministrazione, impedendo, in altri termini, che le imprese soggette a tentativi di infiltrazione possano comunque conseguire benefici economici da parte della pubblica autorità”. Da ultimo, concludeva l’azienda, posto che l’applicazione della semplice comunicazione antimafia ai procedimenti di natura autorizzatoria è precisata dalla legge delega n. 136/2010, ne deriva che l’art. 89-bis del Codice Antimafia “risulta costituzionalmente illegittimo, perché in contrasto con la legge delega, che non consente l’estensione dell’informazione antimafia ai procedimenti autorizzatori, nonché con il principio di uguaglianza, con il canone di ragionevolezza e con il principio di libertà di iniziativa economica, introducendo tale disposizione un regime differenziato in relazione a fattispecie sostanzialmente identiche (nel senso che al soggetto in concreto sottoposto a tentativi di infiltrazione mafiosa non sarebbero mai precluse le attività soggette ad autorizzazione, salva l’ipotesi - che però non giustifica una differente disciplina - in cui i tentativi di infiltrazione siano stati accertati in occasione di una precedente informazione antimafia)”.

Il Collegio, mostrando di condividere i dubbi evidenziati dalla parte ricorrente, nel richiedere l’intervento della Consulta,  svolge una chiara ricostruzione della disciplina vigente e degli istituti in materia, a partire dalla distinzione fra informativa e comunicazione antimafia ed i relativi presupposti. 

Con riferimento alla questione dell’applicazione analogica dell’art 89 bis anche all’ipotesi di precedente ed efficace informazione antimafia interdittiva, che abbia accertato la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, secondo l’ordinanza in esame, ciò costituirebbe un eccesso di delega, in quanto fra i principi e i criteri direttivi di cui all’art. 2, d.lgs. n. 159 del 2011  non è contemplata la possibile estensione del rilascio dell’informazione antimafia, con i più severi accertamenti che tale provvedimento presuppone, alle ipotesi in cui l’ordinamento ha previsto, invece, la richiesta ed il rilascio della semplice comunicazione antimafia. Di fronte al chiaro dato letterale della norma, l’ordinanza esclude anche la possibilità di aderire ad una diversa interpretazione della norma, in termini costituzionalmente orientati. A tal proposito, si esclude altresì la possibilità di rinviare alla relazione illustrativa della norma, secondo la quale l’art. 89-bis assolverebbe la finalità di “evitare vuoti normativi suscettibili di favorire l’ingerenza nel settore degli appalti e dei rapporti con la Pubblica Amministrazione”. Al contrario, la lettera dell’art. 89-bis, comma 1, rinvia espressamente alle verifiche di cui all’art. 88, comma 2, le quali, devono essere svolte con riferimento a tutte le ipotesi in cui l’ordinamento ha previsto la richiesta della comunicazione antimafia.

Oltre alla questione dell’eccesso di delega, l’ordinanza in commento, solleva anche il dubbio che il legislatore, con tale norma, abbia trattato in modo differente situazioni che potrebbero anche considerarsi sostanzialmente identiche. In particolare, il Giudice a quo si chiede perché i tentativi di infiltrazione sarebbero rilevanti nei casi in cui sia richiesta la comunicazione antimafia relativa ad un soggetto nei cui confronti risultino pregresse cause interdittive, nonché nel caso di precedente ed ancora efficace informazione antimafia interdittiva, mentre gli stessi tentativi di infiltrazione risulterebbero irrilevanti, anche se sussistenti, negli altri casi. In tale ottica, la norma in questione violerebbe il principio di ragionevolezza ricavabile dall’art. 3, primo comma, Cost., attribuendo rilievo ai tentativi di infiltrazione, non in ragione dell’obiettiva importanza del provvedimento o del contratto, ma in considerazione di  circostanze contingenti consistenti nella pregressa sussistenza di una causa interdittiva o nella precedente emanazione di un’informazione antimafia interdittiva.

Si resta in attesa della pronuncia della Consulta. FM

 



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Inserito in data 05/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 22 settembre 2016, n. 3916

Nella vendita in monopolio, l’interesse commerciale dell’esercente soggiace a quello pubblico

Nella pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’autorizzazione al trasferimento “fuori zona” di una rivendita di generi di monopolio, aderisce alla tesi per cui tale vendita è strutturata secondo “un sistema nel quale l’interesse commerciale dell’esercente deve soggiacere a quello pubblico di carattere fiscale” (così CdS, Sez. IV, sent. n. 4811 del 2014).

Nella specie, si tratta di un trasferimento “fuori zona” come qualificato dall’art. 10, comma 5 del D.M. n. 38/2013, ossia di uno spostamento della sede ad oltre 600 metri di distanza dalla rivendita originaria, che può qualificarsi tale in base alla sussistenza di tutta una serie di requisiti inerenti a specifici parametri (distanza, redditività e produttività).

Nella vicenda è emerso come la sussistenza dei predetti requisiti, abbia avvalorato la tesi dell’appellante, laddove ha sostenuto l’operatività del principio di cui all’art. 21 octies, comma 2, della l. n. 241/1990, in tema di vizi non invalidanti.

In particolare, l’appellante ha ritenuto che, nonostante la mancata recezione dell’integrazione documentale nei termini, l’Amministrazione avrebbe emanato un atto legittimo, in ossequio al principio di conservazione degli atti e di economicità dell’azione amministrativa.

Inoltre, al Collegio pare che la ragione principale che ha spinto i controinteressati a ricorrere riguardi “gli effetti pregiudizievoli in termini di redditività per le rivendite coinvolte”.

Pertanto, secondo quanto asserito dal Supremo Collegio, ha ben fatto “l’Amministrazione a concedere l’autorizzazione al trasferimento << fuori sede>>, ove ha ritenuto prevalenti le finalità di adeguata diffusione del servizio e di massimizzazione del gettito erariale, in quanto l’interesse dei privati a non vedersi ridotto il ricavato della rivendita dei generi di monopolio è certamente subordinato rispetto all’interesse pubblico primario.”

In altri termini, “l’unico faro che deve orientare l’amministrazione è la capillarità, intesa come adeguata diffusione del servizio e non il mantenimento di rendite di posizione eventualmente acquisite nel tempo dai titolari delle rivendite esistenti”. DU

 



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Inserito in data 04/10/2016
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 26 settembre 2016, n. 1845

Rimessa in pristino dello stato dei luoghi, abusi edilizi e responsabilità

Il Collegio calabrese, riportando un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ricorda come - in tema di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario - la posizione di questi possa definirsi neutrale, quando risulti, in modo inequivocabile, la completa estraneità del proprietario stesso al compimento dell’opera abusiva o che, essendo venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall’ordinamento (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 maggio 2015, n.2211; sez. VI, 29 gennaio 2016, n.357).

Tanto è accaduto nel caso di specie, ove i germani ricorrenti – impugnando l’ordinanza di demolizione e le correlate sanzioni ad essi rivolte – dichiarano di aver ottenuto il cespite per linea ereditaria, ricevendolo nello stato in cui effettivamente si trova e, peraltro, di non avere strumento alcuno dal quale essi stessi potessero desumere il carattere illecito del manufatto censurato.

Si deduce, quindi, la relativa estraneità rispetto all’abuso edilizio sanzionato e l’assenza di responsabilità; pertanto, i Giudici ne accolgono le doglianze palesate in ricorso. CC

 



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Inserito in data 03/10/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 settembre 2016, n. 213

Permessi di assistenza al poratore di handicap e famiglia di fatto: q.l.c.

Con la sentenza emarginata in epigrafe, la Consulta dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della L. 1992 n. 104, per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione,  nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i soggetti beneficiari dei permessi di assistenza al portatore di handicap in situazione di gravità.

    La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Tribunale ordinario di Livorno, sezione lavoro, con ordinanza del 15 settembre 2014, nell’ambito di una controversia avente ad oggetto il ricorso proposto da un dipendente della Azienda USL 6 di Livorno, nei confronti di quest’ultima, con cui si chiede, in via principale, l’accertamento del diritto ad usufruire dei permessi di assistenza di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992 a favore del proprio compagno, convivente more uxorio, portatore di handicap gravissimo e irreversibile (morbo di Parkinson) e, al contempo, per contrastare la pretesa della USL di recuperare nei suoi confronti le ore di permesso di cui aveva usufruito per l’assistenza già prestata al proprio convivente nel periodo 2003-2010, su autorizzazione della stessa USL, poi revocata dalla Azienda, per l’assenza di legami di parentela, affinità o coniugio con l’assistito.    In via subordinata, la ricorrente chiedeva che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nella parte in cui non include il convivente more uxorio tra i beneficiari del permesso mensile retribuito, per violazione degli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost. nonché dell’art. 117) Cost., in relazione agli artt. 1, 3, 7, 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

    Il Tribunale rimettente, dopo aver accolto la domanda della ricorrente, evidenzia che il concetto di famiglia preso in considerazione dalla norma in questione non sia quello di famiglia nucleare tutelata dall’art. 29 Cost., quanto quello di famiglia estesa nella quale sono ricompresi i parenti e gli affini sino al terzo grado, anche se non conviventi con l’assistito ed aggiunge: “La famiglia che viene in rilievo nell’art. 33, è dunque quella intesa come formazione sociale ai sensi dell’art. 2 Cost., strumento di attuazione e garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo e luogo deputato all’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

    Ebbene, proprio partendo da una tale premessa,  il giudice a quo desume “una discrasia tra la norma in parola, nella parte in cui non attribuisce alcun diritto di assistenza al convivente more uxorio, e i principi sanciti a più riprese dalla giurisprudenza nazionale (tanto costituzionale che di legittimità) e sovranazionale in punto di tutela della famiglia di fatto retta dalla convivenza more uxorio e dei diritti e doveri connessi all’appartenenza a tale formazione sociale”.

    A livello sovra nazionale il rimettente, inoltre, richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in merito all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, sulla tutela del diritto alla vita familiare, intesa come comprensiva non solo delle relazioni basate sul matrimonio ma anche di altri legami familiari di fatto (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria).

    A questo indirizzo corrisponde – prosegue il giudice a quo – un orientamento giurisprudenziale nazionale, sia costituzionale che di legittimità, che valorizza il riconoscimento ai sensi dell’art. 2 Cost. delle formazioni sociali, nelle quali va ricondotta “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione” (sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010).

    In sostanza,  il rimettente sottolinea come la Corte costituzionale, sin dagli anni ’80, abbia affermato espressamente che l’art. 2 Cost. sia altresì riferibile alle convivenze di fatto, purché caratterizzate da un grado accertato di stabilità (sentenza n. 237 del 1986). Per di più, anche nella giurisprudenza di legittimità si rinvengono significative pronunce in merito alla rilevanza di formazione sociale della convivenza more uxorio, fonte di diritti e doveri morali e sociali del convivente nei confronti dell’altro.

    Il Tribunale a quo, tra l’altro, rileva come nella stessa legislazione nazionale, ferma la diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatto rispetto a quelli originati dal matrimonio, siano emersi segnali nel senso di una sempre maggiore rilevanza della famiglia di fatto.

    Pertanto, avuto riguardo al richiamato quadro legislativo e giurisprudenziale sulla cosiddetta famiglia di fatto, ad avviso del rimettente, l’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, nell’escludere dal novero dei possibili beneficiari dei permessi retribuiti il convivente more uxorio, violerebbe l’art. 2 Cost., non consentendo alla persona affetta da handicap grave di beneficiare della piena ed effettiva assistenza nell’ambito di una formazione sociale che la stessa ha contribuito a creare e che è sede di svolgimento della propria personalità.

    La norma in oggetto contrasterebbe anche con l’art. 3 Cost. stante la irragionevole disparità di trattamento tra il portatore di handicap inserito in una stabile famiglia di fatto ed il soggetto in identiche condizioni facente parte di una famiglia fondata sul matrimonio, diversità che non trova ragione , secondo il Tribunale a quo, nella ratio della norma che è quella di garantire, attraverso la previsione delle agevolazioni, la tutela della salute psico-fisica della persona affetta da handicap grave (art. 32 Cost.), nonché la tutela della dignità umana e quindi dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., beni primari non collegabili geneticamente ad un preesistente rapporto di matrimonio ovvero di parentela o affinità.

   Il giudice a quo precisa che il dubbio di costituzionalità non riguarda la perfetta equiparabilità della convivenza di fatto al rapporto di coniugio, ma la ragionevolezza, ex art. 3 Cost., della diversità di trattamento per quanto attiene alla particolare disciplina dei diritti di assistenza alle persone con handicap.

 Il Giudice delle leggi, ricostruendo la ratio legis dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, nonché il suo interesse primario, ovvero quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare”, afferma che la salute psico-fisica del disabile, quale diritto fondamentale dell’individuo tutelato dall’art. 32 Cost., rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

    Va, dunque, garantito e tutelato, al soggetto con handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (sentenza n. 138 del 2010).

    Fatte tali indispensabili premesse, la Consulta afferma la irragionevolezza della scelta legislativa nel non avere incluso, tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito de quo, il convivente more uxorio della persona con handicap in situazione di gravità.

    Ad avviso della Corte, l’art. 3 Cost. va qui invocato, non sotto il profilo della eguaglianza, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del convivente, ma per la contraddittorietà logica della esclusione del convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile. Ed infatti, “la distinta considerazione costituzionale della convivenza di fatto e del rapporto coniugale, non esclude la comparabilità delle discipline riguardanti aspetti particolari dell’una e dell’altro che possano presentare analogie ai fini del controllo di ragionevolezza a norma dell’art. 3 Cost.” (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004).

    In entrambi i casi, il comune denominatore è dato dall’esigenza di tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile grave, nella sua accezione più ampia, collocabile tra i diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., nell’ambito delle formazioni sociali ove la sua personalità si estrinseca.

    Detto altrimenti, “ il diritto – costituzionalmente presidiato – del portatore di handicap di ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita, verrebbe ad essere irragionevolmente compresso, non in ragione di una obiettiva carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato “normativo” rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio.

    L’art. 33 co.3, dunque,  nel non includere il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito, vìola, quindi, gli invocati parametri costituzionali, risolvendosi in un inammissibile impedimento all’effettività dell’assistenza e dell’integrazione.

    Alla luce delle sopra richiamate argomentazioni, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge n. 104 del 1992, “nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado”. PC



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Inserito in data 01/10/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 settembre 2016, n. 4008

L’errore di fatto revocatorio non coinvolge l'attività valutativa del giudice

Con la pronuncia in esame, il Consesso riprende una sentenza della Plenaria (10 gennaio 2013, n.1; e sulla scia di questa sez. IV, 24 maggio 2016, n. 2197), che in un passaggio afferma quanto segue: “La giurisprudenza del Consiglio di Stato e quella della Corte di Cassazione hanno pressoché univocamente individuato le caratteristiche dell'errore di fatto revocatorio, che, ai sensi rispettivamente dell'art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642, ora dell'art. 106 c.p.a., e dell'art. 395, comma 4, c.p.c., può consentire di rimettere in discussione il contenuto di una sentenza, ciò per evitare che il distorto utilizzo di tale rimedio straordinario dia luogo ad un inammissibile ulteriore grado di giudizio di merito, non previsto e non ammesso dall'ordinamento.

E’ stato più volte ribadito che l'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi delle citate disposizioni normative deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall'attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall'essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa (C.d.S., A.P., 17 maggio 2010, n. 2; sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; 24 maggio 2012, n. 3053; sez. IV, 24 gennaio 2011, n. 503, 23 settembre 2008, n. 4607; 16 settembre 2008, n. 4361; 20 luglio 2007, n. 4097; e meno recentemente, 25 agosto 2003, n. 4814; 25 luglio 2003, n. 4246; 21 giugno 2001, n. 3327; 15 luglio 1999 n. 1243; C.G.A., 29 dicembre 2000 n. 530; sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 708; 17 dicembre 2008, n. 6279; C.G.A., 29 dicembre 2000, n. 530; Cass. Civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12962; 5 marzo 2012, n. 3379; sez. III, 27 gennaio 2012, n. 1197); l'errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche (C.d.S., sez. VI 25 maggio 2012, n. 2781; 5 marzo 2012, n. 1235)

L'errore di fatto revocatorio si sostanzia quindi in una svista o abbaglio dei sensi che ha provocato l'errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso pertanto non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l'attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l'ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi (C.d.S., sez. III, 1° ottobre 2012, n. 5162; sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 1 dicembre 2010, n. 8385).

Pertanto, mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al significato letterale (senza coinvolgere la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni ai fini della formazione del convincimento, così che rientrano nella nozione dell'errore di fatto di cui all'art. 395, n. 4), c.p.c., i casi in cui il giudice, per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo, sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, C.d.S., sez. III, 24 maggio 2012, n. 3053), esso non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o sulla base di un esame critico della documentazione acquisita, tutte ipotesi queste che danno luogo se mai ad un errore di giudizio, non censurabile mediante la revocazione (che altrimenti si trasformerebbe in un ulteriore grado di giudizio, non previsto dall'ordinamento, C.d.S., sez. III, 8 ottobre 2012, n. 5212; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1725; sez. VI, C.d.S., sez. VI, 2 febbraio 2012, n. 587; 15 maggio 2012, n. 2781; 16 settembre 2011, n. 5162; Cass. Civ., sez. I, 23 gennaio 2012, n. 836; sez. II, 31 marzo 2011, n. 7488)”.

Pertanto, alla luce dell’orientamento suddetto, deve ritenersi escluso che la mancata rilevazione di un’asserita causa d’inammissibilità rilevabile d’ufficio costituisca di per sé errore di fatto revocatorio, in quanto “l’errore di fatto non costituisce una semplice (e non riscontrata) omessa lettura del fascicolo di causa ma deve consistere in un errore evidente avente ad oggetto le risultanze processuali”. EF 


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Inserito in data 30/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 27 settembre 2016, n. 3945

La  nomina del commissario ad acta e l’ astreinte non sono alternativi ma cumulabili

Il rimedio della penalità di mora è coerente e può coesistere con la tecnica surrogatoria della nomina del commissario ad acta.

I due rimedi non sono “alternativi, ma “cumulabili”, “stante la diversità della natura giuridica e delle finalità” degli istituti.

La penalità di mora, secondo l’indirizzo dell’Adunanza Plenaria – decisione n.14 del 25/06/2014 - cui il Consiglio di Stato dichiara di aderire, “costituisce una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nelle pene private o sanzioni civili indirette”.

Si tratta di un “ulteriore rimedio processuale, posto a disposizione del creditore della P.A.”, volto ad assicurare “l’effettività e la pienezza della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o comunque intempestiva esecuzione della sentenza di merito” (cfr. C.d.S. Sez. V, 20/12/2011, n. 6688).

Coerentemente con le diverse finalità dei due istituti, l’affiancamento della misura dell’astreinte con la nomina di un commissario ad acta “ha un senso logico” e “trova la sua giustificazione proprio perché”, la “doppia richiesta “ non è finalizzata alla “doppia riparazione di un unico danno” (quello da ritardo nell’esecuzione), ma determina “l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria”.

Pertanto, la richiesta della penalità di mora non è “incompatibile” con la nomina del commissario ad acta.

Il Consiglio di Stato non tralascia di ribadire che il rimedio dell’astreinte può essere concesso se ricorrono “i concreti presupposti di applicazione della misura sanzionatoria”, ed è applicabile “solo per il periodo successivo al termine fissato nella sentenza di ottemperanza e unicamente nel caso di mancato rispetto di detto termine (cfr. C.d.S. Sez. IV, 22/05/2014, n. 26153; idem 16/06/2015, n. 2922). G.B.

 



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Inserito in data 29/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 settembre 2016, n. 4018

Procedimento in contraddittorio tra PA e cittadino interessato: rilievo dell’art. 10 bis - L. 241/90

Nella decisione in esame, il Consiglio di Stato pone l’accento sull’atteggiamento di reciproca collaborazione che dovrebbe sempre caratterizzare il comportamento della Pubblica Amministrazione e del privato cittadino nell’ambito del procedimento amministrativo, in ossequio alla logica del contraddittorio, di cui è inequivocabile espressione l’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241.  

Nel caso in esame, un lavoratore extra comunitario residente in Italia aveva presentato alla Questura di Brescia domanda di rinnovo del permesso di soggiorno. L’autorità di pubblica sicurezza, ritenendo che le condizioni lavorative del richiedente non gli consentissero di raggiungere il limite minimo di reddito - requisito necessario per essere autorizzati a soggiornare in Italia - gli comunicava preavviso di rigetto e, non ricevendo nel termine nessuna controdeduzione, respingeva l’evocata istanza.

Il lavoratore, quindi, presentava ricorso al TAR Lombardia, sostenendo che nelle more del procedimento amministrativo di rilascio era riuscito a migliorare la propria posizione lavorativa e reddituale e che, pertanto, l’Amministrazione avrebbe dovuto tener conto della situazione medio tempore sopravvenuta, ai sensi e per gli effetti dell’art. 5, quinto comma, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

Tale ragionamento veniva condiviso dal giudice di primo grado.

Il Supremo Consesso, chiamato a pronunciarsi in sede di appello, riformando la sentenza di primo grado, dimostra invece di condividere la tesi del Ministero appellante, il quale, sebbene disponibile a prendere in considerazione eventuali elementi sopravvenuti, rileva come questi ultimi non siano mai stati portati alla sua attenzione nel corso dell’istruttoria procedimentale.

Ulteriormente argomentando, la Terza Sezione assegnataria, evidenzia che l’Amministrazione potrebbe, in effetti, ricavare elementi sulla situazione lavorativa del residente extra comunitario effettuando delle ricerche presso Camere di Commercio, Agenzia delle Entrate ed enti previdenziali, ma tale adempimento  “può essere attivato solo qualora sorgano dei dubbi su quanto risulta agli atti dell’Amministrazione, dubbi che possono insorgere solo su impulso dell’interessato”. In altre parole, continua il Collegio, “è proprio nella logica del procedimento in contraddittorio, di cui è espressione l’art. 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, che l’interessato collabori alla formazione della consapevole volontà dell’Amministrazione, fornendo gli elementi a sua disposizione”.

A sostegno della propria tesi, il Consiglio di Stato richiama altre pronunce giurisprudenziali in cui si asserisce che il privato non può pretendere che l’Amministrazione si attivi in ricerche riguardanti circostanze che nemmeno lo stesso soggetto interessato aveva provveduto a evidenziare (C. di S., VI, 27 agosto 2010, n. 5994; C. di S., III, 25 gennaio 2016, n. 244, 21 ottobre 2015, n. 4805). Invece, le pronunce invocate dal ricorrente in primo grado (C. di S., III, 6 febbraio 2015, n. 622, e C. di S., VI, 8 febbraio 2011, n. 1053) e richiamate nella sentenza appellata, non vengono ritenute aderenti al caso di specie, poiché relative ad elementi sopravvenuti poi acquisiti nel corso del procedimento.

In conclusione, il Collegio (confermando il C. di S., III, 25 gennaio 2016, n. 244, sulla necessità di considerare gli elementi sopravvenuti nell’esame di nuova istanza, volta a superare il primo diniego) accoglie l’appello, dichiarando che “l’Amministrazione legittimamente esamina la domanda di rinnovo del permesso di soggiorno sulla base degli elementi forniti dal richiedente, e non può essere onerata di ulteriori ricerche”. FM 


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Inserito in data 28/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 settembre 2016, n. 4007

Decadenza del permesso di costruire

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, confermando la posizione addotta dai Giudici di prime cure, ricorda il termine annuale previsto dall’articolo 15 secondo comma del DPR n. 380/01 entro cui occorre dare inizio ai lavori – una volta che sia stato ottenuto il permesso di costruire.

Considerato, nel caso di specie, il vano decorrere di un anno dal rilascio della suddetta autorizzazione ad aedificandum, il Comune appellato non poteva che emettere una pronuncia di decadenza, quale quella oggi impugnata.

Infatti ricordano i Giudici, richiamando anche giurisprudenza pregressa, che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire costituisce un provvedimento avente carattere strettamente vincolato all’accertamento del mancato inizio o completamento dei lavori entro i termini stabiliti dall’art. 15 comma 2 del DPR n. 380/2001 (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire ( Cfr. Cons. Stato Sez. IV 23/2/2012 n. 974; idem n. 2915/2012).

In guisa di ciò, anche in appello non può non essere sconfessata la posizione del privato, il quale ha invano posto in dubbio la condotta dell’Amministrazione comunale. CC 


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Inserito in data 27/09/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 15 settembre 2016, n. 9759

La concreta lesività del parere non vincolante si manifesta solo se trasposto nell’atto conclusivo e non prima

Nel caso in epigrafe, oggetto dell’impugnativa è un parere non vincolante reso dall’ANAC su questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. n) del D.Lgs. n. 163 del 2006.

La citata norma sancisce la natura “non vincolante” del parere in questione e tratteggia la possibilità che il soggetto istituzionale, al quale il parere è indirizzato, ben potrebbe discostarsi dal medesimo con determinazione congruamente motivata.

Ne consegue, che la concreta lesività del parere dell’Autorità si manifesta “solo nell’ipotesi in cui sia trasposto o richiamato nell’atto conclusivo del procedimento che dispone in senso conforme ad esso, ma non prima”.

Nel caso di specie, il provvedimento finale coincide con quello della Regione Umbria – emesso in data posteriore al parere in questione – che è stato poi impugnato innanzi al TAR competente per territorio.

Nel contesto delineato, è evidente che la lesività alla sfera giuridica delle ricorrenti si è prodotta soltanto in seguito, cioè quando “l’organo istituzionalmente preposto all’assetto degli interessi in esame, si è pronunciato nell’ambito della sua potestà discrezionale, sia pure conformandosi alle conclusioni suggerite dall’ANAC”.

In realtà, l’incidenza del parere dell’ANAC sulla fattispecie oggetto del ricorso, può essere valutata solo in relazione alla capacità di integrare la motivazione del provvedimento finale, con la conseguenza che il parere in discorso “potrà semmai impugnarsi unitamente al provvedimento finale che lo recepisce”.

Alla luce di quanto dedotto, il TAR ha dichiarato il ricorso inammissibile per carenza di lesività diretta. DU

 



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Inserito in data 26/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 22 giugno 2016, n. 2766

Oneri di urbanizzazione assistiti da garanzia fideiussoria ed escussione da parte del Comune: attesa a breve la Plenaria

Con l’Ordinanza emarginata in epigrafe, a seguito di un vivace dibattito occorso in giurisprudenza, la quarta sezione del Consiglio di Stato rimette all’A..P., che si terrà il 5 ottobre p.v., la questione riguardante il c.d. contributo di urbanizzazione, oggi previsto dagli artt. 11 e 16 del T.U. n. 380 del 2001, costituenti attuazione del principio fondamentale dell’onerosità del permesso di costruire (originariamente, ex art. 1 L. n. 10 del 1977).

Il pagamento del predetto contributo è solitamente assistito da garanzia fideiussoria (peraltro, nella fattispecie che qui interessa, priva di beneficium excussionis), per l’adempimento del debito principale oltre che dalla previsione dello strumento sanzionatorio ex art. 16 T.U. n. 380 del 2001, per il caso di inadempimento o pagamento tardivo.

Più in particolare, l’Amministrazione appellata, in luogo di rivalersi immediatamente sul fideiussore, così da ottenere immediatamente il soddisfacimento del suo credito, ha agito direttamente nei confronti della debitrice (società appellante), chiedendo non solo il debito garantito, ma anche le sanzioni previste dalla normativa di settore, determinando così un considerevole aumento del debito principale.

Nella Ordinanza de quo, la questione che si pone consiste nello stabilire se in realtà la prima opzione operativa (l’incameramento della garanzia con conseguente preclusione all’applicazione delle sanzioni), sia necessitata o facoltativa. Ebbene:  Secondo un indirizzo giurisprudenziale, peraltro minoritario, il problema interpretativo all’esame non può che risolversi facendo coerente applicazione dei principi civilistici in tema di obbligazioni, primo fra tutti quello che impone al creditore in buona fede di collaborare con il debitore ai fini del puntuale adempimento dell’obbligazione. 

Una simile impostazione, come si vede,  esclude che il Comune stesso possa far ricorso alle sanzioni ex art. 3 l. 28 febbraio 1985 n. 47 senza esercitare la predetta garanzia che, oltre a limitare il danno per il debitore, permette, tra l’altro, l’immediato soddisfo del proprio credito. Infatti, la natura giuridica della concessione edilizia o delle sanzioni ex art. 3 legge n. 47 del 1985 non può esimere il Comune dall'osservanza degli obblighi posti dalla legge in capo al creditore in materia di adempimento delle obbligazioni, ivi compreso quello della necessaria cooperazione con il debitore nella fase dell'adempimento. “ ( ad es. V Sez. n. 1001 del 1995).

Un secondo orientamento giurisprudenziale, maggioritario, al quale l’Ordinanza di rimessione aderisce, inquadra la fattispecie in una prospettiva pubblicistica, determinata dalla presenza di strumenti – le sanzioni e la riscossione coattiva – tipici di un procedimento autoritativo (e non paritetico). Dunque, l’Amministrazione sarebbe facoltizzata a richiedere la fideiussione, la quale, non avrebbe finalità di facilitare l'adempimento dell’obbligato principale, bensì costituirebbe una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'Ente, sul quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.

Un terzo indirizzo, per così dire mediano rispetto ai predetti orientamenti, pur non negando l’applicazione delle sanzioni in caso di ritardato pagamento, ritiene, tuttavia, illegittimo che le stesse possano applicarsi nella loro misura massima. Questa impostazione, facendo perno sul principio di leale collaborazione tra cittadino ed Amministrazione (principio di valenza pubblicistica e rientrante nell'ambito dei principi di imparzialità di cui all'art. 97 Cost.), intravede nel ritardo con cui l’Ente procede alla richiesta di pagamento e nell'assenza di qualsivoglia tentativo di escussione della fideiussione, una significativa violazione del dovere di correttezza che dovrebbe improntare il comportamento dell'Amministrazione comunale. 

Dunque, secondo il richiamato indirizzo, l'Amministrazione non è un soggetto che agisce per massimizzare il suo profitto ma è un soggetto che agisce per realizzare nel modo migliore possibile un interesse pubblico che le è stato affidato dalla legge e che consiste, appunto, nella celere realizzazione delle opere di urbanizzazione (e, quindi, nella pronta disponibilità delle somme ad esse relative). Motivo per cui, il ritardo con cui il Comune agisce per riscuotere le somme a titolo di oneri di urbanizzazione dovuti, se non può impedire del tutto l'applicazione delle sanzioni, atteso il loro carattere cogente scaturente dal disposto di legge, ne impedisce, tuttavia, l'applicazione nella loro misura massima.

A questo punto, non rimane che attendere la pronuncia del Supremo Consesso amministrativo. PC

 



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Inserito in data 23/09/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 settembre 2016, n. 3910

Annullamento in autotutela illegittimo senza motivazione sull’interesse pubblico

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale, ormai codificato nell’art. 21-nonies della L. n. 241/1990, “il legittimo esercizio del potere di autotutela non può fondarsi unicamente sull’intento di ripristinare la legittimità violata, ma deve essere scrutinato in ragione della sussistenza di un interesse pubblico prevalente all’adozione del provvedimento di ritiro”.

Da ciò discende che l’annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione definitiva, e di tutti gli atti di gara, motivato dalla stazione appaltante con l’esigenza di uniformarsi agli obblighi conformativi                      scaturenti da una precedente pronuncia che dichiarava l’illegittimità di una clausola di partecipazione, è illegittimo.

È illegittimo, in quanto “viziato”, per “difetto di istruttoria e di motivazione”, non avendo l’amministrazione “esposto alcuna ulteriore ragione, se non quelle connesse alla riconosciuta parziale illegittimità della lex specialis di gara”.

È illegittimo, in quanto “difforme” rispetto ai “consolidati acquis formatisi sul tema della legittimità di ritiro”, non avendo l’amministrazione “in alcun modo dato atto della ponderazione dei vari interessi che nel caso in esame vengono in rilievo, anche alla luce dello stato di avanzamento dell’opera e del tempo trascorso dal provvedimento di aggiudicazione e dalla sottoscrizione del contratto”.

In ordine alla pretesa risarcitoria, il principio generale della domanda e della corrispondenza tra chiesto  e pronunciato, “certamente applicabile anche nel giudizio amministrativo”, impone che “la mancata proposizione della domanda di annullamento dell’aggiudicazione” precluda “anche in radice il riconoscimento del danno per equivalente pecuniario”.

Condotta processuale “valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c.”(cfr. art. 30, comma 3, art. 124, comma 2, c.p.a.). GB

 



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Inserito in data 22/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 31 agosto 2016, n. 3732

La sanzione dell'astreinte deve essere richiesta dalla parte interessata unitamente al ricorso in ottemperanza

Nella sentenza in esame, il Consiglio di Stato si sofferma sull'istituto dell'astreinte, in particolare sulla necessità, per la parte che voglia avvalersene, di richiedere espressamente l’applicazione di tale sanzione unitamente al ricorso per l’ottemperanza.  

Riformando la pronuncia resa dal giudice di primo grado, limitatamente alla parte in cui lo stesso condannava l’Ente Pubblico al pagamento di penalità di mora (c.d. astreinte), la IV Sezione mostra di condividere quanto sostenuto dall’amministrazione appellante, cioè che nel caso di specie il TAR “aveva violato il precetto di cui all'art. 112 cpc in quanto aveva disposto tale condanna d'ufficio” nonostante l’appellato non avesse richiesto tale statuizione nel ricorso in ottemperanza.

Nel suo percorso argomentativo, il Supremo Consesso, rileva che – come emerge dagli atti -  l'originario ricorrente non aveva, in effetti, avanzato richiesta di astreinte contestualmente al ricorso in ottemperanza di primo grado,  quindi, la sentenza impugnata aveva disposto tale condanna d'ufficio, ed in carenza di apposita richiesta di parte.

Proseguendo nella sua esposizione, il Consiglio di Stato dichiara di mantenersi nel solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza amministrativa, la quale, rifacendosi al tenore letterale dell'art. 114 del cpa, è concorde nel ritenere che la sanzione dell'astreinte debba essere richiesta dalla parte interessata.

Pertanto la Sezione assegnataria conclude che “solo con la richiesta unitamente al ricorso per ottemperanza la parte esprime univocamente tanto la convinzione che la sentenza, ovvero il decreto, non è stato osservato, quanto la volontà di ottenerne l'esecuzione, nonché il suo specifico oggetto (tra le tante, T .A.R. Trento, -Trentino-Alto Adige-, sez. I, 20/05/2016, n. 220; Consiglio di Stato, Sez. IV, 4 dicembre 2015, n. 5536 e n. 5537)”. FM

 



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Inserito in data 21/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 13 settembre 2016, n. 3865

Appalto di servizi, risoluzione contrattuale e giurisdizione

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello promosso da una società cooperativa sociale avverso la sentenza resa dal TAR Campania – Napoli, n. 2812/2016, con la quale il Giudice di prime cure ha declinato la propria giurisdizione a favore della giurisdizione ordinaria, in una controversia avente ad oggetto la risoluzione di un rapporto contrattuale con la pubblica Amministrazione, nonostante che, nella fattispecie, pur essendosi dato inizio alla esecuzione delle prestazioni, non si era ancora provveduto alla stipula del relativo contratto.

   Ed invero, sotto tale ultimo profilo, con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che  nessun contrasto con i principi enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 14/2014 è ravvisabile (come asserito dalla appellante), dal momento che l’art. 11 del d.lgs. 163/2006 disciplina le ipotesi nelle quali è possibile disporre l’esecuzione in via d’urgenza del contratto, ossia prima della sua concreta stipulazione; afferma infatti il Collegio “è la stessa legge che consente il riferimento e l’operatività della disciplina negoziale, non ancora oggetto di formale stipulazione”. Pertanto, nella fattispecie, si versa nell’ambito della esecuzione di prestazioni, ossia di un rapporto giuridico in cui ciascuna delle parti ha il diritto di .invocare la risoluzione del contratto eseguito in via d’urgenza ex art. 11 d.lgs. 163 del 2006 e ciò ai sensi dell’art. 134 del medesimo decreto, che disciplina il diritto di recesso e dei susseguenti 135 e 136 regolanti la risoluzione del contratto.

   Il Consiglio di Stato, inoltre, precisa che, contrariamente a quanto sostenuto dalla appellante, la fattispecie è da qualificarsi appalto di servizi (e non concessione), non risultando posto a carico dell’appellante il rischio economico.

   Sono stati così rigettati i motivi di gravame esposti dalla originaria ricorrente, la quale aveva denunciato in primo luogo la erroneità della sentenza di prime cure per non avere affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in ragione della mancata formalizzazione del contratto; secondo quest’ultima, infatti, in detta ipotesi non vi sarebbe stata alcuna posizione paritetica tra le Parti e l’Amministrazione non avrebbe potuto utilizzare la tutela negoziale della risoluzione contrattuale, bensì quella della autotutela pubblicistica, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. PC

 



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Inserito in data 20/09/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 settembre 2016, n. 3892

Le regole di trasparenza applicate dai privati sono espressione di autonomia negoziale

Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che in assenza di espresse previsioni di legge in tal senso, i soggetti formalmente privati non siano “titolari di poteri pubblicistici, anche se ad altri e specifici fini siano considerati organismi di diritto pubblico”.

In particolare, “anche ove scelgano di applicare regole di trasparenza ed equità proprie dei concorsi pubblici, i soggetti privati lo fanno ponendo ‘autovincoli’ alla propria autonomia negoziale, la cui violazione ben può essere sindacata dal giudice civile, trattandosi di atti finalizzati all’instaurazione di un rapporto lavorativo di natura privatistica”.

Ed, invero, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1, comma 2, e 63, comma 4, D.Lg.vo n. 165 del 2001 «spettano alla cognizione del Giudice Amministrativo soltanto le controversie, relative ai concorsi indetti dalle Amministrazioni dello Stato, compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, dalle aziende e dalle Amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, dalle Regioni, dalle Province, dai Comuni, dalle Comunità Montane, dai Consorzi e/o dalle associazioni di Enti Locali, dalle Università, dagli Istituti autonomi case popolari, dalle Camere di Commercio e loro associazioni, da tutti gli Enti Pubblici non economici nazionali, regionali e locali, dalle amministrazioni e aziende ed Enti del Servizio Sanitario Nazionale, dall’ARAN e da tutte le altre Agenzie previste dal D.Lg.vo n. 300/1999».

Alla luce di quanto suddetto, i Giudici ritengono che una fondazione di diritto privato non possa ritenersi - per il sol fatto di svolgere, sulla base di intese ed accordi attuativi con la Regione e l’ASL competente, attività riconducibili al SSN – “un ‘ente’ del SSN, poiché a tal fine è necessaria una previsione di legge che qualifichi l’ente nel quadro del S.S.N. sottoponendolo alle regole pubblicistiche” (in proposito cfr SS.UU., 25 novembre 2013, n. 26283).

Né, d’altra parte, può applicarsi quella giurisprudenza riguardante l’individuazione della nozione di «organismo di diritto pubblico», “poiché tale figura soggettiva, di derivazione comunitaria, rileva nel settore degli appalti ed è tesa, in chiave pro-concorrenziale, ad applicare le regole di evidenza pubblica anche ai soggetti che, pur non essendo formalmente pubblici, soggiacciono ad una dominante influenza pubblica”. EF



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Inserito in data 19/09/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE OTTAVA - SENTENZA 7 settembre 2016, C- 549/14

Divieto di rinegoziazione dell’offerta: torna a pronunciarsi la Corte di Giustizia

Sull’interpretazione dell’art. 2 della direttiva 2004/18, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, si è pronunciata la Corte di Giustizia, escludendo che dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, si possa apportare una modifica sostanziale allo stesso, senza previamente avviare una nuova procedura di aggiudicazione dell’appalto.

Ciò, anche quando “tale modifica costituisca, obiettivamente, una modalità transattiva avente ad oggetto rinunce reciproche per entrambe le parti, allo scopo di porre fine a una controversia dall’esito incerto, sorta a causa delle difficoltà incontrate nell’esecuzione di tale appalto”.

La Corte di Giustizia, ribadendo un principio consolidato sul cd. divieto di rinegoziazione dell’offerta, ha ricondotto l’obbligo di avviare una nuova procedura di aggiudicazione in caso di modifica sostanziale all’appalto iniziale, alla necessità di applicare le stesse condizioni a tutti gli operatori economici.

Diversamente, taluni appalti – osserva la Corte di Giustizia – a causa del loro contenuto aleatorio, rendono prevedibile già a priori il rischio di sopravvenienza di difficoltà in fase di esecuzione; in questi casi, la Corte riserva all’amministrazione aggiudicatrice la possibilità di apportare talune modifiche sostanziali  al contenuto iniziale dell’appalto pubblico, anche dopo l’aggiudicazione, a condizione, però, che ciò sia stato previsto nei documenti che hanno disciplinato la procedura di aggiudicazione, e che ne siano state fissate le modalità di applicazione.

Inoltre, nell’iter argomentativo della pronuncia, la Corte pone in evidenza come siano le “difficoltà oggettive riscontrate in fase esecutiva e non la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali del contratto iniziale” a rappresentare “l’elemento nuovo”, che si colloca alla base della modifica sostanziale oggetto della composizione transattiva. In particolare, la CGE precisa come siffatte difficoltà di esecuzione riscontrate dopo l’aggiudicazione, non siano da sole sufficienti a giustificare modifiche sostanziali intraprese in sede di trattativa privata, in quanto violerebbero comunque i principi di parità di trattamento e di non discriminazione sanciti dal Trattato FEU, nonché dall’art. 2 della citata direttiva, fatta salva l’eventualità in cui “i documenti relativi all’appalto prevedano la facoltà di adeguare talune sue condizioni, anche importanti, dopo la sua aggiudicazione e fissino le modalità di applicazione di tale facoltà”.

Pertanto, in mancanza di siffatte previsioni, la necessità di applicare per un determinato appalto pubblico le stesse condizioni a tutti gli operatori economici richiede, in caso di modifica sostanziale, di avviare una nuova procedura di aggiudicazione. DU

 



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Inserito in data 10/08/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 10 agosto 2016, n. 3615

I servizi di trasporto sanitario possono essere attribuiti mediante affidamento diretto

Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva che la Corte di Giustizia ha “espressamente consentito di derogare al generale principio della pubblica gara estesa a tutti gli operatori economici, in favore delle Associazioni no profit, solo per i servizi di ambulanza e di trasporto sanitario d’urgenza; tuttavia non ha espressamente escluso dalla deroga i servizi di trasporto sanitario in genere, che restano comunque connessi alle ragioni di necessità ed urgenza tipiche del settore, dovendo essere i servizi di trasporto, ordinari e non, fungibili ove necessario a far fronte alle emergenze, e dovendo rispondere anche i servizi ordinari ai criteri di urgenza necessari per la tutela della salute umana, così come è ben evidenziato dalla avvenuta espressa inclusione, fra i servizi non di emergenza/urgenza, del trasporto di organi espiantati per trapianti, pur essendo anche tale trasporto caratterizzato da intuibili profili di imprevedibilità e di somma urgenza nell’esecuzione”.

La contestata estensione della previsione in deroga non appare quindi irragionevole o non proporzionata, alla stregua delle indicazioni della Corte di Giustizia (sez. V, 28/01/2016, n. 50) secondo cui per il trasporto sanitario “le autorità locali di uno Stato membro possono procedere ad attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di pubblicità, ad associazioni di volontariato a condizione che le associazioni non abbiano fini di lucro, abbiano una finalità sociale e lo Stato persegua un obiettivo di solidarietà, come la tutela della salute della collettività e ragioni di efficienza di bilancio”. EF

 



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Inserito in data 09/08/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 9 agosto 2016, n. 3557

Va motivata l’indizione di un nuovo concorso in presenza di graduatoria ancora efficace

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato conferma il principio generale secondo cui “in presenza di una graduatoria concorsuale ancora efficace, la regola da seguire per la copertura dei posti vacanti è quella dello scorrimento della medesima prima dell’indizione di un nuovo concorso”.

Come anche questa Sezione ha di recente ricordato, con la sentenza n. 1796 del 9 aprile 2015, la disciplina vigente, «pur non spingendosi fino ad assegnare agli idonei un vero e proprio diritto soggettivo all’assunzione mediante scorrimento della graduatoria, con correlativo obbligo cogente per l’ente, impone all’amministrazione, che abbia a determinarsi diversamente, un rigoroso obbligo di motivazione della propria scelta derogatoria».

Trattasi, invero, di “obbligo che non recede ma è solo ridimensionato e attenuato in presenza di particolari ragioni di opportunità che militino per una scelta organizzativa diversa dallo scorrimento, come l’esigenza di stabilizzare personale precario o il sopraggiungere di una modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale”.

Secondo quanto affermato anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 14 del 28 luglio 2011, “la disciplina dettata in materia individua, infatti, nello scorrimento delle graduatorie concorsuali ancora efficaci la regola generale per la copertura dei posti vacanti nella dotazione organica e ne rafforza il ruolo di modalità ordinaria di provvista del personale, in relazione alla finalità primaria di ridurre i costi gravanti sulle amministrazioni per la gestione delle procedure selettive”.

Pertanto, l’indizione di un nuovo concorso è “l’eccezione e richiede un’apposita e approfondita motivazione, che deve dar conto del sacrificio imposto ai concorrenti già idonei e della sussistenza di preminenti diverse esigenze di interesse pubblico”.

In conseguenza, “non sussiste un vero e proprio diritto soggettivo alla assunzione degli idonei mediante scorrimento, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e della disponibilità di posti in organico, dovendo comunque l’amministrazione assumere la decisione organizzativa di procedere al reclutamento di personale, correlata a eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e alla valutazione di ulteriori altri elementi di fatto e di diritto rilevanti”. EF

 



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Inserito in data 28/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 26 luglio 2016, n. 3387

Non esiste una definizione unitaria ed omogenea di ente pubblico

Nel nostro ordinamento, anche in ragione dell’influenza del diritto europeo, “non esiste una definizione unitaria ed omogenea di ente pubblico”.

Invero, “la valorizzazione del profilo funzionale relativo alle finalità perseguite porta a individuare diverse nozioni di pubblica amministrazione in ragione degli ambiti generali e settoriali di disciplina che vengono in rilievo e, per ciascuna pubblica amministrazione, una possibile articolazione della natura, pubblica o privata, in ragione della specifica disciplina applicabile” (Cons. Stato, sez. VI, 1° giugno 2016, n. 2326).

Limitando l’analisi a quanto rileva per la trattazione del ricorso, il Consesso rileva che “presupposti necessari per la presenza di un ente pubblico sono di tipo organizzativo e sostanziale”.

In particolare, “il presupposto organizzativo è rappresentato dal rispetto del principio di legalità. La Costituzione impone che deve essere la legge a stabilire quando un soggetto possa qualificarsi come pubblico (art. 97 Cost.). La legge 20 marzo 1975, n.70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente), in attuazione di tale regola, dispone, con previsione generale, che «nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge»“.

Il presupposto sostanziale, invece, “è costituito dalla presenza di indici idonei a rilevare la pubblicità dell’ente”.

A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato che tale criterio sostanziale di identificazione valorizza “una serie di indici esteriori sintomatici e non necessariamente cumulativi della pubblicità, rappresentati, in particolare: dall’istituzione per legge e dalla costituzione ad iniziativa pubblica; dal rapporto di strumentalità con lo Stato o ente territoriale, che implica l’esercizio di poteri di indirizzo e controllo; dal finanziamento pubblico; dal fine di interesse pubblico che deve essere perseguito; dall’attribuzione di poteri pubblici”.

In conclusione, “l’esigenza di maggiore certezza ha indotto il legislatore ad affiancare a questo criterio un altro criterio di tipo formale, consistente nell’indicazione dei soggetti che devono ritenersi pubbliche amministrazioni (si veda art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.165, recente «Norme generale sull'ordinamento del lavoro alle dipendente delle amministrazioni pubbliche», che, richiamando genericamente anche «tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali», non ha una valenza autosufficiente, imponendo che a questo criterio formale si affianchi quello, sopra esposto, di natura sostanziale)”. EF

 



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Inserito in data 27/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 26 luglio 2016, n. 3372

La violazione del dovere di sinteticità tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio 

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato si esprime sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della norma di cui all’art. 26, comma 2, c.p.a., confermando quanto già sancito dalla stessa Quinta Sezione con sentenza 11 giugno 2013, n. 3210.

Sul punto occorre rilevare che l’attuale testo normativo, novellato dal d.lgs. n. 195 del 2011, entrato in vigore l’8 dicembre 2011, dispone che “Il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l’articolo 15 delle norme di attuazione”.

Tale norma si lega a quanto sancito dall’art. 26, comma 1, c.p.a., come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, secondo cui “Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli articoli 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del codice di procedura civile, tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'art. 3, comma 2”.

Sul piano sistematico, dunque, “si staglia una previsione normativa di chiusura dell’ordinamento processuale amministrativo che consente di approntare, in via generale e residuale, un’adeguata reazione alla violazione del principio internazionale e costituzionale del giusto processo, espressamente richiamato dall’art. 2, comma 1, c.p.a., non diversamente tipizzata (si pensi agli artt. 18, comma 7, e 123, comma 1, c.p.a.); di guisa che tutte le violazioni di tale superiore principio ricevano una adeguata sanzione (cfr. Cons. giust. amm., 19 aprile 2012, n. 395, in ordine alla violazione del dovere di sinteticità).

Si evita, altresì, la beffa di norme processuali, prescrittive di oneri ed obblighi, ma minus quam perfectae, ovvero prive di una sanzione”.

Emblematico è il caso della “violazione del dovere di sinteticità sancito dall’art. 3, comma 2, c.p.a., strumentalmente connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), a sua volta corollario del giusto processo, che assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell’interesse pubblico in occasione del controllo sull’esercizio della funzione pubblica e che è infatti icasticamente richiamato dal comma 1.

La sinteticità degli atti costituisce uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace; essa è declinata in varie norme del codice: si pensi alla disciplina dell'udienza pubblica, dove si prevede che qualora lo chiedano “le parti possono discutere sinteticamente” (art. 74); al processo cautelare “nella camera di consiglio le parti possono costituirsi e i difensori sono sentiti ove ne facciano richiesta. La trattazione si svolge oralmente e in modo sintetico” (art. 55, comma 7); sulla stessa scia si muovono gli articoli 40, comma 1, lett. c) e d), e 101, comma 1, c.p.a. (in relazione al contenuto del ricorso introduttivo in primo grado e in appello); parimenti utile è ricordare, in chiave comparata, l’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., laddove stabilisce che il ricorso deve contenere “L’esposizione sommaria dei fatti della causa” (cfr., sul punto, Cass. civ., Sez. Un., 11 aprile 2012, n. 5698 che ha fatto applicazione della norma in esame, dichiarando inammissibile un ricorso in cassazione, dopo aver richiamato il dovere di sinteticità degli scritti difensivi).

E’ pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della norma è quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario (cfr., sul punto, Consiglio di Stato, sez. V, n. 1733 del 2012; Cass. civ., sez. I, n. 17902 del 2010, cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.)”.

Per quanto concerne la quantificazione della pena, entro i limiti edittali sanciti dall’art. 26, comma 2, cit., “il Collegio ritiene di determinarla nella misura del contributo unificato, avuto riguardo ai criteri applicativi elaborati dalla giurisprudenza ai sensi dell’originario secondo comma dell’articolo 26 c.p.a. che, in parte qua, ben possono orientare l’esercizio del potere di scelta della misura della sanzione pecuniaria” (nella specie si tratta di correlare la misura pecuniaria alle spese di lite, cfr. Cons. St., sez. V, n. 1733 del 2012 cit.; sez. V, n. 3252 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.). EF 


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Inserito in data 26/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 19 luglio 2016, n. 3206

Divieto di valutazioni tecniche non previste dal bando in caso di gara con il prezzo più basso

I Giudici di Palazzo Spada, nella pronuncia in esame, si sono espressi in ordine alla possibilità o meno per la stazione appaltante - nell’ipotesi di gare bandite con il “criterio del prezzo più basso”- di esprimere valutazioni tecniche sulla qualità del prodotto, non previste dalla lex specialis.

Per costante giurisprudenza del Consiglio di Stato – ha precisato il Collegio – la gara che deve aggiudicarsi secondo il criterio del prezzo più basso “impone una valutazione stringente sulla conformità o meno del prodotto alla specifiche già predeterminate dalla lex specialis  e non consente alla stazione appaltante di formulare apprezzamenti sul grado di maggiore o minore qualità tecnica dell’offerta, sottoponendo i prodotti a prove o verifiche non previste dalla lex specialis”.

Confermando il tenore della pronuncia resa dal giudice di primo grado, la III Sezione ha quindi precisato che l’istruttoria sui prodotti deve essere compiuta prima di elaborare e bandire un appalto e non dopo, in corso di gara, diversamente si violerebbe il principio di trasparenza e della par condicio.

Nel caso specifico - ha conclusivamente affermato il Collegio - quanto ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante nella gara in esame, i medesimi devono ritenersi illegittimi nella parte in cui si sono discostati dalle previsioni tassative della lex specialis.

Ed infatti – si legge in un passaggio della pronuncia - “se è ben vero che nelle gare bandite secondo il criterio del prezzo più basso, l’Amministrazione può e deve verificare la conformità del prodotto alle specifiche tecniche predeterminate dalla lex specialis, essa non può sottoporre le offerte a verifiche e prove non previste e non predeterminate ed esprimere valutazioni tecniche sulla minore o maggiore qualità dei prodotti, basate su una comparazione qualitativa tra i prodotti offerti (consentita invece nelle gare bandite con il metodo dell’offerta economicamente vantaggiosa), con il risultato illegittimo, peraltro, di escludere in toto l’offerta ritenuta solo qualitativamente meno vantaggiosa, come è accaduto nel caso di specie”. MB 


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Inserito in data 25/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 21 luglio 2016, n. 3304

La perdita di chance va intesa come “attuale possibilità di ottenere un’utilità futura”

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Consiglio di Stato ritiene che “subordinare il risarcimento del danno alla certezza del risultato finale significherebbe disconoscere tout court la tutela risarcitoria della chance; che, invece, come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza sia civile sia amministrativa, rappresenta un bene della vita (consistente nell’attuale possibilità di ottenere un’utilità futura) meritevole di autonoma tutela risarcitoria, la cui lesione dà luogo ad un danno emergente e non ad un lucro cessante (ciò che si risarcisce, in altri termini, è la perdita attuale di un bene già presente nel patrimonio del danneggiato, non il mancato conseguimento di un futuro guadagno)”.

Infatti, “il livello di certezza del risultato finale (…) può semmai incidere sulla quantificazione della chance in termini economici (maggiore è la probabilità maggiore è il valore economico della chanche e viceversa), ma non incidere sull’an del risarcimento”.

Purché non sia meramente irrisoria o insignificante, quindi, “la chance di conseguire una utilità futura merita tutela risarcitoria, perché costituisce un autonomo bene della vita (di natura per così dire strumentale) che ha un suo valore economico e non si identifica con il bene della vita finale”.

Non si può, quindi, “negare il risarcimento della chance invocando la mancanza di certezza di conseguimento del bene della vita finale, proprio perché i due beni hanno diversa natura e diverso valore economico. Il primo, a differenza del secondo, è risarcibile e non richiede la prova della certezza, anzi presuppone proprio l’incertezza della spettanza del bene finale”.

Peraltro, “deve ricordarsi come la giurisprudenza civile abbia ormai accolto la tesi secondo cui la causalità materiale nell’ambito dell’illecito aquiliano (la causalità tra la condotta non iure e l’evento lesivo) si accerta sulla base di un criterio che, a sua volta, non presuppone la certezza assoluta che la condotta illecita sia stata la condicio sine qua non dell’evento lesivo”.

Il criterio sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581) è, infatti, “quello che corrisponde alla formula del “più probabile che non”, in forza della quale il rapporto di causalità si considera provato ogni volta che l’ipotesi che sia stata proprio la condotta controversa a cagionare l’evento è quella più probabile, rispetto all’ipotesi alternativa”.

Alla luce di tale orientamento, “il rapporto di causalità tra la ritardata nomina a ricercatore e il mancato conseguimento della qualifica di professore, quindi, dovrebbe essere ritenuto (processualmente) certo, per il solo fatto che questa ipotesi risulti logicamente più probabile rispetto a quella alternativa”. EF

 



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Inserito in data 23/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 20 luglio 2016, n. 3293

Sull’onere della P.A. di dare riscontro alle osservazioni ex art. 10 bis L. 241/90

Con la pronuncia in esame, il Consesso osserva che “non è dato ravvisare a carico dell’Amministrazione un onere particolarmente stringente di dare minuzioso riscontro alle osservazioni rese ai sensi dell’art. 10 bis, atteggiandosi le medesime pur sempre a un contributo al procedimento da parte del privato di tipo squisitamente collaborativo”.  

A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada precisano che, ai sensi dell’art. 21 octies, della medesima l. n. 241 del 1990, la mancata o insufficiente motivazione dell’apporto collaborativo proposto con le osservazioni non può refluire sulla validità dell’atto di diniego che esprima “un potere privo di margini di discrezionalità in ragione della presupposta e vincolante regolamentazione comunale richiamata nell’adottata determinazione” ( Cons. Stato sez. IV 9/12/2015 n. 5577; Cons Stato Sez. V 25/1/2016 n. 233). EF 


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Inserito in data 22/07/2016
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 13 luglio 2016, n. 374

Sospensione di licenza commerciale ex art. 100 TULPS per ragioni di ordine pubblico

La vicenda sottoposta al Collegio triestino concerne la legittimità o meno del provvedimento di sospensione della licenza commerciale di un esercizio di generi alimentari, disposta ex art. 100 TULPS dal Questore, sul presupposto che il locale fosse divenuto punto di riferimento per pregiudicati e persone dedite al consumo di sostanze alcooliche e/o stupefacenti.

Il Collegio, nella pronuncia in epigrafe, ha ricordato che, ai sensi del citato art. 100 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, “il questore può sospendere la licenza di un esercizio (…) che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico (…) o per la sicurezza dei cittadini”.

Il predetto potere, ampiamente discrezionale, ha natura tipicamente preventiva e cautelare, essendo previsto a garanzia di interessi pubblici primari quali la sicurezza e l'ordine pubblico; da ciò deriva che la sospensione della licenza deve ritenersi legittimamente adottata in tutte le ipotesi in cui, a prescindere dall’eventuale responsabilità del titolare dell'esercizio, ricorra una situazione che possa qualificarsi quale fonte di pericolo concreto ed attuale per la collettività.

La finalità della misura – ha ricordato la I Sezione - è infatti quella "di impedire - attraverso la temporanea chiusura del locale - il protrarsi di una situazione di pericolosità sociale e, nel contempo, di prevenire il reiterarsi di siffatte situazioni, rendendo consapevoli quei soggetti (o chi si è in ogni caso reso protagonista di comportamenti criminosi e/o intollerabili)...in modo da indurre...il modificarsi della loro condotta..." .

Con riferimento poi al mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento, il Collegio ha osservato che secondo un costante e condivisibile indirizzo giurisprudenziale "non sussiste l'obbligo di preventiva comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990 nel caso in cui l'urgenza, che consenta tale omissione, è rinvenibile ex se nel pericolo di compromissione dell'ordine pubblico, rappresentato dalle circostanze prese a presupposto per l'emanazione della misura di sicurezza pubblica" . MB

 



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Inserito in data 21/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 luglio 2016, n. 3166

Non si possono annullare le operazioni elettorali per mere irregolarità

In base ad un condiviso orientamento, “la radicale invalidità delle operazioni elettorali può essere ravvisata solo quando la mancanza di elementi o di requisiti essenziali impedisca il raggiungimento dello scopo che connota il singolo atto, mentre non possono comportare l’integrale annullamento delle operazioni le mere irregolarità, ossia quei vizi da cui non derivi alcun pregiudizio per le garanzie o la compressione della libera espressione del voto” (in tal senso - ex plurimis -: Cons. Stato, III, 23 maggio 2016, n. 2119; id., V, 15 maggio 2015, n. 2920).

Del resto, osserva il Consesso che, essendo il procedimento elettorale preordinato alla formazione e all'accertamento della volontà degli elettori (anche in considerazione della rilevanza costituzionale della disciplina del diritto di voto - art. 48 Cost. -), l’effetto invalidante consegue solo a quelle “anormalità procedimentali che impediscano l'accertamento della regolarità delle operazioni elettorali con effettiva e radicale diminuzione delle garanzie di legge.

Le altre anormalità, invece, “quali le omissioni di adempimenti formali ovvero le irregolarità comunque inidonee ad alterare in odo irrimediabile il canone della genuinità del voto nel suo complesso costituiscono delle mere irregolarità tutte le volte che non incidano negativamente sulla finalità che il procedimento persegue, id est l'autenticità, la genuinità e la correttezza degli adempimenti” (arg. ex Cons. Stato, V, 19 giugno 2012, n. 3557). EF 


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Inserito in data 20/07/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 12 luglio 2016, n. 1159

Mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate

Nella pronuncia in epigrafe, il TAR fiorentino ha affrontato la questione dell’annullamento delle operazioni elettorali nel caso di utilizzo del sistema delle c.d. “schede ballerine”.
Il Collegio ha affermato che costante ed unanime giurisprudenza amministrativa appare assestata nell’attribuire all’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate valore invalidante del voto nelle sole ipotesi in cui “non risulti possibile ricostruire, comunque, il dato mancante e quindi l'esatto svolgimento delle operazioni di voto”.
La normativa riguardante il procedimento elettorale – è stato ulteriormente precisato nella pronuncia de qua - disciplina in modo rigoroso i tempi e le modalità di svolgimento delle operazioni elettorali e di verbalizzazione delle stesse, ponendo a carico del presidente della sezione precisi e puntuali obblighi.  Si tratta di operazioni tassative, che devono essere eseguite nell’ordine indicato dalla legge, dovendosene dare pedissequa ed adeguata contezza nel processo verbale sezionale, essendo mirate a garantire la legittimità, la trasparenza e la regolarità della votazione e dello scrutinio e, quindi, la genuinità del risultato finale.
In particolare, “la mera identità numerica tra schede votate e numero dei votanti non è, in sé considerata, prova della correttezza del procedimento elettorale, laddove sia rilevata la mancanza di schede autenticate e non votate, per la cui integrità la legge prescrive le particolari operazioni sopra richiamate, potendo tale anomalia essere di per sé causa di nullità per il pericolo di alterazione dei risultati elettorali”.
Così argomentando, il Collegio ha accolto il ricorso, disponendo l’annullamento degli atti impugnati e la rinnovazione delle operazioni di voto. MB


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Inserito in data 19/07/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 14 luglio 2016, C - 458/14 e C - 67/15

No alla proroga automatica di concessioni demaniali con interesse transfrontaliero certo

Con la pronuncia in esame, la Corte di Giustizia U.E. afferma il seguente principio di diritto: “L’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo”.

Infatti, in presenza di interesse transfrontaliero certo, l’assegnazione della concessione “in totale assenza di trasparenza ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate alla suddetta concessione” (v., per analogia, sentenze del 17 luglio 2008, ASM Brescia, C‑347/06, EU:C:2008:416, punti 59 e 60, nonché del 14 novembre 2013, Belgacom, C‑221/12, EU:C:2013:736, punto 37).

A tal uopo, deve ritenersi che l’esistenza di un interesse transfrontaliero certo vada valutata “sulla base di tutti i criteri rilevanti, quali l’importanza economica dell’appalto, il luogo della sua esecuzione o le sue caratteristiche tecniche, tenendo conto delle caratteristiche proprie dell’appalto in questione” (v., in tal senso, sentenze del 14 novembre 2013, Belgacom, C‑221/12, EU:C:2013:736, punto 29 e giurisprudenza ivi citata, nonché del 17 dicembre 2015, UNIS e Beaudout Père et Fils, C‑25/14 e C‑26/14, EU:C:2015:821, punto 30). EF 


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Inserito in data 18/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 11 luglio 2016, n. 3070

Esclusione dalla gara dovuta a  grave inadempimento dell’impresa concorrente

La IV Sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, si è espressa in ordine alla legittimità del provvedimento della Commissione di esclusione di un’impresa da una gara di appalto per “grave negligenza”, disposta in quanto la stessa P.A. aveva, in precedenza, disposto la risoluzione di un contratto di appalto per grave inadempimento della concorrente.
In particolare, la Stazione appaltante aveva ritenuto operante nei confronti dell’impresa concorrente la previsione di cui all’art. 38 co. 1 lett. f) del d.lgs. 163/06, “reputando che la suddetta risoluzione, dovuta a grave inadempimento dell’appaltatore, rileva sotto l’aspetto del venir meno dell’affidabilità dell’impresa, ed è tale da ledere in modo sostanziale il rapporto fiduciario con questa Stazione appaltante”.
Nel confermare la sentenza resa in primo grado dal Collegio calabrese, i giudici di Palazzo Spada hanno ribadito che il citato articolo - pienamente consonante con la normativa comunitaria - esclude dalla partecipazione a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, servizi e forniture, e dalla stipulazione dei relativi contratti “…i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Nel fattispecie de qua, l’esclusione dalla gara era stata disposta dalla Commissione sul rilievo che nei confronti dell’appellante fosse stata disposta, in precedenza, dalla stessa Stazione appaltante la risoluzione ex art. 106 co. 6 d.lgs. n. 163/2006 di un contratto d’appalto e che quindi tale risoluzione “dovuta a grave inadempimento dell’appaltatore, rileva sotto l’aspetto del venir meno dell’affidabilità dell’impresa, ed è tale da ledere in modo sostanziale il rapporto fiduciario con questa Stazione appaltante”.
Il Collegio, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ha rilevato come sotto un profilo generale, ai fini dell’applicazione della causa di esclusione di cui all’art. 38 co. 1 lett. f), non occorre che sia accertata in modo irrefragabile la responsabilità contrattuale, essendo invece sufficiente “la valutazione fatta dalla stessa Amministrazione con il richiamo per relationem all'atto con cui, in altro rapporto contrattuale di appalto, aveva provveduto alla risoluzione per inadempimenti contrattuali”.
In altro senso – ha ulteriormente affermato la IV Sezione – “deve distinguersi tra il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso rapporto, ove azionato, della sussistenza dell’inadempimento colpevole, ossia il c.d. giudizio interno, e quello concernente la legittimità del potere amministrativo di esclusione, riservato al G.A., che è un giudizio c.d. esterno, censurabile solo nei limiti del travisamento del fatto e dell’illogicità e contraddittorietà della motivazione”.
Nel caso di specie – ha conclusivamente affermato il Collegio - l’appellante si era limitata a dedurre censure finalizzate essenzialmente a contestare la legittimità della risoluzione, tendenti, quindi, “a spostare nell’alveo del giudizio amministrativo ambiti di cognizione propri e tipici del giudizio civile già instaurato e pendente tra le parti, laddove devono condividersi i rilievi svolti dal giudice amministrativo calabrese in ordine alla sufficienza, logicità e congruità della motivazione addotta a sostegno dell’esclusione”. MB


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Inserito in data 16/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 luglio 2016, n. 3055

Sulla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche

I giudici di Palazzo Spada, nella sentenza in esame, hanno individuato i presupposti in presenza dei quali la giurisdizione spetta al Tribunale superiore delle acque pubbliche ed, in particolare, si sono interrogati, nel caso di specie, sulla sussistenza o meno della suddetta giurisdizione in presenza di un’ordinanza contingibile e urgente riguardante la diga di sbarramento di un torrente.

Precisa il Consiglio, richiamando al riguardo la costante giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che la giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche prevista dall’art. 143 r.d. n. 1775 del 1933 sussiste ogniqualvolta l’atto impugnato, ancorché proveniente da organi dell’amministrazione non preposti alla cura degli interessi del settore delle acque pubbliche, abbia tuttavia una immediata incidenza sull’uso di queste ultime, interferendo così con le funzioni amministrative relative a tale uso.

In particolare, applicando il criterio “dell’incidenza diretta”, rientrano in questa ipotesi i provvedimenti che concorrono in concreto a disciplinare la gestione e l’esercizio delle opere idrauliche o a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all’esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificarne la localizzazione o a influire nella loro realizzazione, sebbene gli stessi provvedimenti ineriscano a interessi più generali e diversi ed eventualmente connessi rispetto agli interessi specifici relativi alla demanialità delle acque o ai rapporti concessori di beni del demanio idrico.

Per contro – continua il Collegio – sono escluse dalla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche le controversie aventi ad oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque, per la cui adozione non sono richieste le competenze giuridiche e tecniche, ritenute dal legislatore necessarie - attraverso la configurazione di uno speciale organo giurisdizionale, nella particolare composizione richiesta - per la soluzione dei problemi posti dalla gestione delle acque pubbliche.

Alla luce delle superiori considerazioni, il Consiglio di Stato ritiene conclusivamente che l’ordinanza contingibile ed urgente emessa, ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, dal Sindaco di un Comune ha una diretta attinenza alla diga di sbarramento del torrente, vale a dire di un’opera idraulica, tanto che essa costituisce l’oggetto del provvedimento, ed in particolare dei lavori di messa in sicurezza disposti dal Sindaco.

Ne deriva che la giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche sulla presente controversia risulta incontestabile, in base all’art. 143 r.d. n. 1775 del 1933, ed in particolare in virtù del criterio dell’incidenza diretta del provvedimento sul regime delle acque pubbliche, ricavato dalla disposizione ora richiamata dall’elaborazione giurisprudenziale sopra ripercorsa.

Peraltro – precisa il Consiglio – non è decisivo in contrario il fine pubblicistico attinente alla causa del potere autoritativo esercitato, dal momento che l’elemento determinante ai fini della giurisdizione del Tribunale superiore è l’oggetto del provvedimento impugnato. SS


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Inserito in data 15/07/2016
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II - 12 luglio 2016, n. 1106

Notifica del ricorso a mezzo PEC

Con la sentenza in epigrafe, il TAR Puglia si è pronunciato sull’ammissibilità o meno della notifica di un ricorso a mezzo PEC quando manchi la preventiva autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, c.p.a. e ha aderito all’orientamento precedentemente affermato dal Cons. Stato nella sentenza del 14 gennaio 2016, n. 91.

In particolare, il Collegio ha statuito che, per quel che concerne la validità della notifica del ricorso introduttivo, la mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso solo a mezzo posta elettronica certificata (PEC), atteso che nel processo amministrativo trova applicazione immediata la legge 53/1994 (ed in particolare gli articoli 1 e 3 bis), nel testo modificato dall’art. 25 comma 3, lett. a) della legge 183/2011, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale… a mezzo della posta elettronica certificata”. SS

 



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Inserito in data 14/07/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 13 luglio 2016, n. 173

Sì al contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più alti

La Corte Costituzionale, nella sentenza in esame, si è pronunciata sui dubbi di costituzionalità prospettati dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Veneto, per la Regione Umbria, per la Regione Campania e per la Regione Calabria aventi ad oggetto il contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più alti introdotto dall’art. 1, comma 486 della Legge di Stabilità per il 2014 in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 Cost.

La Corte sostiene che il contributo in esame non riveste la natura di imposta, attribuitagli dai rimettenti quale presupposto per il sollecitato controllo di compatibilità con il precetto (altrimenti non pertinente) di cui all’art. 53, in relazione all’art. 3 Cost.: infatti, “il prelievo istituito dal comma 486 della norma impugnata non è configurabile come tributo non essendo acquisito allo Stato, né destinato alla fiscalità generale, ed essendo, invece, prelevato, in via diretta, dall’INPS e dagli altri enti previdenziali coinvolti, i quali – anziché versarlo all’Erario in qualità di sostituti di imposta – lo trattengono all’interno delle proprie gestioni, con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali, anche per quanto attiene ai trattamenti dei soggetti cosiddetti esodati”.

Pertanto – continuano i giudici – in linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà.

In tale prospettiva, è indispensabile che la legge assicuri il rispetto di alcune condizioni, atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile.

La Corte precisa che il contributo deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà “forte”, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori – endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) – che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato.

Inoltre, l’effettività delle condizioni di crisi del sistema previdenziale consente di salvaguardare anche il principio dell’affidamento, nella misura in cui il prelievo non risulti sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli.

Anche in un contesto siffatto – sottolinea, però, la Corte – un contributo sulle pensioni costituisce una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza: il prelievo, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 Cost. non può, altresì, che incidere sulle “pensioni più elevate”; parametro, questo, da misurare in rapporto al “nucleo essenziale” di protezione previdenziale assicurata dalla Costituzione, ossia la “pensione minima”.

In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum.

Ritiene, conclusivamente, la Corte Costituzionale che “tali condizioni appaiono, sia pur al limite, rispettate nel caso dell’intervento legislativo in esame” e per tale ragione dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate. SS



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Inserito in data 13/07/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 5 luglio 2016, n. 3326

Motivazione del diniego di un permesso di costruire

Con il ricorso in epigrafe è stato impugnato il diniego del permesso di costruire richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di un impianto di distribuzione carburanti, fondato sull’unico motivo che l'intervento risultava in contrasto con il piano di lottizzazione approvato.

Il Collegio partenopeo ha ritenuto fondata ed assorbente rispetto agli ulteriori motivi la censura con cui parte ricorrente aveva denunciato il difetto di motivazione del contestato diniego, in termini di mancata indicazione degli specifici parametri dispositivi del piano di lottizzazione ritenuti in concreto violati.

Ed invero – hanno osservato i Giudici napoletani - il principio della necessaria motivazione degli atti amministrativi, scolpito nell’art. 3 della legge n. 241/1990, non è altro che il precipitato dei più generali principi di buona amministrazione, correttezza e trasparenza, cui la p.a. deve uniformare la sua azione e rispetto ai quali sorge per il privato la legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni giustificative del provvedimento incidente sui suoi interessi, anche al fine di poter esercitare efficacemente le prerogative di difesa innanzi all’autorità giurisdizionale.

In tale ottica, risulta “carente di motivazione il diniego di permesso di costruire fondato su un generico contrasto dell’opera progettata con leggi, regolamenti o strumenti urbanistici, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni normative e/o sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici che si assumano ostative al rilascio del titolo, in modo da consentire all’interessato, da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione dell’opera e, dall’altro, di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato; di conseguenza, la determinazione reiettiva del permesso di costruire, quando si limita, come nella specie, ad un’apodittica affermazione di principio sulla contrarietà dell’attività edilizia ad uno strumento urbanistico quale il piano di lottizzazione, risulta viziata da difetto di motivazione, atteso che l’obbligo di motivazione legislativamente imposto va declinato in adeguate argomentazioni che chiariscano la non compatibilità dell’opera con le singole prescrizioni di piano preposte a tutela dell’ordinato sviluppo del territorio”.

Né, d’altra parte, ha ulteriormente precisato il Collegio, le deficienze motivazionali delle gravate determinazioni comunali possono – come avvenuto nella fattispecie in esame - essere colmate dalla relazione istruttoria depositata dall’amministrazione resistente. E ciò in quanto “è inammissibile l’integrazione postuma della motivazione di un atto amministrativo, realizzata mediante gli scritti difensivi predisposti dall’amministrazione resistente (…). La motivazione del provvedimento non può essere integrata nel corso del giudizio con la specificazione di elementi di fatto, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento amministrativo e dell’esigenza di delimitazione del controllo giudiziario”.

Sulla scorta delle esposte motivazioni, il TAR Campano ha ritenuto fondata l’eccezione formulata dal ricorrente circa l’illegittimità per carenza motivazionale delle gravate note dirigenziali del Comune, e ne ha, per l’effetto, disposto l’annullamento. MB

 



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Inserito in data 12/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 4 luglio 2016, n. 2968

Demolizione di opere e ripristino dei luoghi

I Giudici di Palazzo Spada, nella pronuncia in epigrafe, hanno affermato la legittimità dell’ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi nell’ipotesi in cui il proprietario di un terreno sottoposto a vincolo archeologico abbia, in assenza di preventiva autorizzazione, eseguito attività di movimento sullo stesso.

Nella fattispecie, l’appellante aveva impugnato la sentenza resa dal TAR - Abruzzo, concernente la demolizione delle opere realizzate in assenza del nulla osta, eccependo l’illegittimità del provvedimento con il quale l’Ente parco nazionale aveva ingiunto la loro demolizione e la conseguente riduzione in pristino dei luoghi, poiché asseritamente adottato in pendenza delle domande di condono edilizio ancora non definite dall’autorità comunale.

Il Collegio, preliminarmente, ha affermato la legittimità dell’ordinanza adottata dall’Ente parco nazionale d’Abruzzo, Molise e Lazio, poiché disposta in attuazione dell’art. 29 della legge n. 394 del 1991, essendo stata accertata, nella fattispecie, la presenza di opere realizzate senza il previo rilascio del nulla osta dell’Ente, previsto dall’art. 13 della citata legge del 1991.

Nel merito, la VI Sezione ha osservato come tutte le censure dedotte dal ricorrente siano basate sull’affermata prevalenza della disciplina urbanistica rispetto a quella ambientale, la cui tutela è affidata all’ente parco.

In particolare, l’appellante avrebbe richiamato un precedente della medesima Sezione secondo cui l’articolo 13 della legge n. 394 del 6 dicembre 1991 troverebbe applicazione solo con riguardo agli interventi edilizi da realizzare e non, invece, ai procedimenti di sanatoria di opere abusive già realizzate. Tuttavia – ha osservato il Collegio – la richiamata pronuncia “si limita ad affermare che, nei procedimenti di sanatoria, resta esclusa la formazione del parere positivo per silentium, ma non esclude in alcun modo il potere repressivo anche in fattispecie per le quali penda una qualsiasi procedura di sanatoria”. MB 


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Inserito in data 11/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 luglio 2016, n. 3012

Sui principi fondanti dell’interdittiva antimafia

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato richiama, sinteticamente, taluni principi espressi recentemente dalla Sezione in tema di interdittiva antimafia (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743):

- l’informativa antimafia, ai sensi degli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. n. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata»;

- quanto alla ratio dell’istituto della interdittiva antimafia, si tratta di una misura volta – ad un tempo - alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della pubblica Amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore – pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione – meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge;

- ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri;

- è estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né – tanto meno – occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante;

- il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in base al criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso;

- pertanto, gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione;

- quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto;

- nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza;

- una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione;

- hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).

A questi principi enucleati di recente dalla Sezione, occorre aggiungere quelli che sono stati costantemente affermati dalla giurisprudenza:

- non è richiesta la prova dell’attualità delle infiltrazioni mafiose, dovendosi solo dimostrare la sussistenza di elementi dai quali è deducibile – secondo il principio del «più probabile che non» - il tentativo di ingerenza, o una concreta verosimiglianza dell'ipotesi di condizionamento sulla società da parte di soggetti uniti da legami con cosche mafiose, e dell'attualità e concretezza del rischio (Cons. Stato, Sez. III, 5 settembre 2012, n. 4708; Cons. Stato n. 3057/10; 1559/10; 3491/09);

- la valutazione del pericolo di infiltrazioni mafiose, di competenza del Prefetto, è connotata, per la specifica natura del giudizio formulato, dall'utilizzo di peculiari cognizioni di tecnica investigativa e poliziesca, che esclude la possibilità per il giudice amministrativo di sostituirvi la propria, ma non impedisce ad esso di rilevare se i fatti riferiti dal Prefetto configurino o meno la fattispecie prevista dalla legge e di formulare un giudizio di logicità e congruità con riguardo sia alle informazioni acquisite, sia alle valutazioni che il Prefetto ne abbia tratto (Cons. Stato, n. 5130 del 2011; Cons. Stato, n. 2783 del 2004; Cons. Stato, n. 4135 del 2006);

- l'ampia discrezionalità di apprezzamento del Prefetto in tema di tentativo di infiltrazione mafiosa comporta che la sua valutazione sia sindacabile in sede giurisdizionale in caso di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti, mentre al sindacato del giudice amministrativo sulla legittimità dell'informativa antimafia rimane estraneo l'accertamento dei fatti, anche di rilievo penale, posti a base del provvedimento (in termini, Cons. Stato, n. 4724 del 2001).

In conclusione, deve ritenersi che tale valutazione costituisca “espressione di ampia discrezionalità che, per giurisprudenza costante, può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati” (Cons. Stato, n. 7260 del 2010). EF

 



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Inserito in data 09/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 luglio 2016, n. 3011

Sul potere discrezionale di vietare  la detenzione di armi e munizioni

In tema di armi e munizioni, il testo unico n. 773 del 1931 prevede che “l’Autorità amministrativa è titolare di poteri strettamente vincolati (ai sensi dell’art. 11, primo comma e terzo comma, prima parte, e dell’art. 43, primo comma, che impongono il divieto di rilascio di autorizzazioni di polizia ovvero il loro ritiro)” e di poteri discrezionali (ai sensi dell’art. 11, secondo comma e terzo comma, seconda parte, e dell’art. 39 e 43, secondo comma).

In relazione all’esercizio di quest’ultima tipologia di  poteri, “l’art. 39 attribuisce alla Prefettura il potere di vietare la detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti a chi chieda il rilascio di una autorizzazione di polizia o ne sia titolare, quando sia riscontrabile una capacità «di abusarne», mentre l’art. 43 consente alla competente autorità – in sede di rilascio o di ritiro dei titoli abilitativi - di valutare non solo tale capacità di abuso, ma anche – in alternativa - l’assenza di una buona condotta, per la commissione di fatti, pure se estranei alla gestione delle armi, munizioni e materie esplodenti, ma che comunque non rendano meritevoli di ottenere o di mantenere la licenza di polizia (non occorrendo al riguardo un giudizio di pericolosità sociale dell’interessato: Cons. Stato, Sez. III, 1° agosto 2014, n. 4121; Sez. III, 12 giugno 2014, n. 2987)”.

Pertanto, questa Sezione ritiene che “gli atti impugnati in primo grado sono stati emessi nell’esercizio di poteri discrezionali, poiché è stato ritenuto che l’appellante vada ritenuto capace di abusare della detenzione di armi e munizioni”. EF 


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Inserito in data 08/07/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 luglio 2016, n. 2972

Giurisdizione dell’A.G.O. in materia di incarichi al personale docente

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ha individuato il giudice competente a decidere una controversia riguardante una procedura per l’attribuzione di incarichi a tempo indeterminato al personale docente nelle istituzioni dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica.

Hanno esordito i giudici di Palazzo Spada affermando che la individuazione del giudice cui spetta conoscere della impugnazione delle graduatorie (e della esclusione dalle stesse) formate in attuazione dell’art. 19 della l. n. 128/2013 per il personale docente sopra indicato “si connota (e questo è elemento rilevante) per la circostanza che l’impugnativa concerne le sole graduatorie, e non anche il decreto ministeriale che ne è a monte, il quale, con determinazione di stampo organizzatorio, ne ha regolato, in via generale ed astratta, la formazione”.

In tal modo – continua il Consiglio – “il docente non ha contestato, sia pure in via derivata attraverso il gravame avverso la graduatoria, la regola organizzatoria, ma ha mosso le proprie censure direttamente contro la graduatoria medesima e le attività di sua concreta formazione”.

Pertanto, “rientra nella giurisdizione dell’A.G.O. una controversia relativa al provvedimento con il quale un insegnante è stato escluso dalla procedura di formazione della graduatoria nazionale per l’attribuzione di incarichi a tempo determinato al personale docente ai sensi del d.m. n. 526/2014, per asserita carenza del requisito dei tre anni accademici di servizio all’insegnamento, atteso che in tal caso si è in presenza di atti di gestione del rapporto di lavoro nei cui confronti sono configurabili situazioni giuridiche di diritto soggettivo e non già di interesse legittimo”.

Infatti – conclude il Consiglio di Stato – “deve ritenersi che il superamento del concorso selettivo ai fini dell’inclusione nelle graduatorie ‘consumi’ il momento autoritativo dell’azione pubblica, e che sussista una omogeneità di ratio decidendi rispetto alla vicenda delle graduatorie nazionali permanenti, poi divenute ad esaurimento, utili per attribuire incarichi di insegnamento con contratti a tempo indeterminato e determinato, a mano a mano che le cattedre si rendevano disponibili, con riferimento alla quale questo Consiglio di Stato ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo sul rilievo della insussistenza di una procedura concorsuale in senso stretto, vertendosi in tema di accertamento di diritti di docenti già iscritti e trattandosi di atti di gestione di graduatorie utili per vedersi attribuiti gli incarichi di docenza”. SS

 



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Inserito in data 07/07/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 1 luglio 2016, n. 157

Poteri dei Consigli regionali in regime di prorogatio

Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale – nel pronunciarsi sulla q.l.c. della legge della Regione Calabria n. 15/2014 in riferimento agli artt. 97, 98 e 123 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 18 dello Statuto della Regione Calabria, nonché in riferimento al principio dell’affidamento nella certezza dei rapporti giuridici – ha individuato i limiti dei poteri dei Consigli regionali che si trovano in regime di prorogatio.

In particolare, ha affermato, che la disposizione statutaria che non prevede specifiche limitazioni ai poteri del Consiglio regionale “non può che essere interpretata come facoltizzante il solo esercizio delle attribuzioni relative ad atti necessari ed urgenti, dovuti o costituzionalmente indifferibili, e non già certo come espressiva di una generica proroga di tutti i poteri degli organi regionali, poiché l’esistenza di tali limiti è immanente all’istituto della stessa prorogatio”.

Peraltro, siffatte limitazioni all’attività in prorogatio discendono dalla ratio stessa dell’istituto, che è quella di “coniugare il principio di rappresentatività politica del Consiglio regionale con quello della continuità funzionale dell’organo, continuità che esclude che il depotenziamento possa spingersi ragionevolmente fino a comportare una indiscriminata e totale paralisi dell’organo stesso”.

Alla luce delle superiori considerazioni, la Corte Costituzionale conclude per la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Calabria con la quale è stata revocata la nomina del collegio dei revisori dei conti della Giunta regionale e del Consiglio regionale della Calabria, “a nulla rilevando che tale legge è stata approvata dal Consiglio regionale in regime di prorogatio, poiché, a seguito delle dimissioni del Presidente della Regione, erano state indette le elezioni per il rinnovo dello stesso, ai sensi dell’art. 60 del Regolamento interno del Consiglio regionale.

“Costituisce, infatti, una valida ragione di urgenza, non solo la necessità di adottare una nuova normativa a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, ma anche quella di evitare il rischio di una pronuncia, ove si ritenga che le argomentazioni portate dal giudice a sostegno della non manifesta infondatezza siano meritevoli di considerazione”. SS

 



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Inserito in data 06/07/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 giugno 2016, n. 2830

Competenze degli infermieri in regime libero-professionale

La questione affrontata nella pronuncia in commento concerne la legittimità o meno della decisione di riservare l’attività di prelievo a domicilio unicamente a soggetti autorizzati ad erogare servizi di medicina e laboratorio ASL, escludendo che la prestazione possa essere resa da infermieri che operano, invece, in regime libero-professionale, ancorché regolarmente iscritti all’Albo professionale.
Ad avviso del Collegio, appare fondato il motivo con cui gli appellanti hanno denunciato la restrizione ingiustificata all’esercizio della libera professione infermieristica, nella fattispecie, derivante dalle scelte operate dall’Azienda ospedaliera.
Ed infatti – ha affermato la III Sezione – ai sensi dell’art. 1 del Regolamento adottato con D.M. 14 settembre 1994, n. 739, adottato ai sensi dell’art. 6, co. 3, del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, l’attività dell’infermiere professionale ricomprende ogni prestazione che possa ricondursi alla generale categoria “dell’assistenza generale infermieristica”. A tal fine, l’infermiere professionale agisce sia individualmente, sia in collaborazione con gli altri operatori sanitari e sociali (art. 1, co. 3, lett. e). Quindi, l’infermiere professionale, in possesso del prescritto titolo di formazione e dell’iscrizione all’albo è, secondo il Regolamento, “responsabile dell’assistenza generale infermieristica” (art. 1, co. 1) e “svolge la sua attività professionale in strutture sanitarie pubbliche o private, nel territorio e nell’assistenza domiciliare, in regime di dipendenza o libero-professionale” (art. 1, co. 3, lett. g).
Atteso il tenore di tale disposizione, applicabile su tutto il territorio nazionale, l’infermiere libero professionista può, pertanto, prestare la propria attività assistenziale, anche a domicilio, senza necessità di essere dipendente o collaboratore di un Laboratorio.
Dunque, la scelta dell’Azienda ospedaliera di concludere accordi per l’effettuazione di prelievi a domicilio esclusivamente con i soggetti autorizzati ad erogare servizi di Medicina e Laboratorio – ha conclusivamente affermato il Collegio – “determina una immotivata discriminazione ai danni degli infermieri libero professionisti, causando una irragionevole restrizione della concorrenza nel settore e limitando ingiustificatamente l’accesso al mercato di operatori pienamente legittimati dalla normativa di settore, senza che ricorra alcuna causa eccezionale che giustifichi tale restrizione”. MB


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Inserito in data 05/07/2016
CONSIGLIO DI STATO – SEZ. III - 30 giugno 2016, n. 2937

Incorporazione e fusione: accertamento della regolarità fiscale

Con la sentenza in epigrafe, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla legittimità dell’esclusione da una gara di appalto di un Consorzio, stante la sussistenza, a seguito di verifiche sul possesso dei requisiti dichiarati, di violazioni gravi e definitivamente accertate rispetto agli obblighi fiscali, sebbene riferite a società dallo stesso Consorzio incorporate.
I Giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione resa in primo grado dal TAR Puglia – Bari, richiamandone, per intero, il tenore e le argomentazioni.
In particolare, hanno sottolineato che, secondo la disciplina civilistica vigente, successiva alla modifica del diritto societario del 2003, “ nel momento dell’incorporazione  anche le obbligazioni di pagamento delle imposte tributarie pregresse si trasferiscono alla società incorporante, in ragione  del realizzarsi di una vicenda evolutivo modificativa dello stesso soggetto giuridico che conserva la sua identità sia pure in un nuovo assetto organizzativo, per cui in applicazione del principio ubi commoda ibi et incommoda, resta inadempiente la società incorporante cui, appunto, la predetta obbligazione tributaria inadempiuta si è trasferita”.
Alla luce dell’esposto principio – ha ulteriormente precisato il Collegio – “la ricostruzione secondo cui le cause di esclusione della società incorporata, relative alle pregresse inadempienze verso il Fisco, si estendono automaticamente alla società incorporante, è coerente con l’art. 38, comma 1, lett. g), cit., la cui ratio è garantire la solvibilità e solidità finanziaria dei contraenti delle pubbliche amministrazioni”.
Peraltro, i suddetti principi sono stati altresì affermati dall’Adunanza Plenaria n. 21 /2012 secondo cui “la fusione per incorporazione di una società in un’altra, alla stregua di quanto dispone il novellato art. 2504-bis, comma 1, cod. civ., non è causa d’interruzione del processo del quale quella società sia parte, trattandosi di un evento da cui consegue non già l’estinzione della società incorporata, bensì l’integrazione reciproca delle società partecipanti all’operazione, ossia di una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo”.
Quindi, nel caso di operazione di incorporazione, le imprese incorporate dalla consorziata destinata ad eseguire l’appalto, costituiscono parte integrante di quest’ultima e non sono soggetti terzi rispetto ad essa distinti, sicché la stazione appaltante è tenuta a verificare il possesso di tutti i requisiti ex art. 38 del D.Lgs. 163/06 – e non solo quelli di cui alla lett. c) - per la società incorporante e per le incorporate, in quanto coesistenti all’interno dello stesso soggetto che partecipa alla procedura di gara. MB


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Inserito in data 04/07/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 30 giugno 2016, n. 2947

Ambito e limiti del sindacato del G.A. sugli atti dell’AGCM

La sentenza in esame ribadisce quali siano l’ambito e i limiti del sindacato del giudice amministrativo sugli atti dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, riprendendo quanto affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con sentenza n. 1013/2014.

Tale sindacato comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini.

Dunque, il giudice amministrativo esercita un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, salvo per quanto attiene al profilo sanzionatorio: deve valutare i fatti, onde acclarare se la ricostruzione operata risulti immune da travisamenti e vizi logici, e accertare che le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. CDC

 

 



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Inserito in data 02/07/2016
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II - 27 giugno 2016, n. 1040

Annullamento in autotutela per incompatibilità dei commissari di gara

I giudici del Tar Puglia, nella sentenza in epigrafe, sono stati ben chiari nell’affermare che è legittimo il provvedimento con il quale la Stazione appaltante ha annullato in autotutela l’aggiudicazione di una gara di appalto, unitamente a tutti gli atti della gara stessa, quando essa sia stata adottata in ragione del fatto che due dei componenti il Comitato esecutivo dell’Ente procedente hanno approvato gli atti di gara e hanno anche assunto il ruolo di componenti della commissione giudicatrice.

Infatti, per un verso, in materia di procedure di gara d’appalto, sussiste l’incompatibilità prevista dall’art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 163 del 2006, quando un commissario di gara ha partecipato alla predisposizione di atti della lex specialis della procedura, per l’altro, il comma 4 dell’art. 84 D.Lgs. n. 163 del 2006 (secondo cui “i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”) “è prescrizione che mira ad assicurare due concorrenti ma distinti valori: quello dell’imparzialità, per evitare indebiti favoritismi da parte di chi conosce approfonditamente le regole del gioco avendo contribuito alla loro gestazione, nascita e formalizzazione; quello dell’oggettività, ad evitare che lo stesso autore di quelle regole dia ad esse significati impliciti, presupposti, indiretti o, comunque, effetti semantici che risentano di convinzioni o concezioni preconcette che hanno indirizzato la formulazione delle regole stesse”.

In questa prospettiva – continua il Tar – è evidente che l’aver approvato gli atti di gara non costituisce un’operazione di natura meramente formale ma implica, necessariamente, un’analisi degli stessi, una positiva valutazione e – attraverso la formalizzazione – una piena condivisione.

Ne deriva che l’approvazione degli atti di gara integra proprio una “funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta il cui svolgimento è precluso ai componenti la Commissione giudicatrice che, pertanto, nel caso concreto, risulta viziata nella sua composizione proprio perché due componenti – pur senza aver materialmente redatto gli atti di gara – hanno concorso alla loro formalizzazione”.

Peraltro, la conseguenza diretta del provvedimento di annullamento impugnato è l’annullamento dell’intera procedura di gara, infatti, ad avviso dei giudici, è infondata anche la censura secondo la quale la delibera impugnata sarebbe illegittima perché non avrebbe dovuto prevedere l’annullamento dell’intera procedura di gara, bensì solo la rinnovazione degli atti della procedura a partire dal provvedimento di nomina della Commissione, con conseguente riesame delle offerte già prodotte da parte di una nuova Commissione. SS

 



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Inserito in data 01/07/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, sentenza 30 giugno 2016, n. 2940

Scelta del dirigente sanitario di struttura complessa: giurisdizione del G.O.

La sentenza in esame affronta il tema dell’individuazione del giudice chiamato a decidere le controversie riguardanti l’affidamento di incarichi di dirigente sanitario di struttura complessa, ai sensi dell’art. 15 d. lgs. 502/1992, come modificato dal d.l. 158/2012.

La novella legislativa ha espressamente qualificato come concorso il procedimento di scelta dei responsabili di struttura complessa e a, differenza di quanto previsto in passato, la commissione non si limita ad accertarne l’idoneità, ma attribuisce voti e formula una graduatoria di merito. A quel punto, il direttore generale può attribuire l’incarico a uno dei candidati collocati ai primi tre posti della graduatoria, senza peraltro essere vincolato dalla rispettiva collocazione.

Ciò ha fatto sorgere il dubbio se la giurisdizione spetti, con riferimento a tali controversie, al giudice amministrativo (come affermato da Cons. Stato 4658/2014 e 2790/2015) o al giudice ordinario.
La sentenza in esame accoglie quest’ultimo orientamento, in quanto, sebbene la legge qualifichi come concorso il procedimento di cui si discute, la prova comparativa costituisce solo un elemento della scelta. Quest’ultima, infatti, spetta al direttore generale, il quale “è vincolato dall’operato della commissione solo nella predisposizione della terna dei candidati più meritevoli, ma è legittimato a operare proprie valutazioni, svincolate da quelle della commissione, sull’individuazione del candidato da nominare”.

In tal senso, peraltro, si è pronunciata anche la Cassazione con sentenza n. 7107/2014, secondo la quale “il conferimento dell'incarico di secondo livello del ruolo sanitario, ai sensi del d.lg. n. 502 del 1992, art. 15 comma 3, non ha carattere concorsuale, essendo demandato ad apposita commissione solo il compito di predisporre un elenco di candidati idonei da sottoporre al direttore generale, il cui atto di conferimento ha natura negoziale di diritto privato che si fonda su una scelta di carattere essenzialmente fiduciario, affidata alla sua responsabilità manageriale”. CDC 



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Inserito in data 30/06/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS, 24 giugno 2016, n. 7353

Iscrizione e contribuzione alla Cassa Forense

Con la sentenza in esame, i giudici del Tar Lazio si sono occupati di un’importante questione in tema di iscrizione obbligatoria alla cassa di previdenza di categoria e alla contribuzione di liberi professionisti avvocati.

I ricorrenti, in sostanza, impugnando il Regolamento attuativo ai sensi dell’art. 21, comma 8 e 9 della l. 247/2012, si dolevano del fatto che esso prevedeva la loro iscrizione ope legis alla Cassa di categoria e, conseguentemente, li costringeva a corrispondere, per l’anno 2014, il cd. “importo minimo obbligatorio” di cui agli artt. 7, 8 e 9 del predetto regolamento, pur avendo percepito nel 2013 un reddito molto basso ovvero pari a zero, pena la cancellazione dall’Albo degli Avvocati nei tempi brevi di cui al successivo art.12.

Peraltro, i ricorrenti prospettavano molteplici motivi di censura nonché sollevavano questione di legittimità costituzionale del citato art. 21, in primo luogo, per violazione del principio di legalità di cui agli artt. 23, 97 e 113 Cost. nonché del canone di ragionevolezza della legge di cui all’art. 3 Cost., in secondo luogo, per violazione dei principi comunitari di concorrenza di cui agli artt. 117 Cost. e 106 TFUE. e 15, 16 e 21 CEDU nonché per violazione degli artt. 2, 3, 4, 33, comma 5, 41 e 53 Cost.

Essi, infine, chiedevano il rinvio alla Corte di Giustizia della U.E. della questione di un presunto conflitto del regolamento con il principio europeo della libera concorrenza di cui agli artt. 101 e 102 TFUE.

Il Tar Lazio adito, dal canto proprio, non entra nel merito delle questioni di legittimità prospettate dai ricorrenti in quanto ritiene di dover accogliere l’eccezione sollevata dalla Cassa Nazionale Forense con la quale è stato dedotto il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo: infatti, si tratta – afferma il Collegio – di “contestazioni che attengono, in modo specifico, all’iscrizione e alla contribuzione obbligatoria dei liberi professionisti e che, conseguentemente, investono essenzialmente questioni di ordine e natura squisitamente previdenziale e, quindi, involvono veri e propri diritti soggettivi la cui cognizione, in quanto tali e alla luce della specifica materia interessata, appartiene, per giurisprudenza consolidata in materia, alla giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro”. SS



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Inserito in data 29/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 giugno 2016, n. 13

Diritto di accesso agli atti riguardanti il rapporto dei dipendenti di Poste Italiane

Nella sentenza in esame, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata, preliminarmente, sulla natura di Poste Italiane s.p.a. e, conseguentemente, sulla possibilità o meno che i dipendenti della società stessa esercitino il diritto di accesso nei confronti dei provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici che incidono direttamente sulla disciplina del rapporto di lavoro.

La Terza Sezione del Consiglio di Stato, nell’ordinanza di rimessione, aveva, infatti, posto in dubbio l’indirizzo giurisprudenziale costante circa la proponibilità dell’accesso ai documenti nei confronti di soggetti privati affidatari di pubblici servizi: in particolare, aveva sottolineato che la natura privata dell’Ente Poste e del rapporto di lavoro dei relativi dipendenti poteva indurre a ritenere che non tutta l’attività svolta ed i rapporti in essere fossero funzionalmente connessi alla gestione del servizio e che, anzi, doveva ritenersi che l’obbligo di trasparenza, cui risponde l’istituto dell’accesso, “non sia riferibile ai rapporti giuridici privatistici diversi da quelli nei quali il soggetto che chiede l’accesso si presenti e si qualifichi come utente… o comunque come portatore di un interesse (anche diffuso) al servizio pubblico in quanto tale”.

L’esigenza di tutela del cittadino/utente, dunque, non sussisterebbe quando il rapporto fra il soggetto che chiede l’accesso e il privato gestore del pubblico servizio fosse di altro tipo, senza alcuna incidenza di profili pubblicistici e con piena possibilità di tutela innanzi al giudice ordinario: pertanto, ad avviso dei giudici remittenti, non sarebbe giustificato il diverso trattamento dei lavoratori dipendenti di un soggetto privato, a seconda del fatto che quest’ultimo sia o meno, occasionalmente, gestore di un pubblico servizio.

Dal canto suo, l’Adunanza Plenaria premette che la società Poste Italiane può essere qualificata “come organismo di diritto pubblico”, come definito dall’art. 3, comma 26, d.lgs. 163 del 2006 il cui elemento fondante è “la rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali – anche qualora la gestione fosse produttiva di utili – non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, da intendere come possibilità di condizionamento aziendale, anche in termini di scelta maggioritaria degli amministratori, chiamati a perseguire determinati obiettivi di qualità del servizio”.

La qualificazione di Poste Italiane s.p.a. come organismo di diritto pubblico però – afferma l’Alto Consesso – è un fattore che rende pacifica l’estensione a detta società delle norme in tema di accesso, ma non chiarisce i limiti, entro cui l’attività societaria deve ritenersi di “pubblico interesse”.

I giudici hanno rilevato che, nella specie, si applica l’accezione restrittiva rilevata per l’applicazione della direttiva 2004/17/CE, riferita agli enti erogatori di acqua e di energia, nonché a quelli che forniscono servizi di trasporto e servizi postali: tali enti – in quanto titolari di diritti speciali ed esclusivi – agiscono nell’ambito dei settori sopra indicati, ma svolgono anche attività in pieno regime di concorrenza, direttamente esposti alle regole del mercato e possono, per tale ragione, vedere in qualche misura attenuata la disciplina propria delle amministrazioni pubbliche.

Per quanto riguarda il rapporto di lavoro – strumentale a tutte le attività svolte – precisano i giudici che gli obblighi di trasparenza appaiono dunque coerentemente suscettibili di delimitazione, con riferimento al combinato disposto degli articoli 11, comma 3, del d.lgs. n. 33 del 2013 (ambito soggettivo degli obblighi di trasparenza), 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 (ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, in tema di organizzazione degli uffici e di ottimale utilizzazione delle risorse umane) e 1, comma 16 della legge delega n. 190 del 2012.

Secondo tali disposizioni “il diritto di accesso è esercitabile dai dipendenti della società Poste Italiane s.p.a., limitatamente alle prove selettive di accesso, alla progressione in carriera ed ai provvedimenti di auto-organizzazione degli uffici, incidenti in modo diretto sulla disciplina, di rilevanza pubblicistica, del rapporto di lavoro”. Peraltro, dall’esame sistematico delle disposizioni in materia emerge “non solo la considerazione del rapporto di lavoro, come fattore strumentale alla normale gestione del servizio pubblico postale, ma anche la rilevanza ex se di tale rapporto, per l’osservanza di regole di imparzialità e trasparenza, che vincolano tutti i soggetti chiamati a svolgere funzioni pubbliche (anche nella veste di datori di lavoro), nell’ambito di servizi che le amministrazioni intendono assicurare ai cittadini, direttamente o in regime di concessione”.

Sulla base di tali principi, l’Adunanza plenaria rigetta l’appello proposto da Poste Italiane s.p.a. e afferma che, nella situazione sottoposta al suo esame, “l’accesso agli atti richiesti è ammissibile, in quanto attinenti a procedura selettiva di avanzamento, soggetta alle ricordate regole di imparzialità e trasparenza”. SS

 


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Inserito in data 28/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 28 giugno 2016, n. 2927

Regolamenti volizione preliminare e regolamenti volizione azione

Mentre i regolamenti c.d. volizione preliminare sono insuscettibili di produrre autonome lesioni sulla sfera giuridica altrui e, pertanto, non devono formare oggetto di impugnativa autonoma nel termine decadenziale, i regolamenti c.d. volizione azione, con riferimento alle disposizioni immediatamente lesive, devono essere immediatamente impugnati posta, in difetto, la stabilizzazione dei relativi effetti.

Ciò non esclude che l’attuazione dei regolamenti volizione-preliminare possa contenere un carattere di immediata e concreta lesività, che abilita i soggetti interessati ad impugnarli, ma solo in via facoltativa.

Di regola, però, solo l’adozione a valle del provvedimento di attuazione rende attuale la possibile compromissione delle singole situazioni soggettive, così determinando l’insorgere dell’interesse a ricorrere. In tal caso, l’impugnazione è soggetta all’ordinario termine decadenziale, decorrente dal momento dell’adozione dell’atto applicativo. CDC

 



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Inserito in data 27/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 22 giugno 2016, n. 2769

Atti elusivi emessi dopo il giudicato

Con la sentenza in epigrafe, la III Sezione del Consiglio di Stato ha affermato che ai fini della declaratoria della nullità di provvedimenti emanati in violazione o elusione del giudicato, non occorre la formale impugnazione del provvedimento di cui si lamenti tale natura, in quanto il Giudice dell’ottemperanza può esercitare d’ufficio il relativo potere.

Nella pronuncia in esame, sono stati preliminarmente passati in rassegna i principi generali applicabili in tema di proponibilità dell’azione di ottemperanza.

Anzitutto, in ordine alla precipua funzione dell’istituto, è stato chiarito che lo stesso è finalizzato ad attribuire alla parte vittoriosa in sede di cognizione uno strumento per garantire il rispetto, da parte dell’Amministrazione, degli obblighi derivanti dal giudicato. Certamente, detta verifica sull’esatta attuazione del giudicato implica la precisa individuazione dei contenuti dell’effetto conformativo derivante dalla sentenza di cui si chiede l’esecuzione.

Inoltre – ha aggiunto il Collegio – con il peculiare rimedio in questione può essere lamentata non solo la totale inerzia dell’Amministrazione nell’esecuzione del giudicato, ma anche la sua attuazione inesatta, incompleta o elusiva.

Infine, il Collegio ha ricordato che il provvedimento sopravvenuto ed emanato in dichiarata esecuzione del giudicato dev’essere impugnato, nel termine di decadenza, con il ricorso ordinario, diversamente, l’atto emesso in violazione o in esecuzione del giudicato dev’essere impugnato con il ricorso per ottemperanza nel termine di prescrizione dell’actio iudicati, in quanto nullo ai sensi dell’art.21-septies l. n.241 del 1990 e 114, comma 4, lett. b), del c.p.a.

Venendo al caso di specie, punto centrale della questione è stabilire se si possa dedurre con una memoria difensiva l’elusione del giudicato, quando l’atto sopravvenuto sia stato emesso dopo la proposizione del ricorso per ottemperanza, senza quindi una rituale contestazione con atto notificato.

La III Sezione ha ritenuto di optare per la soluzione dell’ammissibilità e della procedibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art.112 c.p.a., anche per l’ipotesi in cui non vi sia stata l’impugnazione del provvedimento sopravvenuto elusivo del giudicato. In particolare, la lettura coordinata e sistematica dell’art. 112 c.p.a e del comma 4 dell’art.114 c.p.a. “vincola l’interprete a slegare  l’esercizio dei poteri (d’ufficio) attribuiti al giudice dell’ottemperanza dal principio della domanda”.

“In altri termini, il giudice dell’ottemperanza è investito, per un verso, della potestà della cognizione piena del rispetto del giudicato (…), per un altro, ove ne ravvisi la mancata attuazione, la violazione o l’elusione, dei poteri dispositivi catalogati all’art.114, comma 4, c.p.a.”. Ed ancora, “Perché il ricorso per ottemperanza risulti idoneo ad investire il giudice adìto delle potestà cognitive e dispositive sopra indicate, è sufficiente che la causa petendi e il petitum siano coerenti con l’art.112 c.p.a. e risultino adeguatamente dettagliati nell’atto introduttivo del giudizio”.

Pertanto se, come nella fattispecie, l’atto asseritamente elusivo è stato emesso nel corso del giudizio di ottemperanza, ai fini della sua contestazione non occorre un atto notificato, essendo sufficiente che lo stesso venga dedotto tramite una memoria difensiva. MB

 



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Inserito in data 24/06/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 21 giugno 2016, n. 1049

Decorrenza del termine di impugnazione del permesso di costruire

Con la pronuncia de qua, i giudici fiorentini si sono espressi in ordine alla decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire per la ristrutturazione conservativa di un immobile.

A fronte dell’eccezione di tardività del ricorso, motivato dalla resistente sul presupposto che la ricorrente avesse conseguito piena conoscenza del progetto in una fase antecedente alla presentazione dell’istanza di permesso di costruire (coincidente, nella fattispecie, con il momento di apposizione del cartello di inizio lavori), il Collegio ha osservato come recenti arresti giurisprudenziali abbiano confermato che “ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione del permesso di costruire, ove se ne contesti il contenuto specifico, la conoscenza dello stesso da parte del proprietario limitrofo può intendersi acquisita quando le opere abbiano raggiunto uno stadio ed una consistenza tali da renderne chiara l'illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante”.

Nel caso sottoposto all’attenzione della III Sezione, la ricorrente  ha contestato proprio la diversità del manufatto realizzato rispetto a quello esistente, circostanza che induce a ritenere come un’effettiva conoscenza delle caratteristiche dell’intervento sia stata desumibile solo nel momento in cui i lavori avevano raggiunto uno stadio e una consistenza tale da rendere evidenti come dette differenze fossero suscettibili di alterare radicalmente le caratteristiche del manufatto.

Pertanto, il Collegio, sulla scorta delle anzidette considerazioni, ha accolto il ricorso e, per l’effetto, annullato il permesso di costruire e gli atti ad esso presupposti. MB 



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Inserito in data 23/06/2016
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 23 giugno 2016, n. 153

Ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio rileva il reddito dell’ultimo anno

La Corte costituzionale è stata chiamata a stabilire se gli artt. 75 e 76 del d.p.r. n. 115/02 sono incostituzionali, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., “nella parte in cui non dispongono che il giudice debba tenere conto, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, «del reddito degli ultimi 12 mesi (anziché di quello dell’anno precedente risultante dalla dichiarazione dei redditi)» oppure, in subordine, nella parte in cui non dispongono la possibilità di una ammissione graduata e parziale al beneficio «in ragione di fasce o scaglioni reddituali»”.

Invero, nel caso sottoposto all’attenzione del giudice a quo, era accaduto che il convenuto - regolarmente costituito con un proprio difensore nell’ambito di un giudizio di separazione tra coniugi - si era presentato ad un’udienza, rappresentando di aver perduto il posto di lavoro e di non essere più in grado di corrispondere al proprio avvocato le competenze professionali; perciò, aveva chiesto di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, pur avendo conseguito, nel precedente anno, un reddito dichiarato ai fini IRPEF superiore al limite fissato per l’ammissione al beneficio. Pertanto, il giudice a quo aveva ritenuto che, in situazioni siffatte, l’art. 76 del DPR 115/02, prescrivendo quale requisito di ammissione al gratuito patrocinio che il reddito risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi non superasse la soglia fissata dalla legge, precludesse il diritto della parte all’effettività della difesa tecnica.

Ciò premesso, il Giudice delle Leggi ha rigettato la suesposta questione di legittimità costituzionale, evidenziando, tra l’altro, la praticabilità di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata, lettura già fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità. Nello specifico, la Corte ha richiamato il costante orientamento della Corte di Cassazione (cfr., ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenze 23 giugno-22 settembre 2011, n. 34456, 11 novembre 2010-26 gennaio 2011, n. 2620 e 16 novembre 2005-8 marzo 2006, n. 8103) secondo cui ”né la lettera della legge né lo scopo da essa perseguito autorizzano a ritenere esclusa la possibilità per il richiedente di dimostrare l’intervenuta variazione di reddito a suo sfavore anche perché una diversa interpretazione inciderebbe negativamente sull’effettività della difesa dell’imputato”; ne consegue che l’ultima dichiarazione dei redditi può “essere integrata da altri elementi, sia per negare il beneficio nonostante il reddito dichiarato sia inferiore al limite legale, qualora emerga aliunde un tenore di vita tale da consentire all’istante di sostenere gli esborsi necessari per l’esercizio del diritto di difesa, sia per concederlo, qualora una dichiarazione reddituale di valore superiore al limite legale sia messa in discussione dalla prova di un decremento reddituale sopravvenuto” (si veda da ultimo, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 19 gennaio-2 febbraio 2016, n. 4353). TM 


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Inserito in data 22/06/2016
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 18 giugno 2016, n. 887

Sul certificato di destinazione urbanistica

Il Tar Piemonte, nella sentenza in esame, si è occupato dell’applicabilità o meno delle norme in materia di diritto di accesso agli atti amministrativi al certificato di destinazione urbanistica.

La ricorrente, infatti, chiedeva al Tribunale di dichiarare il suo diritto di accedere al predetto certificato, con conseguente condanna dell’amministrazione comunale a rilasciarne una copia.

I giudici del Tar ritengono il ricorso, oltre che inammissibile, integralmente infondato nel merito in quanto, secondo la giurisprudenza consolidata, “il certificato di destinazione urbanistica rientra nella categoria degli atti di certificazione redatti da pubblico ufficiale aventi carattere dichiarativo o certificativo del contenuto di atti pubblici preesistenti e pertanto esso non può essere sussunto nella categoria del documento amministrativo così come definito dall’art. 22 l. 241 del 1990, costituendo l’esercizio di una funzione dichiarativa o certificativa sulla base degli atti di strumentazione urbanistica”.

Ne consegue che il suo rilascio non può avvenire nelle forme del diritto di accesso, ma secondo le specifiche fonti normative, legislative e regolamentari, che precipuamente riguardano tali tipi di atti amministrativi. SS

 



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Inserito in data 21/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 20 giugno 2016, n. 2713

Diniego di ammissione alla C.I.G.

Con la sentenza in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sui presupposti per l’ammissione alla Cassa Integrazione Guadagni e sulla legittimità o meno del diniego di ammissione per l’accertato esubero strutturale del personale.

Premette il Consiglio che, in base all’art. 1 della l. 164/1975, i requisiti per la concessione del trattamento di integrazione salariale per gli operai dell’industria sono, non solo la temporaneità della sospensione dell’attività lavorativa, ma anche la non imputabilità all’impresa (o agli operai) della medesima sospensione.

Peraltro, nel richiamare la giurisprudenza consolidata sul punto, il Collegio precisa che “il sindacato del Giudice Amministrativo sul provvedimento di diniego dell’ammissione alla Cassa Integrazione Guadagni, ordinaria o straordinaria, ha dei limiti connessi con l’ampio margine di discrezionalità tecnica che caratterizza la valutazione dell’Ente previdenziale sul riconoscimento di una situazione di crisi aziendale ai sensi dell’art. 1 citato e, pertanto, le scelte dell’Ente sono sindacabili soltanto se evidentemente illogiche, manifestamente incongruenti o inattendibili ovvero viziate per palesi travisamenti in fatto”.

Rilevano i giudici che, nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, il motivo del rigetto della richiesta di concessione della C.I.G. è riconducibile alla scelta dell’impresa di incrementare la mano d’opera con assunzioni “al solo fine di configurare una potenzialità produttiva finalizzata alla partecipazione alle gare d’appalto indette dalla PA”: detta scelta è stata ritenuta dall’INPS – con valutazione immune dai vizi di illogicità ed irragionevolezza – “assolutamente inconciliabile con la finalità dell’istituto previdenziale dell’integrazione salariale” che, com’è noto, è quella di integrare il reddito dei lavoratori perduto a causa della temporanea impossibilità di prestare l’attività lavorativa per un fatto non imputabile al datore di lavoro né ai medesimi lavoratori.

Inoltre, il Consiglio di Stato, convenendo con l’appellante Ente previdenziale, ritiene ininfluenti, rispetto alla motivazione posta a fondamento dei provvedimenti dell’Istituto, le considerazioni del primo giudice in ordine “alle buone prospettive di ripresa dell’azienda anche per l’incremento della produzione civile oltre che per l’ottenimento di nuove commesse pubbliche”, proprio perché relative al solo requisito della temporaneità della sospensione e non a quello della non imputabilità sul quale si fondano i provvedimenti di diniego emessi dall’INPS ed impugnati in primo grado.

Alla luce di tutte le superiori considerazioni, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato accoglie l’appello e riforma integralmente la sentenza di primo grado. SS

 



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Inserito in data 20/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 giugno 2016, n. 2638

Notifica del ricorso al controinteressato presso la sede di servizio

I Giudici della Sezione IV del Consiglio di Stato, con la sentenza de qua, si sono pronunciati in ordine all’inammissibilità della notifica del ricorso al controinteressato presso la sede di servizio, quando la medesima sia stata eseguita a mani di un collega d’ufficio.

Nella fattispecie, l’appellante aveva in particolare eccepito l’insanabile nullità della notifica per due ordini di motivi: in primis, poiché eseguita presso un pubblico Ufficio non tramite consegna a mani del destinatario; in secondo luogo, in quanto effettuata presso un Ufficio non coincidente con la sede presso cui il destinatario della notifica prestava servizio.

I Giudici di Palazzo Spada hanno accolto le censure formulate dall’appellante, e in riforma della sentenza resa dal Tribunale capitolino, hanno dichiarato l’inammissibilità del ricorso di primo grado, affermando che, per costante giurisprudenza,  “la notifica al controinteressato del ricorso presso l'ufficio pubblico presso il quale presta servizio, non a mani proprie, ma con consegna dell'atto ad altra persona, pur se addetta all'ufficio stesso, è inammissibile, atteso che la possibilità prevista dall'art. 139 comma 2, c.p.c. di procedere alla notifica a mani di " persona addetta all'ufficio " si riferisce esclusivamente agli uffici dove l'interessato tratta i propri affari (..) e non anche quello presso il quale il dipendente pubblico controinteressato presti lavoro subordinato”.

Una siffatta interpretazione restrittiva – ha ulteriormente specificato la IV Sezione, richiamando precedenti del Consiglio di Stato – “è confortata anche dal parallelo e alternativo riferimento, operato dallo stesso comma 1 dell'art. 139 c.p.c., al luogo di esercizio, evidentemente in proprio, dell'industria o del commercio, nonché dalla previsione del secondo e comma 3 circa le persone idonee a ricevere la notificazione, che postula la sussistenza di un rapporto strettamente fiduciario tra esse e il destinatario della notificazione stessa; presupposizione non riferibile ad un ufficio, la cui organizzazione non rientra nella disponibilità del destinatario medesimo”. MB 

 



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Inserito in data 18/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 13 giugno 2015, n. 2515

Autogoverno giurisdizione amministrativa: sistema elettorale e rimessione Consulta

Con l’ordinanza in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto non manifestamente infondate le censure, sollevate dall’appellante, di violazione dell’art. 76 Cost., per eccesso del decreto legislativo n. 62/2006 (concernente l’elezione del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa) rispetto alla legge di delegazione sulla cui base lo stesso è stato emanato.

In particolare, i sospetti di incostituzionalità riguardano l’introduzione del meccanismo di sostituzione dei consiglieri elettivi venuti a mancare prima della scadenza naturale dell’organo di autogoverno.

Segnatamente, mentre il testo originario della legge di ordinamento n. 186/1982 prevedeva, per queste ipotesi, lo scorrimento della graduatoria nel corrispondente gruppo elettorale, nell’attuare la delega contenuta nella l. n. 150/2005, l’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 62/2006 ha introdotto le elezioni suppletive tra i magistrati appartenenti al corrispondente gruppo elettorale, così riformulando il co. 3 dell’art. 9, l. n. 186/1982 e disponendo, conseguentemente, l’abrogazione del citato art. 7, co. 4, della medesima legge di ordinamento.

I Giudici di Palazzo Spada, nell’ordinanza in commento, hanno affermato che punto decisivo è stabilire “se, da un lato, la regola delle elezioni suppletive per i consiglieri venuti a mancare prima della scadenza naturale e, dall’altro lato, lo scorrimento in favore dei non eletti della graduatoria risultante dalle elezioni per il rinnovo dell’organo di autogoverno, si pongano rispetto al principio della preferenza unica introdotto per quest’ultimo dalla legge di delegazione, rispettivamente, quale regola necessaria al coordinamento con le altre leggi dello Stato e quale norma divenuta incompatibile e quindi da abrogare”.

La giurisprudenza costituzionale  - hanno osservato i Giudici della V Sezione – è assestata nel senso che i limiti posti al Governo dall’oggetto, dai principi e dai criteri direttivi fissati nella legge delega devono essere interpretati in modo elastico, tenuto conto dell’ineliminabile margine di discrezionalità che viene esplicata nell’emanazione di atti aventi forza di legge, e nei limiti di una compatibilità imposta dall’esigenza di dettare in sede di attuazione della delega la necessaria e coerente disciplina di “sviluppo” delle scelte espresse dal legislatore delegante.

Tuttavia, l’orientamento richiamato concerne interventi di riforma di interi settori di disciplina o, comunque, complessi normativi connotati da una certa organicità, mentre il caso in esame non sembrerebbe ascrivibile a questa tipologia di riforma, in quanto “i caratteri dell’organicità e della complessità si addicono alla riforma dell’ordinamento riguardante la magistratura ordinaria, di cui la legge n. 150 del 2005 ha costituito la cornice per un profondo intervento modificativo del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, ma non certo alla settoriale modifica che ha riguardato il sistema di elezione dell’organo di autogoverno della giurisdizione amministrativa”.

Quindi, nel dare risposta negativa al quesito, la V Sezione del Consiglio di Stato, ritenendo rilevanti del censure formulate dall’appellante, ha rimesso, nei termini riassunti, la questione alla Corte Costituzionale. MB 


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Inserito in data 17/06/2016
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II, 15 giugno 2016, n. 971

Rimessione in termini per errore scusabile e termine di presentazione delle offerte in materia di concessione di servizi pubblici

Con la sentenza in esame, il Tar Lecce si è occupato, in primo luogo, della questione relativa all’applicabilità nel caso di specie della rimessione in termini per errore scusabile e, dunque, alla corretta interpretazione dell’art. 37 c.p.a., in secondo luogo, della questione relativa all’applicabilità dell’art. 70 del codice degli appalti– in base al quale “il termine per la ricezione delle offerte viene stabilito dalle stazioni appaltanti nel rispetto del comma 1 e, ove non vi siano specifiche ragioni di urgenza, non può essere inferiore a venti giorni dalla data di invio dell'invito” – anche in materia di concessioni di servizi pubblici, nonostante tale norma non sia richiamata dall’art. 30 del codice degli appalti.

Con riferimento alla prima questione, il Collegio ritiene di far proprio l’orientamento espresso in un’ordinanza del Consiglio di Stato e afferma che “la rimessione in termini sia possibile solo allorché sia apprezzabile una qualche giustificata incertezza sugli strumenti di tutela utilizzabili da parte del destinatario dell’atto, dovuta ad una situazione normativa obiettivamente ambigua o confusa, ad uno stato di obiettiva incertezza per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma”.

In effetti, rilevano i giudici che la questione relativa all’applicabilità del rito speciale previsto dagli artt. 119, comma 1, lett. a), e 120 c.p.a. alle concessioni dei servizi, con particolare riferimento al termine per l’impugnazione, era stata già rimessa all’Adunanza Plenaria e, posto che, nel caso di specie, l’errore rispetto al quale dev’essere accertata la scusabilità è proprio quello relativo all’omessa, tempestiva attivazione di un potere processuale, quale quello dell’impugnazione, entro il termine dimidiato di 30 giorni, è ben possibile che le ragioni che hanno impedito un ricorso in termini potrebbero qui proprio riferirsi a difficoltà interpretative della normativa di riferimento circa i presupposti, le modalità, i termini o gli effetti dell’esercizio della potestà in questione.

In sostanza, afferma il Tar, proprio l’incertezza dell’applicabilità o meno degli artt. 119 e 120 c.p.a. alle concessioni di servizi pubblici induce a ritenere applicabile al caso di specie l’istituto della rimessione in termini per errore scusabile.

Per quel che concerne, invece, la seconda questione, il Collegio premette che la disposizione dell’art. 70, comma 1 del codice degli appalti deve essere considerata espressione di un principio generale, applicabile anche alle gare per l’affidamento delle concessioni, tra le quali rientra la gara in esame; difatti la Commissione europea ha affermato che “un appalto deve essere aggiudicato nel rispetto delle disposizioni e dei principi del trattato CE, al fine di garantire condizioni di concorrenza eque all’insieme degli operatori economici interessati da tale appalto”, e che tale obiettivo può essere raggiunto nel miglior modo tramite la previsione di “termini adeguati” per la presentazione delle offerte, specificando che “i termini stabiliti per presentare una manifestazione d’interesse o un’offerta devono essere sufficienti per consentire alle imprese di altri Stati membri di procedere a una valutazione pertinente e di elaborare la loro offerta”.

Nel caso in esame, il termine effettivo era di soli tre giorni, il che determinava così una sostanziale difficoltà nella predisposizione delle offerte stesse, da ciò consegue – conclude il Tar – per tutte le ragioni sopra esposte, l’integrale accoglimento del ricorso. SS

 



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Inserito in data 16/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 giugno 2016, n. 11

Esecuzione del giudicato a formazione progressiva e ius superveniens di matrice comunitaria

L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in epigrafe, pone fine all’intricata vicenda processuale avente ad oggetto la realizzazione della Cittadella della Giustizia presso il Comune di Bari da parte dell’impresa Pizzarotti e, al contempo, sancisce i principi da applicare nel caso di esecuzione del giudicato riguardante l’annullamento in sede giurisdizionale di un atto discrezionale e sulla efficacia delle sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia dell’UE.

Ad avviso della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, deriverebbe una palese violazione del diritto comunitario laddove si applicasse al caso di specie il tradizionale insegnamento giurisprudenziale del “giudicato a formazione progressiva” secondo il quale anche le statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza (nel caso di specie erano due sentenze) sono idonee al giudicato, integrando quello della sentenza di cognizione.

Pertanto, la Sezione rimettente, richiamando e criticando la tesi del c.d. giudicato a formazione progressiva, ha chiesto all’Adunanza Plenaria di stabilire in astratto uno o più criteri, certi e ripetibili, per definire il discrimine tra statuizioni della sentenza di ottemperanza suscettibili di passare in giudicato e mere misure esecutive; in seconda battuta, ha chiesto all’Adunanza Plenaria di stabilire, anche alla luce del principio di diritto enunciato dalla Corte di Giustizia, nella già citata sentenza pregiudiziale interpretativa del 2014, se il diritto nazionale conosca dei rimedi per ritornare sul giudicato che ha condotto ad una situazione contrastante con la normativa dell’Unione Europea.

Dal canto suo, l’Adunanza Plenaria premette che l’ordine logico delle questioni prospettato dalla Sezione rimettente non appare del tutto condivisibile in quanto, prima ancora di stabilire se le statuizioni contenute nelle sentenze rese in sede di ottemperanza costituiscano giudicato e se, in caso di risposta positiva a tale quesito, esistano strumenti per impedire che il giudicato produca effetti anticomunitari, è necessario, infatti, delimitare esattamente il contenuto e la portata conformativa delle sentenze di cui si chiede l’ottemperanza.

Sul punto, ritengono i giudici che dette sentenze non abbiano riconosciuto all’Impresa il diritto incondizionato alla stipula del contratto e alla realizzazione dell’opera: da esse deriva solo un obbligo procedimentale e strumentale (quello di portare a conclusione il procedimento), non un obbligo sostanziale e finale (quello di concluderlo riconoscendo il diritto alla stipula del contratto o, addirittura, alla realizzazione dell’opera).

La realizzazione dell’opera – continua il Collegio – viene letteralmente indicata come oggetto di una “possibilità”, che, nel rispetto dei principi di ragionevolezza, buona fede ed affidamento, il Comune aveva solo l’obbligo di verificare, nei limiti consentiti dal mutato quadro economico.

Dunque, evocando la necessità di una successiva verifica di compatibilità con il sistema amministrativo e normativo, tutte le sentenze medio tempore emesse lasciano comunque aperto il procedimento, prefigurando lo svolgimento di un successivo tratto procedimentale successivo al giudicato.

Si tratta di un aspetto centrale anche per delimitare la portata del giudicato rispetto alle sopravvenienze poi intervenute: il giudicato, infatti, non può incidere sui tratti liberi dell’azione amministrativa lasciati impregiudicati dallo stesso giudicato e, in primo luogo, sui poteri non esercitati e fondati su presupposti fattuali e normativi diversi e successivi rispetto a quest’ultimo.

A tal proposito, l’Adunanza Plenaria precisa che la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia è equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato ha determinato non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica, pertanto, nel caso di specie, la prevalenza della regola sopravvenuta (rispetto al tratto di rapporto non coperto dal giudicato) si impone già in base ai comuni principi che regolano secondo il diritto nazionale il rapporto tra giudicato e sopravvenienze.

Peraltro, il Collegio ritiene che avvalori tale conclusione l’ulteriore considerazione che, in tal modo, si evita anche che alla sentenza del giudice amministrativo venga data una portata contrastante con il diritto euro-unitario: a prescindere, infatti, dalla questione se il giudicato sia intangibile anche quando risulta contrario al diritto euro-unitario, deve comunque evidenziarsi come sia già presente nel nostro ordinamento il principio che impone al giudice nazionale di adoperarsi per evitare la formazione (o la progressiva formazione) di un giudicato anticomunitario o, più in generale, contrastante con norme di rango sovranazionale cui lo Stato italiano è tenuto a dare applicazione.

Alla luce delle considerazioni svolte – conclude l’Adunanza Plenaria – i ricorsi proposti dall’Impresa Pizzarotti devono essere respinti. Infatti, le sentenze ottemperande riconoscono solo un obbligo di natura procedimentale, la cui ulteriore attuazione risulta, peraltro, ormai preclusa dall’insormontabile ostacolo rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia la quale, intervenendo su un tratto di procedimento non investito dal giudicato, ha diretta applicazione e prevale, secondo un criterio di successione temporale, sulla “regola conformativa” desumibile dalle sentenze amministrative rese dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato nel corso della vicenda in oggetto. SS 


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Inserito in data 15/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 giugno 2016, n. 2627

Proroga dichiarazione stato di emergenza, presupposti e diritto al risarcimento

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato respinge l’appello promosso da un’associazione ambientalista avverso i provvedimenti emessi dall’Amministrazione regionale in vista della necessità di ottenere la proroga dello stato di emergenza – richiesta per completare la costruzione e realizzazione di una superstrada a pedaggio.

In particolare, i Giudici rigettano le ragioni – paventate da parte appellante - circa presunti profili di irragionevolezza nelle determinazioni dell’Amministrazione competente e riguardo possibili carenze motivazionali nella decisione di prime cure.

Infatti, ritiene la Sezione, richiamando consolidata giurisprudenza amministrativa - da cui il TAR non ha voluto discostarsi – che i presupposti richiesti ex articoli 2 e 5 della L. n. 24 febbraio 1992 – ai fini della sussistenza dello stato di emergenza – effettivamente ricorrano nel caso di specie.

Si ricorda, infatti, che tali norme consentono l’utilizzo e l’adozione di poteri emergenziali anche in presenza di circostanze “connesse con l’attività dell’uomo” – in merito alla cui valutazione è lasciata un’amplissima discrezionalità all’Amministrazione.

Quest’ultima, infatti,  trova un solo limite che risiede nella esistenza di una situazione di pericolo concreto o potenziale all’integrità delle persone, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente, nonché nella ragionevolezza ed impossibilità di fronteggiare altrimenti la situazione (Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 654). 

Il Collegio, pertanto, non ravvisando alcuna palese arbitrarietà nella scelta amministrativa ma, piuttosto, un eventuale detrimento alla libertà di iniziativa economica o alla tutela dei diritti fondamentali ove venisse accolto il presente gravame e, per l’effetto, fosse impedita la prosecuzione dei lavori, conferma la pronuncia di primo grado, rigettando ogni pretesa risarcitoria avanzata dagli odierni appellanti. CC

 



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Inserito in data 14/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 6 giugno 2016, n. 2417

Istanza di rinnovo di porto d’armi e valutazione discrezionale del Prefetto

Il testo unico, nel disciplinare il rilascio della «licenza di porto d’armi», mira a salvaguardare la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Invero, come ha rilevato la Corte Costituzionale (con la sentenza 16 dicembre 1993, n. 440, § 7, che ha condiviso quanto già affermato con la precedente sentenza n. 24 del 1981), il potere di rilasciare le licenze per porto d'armi «costituisce una deroga al divieto sancito dall'art. 699 del codice penale e dall'art. 4, primo comma, della legge n. 110 del 1975»: «il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi».

Ciò implica che – oltre alle disposizioni specifiche previste dagli articoli 11, 39 e 43 del testo unico n. 773 del 1931 – “rilevano i principi generali del diritto pubblico in ordine al rilascio dei provvedimenti discrezionali”.

Inoltre, oltre alle disposizioni del testo unico che riguardano i requisiti di ordine soggettivo dei richiedenti (in particolare, gli articoli 11, 39 e 43), rilevano gli articoli 40 e 42, che attribuiscono in materia i più vasti poteri discrezionali per la gestione dell’ordine pubblico.

Infatti, alla luce di tali disposizioni, il Ministero dell’Interno, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, “può ben effettuare valutazioni di merito in ordine ai criteri di carattere generale per il rilascio delle licenze di porto d’armi, tenendo conto del particolare momento storico, delle peculiarità delle situazioni locali, delle specifiche considerazioni che – in rapporto all’ordine ed alla sicurezza pubblica - si possono formulare a proposito di determinate attività e di specifiche situazioni”.

In sostanza, valutazioni degli organi del Ministero dell’Interno “possono e devono tener conto delle peculiarità del territorio, delle specifiche implicazioni di ordine pubblico e delle situazioni specifiche in cui si trovano i richiedenti, ma si possono basare anche su criteri di carattere generale, per i quali l’appartenenza in sé ad una categoria non ha uno specifico rilievo”.

Tuttavia, devono ritenersi “configurabili profili di eccesso di potere, qualora l’Amministrazione – nel respingere l’istanza in quanto formulata da un appartenente ad una categoria per la quale non si sono ravvisati particolari esigenze da tutelare col rilascio della licenza di porto d’armi – invece abbia accolto l’istanza di chi versi in una situazione sostanzialmente equivalente: secondo i principi generali, chi impugna un diniego di licenza ben può dedurre che, in un caso equivalente (anche per circostanze di tempo e di luogo), l’istanza di altri sia stata invece accolta”.

In conclusione, fermo restando che l’interessato può dolersi delle eventuali disparità di trattamento che si commettano in concreto, “non può essere ravvisato un profilo di contraddittorietà nella determinazione dell’Amministrazione di non disporre il rinnovo della licenza”, trattandosi di una valutazione di merito, insindacabile dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione di legittimità. EF

 



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Inserito in data 13/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 1 giugno 2016, n. 2317

Si può ricorrere ai poteri emergenziali per circostanze connesse con l’attività dell’uomo

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada rilevano come le criticità, elevate ed insostenibili, nella circolazione stradale “possono assumere connotati tali da giustificare la dichiarazione dello stato di emergenza”.

Gli artt. 2 e 5 della legge n. 225 del 1992 consentono, infatti, l’autorizzazione all’utilizzo di poteri emergenziali anche in presenza di circostanze “connesse con l’attività dell’uomo”.

Al riguardo, giova aggiungere che “la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare l’amplissima discrezionalità che connota la dichiarazione dello stato di emergenza di cui all’art. 5 della l. n. 225 del 1992: l’unico, fondamentale, limite che incontra l’amministrazione, nell’esercizio di tale discrezionalità risiede nella esistenza di una situazione di pericolo concreto o potenziale all’integrità delle persone, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente, nonché nella ragionevolezza e impossibilità di fronteggiare altrimenti la situazione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 28 gennaio 2011, n. 654).

Invero, il Collegio ritiene di non doversi discostare dall’orientamento secondo cui “[i]n punto di motivazione e di istruttoria, la valutazione circa la sussistenza di tali presupposti può essere oggetto di sindacato in sede giurisdizionale in presenza di profili di evidente arbitrarietà e irragionevolezza” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14 marzo 2016, n. 996).

Pertanto, non ritenendo sussistenti profili d’irragionevolezza nelle determinazioni della P.A., afferma che “l’abbassamento della velocità media negli spostamenti di persone e merci, al di sotto di una soglia di accettabilità parametrata alle esigenze di celerità della società contemporanea, sembra idonea causa di lesione dei fondamentali diritti di libertà e dignità personale, di iniziativa economica ed al lavoro”. EF

 



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Inserito in data 11/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 30 maggio 2016, n. 2298

Consorzio – divieto di sostituzione dell’impresa designata

Con la pronuncia in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato ha confermato la sentenza resa in primo grado dal Tribunale amministrativo regionale della Campania-Napoli che, nel respingere le domande formulate dal Consorzio ricorrente, aveva valorizzato la clausola contenuta nella lex specialis la quale, in conformità al principio di immodificabilità dei partecipanti alle procedure di gara, espressamente sanciva il divieto di sostituzione dell’impresa designata, senza che residuasse alcun margine di valutazione discrezionale in capo alla stazione appaltante.

Il Consorzio appellante aveva dedotto, da una parte, la presunta violazione del combinato disposto di cui agli artt. 36 d.lgs. 163/2006 e 1, punto 3, lett. Q) del disciplinare di gara, asseritamente interpretato in spregio del principio del favor partecipationis, dall’altra rilevato il non corretto inquadramento giuridico, da parte del TAR campano, del consorzio stabile, non omologabile a quello previsto per i consorzi ordinari al punto che la clausola in esame, estensivamente applicata al consorzio stabile, sarebbe nulla per violazione dell’art.46 d.lgs. n. 163/2006, laddove prescrive che i bandi di gara non possono contenere prescrizioni, a pena d’esclusione, ulteriori rispetto a quelle espressamente previste dal codice degli appalti e dal regolamento attuativo.

I Giudici di Palazzo Spada hanno respinto le censure sollevate dal Consorzio appellante, precisando che il bando di gara è stato pubblicato nel 2009 per cui, ratione temporis, non troverebbe applicazione l’art. 4 co. 2, lett. d) n. 2 d.l. n. 70/2011 conv. in l. n. 21106/2011 che, modificando l’art. 46 co. 1 bis d.lgs. n. 163/2006, ha sancito il principio di tassatività e tipicità della cause d’esclusione dalle procedure di gara. Né d’altra parte – ha sottolineato il Collegio - il tenore lessicale della clausola contenuta nella lex specialis offre argomenti di supporto per ritenere violato il principio del favor partecipationis.

“Restituita al cotesto precettivo del principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, come disegnato dalla giurisprudenza – ha invece sottolineato il Collegio - la clausola ribadisce il divieto per il concorrente costituito nelle forme del consorzio stabile di sostituire l’impresa designata per l’esecuzione dei lavori”, né è suscettibile di essere disattesa ovvero disapplicata dall’amministrazione appaltante, sul punto autovincolata, con esaurimento di ogni residuo margine d’apprezzamento discrezionale.

Oltretutto, “i principi di par condicio e di trasparenza delle operazioni di gara, garantiti dall’insurrogabile valutazione sull’affidabilità tecnica dell’impresa offerente come esperita dalla stazione appaltante nel corso della procedura concorrenziale, confermano sul piano assiologico la legittimità della clausola sì da escludere in radice che possa ritenersi illogica o irragionevole”. MB

 



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Inserito in data 10/06/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 1 giugno 2016, n. 126

Legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale

La Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, si è occupata della questione di legittimità, sollevata in riferimento agli art. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., avente ad oggetto l’art. 311, comma 1 d. lgs. 152 del 2006, nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale.

Ad avviso del Tribunale remittente, la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c., diverso da quello ambientale.

Infatti – continua il giudice a quo - la giurisprudenza di legittimità ha affermato che non sussiste alcuna antinomia reale fra la norma generale di cui all’art. 2043 c.c. (che attribuisce a tutti il diritto di ottenere il risarcimento del danno per la lesione di un diritto) e la norma speciale di cui all’art. 311 (che riserva esclusivamente allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno da lesione all’ambiente, inteso come diritto pubblico generale a fondamento costituzionale).

Peraltro, il giudice a quo ha prospettato (in riferimento agli artt. 3, 9, 24 e 32 della Costituzione) che l’accentramento della legittimazione ad agire in capo ad un solo soggetto non garantirebbe un sufficiente livello di tutela della collettività e della comunità, nonché degli interessi all’equilibrio economico, biologico e sociologico del territorio, comportando l’irragionevole sacrificio di un aspetto ineludibile nel sistema di tutela. Inoltre, l’esclusione della possibilità di agire in giudizio per la Regione e per egli enti territoriali, soggetti esponenziali della collettività che opera nel territorio leso che è parte costitutiva della soggettività degli stessi, rispetto allo Stato, darebbe luogo a disparità di trattamento tra soggetti portatori di identica posizione giuridica.

Infine il giudice a quo ha dedotto (ex art. 2 Cost.) che la deroga alla disciplina generale della responsabilità civile determinerebbe un trattamento deteriore del diritto ad un ambiente salubre − diritto primario ed assoluto, rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo di cui al citato parametro costituzionale − rispetto ai restanti diritti costituzionali di pari valore, i quali, con riguardo alla sfera di tutela della responsabilità civile, non subiscono alcuna limitazione nella titolarità della legittimazione ad agire.

La Corte Costituzionale, dal canto suo, ripercorre la disciplina del danno ambientale, evidenziando il mutamento di prospettiva imposto dalle direttive europee, con la conseguente collocazione del profilo risarcitorio in una posizione accessoria rispetto alla riparazione; così, in sede di attuazione della direttiva, con il d.lgs. n. 152 del 2006, è emersa la priorità delle misure di “riparazione” rispetto al risarcimento per equivalente pecuniario, quale conseguenza dell’assoluta peculiarità del danno al bene o risorsa “ambiente”.

In ordine al profilo oggetto di censura, la Corte è chiara nell’affermare (e al riguardo richiama una sua precedente pronuncia del 2009) che “la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale”.

Infatti, una volta messo al centro del sistema il ripristino ambientale, emerge con forza l’esigenza di una gestione unitaria: un intervento di risanamento frazionato e diversificato, su base “micro territoriale”, oltre ad essere incompatibile sul piano teorico con la natura stessa della qualificazione della situazione soggettiva in termini di potere (funzionale), contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene; tutela che, al contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali.

Inoltre, in termini di possibile iniziativa autonoma, la Corte sottolinea come la riserva allo Stato non escluda che ai sensi dell’art. 311, d.lgs. n. 152 del 2006 sussista il potere di agire di altri soggetti, comprese le istituzioni rappresentative di comunità locali, per i danni specifici da essi subiti. La norma ha mantenuto “il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

Del resto – argomentano i giudici costituzionali - la stessa Cassazione ha più volte affermato che la normativa speciale sul danno ambientale si affianca alla disciplina generale del danno posta dal codice civile, non potendosi pertanto dubitare della legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.

Alla stregua di tutte le superiori considerazioni, la Corte Costituzionale promuove, dichiarando non fondato il dubbio di legittimità sollevato, la disciplina di cui all’art. 311 del d.lgs. 152 del 2006 nella parte in cui attribuisce allo Stato la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale. SS 



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Inserito in data 09/06/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 6 giugno 2016, n. 129

Riduzione delle spese degli enti territoriali: illegittimità costituzionale

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte Costituzionale dice stop alla riduzione dei trasferimenti erariali mediante criterio delle spese sostenute per i consumi intermedi quando effettuata senza coinvolgere gli Enti interessati, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6 del d.l. 95 del 2012.

Ad avviso del Tar Lazio remittente, la norma suindicata - nella parte in cui prevede che le quote da imputare a ciascun Comune sono “determinate, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’interno, in proporzione alla media delle spese sostenute per consumi intermedi nel triennio 2010-2012, desunte dal SIOPE” - contrasterebbe con gli art. 3, 97 e 119, comma 1 e 3 Cost. dal momento che, in primo luogo, la mancata previsione di un termine per l’adozione del decreto ministeriale volto a determinare la quota di riduzione spettante a ciascun Comune lederebbe l’autonomia finanziaria e il buon andamento dell’amministrazione dell’ente medesimo, incidendo l’eventuale tardività nell’adozione del decreto ministeriale sulla redazione del bilancio finanziario del Comune.

Inoltre, la disposizione impugnata comporterebbe una lesione del principio di leale collaborazione, in quanto non subordina la determinazione unilaterale delle quote, da parte dello Stato, all’inerzia della Conferenza Stato-Città e autonomie locali – come, al contrario, era previsto per le riduzioni dei trasferimenti ai Comuni e alle Province per l’anno 2012 e per le riduzioni alle sole Province per l’anno 2013.

La disposizione censurata violerebbe, altresì – secondo il Tar remittente – il primo comma dell’art. 119 Cost., dato che individua nei “consumi intermedi” il criterio per la determinazione della quota di riduzione delle risorse da trasferire, senza decurtare da detti consumi le spese sostenute per i servizi ai cittadini. Peraltro, la scelta del legislatore violerebbe il terzo comma dello stesso art. 119 Cost., ricorrendo al criterio dei consumi intermedi diverso da quello previsto dalla disposizione costituzionale per il fondo perequativo (minore capacità contributiva per abitante).

La Corte Costituzionale è chiara nell’affermare che la norma censurata, indicando gli obiettivi di contenimento delle spese degli enti locali, si pone come principio di coordinamento della finanza pubblica, che vincola senz’altro anche i Comuni: dunque, nessun dubbio che le politiche statali di riduzione delle spese pubbliche possano incidere anche sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali.

Tuttavia – continuano i giudici costituzionali – tale incidenza deve, in linea di massima, essere mitigata attraverso la garanzia del loro coinvolgimento nella fase di distribuzione del sacrificio e nella decisione sulle relative dimensioni quantitative, e non può essere tale da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni degli enti in questione.

Vero è che i procedimenti di collaborazione tra enti debbono sempre essere corredati da strumenti di chiusura che consentano allo Stato di addivenire alla determinazione delle riduzioni dei trasferimenti, anche eventualmente sulla base di una sua decisione unilaterale, al fine di assicurare che l’obiettivo del contenimento della spesa pubblica sia raggiunto pur nella inerzia degli enti territoriali, ma tale condizione non può giustificare l’esclusione sin dall’inizio di ogni forma di coinvolgimento degli enti interessati, tanto più se il criterio posto alla base del riparto dei sacrifici non è esente da elementi di dubbia razionalità, come è quello delle spese sostenute per i consumi intermedi.

Si tratta, ad avviso della Corte, di un criterio che si presta a far gravare i sacrifici economici in misura maggiore sulle amministrazioni che erogano più servizi, a prescindere dalla loro virtuosità nell’impiego delle risorse finanziarie.

Infine – conclude la Corte – non si deve sottovalutare nemmeno il fatto che la disposizione impugnata non stabilisce alcun termine per l’adozione del decreto ministeriale che determina il riparto delle risorse e le relative decurtazioni, e che, dunque, un intervento di riduzione dei trasferimenti che avvenisse a uno stadio avanzato dell’esercizio finanziario comprometterebbe un aspetto essenziale dell’autonomia finanziaria degli enti locali, vale a dire la possibilità di elaborare correttamente il bilancio di previsione.

Alla stregua di tutte le pregresse argomentazioni, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, comma 6 d.l. 95 del 2012 nella parte in cui non prevede, nel procedimento di determinazione delle riduzioni del Fondo sperimentale di riequilibrio da applicare a ciascun Comune nell’anno 2013, alcuna forma di coinvolgimento degli enti interessati, né l’indicazione di un termine per l’adozione del decreto di natura non regolamentare del Ministero dell’interno. SS

 



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Inserito in data 08/06/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I - 30 maggio 2016, n. 1101

Risarcimento del danno da infortunio sul lavoro del pubblico dipendente

I Giudici meneghini, con il provvedimento de quo, hanno accolto le istanze del ricorrente volte ad ottenere il risarcimento, da parte dell’Amministrazione, del danno derivante al pubblico dipendente per infortunio sul lavoro, la cui dinamica, dagli atti di causa, risultava causalmente correlata ad una specifica condotta omissiva dell’Ente.

In particolare – ha motivato il Collegio - risulta pienamente integrata, da parte dell’amministrazione, la violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2087 c.c., che tutela le condizioni di lavoro e secondo il cui disposto letterale “l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, atteso che sono state omesse, da parte dell’amministrazione intimata - datore di lavoro dell’istante - le misure necessarie per scongiurare il verificarsi di incidenti come quello oggetto della vicenda in esame.

La stessa Suprema Corte di Cassazione – ha ricordato la Sezione I – ha costantemente affermato che “in tema di rapporto di lavoro, l'obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che secondo l'esperienza e la tecnica siano in grado di tutelare e garantire l'integrità psico-fisica del lavoratore, restando esclusi da detta tutela solo gli atti e i comportamenti abnormi ed imprevedibili del lavoratore, idonei ad elidere il nesso causale tra le misure di sicurezza adottate e l'eventuale danno realizzatosi”.

L'art. 2087 c.c. deve, infatti, ritenersi una “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, sicché, alla luce delle esposte considerazioni, è fondata la richiesta risarcitoria formulata dal ricorrente. MB

 



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Inserito in data 07/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 maggio 2016, n. 2182

Principio di legalità e potere regolatorio delle A.A.I.

Con la pronuncia in esame, il Consesso afferma che “il principio di legalità dell’azione amministrativa, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 23, 97 e 113 Cost.), impone che sia la legge a individuare, anche se indirettamente, lo scopo pubblico da perseguire e i presupposti essenziali, di ordine procedimentale e sostanziale, per l’esercizio in concreto dell’attività amministrativa”.

In particolare, “la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che – quando venga in rilievo un potere regolatorio di un’autorità amministrativa indipendente – il primo profilo può avere carattere meno intenso, in ragione dell’esigenza di assicurare, in contesti caratterizzati da un elevato tecnicismo, un intervento regolatorio celere ed efficace. La predeterminazione rigorosa dell’esercizio delle funzioni amministrative comporterebbe un pregiudizio alla finalità pubblica per la quale il potere è attribuito. La dequotazione del principio di legalità in senso sostanziale – giustificata dalla valorizzazione degli scopi pubblici da perseguire in particolari settori come quelli demandati alle autorità amministrative indipendenti – impone, tuttavia, il rafforzamento del principio di legalità in senso procedimentale: il quale si sostanzia, tra l’altro, nella previsione di rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore nell'ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari” (Cons. Stato, VI, 2 maggio 2012, n. 2521; nello stesso senso, da ultimo, 20 marzo 2015, n. 1532).

In questa prospettiva, si colloca anche l’art. 2 della legge 14 novembre 1995, n. 481 (Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità), il quale dispone che l’Autorità:

d) «propone la modifica delle clausole delle concessioni e delle convenzioni, ivi comprese quelle relative all'esercizio in esclusiva, delle autorizzazioni, dei contratti di programma in essere e delle condizioni di svolgimento dei servizi, ove ciò sia richiesto dall'andamento del mercato o dalle ragionevoli esigenze degli utenti, definendo altresì le condizioni tecnico-economiche di accesso e di interconnessione alle reti, ove previsti dalla normativa vigente»;

h) «emana le direttive concernenti la produzione e l'erogazione dei servizi da parte dei soggetti esercenti i servizi medesimi, definendo in particolare i livelli generali di qualità riferiti al complesso delle prestazioni e i livelli specifici di qualità riferiti alla singola prestazione da garantire all'utente, sentiti i soggetti esercenti il servizio e i rappresentanti degli utenti e dei consumatori, eventualmente differenziandoli per settore e tipo di prestazione; tali determinazioni producono gli effetti di cui al comma 37».

Il richiamato comma 37 dello stesso art. 2 prevede che «il soggetto esercente il servizio predispone un regolamento di servizio» e che «le determinazioni delle Autorità di cui al comma 12, lettera h), costituiscono modifica o integrazione del regolamento di servizio».

In conclusione, “tali norme attribuiscono all’Autorità poteri ampi di etero-integrazione, suppletiva e cogente, dei contratti, sopra indicati, per il perseguimento delle specifiche finalità individuate. Si tratta di un potere che, essendo attribuito da una norma imperativa, diventa esso stesso, insieme a tale norma, parametro di validità del contratto. Perciò il contenuto dei contratti viene integrato, secondo lo schema dell’art. 1374 Cod. civ., dall’esercizio del potere dell’Autorità ovvero – qualora detti contratti contengano clausole difformi da quanto previsto dalla determinazione dell’Autorità stessa – tali clausole vanno, ai sensi del primo comma dell’art. 1418 Cod. civ., ritenute nulle per contrarietà a norma imperativa” (cfr. Cass., 27 luglio 2011, n. 16401). EF

 



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Inserito in data 06/06/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 1 giugno 2016, n. 2788

Sulla distinzione tra il sostegno educativo didattico e l’assistenza materiale

La questione posta al vaglio dei Giudici napoletani riguarda l'accertamento della necessità per un minore di “vedersi erogato il servizio didattico previa predisposizione, da parte dell'amministrazione, di misure di sostegno - didattiche o assistenziali - necessarie per evitare che il soggetto disabile altrimenti fruisca solo nominalmente del percorso di istruzione, essendo impossibilitato ad accedere ai contenuti dello stesso in assenza di adeguate misure compensative (sicché trattasi di prestazioni accessorie e complementari al servizio pubblico istruzione)”.

Giova, infatti, ricordare che “l’art. 13, comma 3, della l. n.104/92 pone la distinzione tra il sostegno educativo didattico – assicurato da insegnanti specializzati inquadrati nei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione – e l’assistenza materiale tesa a sviluppare l’autonomia e la comunicazione, fornita da personale non docente messo a disposizione dai Comuni o dalle Province”.

Si tratta, in particolare, della cd. assistenza ad personam, che – pur costituendo un diritto fondamentale riconosciuto a favore dei soggetti in difficoltà per la piena esplicazione del diritto allo studio – non consiste nell’erogazione di prestazioni didattiche, ma solo di tipo assistenziale”.

A tal proposito, la giurisprudenza ha già specificato che: “Le figure professionali preposte all’assistenza alla persona devono affrontare i problemi di autonomia e di comunicazione degli utenti con adeguati stimoli all’apprendimento delle abilità. Costoro aiutano l’alunno a partecipare alle attività proposte dall’insegnante, favoriscono il rapporto con il resto del gruppo di classe – per promuovere relazioni positive con i compagni – collaborano con gli insegnanti assistendo alla programmazione delle attività didattiche e cooperano con la famiglia per attivare un proficuo reciproco scambio a vantaggio del minore in difficoltà”.

Insomma, “mentre all’insegnante di sostegno spetta la contitolarità nell'insegnamento, essendo egli un docente chiamato a garantire un’adeguata integrazione scolastica – e deve, pertanto, essere inquadrato a tutti gli effetti nei ruoli del personale insegnante – diversamente l’assistente educatore svolge un’attività di supporto materiale individualizzato, estranea all’attività didattica propriamente intesa, ma che è finalizzata ad assicurare la piena integrazione nei plessi scolastici di appartenenza e nelle classi, principalmente attraverso lo svolgimento di attività di assistenza diretta agli alunni affetti da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali in tutte le necessità ai fini di una loro piena partecipazione alle attività scolastiche e formative” (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. III, 12 febbraio 2014 n.431; Tar Piemonte Torino, sez. I, 20 febbraio 2006, n. 943; T.A.R. Lombardia Milano, sez. IV, 2 aprile 2008, n. 794; Tar Lombardia Brescia, sez. II, 4 febbraio 2010, n. 581 e giurisprudenza ivi citata).

Infine, “sul piano dell’imputazione soggettiva dell’obbligo di fornire un insegnante di sostegno e un assistente alla persona, va osservato che, mentre il primo incombe sul Ministero dell’Istruzione, il secondo grava sugli enti locali e nel caso specifico sul Comune, ai sensi dell’art.139 D.Lgs.n.112/98”. EF

 



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Inserito in data 04/06/2016
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, 26 maggio 2016, n. 1449

Rapporti tra condanna penale e rilascio della patente di guida

Nella sentenza de qua, il Tar Catania si è occupato della richiesta di rilascio del titolo abilitativo alla guida posta in essere da soggetto che è stato condannato per il reato di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90 e in particolare della possibilità che il diniego al rilascio della patente operi, in dette ipotesi, automaticamente.

In proposito – affermano i giudici – l’art. 120 del D.Lgs. n. 285/1992 opera una specifica individuazione dei reati ritenuti presuntivamente tali da non consentire, in ragione della pericolosità sociale del soggetto condannato, il rilascio della licenza di guida e fra questi rientra il reato di cui all’art. 73.

A fronte della pericolosità sociale discendente, in base ad una valutazione effettuata ex ante dal legislatore, dalla sentenza penale di condanna per determinati fatti di reato, ritiene il Collegio che non vi è alcun “rigido automatismo” da dover superare; piuttosto, in ossequio a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 120 D.Lgs. n. 285/1992, soltanto la possibilità di superare la preclusione discendente dalla comminata sanzione penale attraverso “gli effetti di provvedimenti riabilitativi” – conseguibili a norma degli artt. 178 e 179 c.p. – che, però, per quanto desumibile dagli atti di causa, non risultano, ad avviso dei giudici, essere intervenuti in favore del ricorrente in relazione alla sentenza penale di condanna.

Ne consegue che “la postulata necessità di superare il rigido automatismo con cui di fatto ha operato sinora l’organo amministrativo, a fronte di una valutazione comparativa che tenga conto dei presupposti di fatto e della dimostrata ed effettiva pericolosità sociale del singolo soggetto, è tesi che non merita accoglimento”. SS

 



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Inserito in data 03/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 28 maggio 2016, n. 2244

Ai fini dell’autenticazione la sottoscrizione del P.U. non ammette equipollenti

L’art. 1, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 445 del 2000 nel definire l’autenticazione della sottoscrizione come «l’attestazione, da parte di un pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza, previo accertamento dell’identità della persona che sottoscrive», non esclude che tale attestazione possa essere svolta, in base al combinato disposto dell’art. 21, comma 1, e dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, mediante la forma semplificata prevista da tali disposizioni.

L’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000 prevede che «le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall’interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore» e dunque, quanto alla prima modalità (sottoscrizione da parte dell’interessato in presenza del dipendente, ovviamente previa identificazione «dell’interessato»), è del tutto compatibile con la definizione di autenticazione contenuta nell’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 445 del 2000.

Pertanto, non è corretto – o quantomeno è limitativo – affermare, come fa il Giudice di prime cure, “che solo la più rigorosa modalità prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000 si concili con tale nozione per la necessaria presenza del funzionario autenticatore in funzione accertativa”.

La modalità di presentazione agli organi delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, è connotata da una minore rigidità formale e da una maggiore speditezza, «che consente vi sia, senza ulteriori formalità, la sottoscrizione dell’interessato in presenza del soggetto addetto» (Cons. St., sez. III, 16 maggio 2016, n. 1987), ma “non riduce affatto le garanzie di certezza sottese allo svolgimento della procedura elettorale, contemplando anch’essa la presenza del soggetto addetto avanti al quale è apposta la firma”.

La contraria affermazione, “secondo cui l’autentica in ambito elettorale sarebbe sottoposta, a salvaguardia della sua funzione, alle modalità di maggiore rigore fra quelle previste dall’articolo 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000, è dunque una mera petizione di principio, poiché pone quale premessa la conclusione che intende dimostrare e, cioè, che alla procedura elettorale debba necessariamente applicarsi la modalità di autenticazione prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000.

Il che, alla luce di un’analisi del quadro normativo, certo disorganico e scarsamente coordinato, non solo non è una conclusione certa, tutta da dimostrare, ma largamente opinabile e seriamente contestabile, ove si consideri che l’art. 14, comma 2, della l. n. 53 del 1990 rinvia ad una disposizione – quella dell’art. 20 della l. n. 15 del 1968 – che è stata abrogata e sostituita dall’art. 21 del d.P.R. n. 445 del 2000, senza affatto chiarire se si debba ora applicare il comma 1 o il comma 2 di tale ultima disposizione”.

Né certo la delicata questione di tale lacuna normativa, in assenza di un riferimento espresso e inequivocabile al comma 1 o al comma 2 dell’art. 21 del d.P.R. n. 445 del 2000, “può essere risolta dalla mera constatazione che il contenuto dell’abrogato art. 20, comma secondo, della l. n. 15 del 1968 è pedissequamente riportato nel comma 2 dell’art. 21 del d.P.R. n. 445/2000”.

Infatti, basta “il solo dato testuale dell’art. 21 a smentire l’apparente solidità di questa constatazione, che si vuole a torto risolutiva, se è vero che il comma 1 dell’art. 21 si riferisce alla presentazione dell’istanza o della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà da produrre agli organi della pubblica amministrazione, come nel caso di specie, mentre il comma 2 si riferisce, invece, alla presentazione di tali atti a soggetti diversi dagli organi della pubblica amministrazione, ovvero ad organi della pubblica amministrazione, quando si tratti della riscossione da parte di terzi di benefici economici, ipotesi che qui, pacificamente, non ricorrono” (Cons. St., sez. III, 16 maggio 2016, n. 1987).

Non si può dunque escludere, ma anzi pare più corretto ammettere che “la modalità più corretta di autenticazione, allo stato della legislazione vigente (pur poco chiara e lacunosa), sia quella prevista dal combinato disposto dell’art. 21, comma 1, e dall’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, come questa Sezione ha affermato nella sentenza n. 1987 del 16 maggio 2016 più volte richiamata, non essendo comunque precluso al funzionario autenticatore seguire la modalità, più rigorosa, prevista dall’art. 21, comma 2, del d.P.R. n. 445 del 2000”.

Tuttavia, pur riconoscendo che la modalità di autenticazione, in materia elettorale, possa essere quella semplificata dell’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 445 del 2000, “non per questo l’autenticazione può venire meno alla sua funzione essenziale e precipua, che è quella, appunto, di essere «l’attestazione, da parte di un pubblico ufficiale, che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza», come prevede l’art. 1, comma 1, lett. i), del d.P.R. n. 445 del 2000, che ricalca la definizione dell’art. 2703, comma secondo, c.c.”.

Perché sia tale e, cioè, consista indubitabilmente nell’attestazione che la sottoscrizione sia stata apposta in presenza del pubblico ufficiale, “l’autenticazione deve essere sottoscritta dal pubblico ufficiale stesso, che appunto con la firma si assume il compito, e la responsabilità, di attestare che la firma è stata in sua presenza apposta, conferendo assoluta certezza alla formalità dell’autenticazione, certificando, sino a querela di falso, che la firma è stata apposta in sua presenza”.

Ove la sottoscrizione del pubblico ufficiale manchi, pertanto, “difetta il nucleo essenziale e indefettibile dell’autenticazione e, cioè, in primo luogo e soprattutto l’attestazione di cui si è detto e la sua inoppugnabile riconducibilità al funzionario addetto all’autenticazione”.

La sottoscrizione del pubblico ufficiale è, dunque, “una forma sostanziale, indefettibile, insostituibile dell’autenticazione, che non ammette e non può ammettere equipollenti, pena lo snaturamento dell’essenza stessa dell’autenticazione, secondo quanto si è detto”. EF 


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Inserito in data 01/06/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, 25 maggio 2016, n. 10

Ancora su DURC negativo e invito a regolarizzare

Con la sentenza in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è tornata ad occuparsi della giurisdizione in materia di DURC e della possibilità o meno di regolarizzare eventuali inadempienze contributive nel corso della gara.

In particolare, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno sottoporre alla Plenaria due questioni consequenziali fra di loro a causa dei contrasti interpretativi insorti e della notevole rilevanza pratica che rivestono.

Con il primo dei due quesiti la Sezione chiede “se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del DURC, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara”.

Con il secondo quesito la Sezione chiede “se la norma di cui all’art. 31, comma 8, del d.l.69 del 2013, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del DURC senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 d.lgs. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva”.

Con riferimento alla prima questione, la Plenaria ha precisato che la problematica del riparto di giurisdizione si pone nel caso in cui sorgano delle controversie inerenti ad un riscontro negativo in tema di regolarità contributiva in quanto, per un verso, la certificazione prodotta dall’ente previdenziale assume il carattere di dichiarazioni di scienza, assistita da pubblica fede ai sensi dell’art. 2700 c.c. e facente prova fino a querela di falso; per altro verso, tale accertamento si inserisce nell’ambito di una procedura di evidenza pubblica, rispetto alla quale sussiste, ai sensi dell’art. 133 c.p.a., la giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo.

Tuttavia, ritiene il Collegio di dover risolvere la questione nel senso che “rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l’affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, l’accertamento inerente alla regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara. Tale accertamento viene effettuato, nei limiti del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, in via incidentale, cioè con accertamento privo di efficacia di giudicato nel rapporto previdenziale”.

Infatti, nelle controversie in materia di contratti pubblici, “il DURC viene in rilievo non in via principale, ma in qualità di presupposto di legittimità di un provvedimento amministrativo adottato dalla stazione appaltante”.

Peraltro, il Collegio evidenzia che “non è revocabile in dubbio la natura di dichiarazione di scienza attribuibile al DURC, che si colloca fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso, tuttavia, questo elemento non risulta ostativo all’esame, da parte del giudice amministrativo, della regolarità delle risultanze della documentazione prodotta dall’ente previdenziale in un giudizio avente ad oggetto l’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture”.

Diversamente, il diritto di difesa verrebbe, in effetti, leso se si costringesse il privato a contestare, dinanzi al giudice ordinario, la regolarità del DURC e, successivamente, dopo aver ottenuto l’accertamento dell’errore compiuto dall’ente previdenziale, la illegittimità delle determinazioni della stazione appaltante dinanzi al giudice amministrativo: infatti un iter processuale di tal genere risulterebbe eccessivamente gravoso per il privato ed incompatibile con la celerità che il legislatore ha imposto per il rito degli appalti nel c.p.a.

Sul punto, anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di chiarire che la giurisdizione, in controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture, appartiene al giudice amministrativo quando venga in rilievo la certificazione attestante la regolarità contributiva, sulla cui base l’Amministrazione abbia successivamente adottato un provvedimento, e ciò in quanto “la certificazione relativa alla regolarità contributiva dinanzi al giudice amministrativo viene in rilievo alla stregua di requisito di partecipazione alla gara e, pertanto, il regime relativo alla valutazione circa la sua regolarità non può essere differente da quello previsto per gli altri requisiti”.

Per ciò che concerne la seconda questione, il Collegio precisa che esso concerne la corretta interpretazione del requisito della definitività dell’accertamento delle violazioni in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, previsto dall’art. 38 comma 1 d.lgs. n. 163 del 2006, come causa di esclusione dalle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

In seguito all’entrata in vigore dell’art. 31 comma 8 d.l. n. 69 del 2013 è stata, infatti, introdotta una procedura di flessibilizzazione (c.d. “preavviso di DURC negativo”) che consente all’impresa richiedente il rilascio della certificazione contributiva, di sanare la propria posizione, prima della definitiva certificazione negativa: in virtù di tale procedura, l’ente previdenziale, qualora riscontri delle irregolarità, deve invitare l’operatore richiedente a sanare la propria posizione entro il termine di quindici giorni. L’introduzione, o meglio la “legificazione” del preavviso di DURC negativo, ha posto il problema di individuare esattamente il momento a partire dal quale la violazione della legislazione in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, possa ritenersi definitiva, ai fini dell’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.

Sul punto, il Collegio ritiene che il quesito possa essere risolto rinviando al principio di diritto espresso dalla stessa Adunanza Plenaria nelle sentenze nn. 5 e 6 del 29 febbraio 2016 secondo cui “non sono consentite regolarizzazioni postume della posizione previdenziale, dovendo l’impresa essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali ed assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando dunque irrilevante, un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva”.

Ne deriva conseguentemente che “l’istituto dell’invito alla regolarizzazione può operare solo nei rapporti tra impresa ed Ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) ai fini della partecipazione alla gara d’appalto”. In tal modo – concludono i giudici – è stato chiarito che l’art. 31 d.l. 69 del 2013 non ha operato alcuna modifica della disciplina dettata dall’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. SS



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Inserito in data 31/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, 24 maggio 2016, n. 9

Non va richiesto il nulla osta per gli atti di programmazione e pianificazione urbanistica

L’art. 13 della legge nr. 394 del 1991, in materia di aree naturali protette prevede che: “…1. Il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento ed è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato. Il diniego, che è immediatamente impugnabile, è affisso contemporaneamente all’albo del comune interessato e all’albo dell’Ente parco e l’affissione ha la durata di sette giorni. L’Ente parco dà notizia per estratto, con le medesime modalità, dei nulla osta rilasciati e di quelli determinatisi per decorrenza del termine”. 

Di tenore sostanzialmente analogo, sul piano della legislazione regionale, è l’art. 28 della l.r. nr. 29/1997, che per quanto attiene alla disciplina del nulla osta de quo nella Regione Lazio così recita: “…1. Il rilascio di concessioni od autorizzazioni, relativo ad interventi, impianti ed opere all’interno dell’area naturale protetta, è sottoposto a preventivo nulla osta dall’ente di gestione ai sensi dell’articolo 13, commi 1, 2 e 4 della L.R. n. 394/1991. Ai fini dell’acquisizione del nulla-osta, le amministrazioni interessate convocano apposite conferenze di servizi ai sensi degli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater della L. n. 241/1990 e successive modifiche e dell’articolo 17 della legge regionale 22 ottobre 1993, n. 57 (Norme generali per lo svolgimento del procedimento amministrativo, l’esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi e la migliore funzionalità dell’attività amministrativa) e successive modifiche”.

Pertanto, il dato qualificante dell’istituto in esame è costituito dall’obbligatorietà della sua richiesta ai fini del “rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco”, e quindi allorché debba verificarsi la compatibilità con la tutela dell’area naturale protetta di specifici interventi di modificazione o trasformazione che su di essa possono incidere.

Tanto corrisponde alla ratio dell’istituto, che è appunto finalizzato “all’accertamento da parte dell’Ente preposto dell’impatto dell’intervento richiesto sui valori naturali e paesaggistici del parco, e quindi della sua ammissibilità a fronte della prioritaria esigenza di salvaguardia e tutela di tali valori; per questo, il legislatore ha chiaramente costruito il nulla osta come atto destinato a precedere il rilascio di provvedimenti abilitativi “puntuali”, ossia legittimanti un singolo e specifico intervento di trasformazione del territorio”.

Ne discende che la previsione del più volte citato art. 13 – così come quelle complementari delle leggi regionali in materia – “non è applicabile agli atti di programmazione e pianificazione urbanistica, quand’anche connotati da contenuti fortemente specifici e puntuali quanto a prefigurazione delle future trasformazioni del territorio, come è nel caso (omissis) del Programma integrato di intervento, giusta la disciplina generale di cui all’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, nr. 179 (Norme per l’edilizia residenziale pubblica) e quella regionale di cui alla legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, nr. 22 (Norme in materia di programmi integrati di intervento per la riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale del territorio della Regione)”.

Del resto, in passato, il Consiglio di Stato, premesso in linea di diritto che l’oggetto della valutazione propria del nulla osta è costituito, oltreché dall’impatto dell’opera sul contesto ambientale oggetto di tutela, da tutti gli aspetti di protezione del territorio, anche relativi alla disciplina di natura urbanistica ed edilizia recepita dal Piano del parco, ha osservato che “i particolari dell’intervento edificatorio sono apprezzabili nella loro effettiva entità e consistenza solo alla luce del maggior grado di dettaglio e livello di approfondimento connotanti gli elaborati progettuali e plani-volumetrici allegati alla successiva richiesta del permesso di costruire, mentre il parere espresso sul piano attuativo a monte si basa su una valutazione di principio attorno alla compatibilità dell’intervento col contesto vincolato in cui viene a collocarsi, e attorno all’incidenza della sua percezione visiva sulle caratteristiche del sito, resa possibile sulla base degli elaborati di massima da allegare a corredo del piano medesimo” (sez. VI, 7 novembre 2012, nr. 5630). EF

 



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Inserito in data 30/05/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER - 24 maggio 2016, n. 6093

Il riparto di giurisdizione non dipende dalla veste formale degli atti della P.A.

La domanda introdotta nel presente giudizio era volta a conseguire l’accertamento circa l’effettivo regime contributivo e previdenziale applicabile al rapporto di servizio del ricorrente, Direttore, per alcuni anni, dell’Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura (AG.E.A.).

Nella fattispecie, il ricorrente aveva impugnato il provvedimento con il quale era stata disposta, al rapporto tra l’Agenzia ed il Direttore, l’applicazione della disciplina giuridica propria dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, con conseguenti risvolti negativi in termini retributivi, contributivi e previdenziali.

Il Collegio, con la pronuncia in commento, ha preliminarmente dichiarato che la giurisdizione sulla domanda appartiene al giudice ordinario, precisando che il riparto di giurisdizione non dipende dalla veste formale degli atti adottati dall’Amministrazione, quanto piuttosto dall’assetto di interessi sottesi, nel caso di specie, determinati dal CCNL di categoria (per i dirigenti).

Ogni questione inerente il regime contributivo applicabile – prosegue il Collegio - è strettamente correlata all’interpretazione del contratto medesimo, “posto che non sussistono, nella specie, profili normativi del rapporto che ne facciano dipendere lo svolgimento da atti autoritativi o da determinazioni discrezionali unilaterali dell’Amministrazione”.

Da ciò deriva che ogni determinazione volta ad incidere sul regime previdenziale e contributivo conseguente al contratto non può che dipendere dalla corretta interpretazione di quest’ultimo, in considerazione anche del fatto che l’Ente ha conformato la disciplina del rapporto di servizio con il ricorrente ai contenuti del vigente CCNL di categoria per i dirigenti ed ha sottoscritto il contratto individuale in diretta applicazione di quello. MB

 



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Inserito in data 28/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 23 maggio 2016, n. 2111

Danno per mancata aggiudicazione della gara: onere della prova

Con la sentenza in epigrafe, la IV Sezione del Consiglio di Stato ha respinto le domande formulate dalla società ricorrente, finalizzate ad ottenere l’integrale ottemperanza del provvedimento ovvero, in caso di impossibilità di esecuzione in forma specifica, la condanna al risarcimento del danno per equivalente, incluso il danno curriculare, con imposizione delle astreintes ex art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. per l’ipotesi dell’ulteriore ritardo.
I Giudici di Palazzo Spada hanno preliminarmente ricordato come la struttura dell’illecito extracontrattuale della P.A. non diverga dal modello generale delineato dall’art. 2043 c.c., essendone elementi costitutivi quello soggettivo (dolo o colpa), il nesso di causalità, il danno, l’ingiustizia del danno medesimo.
Hanno poi precisato che, ai fini del risarcimento, non è necessario l'accertamento dell'elemento soggettivo ove, come nella specie, il risarcimento funga da strumento necessariamente sostitutivo della non più possibile tutela in forma specifica.
Tuttavia, con riferimento all’allegazione degli ulteriori presupposti dell’obbligazione risarcitoria, il Collegio – richiamando consolidati principi elaborati da precedente giurisprudenza amministrativa, in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione di gara d'appalto - ha precisato che ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, co. 1, c.p.a., il danneggiato deve dimostrare l'an ed il quantum del danno che assume di aver sofferto.
Quindi, incombe sull’impresa danneggiata l’onere di fornire la prova dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria della gara, “poiché nell'azione di responsabilità per danni, il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.)”, essendo invece la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno.
Oltretutto, la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, essendo sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'«id quod plerumque accidit ».
Infine, anche con riferimento al c.d. danno curriculare, il danneggiato deve offrire una prova puntuale del nocumento che asserisce di aver subito – ovvero il mancato arricchimento del proprio curriculum professionale - quantificandolo in una misura percentuale specifica applicata sulla somme liquidata a titolo di lucro cessante.
Alla luce dei principi richiamati, in mancanza di specifiche allegazioni probatorie, è emersa l’impossibilità, nel caso di specie, di accoglimento delle domande proposte dall’impresa ricorrente, con conseguente inevitabile rigetto del ricorso. MB 


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Inserito in data 27/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2106

Soccorso istruttorio e dichiarazioni non veritiere

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, ha chiarito la portata e i limiti del nuovo soccorso istruttorio introdotto dal d.l. 90/2014 con riferimento al caso in cui una società abbia falsamente dichiarato di non aver commesso un errore grave nell’esercizio della propria attività professionale.

In particolare, l’originaria ricorrente ha impugnato la sentenza di primo grado dolendosi del fatto che il soccorso istruttorio non avrebbe potuto essere disposto in costanza di una dichiarazione mendace circa l’assenza di errori gravi commessi dalla capogruppo aggiudicataria a fronte delle plurime risoluzioni subite dalla stessa.

Nel caso in esame, infatti, non si sarebbe in presenza di una mera carenza documentale, ma di una dichiarazione falsa: l’originaria controinteressata non avrebbe semplicemente omesso di indicare le risoluzioni subite, ma avrebbe negato di averle subite, ponendo in essere una falsità non superabile col soccorso istruttorio nemmeno dopo la novella del 2014, pertanto, dovrebbe valere il disposto dell’art. 75, d.p.r. 445/2000.

Dal canto suo, il Consiglio anticipa che, limitatamente al profilo sopra dedotto, l’odierno gravame risulta fondato in quanto, sebbene la stazione appaltante, a fronte di pregresse risoluzioni contrattuali non dichiarate, è legittimata a chiedere l’integrazione documentale ai sensi dell’art. 38 d.lgs. 163/2006, tale integrazione non può operare in presenza di dichiarazioni non veritiere come quelle effettuate, nel caso di specie, dalla società aggiudicataria la quale, in omaggio a quanto richiesto dalla lex specialis, ha attestato falsamente di non trovarsi in alcuna delle situazioni costituenti cause di esclusione ai sensi dell’art. 38.

Tanto premesso, precisa il Collegio che “non è dubbio che la novella portata dall’art. 39, co. 1 del d.l. 90/2014 all’art. 38 ha chiarito la volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni),tuttavia, questione diversa evidentemente è quella della dichiarazione non veritiera e dell’operatività in un simile contesto di quanto disposto dall’art. 75, d.p.r. 445/2000”.

Il Consiglio di Stato, peraltro, richiama l’orientamento espresso dalla stessa Sezione nella sentenza 1412/2016 la quale, proprio in relazione ad analoga condotta della stessa controinteressata, ha affermato, in conformità ai moltissimi precedenti giurisprudenziali, “l’obbligo del partecipante ad una pubblica gara di mettere a conoscenza la stazione appaltante delle vicende pregresse (negligenze ed errori) o di fatti risolutivi occorsi in precedenti rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni”.

In una simile ipotesi, quindi – concludono i giudici – si attiva il disposto dell’art. 75, d.p.r. n. 445/2000, mentre non può operare il soccorso istruttorio dal momento che non è contestata la mancanza o l’incompletezza della dichiarazione, ma l’aver reso dichiarazione “non veritiera”. SS



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Inserito in data 26/05/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 20 maggio 2016, n. 108

Rapporti tra leggi e principio dell’affidamento

Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha, dapprima, precisato i limiti che il legislatore incontra nel dettare disposizioni che incidono sfavorevolmente sulla disciplina dei rapporti di durata e, poi, si è occupata della questione di legittimità costituzionale sollevata su una norma della legge finanziaria del 2013 relativa al trattamento per mansioni superiori nella parte in cui si applica ai contratti di conferimento delle mansioni superiori stipulati antecedentemente alla sua entrata in vigore.

Il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha, infatti, proposto questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 44 e 45, della legge 228/2012 (Legge di stabilità 2013) in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla direttiva comunitaria che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Il combinato disposto dei commi 44 e 45 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2013 stabilisce che gli “assistenti amministrativi incaricati di svolgere mansioni superiori per l’intero anno scolastico […] per la copertura di posti vacanti o disponibili di direttore dei servizi generali e amministrativi (DSGA)”, “a decorrere dall’anno scolastico 2012-2013” saranno retribuiti “in misura pari alla differenza tra il trattamento previsto per il direttore dei servizi generali amministrativi al livello iniziale della progressione economica e quello complessivamente in godimento dall’assistente amministrativo incaricato”.

Quindi, per effetto della nuova disposizione, in luogo del criterio in precedenza adottato dall’art. 52 del d.lgs. 165/2001 (che prendeva a riferimento le retribuzioni tabellari nelle rispettive qualifiche iniziali dell’assistente amministrativo e del DSGA), si deve tenere conto dell’intero trattamento economico complessivamente goduto dall’assistente amministrativo incaricato, da cui consegue che, in ogni caso di rilevante anzianità di servizio (superiore a 21 anni), – come è anche quello della ricorrente nel giudizio a quo, che già aveva maturato 28 anni di anzianità – si produce l’azzeramento del compenso per le mansioni superiori, in quanto il trattamento complessivo in godimento è già pari o superiore a quello previsto come trattamento tabellare per la qualifica iniziale di DSGA.

Dal quadro appena delineato, si evince, ad avviso del giudice a quo, la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’affidamento in quanto la norma successiva viene ad “azzerare” il compenso pattuito dalla ricorrente con l’amministrazione per lo svolgimento delle mansioni superiori, adempimento che rimane comunque a carico della ricorrente anche in assenza di corrispettivo.

Esordisce la Corte affermando che il principio dell’affidamento, benché non espressamente menzionato in Costituzione, trova tutela all’interno di tale precetto tutte le volte in cui la legge ordinaria muti le regole che disciplinano il rapporto tra le parti come consensualmente stipulato; inoltre, è bene in proposito ricordare che, pur non potendosi escludere che il principio per cui il contratto ha forza di legge tra le parti (art. 1372 c.c.) possa subire limitazioni da fonte esterna, e quindi non necessariamente consensuali, non è consentito che la fonte normativa sopravvenuta incida irragionevolmente su un diritto acquisito attraverso un contratto regolarmente stipulato secondo la disciplina al momento vigente. SS



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Inserito in data 25/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2085

Sulla verifica del possesso dei requisiti in capo alla mandataria

Nel discostarsi dall’indirizzo giurisprudenziale precedente, che alla corrispondenza richiesta dall’art. 37, comma 13, cod. contratti pubblici (allora vigente) tra quote di partecipazione al raggruppamento e quote di esecuzione del contratto aveva aggiunto quello della corrispondenza anche tra queste quote e i requisiti di qualificazione posseduti da ciascuna impresa facente parte del raggruppamento, l’Adunanza plenaria, nella sentenza 30 gennaio 2014, n. 7, ha affermato che tale regola di elaborazione pretoria non è condivisibile perché:

«a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4 e 13 dell’articolo 37), che non consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa; b) in contrasto con la sistematica del codice (e del regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida alla legge di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41 – 45; c) si rileva, inoltre, che una siffatta opzione (volta a superare e, di fatto, integrare l’espressa previsione di legge – comma 13 dell’articolo 37 – la quale si limita ad imporre il parallelismo fra le quote di partecipazione e quelle esecuzione), determinerebbe in molti casi l’effetto di escludere dalle pubbliche gare raggruppamenti ai cui partecipanti sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di eccesso di qualificazione; l'approccio in questione si porrebbe in contrasto con i principi del favor partecipationis e della libertà giuridica di impresa, negando in radice la possibilità per taluni operatori economici (in particolare quelli maggiormente qualificati), di individuare in modo autonomo la configurazione organizzativa ottimale per partecipare alle pubbliche gare».

Quindi, dando atto delle modifiche apportate al citato art. 37, comma 13, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 di conversione del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, (“Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario”), con cui l’obbligo di corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione è stato espressamente limitato ai soli appalti pubblici di lavori, l’Adunanza plenaria ha affermato quanto segue: «per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa deve essere qualificata per la parte di prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella legge di gara».

La successiva pronuncia dell’Adunanza Plenaria 28 aprile 2014, n. 27 ha quindi ribadito che “negli appalti pubblici di servizi le imprese raggruppate hanno l’obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza che debba esservi la corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione (obbligo poi integralmente abrogato ad opera del d.l. n. 28 marzo 2014, n. 47 - “Misure urgenti per l'emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, conv. con legge 23 maggio 2014, n. 80). Nella pronuncia di nomofilachia in esame si è quindi precisato che ciascuna impresa del raggruppamento deve nondimeno essere qualificata per la parte di prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara” (in termini, da ultimo: Sez. V, 25 febbraio 2016, n. 786).

Pertanto, “per i raggruppamenti temporanei di impresa ciò cui occorre invece avere riguardo è se ciascun componente abbia o meno i requisiti necessari per eseguire le parti del contratto che ha dichiarato di assumere, in modo da fare acquisire all’amministrazione aggiudicatrice già in sede di gara la piena cognizione del soggetto che eseguirà le singole prestazioni del contratto medesimo e che se ne assumerà pertanto le conseguenti responsabilità, oltre che al fine di consentire alla stessa amministrazione di effettuare una compiuta verifica circa l’effettivo possesso dei requisiti dichiarati” (in questo senso: Sez. V, 25 febbraio 2016, n. 773).

Invero, nella sopra citata sentenza 30 gennaio 2014, n. 7, “l’Adunanza plenaria ha tra l’altro ricordato che il parallelismo fra le quote di partecipazione e quelle di esecuzione avrebbe effetti restrittivi della concorrenza, determinando la possibile esclusione dalle procedure di affidamento di raggruppamenti ai cui partecipanti «sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di eccesso di qualificazione».

Sennonché, “al fine di evitare restrizioni della concorrenza, impedendo ad imprese meno qualificate, ma comunque in misura sufficiente alla quota di esecuzione assunta a proprio carico, di assumere la qualità di mandatari di raggruppamenti temporanei a loro volta qualificati nel loro complesso, la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha offerto una lettura diversa delle citate disposizioni. In particolare, si è ripetutamente affermato al riguardo che il possesso dei requisiti di qualificazione in misura maggioritaria in capo alla mandataria va verificato in base alle quote di partecipazione di ciascuna impresa al raggruppamento e di esecuzione del contratto, e dunque a prescindere dai valori assoluti di classifica di ognuna delle altre” (Sez. III, 24 settembre 2013, n. 4711; Sez. V, 8 settembre 2012, n. 5120).

Pertanto, il Collegio dà continuità all’indirizzo giurisprudenziale richiamato, per le condivisibili motivazioni pro-concorrenziali su cui esso si fonda, e che trovano a posteriori piena conferma nell’attuale formulazione del citato art. 92, comma 2, d.p.r. 207 del 2010, come risultante dalle modifiche introdotte con il parimenti citato decreto legge n. 47 del 2014 (il quale prevede ora quanto segue: «i requisiti di qualificazione economico-finanziari e tecnico-organizzativi richiesti nel bando di gara per l’impresa singola devono essere posseduti dalla mandataria o da un’impresa consorziata nella misura minima del 40 per cento e la restante percentuale cumulativamente dalle mandanti o dalle altre imprese consorziate ciascuna nella misura minima del 10 per cento. Le quote di partecipazione al raggruppamento o consorzio, indicate in sede di offerta, possono essere liberamente stabilite entro i limiti consentiti dai requisiti di qualificazione posseduti dall’associato o dal consorziato. Nell’ambito dei propri requisiti posseduti, la mandataria in ogni caso assume, in sede di offerta, i requisiti in misura percentuale superiore rispetto a ciascuna delle mandanti con riferimento alla specifica gara»). EF

 



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Inserito in data 24/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 19 maggio 2016, n. 2090

Sui presupposti e le condizioni per l’emanazione di ordinanze contingibili ed urgenti

La questione posta al vaglio del Consiglio di Stato riguarda l’individuazione dei confini dell’articolo 54, comma 5, del TUEL secondo cui “il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, [anche] contingibili e urgenti nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana (…)”.

A tal proposito, la “giurisprudenza di questo Consiglio ha solitamente interpretato in modo piuttosto restrittivo i presupposti e le condizioni che legittimano l’esercizio del richiamato potere di ordinanza, avente carattere sostanzialmente extra ordinem”.

E’ stato affermato al riguardo che “il richiamato potere può essere attivato solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario” (in tal senso: Cons. Stato, VI, 13 giugno 2012, n. 3490).

E’ stato, altresì, chiarito che “il carattere eccezionale del richiamato potere comporta che il suo esercizio resti relegato alle sole ipotesi in cui risulta impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall'ordinamento giuridico: si tratta di un’ipotesi che non ricorre , di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono fronteggiare le medesime situazioni adottando i rimedi di carattere ordinario” (in tal senso: Cons. Stato, V, 20 febbraio 2012, n. 904).

Alla luce di quanto suddetto, è onere del Comune dimostrare il ricorrere dei presupposti che legittimano il ricorso al potere di ordinanza  di  cui al comma 4 dell’articolo 54 del TUEL. EF

 



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Inserito in data 23/05/2016
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II - 17 maggio 2016, n. 691

Affidamento in house e relazione tecnica

La fattispecie in esame trae origine dall’impugnazione proposta da una società a capitale misto pubblico-privato che gestisce i servizi di igiene ambientale avverso la deliberazione consiliare recante l’affidamento in house del servizio alla controinteressata, per la presunta violazione dell’art. 34 co. 20 del D.L. 179/2012, conv. in L. 221/2012, dell’art. 3-bis co. 1-bis del D.L. 138/2011 conv. in L. 148/2011 e modificato con L. 190/2014.
Preliminarmente, il Collegio vagliava l’eccezione, sollevata dalla controinteressata resistente, della presunta carenza di interesse della ricorrente all’impugnazione del provvedimento consiliare, tenuto conto che l’ente comunale non detiene partecipazioni presso la stessa.
In ordine all’esposto profilo, i giudici bresciani precisavano che, pur avendo l’amministrazione escluso l’opzione per il metodo della gara ad evidenza pubblica - mostrando di prediligere l’in house providing – ciò, in ogni caso, non preclude l’insorgere, in capo alla ricorrente, di un interesse strumentale a rimettere in discussione la vicenda.
Detta conclusione risultava altresì confermata da recente giurisprudenza amministrativa che, sul punto, aveva precisato che “anche ammettendo che la società non possieda i requisiti per un affidamento diretto, va comunque riconosciuto che essa, quale operatore del settore, ha interesse a che il servizio sia affidato mediante procedura di evidenza pubblica, in luogo dell'affidamento diretto alla controinteressata. Essa è, cioè, portatrice di un interesse strumentale qualificato e differenziato, a contestare davanti a questo Giudice una scelta che prescinde dallo svolgimento di una pubblica gara nella quale potrebbe far valere le proprie chances competitive”.
Venendo al merito della questione, il Collegio riteneva infondata la censura afferente una presunta violazione, da parte dell’Ente comunale, dell’art. 34 co. 20 del D.L. 179/2012 e succ. mod..
In particolare, premetteva che  il modello in house costituisce un modo di gestione ordinario dei servizi pubblici locali, alternativo rispetto all’affidamento mediante selezione pubblica, non invece un’eccezione alla regola.
Come recentemente anche affermato dalla giurisprudenza comunitaria, un'autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e può farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche, essendo venuto meno il principio della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
Proseguiva il TAR bresciano, precisando come “l'ordinamento non predilige né l' in house, né la piena espansione della concorrenza nel mercato e per il mercato e neppure il partenariato pubblico-privato, ma rimette la scelta concreta al singolo Ente affidante … In definitiva, i servizi pubblici locali di rilevanza economica possono essere gestiti indifferentemente mediante il mercato (ossia individuando, all'esito di una gara ad evidenza pubblica, il soggetto affidatario) ovvero attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una Società mista e quindi con una "gara a doppio oggetto" per la scelta del socio e per la gestione del servizio), ovvero attraverso l'affidamento diretto, in house ».
La stessa Sezione, di recente, aveva affermato la piena discrezionalità della scelta, espressa da un ente locale nel senso di rendere un dato servizio con una certa modalità organizzativa piuttosto che un'altra, sindacabile nella presente sede giurisdizionale nei soli casi di illogicità manifesta ovvero di altrettanto manifesto travisamento dei fatti.
In particolare – precisava il Collegio - la relazione tecnica che supporta la scelta comunale di operare mediante affidamento in house  è finalizzata a rendere trasparenti e conoscibili agli interessati tanto le operazioni di riscontro delle caratteristiche che fanno dell'affidataria una società in house, quanto il processo d’individuazione del modello più efficiente ed economico alla luce di una valutazione comparativa di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti.
Nella fattispecie, la scelta dell’Amministrazione di affidare “in house” il servizio risultava giustificata da una dettagliata ed esaustiva relazione, dalla quale apparivano chiaramente evincibili le ragioni di convenienza economica di tale modalità di affidamento, con la conseguenza che risultavano pienamente riscontrabili i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale affinché possa legittimamente disporsi l’affidamento in house del servizio. MB


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Inserito in data 20/05/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III QUATER, 17 maggio 2016, n. 5859

Testimonial per pubblicizzare dispositivi medici

Nella pronuncia in epigrafe, il T.A.R. capitolino è intervenuto in ordine all’interpretazione dell’art. 117, lett. f) del d.lgs. n°219/2006, a tenore del quale la pubblicità presso il pubblico di un dispositivo medico non può contenere alcun elemento che “comprende una raccomandazione di scienziati, di operatori sanitari o di persone largamente note al pubblico”.
Nella fattispecie portata all’attenzione dei giudici romani, la casa farmaceutica ricorrente aveva impugnato la determinazione con la quale il Ministero della Salute aveva espresso il diniego avverso l’utilizzo, nella campagna pubblicitaria di un prodotto farmaceutico, dell’immagine di un famoso nuotatore come testimonial.
In particolare, il Ministero, impropriamente richiamando una precedente pronuncia del T.A.R. Lazio (n° 219/2006), aveva motivato il proprio diniego, rappresentando che la raccomandazione di una persona largamente nota al pubblico presupponga “un ruolo attivo del suddetto personaggio, concretizzantesi in una funzione di accreditamento del prodotto e nel conseguente invito ad acquistarlo che va oltre la mera presenza fisica”.
Tuttavia - hanno rilevato i giudici amministrativi con la pronuncia in esame – la motivazione addotta a base del provvedimento non sembrerebbe confacente ai contenuti pubblicitari preclusi dal citato art. 117 del d.lgs. n. 219/2006, che, nel vietare un messaggio pubblicitario contenente la raccomandazione di una persona largamente nota al pubblico, “presuppone un ruolo attivo del suddetto personaggio”, in grado di rappresentare causa di incitamento al consumo del prodotto sanitario.
Oltretutto – ha ulteriormente precisato il T.A.R. – detto ruolo non può ritenersi affatto individuato “nella mera presenza del personaggio famoso nel messaggio pubblicitario, in assenza di alcuna manifestazione di preferenza, sia pure implicita, da parte del suddetto personaggio per l'utilizzo del dispositivo medico”.
Atteso che, nel caso di specie, l’immagine del testimonial prescelto non costituirebbe manifestazione, sia pure implicita, per l’utilizzo del dispositivo medico, i giudici romani hanno ritenuto di accogliere il ricorso. MB


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Inserito in data 19/05/2016
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II - 16 maggio 2016, n. 1229

Interventi abusivi in zone sottoposte a vincolo paesaggistico

In questa importante pronuncia i giudici del Tar Salerno hanno preso posizione sulla dibattuta questione concernente la natura della norma di cui all’art. 146, comma 10 lett. c) d.lgs. 42/2004 che vieta l’autorizzazione in sanatoria dopo la realizzazione, anche parziale, di intervento edilizio abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.

In particolare, con un unico motivo di ricorso, il ricorrente deduceva la inapplicabilità, alla fattispecie in esame, del divieto di cui all’art. 146 comma 10 lett. c) atteso che l’art. 146 (nel testo originario prima delle modifiche introdotte nel 2006) costituirebbe norma a regime, non applicabile nel periodo transitorio.

Il Tar afferma sul punto che non ignora l’esistenza di un orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 159 dello stesso d.lgs. 42/2004 subordinerebbe l’entrata in vigore della disciplina dettata dall’art. 146 all’approvazione dei piani paesistici ai sensi dell’art. 156 e al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici, “prevedendo l'applicazione della più rigorosa disciplina soltanto a seguito della costruzione di un quadro certo”, tuttavia, ritiene preferibile una diversa interpretazione delle disposizioni normative indicate.

Al riguardo, infatti, i giudici sostengono la tesi dell’immediata applicazione dell’art. 146 alla luce della natura meramente procedurale della disciplina transitoria non idonea a spiegare alcuna interferenza sui profili sostanziali e sulla connotazione dell’autorizzazione quale provvedimento necessariamente anteriore alla realizzazione dell’opera.

Lo stesso art. 159, del resto – afferma conclusivamente il Collegio – nel ribadire la preclusione all’avvio dei lavori in difetto di autorizzazione paesaggistica, sostanzialmente finisce col confermare il divieto di autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria, cosicché apparirebbe del tutto contraddittoria una opzione ermeneutica che, postergando l’operatività del divieto al termine della fase transitoria, finirebbe per tradire la ragione giustificatrice propria dell’introduzione del divieto. SS 



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Inserito in data 18/05/2016
TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. II - 17 maggio 2016, n. 1211

Commissione gara d’appalto e contraddittorio

Il Tar Palermo, nella sentenza in esame, si è pronunciato sulla composizione della commissione di gara d’appalto in caso di riconvocazione della stessa per rinnovazione del procedimento a seguito dell’annullamento dell’esclusione di un raggruppamento temporaneo di imprese concorrente.

In particolare, l’RTI ricorrente chiedeva l’annullamento del provvedimento con il quale era stata disposta la sua esclusione dalla gara in quanto esso era stato emesso in violazione dell’art. 84, comma 4 e 12 d.lgs. 163/2006 nella parte in cui dispone che “in caso di rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell’aggiudicazione o annullamento dell’esclusione di taluno dei concorrenti, è riconvocata la medesima commissione” e che “i commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta”.

Inoltre, ad avviso del ricorrente, il provvedimento era stato emesso in assenza di contraddittorio e, per tale motivo, in violazione dell’art. 88, comma 4 nella parte in cui impone alla stazione appaltante, prima di escludere l’offerta, di “convocare l’offerente con un anticipo non inferiore a tre giorni lavorativi e di invitarlo ad indicare ogni elemento che ritenga utile”.

Afferma il Tar che il ricorso non è meritevole di accoglimento: in relazione al primo profilo, infatti, la regola dettata dall’art. 84, comma 12 d.lgs. 163/2006 trova un naturale limite nello scioglimento del rapporto di lavoro tra l’Amministrazione ed uno o più componenti della commissione, verificatosi il quale deve procedersi alla relativa sostituzione, ferma restando la determinazione dell’Amministrazione di continuare il rapporto con il medesimo soggetto ove eventualmente previsto e consentito dalla disciplina di settore e dalle norme di finanza pubblica.

Così, nel caso di specie, lo scioglimento del rapporto di lavoro che intercorreva tra l’Amministrazione ed uno dei due componenti diversi dal Presidente imponeva la sostituzione dello stesso nella commissione di gara, considerato che lo svolgimento di tali funzioni costituiva esercizio degli obblighi contrattuali che lo legavano all’Amministrazione.

Allo stesso modo, l’attribuzione al secondo componente (diverso dal Presidente) di funzioni in via esclusiva alle dipendenze dell’Assessore regionale non rendeva ammissibile la prosecuzione dell’incarico di commissario in quanto incompatibile.

Sul piano dell’asserita assenza di contraddittorio – continuano i giudici del Tar Palermo – la condotta dell’Amministrazione va giudicata conforme allo schema legale di cui all’art. 88, comma 4 d.lgs. 163/2006: sul punto, infatti, deve essere ricordato che, nel caso di specie, la caducazione in sede giurisdizionale dell’esclusione già disposta dall’Amministrazione è originariamente avvenuta, con la sentenza di questo Tribunale, in accoglimento della censura per vizio di incompetenza, e che tale vizio è stato successivamente ritenuto insussistente dal Giudice d’appello il quale ha, tuttavia, ritenuto sussistente la violazione dell’art. 88, comma 4 nella parte in cui la disposizione prevede che «prima di escludere l’offerta, ritenuta eccessivamente bassa, la stazione appaltante convochi l'offerente e lo inviti a indicare ogni elemento che ritenga utile».

Ciò precisato, ritiene il Tar che il provvedimento di esclusione così come rinnovato e qui impugnato si mostra in linea con lo schema procedimentale tracciato dal predetto art. 88, comma 4, considerato che l’Amministrazione ha consentito al RTI ricorrente di interloquire in relazione alle questioni prospettate, né possono trovare ingresso censure involgenti l’eventuale omissione dei passaggi procedimentali richiamati nei commi precedenti della stessa disposizione, considerato che la pronuncia del Giudice d’appello non ha rimosso le prodromiche (all’esclusione) precedenti valutazioni della commissione, pur originariamente caducate per vizio di incompetenza, e la commissione era obbligata a porre in essere unicamente il segmento procedimentale di cui al medesimo comma 4. SS


 

 



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Inserito in data 17/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 5 maggio 2016, n. 1808

Responsabilità della P.A. per culpa in eligendo ed in vigilando e giurisdizione del G.O.

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada affermano che nell’ipotesi della culpa in eligendo o in vigilando, “la responsabilità attribuita all’amministrazione non discende dalla illegittimità dell’atto adottato, ma attiene al più generale comportamento del funzionario (legato da rapporto di servizio o di ufficio), il cui comportamento illecito eventualmente causativo di danno a privati, pur svoltosi in cesura di rapporto organico (proprio perché penalmente illecito), avrebbe tuttavia potuto essere evitato attraverso un diligente esercizio del potere di scelta (recte: di preposizione organica), ovvero di vigilanza sull’operato del medesimo funzionario”.

Infatti, tali forme di responsabilità si riferiscono “entrambe ad un vizio afferente al corretto rapporto tra persona giuridica pubblica e soggetto che per essa agisce, stante il rapporto organico, e dell’agire del quale l’amministrazione è chiamata a rispondere non già perché responsabile delle conseguenze lesive dell’atto adottato, non essendo ad essa imputabili eventuali effetti derivanti dall’attività o comportamento penalmente illecito, stante l’intervenuta cesura del rapporto organico (il che, ove al contrario fosse, comporterebbe una responsabilità risarcitoria in solido con l’autore del fatto-reato), quanto una responsabilità distinta, fondata su elementi diversi: non già sull’azione o omissione illecita causativa di danno, quanto su un (distinto) comportamento cui si sarebbe stati tenuti e che, in difetto, determina una (distinta) responsabilità”.

La responsabilità, dunque, “non discende dall’atto amministrativo adottato, ma da un suo più generale comportamento negligente, dal quale si afferma essere derivato un danno al privato.

In conclusione, deve ritenersi che “tale affermazione di responsabilità consegue alla individuazione di un danno che, lungi dal discendere come conseguenza diretta da un provvedimento amministrativo lesivo di interessi legittimi (o dalla mancata o ritardata adozione di tale atto), con ciò radicando la giurisdizione del giudice amministrativo (Cass., sez. un., 22 gennaio 2015 n. 1162), discende invece dall’accertamento di un generale comportamento negligente e/o omissivo della pubblica amministrazione in sede di controllo sugli organi, lesivo del principio del neminem ledere, e del tutto prescindente dall’esercizio di un potere amministrativo ovvero dal mancato esercizio di un potere amministrativo obbligatorio (ex art. 30, co. 2) concretizzantesi (o meno) in una adozione di provvedimento amministrativo illegittimo”. EF



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Inserito in data 16/05/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 10 maggio 2016, n. 9449

Responsabilità per danni da infiltrazioni provenienti da lastrico solare

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite sono intervenute in tema di riparto della responsabilità dei danni provocati da infiltrazioni provenienti dal lastrico solare (avente funzione di copertura di un edificio), attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini.

Sulla medesima questione si erano già pronunciate, con la sentenza n. 2672 del 1997, le stesse Sezioni Unite, affermando che “poiché il lastrico solare dell’edificio svolge la funzione di copertura del fabbricato, anche se appartiene in proprietà superficiaria o se è attribuito in uso esclusivo ad uno dei condomini, all’obbligo di provvedere alla sua riparazione sono tenuti tutti i condomini, in concorso con il proprietario superficiario o con il titolare del diritto d’uso esclusivo”.

Gli Ermellini, nella citata sentenza, concludevano precisando che “dei danni cagionati all’appartamento sottostante, per le infiltrazioni provenienti dal lastrico, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono tutti gli obbligati inadempienti alla funzione di conservazione, secondo le proporzioni stabilite dall’art. 1126 c.c., vale a dire i condomini in proporzione dei due terzi ed il titolare della proprietà superficiaria o dell’uso esclusivo, nella misura del terzo residuo”.

In particolare, nella richiamata pronuncia, le Sezioni Unite avevano ritenuto che la responsabilità per danni dovesse ricollegarsi, piuttosto che al precetto di cui all’art. 2051 c.c. – e quindi al generale principio del neminem laedere – direttamente alla titolarità del diritto reale e, sulla scorta di tale interpretazione, avevano scomodato il concetto di obbligazione  propter rem.

La giurisprudenza più recente – come opportunamente osservato dalla Corte rimettente – non si è conformata al principio espresso nella sentenza 2672/1997, diversamente riconducendo la questione all’ambito di applicazione dell’art. 2051 c.c. In particolare si è ritenuto che il condominio di un edificio, quale custode dei beni e servizi comuni, risponda, in base al disposto dell’art. 2051 c.c., dei danni  cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini.

Sul solco interpretativo tracciato dalla più recente giurisprudenza, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la pronuncia in epigrafe, hanno affermato che: “è innegabile che chi ha l’uso esclusivo del lastrico solare si trovi in rapporto alla copertura dell’edificio condominiale in una posizione del tutto specifica (..) con il conseguente insorgere a suo carico, di una responsabilità ex art. 2051 c.c. (..). Il che implica la chiara natura extracontrattuale della responsabilità da porre in capo al titolare dell’uso esclusivo del lastrico e, per la natura comune del bene, dello stesso condominio”.

In tal senso – proseguono le S.U. – “deve escludersi la natura obbligatoria, sia pure della specifica qualificazione di obbligazione propter rem, del danno cagionato dalle infiltrazioni provenienti dal lastrico solare e deve affermarsi la riconducibilità della detta responsabilità nell’ambito dell’illecito aquiliano”.

Risultano, pertanto, chiare le diverse posizioni del titolare dell’uso esclusivo – tenuto agli obblighi di custodia ex art. 2051 c.c., poiché in rapporto diretto con il bene potenzialmente dannoso non sottoposto alla necessaria manutenzione – e del condominio – tenuto, ex artt. 1130, 1° co., n. 4, e 1135, 1°co., n.4, c.c. a compiere gli atti conservativi e le opere di manutenzione straordinaria relativi alle parti comuni dell’edificio.

Quindi, le S.U., con un ripensamento rispetto all’orientamento in precedenza espresso, hanno affermato il seguente principio di diritto: “in tema di condominio negli edifici, allorquando l’uso esclusivo del lastrico solare non sia comune a tutti i condomini, dei danni che derivino da infiltrazioni nell’appartamento sottostante rispondono sia il proprietario o l’usuario esclusivo del lastrico solare, in quanto custode del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c., sia il condominio, in quanto la funzione di copertura dell’intero edificio,  o di parte di esso, ancorché di proprietà esclusiva o in uso esclusivo, impone all’amministratore l’adozione dei controlli necessari alla conservazione delle parti comuni e all’assemblea dei condomini di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria. Il concorso di responsabilità, salva la rigorosa prova contraria della riferibilità del danno all’uno o all’altro, va di regola stabilito secondo il criterio di imputazione previsto dall’art. 1126 c.c., il quale pone le spese di riparazione per un terzo a carico del proprietario o dell’usuario esclusivo del lastrico e per i restanti due terzi a carico del condominio”. MB 



Inserito in data 16/05/2016
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 13 maggio 2016, n. 1169

Lista elettorale: moduli spillati

 La vicenda de qua trae origine dall’impugnazione del provvedimento con il quale la Sottocommissione Elettorale Circondariale aveva comunicato l’esclusione della lista dalla competizione elettorale.

In sostanza – secondo la prospettazione contenuta nell’impugnato provvedimento - i prospetti contenenti le firme dei sottoscrittori di lista risultavano formalmente distinti (“incoerenti”), sia rispetto all’atto principale, considerato privo di ogni valida sottoscrizione, sia rispetto agli atti separati, semplicemente “spillati” gli uni agli altri, senza l’apposizione di alcun timbro o di altra forma di congiunzione tra gli stessi.

Ed invero, ai sensi dell’art. 28, co. 2, e dell’art. 32, co. 3, del T. U. 570/1960: “i sottoscrittori debbono essere elettori iscritti nelle liste del comune e la loro firma deve essere apposta su appositi moduli recanti il contrassegno della lista, il nome, cognome, data e luogo di nascita di tutti i candidati, nonché il nome, cognome, data e luogo di nascita dei sottoscrittori stessi; le firme devono essere autenticate da uno dei soggetti di cui all’art. 14 della legge 21 marzo 1990, n. 53”.

 Il Collegio campano evidenzia come la finalità cui è rivolta la richiamata disposizione legislativa consiste nel fatto che “non deve sussistere alcuna incertezza sul fatto che le sottoscrizioni dei presentatori di lista siano volte a sostenere proprio una determinata lista”.

Quindi, secondo una prospettiva “sostanzialistica”, il Collegio ha ritenuto che vada seguito, nella specie, l’indirizzo giurisprudenziale efficacemente compendiato nella massima infra riportata: “le norme di cui agli artt. 28, 32 e 33, d. P. R. 16 maggio 1960 n. 570, che disciplinano la raccolta delle firme per la presentazione delle liste elettorali, non contengono prescrizioni dettagliate quanto alle modalità da seguire e, soprattutto, alle conseguenze sul piano sanzionatorio di eventuali irregolarità, non potendosi pertanto inquadrare i relativi adempimenti formali nella categoria giuridica delle c.d. “forme sostanziali” e dovendosi piuttosto fare applicazione del principio di “strumentalità delle forme” nel procedimento elettorale”.

Quindi - ha osservato il Collegio - il principio è finalizzato ad assicurare che i sottoscrittori abbiano piena consapevolezza della lista che si accingono a presentare e della sua effettiva composizione; purtuttavia tale scopo deve ritenersi similmente raggiunto anche qualora, pur in assenza della materiale incorporazione del contrassegno, in modo stabile ed indissolubile, nel documento di presentazione, sia nondimeno acclarata la piena consapevolezza dei firmatari in merito alla riferibilità della sottoscrizione ad una determinata lista con una specifica composizione.

Nel fattispecie, detta finalità risulta assicurata dalla convergenza di una serie di elementi che, unitamente letti,  acclarano la piena consapevolezza dei firmatari circa la riferibilità delle loro sottoscrizioni a sostegno della lista prescelta. MB



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Inserito in data 13/05/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 maggio 2016, n. 9142

Legge Pinto e verifica del nesso tra cognizione ed esecuzione nella fattispecie concreta

La questione posta al vaglio delle Sezioni Unite attiene alla “compatibilità tra la struttura del procedimento ”Pinto” (nella formulazione anteriore alla novella introdotto con il decreto legge  n. 83/2012, convertito nella legge  n. 134/2012) con i principi di derivazione convenzionale –CEDU- in merito alla qualificazione funzionale della nozione di “decisione definitiva”: in particolare costituisce oggetto di scrutinio il verificare se la disciplina statuale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba in generale riferirsi all’esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) o se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo l’irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della definitività del giudizio come sopra indicato non trovi un limite nel maturarsi, tra una “fase” e l’altra, del termine semestrale previsto dall’art. 4 della originaria formulazione della legge 89 del 2001”.

A tal uopo, il Supremo Consesso ha ritenuto che “a seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in “fasi”: se la parte lascia decorrere un termine rilevante – che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall’art. 4 della legge n. 89 del 2001- dal momento oltre il quale un procedimento diventa irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata (durata) anche di quel procedimento; se invece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all’esecuzione, allora non si forma la sopra indicata soluzione di continuità nel procedimento finalisticamente considerato come un unicum e dunque può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva ingiustificata durata (per un’applicazione di tale approccio interpretativo, sia pure nella prospettiva di un rimedio straordinario di impugnazione, quale la revocazione nell’ambito del giudizio pensionistico innanzi alla Corte di Conti, vedi Cass., Sez. V-2 n. 25179/2015): in tale ipotesi dunque deve ritenersi che riprenda vigore la decadenza prevista dall’art. 4 della legge, con la conseguenza della perdita del diritto di far valere l’eventuale durata non ragionevole del procedimento di cognizione: detta preclusione, va aggiunto, non presuppone una presunzione di disinteresse a far valere l’indebita durata del processo di cognizione, atteso che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 4 della legge n. 89/2001 è posto a tutela dell’interesse allo stabilizzarsi delle situazioni giuridiche, le volte in cui esse possano essere in sé suscettibili di valutazione a fini indennitari”.

Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che “l’art. 4 della legge n. 89 del 2001, nella formulazione anteriore alla modifica del 2012, allorquando stabilisce la decadenza dal diritto all’indennizzo per inosservanza del termine ultrasemestrale, presuppone una valutazione normativa di come si articola il nesso tra cognizione ed esecuzione nella concreta fattispecie, esaminandolo nella prospettiva dell’azione e non già del diritto: prospettiva del tutto legittima, le volte in cui con essa non si creino degli irragionevoli ostacoli alla realizzazione del secondo; un diverso approccio interpretativo – che impedisse ogni valutazione della condotta delle parti tenuta tra la irrevocabilità del procedimento di cognizione e quello di esecuzione, oltre a portare le premesse di una irragionevole eliminazione dall’ordinamento nazionale di un meccanismo acceleratorio della definizione del contenzioso “Pinto” – meccanismo non sconosciuto alla CEDU, come dimostra la lettura dell’art. 41 della Convenzione- porrebbe le basi per un uso abusivo del diritto, … (omissis), le volte in cui il periodo tra la fase di cognizione e quella di esecuzione fosse maggiore di sei mesi, tenuto anche conto della possibilità di far valere la lesione del diritto ad una celere realizzazione della propria posizione soggettiva entro il termine decennale del giudicato”. EF

 




Inserito in data 12/05/2016
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 6 maggio 2016, n. 100

Ancora sull’acquisizione sanante: manifesta inammissibilità della q.l.c. sollevata

La Corte Costituzionale, con l’ordinanza in questione, torna a pronunciarsi sull’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 in materia di cd. acquisizione sanante dichiarando questa volta la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar Lazio.

Il Tar rimettente, in particolare, censurava la disposizione impugnata per violazione degli artt. 3, 24, 42, 97 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, in quanto, in primo luogo, essa riserverebbe un trattamento privilegiato alla p.a. che abbia commesso un fatto illecito, con l’attribuzione della facoltà di mutare il titolo e l’ambito della responsabilità, nonché il tipo di sanzione (da risarcimento in indennizzo) stabiliti in via generale dal precetto del neminem laedere; in secondo luogo, essa eluderebbe il fondamentale presupposto per procedere al trasferimento coattivo di un immobile mediante espropriazione, ossia la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera; in terzo luogo, essa sarebbe un’ipotesi di trasferimento della proprietà del bene dal privato alla pubblica amministrazione in virtù della constatazione della situazione di illegalità o illiceità commessa dalla stessa amministrazione, ipotesi più volte ritenuta dalla Corte EDU in contrasto con la CEDU.

Afferma la Corte che identiche questioni a quella prospettata dal giudice a quo sono state oggetto di un’altra pronuncia della stessa Corte (sentenza n. 71 del 2015) in cui quest’ultima ne ha dichiarato l’infondatezza.

Stavolta il giudizio si ferma prima in quanto i Giudici della Legge ritengono che l’ordinanza di rimessione esibisca un evidente difetto di rilevanza, non essendo stato emanato, nel giudizio a quo, alcun provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni.

Infatti – continua la Corte – il TAR rimettente ha affermato che dovrebbe limitarsi a ordinare alla resistente pubblica amministrazione di procedere alla restituzione alla parte ricorrente delle aree illegittimamente occupate, previa riduzione in pristino, e a risarcire il danno, e che, tuttavia, l’amministrazione potrebbe “paralizzare tale pronuncia mediante l’adozione del provvedimento con cui disporre l’acquisto ex nunc del bene al suo patrimonio indisponibile, con corresponsione al proprietario di un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito”.

A ben vedere, dunque, dalla stessa descrizione della fattispecie concreta esposta dal giudice a quo, risulta che l’emanazione del provvedimento ex art. 42-bis del T.U. sulle espropriazioni costituisce circostanza solo eventuale, non realizzatasi al momento dell’emissione dell’ordinanza di rimessione, il che esclude la necessità di fare applicazione, nel caso in esame, della norma sospettata di incostituzionalità.

Ne consegue conclusivamente, ad avviso dei giudici, che le sollevate questioni di costituzionalità in riferimento al citato art. 42-bis devono essere dichiarate manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza. SS

 



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Inserito in data 11/05/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 6 maggio 2016, n. 94

Arresto per inosservanza di misure di prevenzione nei confronti di tossicodipendenti: illegittimità

Nella sentenza in esame, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’art. 4 quater del d.l. 272/2005 (recante disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti), come convertito dall’art. 1, comma 1 l. 49/2006 nella parte in cui ha introdotto, esclusivamente in sede di conversione, l’art. 75 bis del D.P.R. 309/1990 che, al comma 6, ha previsto una contravvenzione per l’inosservanza di misure di prevenzione nei confronti di tossicodipendenti.

In particolare, secondo il Tribunale rimettente, la disposizione censurata difetterebbe del requisito di omogeneità rispetto alle norme contenute nell’originario d.l., così violando l’art. 77, comma 2 Cost., analogamente, peraltro, a quanto già ritenuto dalla Corte costituzionale in relazione agli artt. 4-bis e 4-vicies ter del medesimo d.l. n. 272/2005, che per questa ragione li ha dichiarati illegittimi con sentenza n. 32 del 2014.

In via subordinata, il giudice a quo ha anche ritenuto che, ove non venisse accolta la censura principale, in ogni caso difetterebbero i presupposti della straordinaria necessità e urgenza di provvedere, stabiliti dal medesimo art. 77, comma 2 Cost. che, pertanto, dovrebbe ritenersi violato anche sotto questo ulteriore profilo.

La Corte, dal canto suo, in punto di determinazione del thema decidendum, rileva che il contenuto normativo della disposizione impugnata è rappresentato dall’inestricabile collegamento tra la previsione di particolari misure di prevenzione nei confronti di persone tossicodipendenti e di una contravvenzione per il caso della loro inosservanza, da cui consegue che l’oggetto della questione di legittimità costituzionale sia costituito dal citato art. 4-quater nella sua integralità.

Precisa la Corte che l’art. 4 dell’originario decreto legge (concernente il recupero dei tossicodipendenti detenuti) contiene norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza; diversamente, la disposizione di cui all’art. 4-quater, oggetto del presente giudizio e introdotta dalla legge di conversione, prevede anche norme a carattere sostanziale, del tutto svincolate da finalità di recupero del tossicodipendente, ma piuttosto orientate a finalità di prevenzione di pericoli per la sicurezza pubblica.

Pertanto, ad avviso della Corte, l’esame del contenuto della disposizione impugnata denota la palese estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite, in modo da evidenziare, sotto questo profilo, una violazione dell’art. 77, comma 2 Cost. per difetto del necessario requisito dell’omogeneità, in assenza di qualsivoglia nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte, con emendamento, in fase di conversione: ne consegue la necessità di dichiararne la illegittimità costituzionale. SS

 

 



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Inserito in data 11/05/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 6 maggio 2016, n. 9140

Sulla validità e meritevolezza della clausola claims made mista o impura

Con la pronuncia indicata in epigrafe, il Supremo Consesso esprime i seguenti principi di diritto: “Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola claims made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata”. EF

 




Inserito in data 10/05/2016
CONSIGLIO DI STATO- SEZ. VI, 6 maggio 2016, n. 1835

Diritto di accesso ai verbali contenenti dichiarazioni rese in sede ispettiva

Con la pronuncia in epigrafe, i giudici della VI Sezione hanno accolto il ricorso proposto per la riforma della sentenza resa dal T.A.R. Umbria – Perugia concernete il diniego di accesso ai documenti relativi alle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva.

Nella fattispecie – ha precisato il Collegio – non troverebbe applicazione il principio di diritto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 863 del 2014, poiché risulta documentata l’interruzione del rapporto di lavoro tra i lavoratori che hanno reso le dichiarazioni raccolte in sede ispettiva e la società, odierna ricorrente, che ha chiesto l’accesso ai relativi verbali.

Pertanto, non esistendo più, nel caso di specie, un rapporto di lavoro in atto, in siffatto contesto – hanno osservato i giudici di Palazzo Spada – non risulterebbe giustificato invocare la prevalenza delle esigenze di riservatezza del lavoratore rispetto al diritto di difesa di chi ha presentato la richiesta di accesso ai verbali.

In particolare, detta prevalenza “non può fondarsi né sul d.m. 757/1994 (atteso che l’art. 3 del medesimo d.m. nel disciplinare la durata del divieto di accesso lo delimita finché perduri il rapporto di lavoro), né sull’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, che pure si applica, come emerge dal suo tenore letterale, o in fase di assunzione o durante o svolgimento del rapporto di lavoro, ma non quando esso sia cessato”.

L’assenza di un rapporto di lavoro attuale rende, quindi, “il bilanciamento tra accesso e riservatezza sottoposto alla regola generale desumibile dall’art. 24, comma 7, legge n. 241 del 1990 che segna la prevalenza dell’accesso strumentale all’esercizio del diritto di difesa”, tanto più che, nel caso de quo, non vengono neppure in rilievo dati sensibili o giudiziari, ma semplicemente dati personali.

Sulla scorta delle esposte motivazioni, i giudici della VI Sezione del Consiglio di Stato hanno, pertanto, ritenuto fondato il ricorso e, per l’effetto, hanno disposto l’ostensione della richiesta documentazione senza oscuramenti. MB 

 



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Inserito in data 09/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 5 maggio 2016, n. 1824

Indicazione dei costi esterni di sicurezza: provvede la Stazione Appaltante

Il Collegio, con la pronuncia n. 1824 del 5 maggio 2016, ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto per la revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 5070/2015, con la quale il Consorzio ricorrente aveva, in particolare, eccepito che l’offerta della aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa poiché – a suo avviso - incerta ed ambigua, attesa la mancata indicazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, non soggetti a ribasso.

Preliminarmente, i Giudici della V Sezione hanno precisato, in punto di diritto, che l'errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 n. 4, c.p.c., deve rispondere a tre requisiti: a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso, ovvero inesistente un fatto documentale provato; b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa.

Quindi – ha ulteriormente chiarito il Collegio – “mentre l'errore di fatto revocatorio è configurabile nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale (…) esso, invece, non ricorre nell'ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio”.

Sulla scorta degli illustrati principi di diritto, la V Sezione ha ritenuto non sussistenti, nel caso di specie, gli elementi tipici dell'errore di fatto che giustificano e legittimano la proposizione del ricorso per revocazione.

Ciò premesso, con riguardo segnatamente all’eccepita esclusione dell’offerta dell’aggiudicataria a fronte della mancata indicazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, il Collegio ha ritenuto infondato il motivo di gravame, condividendo quanto già rilevato sul punto ed argomentato dalla stessa Sezione nella impugnata sentenza.

Non vi è infatti alcuna norma  - ha precisato il Collegio - né nella disciplina positiva, né nella specifica lex specialis, che imponga ai concorrenti (tantomeno, a pena di esclusione) di riprodurre nella loro offerta la quantificazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni, già effettuata dall’Amministrazione.

Ed invero, contrariamente a quanto vale per gli oneri c.d. interni o aziendali, la determinazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni compete alla Stazione appaltante che vi procede impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle loro offerte.

Le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben scolpite dalla stessa Adunanza Plenaria) – ha precisato il Collegio - escludono che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri aziendali, i quali sono appunto loro individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri c.d. esterni, giacché la definizione di questi ultimi compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura”.

Lo stesso art. 86, comma 3-bis, d.lgs. n. 163/2006 – ha ulteriormente chiarito il Collegio - ove stabilisce che il “costo relativo alla sicurezza” debba essere “specificamente indicato”, si rivolge, al tempo stesso: “per gli oneri c.d. esterni, alla Stazione appaltante, che chiama appunto a provvedere a siffatta indicazione in occasione della predisposizione della gara d’appalto; per gli oneri c.d. interni, alle singole concorrenti in sede di offerta”.

In conclusione – si legge nella sentenza in epigrafe – “non può condividersi la tesi che l’omessa riproduzione dell’importo degli oneri di questo secondo tipo da parte degli offerenti possa generare di per sé un’indeterminatezza dell’offerta, o farne venir meno un elemento essenziale (..) dal momento che è la lex specialis a stabilire, quantificando gli oneri di sicurezza c.d. esterni, il valore economico rispetto al quale, di riflesso, i ribassi di gara verranno ammessi”. MB 


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Inserito in data 07/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 6 maggio 2016, n. 1827

Interpretazione della volontà dell’impresa e principio d’immodificabilità dell’offerta

Punctum pruriens della controversia posta al vaglio del Consesso è l’individuazione del concreto contenuto di un’offerta e della reale volontà di un concorrente, al fine di stabilire se queste risultino conformi al bando di gara, il quale richiedeva l’indicazione di un unico prezzo (indifferenziato) per tutti i prodotti.

A tal proposito, va osservato che “nella materia degli appalti pubblici vige il principio generale della immodificabilità dell’offerta, che è regola posta a tutela della imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, nonché ad ineludibile tutela del principio della concorrenza e della parità di trattamento tra gli operatori economici che prendono parte alla procedura concorsuale”.

La costante giurisprudenza di questo Consiglio (cfr., ex multis, sez. V, 1-8-2015 n. 3769; 27-4-2015, n. 2082; sez. III, 21-10-2014, n. 5196; 27-3-2014, n. 1487), infatti, afferma “che nelle gare pubbliche è ammissibile una attività interpretativa della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta, purchè si giunga ad esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essi assunti; evidenziandosi, altresì, che le offerte, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l’effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente”.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, i Giudici di Palazzo Spada ritengono che l’indicazione di prezzi differenziati per ciascun prodotto sia indicativa del fatto che il concorrente non abbia inteso offrire un prezzo unico. EF

 



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Inserito in data 06/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 4 maggio 2016, n. 1757

Verificazione e presenza di un rappresentante della P.A.

Con la pronuncia in esame, il Consesso ritiene che “per le caratteristiche proprie della verificazione, la presenza di un rappresentante dell’amministrazione non va intesa alla stregua della presenza del <<tecnico>> o del <<difensore di parte>> “.

Infatti, “la verificazione è mezzo di prova che nel processo amministrativo consente al giudice di richiedere gli opportuni chiarimenti, oltre che ad una amministrazione “terza”, anche alla stessa amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato, senza che ciò implichi violazione del principio di terzietà, del diritto di difesa e del contraddittorio, in quanto l'onere istruttorio viene diretto all'amministrazione in quanto “Autorità pubblica” che, in tale specifica qualità, deve collaborare con il giudice al fine di accertare la verità dei fatti (Consiglio di Stato, sez. VI, 26/03/2013, n. 1671; sez. IV, 19/02/2007, n. 881)”.

Pertanto, “la presenza del rappresentante dell’Amministrazione, (omissis), non contrasta con le caratteristiche del mezzo di prova, come sopra delineate, ove non sia dimostrato un diverso ruolo “inquinante” nell’espletamento dell’istruttoria da parte del predetto rappresentante, di tale consistenza da potersi configurare il vizio di sviamento di potere nell’attività discrezionale valutativa della Commissione”. EF 


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Inserito in data 05/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 4 maggio 2015, n. 1755

Deve assicurarsi il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio dal Giudice

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada affermano che: “costituisce violazione del diritto di difesa, rilevabile d'ufficio, per violazione dell’art. 73 comma 3, del c.p.a., l’essere stata posta a fondamento della sentenza di primo grado una questione rilevata d'ufficio, ma senza previa indicazione in udienza o assegnazione di un termine per controdedurre al riguardo, con conseguente obbligo per il giudice di appello di annullamento della sentenza stessa e rimessione della causa al giudice di primo grado ai sensi dell'art. 105 comma 1, c.p.a.” (Consiglio di Stato, sez. V, 27 agosto 2014, n. 4383; Consiglio di Stato, sez. V, 24 luglio 2013, n. 3957).

Invero, “l'indicazione alle parti in udienza, prevista dall'art. 73 del c.p.a., non deve precedere qualsivoglia valutazione che il giudice ritenga di compiere in autonomia rispetto agli argomenti di parte, ma solo la rilevazione d'ufficio di fatti sostanziali o processuali (modificativi, impeditivi o estintivi) ulteriori rispetto a quelli comunemente ritenuti costitutivi della pretesa azionata”. EF 


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Inserito in data 04/05/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 28 aprile 2016, n. 841

Elezioni delle Città metropolitane: rinvio alla Consulta

Il TAR milanese, nell’ordinanza in esame, dopo averla ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 126, 128, 129 e 130 c.p.a. nella parte in cui non prevedono l’applicabilità del trattamento processuale ivi stabilito (giurisdizione di merito e riti speciali) ai giudizi in materia elettorale relativi alle Città metropolitane.

Al riguardo, le impugnazioni delle operazioni elettorali relative agli enti indicati dal c.p.a. prevedono una serie di regole speciali che consistono: nella previsione di una giurisdizione di merito del giudice amministrativo (art. 126 e 134); nella legittimazione popolare all’azione (art. 23); in un rito avverso gli atti del procedimento elettorale preparatorio, ma limitatamente all’esclusione delle liste e dei candidati e con legittimazione attiva limitata ai soli delegati delle liste e dei gruppi di candidati esclusi, (art. 129); nel dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi di giudizio (art. 129 e 130); nel potere del giudice amministrativo di correggere il risultato delle elezioni e sostituire ai candidati illegittimamente proclamati coloro che hanno diritto di esserlo (art. 130 c. 9); nella gratuità degli atti processuali (art. 127).

Rilevano i giudici, non solo che l’elencazione degli enti a cui si rivolge l’applicabilità del suddetto rito speciale elettorale ha natura tassativa come espressamente previsto dalla legge, ma anche che la giurisprudenza è granitica nel ritenere che la giurisdizione di merito costituisca un’eccezione non suscettibile di applicazione estensiva ed analogica e nell’affermare che la specialità dei riti esclude l’applicazione di essi a casi non espressamente previsti.

Tuttavia, il TAR sottolinea che la disciplina del sistema elettorale per le elezioni del consiglio metropolitano è sostanzialmente identica a quella prevista per le elezioni del consiglio provinciale (per le cui impugnazioni, invece, si applica il trattamento processuale “speciale”), pertanto tale differenziazione potrebbe comportare, ad avviso dei giudici, in primo luogo, la violazione dell’art. 24 Cost. in relazione all’art. 3, in quanto prevede tutele giurisdizionali diverse nei confronti delle operazioni elettorali di enti che applicano lo stesso sistema elettorale ed hanno lo stesso rilievo costituzionale, in secondo luogo, la violazione dell’art. 114 Cost., nella parte in cui, prevedendo che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato pone sullo stesso piano gli enti locali dotati di garanzia costituzionale, rendendo quindi irragionevole un trattamento processuale diverso dei ricorsi presentati nei confronti delle Città metropolitane e delle Province.

Ne consegue – conclude il TAR – l’esigenza di trasmettere gli atti alla Corte Costituzionale. SS

 



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Inserito in data 03/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA DELLA COMMISSIONE SPECIALE, PARERE 3 maggio 2016, n. 1075

Parere sul T.U. in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale

La Commissione Speciale del Consiglio di Stato ha emesso parere favorevole sullo schema di decreto legislativo in materia di servizi pubblici locali di interesse economico generale: la delega contenuta negli artt. 16 e 19 della legge 124 del 2015 mira, infatti, a riformare integralmente la disciplina dei servizi pubblici locali, quali “funzione fondamentale dei comuni e delle città metropolitane, che contribuiscono a definire il livello di benessere dei cittadini”.

Dopo aver ricordato i principi innovativi su cui si fonda la delega, il Consiglio di Stato rileva che lo schema di decreto legislativo si presenta come una base di normazione organica e stabile, in grado di rendere immediatamente intellegibili, alle amministrazioni e agli operatori del settore, le regole applicabili in materia e di assicurare una gestione più efficiente dei servizi pubblici locali di interesse economico generale a vantaggio degli utenti del servizio, degli operatori economici e degli stessi enti locali.

Ed è per questo che la Commissione Speciale raccomanda che il Governo vigili (anche nei suoi rapporti col Parlamento), affinché detta “codificazione” sia preservata da tentativi di tornare a norme introdotte disorganicamente in fonti diverse, evitando, quindi, nuove dispersioni attraverso strumenti normativi episodici e disordinati.

Il Consiglio rileva che il testo si allinea al contesto europeo di riferimento e, in particolare, la scelta operata dal legislatore delegante, puntualmente ripresa dal legislatore delegato, di individuare l’oggetto della presente normazione nei «servizi pubblici locali di interesse economico generale», consente di superare il dualismo prima presente tra il livello comunitario e quello nazionale. Infatti, nella normativa previgente il legislatore nazionale utilizzava la locuzione: «servizi pubblici locali di rilevanza economica»; mentre il legislatore comunitario utilizza quella di «servizi pubblici locali di interesse economico generale (SIEG)».

Tuttavia la Commissione rileva, nel parere in esame, che la definizione di servizio pubblico locale di interesse economico generale (SIEG) contenuta oggi nell’articolo 2 dello schema di decreto, pur essendo rispettosa di quella europea, è più “ristretta” rispetto a essa in quanto il legislatore ha preferito, nell’ambito di discrezionalità lasciato dall’Unione Europea al legislatore nazionale, l’opzione più favorevole alla concorrenza nel mercato.

Infatti – limitando le ipotesi di SIEG alla circostanza oggettiva che il servizio non sarebbe stato svolto senza intervento pubblico o sarebbe stato svolto a condizioni differenti e alla circostanza soggettiva che il servizio sia considerato come necessario dagli enti locali per il soddisfacimento dei bisogni delle comunità locali – si limita anche la possibilità di deroga alle norme a tutela della concorrenza.

Peraltro, rileva il Consiglio di Stato, che un’ulteriore e legittima differenza tra la disciplina europea e quella contenuta nell’art 7 dello schema di decreto si registra nell’individuazione delle eccezioni alla regola dell’affidamento a terzi con procedure ad evidenza pubblica: ossia di quelle ipotesi, nelle quali si consente la deroga alle regole della concorrenza nell’affidamento dei SIEG. Infatti, la disciplina contenuta nello schema di decreto in esame rende più rigido il divieto di gestione diretta dei SIEG da parte dell’Ente locale.

La Commissione Speciale afferma, poi, che il cuore della riforma può essere individuato nel fatto che il legislatore prevede come regola generale che gli enti locali debbano affidare la gestione di servizi pubblici locali di rilevanza economica ad imprenditori o società, in qualunque forma costituite, individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica: la possibilità di non ricorrere al mercato resta come ipotesi derogatoria in determinate situazioni, che, «a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» non permettono un efficace e utile ricorso al mercato.

Peraltro viene precisato che lo schema di decreto supera indenne una previsione di incostituzionalità nella parte in cui prevede la valutazione discrezionale degli enti locali nella scelta delle modalità di gestione del servizio: infatti, il margine discrezionale di manovra rimesso ai singoli enti locali è particolarmente stretto in relazione alla possibilità di utilizzare il modello dell’affidamento in house o della gestione diretta a fronte di una disciplina che mostra un chiaro disfavore per l’ipotesi di mancato ricorso al mercato.

Inoltre, la Commissione Speciale tiene a sottolineare l’importanza della scelta legislativa di prevedere l’inserimento (a cura dell’ente affidante) dello schema di contratto nella documentazione di gara sin dalla fase dell’indizione della procedura di evidenza pubblica, a garanzia dei principi di trasparenza, di parità di trattamento e di non discriminazione, onde fissare ex ante in modo vincolante gli elementi e le condizioni essenziali del contratto da stipulare con il soggetto affidatario all’esito della procedura di evidenza pubblica.

Per quel che concerne le norme sul trasporto pubblico locale, invece, il Consiglio raccomanda la loro espunzione dal decreto legislativo in quanto esse sono incompatibili con i principi che ispirano la legge delega e, soprattutto, con la finalità di riordino sistematico.

Infine, anche per quel che concerne il metodo di aggiornamento tariffario dei servizi, la Commissione Speciale raccomanda l’impiego del solo metodo del cd. price-cap e non anche del metodo alternativo indicato nel decreto in quanto quest’ultimo contrasta con la finalità di perseguire i recuperi di efficienza che consentano la riduzione dei costi a carico della collettività, poiché, con la fissazione di un tasso di rendimento ‘normale’ si riducono gli incentivi del soggetto affidante gestore del servizio all’innovazione del processo produttivo e alla minimizzazione dei costi di produzione. SS 


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Inserito in data 02/05/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE CONSULTIVA PER GLI ATTI NORMATIVI, PARERE 27 aprile 2016, n. 1010

Canone Rai in bolletta: parere favorevole del Consiglio di Stato

Il Consiglio di Stato, con il parere n° 1010/16, ha espresso giudizio favorevole allo schema di decreto ministeriale di attuazione dell’art. 1, co. 154 della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), con il quale è stata prevista l’esazione del canone di abbonamento alla televisione mediante addebito in bolletta.
A seguito delle criticità sollevate dai Giudici di Palazzo Spada in occasione dell’Adunanza di Sezione del 7 aprile 2016, il Ministero proponente ha trasmesso un nuovo testo dello schema di decreto, accompagnato da una relazione integrativa, nella quale sono state illustrate le modifiche introdotte ed esposte le ragioni per le quali alcune delle osservazioni formulate dal Collegio in seduta consultiva non hanno trovato puntuale riscontro.
Anzitutto, con riferimento alla mancanza nel regolamento di una precisa definizione di apparecchio televisivo la cui detenzione comporti il pagamento del canone, l’Amministrazione ha riferito di non averla potuta recepire poiché – a suo avviso - l’introduzione di tale definizione, a livello di normativa regolamentare, “porterebbe, da un lato, ad un eccesso di delega rispetto al disposto dell’art. 1, co. 154 della L. n°280 del 28 dicembre 2015 (…), dall’altro potrebbe ingessare eccessivamente tale definizione, con conseguente rischio di una sua rapida obsolescenza”, stante la continua evoluzione delle tecniche di trasmissione e ricezione del segnale televisivo. Il Collegio, pur non condividendo le esposte motivazioni, ha tuttavia ritenuto che la circostanza che il Ministero avesse in ogni caso proceduto a fornire, attraverso una nota esplicativa tecnica, una definizione di apparecchio aggiornata all’attuale stato della tecnologia, possa comunque considerarsi rispondente alle finalità di chiarezza informativa precedentemente evidenziate.
In ordine alla problematica relativa al difetto, in seno allo schema ministeriale, di un esplicito riferimento al rispetto della normativa in materia di privacy, l’Amministrazione ha precisato di aver recepito il rilievo, provvedendo, da una parte, “ad esplicitare che le intese fra gli organi (coinvolti) debbano essere predisposte sentito il Garante per la Protezione dei dati personali”, dall’altra “introducendo un nuovo articolo (art. 8), intitolato “Privacy e adempimenti delle imprese elettriche”, finalizzato proprio a specificare la necessità che gli scambi di informazioni avvengano nel rispetto del d. lgs. n. 196 del 2003”.
Infine, con riguardo all’osservazione che non tutte le norme previste nello schema ministeriale fossero risultate formulate in maniera adeguatamente chiara, in considerazione della variegata ed ampia platea di utenti non addetti al settore, il Collegio ha preso atto di quanto affermato dal Ministero nella relazione integrativa ove è stato precisato che “l’interpretazione delle norme primarie e la risoluzione dei casi controversi sarà affidata ad una circolare dell’Agenzia delle Entrate, alla quale sarà data ampia pubblicità”.
Quindi, sulla scorta delle esposte integrazioni, la Sezione consultiva ha ritenuto di esprimere parere positivo sullo schema di decreto proposto dal Ministero dello sviluppo economico. MB


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Inserito in data 02/05/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 27 aprile 2016, n. 4786

Presenza di operatori presso ogni stazione autostradale: è obbligatoria?

Nel caso in esame, la ricorrente, concessionaria della gestione di un tratto di rete autostradale, aveva proposto ricorso avverso il provvedimento con il quale la Struttura di Vigilanza sulle Concessionarie Autostradali aveva disposto che le predette società garantissero “in ogni caso e per l’intero arco delle 24 ore, la presenza fisica di personale di esazione in ogni stazione (barriera/casello)”, altresì prevedendo, nei casi in cui la presenza alle singole porte non fosse stata ritenuta necessaria, che venisse “garantita come presidio fisico nell’ambito della stazione” al fine di intervenire in caso di necessità per l’utenza.

Il provvedimento era stato impugnato sotto due diversi profili. In primo luogo, la ricorrente aveva dedotto l’illegittima ed indebita intromissione della Struttura di Vigilanza nella potestà imprenditoriale ed organizzativa della concessionaria. In sostanza, secondo la prospettazione formulata dalla ricorrente, la Struttura avrebbe, con il provvedimento contestato, disciplinato, in modo unilaterale ed autoritativo, le modalità di esercizio dell’attività di esazione, invece di limitarsi ad un mero controllo della gestione delle autostrade, secondo quanto previsto dall’art. 2, co. I, lett. b) del D.M. delle Ministero delle Infrastrutture n. 341 dell’1 ottobre 2012.

Con un secondo profilo di censure, la ricorrente aveva eccepito l’illegittimità della determinazione assunta dalla Struttura di Vigilanza, poiché viziata da difetto di istruttoria, stante la mancata esplicitazione delle ragioni a sostegno del provvedimento assunto.

I Giudici capitolini, con la pronuncia in epigrafe, hanno disatteso il primo motivo di gravame, rilevando come erroneamente la ricorrente avesse fondato la propria censura sulla base di quanto previsto dalla lett. b) del richiamato articolo, tralasciando invece le più specifiche disposizioni di cui alla successiva lett. g) del medesimo articolo nonché quanto previsto dalla Convenzione Unica ANAS-Strada dei Parchi SpA, dal cui combinato disposto si evince la possibilità, per la Struttura di Vigilanza, di “adottare determinazioni, o meglio direttive, volte a salvaguardare i livelli generali di qualità delle prestazioni da garantire all’utente”, come quella impugnata nel caso di specie dalla ricorrente.

Meritevole di accoglimento – ad avviso della III Sezione – è apparso invece il secondo motivo, atteso che “la nota in questione è stata adottata in assenza di una adeguata attività istruttoria che consentisse di individuare i motivi per cui il responsabile della struttura di vigilanza aveva ritenuto necessario imporre la presenza di un operatore presso ogni casello autostradale. Motivazione ancor più necessaria in presenza dell’attività di sperimentazione, condotta dalla società ricorrente, in ordine alla progressiva estensione dei controllo a distanza ad altre stazioni di competenza della deducente. La Struttura, in altri termini avrebbe dovuto indicare le specifiche ragioni per cui la completa automazione delle stazioni di esazione non era in grado di assicurare gli standard qualitativi necessari al corretto funzionamento della rete autostradale, tanto da rendere necessaria la presenza continuativa di personale presso ogni casello autostradale”.  Proprio la “necessità – ha sottolineato il Collegio - che qualsiasi determinazione da parte della Struttura di Vigilanza  fosse preceduta da una congrua attività istruttoria, condotta in contraddittorio con la società ricorrente”, rende il fondato il ricorso nei limiti esposti. MB 



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Inserito in data 30/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 27 aprile 2016, n. 1619

Sul concetto di “nuova costruzione” soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo

La questione posta al vaglio della VI Sezione attiene alla necessità o meno del previo titolo abilitativo e, in particolare, alla possibilità che essa sia risolta sulla base della pretesa precarietà delle nuove opere, fondata sull’amovibilità delle strutture.

A tal uopo, i Giudici osservano che “dall’articolo 3, comma 1, lett. e.5 del Testo Unico dell’Edilizia è possibile trarre una nozione di “opera precaria”, la quale è fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sulle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare”.

Invero, la norma qualifica come “interventi di nuova costruzione” (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes , campers, case mobili, imbarcazioni che siano utilizzati come abitazioni , ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee…”.

Dunque, “la natura di opera “precaria” (non soggetta al titolo abilitativo) riposa non nelle caratteristiche costruttive ma piuttosto in un elemento di tipo funzionale, connesso al carattere dell’utilizzo della stessa”.

Pertanto, deve ritenersi che le strutture destinate ad una migliore vivibilità dello spazio esterno dell’unità abitativa (terrazzo) siano installate “non in via occasionale, ma per soddisfare la suddetta esigenza, la quale non è certamente precaria”.

Ciò posto, deve chiarirsi se le suddette strutture, “in relazione a consistenza, caratteristiche costruttive e funzione, costituiscano o meno un’opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo”.

Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380/2001, sono in primo luogo soggetti al rilascio del permesso di costruire gli “interventi di nuova costruzione”, categoria nella quale rientrano quelli che realizzano una “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio”.

Ciò premesso, ritiene la Sezione “che la struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare tende retrattili in materiale plastico non integri tali caratteristiche”.

Va, invero, considerato che “l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno dell’unità abitativa”.

Considerata in tale contesto, “la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda”.

Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, “non vale a configurare una “nuova costruzione”, atteso che essa è in materiale plastico e retrattile, onde non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio”.

Tanto è escluso anche “dalla circostanza che la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, in ragione del carattere retrattile della tenda (in proposito, cfr. anche la cit. circolare del Comune di Roma, 9.3.2012, n. 19137); onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie”.

Allo stesso modo, “deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia”.

Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio richiede che trattasi di “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.

Orbene, “la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso”.

La “trasformazione” può, infatti, realizzarsi solo attraverso interventi che “abbiano una rilevanza edilizia (e, dunque, una suscettività di incidenza sul territorio) almeno pari o superiore agli elementi che costituiscono la preesistenza.

Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile sul quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere”.

Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi che la struttura sopra descritta “non abbisognasse del previo rilascio del permesso di costruire: giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo del terrazzo su cui insiste”.

All’opposto, i Giudici di Palazzo Spada ritengono che la struttura di alluminio anodizzato, per la natura e la consistenza del materiale utilizzato (il vetro viene comunemente usato per la realizzazione di pareti esterne delle costruzioni), si configuri, non come mero elemento di supporto di una tenda, “ma venga piuttosto a costituire la componente portante di un manufatto, che assume consistenza di vera e propria opera edilizia, connotandosi per la presenza di elementi di chiusura che, realizzati in vetro, costituiscono vere e proprie tamponature laterali”.

Sicché, “il manufatto in questo caso costituisce “nuova costruzione”, risultando idoneo a determinare una trasformazione urbanistico ed edilizia del territorio”.

Né, in senso contrario, “riveste rilievo la circostanza che le suddette lastre di vetro siano installate “a pacchetto” e, dunque, apribili, considerandosi che la possibilità di apertura attribuisce a tale sistema la stessa portata e consistenza di una finestra o di un balcone, ma non modifica la natura del manufatto che, una volta chiuso, è vera e propria opera edilizia, come tale soggetta al rilascio del previo titolo abilitativo”. EF

 



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Inserito in data 29/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 aprile 2016, n. 1614

Il sindacato non è organismo di diritto pubblico: non espleta finalità certificative

Con la pronuncia in esame, il Consesso sostiene che ad un’associazione sindacale “non può essere riconosciuta la qualifica di “organismo pubblico”, che, alla stregua del disposto dell’art.5, comma 1, d.lgs. cit., legittima l’attestazione della presenza nel territorio dello Stato alla data del 31 dicembre 2011 dello straniero che intende ottenere l’emersione dal lavoro irregolare”.

Ed, invero, nell’esigere che “la presenza in Italia dello straniero alla data suddetta debba essere “attestata da documentazione proveniente da organismi pubblici”, la suddetta disposizione ha evidentemente inteso evitare regolarizzazioni fraudolente ed affidare la prova di uno dei requisiti della procedura ad enti provvisti di potestà pubbliche e, quindi, certificative, di guisa da fondare l’emersione dal lavoro irregolare su una dimostrazione documentale affidabile e qualificata, quale quella proveniente da organismi pubblici”.

Avuto, quindi, riguardo alla ratio della disposizione, “deve intendersi preclusa ogni interpretazione della nozione di “organismo pubblico” che la estenda fino a ricomprendervi anche associazioni private (quale il sindacato in questione) che non svolgono alcuna funzione pubblicistica sulla base di convenzioni, contratti o accordi con una pubblica amministrazione.

Se, infatti, appare ammissibile una lettura della disposizione in esame che, in via eccezionalmente estensiva, ascriva entro il suo ambito applicativo anche soggetti privati incaricati, tuttavia, formalmente dell’espletamento di compiti pubblicistici di assistenza o di accoglienza di stranieri, che vale ad assegnare un’attendibilità qualificata alle attestazioni da esse rilasciate, non può, invece, reputarsi predicabile la classificazione come “organismo pubblico”, ai fini che qui rilevano, di un ente privato che si occupa del sostegno dei lavoratori immigrati, ma non nello svolgimento di funzioni delegate da soggetti pubblici istituzionalmente preordinati a quel compito (che, sole, si ripete possono fondare l’equiparazione, per quanto qui rileva, di un ente privato a un organismo pubblico).

Solo in questa seconda ipotesi, infatti, può intendersi soddisfatta quell’esigenza di affidabilità della certificazione richiesta ai fini della regolarizzazione dello straniero, che è stata sopra individuata come la ratio della previsione, mentre nel primo caso l’interesse pubblico a una documentazione attendibile resterebbe irrimediabilmente vanificata, siccome affidata a soggetti del tutto estranei a qualsiasi controllo pubblicistico della loro attività”. EF

 



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Inserito in data 28/04/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III QUATER, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 26 aprile 2016, n. 4776

Regime transitorio per le controversie in materia di pubblico impiego: solleva questione di legittimità costituzionale

Nella ordinanza in esame, il TAR Roma, conformandosi a quanto considerato dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la recente ordinanza n. 6891 dell’8 aprile 2016, ha anch’esso sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 69 comma 7 d.lgs. n. 165 del 2000, nella parte in cui prevede che le controversie concernenti questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.

Il TAR rileva che la norma in questione è ormai costantemente interpretata, sia dalla Cassazione sia dal Consiglio di Stato, nel senso che la scadenza del termine del 15 settembre 2000 preclude definitivamente alla parte la possibilità di far valere il diritto dinanzi ad un giudice.

Vero è che questo orientamento è stato già posto all’attenzione della Consulta che non l’ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, ma ritengono i giudici del TAR che le conclusioni a cui sono pervenuti i Giudici delle Leggi si rivelano oggi in contrasto con il principio declinato dall’art. 6 della CEDU, secondo l’interpretazione datane dalla Corte EDU di Strasburgo, nel senso che la legge italiana, nel fissare la decadenza prevista dal richiamato art. 69, comma 7, pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed esclude un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco.

Posto l’evidente contrasto tra norma nazionale e norma convenzionale insuperabile in sede interpretativa, questo Collegio è tenuto a risolvere il contrasto sollevando apposita questione di legittimità costituzionale della disposizione di legge, in ragione del noto principio più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui le norme della Convenzione, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell’ordinamento interno quali norme interposte, assumendo esse un’efficacia intermedia tra legge e Costituzione, idonea a dare corpo agli “obblighi internazionali” costituenti parametro normativo cui l’art. 117, primo comma, Cost. ricollega l’obbligo di conformazione.

Ne deriva, conclusivamente, ad avviso del TAR, che è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione. SS

 



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Inserito in data 28/04/2016
TAR LAZIO - ROMA - SEZ. I, 26 aprile 2016, n. 4759

Offerte anomale e cd. taglio delle ali

Nella sentenza in epigrafe, i giudici del TAR Roma hanno preso posizione sul punto di diritto, ad avviso della ricorrente controverso, relativo al fatto se le offerte recanti medesimo ribasso debbano o meno essere considerate in modo “unitario” ovvero computate singolarmente, in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico.

La ricorrente, infatti, da un lato, criticava il “fulcro” del ragionamento adottato dalla stazione appaltante e orientato a trattare uniformemente le due ipotesi di identico ribasso collocato all’interno o “a cavallo” delle ali mediante estensione alla prima della disciplina prevista per la seconda, dall’altro lato, evidenziava che tale modus procedendi avrebbe “snaturato” del tutto la funzione del c.d. “taglio delle ali”, in quanto, così facendo, si sarebbe dato luogo ad una indiscriminata (s)valutazione dei ribassi estremi non sempre disancorati dalla realtà, come nel caso di specie ove i valori presi in considerazione erano assai prossimi a quelli delle offerte collocatesi nella parte “centrale” della graduatoria, escludendo così in radice un intento collusivo, eventualmente fraudolento, delle imprese offerenti e che sarebbe il vero scopo a sostegno del principio del “taglio” in questione, tenuto anche conto che il tenore letterale dell’art. 121, comma 1, d.p.r. n. 207/2010 non chiarisce se tale “taglio” debba avvenire per le offerte presenti sia all’interno sia “a cavallo” delle ali.

Rileva il TAR che, ormai, il Consiglio di Stato ha evidenziato che risulta preferibile l’orientamento fatto proprio dall’ANAC con il parere n. 87/2014.

Infatti – continua il TAR – l’art. 121, comma 1, cit. specifica un primo aspetto a carattere generale, consistente nell’evidenziare che “le offerte aventi un uguale valore di ribasso sono prese distintamente nei loro singoli valori in considerazione sia per il calcolo della media aritmetica, sia per il calcolo dello scarto medio aritmetico” nonché un secondo – costituente eccezione al principio generale e relativo solo all’operazione del cd. “taglio delle ali” – consistente nel precisare che “qualora nell’effettuare il calcolo del 10% di cui all’articolo 86, comma 1, del codice dei contratti siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”.

Tale ultima disposizione, ad avviso del TAR Roma, non può che essere interpretata se non nel senso che, ai fini della definizione del 10% delle offerte da escludere (di maggior ribasso e di minor ribasso), qualora entro detta fascia vi siano offerte di un determinato ribasso, tutte – sia presenti nella fascia/ala perché numericamente rientranti nel 10%, sia collocate fuori dalla fascia perché eccedenti il 10% calcolato sul numero complessivo delle offerte – devono essere accantonate e quindi rese ininfluenti ai fini del calcolo della soglia di anomalia, costituendo la disposizione regolamentare una esplicitazione della norma primaria, laddove vi sia presenza nelle “ali” di una o più offerte con il medesimo ribasso (sia collocate nell’ala ovvero, per alcune di esse, al di fuori), al fine di favorire la realizzazione delle effettive finalità che la norma persegue, pur in presenza di una particolare coincidenza, ed anzi al fine di evitarne l’ “aggiramento”, poiché basterebbe la presentazione di una pluralità di offerte con ribasso “non serio” (per difetto o per eccesso), per rendere inoperante (o difficoltoso) lo sbarramento del 10%, che il legislatore ha inteso prevedere.

Peraltro, precisano i giudici che il 10% costituisce solo il limite numerico delle offerte il cui valore è giudicato inaffidabile, ma poiché, come si è detto, inaffidabili sono i valori e non le offerte, è del tutto evidente che, in presenza di più offerte con identico valore, queste non possono essere intese che come un’unica offerta, a prescindere dalla loro collocazione (all’interno o a cavallo dell’ala).

Traendo le fila, il TAR ritiene maggiormente condivisibile lo sviluppo interpretativo appena delineato in quanto più aderente alla “ratio” della normativa primaria e secondaria applicabile alla fattispecie, la quale deve essere orientata all’individuazione del metodo di selezione del contraente in termini generali più affidabile, dato che il principio interpretativo “cardine” riconducibile al sistema di cui agli art. 86, comma 1, e 121, comma 1 è quello per cui “inaffidabili sono i valori e non le offerte”. SS


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Inserito in data 27/04/2016
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 22 aprile 2016, n. 92

Competenza territoriale, atto principale e atti consequenziali

Il Collegio della Consulta dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 4-bis, del Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), introdotto dall’articolo 1, comma 1, lettera a), numero 2), del Decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160 – più comunemente noto come Correttivo al Codice del processo amministrativo.

La norma contestata, secondo l’interpretazione assunta dal diritto vivente, attrae alla competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento, anche nel caso di connessione fra atto principale e atti consequenziali, fatta solamente eccezione per l’impugnazione di atti normativi o generali.

Ad avviso del TAR rimettente, una simile previsione, finirebbe con l’intralciare e quindi compromettere il regolare esercizio del diritto di difesa – ex articoli 24 – 1’ comma e 111 della Costituzione; finirebbe con l’incidere, altresì, sul giudice naturale precostituito per legge – ex articolo 25 – 1’ comma della Costituzione e rallentare, di conseguenza, l’evoluzione dell’intero meccanismo processuale.

A fronte di simili doglianze emerge, frattanto, la richiesta di inammissibilità – per difetto di rilevanza – sollevata dalla Difesa erariale, in considerazione del fatto che, comunque, il Giudice a quo non sia tenuto a fare applicazione di tale norma sospettata di illegittimità costituzionale.

Nel caso di specie, infatti, la questione di competenza era già stata assorbita dalla successiva decisione del Consiglio di Stato e, pertanto, non più suscettibile di essere devoluta al Giudice del rinvio.

In considerazione di ciò, il Collegio costituzionale, avallando la posizione dell’Avvocatura resistente, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, come sollevata dal TAR ligure, per evidente difetto di rilevanza nel caso in questione. CC

 



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Inserito in data 26/04/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 22 aprile 2016, n. 90

Indennità di espropriazione - Il «giusto prezzo»

La questione de qua ha origine in un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità espropriativa.  La Corte d’Appello rimettente, rilevando che la Corte di Cassazione aveva, nell’ambito di altro giudizio, sollevato la questione di legittimità dell'art. 8, co. 3, della L. provinciale n. 10/1991, come sostituito dall'art. 38, co. 7, della L. provinciale n. 4/2008, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., e quest'ultimo in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, rimetteva la questione alla Corte Costituzionale.

Il Collegio rimettente osservava che secondo la stessa Corte «la determinazione dell'indennità espropriativa non può prescindere dal valore effettivo del bene espropriato» e che, «pur non avendo il legislatore il dovere di commisurare integralmente l'indennità al valore di mercato, quest'ultimo parametro rappresenta un importante termine di riferimento ai fini della individuazione di una congrua indennità in modo da garantire il giusto equilibrio tra l'interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui».

Nella fattispecie, il giudice a quo dubitava della conformità di tale norma ai richiamati  parametri, ritenendo che essa contemplasse un criterio di determinazione dell'indennità di esproprio, per le aree non edificabili, «del tutto simile» a quello del valore agricolo medio utilizzato da due disposizioni legislative già censurate dalla Corte di legittimità, per questa via finendo con l’introdurre un criterio che prescinderebbe dal valore effettivo del bene espropriato e che non terrebbe conto delle sue caratteristiche specifiche, dunque «elusivo del legame che l'indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato».

La Corte, con la sentenza in epigrafe, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Trento. In particolare ha osservato che il richiamato art. 8, comma 3, della L. provinciale n. 10/1991 (che stabilisce che “l’indennità di espropriazione per le aree non edificabili consiste nel giusto prezzo da attribuire all’area secondo il tipo di coltura in atto al momento dell’emanazione del decreto di cui all’art.5”) si differenzia dalle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalle citate sentenze (n. 181/2011 e n. 187/2014), nelle quali veniva invece censurato il carattere  astratto del criterio di determinazione dell'indennità, corrispondente ad un «valore agricolo medio» definito in base alla zona agraria ed al tipo di coltura.  

Ed invero, ha precisato la Corte, “l'automaticità e l'astrattezza del meccanismo di quantificazione previsto da quelle norme conducevano a determinare un'indennità che non teneva conto delle caratteristiche specifiche del terreno e che, dunque, poteva essere priva di un ragionevole legame con il valore di mercato”.

Diversamente, la disposizione normativa contestata dalla Corte d'Appello di Trento prevede un'indennità che consiste nel «giusto prezzo» da individuare «entro i valori minimi e massimi» stabiliti dalla commissione provinciale estimatrice.

Detta espressione evoca l'idea di un corrispettivo commisurato alle caratteristiche effettive del bene espropriando.

In un ulteriore passaggio della pronuncia, la Corte ha ricordato che «l'indennizzo assicurato all'espropriato dall'art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita - in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse generale che l'espropriazione mira a realizzare - non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro … sulla base del valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge» ed ancora, «il punto di riferimento per determinare l'indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato, in modo da assicurare un ristoro economico che abbia un ragionevole legame con tale valore».

Alla luce di questi rilievi – ha conclusivamente affermato la Corte – l’art. 8, comma 3, della L. provinciale n. 10/1991, in virtù del suo contenuto e del collegamento sistematico con gli artt. 7-bis e 11, co. 4, della medesima legge, non disattende i criteri fissati dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, poiché impone all’organo competente a determinare l'indennità di esproprio di tenere in adeguata considerazione, ai fini della stima dell’indennità, le caratteristiche effettive dell'area da espropriare e, dunque, l’effettivo valore di mercato.

Pertanto, con la sentenza in epigrafe, la Corte ha negato la difformità tra il criterio di determinazione dell’indennità utilizzato dall’art. 8, co. 3, della L. provinciale n. 10/1991 ed i parametri costituzionali invocati dal Collegio rimettente, affermando che il citato articolo non si pone in contrasto con gli artt. 42, III co., e 117, I co., Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. MB



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Inserito in data 22/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 21 aprile 2016, n. 1573

Al G.A. la giurisdizione sugli atti regolamentari riguardanti l’accesso alle graduatorie

La questione controversa posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene al riparto di giurisdizione in ordine agli atti regolamentari che definiscono le modalità generali di accesso alle graduatorie nazionali per l’attribuzione a tempo determinato di incarichi di insegnamento.

Sul punto, un primo orientamento ritiene “che, in relazione a tali atti, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto gli stessi vengono in rilievo in via incidentale e pertanto possono essere disapplicati dallo stesso giudice ordinario (da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2015, n. 3413)”.

All’opposto, un secondo orientamento, cui la Sezione aderisce, ritiene, invece, che in questi casi la giurisdizione spetti al giudice amministrativo, venendo in rilievo «la stessa regola ordinatoria posta a presidio dell’ingresso in graduatoria» (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1406; Cons. Stato, 2 aprile 2012, n. 1953).

Orbene, “la ragione della preferenza per questa seconda tesi risiede nel fatto che oggetto di contestazione sono atti di macro-organizzazione. La pubblica amministrazione, infatti, con l’adozione dei provvedimenti in esame, a prescindere dalla loro natura di atti normativi o amministrativi generali, definisce le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, determinando anche le dotazione organiche complessive. La giurisdizione compete, pertanto, al giudice amministrativo. Né, in senso contrario, potrebbe rilevare la questione relativa all’incidenza “diretta” o “indiretta” di tali provvedimenti sui singoli rapporti di lavoro, trattandosi di un profilo che non ne muta la intrinseca natura e dunque le regole di riparto della giurisdizione. Questo aspetto può, al più, assumere rilevanza ai fini della individuazione dell’ambito del potere disapplicativo del giudice ordinario e se cioè esso può essere esercitato soltanto quando il provvedimento amministrativo di macro-organizzazione rilevi in via “indiretta” ai fini della risoluzione della controversia in linea con la regola generale posta dall’art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, ovvero anche quando esso venga in rilievo quale fonte “diretta” della lesione della posizione soggettiva individuale fatta valere in giudizio (nel qual caso, peraltro, risolvendosi la disapplicazione in una cognizione diretta, e non incidentale, del provvedimento amministrativo)”.

Alla luce di quanto suddetto, deve convenirsi, in coerenza con la giurisprudenza della Sezione, “che il decreto impugnato, avente carattere immediatamente lesivo, assolve a una funzione autoritativa di gestione della procedura concorsuale di natura pubblicistica. Ne deriva il radicamento della giurisdizione del giudice amministrativo”. EF

 



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Inserito in data 22/04/2016
CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 14 aprile 2016, n. 15632

Il totale asservimento della vittima esclude il concorso tra gli artt. 600 e 572 c.p.

Con la pronuncia indicata in epigrafe, i Giudici di Legittimità affermano quanto segue: “le condotte legalmente predeterminate che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ed implicano per loro natura il maltrattamento del soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi, in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia (v. la citata, Cass. Sez. VI 12 dicembre 2006 n. 1090), che può, invece, ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali (v. Cass. Sez. V 15 giugno 2012 n. 37638 e la citata Sez. V 8 aprile 2014 n. 44017)”. EF




Inserito in data 21/04/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 aprile 2016, n. 7700

Appello incidentale condizionato o mera riproposizione ex art. 346 c.p.c. in caso di domanda di garanzia rimasta assorbita?

Nella sentenza in esame, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate sulla dibattuta questione concernente, da un lato, la necessità o meno per il convenuto vittorioso nel giudizio di primo grado, nel quale abbia proposto domanda di garanzia impropria nei confronti di un terzo (rimasta assorbita dal rigetto delle domande dell’attore nei confronti del convenuto medesimo), di proporre appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale per riproporre la domanda di regresso nei confronti del garante per il caso in cui l’appello sia in tutto o in parte accolto; dall’altro lato, la possibilità o meno, invece, di riproporre la suddetta domanda ai sensi dell’art. 346 c.p.c.

Il contrasto di orientamenti, come già rilevato dall’ordinanza interlocutoria della Seconda Sezione, riguarda, dunque, le modalità con cui l’appellato totalmente vittorioso in primo grado deve investire il giudice d’appello della domanda di manleva da lui proposta nei confronti del terzo chiamato in garanzia, allorquando su tale domanda non vi sia stata alcuna decisione da parte del primo giudice, per avere egli rigettato la domanda principale dell’attore: l’anzidetto contrasto, ad avviso delle Sezioni Unite, vede contendersi due indirizzi.

Il primo reputa che il convenuto-appellato, se intende devolvere al giudice d’appello la decisione sulla domanda di garanzia rimasta assorbita in primo grado, debba farlo con la proposizione di un appello incidentale condizionato all’accoglimento dell’appello principale dell’originario attore, non essendo invece sufficiente, ai fini di tale devoluzione, la mera riproposizione della domanda assorbita ex art. 346 c.p.c.

Il secondo, ipotizzato nella sentenza come minoritario, reputa, invece, che, in quanto non soccombente, il convenuto-appellato non abbia alcun motivo di dolersi della decisione gravata con un’impugnazione incidentale, potendo limitarsi, se non vuole che si verifichi la presunzione di rinuncia di cui all’art. 346 c.p.c., a riproporre la domanda di garanzia non esaminata dal primo giudice e dunque rimasta assorbita.

Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto giurisprudenziale in decisione vada sciolto a favore dell’orientamento minoritario (secondo orientamento), che non reputa necessario l’appello incidentale.

L’esposizione delle ragioni – affermano i giudici – che inducono a preferire l’orientamento minoritario necessita di una premessa che individui il discrimine fra gli ambiti di applicazione dell’istituto dell’appello incidentale di cui all’art. 343 c.p.c., da una parte, e dell’istituto della cd. riproposizione ai sensi dell’art. 346 c.p.c., dall’altra.

L’appello incidentale, che si ascrive al concetto di impugnazione in generale, è un mezzo con cui si rivolgono critiche all’oggetto dell’impugnazione e, quindi, alla decisione.

La critica ad una decisione impugnabile con l’appello – precisano le Sezioni Unite – principale o incidentale che sia, non può che riguardare, come per ogni mezzo di impugnazione, il suo contenuto finale e deve riguardarlo evidentemente in relazione a ciò che l’ha determinato e, dunque, all’attività processuale dei vari soggetti del processo: in tutte le ipotesi, comunque, assume rilievo essenziale il fatto che la critica e, quindi, l’impugnazione nei diversi possibili profili sia determinata da un interesse ad ottenere una decisione di diverso contenuto.

Invece, all’istituto della cd. riproposizione – continua la Suprema Corte – deve ritenersi estraneo ogni profilo di deduzione di una critica alla decisione impugnata nei sensi sopra indicati e, quindi, di ciò che è connaturato al concetto di impugnazione.

Con la riproposizione il legislatore ha inteso alludere alla prospettazione al giudice di appello di domande ed eccezioni che, in quanto soltanto “riproposte”, cioè proposte come lo erano state al primo giudice, possono esserlo sì perché sono state da quel giudice “non accolte”, ma senza che egli le abbia considerate espressamente o implicitamente nella sua motivazione e dunque senza che le valutazioni su di esse abbiano potuto determinare il contenuto della decisione e senza che l’omissione della decisione su di esse abbia giuocato un ruolo nella determinazione della decisione.

Dunque, nel caso di specie, l’interesse dell’appellata a devolvere al giudice la decisione sulla domanda di garanzia e di rivalsa, per concretizzarsi, non abbisogna dell’esercizio di un’impugnazione in via incidentale per la ragione che, non essendovi stata alcuna decisione a riguardo della domanda medesima, nessuna critica vi è da svolgere alla sentenza di primo grado e, dunque, difetta il presupposto necessario di un appello incidentale.

Ne consegue conclusivamente, ad avviso delle Sezioni Unite, il seguente principio di diritto: “nel caso di chiamata in garanzia, qualora il giudice di primo grado abbia rigettato la domanda principale e non abbia deciso sulla domanda di chiamata in garanzia e sulle sue implicazioni (rivalsa), in quanto la decisione su di essa era stata condizionata all’accoglimento della domanda principale e non era stata chiesta né dal convenuto preteso garantito né dal preteso garante indipendentemente dal tenore della decisione sulla domanda principale, ove l’attore appelli la decisione di rigetto della domanda principale (impugnazione da rivolgersi necessariamente contro il convenuto e il terzo), ai fini della devoluzione al giudice d’appello della cognizione della domanda di garanzia per il caso di accoglimento dell’appello e di riconoscimento della fondatezza della domanda principale, non è necessaria la proposizione da parte del convenuto appellato di un appello incidentale, ma è sufficiente la mera riproposizione della domanda di garanzia ai sensi dell’art. 346 c.p.c.”. SS




Inserito in data 21/04/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III - 20 aprile 2016, n. 638

Quando cessa la permanenza dell’illecito paesaggistico?

Il T.A.R. Firenze, nella pronuncia indicata in epigrafe, ha preso posizione sul tempo in cui, a suo avviso, cessa la permanenza dell’illecito paesaggistico.

A fronte dell’eccezione di prescrizione fatta valere dai ricorrenti, i giudici del T.A.R. dapprima hanno precisato che gli illeciti in materia paesaggistica, urbanistica ed edilizia consistenti nella realizzazione di opere senza le dovute autorizzazioni hanno natura di illeciti permanenti, in relazione ai quali il termine di prescrizione inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, poi si sono chiesti quale sia il dies a quo della cessazione della permanenza.

Al riguardo, il Collegio non ignora l’esistenza di un duplice orientamento giurisprudenziale: secondo un primo, il dies a quo si individuerebbe nel momento in cui viene irrogata la sanzione pecuniaria o conseguito il permesso postumo; secondo un altro orientamento, invece, si individuerebbe nel momento di rimessione in pristino o di pagamento della sanzione irrogata.

Il T.A.R. Firenze afferma di adottare il primo orientamento ed, in particolare, quello secondo cui la permanenza cessa con il conseguimento del permesso postumo, peraltro, esso ha modo di precisare conclusivamente che, nonostante la disposizione sanzionatoria parli di “indennità”, non si tratta di una fattispecie risarcitoria per il danno ambientale prodotto, bensì di una sanzione amministrativa, essendo il danno non già oggetto della tutela ma criterio di commisurazione della sanzione, unitamente al criterio del profitto conseguito dalla violazione. SS

 



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Inserito in data 20/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 aprile 2016, n. 1521

Nuovo p.r.g. e valutazione dei contrapposti interessi privati

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato, preliminarmente, conferma l’orientamento ermeneutico secondo cui il termine per l’impugnazione delle delibere di adozione e di approvazione dei piani regolatori generali decorre dalla conoscenza di tali provvedimenti, e che questa si presume avvenuta mediante la pubblicazione di essi nelle forme prescritte dalla legge; “la mera adozione del piano, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l’onere di impugnazione”.

Si afferma, nel merito, che: “La decadenza (del permesso per costruire) costituisce sì l’effetto automatico dell’inutile decorso del termine entro cui i lavori si sarebbero dovuti iniziare e concludere, ma essa va specificamente dichiarata con apposita statuizione. Così facendo, però, (nella fattispecie) il Comune non ha considerato né l’evidente affidamento ingenerato dagli atti d’assenso di tale opera, che son corsi in parallelo con la procedura di formazione del nuovo p.r.g.. Inoltre, l’imposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, qual è quello subito nella specie dall’appellato, è già in sé un evento lesivo tutelabile in via d’azione, al di là del coinvolgimento, o meno, di titoli edilizî già eventualmente rilasciati sullo stesso bene così assoggettato”.

I giudici di Palazzo Spada, conformemente alla pronuncia del collegio di prime cure, osservano come la potestà decisionale del Comune, in ordine alla volontà di realizzare una strada il cui tracciato, in sede attuativa, la p.a. stessa intende rivedere, sia certamente discrezionale, ma non di meno la scelta di pianificazione deve essere congruente con il fine cui l’amministrazione tende, e deve essere, altresì, proporzionata agli strumenti adoperati, nonché all’eventuale sacrificio così imposto al privato. Viene, nello specifico, stigmatizzata la non razionalità della decisione compiuta dall’ente, sotto il profilo della sua, già manifesta, non definitività, essendo esistenti e note alcune situazioni astrattamente idonee a modificare l’opera, se non addirittura a impedirne la realizzazione: nel rispondere alle osservazioni dell’appellato, infatti, il Comune, subordinava a priori il futuro modus operandi ad un probabile riadattamento in sede attuativa, invitando il privato a sollevare in quel momento le proprie ragioni, utilizzando lo strumento del programma integrato di intervento, posto a garanzia delle istanze partecipative. Il vincolo apposto sul bene dell’appellato, non può, pertanto, non essere viziato per illogicità derivata dal difetto d’istruttoria: non avendo considerato, il Comune, né lo stato di fatto né, soprattutto, la coeva esistenza di titoli edilizî incompatibili con il progetto del nuovo p.r.g.. FM

 



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Inserito in data 19/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 aprile 2016, n. 1465

Acquisizione sanante: giurisdizione e obbligo ex art. 7 l. n. 241/1990

La sentenza in epigrafe, nella consapevolezza degli attuali orientamenti espressi dalla Corte regolatrice della giurisdizione (s.u. ord. 29 Ottobre 2015, n. 22096) e dal Consiglio di Stato stesso (sez. IV, 19 Ottobre 2015, n. 4777) – a mente dei quali il ristoro previsto dall’art. 42 bis del t.u. delle espropriazioni configura un indennizzo da atto lecito, sicché le controversie inerenti alla sua quantificazione devono essere devolute alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 133, lett. g), c.p.a. – nondimeno ritiene sussistente la giurisdizione amministrativa in materia, avendo il giudice di prime cure espressamente affermato la propria giurisdizione sul punto (richiamando la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 3 Settembre 2014, n. 4501), e non essendo stato tale capo di decisione impugnato da alcuna delle parti.

Affermano, in proposito, i giudici di Palazzo Spada che: “È ius receptum in materia, quello per cui (…) nei giudizî d’impugnazione la carenza di giurisdizione è rilevabile solo se dedotta con specifico motivo dalle parti: è ben vero, che la sentenza è stata depositata il 04/09/2015, mentre il revirement della Corte regolatrice della giurisdizione risale all’Ottobre 2015; ma ritiene il collegio che tale circostanza non possa condurre ad un rilievo ex officio della carenza di giurisdizione di questo plesso, in quanto ciò contrasterebbe con la chiara prescrizione di cui all’art. 9 del c.p.a. siccome costantemente interpretata dalla giurisprudenza nei termini appena chiariti”.

Nel merito della questione, con riferimento alla lamentata violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990, il collegio pur avendo ben presente che “qualificata giurisprudenza di primo grado ha in passato ritenuto che l’atto ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 vada in ogni caso necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, al fine di consentire al privato di interloquire attivamente con l’autorità pubblica per l’esercizio dei proprî diritti partecipativi”, nondimeno giunge alla conclusione che, “tale presidio partecipativo non sia necessario allorché la possibilità di un provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 sia già stata prefigurata in sede giudiziale, in quanto in simile ipotesi (…) il privato è reso edotto dell’eventuale avvio del relativo iter, con conseguente possibilità di attivarsi facendo constare all’amministrazione gli elementi che – a suo dire – condizionerebbero negativamente l’esercizio di tale facoltà, ovvero i parametri cui l’amministrazione (sempre ad avviso del privato) dovrebbe conformarsi”. FM



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Inserito in data 18/04/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 6 aprile 2016, n. 13681

Causa di non punibilità ex art. 131bis cp. compatibile con la guida in stato di ebbrezza

Le Sezioni Unite Penali della Corte di cassazione, con la pronuncia in epigrafe, hanno enunciato numerosi principi di diritto, in particolare dando risposta positiva al quesito ad esse devoluto dalla IV Sezione, circa la compatibilità o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. con i reati previsti dall’art. 186, comma 2, lett. b) e c) cod. strada e, più in generale, con gli illeciti caratterizzati dalla presenza di soglie di punibilità.

La IV Sezione, nell’evocare nell’ordinanza di rimessione la pronunzia di legittimità n° 44132/2015 (sentenza Longoni) che aveva ritenuto la compatibilità tra il nuovo istituto di cui all’art. 131-bis c.p. e la fattispecie di cui al II comma dell’art. 186 cod. strada, ha proposto una serie di rilievi critici, anzitutto considerando come – con riferimento alle diverse fattispecie di cui al II comma del citato art. 186 cod. strada – “il legislatore ha già compiuto a monte una valutazione di maggiore o minore pericolosità, rapportata ad un preciso dato tecnico costituito dal tasso alcoolemico. Pertanto il giudice, applicando la nuova normativa, si sostituirebbe al legislatore, non disponendo di altri parametri cui ancorare  il giudizio di tenuità”.

In secondo luogo - ha osservato il Collegio rimettente - “si tratta di reati di pericolo intesi a proteggere i beni della regolarità della circolazione e della sicurezza stradale”, da questo assunto traendo la conclusione che “nessun rilievo possono avere, ai fini della punibilità, le modalità di condotta di guida”, non essendo possibile in relazione ai richiamati beni protetti, “ipotizzare una gradualità dell’offesa”.

Infine, ha evidenziato il risultato “paradossale” cui conduce l’applicazione della normativa di cui si discute, atteso che “l’autore di un illecito di minore gravità andrebbe incontro ad una sanzione amministrativa pecuniaria ed alla sospensione della patente guida, mentre l’autore dell’illecito penale potrebbe evitare le relative sanzioni”.

La Suprema Corte, nella sua massima composizione, prima di affrontare la questione di diritto ad essa devoluta, ha effettuato una considerazione di carattere preliminare, chiarendo anzitutto il contenuto del giudizio di legittimità.

Ha quindi osservato che “l’art. 131-bis c.p. è stato introdotto con l’art. 1, comma 2, d.lgs. 16/03/2015, n. 28, in epoca successiva alla pronuncia d’appello”, sicché “se non è stato possibile proporlo in grado di appello, il tema afferente all’applicazione del nuovo istituto può essere dedotto davanti alla Corte di Cassazione”. Si è in presenza – ha precisato la Corte – di “innovazione di diritto penale sostanziale che disciplina l’esclusione della punibilità e che reca senza dubbio una disciplina più favorevole. Il novum trova quindi applicazione retroattiva ai sensi dell’art. 2, IV comma, c.p.”.

Appurata, quindi, la rilevanza della nuova disciplina, le Sezioni Unite hanno chiarito il ruolo della Corte di Cassazione, enunciando il seguente principio di diritto: “quando la sentenza impugnata sia anteriore alla novella, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza che si debba rinviare il processo nella sede di merito. Ove sussistano le condizioni di legge, l’epilogo decisorio è costituito, alla stregua degli artt. 620, I co., lett. f) e 129 c.p.p., da pronuncia di annullamento senza rinvio”.

Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno quindi affrontato il quesito di diritto afferente la compatibilità o meno della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto con i reati di cui all’art. 186, co. 2, lett. b) e c) cod. strada,  criticando i rilievi formulati dalla sezione rimettente.

In particolare, la Corte ha affermato che l’approccio evidenziato nella richiamata sentenza Longoni non presenta aspetti critici, anzi le obiezioni esposte nell’ordinanza di rimessione non coglierebbero nel segno e peccherebbero di astrattezza laddove tentino di legare il nuovo istituto - figura di diritto penale sostanziale - al principio di offensività.

Il fatto particolarmente tenue – hanno precisato le Sezioni Unite - va individuato alla stregua dei caratteri riconducibili a tre categorie di indicatori: le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza”. Ed ancora, “occorre compiere una valutazione relativa al fatto concreto”. Se ciò che rileva è quindi la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza e che “non si dà tipologia di reato per la quale non sia possibile la considerazione della modalità della condotta”,  è evidente che l’applicazione dell’art. 131 bis c.p. non possa essere in alcun modo “inibita ontologicamente” a talune fattispecie di reato.

La fattispecie in esame, ha osservato la Corte, “si inscrive nella categoria degli illeciti che presentano una soglia quantitativa che segna l’ambito di rilevanza penale del fatto o che regola la gravità dell’offesa (..). Il giudice che ritiene tenue una condotta collocata attorno all’entità minima del fatto conforme al tipo, non si sostituisce al legislatore, ma ne recepisce fedelmente la valutazione. Naturalmente, la valutazione riguarda la fattispecie concreta nel suo complesso – e quindi tutti gli indici afferenti alla condotta, alle conseguenze del reato ed alla colpevolezza. Nessuna conclusione può essere tratta in astratto, senza considerare la peculiarità del caso concreto. Insomma nessuna presunzione è consentita”. Certamente l’ambito applicativo del nuovo istituto è definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale  ma anche da “un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento”.

Con la pronuncia de qua, le Sezioni Unite hanno quindi definitivamente chiarito che la nuova disposizione sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto è applicabile indistintamente a tutte le fattispecie di reato, ivi comprese quelle caratterizzate dalla presenza, tra gli elementi costitutivi del fatto tipico, di soglie di punibilità. MB

 




Inserito in data 18/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZIONE CONSULTIVA PER GLI ATTI NORMATIVI, PARERE 13 aprile 2016, n. 915

Canone RAI in bolletta: l’ALT del Consiglio di Stato 

Numerose le criticità rilevate dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato con riferimento allo schema di decreto ministeriale di attuazione dell’art. 1, comma 154 della L. 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), con il quale è stato previsto che il pagamento del canone di abbonamento alla televisione per uso privato avvenga, con distinta voce, mediante addebito sulle fatture emesse dalle imprese elettriche ai titolari delle relative utenze ubicate nei luoghi ove i medesimi risiedono.

Alcuna osservazione, da parte della Sezione, in ordine al profilo della potestà normativa, atteso che “l'emanazione del presente decreto rientra nella competenza tecnico-discrezionale del Ministero proponente e che le disposizioni in esso contenute non presentano profili d’incompatibilità con l’ordinamento comunitario e con quello nazionale”.

Tuttavia, da un punto di vista procedurale, i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato come l’adozione del decreto non sia avvenuta nel rispetto dei termini previsti dalla norma di riferimento e non sia stato espresso il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze, risultando allegata agli atti la sola nota di assenso del predetto Ministero ai fini del prosieguo dell’iter procedurale.

In particolare – ha chiarito la Sezione – “ il concerto del Ministro è qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto si afferma nella nota citata in quanto, con il concerto, il Ministro partecipa dell’iniziativa politica, concorrendo ad assumerne la responsabilità”.

Pertanto – ha aggiunto la Sezione – “al fine di evitare che la suddetta omissione si rifletta sulla regolarità formale del provvedimento normativo in esame, l’Amministrazione proponente dovrà provvedere ad acquisire il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze”.

Quanto al merito, la Sezione ha evidenziato numerosi profili di criticità del provvedimento che hanno reso necessaria la sospensione, da parte del Consiglio, dell’espressione del richiesto parere in attesa che l’Amministrazione proponente provveda ad integrare il testo.

Anzitutto, è stato rilevata nel regolamento la mancanza di “un qualsiasi richiamo ad una definizione di cosa debba intendersi per apparecchio televisivo, la cui detenzione comporta il pagamento del relativo canone di abbonamento e al fatto che il succitato canone deve essere corrisposto per un unico apparecchio, prescindendo dall’effettivo numero di apparecchi posseduto dal singolo l’utente. Ciò – ha evidenziato il Consiglio di Stato - assume un particolare rilievo atteso che lo sviluppo tecnologico dei dispositivi di comunicazione ha reso disponibili sul mercato molteplici “device” che consentono funzioni di ricezione di programmi televisivi, pur essendo destinati a finalità ed usi strutturalmente differenti”.

Sotto un secondo profilo, la Sezione ha osservato come  “il procedimento di addebito e riscossione del canone di abbonamento alla televisione presuppone (..) uno scambio di dati e d’informazioni fra gli enti coinvolti nella succitata attività (..), che necessariamente implica profili di rispetto e tutela della privacy”.

Ebbene, “nelle norme in esame, non si rinviene alcun riferimento alla succitata problematica che, viceversa, potrebbe trovare soluzione quantomeno con la previsione di una disposizione regolamentare che espliciti che le procedure ivi previste avvengano nel rispetto della normativa sulla privacy, sentito il Garante per la protezione dei dati personali”.

Infine, un ulteriore profilo di criticità del regolamento “concerne il fatto che non tutte le norme ivi previste risultano formulate in maniera adeguatamente chiara, tenendo conto dell’ampia platea di utenti cui le medesime si rivolgono”. Ne è un esempio – ha precisato la Sezione - l'art. 3 del regolamento che, «nell'individuare, ai fini dell'addebito del canone, le categorie di utenti, utilizza formule tecniche di non facile comprensione per i non addetti al settore».

Sulla scorta degli evidenziati rilievi, la Sezione consultiva del Consiglio di Stato ha quindi sospeso l’espressione del parere in attesa che l’Amministrazione provveda all’integrazione del testo “anche al fine di non condizionare il grado di efficacia di tale strumento normativo”. MB

 



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Inserito in data 16/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 aprile 2016, n. 1446

Modus procedendi per la correzione delle prove scritte dei concorsi pubblici

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi in materia di modus procedendi per la correzione degli elaborati scritti dei concorsi pubblici, da un lato, ribadendo la necessità del rispetto del principio del collegio perfetto, dall’altro, interrogandosi sulla possibilità di applicare, nel caso di specie, il principio di conservazione delle operazioni di correzioni antecedenti all’emersione del vizio di legittimità.

In particolare, il Collegio ha affermato che laddove un consistente numero di candidati sia stato giudicato non idoneo sulla base della lettura di uno solo o di entrambi gli elaborati fatta da un singolo commissario, cui è seguita l’assegnazione di un punteggio di grave insufficienza nel migliore dei casi all’esito di una sorta di “relazione” sintetica svolta dal commissario delegato all’organo collegiale e, nel peggiore, avendo la Commissione recepito acriticamente le conclusioni del singolo suo componente, in entrambi i casi, il modus procedendi seguito non risulta compatibile col rispetto del principio del collegio perfetto che deve permeare in primo luogo e soprattutto le attività della Commissione di concorso nella fase di esame e valutazione delle prove da correggere.

Per quel che concerne, poi, l’annullamento giurisdizionale delle operazioni di correzione, i giudici della Quarta Sezione del Consiglio di Stato non nascondono la difficoltà dell’applicazione, nella specie, del principio di conservazione, il quale è di regola declinato in senso “diacronico”, e quindi in modo da considerare viziate le fasi successive all’insorgere del vizio di legittimità e lasciare invece integre quelle anteriori, mentre, nel caso di specie, si tratterebbe di differenziare, all’interno di una medesima fase della procedura, le posizioni degli interessati, in modo da reputare il vizio inficiante per taluni di essi, e non per altri.

Inoltre, è evidente che i divisati principi di conservazione ed economicità – e, quindi, anche il connesso principio che impone di evitare un inutile “aggravamento” del procedimento amministrativo, anche in sede di sua rinnovazione all’esito di giudizio di annullamento – non operano in modo meccanico e automatico, ma piuttosto postulano un’attenta comparazione degli interessi implicati nell’azione della p.a., dovendo in ogni caso prediligersi la soluzione che meglio realizzi l’interesse pubblico da questa perseguito.

Peraltro, osserva la Quarta Sezione che che la necessità che la rinnovazione delle correzioni medesime sia compiuta da una Commissione “fisicamente” diversa da quella che ha in precedenza operato non costituisce un portato indefettibile della decisione di annullamento, ma piuttosto un effetto conformativo rimesso alle determinazioni del giudice in ragione della più efficace ottemperanza delle statuizioni giudiziali, con particolare riferimento all’esigenza di assicurare pure in tale fase la par condicio fra i candidati e il rispetto dei principi di segretezza e anonimità delle prove d’esame.

Infatti, si ritiene che l’interesse pubblico possa ricevere una miglior tutela con una pronuncia che non si limiti a circoscrivere l’annullamento alle sole correzioni che siano state effettivamente compiute in violazione della regola del collegio perfetto, ma statuisca anche nel senso che la rinnovazione delle operazioni di correzione de quibus sia compiuta dalla medesima Commissione esaminatrice che ha finora operato, e non da una nuova Commissione. SS



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Inserito in data 15/04/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 12 aprile 2016, n. 4340

La comunicazione ex art. 10 bis L. 241/90 ha funzione partecipativa e non novativa

Con la pronuncia in commento, il Collegio romano conferma che “la comunicazione dei motivi ostativi al rilascio del provvedimento richiesto, di cui all’art. 10 bis della legge n. 241 del 1990, ha la funzione, in un rapporto collaborativo e dialettico con l’Amministrazione, di consentire al soggetto destinatario del provvedimento negativo di presentare delle controdeduzioni avverso i motivi di diniego per evidenziare eventuali profili di illegittimità dell’atto finale in via di formazione (profili valutati dall’Amministrazione ed esternati con la motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento), così fornendo all’Amministrazione ulteriori elementi per una più approfondita valutazione in vista dell’adozione della determinazione finale. Tale funzione partecipativa e dialettica del preavviso di diniego può ritenersi frustrata quando il provvedimento definitivo si fondi su ragioni del tutto nuove e diverse, non enucleabili dalla motivazione dell’atto endoprocedimentale, non ravvisabile nel caso in esame (cfr. Tar Puglia, Bari, sez. I, 16 luglio 2014, n. 925; Tar Lazio, Roma, sez. II, 1° luglio 2013, n. 6501; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 21 marzo 2013, n. 861; Tar Toscana, sez. II, 7 febbraio 2013, n. 220)”.

Del resto, “l’obbligo di corrispondenza tra i motivi ostativi e le ragioni del diniego del provvedimento finale, se può in tesi valere a precludere l’introduzione di motivi di esclusione del tutto nuovi e affatto diversi, non può certo impedire l’affinamento e l’arricchimento delle originarie motivazioni impeditive con ulteriori rilievi e argomentazioni convergenti a sorreggere il medesimo assunto già enunciato in sede di preavviso di rigetto, ossia nella specie, elementi forniti anche in risposta alle osservazioni proposte dalla ricorrente (cfr. in tal senso anche Tar Campania, Napoli, sez. III, 9 febbraio 2013, n. 840)”. EF 


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Inserito in data 15/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 11 aprile 2016, n. 1412

Non si applica il soccorso istruttorio a fronte di dichiarazione falsa

La questione posta al vaglio del Consesso riguarda “la corretta interpretazione degli articoli 38 e 46 del d. lgs. n. 163 del 2006 alla luce della novella introdotta dal d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 114/2014, in particolare se sia possibile ricorrere al soccorso istruttorio, nel caso di violazione della disposizione di cui al comma 1, lettera f) dell’articolo 38 del citato d. lgs. n. 163 del 2006”.

A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada osservano che “la esclusione per le ipotesi del grave errore nell’esercizio dell’attività professionale di cui alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 38, d. lgs. n. 163/2006 non assume carattere sanzionatorio, inserendosi in un giudizio prognostico della corretta esecuzione dell’appalto”.

Invero, dal contesto normativo, si deduce che, “la mancanza di tipizzazione da parte dell’ordinamento delle fattispecie rilevanti, non attribuisce alcun filtro sugli episodi di “errore grave” all’impresa partecipante, la quale è tenuta a portare a conoscenza della stazione appaltante ogni episodio di risoluzione o rescissione contrattuale anche non giudiziale, quand’anche transatto, essendo rimessa alla stazione appaltante la valutazione in relazione al nuovo appalto da affidare”.

La Sezione, quindi, “in conformità ai moltissimi precedenti giurisprudenziali (cfr., tra le tante, Cons. Stato, V, 25 febbraio 2015, n. 943; 14 maggio 2013, n. 2610; IV, 4 settembre 2013, n. 4455; III, 5 maggio 2014, n. 2289) ribadisce l’obbligo del partecipante ad una pubblica gara di mettere a conoscenza la stazione appaltante delle vicende pregresse (negligenze ed errori) o fatti risolutivi occorsi in precedenti rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni”.

Sul punto, va ribadito “che non sussiste per l’impresa partecipante ad una gara la facoltà di scegliere i fatti da dichiarare, sussistendo al contrario l’obbligo della onnicomprensività della dichiarazione, spettando alla stazione appaltante il momento valutativo.

Ne consegue che non sussiste alcuna discrezionalità o filtro valutativo del dichiarante il quale è tenuto a portare a conoscenza della stazione appaltante di tutti gli episodi relativi a risoluzioni o rescissioni intervenute nei rapporti contrattuali con pubbliche amministrazioni”.

Né si può sostenere che “l’omissione della dichiarazione non avrebbe potuto comportare l’esclusione dalla gara, dovendosi fare applicazione del soccorso istruttorio”.

Come è noto, infatti, “il d.l. n. 90/2014 ha aggiunto all’articolo 38 del codice dei contratti pubblici il comma 2 bis, stabilendo, nel caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, la possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, previo invito della stazione appaltante e dietro pagamento di una sanzione pecuniaria stabilita nel bando di gara e all’articolo 46 il comma 1 ter estendendo l’applicazione delle disposizioni di cui all'articolo 38, comma 2 bis, a ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara”.

Non si ritiene, pertanto, “in base ad una interpretazione letterale delle nuove disposizioni, che il soccorso istruttorio possa essere utilizzato laddove non è contestata la mancanza o l’incompletezza della dichiarazione, ma l’aver reso dichiarazione “non veritiera” “.

La fattispecie della dichiarazione “non veritiera”, infatti, “in quanto priva della doverosa menzione di eventi la cui valenza ostativa alla instaurazione di un rapporto contrattuale è riservata alla stazione appaltante, rimane fuori dalla sanatoria introdotta dall’articolo 38, comma 1 ter del d. lgs. n. 163/2006, in quanto non v’è la mancanza o la carenza, bensì la diversa fattispecie di dichiarazione non veritiera, con le conseguenze previste dal codice dei contratti pubblici per l’ipotesi di falsa dichiarazione che resta confermata anche in vigenza della novella introdotta dal d.l. n. 90/2014 (anche l’ANAC, con la determinazione 8 gennaio 2015 n. 1, nell’interpretare le novità introdotte dal d.l. n. 90/2014 ha affermato che il soccorso istruttorio non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta)”. EF

 



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Inserito in data 14/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 12 aprile 2016, n. 7

Sulla giurisdizione in materia di ore di sostegno per alunni disabili

Nella sentenza de qua, l’Adunanza Plenaria ha fissato i criteri identificativi dell’ambito della giurisdizione esclusiva amministrativa sulle controversie relative all’erogazione di servizi pubblici e all’estensione o meno della giurisdizione esclusiva amministrativa anche alla fase di esecuzione del piano educativo individualizzato (PEI) riguardante un alunno disabile.

In primo luogo, ha affermato che, anche se la cognizione delle controversie afferenti alla fase successiva all’adozione del PEI adottato dalle istituzioni scolastiche va ascritta al G.O. (come affermato dalle SS.UU. nella sentenza n. 25011/2014), le controversie concernenti la fase antecedente alla determinazione, da parte dei dirigenti scolastici, del suddetto piano rientrano nella giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizio pubblico scolastico ex art.133, comma 1, lett. c, c.p.a.

Infatti, prima della definizione del piano che stabilisce il numero di ore di sostegno necessario a garantire una corretta formazione all’alunno disabile, l’Amministrazione scolastica resta pienamente investita delle potestà relative alla formazione del PEI e, soprattutto, nella fase che precede la definizione dello stesso, risulta inconfigurabile qualsivoglia profilo discriminatorio, ravvisabile solo nell’omessa, parziale o incompleta attuazione del piano e che concreta, a ben vedere, l’identificazione della giurisdizione ordinaria, come provvista di capacità cognitoria, ai sensi dell’art. 28 d.lgs. n.150 del 2011.

Peraltro – continua l’Adunanza Plenaria – l’ampiezza della latitudine della giurisdizione esclusiva amministrativa in materia di servizi pubblici, segnalata dal carattere generale delle espressioni lessicali utilizzate all’art.133, comma 1, lett. c), c.p.a., preclude qualsiasi esegesi riduttiva del perimetro della cognizione piena affidata al giudice amministrativo in materia di pubblici servizi; né, ovviamente, la pacifica natura di diritto soggettivo della posizione soggettiva azionata, quand’anche qualificato come “fondamentale”, esclude la sussistenza della giurisdizione amministrativa, che, nella materia dei servizi pubblici, comprende senz’altro anche la tutela dei diritti soggettivi, in ragione della natura esclusiva della giurisdizione codificata all’art. 133 c.p.a.

In secondo luogo, sottolineano i giudici che la cognizione e la tutela dei diritti fondamentali, intendendosi per tali quelli costituzionalmente garantiti, non appare affatto estranea all’ambito della potestà giurisdizionale amministrativa, nella misura in cui il loro concreto esercizio implica l’espletamento di poteri pubblicistici, preordinati non solo alla garanzia della loro integrità, ma anche alla conformazione della loro latitudine, in ragione delle contestuali ed equilibrate esigenze di tutela di equivalenti interessi costituzionali.

Non solo, ma l’affermazione dell’estensione della giurisdizione esclusiva amministrativa anche alla cognizione dei diritti fondamentali non vale in alcun modo a sminuire l’ampiezza della tutela giudiziaria agli stessi assicurata, nella misura in cui al giudice amministrativo è stata chiaramente riconosciuta la capacità di assicurare anche ai diritti costituzionalmente protetti una tutela piena e conforme ai precetti costituzionali di riferimento, che nessuna regola o principio generale riserva in via esclusiva alla cognizione del giudice ordinario.

Infine – conclude l’Adunanza Plenaria – l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva in determinate materie implica, evidentemente, una cognizione piena, e non limitata ai soli profili di esercizio discrezionale del potere: ne consegue che, laddove il diritto azionato postuli, per la sua completa realizzazione, l’espletamento di una potestà pubblica che si risolve nella verifica, sulla base di canoni medici o scientifici, dei presupposti per la sua attuazione, la potestà cognitoria del giudice amministrativo deve intendersi estesa anche allo scrutinio della correttezza del predetto apprezzamento, in quanto implicato dalla disamina della fondatezza della pretesa azionata in giudizio, seppur nei limiti del sindacato relativo alla discrezionalità tecnica.

Diversamente opinando, e, cioè, negando la giurisdizione amministrativa anche per le controversie relative alla contestazione di provvedimenti che precedono la formazione del PEI, si finirebbe per accedere ad una interpretazione abrogans dell’ambito operativo dell’art.133, comma 1, lett. c), c.p.a., che, come tale, dev’essere rifiutata, in quanto impedirebbe alla disposizione attributiva della giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici di produrre qualsivoglia, apprezzabile effetto. SS



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Inserito in data 13/04/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII, 7 aprile 2016, n. 1769

Ristrutturazioni edilizie: presupposti per la debenza degli oneri concessorî

Il Tribunale amministrativo partenopeo riconosce, al proprietario di un bene immobile, il diritto alla restituzione degli importi versati al Comune a titolo di contributo di costruzione, in ordine ad alcuni interventi edilizî funzionali al nuovo allestimento delle unità.

Rileva nel merito il collegio, come l’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 stabilisca al primo comma che “il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione”, precisando che “presupposto per la debenza del costo di costruzione è che l’intervento rientri nell’ambito di quelli per i quali l’art. 10 del medesimo d.P.R. n. 380/2001 prevede il titolo abilitativo del permesso di costruire”. A mente del comma 10 del citato art. 16: “nel caso di interventi su edificî esistenti il costo di costruzione è determinato in relazione al costo degli interventi stessi, così come individuati dal Comune in base ai progetti presentati per ottenere il permesso di costruire”. Dal tenore letterale dell’ultima disposizione richiamata appare manifesto come l’onere contributivo in esame pertenga comunque alle sole ristrutturazioni edilizie per le quali è richiesto il titolo abilitativo del permesso di costruire. Ci si riferisce, pertanto, ai sensi dell’art. 10, comma 1, let. c) del testo unico dell’edilizia, a “quelle opere di ristrutturazione che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edificî o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso (…)”; laddove, invece, “il costo di costruzione non deve essere corrisposto per gli interventi di ristrutturazione realizzabili con d.i.a.”, salvo che, ex art. 22 comma 5, decreto citato, “questa sia sostitutiva del permesso di costruire nelle ipotesi previste nel comma 3”.

Secondo la precedente giurisprudenza, inoltre, “per le opere di ristrutturazione edilizia (soggette al regime del permesso di costruire), il pagamento degli (oneri) concessorî è dovuto solo nel caso in cui l’intervento abbia determinato un aumento del carico urbanistico”. “Il fondamento del contributo di urbanizzazione, invero, non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare su quanti beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità”. “Anche nel caso di modificazione della destinazione d’uso, cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione”.

Esulano dall’ambito entro il quale i costi in parola sono legittimamente imposti: “le modifiche della disposizione interna degli ambienti, il rifacimento di pavimenti e controsoffitti, così come l’adeguamento o la realizzazione di impianti igienico sanitarî privati, idraulici o elettrici”. FM

 



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Inserito in data 13/04/2016
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 4 aprile 2016, n. 334

Recesso di un ente pubblico da una società mista

Il collegio ligure dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto da una società partecipata, avverso la deliberazione del Consiglio comunale con la quale l’ente pubblico, in esecuzione del piano di riordino e razionalizzazione delle partecipazioni azionarie ex art. 1, commi 611 e 612, della l. n. 190/2014 (legge di stabilità 2015), esercitava il proprio diritto di recesso ex lege dalla compagine sociale, ai sensi dell’art. 1, comma 569, della l. n. 147/2013 (legge di stabilità 2014).

Viene di seguito richiamato il quadro normativo di riferimento.

Secondo le prescrizioni dell’art. 3, commi 27 e 29, della l. n. 244/2007 (legge finanziaria 2008): “Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 Marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizî non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizî di interesse generale e che forniscono servizî di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizî e forniture, di cui al decreto legislativo 12 Aprile 2006, n. 163, e l’assunzione di partecipazioni in tali società (…)”; “Entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge le amministrazioni (…), nel rispetto delle procedure ad evidenza pubblica, cedono a terzi le società e le partecipazioni vietate ai sensi del comma 27 (…)”.

A mente del già richiamato art. 1, comma 569, della legge di stabilità 2014: “Il termine di trentasei mesi fissato dal comma 29 dell’articolo 3 della legge 24 Dicembre 2007, n. 244, è prorogato di dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, decorsi i quali la partecipazione non alienata mediante procedura di evidenza pubblica cessa ad ogni effetto; entro dodici mesi successivi alla cessazione la società liquida in denaro il valore della quota del socio cessato in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, del codice civile”.

L’art. 1, commi 611 e 612, della legge di stabilità 2015, stabilisce che: “Fermo restando quanto previsto dall’articolo 3, commi da 27 a 29, della legge 24 Dicembre 2007, n. 244, e successive modificazioni, e dall’articolo 1, comma 569, della legge 27 Dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni, al fine di assicurare il coordinamento della finanza pubblica, il contenimento della spesa, il buon andamento dell’azione amministrativa e la tutela della concorrenza e del mercato, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, gli enti locali, le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di istruzione universitaria pubblici e le autorità portuali, a decorrere dal 1° Gennaio 2015, avviano un processo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, in modo da conseguire la riduzione delle stesse entro il 31 Dicembre 2015”; “I presidenti delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, i presidenti delle province, i sindaci e gli altri organi di vertice delle amministrazioni di cui al comma 611, in relazione ai rispettivi ambiti di competenza, definiscono e approvano, entro il 31 Marzo 2015, un piano operativo di razionalizzazione delle società e delle partecipazioni societarie direttamente o indirettamente possedute, le modalità e i tempi di attuazione, nonché l’esposizione in dettaglio dei risparmî da conseguire”.

Il ricorrente sosteneva che “l’automatica cessazione della partecipazione del Comune (…) in forza della disposizione di cui all’art. 1 comma 569 della legge 27.12.2013, n. 147 non potrebbe trovare applicazione al caso di specie (…) perché non si tratta – in virtù del carattere di interesse generale dei servizî prodotti dalla società – di una partecipazione vietata ex art. 3 comma 27 della legge 24.12.2007, n. 244”.

Osservano preliminarmente i giudici come il piano di riordino ex art. 1, commi 611 e 612, abbia ad oggetto attività indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente (come tali, non vietate), e venga redatto secondo “una serie di criterî generali e di obiettivi di risparmio, con definizione delle modalità e dei tempi di attuazione (…), sulla base di valutazioni tipicamente discrezionali circa il quid, il quando ed il quomodo della razionalizzazione richiesta dal legislatore”; viene pertanto in rilievo una “norma di azione”, e i conseguenti provvedimenti, le scelte operate, sono senz’altro sindacabili dal giudice amministrativo, “involgendo posizioni di interesse legittimo, secondo quanto accade generalmente per i provvedimenti generali e/o di pianificazione”.

Nel caso di specie il collegio approda a un giudizio di inammissibilità del ricorso, per difetto di interesse della ricorrente, attenendo la controversia ad un “atto meramente confermativo (ricognitivo) di scelte già definitivamente operative, concernenti una partecipazione vietata”. La clausola di riserva in apertura del citato art. 1, comma 611, infatti, fa espressamente salvo quanto disposto dall’art. 1, comma 569, della legge finanziaria 2014, in ordine alle partecipazioni azionarie relative ad attività non strettamente necessarie al perseguimento delle finalità istituzionali dell’ente pubblico, qual è da ritenere quella svolta nello specifico dalla società ricorrente.

Il Comune del cui atto si controverteva, aveva già in precedenza ottemperato agli obblighi di legge, deliberando la dismissione della partecipazione mediante ricorso a una procedura di evidenza pubblica, essendo andata tuttavia deserta l’asta per la vendita. Allo spirare del termine emarginato dal più volte menzionato art. 1 comma 569, l’ente pubblico riteneva dunque cessata la partecipazione ex lege, chiedendo di procedere legittimamente alla liquidazione del controvalore delle azioni. FM

 



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Inserito in data 12/04/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 6 aprile 2016, n. 650

Caso Englaro: riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale nei confronti del genitore

Con questa importante sentenza, il T.A.R. milanese ha chiuso il cerchio della nota vicenda Englaro accogliendo l’azione di risarcimento del danno proposta dal padre a titolo di danno iure hereditatis per lesione di diritti fondamentali nonché a titolo di danno non patrimoniale iure proprio da lesione del rapporto parentale.

La sentenza, nel riprendere una serie di approfondimenti già svolti nei precedenti gradi di giudizio esperiti con l’azione di annullamento del diniego, opposto dalla Regione Lombardia, di interrompere l’alimentazione forzata di un soggetto che versava in stato vegetativo, ha affrontato problematiche dell’azione risarcitoria, in specie in relazione alla peculiarità e rilevanza dei diritti coinvolti.

In particolare, si è occupata di scrutinare la natura e i presupposti della responsabilità della p.a. affermando che “la responsabilità della pubblica amministrazione da provvedimento illegittimo risponde ad un modello speciale non riconducibile ai modelli di responsabilità che operano nel settore del diritto civile”.

Ad avviso dei giudici del T.A.R.“la peculiarità dell’attività amministrativa – che deve svolgersi nel rispetto di regole procedimentali e sostanziali a tutela dell’interesse pubblico – rende speciale anche il sistema della responsabilità da attività illegittima”.

Una volta individuati gli elementi costitutivi della responsabilità della p.a. – rappresentati dall’elemento oggettivo, dall’elemento soggettivo (colpevolezza o rimproverabilità), dal nesso di causalità materiale o strutturale e dal danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo – il T.A.R. afferma che tutti gli elementi anzidetti “sono sussistenti nel caso in cui un Ente pubblico non abbia deliberatamente e scientemente eseguito l’autorizzazione rilasciata dalla Corte di Appello di Milano (con provvedimento passato in giudicato) ad interrompere l’alimentazione artificiale ad un malato terminale in stato vegetativo (distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente il predetto malato).

In particolare, sussiste la responsabilità quando il detto Ente pubblico ha proceduto non con la semplice inerzia o con un mero comportamento materiale, agendo “nel fatto”, o adducendo a motivo di tale mancato adempimento l’impossibilità tecnica della prestazione richiesta o un impedimento di ordine fattuale, bensì con l’emanazione di un espresso provvedimento”.

Infatti, continua il T.A.R., gli organi e gli enti dello Stato (quale è la Regione Lombardia) non possono ignorare le leggi statali e l’autorità dei Tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, altrimenti ne deriverebbe una rottura dell’ordinamento costituzionale insanabile e inaccettabile.

Peraltro, dicono i giudici che non è possibile invocare, a giustificazione di tale comportamento, “motivi di coscienza”, in quanto solo gli individui hanno una “coscienza”, mentre la “coscienza” delle istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano.

Dunque, alla luce della predetta ricostruzione, ne consegue, ad avviso del T.A.R., che il genitore della persona cui è stata illegittimamente rifiutata l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione, ha diritto al risarcimento sia del danno a titolo di erede, sia di quello iure proprio per lesione del rapporto parentale.

In particolare per ciò che concerne il danno di natura non patrimoniale a titolo ereditario, il comportamento della P.A. ha determinato la lesione del diritto fondamentale di autodeterminazione in ordine alla libertà di scelta di non ricevere cure, oltre che della salute, così come ricostruito nelle sentenze che li hanno riconosciuti (c.d. diritto di staccare la spina) e la lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, quest’ultima derivante dal fatto che, nemmeno dopo il passaggio in giudicato delle diverse pronunce, la Regione ha messo a disposizione una struttura per eseguire quanto statuito nelle diverse sedi giurisdizionali.

Per quel che riguarda, poi, il danno iure proprio da lesione del rapporto parentale, afferma il T.A.R. che si tratta di un pregiudizio a diritti fondamentali che trovano la loro fonte diretta nella Costituzione, atteso che nell’art. 2059 c.c. trova adeguata collocazione anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.): tale figura di danno, da collocare nell’ambito del danno-conseguenza non patrimoniale, risulta quindi pienamente risarcibile, anche laddove la lesione del legame familiare non dipenda da una condotta penalmente illecita.

Diversamente per il danno morale soggettivo, vantato dal ricorrente iure proprio, che, invece, non gli può essere riconosciuto atteso che lo stesso non ha ancorato la richiesta di danno morale alla sussistenza di una, seppure ipotetica, illiceità penale direttamente collegata all’adozione del provvedimento impugnato, ma ha individuato la genesi di tale categoria di danno non patrimoniale nelle attività e nei comportamenti di alcuni organi regionali o di altri soggetti, anche estranei all’apparato regionale che avrebbero posto in essere una vera a propria campagna diffamatoria e calunniatoria nei suoi confronti. SS

 



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Inserito in data 11/04/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 6 aprile 2016, n. 4169

Immodificabilità dell’offerta in itinere

Con la pronuncia de qua, la Sezione prima del T.A.R. Lazio – Roma ha affermato l’illegittimità dell’aggiudicazione della gara qualora l’Ente appaltante abbia consentito all’impresa vincitrice, in corso di gara, la modifica dell’offerta tecnica ed economica.

Nella fattispecie, la ricorrente, Fiera di Roma Srl, aveva impugnato il provvedimento di aggiudicazione definitiva della procedura di scelta dell’operatore economico con il quale stipulare il contratto di locazione dei locali idonei all’espletamento delle prove scritte per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, sul presupposto che la stazione appaltante, la Corte d’Appello di Roma, dopo un’indagine dalla stessa definita “esplorativa di mercato”, avesse permesso all’aggiudicatario di apportare sostanziali rimodulazioni all’offerta precedentemente avanzata.

La ricorrente, preliminarmente, aveva rilevato la necessità di procedere ad un corretto inquadramento della procedura attivata dalla Corte d’Appello che, seppur definita come “indagine di mercato” – astrattamente non impegnativa e vincolante per l’Amministrazione ai fini della scelta dell’operatore economico – di fatto si era conclusa con l’individuazione dell’aggiudicatario, finendo per costituire una vera e propria gara.

In secondo luogo, la ricorrente aveva evidenziato l’opportunità di indagare la vera natura del contratto stipulato dalla P.A., a suo avviso non qualificabile come semplice contratto di locazione, ma come appalto di servizi e/o forniture, soggetto, pertanto, alla disciplina del Codice dei Contratti.

Con riferimento a tale ultimo rilievo, il Collegio ha ritenuto – come già affermato dalla stessa Sezione, di recente intervenuta su un caso affine - che la fattispecie fosse da ricondurre alla normativa dettata dall’art. 38 del Codice degli appalti. Ed infatti, nel caso di specie, “la procedura aveva ad oggetto la locazione di locali appositamente e inscindibilmente attrezzati di servizi, e quindi sia la locazione che la prestazione di forniture e di servizi. In tale contesto appare insostenibile che un appalto siffatto, caratterizzato da un nesso funzionale inscindibile tra locazione di spazi idonei, fornitura di materiali e suppellettili, prestazione di servizi, che solo nel loro complesso organizzato rispondono alle finalità perseguite dall'Amministrazione e consentono lo svolgimento delle prove scritte di un concorso, possa essere qualificato come semplice e pura locazione”.

Con riguardo poi all’eccepita violazione delle norme del codice dei contratti pubblici e del principio dell’immodificabilità dell’offerta, il Collegio ha osservato come “la procedura adottata dalla Corte di appello di Roma non può farsi rientrare in quella disciplinata dall’art. 125 del Codice appalti, trattandosi – al di là del nomen juris attribuito alla procedura (indagine di mercato) che non vincola il giudice in ordine alla sua qualificazione né ha ingenerato errori nella presentazione delle offerte – di una vera e propria procedura ad evidenza pubblica”.

L’Amministrazione intimata – ha ulteriormente rilevato la prima Sezione – ha violato il principio dell’immodificabilità dell’offerta, proprio delle procedure ad evidenza pubblica, consentendo, per questa via, all’aggiudicataria, nel corso della gara, la modifica dell’offerta tecnica ed economica.

Ed infatti, “come chiarito dalla giurisprudenza, l'integrazione documentale non è ammessa, in quanto contraria alla fondamentale regola della par condicio competitorum, laddove essa sopravvenga a colmare una iniziale e sostanziale inadeguatezza dell'offerta presentata dalla concorrente – come nel caso di specie - di tal che nelle gare pubbliche l'integrazione documentale è ammissibile solo per la documentazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione”, non anche, quindi, quando essa sia orientata a consentire alla concorrente di apportare sostanziali modifiche in itinere in danno delle altre concorrenti. MB

 



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Inserito in data 11/04/2016
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. II, 6 aprile 2016, n. 1682

La mancata allegazione  del passoe non è causa di esclusione dalla gara

I giudici campani, con la sentenza in epigrafe, hanno accolto il ricorso proposto avverso l’esclusione da una gara di una concorrente che, alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte, aveva omesso di produrre il PassOE - del quale non era in possesso - allegato solo successivamente, a seguito del soccorso istruttorio dell’Amministrazione.

Il Collegio ha condiviso le istanze formulate dalla ricorrente, affermando che né il codice dei contratti, né il bando disciplinare di gara accreditano il possesso del documento PassOE quale requisito di partecipazione previsto a pena di esclusione dalla procedura concorsuale, né esso, d’altra parte, “si configura come elemento essenziale incidente sulla par condicio dei concorrenti”.

Il PassOE – ha puntualizzato la II Sezione del T.A.R. Campania – Napoli - rappresenta un “semplice strumento attraverso cui l’operatore economico può essere verificato per mezzo del sistema ACVPASS (Autority Virtual Company Passport) con il quale la stazione appaltante assolve, a norma dell’art. 6-bis, I comma del DLgs n. 163/2006, all’obbligo di provvedere direttamente, presso gli Enti certificanti convenzionati con l’ANAC , all’acquisizione dei documenti necessari alla verifica dei requisiti autodichiarati dai concorrenti in sede di gara”.

La mancata produzione di detto documento in sede di gara – ha ulteriormente precisato il Collegio – integra “una semplice carenza documentale e non anche un’ipotesi di irregolarità essenziale”, con la conseguenza che il PassOE non solo non costituisce causa di esclusione del concorrente dalla procedura, ma può essere prodotto - regolarizzando dunque la documentazione incompleta - successivamente, senza che per questo sia dovuta alcuna sanzione pecuniaria.

Questo orientamento è altresì condiviso e confermato – hanno specificato i giudici napoletani nella sentenza de qua - dall’ANAC che, nella nota illustrativa al “Bando-tipo per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture” ha chiarito che “la mancata inclusione del PassOE non costituisce causa di esclusione dell’operatore economico in sede di presentazione dell’offerta. Tuttavia, le stazioni appaltanti saranno tenute a verificare, nella prima seduta di gara, l’inserimento del PassOE nella busta contenente la documentazione amministrativa e, laddove ne riscontrino la carenza, dovranno richiedere all’operatore economico interessato di acquisirlo e trasmetterlo in tempo utile a consentire la verifica dei requisiti, avvertendolo espressamente che in mancanza si procederà all’esclusione dalla gara e alla conseguente segnalazione all’Autorità ai fini dell’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 6, comma 11, del Codice, essendo il  PASSOE l’unico strumento utilizzabile dalla stazione appaltante per procedere alle prescritte verifiche”. MB

 



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Inserito in data 09/04/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 1 aprile 2016, n. 3983

I Giudici romani ancora sulle intese orizzontali restrittive della concorrenza 

In questa importante sentenza, i giudici romani hanno avuto modo di pronunciarsi sui parametri di legittimità e sugli oneri probatori circa i presupposti del provvedimento con il quale l’AGCM ha, da un lato, accertato la sussistenza di un’intesa orizzontale che restringe la concorrenza in violazione dell’art. 101 del TFUE, dall’altro, irrogato le relative sanzioni.

In primo luogo, il TAR Roma ha ripercorso il procedimento istruttorio e motivazionale compiuto dall’AGCM laddove ha individuato nei confronti di una società operante nel settore della ristorazione autostradale un’intesa restrittiva della concorrenza concernente il coordinamento con altra società in occasione di un insieme specifico di gare.

In secondo luogo, ha sancito l’illegittimità del provvedimento nella parte in cui l’Autorità, ritenendo sussistente il condizionamento di gare ad evidenza pubblica, con effetti sulle condizioni di aggiudicazione delle stesse, ha contestato alla società ricorrente di aver posto in essere un’intesa orizzontale nonostante l’assenza, nel caso di specie, della piena prova, diretta o indiretta, della stipula o conclusione di una effettiva intesa anticoncorrenziale, ovvero dei “contatti qualificati” tra i soggetti sanzionati che avrebbero concordato il disegno collusivo.

Infatti, sottolinea il Collegio laziale che, per quanto attiene alle intese restrittive della concorrenza, l’unico presupposto affinché l’intesa possa essere considerata anticoncorrenziale e debba essere vietata, è costituito “dall’avere per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente l’andamento della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”.

Peraltro, così come affermato da costante giurisprudenza, ai fini della verifica della condotta anticoncorrenziale, non è sempre indispensabile distinguere tra accordi e pratiche concordate, essendo ben più importante individuare, rispetto ai semplici comportamenti paralleli privi di concertazione, le forme di collusione che ricadono nei divieti antitrust.

In terzo luogo, il TAR romano ha affermato che, sul piano probatorio, costituisce un principio fondamentale quello in base al quale spetta all’Autorità produrre elementi probatori precisi e concordanti che corroborino la ferma convinzione che l’infrazione sia stata commessa: gli elementi di prova posti a base di una decisione antitrust devono dunque essere ragionevoli, affidabili e non contraddittori.

In particolare, spetta all’Autorità dimostrare il collegamento e la coerenza tra i vari eventi che ritiene alla base di una intesa vietata e, conseguentemente, provare che tali elementi non siano razionalmente giustificabili in maniera alternativa.

Infatti, nell’ambito di procedimenti antitrust, il criterio guida per prestare il consenso all’ipotesi ricostruttiva formulata dall’Autorità è quello della c.d. congruenza narrativa, in virtù del quale l’ipotesi sorretta da plurimi indizi concordanti può essere fatta propria nella decisione giudiziale quando sia l’unica a dare un senso accettabile alla “storia” che si propone per la ricostruzione della intesa illecita.

In tale quadro – conclude il Collegio – i vari “indizi” costituiscono elementi del modello globale di ricostruzione del fatto, coerenti rispetto all’ipotesi esplicativa coincidente con la tesi accusatoria; unitamente, poi, all’acquisizione di informazioni coerenti con le contestazioni mosse, deve essere esclusa l’esistenza di valide ipotesi alternative alla tesi seguita dall’Autorità. SS

 



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Inserito in data 08/04/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA - GRANDE SEZIONE, SENTENZA 5 aprile 2016, C‑689/13

Sul rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale

La prima questione posta al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea riguarda il contrasto interpretativo tra la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 4 del 2011 e la sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448), pronunciata successivamente.

Orbene, secondo il Supremo Consesso “in caso di ricorso incidentale volto a contestare l’ammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale deve essere valutato prioritariamente, prima del ricorso principale”. Nell’ordinamento giuridico nazionale, infatti, “un siffatto ricorso incidentale è qualificato come «escludente» o «paralizzante» poiché, qualora ne constati la fondatezza, il giudice adito deve dichiarare inammissibile il ricorso principale senza esaminarlo nel merito”.

Viceversa, la Corte di Giustizia, con la sentenza Fastweb, ritiene che l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 vada interpretato in senso difforme da quanto stabilito dalla Plenaria.

Preliminarmente, deve rammentarsi che la causa all’origine della sentenza Fastweb riguardava due offerenti che erano stati selezionati e invitati dall’amministrazione aggiudicatrice a presentare delle offerte. Accadeva, pertanto, che, a seguito del ricorso proposto dall’offerente la cui offerta non era stata prescelta, l’aggiudicatario presentava “un ricorso incidentale, con il quale faceva valere che l’offerta che non era stata prescelta avrebbe dovuto essere esclusa in quanto non rispettava uno dei requisiti minimi previsti dal piano di fabbisogni”.

Si tratta, dunque, di capire “se l’interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 data dalla Corte nella sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448) si applichi nellipotesi in cui le imprese partecipanti alla procedura di gara controversa, sebbene ammesse inizialmente in numero maggiore di due, siano state tutte escluse dall’amministrazione aggiudicatrice senza che un ricorso sia stato proposto dalle imprese diverse da quelle – nel numero di due ‑ coinvolte nel procedimento principale”.

Al tal riguardo, “è d’uopo ricordare che, secondo le disposizioni dell’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della menzionata direttiva, affinché i ricorsi contro le decisioni adottate da un’amministrazione aggiudicatrice possano essere considerati efficaci, devono essere accessibili per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione”.

Ed, invero, al punto 33 della sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448), “la Corte ha considerato che il ricorso incidentale dellaggiudicatario non può comportare il rigetto del ricorso di un offerente escluso nell’ipotesi in cui la legittimità dell’offerta di entrambi gli operatori venga contestata nell’ambito del medesimo procedimento, in quanto in una situazione del genere ciascuno dei concorrenti può far valere un analogo interesse legittimo all’esclusione dell’offerta degli altri, che può indurre l’amministrazione aggiudicatrice a constatare l’impossibilità di procedere alla scelta di un’offerta regolare”.

Pertanto, al punto 34 della succitata sentenza, la Corte ha interpretato l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 “nel senso che tale disposizione osta a che il ricorso di un offerente la cui offerta non è stata prescelta sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell’esame preliminare dell’eccezione di inammissibilità sollevata nell’ambito del ricorso incidentale dell’aggiudicatario, senza che ci si pronunci sulla conformità delle due offerte in discussione con le specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni”.

In sostanza, “ciascuno dei due offerenti ha interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto”. Da un lato, infatti, “l’esclusione di un offerente può far sì che l’altro ottenga l’appalto direttamente nell’ambito della stessa procedura”. D’altro lato, “nell’ipotesi di un’esclusione di entrambi gli offerenti e dell’indizione di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi e, quindi, ottenere indirettamente l’appalto”.

E, ancora, la Corte ha precisato che “il numero di partecipanti alla procedura di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi, così come il numero di partecipanti che hanno presentato ricorsi e la divergenza dei motivi dai medesimi dedotti, sono privi di rilevanza ai fini dell’applicazione del principio giurisprudenziale che risulta dalla sentenza Fastweb (C‑100/12, EU:C:2013:448)”.

Alla luce di quanto suddetto, deve sostenersi che l’articolo 1, paragrafi 1, terzo comma, e 3, della direttiva 89/665 vada interpretato “nel senso che osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato da detto altro offerente”.

Con la seconda questione, invece, “il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che osta ad una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o della validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”.

Sul punto, la Corte di Giustizia afferma che “i giudici nazionali hanno la più ampia facoltà di sottoporre alla Corte una questione di interpretazione delle disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza Rheinmühlen-Düsseldorf, 166/73, EU:C:1974:3, punto 3), laddove tale facoltà si trasforma in obbligo per i giudici che decidono in ultima istanza, fatte salve le eccezioni riconosciute dalla giurisprudenza della Corte (v., in tal senso, sentenza Cilfit e a., 283/81, EU:C:1982:335, punto 21 e dispositivo). Una norma di diritto nazionale non può impedire a un organo giurisdizionale nazionale, a seconda del caso, di avvalersi della facoltà di cui trattasi (v., in tal senso, sentenze Rheinmühlen-Düsseldorf, 166/73, EU:C:1974:3, punto 4; Melki e Abdeli, C‑188/10 e C‑189/10, EU:C:2010:363, punto 42, nonché Elchinov, C‑173/09, EU:C:2010:581, punto 27) o di conformarsi a suddetto obbligo”.

Tanto detta facoltà quanto detto obbligo sono, difatti, “inerenti al sistema di cooperazione fra gli organi giurisdizionali nazionali e la Corte, instaurato dall’articolo 267 TFUE, e alle funzioni di giudice incaricato dell’applicazione del diritto dell’Unione affidate dalla citata disposizione agli organi giurisdizionali nazionali”.

Di conseguenza, “qualora un organo giurisdizionale nazionale investito di una controversia ritenga che, nell’ambito della medesima, sia sollevata una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, ha la facoltà o l’obbligo, a seconda del caso, di adire la Corte in via pregiudiziale, senza che detta facoltà o detto obbligo possano essere ostacolati da norme nazionali di natura legislativa o giurisprudenziale”.

Ne discende che l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato “nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo giurisdizionale, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale”.

Infine, i Giudici precisano che l’articolo 267 TFUE debba essere interpretato nel senso che, “dopo aver ricevuto la risposta della Corte di giustizia dell’Unione europea ad una questione vertente sull’interpretazione del diritto dell’Unione da essa sottopostale, o allorché la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha già fornito una risposta chiara alla suddetta questione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza deve essa stessa fare tutto il necessario affinché sia applicata tale interpretazione del diritto dell’Unione”. EF

 



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Inserito in data 07/04/2016
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 5 aprile 2016, n. 70

E’ manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 545, co. 4, c.p.c.

Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 545, quarto comma, del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4 e 36 della Costituzione, “nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta di quella parte della retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, e, in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento di crediti tributari disposte dall’art. 72-ter (Limiti di pignorabilità) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come introdotto dall’art. 3, comma 5, lettera b), del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44”.

In particolare, il Giudice delle Leggi osserva che “le questioni sollevate risultano analoghe a quelle di cui è stata dichiarata la non fondatezza in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con sentenza di questa Corte n. 248 del 2015”.

Infatti, “tale sentenza precisava, tra l’altro che «la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumenti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individuazione è riservata alla discrezionalità del legislatore», mentre, con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sia in relazione al regime di impignorabilità delle pensioni, sia – in via subordinata – all’art. 72-ter del d.P.R. n. 602 del 1973, le argomentazioni del giudice rimettente non sono state condivise in ragione della eterogeneità dei tertia comparationis rispetto alla disposizione impugnata, tanto più verificata alla luce di «un esame obiettivo del contesto normativo complessivo e dalla sua evoluzione differenziata»”.

Invece, “relativamente alla norma impugnata con riferimento agli artt. 1, 2 e 4 Cost., la predetta decisione ha ritenuto l’inammissibilità delle censure per la loro apoditticità in quanto prive di un’argomentazione esaustiva sulle ragioni del preteso contrasto con le norme invocate”.

Pertanto, stante l’identità di contenuto tra l’ordinanza di rimessione oggetto della richiamata pronuncia del 2015 e quelle che hanno occasionato il presente giudizio, “la questione da queste ultime reiterata va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata manifestamente infondata con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., e manifestamente inammissibile con riguardo agli artt. artt. 1, 2 e 4 Cost., per le stesse ragioni”. EF

 



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Inserito in data 06/04/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 1 aprile 2016, n. 1301

Contraddittorio necessario ai fini dell’ordinanza di bonifica di un sito inquinato

Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso intentato dal proprietario di un’area avverso l’ordinanza, emessa dal sindaco, di rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati sul terreno e conseguente bonifica, per l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Il collegio giudicante ritiene fondato il primo motivo di impugnazione della sentenza di prime cure, secondo il quale la garanzia partecipativa di cui all’art. 7 della l. n. 241/1990 “non sarebbe meramente formale, considerato il chiaro disposto dell’art. 192, comma 3, del decreto legislativo 3 Aprile 2006, n. 152”, a mente del quale, la responsabilità del proprietario dei luoghi interessati deve essere imputabile, a titolo di dolo o colpa, e in base agli accertamenti effettuati in contraddittorio tra le parti.

I giudici di Palazzo Spada continuano, pertanto, a muoversi nel solco tracciato dal consolidato orientamento ermeneutico secondo cui: “In materia, il legislatore delegato ha inteso rafforzare e promuovere le esigenze di un’effettiva partecipazione allo specifico procedimento dei potenziali destinatarî del provvedimento conclusivo. Di conseguenza, la preventiva, formale comunicazione dell’avvio del procedimento costituisce un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati e (…) non si può applicare il temperamento che l’art. 21 octies della legge n. 241 del 1990 apporta alla regola generale dell’art. 7 della stessa legge”. FM

 



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Inserito in data 06/04/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I - 5 aprile 2016, n. 4099

Intese orizzontali restrittive della concorrenza mediante pratica concordata

Il Tribunale amministrativo laziale ritiene infondata l’impugnazione di un provvedimento, emesso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con il quale veniva sanzionata un’intesa restrittiva del mercato, in violazione degli artt. 101 T.f.U.e. e 2 l. n. 287/1990.

La fattispecie concreta concerneva la convocazione, normalmente settimanale, di riunioni, alle quali prendevano parte le principali imprese di un settore produttivo, finalizzate allo scambio di informazioni confidenziali di natura commerciale, e al coordinamento delle attività. Si sottolinea, in particolare, la ripartizione delle commesse sulla base di quote di mercato, l’indicazione del prezzo di vendita e delle altre condizioni contrattuali da praticare, il monitoraggio sul rispetto del principio di non reciproca aggressione, e la predisposizione di una sistema sanzionatorio in caso di violazioni.

Gli operatori economici ricorrenti non contestavano la sussistenza di una pratica anticoncorrenziale, ma sollecitavano una corretta valutazione dell’effettiva gravità della condotta, tenendo conto del contesto di crisi economica presente.

Richiamando giurisprudenza precedente, il collegio afferma che: “La fattispecie dell’accordo ricorre qualora le imprese abbiano espresso la loro comune volontà di comportarsi sul mercato in un determinato modo e la pratica concordata corrisponde ad una forma di coordinamento fra imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, sostituisce, in modo consapevole, un’espressa collaborazione fra le stesse per sottrarsi ai rischî della concorrenza. I criterî del coordinamento e della collaborazione, che consentono di definire tali nozioni, vanno intesi alla luce dei principî in materia di concorrenza, secondo cui ogni operatore economico deve autonomamente determinare la condotta che intende seguire sul mercato. Pur non escludendo la suddetta esigenza di autonomia il diritto degli operatori economici di reagire intelligentemente al comportamento noto o presunto dei concorrenti, essa vieta però rigorosamente che fra gli operatori abbiano luogo contatti diretti o indiretti aventi per oggetto o per effetto di creare condizioni di concorrenza non rispondenti alle condizioni normali del mercato. In particolare l’intesa restrittiva della concorrenza mediante pratica concordata richiede comportamenti di più imprese, uniformi e paralleli, che costituiscano frutto di concertazione e non di iniziative unilaterali, sicché nella pratica concordata manca, o comunque non è rintracciabile da parte dell’investigatore, un accordo espresso, il che è agevolmente comprensibile, ove si consideri che gli operatori del mercato (…), tenteranno con ogni mezzo di celarla (…), ricorrendo, invece, a reciproci segnali volti ad addivenire ad una concertazione di fatto. La giurisprudenza, consapevole della rarità dell’acquisizione di una prova piena, ritiene che la prova della pratica concordata, oltre che documentale, possa anche essere indiziaria, purché gli indizî siano gravi, precisi e concordanti. Nella pratica concordata l’esistenza dell’elemento soggettivo della concertazione deve perciò desumersi in via indiziaria da elementi oggettivi, quali la durata, l’uniformità e il parallelismo dei comportamenti; l’esistenza di incontri tra le imprese; gli impegni, ancorché generici e apparentemente non univoci, di strategie e politiche comuni; i segnali e le informative reciproche; il successo pratico dei comportamenti, che non potrebbe derivare da iniziative unilaterali, ma solo da condotte concertate, ed al riguardo, la giurisprudenza comunitaria e nazionale distingue tra parallelismo naturale e parallelismo artificiosamente indotto da intese anticoncorrenziali, di cui la prima fattispecie da dimostrare sulla base di elementi di prova endogeni, ossia collegati alla stranezza intrinseca delle condotte accertate e alla mancanza di spiegazioni alternative (…), e la seconda sulla base di elementi di prova esogeni, ossia di riscontri esterni circa l’intervento di un’intesa illecita al di là della fisiologica stranezza della condotta in quanto tale. La differenza tra le due fattispecie (…) si riflette sul soggetto, sul quale ricade l’onere della prova: nel primo caso, la prova dell’irrazionalità delle condotte grava sull’Autorità, mentre, nel secondo caso, l’onere probatorio contrario viene spostato in capo all’impresa. In particolare, qualora, a fronte della semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti sul mercato, il ragionamento dell’Autorità sia fondato sulla supposizione che le condotte poste a base dell’ipotesi accusatoria oggetto di contestazione non possano essere spiegate altrimenti se non con una concertazione tra le imprese, a queste ultime basta dimostrare circostanze plausibili che pongano sotto una luce diversa i fatti accertati dall’Autorità e che consentano, così, di dare una diversa spiegazione dei fatti rispetto a quella accolta nell’impugnato provvedimento. Qualora, invece, la prova della concertazione non sia basata sulla semplice constatazione di un parallelismo di comportamenti, ma dall’istruttoria emerga che le pratiche possano essere stati frutto di una concertazione e di uno scambio di informazioni in concreto tra le imprese, in relazione alle quali vi siano ragionevoli indizî di una pratica concordata anticoncorrenziale, grava sulle imprese l’onere di fornire una diversa spiegazione lecita delle loro condotte e dei loro contatti”.

Ai fini della lesività della condotta posta in essere, la Commissione europea e la Corte di giustizia hanno più volte ribadito “l’intrinseca e per così dire ontologica gravità delle intese orizzontali fra operatori economici volte alla spartizione del mercato, in relazione al conseguente forte pregiudizio per il rapporto di libera concorrenza indipendentemente dalla quantificazione dei relativi effetti rapportabili alle singole imprese facenti parte dell’intesa”. Nel caso di specie, inoltre, le pratiche compiute “configurano le più gravi restrizioni della concorrenza già per il loro oggetto, senza bisogno che ne sia provato l’effetto”.

In ordine, poi, alle argomentazioni riferite alla crisi e alle dimensioni dei mercati coinvolti, secondo i giudici romani: “La peculiarità della situazione economica del settore non può comunque consentire pratiche, come quella in esame, di concertazione delle politiche di prezzo e di spartizione della clientela (…), e l’eventuale situazione di crisi di un settore economico non è contemplata tra i criterî rilevanti nell’ambito del giudizio di gravità dell’infrazione”. Inoltre “la mera presenza di marginali deviazioni, da parte delle imprese, rispetto (a) quanto concordato non vale a contraddire che l’intesa sia stata attuata”.

Il consolidato orientamento comunitario e nazionale circa l’intrinseca gravità delle intese orizzontali è stato esplicitato anche nel p. 12 delle Linee guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie. FM

 



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Inserito in data 05/04/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 25 marzo 2016, n. 1240

Questione rilevata d’ufficio: obbligatorietà del contraddittorio

Nel caso di questioni rilevate d’ufficio, le parti, nel corso del giudizio, devono essere poste nelle condizioni di controdedurre rispetto all’eccepita questione – questo il principio affermato dalla III Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza de qua.

Nella fattispecie, alla base dell’impugnata decisione resa dal giudice di prime cure era stata posta una questione rilevata d’ufficio (nel caso concreto, un vizio di notificazione del ricorso) rispetto alla quale non era stato previamente instaurato alcun contraddittorio tra le parti.

In particolare, il Collegio, nel giudizio de quo, ha verificato che il giudice di primo grado non aveva proceduto a norma dell’art. 73, comma 3, c.p.a., ovvero provvedendo a comunicare alla parte in udienza la questione rilevata d’ufficio, rilevante ai fini della definizione della causa, né aveva provveduto ad emanare un’ordinanza con assegnazione alle parti di un termine per il deposito di memorie in ordine alla rilevata questione.

Pertanto,  accogliendo il ricorso proposto, i Giudici di Palazzo Spada, ai sensi dell’art.105 c.p.a., hanno rimesso la causa avanti al giudice di prime cure, essendo per l’appunto mancato, in primo grado, il contraddittorio sulla questione sollevata d’ufficio. MB

 



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Inserito in data 04/04/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VIII - 24 marzo 2016, n. 1560

Sorteggio o esperimento migliorativo in caso di parità delle offerte?

Con la pronuncia in epigrafe, la Sez. ottava del T.A.R. Campania – Napoli ha affrontato la questione relativa alla legittimità o meno dell’aggiudicazione di un appalto di  servizi, disposta mediante sorteggio tra le due offerte risultate pari merito, ove la stazione appaltante non abbia preventivamente consentito alle imprese partecipanti alla gara l’esperimento migliorativo della propria offerta.

Ai sensi del 1° comma dell’art.77 del R.D. n.827 del 23.05.24, quando nelle aste a ribasso due o più concorrenti presenti all’asta facciano la medesima offerta ed essa sia accettabile, la Commissione, accertata la definitiva identità di punteggio delle offerte, procede ad una licitazione esclusivamente fra i concorrenti risultati pari merito, dovendo dichiarare aggiudicatario colui che abbia migliorato i termini della propria offerta.

Solo nell’ipotesi in cui nessuno di coloro che hanno presentato le medesime offerte sia presente alle operazioni di gara ovvero nel caso in cui i presenti non vogliano migliorare le condizioni dell’offerta sarà ammesso il ricorso al sorteggio ai sensi del richiamato art. 77.

La stessa giurisprudenza formatasi in materia – hanno ricordato i Giudici campani - ha affermato che “l’esperimento del tentativo di miglioria delle offerte, di cui al primo comma del cit. art. 77 del R.D. n. 827/24, va in ogni caso ammesso da parte del seggio di gara, prima che possa procedersi al sorteggio tra le offerte eguali; e ciò quand’anche la lex specialis di gara (come nel caso di specie) indicasse  nel sorteggio l’unica modalità di scioglimento della parità tra più offerte”. Quindi, la parità delle offerte deve ritenersi raggiunta quando non siano state apportate migliorie alle condizioni dell’offerta stessa ovvero le offerte siano risultate di importo pari.

La finalità della disposizione – ha sottolineato il Collegio - è quella di “assicurare all’Amministrazione, a fronte della parità tra i concorrenti, la possibilità di ottenere un vantaggio ulteriore, in luogo di rimettere meramente alla sorte la scelta tra i due partecipanti classificati con pari punteggio”.

Peraltro - hanno ulteriormente precisato i giudici della Sez. ottava - la norma in questione, contenuta nel regolamento di contabilità generale dello Stato, presenta un’applicazione generalizzata - poiché mai abrogata, né implicitamente né esplicitamente, dagli interventi legislativi susseguitisi in materia di appalti - ed è, pertanto, suscettibile di applicazione in tutte le procedure di gara. MB 


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Inserito in data 01/04/2016
TAR MOLISE - CAMPOBASSO, SEZ. I - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 25 marzo 2016, n. 161

E’ rilevante e non manifestamente infondata la q.l.c. dell’art. 9 del D.L. n. 90/14

La controversia posta al vaglio del Tar Molise ha ad oggetto “le sensibili riduzioni che il citato art. 9 del d.l. 24 giugno 2014, n. 90 convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114 dei compensi professionali da riconoscere agli Avvocati (e Procuratori) dello Stato”.

Al fine di una migliore comprensione del giudizio, è utile riportare il contenuto dell’art. art. 9 del d.l. n. 90/2014:

<<(Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici).

1. I compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all'articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni.

2. Sono abrogati il comma 457 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e il terzo comma dell'articolo 21 del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611. L'abrogazione del citato terzo comma ha efficacia relativamente alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto.

3. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, le somme recuperate sono ripartite tra gli avvocati dipendenti delle amministrazioni di cui al comma 1, esclusi gli avvocati e i procuratori dello Stato, nella misura e con le modalità stabilite dai rispettivi regolamenti e dalla contrattazione collettiva ai sensi del comma 5 e comunque nel rispetto dei limiti di cui al comma 7. La parte rimanente delle suddette somme è riversata nel bilancio dell'amministrazione.

4. Nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, il 50 per cento delle somme recuperate è ripartito tra gli avvocati e procuratori dello Stato secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato, adottate ai sensi del comma 5. Un ulteriore 25 per cento delle suddette somme è destinato a borse di studio per lo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, da attribuire previa procedura di valutazione comparativa. Il rimanente 25 per cento è destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, di cui all'articolo 1, comma 431, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, e successive modificazioni.

5. I regolamenti dell'Avvocatura dello Stato e degli altri enti pubblici e i contratti collettivi prevedono criteri di riparto delle somme di cui al primo periodo del comma 3 e al primo periodo del comma 4 in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali. I suddetti regolamenti e contratti collettivi definiscono altresì i criteri di assegnazione degli affari consultivi e contenziosi, da operare ove possibile attraverso sistemi informatici, secondo princìpi di parità di trattamento e di specializzazione professionale.

6. In tutti i casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni pubbliche di cui al comma 1, ai dipendenti, ad esclusione del personale dell'Avvocatura dello Stato, sono corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento previsto, il quale non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013. Nei giudizi di cui all'articolo 152 delle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, possono essere corrisposti compensi professionali in base alle norme regolamentari o contrattuali delle relative amministrazioni e nei limiti dello stanziamento previsto. Il suddetto stanziamento non può superare il corrispondente stanziamento relativo all'anno 2013.

7. I compensi professionali di cui al comma 3 e al primo periodo del comma 6 possono essere corrisposti in modo da attribuire a ciascun avvocato una somma non superiore al suo trattamento economico complessivo.

8. Il primo periodo del comma 6 si applica alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto. I commi 3, 4 e 5 e il secondo e il terzo periodo del comma 6 nonché il comma 7 si applicano a decorrere dall'adeguamento dei regolamenti e dei contratti collettivi di cui al comma 5, da operare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. In assenza del suddetto adeguamento, a decorrere dal 1ºgennaio 2015, le amministrazioni pubbliche di cui al comma 1 non possono corrispondere compensi professionali agli avvocati dipendenti delle amministrazioni stesse, ivi incluso il personale dell'Avvocatura dello Stato.

9. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare minori risparmi rispetto a quelli già previsti a legislazione vigente e considerati nei saldi tendenziali di finanza pubblica>>.

Ciò considerato, “il Tribunale osserva che le disposizioni in esame, per il loro contenuto univoco e (su alcuni profili) di immediata applicazione, non si prestano in alcun modo a una interpretazione costituzionalmente orientata, imponendo la rimessione della questioni alla Corte costituzionale in relazione agli aspetti che ad avviso del Collegio non sono manifestamente infondati e che di seguito si illustrano”.

Invero, “la prima di tali questioni concerne la possibilità, ai sensi dell’art. 77 Cost., di introdurre una vera e propria riforma strutturale del trattamento economico spettante agli Avvocati dello Stato, con lo strumento del decreto legge (peraltro a contenuto plurimo)”.

La questione menzionata riveste, peraltro, “carattere pregiudiziale rispetto a quelle di merito in quanto riguarda la stessa ammissibilità dello strumento del decreto legge ed è stata già scrutinata in giudizio identico dal Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, che l’ha rimessa alla Corte Costituzionale, ritenendola non manifestamente infondata, con argomenti che il Collegio ritiene condivisibili (cfr. ordinanza 10 marzo 2016, n. 138)”.

Secondo il Tribunale di Giustizia Amministrativa, infatti, <<l’art. 77, commi secondo e terzo, della Costituzione prevede la possibilità per il Governo di adottare, sotto la propria responsabilità, atti con forza di legge (nella forma del decreto legge) come ipotesi eccezionale, subordinata al rispetto di condizioni precise. Tali atti, qualificati dalla stessa Costituzione come “provvisori”, devono risultare fondati sulla presenza di presupposti “straordinari” di necessità ed urgenza e devono essere presentati, il giorno stesso della loro adozione, alle Camere, ai fini della conversione in legge, conversione che va operata nel termine di sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Ove la conversione non avvenga entro tale termine, i decreti-legge perdono la loro efficacia fin dall'inizio, salva la possibilità per le Camere di regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti-legge non convertiti.

Al riguardo la Corte costituzionale (che, inizialmente, aveva reputato la legge di conversione quale atto di novazione della fonte, il che rendeva impossibile lo scrutinio sui presupposti del decreto legge una volta intervenuta la conversione, cfr. sentenza n. 108 del 1986), a partire dalla metà degli anni novanta del secolo scorso ha affermato che “la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell'adozione del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura in primo luogo un vizio di illegittimità costituzionale del decreto-legge che risulti adottato al di fuori dell'ambito applicativo costituzionalmente previsto”. La Corte ha altresì precisato che lo scrutinio di costituzionalità “deve svolgersi su un piano diverso” rispetto all'esercizio del potere legislativo, in cui “le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti”. Ha specificato al riguardo che “il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d'urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità”, deve “risultare evidente”, e che tale difetto di presupposti, “una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge”. Ha perciò escluso, con ciò, l'eventuale efficacia sanante di quest'ultima, dal momento che “affermare che tale legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto, significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie” (sentenze n. 128 del 2008; n. 171 del 2007; n. 29 del 1995).

La Corte ha poi precisato che il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali di cui all’art. 77, secondo comma, si ricollega “ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico”, e che l’urgente necessità del provvedere “può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare”. In tale ottica, la Corte ha conferito rilievo anche all'art. 15, comma 3, della l. 23.8.1988, n. 400, che “pur non avendo, in sé e per sé rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità … costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell'art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell'intero decreto legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell'eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento” (sentenza n. 22 del 2012 sul cosiddetto “decreto milleproroghe”).

Ora, applicando gli insegnamenti della Corte costituzionale, occorre verificare se la “evidente” carenza del requisito della straordinarietà, del caso di necessità e di urgenza di provvedere, renda la prospettata questione non manifestamente infondata.

Al riguardo si osserva che l'epigrafe del decreto reca l'intestazione “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari”.

Il preambolo del decreto così recita: “Ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di semplificazione per l'accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre disposizioni volte a garantire un miglior livello di certezza giuridica, correttezza e trasparenza delle procedure nei lavori pubblici, anche con riferimento al completamento dei lavori e delle opere necessarie a garantire lo svolgimento dell'evento Expo 2015; Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per l'efficiente informatizzazione del processo civile, amministrativo, contabile e tributario, nonché misure per l'organizzazione degli uffici giudiziari, al fine di assicurare la ragionevole durata del processo attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi e il più efficace impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione”.

A sua volta, l’art. 9 all’esame è parte del Titolo I rubricato “Misure urgenti per l'efficienza della p.a. e per il sostegno dell'occupazione” e del Capo I denominato “Misure urgenti in materia di lavoro pubblico”. Gli articoli del Capo dispongono, principalmente, in materia di ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni, di semplificazione e flessibilità nel turn-over, di mobilità obbligatoria e volontaria, di assegnazione di nuove mansioni, di divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza, di prerogative sindacali, di incarichi negli uffici di diretta collaborazione.

Occorre ora ricordare che, ai sensi dell'art. 15, comma 1, della l. n. 400 del 1988, i decreti legge sono presentati per l'emanazione “con l'indicazione, nel preambolo, delle circostanze straordinarie di necessità e di urgenza che ne giustificano l'adozione”, mentre il comma 3 sancisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”.

Ebbene, il dubbio di costituzionalità dell'art. 9 del decreto legge n. 90 del 2014 insorge in relazione alla circostanza che nessun collegamento pare ravvisabile tra le riportate premesse e le previsioni normative di cui si prospetta l'illegittimità costituzionale.

Difatti, il primo paragrafo del preambolo fa riferimento a interventi organizzativi e semplificatori nella e della Pubblica amministrazione, il secondo alle procedure dei lavori pubblici, il terzo all’informatizzazione processuale. Ambiti, dunque, che con la disposizioni di cui si discute - volta a riformare la struttura degli onorari degli avvocati dello Stato e degli altri enti pubblici nell’ottica del contenimento della spesa pubblica - non sembrano aver nulla a che vedere. Appare dunque carente il rapporto tra la norma censurata e l’elemento funzionale - finalistico proclamato nel preambolo, come espressamente richiesto dalla Corte costituzionale.

Per converso, in nessun punto del preambolo è stato dato conto delle ragioni di necessità e di urgenza che imponevano l'adozione - a mezzo di decreto legge - delle disposizioni di riforma strutturale degli onorari all’Avvocatura dello Stato di cui all'art. 9. L’infrazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione appare, quindi, questione non manifestamente infondata.

A tale stregua occorre ancora rammentare che la Corte costituzionale ha specificato come “l'inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge»”, di cui all’art. 77, e che “il presupposto del «caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno”, per cui “la scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale” (sentenza n. 22 del 2012).

Ne discende che l’immissione delle disposizioni all’esame (come si è detto, di riforma strutturale degli onorari) nel corpo di un decreto legge volto, dichiaratamente, alla “più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici, a realizzare interventi di semplificazione dell'organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e a introdurre ulteriori misure di semplificazione per l'accesso dei cittadini e delle imprese ai servizi della pubblica amministrazione”, non vale a trasmettere alle stesse - che appaiono quindi dissonanti - il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate invece tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità.

Per altro, ma correlato, profilo, occorre osservare che l’art. 9 contiene anche alcune misure che non sono “auto-applicative”, ossia “di immediata applicazione” come sancito dall'art. 15, comma 3, della l. n. 400 del 1988.

Sul punto si rileva che, nonostante sia previsto che la nuova disciplina si applichi alle sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 90 del 2014, il comma 8 stabilisce però che il nuovo regime dei compensi (nella parte che riconosce il 50 per cento delle somme recuperate - commi 3, 4 e 5, secondo e terzo periodo del comma 6) può trovare applicazione solo a decorrere dall’introduzione, nei regolamenti dell'Avvocatura dello Stato, di regole che prevedano criteri di riparto delle somme “in base al rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che tengano conto tra l'altro della puntualità negli adempimenti processuali”.

Sicché, trova ulteriore conferma il dubbio circa la concreta sussistenza del caso straordinario di necessità e di urgenza, il solo che può legittimare il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento>>.

Sulla base di tali considerazioni, “il Tribunale della Giustizia Amministrativa di Trento ha sospeso il giudizio e rimesso gli atti alla Corte costituzionale, limitatamente alla questione appena illustrata e il Collegio ritiene che analoga rimessione debba essere disposta anche nell’ambito del presente giudizio”.

Unitamente alla questione testé illustrata, “il Collegio nutre perplessità su altra questione di legittimità costituzionale della disciplina in esame, con cui i ricorrenti lamentano la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) tra Avvocati dello Stato ed Avvocati di altre Amministrazioni pubbliche, avendo i commi 3 e 6 dell’art. 9 del d.l. n. 90/2014 introdotto la decurtazione degli onorari solo per i primi (corresponsione nei limiti del 50% delle somme liquidate nei provvedimenti giurisdizionali in favore dell’Amministrazione in caso di vittoria della causa ed azzeramento dei compensi stessi in caso di transazione e compensazione delle spese)”.

A tal uopo, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire che il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso cui può attuarsi una politica di riequilibrio del bilancio, implicano sacrifici gravosi “che trovano giustificazione nella situazione di crisi economica”, si giustificano sotto il profilo della ragionevolezza “in quanto mirate ad un risparmio di spesa che opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica − sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono − e per un periodo di tempo limitato, che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio” (Corte Cost. n. 310/2013).

Si tratta, quindi, di provvedimenti che, pur diversamente modulati, “devono applicarsi all’intero comparto pubblico e impongono limiti e restrizioni generali”, in una dimensione che la Corte ha connotato in senso solidaristico (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto, già citato e sentenza n. 178 del 2015).

Alla luce delle riportate coordinate, “destano perplessità le specifiche deroghe specificamente riferite all’Avvocatura di Stato nei commi 3 e 6 del contestato articolo 9 del d.l. 90/2014, atteso che mentre agli avvocati delle Amministrazioni pubbliche non statali è accordata la possibilità di acquisire le somme liquidate in favore dell’Amministrazione patrocinata, anche in misura integrale secondo quanto previsto nei regolamenti dei rispettivi enti, per gli Avvocati dello Stato una tale possibilità è limitata ex ante al 50%, mentre è del tutto esclusa con riguardo ai casi di sentenza favorevole con compensazione delle spese ove invece gli avvocati delle altre Amministrazioni incontrano il solo limite dello stanziamento di bilancio per l’anno 2013”.

Per il Collegio, infatti, deve escludersi che tale divaricazione della disciplina trovi giustificazione nel livello della “componente fissa” della retribuzione degli Avvocati dello Stato, “non potendo addursi a pretesa giustificazione la circostanza per cui siffatta componente fissa sarebbe superiore in media a quella degli avvocati delle Amministrazioni pubbliche, poiché, come noto, i difensori, soprattutto quelli posti in posizione apicale, di altre pubbliche amministrazioni, con particolare riferimento alle Autorità di regolazione, godono di un trattamento economico che, nella parte fissa, è superiore a quello degli Avvocati dello Stato”.

Peraltro, “gli avvocati delle Amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato hanno statuti e inquadramenti che mutano da un ente all’altro senza possibilità di individuare una disciplina giuridico/economica unitaria, di modo che l’assegnazione ai soli Avvocati dello Stato di un trattamento economico variabile peggiorativo rispetto agli altri, potrebbe assumere il carattere di una penalizzazione discriminante, soprattutto se il trattamento deteriore consegue alla semplice appartenenza alle fila dell’Avvocatura e non sia agganciata ad una soglia stipendiale specifica”.

Ne consegue, quindi, che “i dubbi di costituzionalità non si sarebbero posti qualora il provvedimento contestato, anziché identificare specificamente negli Avvocati dello Stato i destinatari della deroga, avesse stabilito la limitazione del riconoscimento delle competenze nei confronti di tutti gli avvocati di enti pubblici che superassero nella quota fissa una determinata retribuzione; ciò in linea con la richiamata giurisprudenza costituzionale secondo cui la prioritaria azione di risanamento delle finanze, pur legittimando l’adozione di misure che comportano sacrifici per le categorie di volta in volta incise, non può non essere condotta nel rispetto del fondamentale principio di ragionevolezza e deve avere riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego sia pure valorizzando le distinzioni statutarie esistenti” (cfr.: Corte Costituzionale sentenza 310 del 2013, cit.).

Nella fattispecie, “l’art. 9 del d.l. n. 90/2014 è rivolto alla riforma della retribuzione della parte variabile dei compensi non solo dell’Avvocatura dello Stato ma di tutte le avvocature pubbliche, di modo che la coerenza e ragionevolezza dell’intervento normativo deve essere letta nel contesto più generale in cui l’intervento è posto in essere, con la conseguenza che ogni differenziazione del trattamento, quale è quello deteriore riservato all’Avvocatura dello Stato nel riconoscimento delle “spese legali”, dovrebbe fondarsi su circostanze obiettive che nella specie non paiono ravvisabili”.

Con ciò non si vuole trascurare di considerare “il particolare statuto che regola l’attività degli Avvocati dello Stato i quali, a differenza degli avvocati delle altre Amministrazioni pubbliche, appartengono ad un plesso organizzativo distinto rispetto a quello dell’ente (lo Stato) che essi sono chiamati difendere in sede giudiziale; sennonché, il Collegio ritiene che tale circostanza rilevi al fine di garantire una posizione di maggiore indipendenza ai primi, ma non può valere a giustificarne la sottoposizione ad un trattamento economico deteriore rispetto a quello goduto dalle altre avvocature pubbliche, soprattutto nei casi in cui queste godano del medesimo trattamento economico di parte fissa”.

In conclusione, le considerazioni esposte fondano “il giudizio di rilevanza, ai fini della compiuta decisione nel merito della controversia, e di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, di “Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello Stato e delle avvocature degli enti pubblici”, per contrasto con gli artt. 77, secondo comma, e 3 della Costituzione”. EF

 



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Inserito in data 31/03/2016
TAR MARCHE - ANCONA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 22 marzo 2016, n. 185

Rimessa alla Corte di Giustizia UE l’esperibilità della VIA per impianto già realizzato

Con l’ordinanza in esame, il Collegio sospende il giudizio “al fine di richiedere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una decisione in ordine alla compatibilità comunitaria dell’esperibilità della verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (art. 4 c.2 direttiva 2011/92/UE) e, conseguentemente, alla VIA, relativamente ad un impianto già realizzato.

Nella fattispecie, “ciò è avvenuto a seguito di annullamento giurisdizionale dell’autorizzazione concessa in assenza di verifica di assoggettabilità a VIA, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario.

A tal proposito, il Collegio ritiene che “nell’ordinamento interno italiano non è attualmente presente alcuna norma che disciplini la valutazione di impatto ambientale cosiddetta postuma, ad impianto realizzato”.

Invero, “per gli impianti già autorizzati, l’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 stabilisce semplicemente che i provvedimenti di autorizzazione o approvazione adottati senza la previa valutazione di impatto ambientale sono annullabili per violazione di legge, come avvenuto nel caso in esame. In caso di realizzazione degli impianti senza la previa sottoposizione alle fasi di verifica di assoggettabilità o di valutazione, il medesimo art. 29 del d.lgs. n.152/2006 dispone, al comma 4, che l’autorità competente, valutata l'entità del pregiudizio ambientale arrecato e quello conseguente alla applicazione della sanzione, dispone la sospensione dei lavori e può disporre la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi e della situazione ambientale a cura e spese del responsabile, o, in caso di inottemperanza, d'ufficio”.

Il successivo comma 5 prevede che “in caso di annullamento in sede giurisdizionale o di autotutela di autorizzazioni o concessioni rilasciate previa valutazione di impatto ambientale o di annullamento del giudizio di compatibilità ambientale, i poteri di cui al comma 4 sono esercitati previa nuova valutazione di impatto ambientale”.

Sul punto, in recenti pronunce, il Giudice interno ha affermato “la compatibilità comunitaria, della VIA successiva alla realizzazione dell’impianto”.

Essa, infatti, “non sarebbe in contrasto con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria, la quale si preoccupa di chiarire quali conseguenze derivino dalla mancata previa effettuazione della VIA o della verifica di assoggettabilità alla VIA”.

Si è argomentato che “l’omissione comporta, in generale, la sospensione o l'annullamento dell'autorizzazione, salvo casi eccezionali in cui risulti preferibile per l'interesse pubblico che gli effetti del provvedimento siano conservati, ma il vero vincolo per le autorità e i giudici nazionali è che le conseguenze della violazione del diritto comunitario siano cancellate (Corte Giust.28.2.2012 C-41/11, Inter-Environnement Wallonie, punto 63). La sospensione o l'annullamento sono, quindi, “soluzioni giuridiche strumentali, il cui scopo è consentire l'applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza, o in alternativa attraverso il risarcimento chiesto dai soggetti che abbiano subito pregiudizi a causa dell'omissione” (Corte Giust. 14.3.2013 C-420/11, Leth, punto 37; Corte Giust. 7.1.2004 C-201/02, Wells, punto 65). Si è, pertanto, ritenuta, sulla base delle predette argomentazioni, “la possibilità di effettuare in un secondo momento l'esame necessario per escludere la verifica di assoggettabilità alla VIA (Tar Brescia 4.6.2015 n. 795: in questo caso la verifica di assoggettabilità è stata successiva ma ha avuto esito negativo, per cui l’impianto non è stato sottoposto a VIA)”.

Al contrario, “il giudice di appello, in casi analoghi al presente, sembra avere escluso possibilità di una VIA postuma, seppure con riferimento alla possibilità di mantenere in esercizio gli impianti (in particolare, in sede cautelare Cons. Stato Sez. IV 19.2.2014 n. 798, che, in un caso simile a quello in esame, ordinava l’astensione <<da qualsiasi attività comportante l’ulteriore prosieguo della realizzazione e/o dell’esercizio dell’impianto per cui è causa (fermo e impregiudicato, come è ovvio, l’iter procedimentale della VIA nel frattempo chiesta dalla società odierna appellante, che non è però sufficiente a legittimare ad oggi l’operatività dell’impianto, in considerazione della nota e consolidata giurisprudenza – anche europea – che non ammette una VIA ex post)>>”.

Anche nella sentenza Cons. Stato, sez. III, 5.3.2013, n.1324 si è affermato “il necessario carattere preventivo della VIA, in una decisione che però non riguardava un caso di VIA cosiddetta postuma, ma l’annullamento di un’autorizzazione per l’omesso svolgimento della procedura di VIA”.

Tuttavia, deve rammentarsi che, in un’altra pronuncia, la Corte di Giustizia si è espressa “per la contrarietà al diritto comunitario di una norma generale che permettesse la realizzazione della VIA a posteriori (Corte giust. 3.7.2008, causa C-215/06 Commissione contro Irlanda), ribadendo la natura preventiva della procedura di VIA”.

Ciò posto, con riguardo alla posizione del Collegio, si tratta di valutare se “ci si trovi di fronte a circostanze eccezionali che permettano l’esperimento a posteriori della procedura di VIA, (in presenza, si ripete, di autorizzazioni annullate a causa della mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale in ragione di norme contrarie al diritto comunitario)”.

Invero, “la posizione del Tribunale è che tale possibilità non appare in contrasto con il diritto comunitario, dovendo essere valutato in particolare quanto contenuto nella sentenza 7.1.2004 C-201/02, Wells”.

Ne consegue che, “dopo l'annullamento dell’autorizzazione, deve essere consentita l’applicazione del diritto comunitario, anche attraverso l'effettuazione della valutazione non eseguita in precedenza. Va altresì valutato che la fattispecie all’esame del Tribunale è assimilabile all’annullamento dell’autorizzazione per illegittimità, per la quale anche la normativa interna (art. 29 c.5 d.lgs 152/2006) prevede la possibilità di ripetere la VIA annullata”. Ciò appare coerente con quanto stabilito dalla già citata sentenza Corte giust., 3.7.2008, causa C-215/06 Wells, che nella parte finale (69) afferma “A tale proposito spetta al giudice nazionale accertare se il diritto interno preveda la possibilità di revocare o di sospendere un'autorizzazione già rilasciata al fine di sottoporre il detto progetto ad una valutazione dell'impatto ambientale, conformemente a quanto richiesto dalla direttiva 85/337”.

Del resto, anche la già citata sentenza Corte giust., 3.7.2008, causa C-215/06 (secondo cui tale possibilità dovrebbe essere subordinata alla condizione che essa non offra agli interessati l’occasione di aggirare le norme comunitarie o di disapplicarle, e che rimanga eccezionale, nella parte in cui richiama la già citata sentenza Wells), afferma che “la valutazione dell’impatto ambientale può essere effettuata, ad esempio revocando o sospendendo un’autorizzazione già rilasciata al fine di effettuare una tale valutazione, nel rispetto dei limiti dell’autonomia procedurale degli Stati membri”. Tale posizione sembra assimilabile al caso in esame, “dove le autorizzazioni contrarie al diritto comunitario sono state annullate dal giudice nazionale, portando alla riedizione dell’intero procedura, partendo dalla verifica di assoggettabilità alla VIA, l’esperimento di quest’ultima e, infine, eventuale adozione della successiva autorizzazione (che deve essere ancora rilasciata)”.

Alla luce di quanto suddetto, il Collegio ritiene necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia UE della questione interpretativa alla base dell’odierno ricorso: “Se, in riferimento alle previsioni di cui all’art. 191 del TFUE e all’art. 2 della direttiva 2011/92/UE, sia compatibile con il diritto comunitario l’esperimento di un procedimento di verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale (ed eventualmente a VIA) successivamente alla realizzazione dell’opera, qualora l’autorizzazione sia stata annullata dal giudice nazionale per mancata sottoposizione a verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale, in quanto tale verifica era stata esclusa in base a normativa interna in contrasto con il diritto comunitario”. EF

 



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Inserito in data 30/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 25 marzo 2016, n. 1242

Interesse qualificato al ricorso e partecipazione alla gara

Il Consiglio di Stato respinge il ricorso intentato da un operatore economico avverso l’aggiudicazione definitiva di una gara alla quale il medesimo non aveva partecipato, non essendo stato impugnato alcun atto presupposto e immediatamente lesivo della sua situazione giuridica.

Nel dettaglio, una stazione appaltante, a seguito dell’adozione, da parte del prefetto competente, di un’Informazione interdittiva antimafia ex artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011, incidente nella sfera dell’originario soggetto affidatario dei lavori per cui è causa, e odierno appellante, provvedeva a risolvere il relativo contratto d’appalto.

Veniva per l’effetto indetta una nuova procedura di gara ad evidenza pubblica.

Alla luce di sopravvenute circostanze, si riteneva “non più sussistente il pericolo di condizionamento da parte della criminalità organizzata nei confronti della (ricorrente)”; il prefetto, pertanto, revocava la misura interdittiva, e provvedeva alla riabilitazione della società in questione.

L’appellante, com’è noto, impugnava l’aggiudicazione definitiva della nuova gara.

Il collegio evidenzia come l’impresa interessata si sia “limitata ad impugnare l’aggiudicazione definitiva della gara (…), non impugnando alcun atto presupposto e immediatamente lesivo della sua posizione giuridica, segnatamente la scelta dell’amministrazione di indire una nuova gara (…), e limitandosi a riportare, nell’oggetto della domanda, una mera clausola di stile Ê»nonché, occorrendo, degli atti presupposti e/o precedenti non ancora cogniti, essendone negato l’accesso’”. “La giurisprudenza ha da tempo affermato che l’utilizzo di formule di stile come quelle utilizzate, nonché di formule analoghe, non sono utili ad estendere l’impugnazione nei confronti di atti non specificamente indicati in epigrafe (gli atti presupposti)”. Richiamando il previgente art. 6, r.d. n. 642/1907, l’attuale art. 40 c.p.a., e l’interpretazione costante della disposizione, osservano i giudici che “nel processo amministrativo l’individuazione degli atti impugnati deve essere operata non con riferimento alla sola epigrafe, bensì in relazione all’effettiva volontà del ricorrente, quale è desumibile dal tenore complessivo del gravame e dal contenuto delle censure dedotte sicché è possibile ritenere che sono oggetto di impugnativa tutti gli atti che, seppure non espressamente indicati tra quelli impugnati ed indipendentemente dalla loro menzione in epigrafe, costituiscono senz’altro oggetto delle doglianze di parte ricorrente in base ai contenuti dell’atto di ricorso; il generico richiamo, nell’epigrafe del ricorso, alla richiesta di annullamento degli atti presupposti, connessi e conseguenti, o la mera citazione di un atto nel corpo del ricorso stesso non sono sufficienti a radicarne l’impugnazione, in quanto i provvedimenti impugnati devono essere puntualmente inseriti nell’oggetto della domanda ed a questi devono essere direttamente collegate le specifiche censure; ciò perché solo l’inequivoca indicazione del petitum dell’azione di annullamento consente alle controparti la piena esplicazione del loro diritto di difesa”.

Nel caso in esame, dal ricorso non si evince in alcun modo, chiaramente ed inequivocabilmente, che parte appellante abbia inteso contestare la decisione di indire la nuova gara con la conseguenza che, mancando l’impugnativa del relativo provvedimento (…), il ricorso di primo grado non può che dichiararsi inammissibile”. “Infatti, nel processo amministrativo, ove sussista un rapporto di presupposizione tra atti, l’omessa o tardiva impugnazione dell’atto presupposto rende inammissibile il ricorso giurisdizionale proposto contro l’atto conseguenziale, ove non emerga la deduzione di vizî proprî che possano connotare un’autonoma illegittimità della singola fase procedimentale di attuazione”.

Condizione essenziale per poter contestare in sede giudiziaria la determinazione negativa della stazione appaltante (…), è l’avvenuta presentazione nei termini fissati dal bando o dalla lettera d’invito della domanda di partecipazione”.

Nel caso di specie, l’appellante (…) non ha partecipato alla gara e, quindi, non ha alcun interesse giuridicamente rilevante a censurarne l’esito al fine di ottenerne la ripetizione, in quanto titolare di un mero interesse di fatto (cfr. Consiglio di Stato, ad. pl., 7 Aprile 2011, n. 4)”.

Il principio sopra esposto, in coerenza con i principî affermati anche in sede comunitaria, può essere derogato riconoscendo la legittimazione a ricorrere anche al non partecipante alla gara, ma solo in tre specifiche ipotesi:

- quando, a prescindere, dalla partecipazione alla stessa, il ricorrente abbia specificatamente impugnato la scelta dell’amministrazione di indire la gara;

- quando il ricorrente non abbia potuto partecipare alla gara per mancanza della stessa in quanto l’amministrazione ha proceduto ad affidamento diretto;

- infine, quando il bando di gara contenga clausole escludenti per il ricorrente”.

Parte appellante pare dolersi (…) esclusivamente dell’eventuale mancato pagamento, da parte della stazione appaltante, delle lavorazioni eseguite e del rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione, nei limiti delle utilità conseguite dall’amministrazione, petitum che attenendo all’esecuzione del contratto, non rientra nella, giurisdizione del giudice adito”.

Inoltre “l’appellante afferma la natura non vincolata, ma discrezionale del potere di risoluzione/recesso esercitato (…), affermazione del tutto confutata da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questo Consiglio (…), atteso in particolare che la stazione appaltante non ha facoltà di sindacare il contenuto dell’Informativa prefettizia, poiché è al prefetto che la legge demanda in via esclusiva la raccolta degli elementi e la valutazione circa la sussistenza del tentativo di infiltrazione mafiosa”. FM 


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Inserito in data 29/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 marzo 2016, n. 1239

Danno da ritardo nell’emissione di un provvedimento amministrativo favorevole

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato si pronuncia in merito alla natura dei termini di cui all’art. 20, comma 4, d.lgs. n. 152/2006 – dettati in ordine alla Valutazione d’impatto ambientale (V.i.a.) – nonché ai presupposti del risarcimento del danno da ritardo della pubblica amministrazione.

Il collegio, segnatamente, rileva come ai termini in questione debba attribuirsi carattere non perentorio, bensì ordinatorio. La relativa inosservanza, infatti, non comporta “alcuna causa inficiante la validità della procedura con conseguente illegittimità degli (…) atti; né implica alcuna decadenza per l’amministrazione dal potere di provvedere, benché tardivamente”.

Alla violazione dei termini sono tuttavia connesse “responsabilità disciplinari, penali, contabili e (…) risarcitorie per danni da ritardo, in presenza dei relativi presupposti”.

I giudici della quinta sezione, richiamando la propria giurisprudenza, affermano che: “Il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, quando tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo”.

Viene, invero, anche dato atto di un consistente indirizzo giurisprudenziale il quale connette l’accertamento del danno da ritardo, da un lato, alla lesione di interessi legittimi pretensivi, e dall’altro, alla fattispecie dell’art. 2043 c.c.. Secondo tale ricostruzione, la sussistenza del danno e la sua ingiustizia non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, “in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo”, ma necessitano di essere provate, ex art. 2697 c.c., alla luce dei presupposti tanto oggettivi, quanto soggettivi dell’illecito: “Il mero superamento del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra piena prova del danno”.

Nella fattispecie concreta, tuttavia, “a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del provvedimento finale, che ha consentito al privato l’ottenimento del bene della vita (…), e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali non giustificata da rilievi da parte dell’amministrazione, in sede procedimentale, ovvero in sede giudiziale, di difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato, deve considerarsi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria”. FM

 



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Inserito in data 26/03/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 10 marzo 2016, n. 52

Confessioni religiose, diniego trattative e sindacabilità atto

I Giudici della Consulta chiariscono, con la pronuncia in esame,  la natura dell’atto con cui il Consiglio dei Ministri ha negato, ad un’associazione nascente, l’apertura delle trattative per la stipulazione dell’intesa di cui all’articolo 8, terzo comma, della Costituzione. Tale norma, nel richiamare l’organizzazione propria delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, statuisce come i relativi rapporti con lo Stato italiano siano regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze

L’arresto è degno di rilievo per la particolarità dei profili da esso evidenziati.

In primo luogo, infatti, il Collegio costituzionale sottolinea come spetti unicamente  al Consiglio dei ministri valutare l’opportunità di avviare trattative con una determinata associazione, al fine di addivenire, in esito ad esse, alla elaborazione bilaterale di una speciale disciplina dei reciproci rapporti.

I Giudici ricordano come la previsione di cui al 3’ comma dell’articolo 8 della Costituzione non sia una disposizione procedurale, meramente servente rispetto agli altri due commi della medesima disposizione e, come tale, eventualmente destinata a dare attuazione ai principi di eguaglianza e di pluralismo religioso in essi sancita.

Si tratta, piuttosto, di una norma tesa ad estendere il metodo bilaterale ad associazioni in fieri, aventi un’indole differente dalla cattolica, ma solo a seguito di una previa valutazione propria del Consiglio dei Ministri.

Di ciò tale Organo risponde dinanzi al Parlamento – ex articolo 2, comma 3, lettera l), della legge n. 400 del 1988 – nel pieno rispetto di una responsabilità politica attivabile in seno ad un Governo parlamentare.

La riserva di competenza a favore del Consiglio dei ministri, in ordine alla decisione di avviare o meno le trattative, sottolineano i Giudici, ha l’effetto di rendere possibile, secondo i principi propri del governo parlamentare, l’effettività del controllo del Parlamento fin dalla fase preliminare all’apertura vera e propria delle trattative, controllo ben giustificato alla luce dei delicati interessi protetti dal terzo comma dell’articolo 8 della Costituzione.

In quanto tale, prosegue il Collegio della Consulta, non si può ravvedere nel nostro Ordinamento alcun obbligo in capo al Governo a fronte di una “paventata pretesa” vantata da parte delle nascenti associazioni; non configurandosi simili situazioni giuridiche soggettive, ne discende l’insindacabilità in sede giudiziaria.

Non spettava, pertanto, alla Corte di cassazione - Sezioni Unite civili - affermare la sindacabilità di una decisione di diniego, prospettata dal Consiglio dei Ministri ed erroneamente sottoposta – nel caso di specie - al vaglio dei Giudici comuni.

La valutazione del Governo circa l’avvio delle trattative ex articolo 8, terzo comma, della Costituzione, nel cui ambito ricade anche l’individuazione, in concreto, dell’interlocutore, involge anche apprezzamenti di opportunità – come tali implicanti una discrezionalità politica – rimessa – ex articolo 95 della Costituzione alla responsabilità del Governo e come tale non suscettibile di sindacato giurisdizionale.

I Giudici della Consulta, pertanto, ricostruito il quadro delle situazioni giuridiche nascenti e circoscritto il tutto nel novero della discrezionalità politica, escludono la sovrapponibilità di un sindacato del Giudice – quale quello verificatosi e censurato nella fattispecie in esame. CC

 



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Inserito in data 25/03/2016
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 marzo 2016, n. 5511

Sulla notifica collettiva ed impersonale agli eredi

II codice di rito non contiene una disciplina specifica per la notificazione agli eredi nel caso “in cui la morte della parte intervenga prima della notificazione della sentenza (perché l'evento si è verificato o nel corso del processo, senza essere dichiarato dal procuratore ai fini dell'interruzione, o dopo la chiusura della discussione od, ancora, nella pendenza dei termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.). In tali ipotesi soccorrono le previsioni degli artt. 286 e 328, 2° comma, c.p.c., per un'evidente esigenza di parità di trattamento fra chi vuole provocare il decorso del termine breve di impugnazione attraverso la notificazione della sentenza e chi deve esercitare l'impugnazione: se infatti è giustificata la grave conseguenza del decorso del termine breve, e quindi del possibile passaggio in giudicato della sentenza, per effetto di una notifica impersonale e collettiva, purché effettuata presso l'ultimo domicilio del defunto, altrettanto giustificato è che, proprio per evitare questa conseguenza, il diritto di impugnazione possa essere esercitato verso gli eredi collettivamente e impersonalmente mediante la notifica dell'atto presso il medesimo domicilio” (cfr., in termini, Cass. n. 15123/07).

Ne discende la nullità della notifica dell'atto di appello eseguita impersonalmente e collettivamente nei confronti degli eredi non già presso l'ultimo domicilio del defunto, ma al domicilio da questi eletto, nello studio del suo procuratore, nel giudizio di primo grado.

Non può, pertanto, invocarsi “il recente revirement delle SS.UU. che, con la sentenza 152951014, hanno ritenuto che quando la morte o la perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore non vengano dichiarate in udienza o notificate alle altre parti, è ammissibile, giusta la regola dell'ultrattività del mandato alla lite, la notificazione dell'impugnazione eseguita nei confronti di tale parte presso il predetto procuratore, ai sensi dell'art. 330, 1 ° comma, c.p.c.”.

In conclusione, la tardiva costituzione in appello degli eredi, se, da un lato, comporta la sanatoria della nullità della notificazione (con effetto ex nunc), dall’altro, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado. EF

 




Inserito in data 25/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 24 marzo 2016, n. 1216

La giurisdizione esclusiva del G.A. “abbraccia” qualunque uso e governo del territorio

La questione posta al vaglio del Consiglio di Stato riguarda il “cattivo uso di una potestà amministrativa, in relazione al rilascio e al mantenimento - considerati l’uno e l’altro illegittimi - di titoli (autorizzazioni; rifiuto di annullamento in autotutela) che consentirebbero il concreto accesso ad autorimesse in luoghi diversi da quelli per cui i titoli sarebbero stati assentiti e permetterebbero il passaggio su una strada non pubblica”.

In sostanza, “la controversia in sé investe atti e provvedimenti concernenti un aspetto di quell’<<uso del territorio>> che - a norma dell’art. 133, lett. f), c.p.a. - appartiene alla giurisdizione esclusiva del G.A.”.

A tal proposito, pertanto, “non vi è ragione per discostarsi dai precedenti della Sezione la quale, in adesione agli orientamenti della Corte di Cassazione, ha ritenuto che la giurisdizione esclusiva amministrativa in materia urbanistica abbracci la totalità degli aspetti dell'uso del territorio, per cui, oltre le attribuzioni normative, deve essere ricondotte a tale ambito anche qualunque attività di gestione, nell'accezione onnicomprensiva di governo e uso del territorio” (cfr. sez. IV, 16 febbraio 2011, n. 1014).

In conclusione, “la circostanza che - come nel caso di specie - la controversia afferisca a un particolare aspetto dell'uso del territorio comunale è presupposto necessario e sufficiente a fondare la giurisdizione esclusiva del G.A.” (cfr. da ultimo Cass. civ., ss.uu., 9 luglio 2015, n. 1435). EF

 



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Inserito in data 24/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - 21 marzo 2016, n. 1160

Requisito di moralità professionale e dimostrazione della dissociazione: rinvio alla CgUe

Con l’ordinanza in esame, i giudici del Consiglio di Stato rimettono alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea una questione pregiudiziale riguardante la disciplina di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163 del 2006 sul requisito della moralità professionale degli ex amministratori, con particolare riferimento alla dimostrazione da parte dell’impresa concorrente della dissociazione nel caso di condanna penale.

In particolare, in base al tenore letterale dell’art. 38, comma 1, lett. c), la portata escludente del requisito di moralità professionale riguarderebbe l’impresa il cui ex amministratore delegato – cessato dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara – sia stato condannato con sentenza di condanna passata in giudicato, o con decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure con sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per i reati contemplati nella citata disposizione legislativa, «qualora l’impresa stessa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata».

Tuttavia, in base all’interpretazione seguita dal giudice di prime cure nel caso di specie, la portata escludente del requisito in esame è stata ampliata a tal punto che, ad avviso del Consiglio di Stato, la normativa nazionale non sarebbe più compatibile con il diritto dell’Unione Europea.

In particolare, essa non sarebbe compatibile nella parte in cui configura una causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa, valutazione che – anche alla luce di un parere dell’Autorità di Vigilanza e della prevalente giurisprudenza nazionale – consente a alla stazione appaltante stessa di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara:

(i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;

(ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti;

(iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede.

Il Consiglio di Stato, nel rinviare la sopraindicata questione alla Corte di Giustizia dell’Ue, individua come parametri per il giudizio di compatibilità con il diritto europeo l’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 nonché i principi di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie.

Infine, il Consiglio ritiene di precisare che la decisione di adire la Corte in via pregiudiziale spetta unicamente al giudice nazionale, a prescindere dal fatto che le parti del procedimento principale ne abbiano o meno formulato l’intenzione, con la conseguente ammissibilità della formulazione di questioni anche d’ufficio, senza attenersi ai quesiti proposti dalle parti. SS 



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Inserito in data 24/03/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 marzo 2016, n. 56

Limiti alla discrezionalità del legislatore in materia di sanzioni penali

Il Tribunale ordinario di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, lettera a), del d.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), nella parte in cui, anche quando non risultino superati i limiti quantitativi previsti dalla successiva lettera b), punisce con la sanzione della reclusione da uno a quattro anni, anziché con le pene più lievi previste dal precedente comma 1 − che rinvia all’art. 44, comma 1, lettera c), del D.P.R. 380/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A) – colui che, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su immobili o aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori.

Secondo il Tribunale remittente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza del «deteriore» trattamento sanzionatorio riservato all’autore del reato da essa previsto, sia rispetto alle condotte identiche poste in essere su beni paesaggistici sottoposti a vincolo legale previste dal comma 1, sia rispetto alla fattispecie disciplinata dalla lettera b) della medesima disposizione, riguardante condotte poste in essere sugli stessi beni paesaggistici di significativo impatto ambientale, sia, infine, rispetto all’art. 734 c.p.

L’irragionevole trattamento sanzionatorio apprestato dalla disposizione censurata violerebbe, ad avviso del giudice a quo, anche l’art. 27 Cost., rendendo la pena ingiusta e quindi priva della sua finalità rieducativa.

Peraltro, in via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato, sempre in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 181, commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella parte in cui esclude dal proprio ambito applicativo le condotte previste dall’art. 181, comma 1-bis, lettera a): sarebbe, difatti, parimenti irragionevole escludere le cause di non punibilità e di estinzione del reato laddove si tratti di condotte identiche, quali quelle previste dai commi 1 e 1-bis del medesimo articolo.

La Corte, nel ripercorre la ratio sottesa all’introduzione di un così severo trattamento sanzionatorio – ratio che risiede nel fatto che l’integrità ambientale è un bene unitario che può risultare compromesso anche da interventi minori e che va, pertanto, salvaguardato nella sua interezza – ha affermato che la discrezionalità di cui gode il legislatore nel delineare il sistema sanzionatorio penale trova il limite della manifesta irragionevolezza e dell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.

In particolare, la Corte Costituzionale ritiene priva di ragionevolezza la disparità, sia per ciò che concerne la configurazione del reato (in un caso delitto, nell’altro contravvenzione) sia per ciò che concerne il trattamento sanzionatorio, dei reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per provvedimento amministrativo rispetto ai reati incidenti su beni paesaggistici vincolati per legge.

Ne consegue – afferma la Corte – che l’art. 181, comma 1-bis, debba essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed». SS

 



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Inserito in data 23/03/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 18 marzo 2016, n. 488

Natura del provvedimento di revisione della patente di guida

Il Tribunale toscano respinge il ricorso intentato da un automobilista avverso un provvedimento del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Ufficio della motorizzazione civile di Firenze, con il quale era stata disposta la revisione della patente di guida dell’interessato, a seguito della provocazione di un grave incidente stradale.

Secondo le motivazioni espresse dal collegio, in conformità con la precedente giurisprudenza, “La revisione della patente di guida, disciplinata dall’art. 128 del codice della strada, (costituisce) provvedimento privo di valenza sanzionatoria e con natura preminentemente cautelare, di presidio della sicurezza della circolazione. In quanto tale, esso non deve essere basato su comprovati elementi di fatto, risultando sufficiente per la sua adozione l’esistenza di circostanze in grado di mettere in dubbio l’idoneità fisico-psichica, ovvero tecnica alla guida”.

Nella fattispecie concreta, peraltro, il provvedimento impugnato risultava motivato per relationem ex art. 3, comma 3, della l. n. 241/1990, mediante richiamo della comunicazione della Prefettura competente, il cui contenuto atteneva alla gravità della violazione commessa (invasione della corsia opposta di marcia, senza apparente ragione giustificativa) e all’età avanzata dell’interessato, quali ragioni fondanti l’urgente necessità di svolgere l’attività amministrativa censurata. FM 


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Inserito in data 22/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - SENTENZA NON DEFINITIVA CON ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA DEL CONSIGLIO DI STATO - 17 marzo 2016, n. 1090

Sull’interpretazione dell’art. 99, comma 3, c.p.a.

Con la sentenza in oggetto il Consiglio di Stato accoglie parzialmente il ricorso intentato da un operatore economico, aggiudicatario definitivo in una gara d’appalto, e soccombente in primo grado, e rimette all’adunanza plenaria tre questioni di diritto.

In prime cure era stata pronunciata l’esclusione dall’appellante per l’inammissibilità della sua offerta economica.

La decisione veniva censurata sulla base delle seguenti considerazioni. Riteneva l’appellante che il collegio avesse aderito a un “orientamento giurisprudenziale sviluppatosi per il diverso caso nel quale l’offerta economica fosse da intendersi pari a zero, mentre nella fattispecie il prezzo pari a zero sarebbe stato solo quello relativo alla progettazione esecutiva”. “Il disciplinare stabiliva l’applicazione della formula di cui all’allegato G del d.P.R. n. 207/2010, secondo un metodo aggregativo compensatore”. La sottrazione di punteggio non avrebbe in ogni caso consentito all’appellato di “scavalcare” l’appellante. Il meccanismo di cui all’art. 86, comma 3, d.lgs. n. 163/2006, aveva condotto ad accertare la complessiva serietà dell’offerta dell’appellante. L’incidenza del valore percentuale in questione appariva comunque marginale. Il Tribunale non avrebbe chiarito “in che termini il ribasso praticato (…) avrebbe alterato la par condicio tra i concorrenti”. Si osservava, infine, come “il costo per la progettazione esecutiva (…) sarebbe stato recuperato dai professionisti incaricati (…) attraverso un loro coinvolgimento in attività di direzione di cantiere e di gestione dei rapporti tecnico-operativi con la stazione appaltante”.

I giudici di Palazzo Spada, preliminarmente, disattendono l’eccezione d’inammissibilità del gravame, fondata sulla “mancata impugnazione da parte dell’appellante del provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione e di esclusione dalla gara”; Gli atti in questione sono stati infatti adottati in applicazione di una sentenza esecutiva (e il medesimo effetto avrebbe prodotto un’ordinanza cautelare di tipo propulsivo); tale attività amministrativa non costituisce, dunque, estrinsecazione di un potere di autotutela, e “non può comportare il venir meno della res litigiosa”, atteso che i provvedimenti in dibattito “non sono frutto di autonome valutazioni discrezionali dell’amministrazione (…) e si consolidano solo in caso di conferma della (…) pronuncia”.

Nel merito, rammenta il supremo consesso come “nelle gare d’appalto non può essere fissata una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta debba considerarsi per presunzione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale e risultando in sé ingiustificabile solo un utile pari a zero, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, come nel caso di ricadute positive che possono discendere per l’impresa in termini di qualificazione, pubblicità, curriculum, dall’essersi aggiudicata e dall’avere poi portato a termine un prestigioso appalto”. “La stazione appaltante deve, da un lato, accertarsi che l’indicazione di un valore zero di un componente dell’offerta non impedisca la valutazione dell’offerta stessa o delle altre offerte presentate dai concorrenti (…). Dall’altro, sulla scorta dell’importanza della voce dell’offerta per la quale è stato indicato un valore zero, accertare che ciò non sia sintomatico della scarsa serietà dell’offerta nel suo complesso”. “Nella fattispecie l’indicazione di un valore pari a zero per la progettazione esecutiva non ha impedito di attribuire un punteggio all’offerta dell’appellante, né a quelle delle concorrenti”.

In ordine ai motivi di cui al ricorso introduttivo assorbiti dal T.a.r., e riproposti dall’originario ricorrente, il collegio ritiene infondata la questione della mancata esclusione dell’appellante, per l’omessa “indicazione del nominativo del subappaltatore per le categorie scorporabili a qualificazione obbligatoria”, stante il principio formulato dall’adunanza plenaria, con la sentenza n. 9/2015, secondo cui: “Nelle gare d’appalto l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107 comma 2 d.P.R. 5 Ottobre 2010 n. 207 (c.d. subappalto necessario)”. Parimenti infondata è l’illegittimità della mancata esclusione dell’appellante per non essere state esplicitamente indicate, nella dichiarazione di impegno a costituire il r.t.i., le quote di partecipazione e di esecuzione dei lavori, comunque evincibili dalle compilazioni documentali predisposte secondo le istruzioni, pur non precise, della stazione appaltante. Per quanto concerne, infine, la mancata indicazione dei costi per la sicurezza, viene richiamata la recente giurisprudenza dell’adunanza plenaria, la quale, con la sentenza n. 3/2015, ha concluso nel senso dell’obbligatorietà dell’indicazione in esame; e con la sentenza n. 9/2015 ha enunciato il seguente principio di diritto: “Nelle gare d’appalto non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 2015”.

L’appellante dubita della compatibilità comunitaria della soluzione da ultimo emarginata, e suscita la questione di un intervento pregiudiziale della Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e..

Il Consiglio di Stato, relativamente a tale ultima richiesta, ritiene tuttavia di dovere preliminarmente risolvere un ulteriore punto controverso, già al vaglio della Corte di Lussemburgo, che per ragioni di opportunità viene rimesso all’adunanza plenaria. Segnatamente, il quesito attiene al “rapporto tra il ruolo nomofilattico assegnato dall’art. 99 c.p.a. all’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e l’obbligo per le singole sezioni del Consiglio, in qualità di giudice di ultima istanza di sollevare, anche d’ufficio, una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia”.

Rimettendo la questione alla Corte europea, il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana aveva dubitato della compatibilità comunitaria dell’art. 99, comma 3, c.p.a., e messo in luce come “un obbligo di rinvio accentrato in capo all’adunanza plenaria: a) limiterebbe la potestà, riconosciuta dal diritto dell’Unione europea a ogni giudice di ultima istanza degli ordinamenti degli Stati membri, di sottoporre in via diretta alla Corte di giustizia domande di pronunce pregiudiziali; b) incrinerebbe la riserva della Corte stessa sull’interpretazione del diritto dell’Unione; c) inciderebbe anche negativamente sulla durata ragionevole del processo”.

Il Consiglio di Stato formula i seguenti tre quesiti di diritto.

Se in costanza di un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, in presenza di una verifica espressa della rispondenza anche alla disciplina dell’Unione europea, che venga sospettato di contrasto con la normativa dell’Unione europea, la singola sezione deve rimettere la questione ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., oppure può sollevare autonomamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia”.

Se in costanza di un principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, in assenza di una verifica espressa della rispondenza anche alla disciplina dell’Unione europea, che venga sospettato di contrasto con la normativa dell’Unione europea, la singola sezione deve rimettere la questione ai sensi dell’art. 99, comma 3, c.p.a., oppure può sollevare autonomamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia”.

Se il principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria n. 9/2015, è rispettoso dei principî euro-unitari, di matrice giurisprudenziale, della tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, dei principî di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizî, di cui al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché dei principî che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza”. FM

 



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Inserito in data 21/03/2016
TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 16 marzo 2016, n. 147

Illegittimo il provvedimento di chiusura di un ufficio postale periferico con motivazione generica

Con la pronuncia in epigrafe, i giudici abruzzesi si sono espressi sull’illegittimità di un provvedimento di chiusura di un ufficio postale periferico, disposta per consentire l’attuazione del “piano di efficientamento”, poiché basato su motivazioni assolutamente generiche, di carattere meramente  economico-aziendale.

Preliminarmente, la I Sezione ha disatteso l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sollevata da Poste Italiane e fondata sulla considerazione che l’atto impugnato fosse riconducibile all’autonomia organizzatoria di un soggetto privato, affermando come la peculiare rilevanza attribuita all’attività svolta da Poste Italiane quale gestore di pubblico servizio - direttamente incidente, quindi, sulla gestione ed erogazione di un pubblico servizio - rientri certamente nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, co.1, lett. c), c.p.a.

Ciò premesso, nell’affrontare il merito della questione, il Collegio, condividendo consolidata giurisprudenza formatasi in materia,  ha osservato che “è da considerarsi illegittimo, per difetto di motivazione, il provvedimento con il quale la società Poste Italiane ha disposto la chiusura permanente di uffici postali facendo generico riferimento ad un piano di efficientamento volto all’adeguamento dell’offerta all’effettiva domanda dei servizi postali in tutti i Comuni del territorio nazionale in ragione del comprovato disequilibrio economico di cui alla erogazione del servizio postale universale, atteso che tale motivazione risulta disancorata da qualunque esplicitazione di fatti riferibili al caso di specie, tanto da ridursi ad una mera clausola di stile, replicabile per la sua genericità e astrattezza, e di fatto replicata in maniera pedissequa, in qualunque situazione “ addirittura su tutto il territorio nazionale.

Ed invero – ha proseguito la I Sezione, richiamando recente giurisprudenza del Consiglio di Stato  in tema – “l’Amministrazione ha il dovere di motivare adeguatamente ogni scelta compiuta, anche in ordine al contemperamento degli interessi coinvolti. La discrezionalità del potere, infatti, non esonera l’Amministrazione, chiamata ad agire, dall’onere di specificare con cura i criteri alla cui stregua le scelte sono compiute”.

Pertanto, la chiusura di un ufficio postale periferico non può essere disposta solo per ragioni di carattere economico, senza previamente aver ponderato e bilanciato, nello specifico, le contrapposte esigenze degli utenti.

Nella fattispecie, i giudici abruzzesi hanno accolto il ricorso proposto contro Poste Italiane, ritenendo illegittimo l’impugnato provvedimento per difetto di motivazione ed istruttoria, atteso che la chiusura dell’ufficio venne disposta per motivi meramente economici, senza una previa comparazione dei vari interessi coinvolti, senza una preliminare analisi delle concrete e specifiche esigenze di natura pubblica nel territorio. MB

 



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Inserito in data 21/03/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5078

Rimborso credito chiesto in dichiarazione e non esaminato nei termini dell’accertamento

Alle Sezioni Unite è stata rimessa la questione relativa alla “perentorietà o meno del termine entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve procedere alla liquidazione ed agli effetti connessi all’inutile decorso di detto termine, con riferimento ai crediti di imposta, esposti in dichiarazione”.

In particolare, la V Sezione Civile-Tributaria, con l’ordinanza interlocutoria n° 23529/2014, poneva in discussione la tesi - ampiamente condivisa dalla giurisprudenza più recente - secondo cui “anche nel caso in cui il contribuente esponga nella denuncia dei redditi un credito fiscale, l’Amministrazione deve attivarsi a contestare i dati della denuncia entro i termini previsti dalla legge per l’esercizio del potere di accertamento; ed ove ciò non faccia, il credito stesso si consolida e non può più essere disatteso”.

Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio ha affermato di non condividere la richiamata interpretazione, pure recepita nella sentenza n° 9339/2012 della V Sezione, secondo la quale l’Amministrazione Finanziaria, per evitare che il diritto al rimborso esposto nella dichiarazione si cristallizzi nell’an e nel quantum, sarebbe tenuta a provvedere sulla richiesta di rimborso “nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica”.

Invece, la Corte ha ritenuto preferibile l’interpretazione proposta dalla più risalente giurisprudenza, secondo la quale il termine decadenziale sarebbe riferibile alle sole attività di accertamento dell’Amministrazione e non già a quelle con cui la stessa provveda alla contestazione di un suo debito.

In sostanza – hanno precisato le SS.UU. – decorso il termine per l’accertamento, all’Amministrazione è consentita la contestazione del contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui questa sia finalizzata ad evitare un esborso da parte dell’ente finanziario, non già a permettergli di affermare un proprio credito.

Oltretutto – ha puntualizzato il Collegio - questa soluzione avrebbe il merito di non lascerebbe il contribuente privo di difese, potendo questi sempre impugnare il silenzio dell’Amministrazione che abbia omesso di provvedere in ordine all’istanza di rimborso del credito fiscale.

Ciò precisato, venendo alla questione concreta, la Corte ha fissato alcuni importanti passaggi, precisando che:

-         in tema di IRPEG, grava sulla Fondazione che invochi il mancato riconoscimento dell’agevolazione prevista dall’art. 10-bis della legge n° 1745/1962 (esenzione della ritenuta di acconti sui dividendi da partecipazioni azionarie), l’onere di allegare la sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi previsti al fine di poter fruire del beneficio, attraverso la dimostrazione “dell’effettivo perseguimento, in via esclusiva, di scopi di beneficenza, educazione, studio e ricerca scientifica, rispetto ai quali la gestione di partecipazioni nelle imprese bancarie assuma un ruolo non prevalente e comunque strumentale alla provvista delle necessarie risorse economiche”;

-         sempre in materia di IRPEG, è altresì necessario, ai fini del riconoscimento in favore delle fondazioni bancarie del beneficio di cui all’art. 6 del d.P.R. n° 601/1973 (riduzione a metà dell’aliquota), che detta agevolazione non assuma, in concreto, la valenza di un aiuto di Stato e che l’attività svolta dalla fondazione non presenti i caratteri propri dell’azione imprenditoriale;

-         infine, le Fondazioni bancarie, a causa del vincolo genetico con le aziende scorporate, non possono essere assimilate né alle persone giuridiche di cui all’art. 10-bis della legge n° 1745/1962, né agli enti ed istituti di interesse generale di cui all’art. 6 del dPR n° 601/1973, con la conseguenza che alle stesse non sarà applicabile la richiamata disciplina agevolativa - atteso il carattere eccezionale e speciale della normativa - con la sola eccezione che esse dimostrino di aver svolto, nell’anno di imposta di riferimento, un’attività di esclusiva o prevalente promozione sociale o culturale.

Orbene, in difetto di tali presupposti – ovvero quando essi, come nel caso di specie, non siano stati dimostrati - non sussistono le condizioni per ritenere che sulla domanda di rimborso del credito d’imposta si sia formato il silenzio rifiuto da parte dell’Amministrazione e, quindi, per affermare che qualora “il credito d’imposta sia stato chiesto a rimborso, con la dichiarazione annuale, l’Amministrazione, onde evitarne la cristallizzazione nell’an e nel quantum, debba provvedere nei medesimi termini di decadenza stabiliti per procedere all’accertamento in rettifica”, essendo preciso onere del richiedente  “allegare e provare – nel corso del giudizio - i presupposti fondanti la pretesa”. MB

 




Inserito in data 19/03/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 4 marzo 2016, n. 4252

Professione forense, libertà stabilimento ed abuso del diritto 

Le Sezioni Unite civili intervengono, con la pronuncia in esame, in tema di libertà di stabilimento riguardo all’esercizio della professione forense.

In particolare, il massimo Collegio di piazza Cavour, ricordando un proprio precedente - cfr. S.U., n. 28340 del 2011, ribadisce il principio, attuativo della c.d. libertà di stabilimento, in base al quale l’iscrizione nella sezione speciale dell’Albo degli avvocati comunitari stabiliti è, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della direttiva 98/5/Ce e dell’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 96 del 2001, subordinata alla sola condizione della documentazione dell’iscrizione presso la corrispondente Autorità di altro Stato membro.

Di conseguenza, chiariscono i Giudici, non è possibile negare la suddetta iscrizione sulla base di una ritenuta carenza del presupposto di condotta “specchiatissima ed illibata” – di cui all’art. 17, r.d.l. n. 1578 del 1933, ovvero, oggi, della condotta irreprensibile – ex art.17, della legge n. 247 del 2012  – prescritti dal nostro Ordinamento forense.

Un simile vaglio, infatti, ricordano i Giudici, può essere effettuato dai nostri Consigli dell’Ordine solo nelle ipotesi in cui l’intento di stabilirsi nel nostro Paese venga perseguito in modo fraudolento – eludendo i controlli e costituendo, quindi, un abuso del diritto.

I Giudici delimitano, quindi, la portata di una simile condotta abusiva – richiamando all’uopo i precedenti della Corte di Giustizia – a mente della quale “L'articolo 3 della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l'esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica, dev'essere interpretato nel senso che non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita”.

L’arresto si inserisce, quindi, in un filone di grande apertura – in linea, del resto, con la ratio ispiratrice della Direttiva comunitaria del 1998 e ricordando come solo nel momento in cui il richiedente intenda abbandonare la qualifica acquisita in altro Stato membro per conseguire il titolo professionale previsto dalla legislazione italiana sorge, dunque, l’obbligo, per il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di verificare la sussistenza di tutti gli altri requisiti di iscrizione, ivi compresi quelli di onorabilità.

E’ evidente, quindi, lo spirito - proprio dei Giudici di piazza Cavour - di contemperare opposte posizioni: l’intento di incentivare l’attività forense nel proprio avvio iniziale trova, infatti, come contraltare, l’individuazione di un’abusività non sempre facilmente percepibile e l’instaurazione di controlli più attenti nel caso di uno stabilimento definitivo in seno al nostro Paese. CC

 




Inserito in data 19/03/2016
TAR VALLE D'AOSTA - SEZ. UNICA, 15 marzo 2016, n. 12

Istanza di permesso di costruire in sanatoria e indicazioni servitù di uso pubblico

Il Collegio aostano accoglie le censure mosse da parte ricorrente avverso il rigetto – da parte dell’Amministrazione comunale - di un’istanza di permesso di costruire in sanatoria.

Più nel dettaglio, i Giudici sottolineano – in primo luogo – la carente motivazione in seno al provvedimento di rigetto.

L’Ente, infatti, si limita ad affermare che l’intervento oggetto della domanda di sanatoria non rispetti le distanze e le altezze previste dalle norme tecniche di attuazione del vigente piano regolatore comunale, senza tuttavia specificare quali siano, nel concreto, le disposizioni prese in considerazione.

E’ evidente, ad avviso del Collegio, la violazione dell’articolo 3 della L. 241/90 il cui dettato, secondo il parere di giurisprudenza conforme, deve essere esteso anche al provvedimento di rigetto simile a quello oggi in esame. Questo deve, quindi, indicare i presupposti di fatto e di diritto che giustificano il proprio contenuto dispositivo; ed in particolare, ove l’istanza sia respinta, deve mettere in luce i contrasti fra l’opera realizzata e la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della realizzazione della stessa opera ovvero al momento di presentazione dell’istanza (Cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 12 settembre 2013, n. 4253; T.A.R. Liguria, sez. I, 6 giugno 2013, n. 866).

Invece, dal provvedimento in questa sede impugnato non sono affatto evincibili le ragioni fondanti il rigetto.

Non si condivide, altresì, il secondo aspetto evidenziato dalla Difesa dell’Ente – secondo la quale l’edificio oggetto dell’istanza di sanatoria rigettata non rispetterebbe le giuste distanze rispetto al confine stradale – individuato come strada pubblica e non privata.

Ritiene il Collegio, uniformandosi alla posizione del ricorrente, che non vi sia motivo alcuno per avallare quanto affermato dall’Amministrazione.

Si ricorda, infatti, che l’ascrivibilità di una strada quale pubblica o destinata ad uso pubblico – in mancanza di adeguato riscontro probatorio – come nel caso in esame, dipenda dalla sussistenza di interventi - quali l'illuminazione pubblica, la realizzazione di asfaltatura con segnaletica orizzontale, la precisa delimitazione della carreggiata, l'installazione di segnaletica verticale, la predisposizione della linea fognante ecc. - volti ad assoggettare il tratto stradale all’uso pubblico (Cfr. T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 10 giugno 2008, n. 643).

Tutti elementi che, nel caso di specie, non ricorrono e, pertanto,  non può ritenersi dimostrata la sussistenza di una servitù ad uso pubblico – quale paventata dall’Ente resistente a sostegno del proprio rigetto.

Concludono i Giudici, infine, che il Comune non possa neppure avvalersi del valore presuntivo che la giurisprudenza riconosce agli appositi elenchi delle strade comunali (Cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VI, 3 marzo 2015, n. 1356).

In considerazione di tutte tali ragioni si statuisce la fondatezza delle posizioni di parte ricorrente. CC

 



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Inserito in data 18/03/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5068

E’ nulla per difetto di causa la donazione di bene altrui anche se disposta dal coerede

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite dirimono la seguente questione: “Se la donazione dispositiva di un bene altrui debba ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante e quindi anche quelli aventi ad oggetto i beni altrui, oppure sia valida ancorché inefficace, e se tale disciplina trovi applicazione, o no, nel caso di donazione di quota di proprietà pro indiviso”.

Invero, sulla questione se la donazione di cosa altrui sia nulla o no, la Suprema Corte si è reiteratamente espressa nel senso della nullità.

Secondo Cass. n. 3315 del 1979, infatti, “la convenzione che contenga una promessa di attribuzione dei propri beni a titolo gratuito configura un contratto preliminare di donazione che è nullo, in quanto con esso si viene a costituire a carico del promittente un vincolo giuridico a donare, il quale si pone in contrasto con il principio secondo cui nella donazione l’arricchimento del beneficiario deve avvenire per spirito di liberalità, in virtù cioè di un atto di autodeterminazione del donante, assolutamente libero nella sua formazione”. E ancora Cass. 6544 del 1985 ha affermato che “ai fini dell’usucapione abbreviata a norma dell’art. 1159 cod. civ. non costituisce titolo astrattamente idoneo al trasferimento la donazione di un bene altrui, attesa l’invalidità a norma dell’art. 771 cod. civ. di tale negozio”.

E’, altresì, riconducibile alla nullità Cass. n. 11311 del 1996, così massimata: “l’atto con il quale una pubblica amministrazione, a mezzo di contratto stipulato da un pubblico funzionario, si obbliga a cedere gratuitamente al demanio dello Stato un’area di sua proprietà, nonché un’altra area che si impegni ad espropriare, costituisce una donazione nulla, sia perché, pur avendo la pubblica amministrazione la capacità di donare, non è ammissibile la figura del contratto preliminare di donazione, sia perché un atto non può essere stipulato da un funzionario della pubblica amministrazione (possibilità limitata dall’art. 16 del R.D. n. 2440 del 1923 ai soli contratti a titolo oneroso), sia perché l’art. 771 cod. civ. vieta la donazione di beni futuri, ossia dell’area che non rientra nel patrimonio dell’amministrazione donante ma che la stessa si impegna ad espropriare”.

Particolarmente significativa è poi Cass. n. 10356 del 2009, secondo cui “la donazione dispositiva di un bene altrui, benché non espressamente disciplinata, deve ritenersi nulla alla luce della disciplina complessiva della donazione e, in particolare, dell’art. 771 cod. civ., poiché il divieto di donazione dei beni futuri ricomprende tutti gli atti perfezionati prima che il loro oggetto entri a comporre il patrimonio del donante; tale donazione, tuttavia, è idonea ai fini dell’usucapione decennale prevista dall’art. 1159 cod. civ., poiché il requisito, richiesto da questa norma, dell’esistenza di un titolo che legittimi l’acquisto della proprietà o di altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, deve essere inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere suscettibile in astratto, e non in concreto, di determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare”.

In tal senso, si è espressa, da ultimo, Cass. n. 12782 del 2013.

Per altro orientamento, invece, “la donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cod. civ., ma è semplicemente inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cod. civ., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione codicistica, della esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto di tale diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato titolare”.

Alla luce di quanto suddetto, si evince che il “contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali non coinvolge il profilo della efficacia dell’atto a costituire titolo idoneo per l’usucapione abbreviata, ma, appunto, la ascrivibilità della donazione di cosa altrui nell’area dell’invalidità, e segnatamente della nullità, ovvero in quella della inefficacia”.

Ciò posto, “il Collegio ritiene che alla questione debba essere data risposta nel senso che la donazione di cosa altrui o anche solo parzialmente altrui è nulla, non per applicazione in via analogica della nullità prevista dall’art. 771 cod. civ. per la donazione di beni futuri, ma per mancanza della causa del negozio di donazione”.

Deve, in primis, rilevarsi che “la sentenza n. 1596 del 2001 evoca la categoria della inefficacia, che presuppone la validità dell’atto, e si limita ad affermare la non operatività della nullità in applicazione analogica dell’art. 771, primo comma, cod. civ., in considerazione di una pretesa natura eccezionale della causa di nullità derivante dall’avere la donazione ad oggetto beni futuri, ma non verifica la compatibilità della donazione di cosa altrui con la funzione e con la causa del contratto di donazione. La soluzione prospettata appare, quindi, non condivisibile, vuoi perché attribuisce al divieto di cui alla citata disposizione la natura di disposizione eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica; vuoi e soprattutto perché non considera la causa del contratto di donazione”.

Per contro, “una piana lettura dell’art. 769 cod. civ. dovrebbe indurre a ritenere che l’appartenenza del bene oggetto di donazione al donante costituisca elemento essenziale del contratto di donazione, in mancanza del quale la causa tipica del contratto stesso non può realizzarsi. (omissis)

Elementi costitutivi della donazione sono, quindi, l’arricchimento del terzo con correlativo depauperamento del donante e lo spirito di liberalità, il c.d. animus donandi, che connota il depauperamento del donante e l’arricchimento del donatario”.

Appare, dunque, evidente che “l’esistenza nel patrimonio del donante del bene che questi intende donare rappresenti elemento costitutivo del contratto; e la consustanzialità di tale appartenenza alla donazione è delineata in modo chiaro ed efficace dall’art. 769 cod. civ.”.

Ed invero, sostiene il Supremo Consesso, “la non ricorrenza di tale situazione – certamente nel caso in cui né il donante né il donatario ne siano consapevoli, nel qual caso potrebbe aversi un’efficacia obbligatoria della donazione – comporta la non riconducibilità della donazione di cosa altrui allo schema negoziale della donazione, di cui all’art. 769 cod. civ.. In altri termini, prima ancora che per la possibile riconducibilità del bene altrui nella categoria dei beni futuri, di cui all’art. 771, primo comma, cod. civ., la altruità del bene incide sulla possibilità stessa di ricondurre il trasferimento di un bene non appartenente al donante nello schema della donazione dispositiva e quindi sulla possibilità di realizzare la causa del contratto (incremento del patrimonio altrui, con depauperamento del proprio)”.

In particolare, “il fatto che il legislatore del codice civile abbia autonomamente disciplinato sia la compravendita di cosa futura che quella di cosa altrui, mentre nulla abbia stabilito per la donazione a non domino, dovrebbe suggerire all’interprete di collegare il divieto di liberalità aventi ad oggetto cose d’altri alla struttura e funzione del contratto di donazione, piuttosto che ad un esplicito divieto di legge. Pertanto, posto che l’art. 1325 cod. civ. individua tra i requisiti del contratto “la causa”; che, ai sensi dell’art. 1418, secondo comma, cod. civ., la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325 cod. civ. produce la nullità del contratto; e che l’altruità del bene non consente di ritenere integrata la causa del contratto di donazione, deve concludersi che la donazione di un bene altrui è nulla”.

In sostanza, la donazione di cosa altrui vale come “donazione obbligatoria di dare, purché l’altruità sia conosciuta dal donante, e tale consapevolezza risulti da un’apposita espressa affermazione nell’atto pubblico (art. 782 cod. civ.). Se, invece, l’altruità del bene donato non risulti dal titolo e non sia nota alle parti, il contratto non potrà produrre effetti obbligatori, né potrà applicarsi la disciplina della vendita di cosa altrui”.

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui “oggetto della donazione sia un bene solo in parte altrui, perché appartenente pro indiviso a più comproprietari per quote differenti e donato per la sua quota da uno dei coeredi. Non è, infatti, dato comprendere quale effettiva differenza corra tra i “beni altrui” e “quelli eventualmente altrui”, trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di beni non presenti, nella loro oggettività, nel patrimonio del donante al momento dell’atto, l’unico rilevante al fine di valutarne la conformità all’ordinamento”.

Del resto, l’art. 757 cod. civ. “impedisce di consentire che il coerede possa disporre, non della sua quota di partecipazione alla comunione ereditaria, ma di una quota del singolo bene compreso nella massa destinata ad essere divisa, prima che la divisione venga operata e il bene entri a far parte del suo patrimonio”.

In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “La donazione di un bene altrui, benché non espressamente vietata, deve ritenersi nulla per difetto di causa, a meno che nell’atto si affermi espressamente che il donante sia consapevole dell’attuale non appartenenza del bene al suo patrimonio. Ne consegue che la donazione, da parte del coerede, della quota di un bene indiviso compreso in una massa ereditaria è nulla, non potendosi, prima della divisione, ritenere che il singolo bene faccia parte del patrimonio del coerede donante”. EF

 




Inserito in data 18/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 17 marzo 2016, n. 1091

Non c’è affidamento ex novo del servizio in mancanza di rinegoziazione del rapporto

La questione posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene alla qualificazione del servizio di vigilanza espletato da una società quale “proroga” – “il che, per giurisprudenza pacifica, rende applicabile la clausola di revisione prezzi prevista dall’art. 6 della l. n. 537 del 1993 (ora, dall’art. 115 del codice dei contratti pubblici)- o quale affidamento ex novo del servizio in via diretta, provvisoria e transitoria, con una rinegoziazione del rapporto, il che esclude l’applicazione della clausola revisionale anzidetta”.

In particolare, “la linea di demarcazione tra l’applicazione, o meno, della clausola revisionale prevista dall’art. 6 della l. n. 537 del 1993 passa attraverso la qualificazione del servizio espletato nel periodo anzidetto quale proroga o nuovo affidamento del servizio stesso”.

A proposito, “precisato in via preliminare che l’art. 6 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (come sostituito dall'art. 44 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 e il cui comma 2 è stato modificato dall’art. 23 della legge 18 aprile 2005, n. 62, poi abrogato dall'art. 256 del d.lgs. n. 163 del 2006), nel vietare il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, comminandone la nullità, e nel consentirne (fino alla modificazione introdotta dalla cit. l. n. 62 del 2005) la rinnovazione espressa in presenza di ragioni di pubblico interesse (v. comma 2), stabiliva che tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili della acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6 (v. comma 4); va rammentato in termini generali che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha chiarito al riguardo: a) che (la norma di cui all’art. 6 della l. n. 537 del 1993) ha natura imperativa, per cui si inserisce automaticamente e prevale addirittura sulla regolamentazione pattizia, cosicché “nessuna preclusione è configurabile in ordine al diritto che trova titolo e disciplina nella legge” (Sez. III, 9 maggio 2012, n. 2682; cfr. anche Sez. III, 1 febbraio 2012, n. 504, Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275); b) che il presupposto per la sua applicazione è che vi sia stata mera proroga e non un rinnovo del rapporto contrattuale, consistendo la prima “nel solo effetto del differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall’atto originario” mentre il secondo scaturisce da “una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l’integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse se non più attuali” (Sez. III, n. 2682 del 2012, cit.), essendo in questo caso intervenuti tra le parti “atti successivi al contratto originario con cui, attraverso specifiche manifestazioni di volontà, sia stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario, senza avanzare alcuna proposta di modifica del corrispettivo.”(Sez. III, 11 luglio 2014, n. 3585)… (così, ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 2295 del 2015)”.

Il Collegio ritiene, pertanto, confermando la pronuncia del Giudice di prime cure, che, nella fattispecie sottoposta al suo esame, “sia venuta in questione, sostanzialmente, una mera protrazione dell’efficacia, per una durata temporalmente delimitata, del rapporto contrattuale originario, assimilabile in quanto tale a una proroga”, con la conseguente necessità di riconoscere la revisione prezzi. EF

 



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Inserito in data 17/03/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 15 marzo 2016, n. 5072

Conseguenze del ricorso abusivo ai contratti a tempo determinato da parte della P.A.

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con ordinanza, ha trasmesso gli atti al Presidente affinché rinviasse alle Sezioni Unite la questione avente ad oggetto, in primo luogo, la vigenza o meno del divieto di trasformazione del contratto di lavoro a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato in caso di abuso della P.A. nell’utilizzo del lavoro flessibile, in secondo luogo, la portata applicativa e la parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 36 d.lgs. n. 165 del 2001 ed, in terzo luogo, la risoluzione del contrasto giurisprudenziale registratosi in materia di criteri di liquidazione da adottare.

Per ciò che attiene il divieto di trasformazione in contratto a tempo indeterminato, evidenziano le Sezioni Unite che sull’astratta compatibilità del divieto rispetto alla normativa comunitaria si è pronunciata la stessa Corte di Giustizia dell’UE in una sentenza emessa a seguito di rinvio pregiudiziale disposto in primo grado, proprio nell’ambito del giudizio in esame, compatibilità sussistente purché sia assicurata altra misura sanzionatoria effettiva, proporzionata, dissuasiva ed equivalente a quelle previste nell’ordinamento interno per situazioni analoghe.

Fermo restando, dunque, che l’abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una P.A. fa sorgere unicamente il diritto del dipendente al risarcimento del danno per l’illegittima precarizzazione, l’ordinanza interlocutoria della Cassazione sottolinea come sia controversa l’individuazione del parametro di riferimento più idoneo a garantire una tutela effettiva e dissuasiva.

Non a caso, infatti, la Corte d’Appello nel giudizio in esame ha rinvenuto tale parametro nella disciplina di cui all’art. 18, commi quarto e quinto, l. 300/1970 (nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012); la stessa Corte di Cassazione, invece, in altre occasioni, aveva ancorato la determinazione del risarcimento, in un caso, all’art. 32, commi 5 e 7, legge 183/2010, a prescindere dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine, in un altro caso, all’art. 8 della l. n. 604/1966, sempre a prescindere dalla prova concreta del danno, ma in virtù dell’elaborazione di un’autonoma figura di danno (“danno comunitario”), da intendere come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro.

Le Sezioni Unite, risolvendo la questione – dopo un’analitica ricostruzione del quadro normativo interno ed eurounitario nonché della correlata esegesi giurisprudenziale – hanno, conclusivamente, affermato che nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 183/2010, e quindi nella misura pari ad un’indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 604/1966. SS

 




Inserito in data 17/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 marzo 2016, n. 1032

Avvalimento cd. di garanzia e controlli sul possesso dei requisiti

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato in ordine all’oggetto del contratto di avvalimento quando, con esso, un’impresa si avvalga dei requisiti finanziari di un’altra (cd. avvalimento di garanzia), nonché in ordine al termine per la produzione di documenti nel caso di controlli sul possesso dei requisiti ex art. 48 d.lgs. 163/2006 e alla possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio nel caso di mancata allegazione all’offerta di alcuni documenti.

In ordine alla prima questione, i giudici di Palazzo Spada hanno precisato che, nel caso di contratto di avvalimento cd. di garanzia, la prestazione oggetto specifico dell’obbligazione è costituita dalla messa a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria del suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato costituisce indice significativo, consentendo in tal modo all’impresa ausiliata di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando.

Ne consegue, ad avviso del Consiglio, che non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell’impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, essendo sufficiente che dalla dichiarazione emerga l’impegno contrattuale della società ausiliaria a prestare ed a mettere a disposizione della c.d. società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità.

In ordine alla seconda questione, il Consiglio di Stato afferma che il termine di dieci giorni previsto dall’art. 48, comma 1 del Codice dei contratti per comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito, ha natura perentoria in ragione dell’esigenza di celerità insita nella fase specifica del procedimento e dell’automaticità della comminatoria prevista per la sua inosservanza, salva l’oggettiva impossibilità di produzione della documentazione la cui prova grava sull’impresa.

Tuttavia, il Consiglio precisa subito dopo che, se da tale disposizione si evince che non può ammettersi la produzione tardiva di documentazione mancante specificamente indicata, su un piano diverso deve essere posta l’ipotesi di integrazione di atti già trasmessi, relativamente alla quale va ammessa la possibilità per l’Amministrazione di approfondimenti istruttori, soprattutto nelle ipotesi in cui la richiesta era genericamente riferita alla comprova dei requisiti indicati e non indicava specifici e tassativi documenti. SS

 



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Inserito in data 16/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 11 marzo 2016, n. 965

Sulla portata generale dell’art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 487/1994

Il Consiglio di Stato, modificando il proprio orientamento, accoglie il ricorso intentato avverso un bando relativo all’ammissione ad una scuola di specializzazione per iscritti all’albo nazionale dei segretarî comunali e provinciali, con riferimento alla parte in cui prevedeva un’anzianità di servizio, nella fascia di appartenenza, pari a due anni, maturata in una data antecedente a quella stabilita per la presentazione delle domande.

Il precedente arresto giurisprudenziale, segnatamente, riteneva che la disposizione di cui all’art. 2, comma 7, del d.P.R. n. 487/1994 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi) – a mente della quale “i requisiti prescritti devono essere posseduti alla data di scadenza del termine stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda di ammissione” – non fosse applicabile alle selezioni del tipo in questione.

Rileva il collegio come la normativa richiamata letteralmente concerna l’“accesso” agli impieghi civili presso le pubbliche amministrazioni, e non anche le selezioni indette dal Ministero dell’interno per un corso di formazione (il cui superamento costituisce un requisito di idoneità per l’inserimento nella fascia professionale superiore). Tuttavia, nondimeno, deve giungersi alla conclusione che la disposizione citata sia “espressione di un principio generale, strettamente connesso ai principî di imparzialità dell’amministrazione e di parità di trattamento dei candidati”, oltre che di trasparenza: “La determinazione di una data diversa – non coincidente con quella di scadenza del termine per la presentazione delle domande – implica di per sé il concreto rischio che possano esservi vantaggi solo per alcuni degli appartenenti della categoria, con esclusione degli altri e, dunque, ingiustificate disparità di trattamento”.

Il collegio ulteriormente osserva che: “Il principio della maturazione dei requisiti alla data di scadenza della presentazione della domanda – a parte i casi espressamente previsti da una disposizione normativa – può essere derogato solo ove vi siano specifiche e comprovate ragioni di interesse pubblico, ad esempio quando si tratti di dare una ragionata esecuzione a statuizioni dei giudici ovvero qualora vi sia l’esigenza di rispettare una successione cronologica tra procedimenti collegati, o di salvaguardare posizioni legittimamente acquisite dai soggetti interessati a concorsi interni”. Simili comprovate ragioni non sono riscontrabili, o non sono comunque state esternate, secondo i giudici di Palazzo Spada, nel caso di specie. FM

 



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Inserito in data 16/03/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. VI, 9 marzo 2016, n. 1343

Impossibilità di produrre copie conformi di cartelle esattoriali 

Il Tribunale partenopeo, a valle di un’istanza di accesso agli atti, dichiara l’improcedibilità di un ricorso avverso la comunicazione dell’ente preposto alla riscossione tributaria, concernente la “impossibilità di produrre copia conforme delle cartelle di pagamento, del cui originale esiste un unico esemplare già notificato al contribuente”, laddove, segnatamente, l’ente stesso abbia “provveduto alla elaborazione di una riproduzione delle stesse (…), uguale nei contenuti, (e) tuttavia soggetta alle variazioni di forma e struttura dovute alle modifiche normative e societarie succedutesi nel tempo”.

Il collegio ritiene non condivisibile la tesi di parte ricorrente in ordine all’affermata non satisfattività del deposito documentale da ultimo richiamato. Viene al riguardo esaminato il contenuto dell’art. 26 del d.P.R. n. 602/1973, in materia di notificazione della cartella di pagamento, dalla cui lettura emerge chiaramente che l’originale della cartella, essendo stato notificato, “non è più nella disponibilità del concessionario, al quale rimane la matrice o la copia della cartella con la relata di notifica della stessa. Per legge, quindi, ciò che il contribuente/ricorrente può ottenere dall’ente in sede di accesso è la copia della cartella rinvenibile presso gli archivî del concessionario, che non potrà recare il visto di conformità all’originale per inesistenza dell’originale stesso”.

Riprendendo l’orientamento ermeneutico del Consiglio di Stato, i giudici evidenziano come la documentazione vada senz’altro ricercata ed esibita dall’amministrazione richiesta, ove gli atti effettivamente esistano presso l’ente stesso; ove, invece, detta documentazione non sia più esistente, l’ente, assumendosi formalmente la responsabilità di quanto dichiarato, dovrà attestare la circostanza concretamente verificatasi, e chiarire dove la documentazione possa essere reperita, e/o in quale occasione sia andata distrutta, nell’ipotesi che questa sia già stata trasmessa ad altra amministrazione, l’ente dovrà “girare” la richiesta di accesso ex art. 6, comma 2, del d.P.R. n. 184/2006.

Nella fattispecie, pertanto, il concessionario della riscossione, non essendo più nella sua disponibilità l’originale delle cartelle in questione, ha correttamente agito provvedendo a consegnare all’istante la documentazione di cui disponeva.

Conclusivamente, osserva peraltro il collegio: “Da un punto di vista sostanziale deve rilevarsi che ciò che serve alla ricorrente al fine di tutelare i proprî interessi giuridici è che la copia della cartella provenga dall’agente della riscossione (…) e che il contenuto della copia rilasciata corrisponda quanto a tipologia di tributo, ammontare del dovuto e caratteristiche essenziali all’originale a suo tempo notificato, la cui custodia sarebbe comunque onere del destinatario della cartella”. “Se la cartella nel tempo ha cambiato forma o intestazione per le modifiche societarie che hanno interessato l’ente ciò non ha alcuna rilevanza a meno che la ricorrente non riscontri errori, illegittimità o incongruenze rispetto ai contenuti delle cartelle medesime che fanno pensare ad atti alterati o manomessi”. FM

 



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Inserito in data 15/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 10 marzo 2016, n. 962

Divieto di radicale modificazione della composizione dell’offerta

Con la sentenza in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione resa in primo grado dal T.A.R. per il Veneto con la quale era stata dichiarata legittima l’esclusione dalla gara della ricorrente, disposta in esito alla fase procedurale di verifica dell’anomalia dell’offerta, sulla base della dirimente considerazione che la differente e successiva quantificazione degli oneri di sicurezza aziendali operata dalla concorrente avesse comportato un inammissibile stravolgimento della consistenza e della composizione dell’offerta economica, pur nell’invarianza dell’importo complessivo.

La III Sezione del Consiglio di Stato, pur ammettendo la possibilità, in sede di verifica delle offerte anomale, di operare compensazioni tra sottostime e sovrastime di talune voci dell’offerta economica, ha ammonito circa la sussistenza del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta.

In particolare, il Collegio ha affermato che se si ritenesse che “il giudizio sull’anomalia postula un apprezzamento globale e sintetico sull’affidabilità dell’offerta nel suo complesso e che, nel contraddittorio procedimentale afferente al relativo segmento procedurale, sono consentite compensazioni tra sottostime e sovrastime di talune voci dell’offerta economica, ferma restando la sua strutturale immodificabilità”- come argomentato dall’appellante - è pur sempre vero “che l’applicazione di tali principi incontra il duplice limite, in generale, di una radicale modificazione della composizione dell’offerta (da intendersi preclusa) che ne alteri l’equilibrio economico (allocando diversamente rilevanti voci di costo nella sola fase delle giustificazioni), e, in particolare, di una revisione della voce degli oneri di sicurezza aziendale, che, quale elemento costitutivo dell’ offerta, esige una separata identificabilità ed una rigida inalterabilità, a presidio degli interessi pubblici sottesi alla relativa disciplina legislativa, per come interpretata e valorizzata dalle decisioni dell’Adunanza Plenaria nn. 3 e 9 del 2015”.

Seguendo tale interpretazione – ha rilevato il Collegio con la pronuncia de qua – deriva che, per un verso, “il giudizio di inattendibilità dell’offerta può legittimamente investire specifiche voci di costo, quando le stesse assumano una rilevanza tale da inficiare, di per sé, la serietà dell’offerta”, per un altro, che “la valutazione di quest’ultima possa legittimamente appuntarsi sulla congruità dei soli oneri di sicurezza aziendale, quale segmento dell’offerta che ha ricevuto dal legislatore una peculiare e specifica regolazione (art.87, comma 4, d.lgs. n. 163 del 2006), che implica, a sua volta, una autonoma rilevanza della relativa voce, a protezione delle incomprimibili esigenze pubblicistiche soddisfatte dal regime normativo di riferimento”.

Orbene, se si aderisse alla prospettazione formulata dall’appellante - hanno osservato i giudici della III Sezione - si finirebbe con il consentire, nella fase del controllo dell’anomalia, “un’indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell’offerta economica, con il solo limite del rispetto del saldo complessivo”.

Ciò – ha precisato conclusivamente il Collegio - si porrebbe in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della sua struttura di costi, e determinerebbe altresì un’inammissibile deformazione della funzione e dei caratteri del subprocedimento di anomalia, trasformando le giustificazioni che, nella disciplina legislativa di riferimento, servono a chiarire le ragioni della serietà e della congruità dell’offerta economica, in “occasione per una sua libera rimodulazione, per mezzo di una scomposizione e di una diversa ricomposizione delle sue voci di costo (per come dettagliate nella domanda di partecipazione originaria), che implicherebbe, peraltro (oltre ad una evidente lesione delle esigenze di stabilità ed affidabilità dell’ offerta), anche una violazione della par condicio tra i concorrenti”. MB

 



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Inserito in data 14/03/2016
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 8 marzo 2016, n. 520

La dialettica infraprocedimentale non può essere meramente “burocratica”

La vicenda in questione concerne un’ipotesi di “malgoverno”, da parte dell’Amministrazione, della disposizione di cui all’art. 7 della l. 241/90. Nello specifico, l’ente, nonostante la regolare comunicazione di avvio del procedimento, non aveva considerato le osservazioni difensive formulate dal privato in chiave partecipativa, omettendo di esplicitare le concrete ragioni poste a base della loro confutazione.

Il Collegio, con la pronuncia in epigrafe, rilevava come, nella fattispecie, l’Amministrazione avesse, sbagliando, fornito della disciplina in tema di comunicazione d’avvio del procedimento “una lettura assolutamente riduttiva, oltre che burocratica”, inidonea, in definitiva, ad assolvere alla specifica funzione cui l’istituto è preordinato.

In particolare, i Giudici Salernitani, conformando il proprio orientamento alla giurisprudenza prevalente in materia, richiamavano le seguenti ed esemplificative massime: “le norme di cui all’art. 7, l. n. 241 del 1990 non vanno applicate in modo meccanico e formalistico ma devono essere intese nel senso che le memorie ed osservazioni prodotte dal privato nel corso del procedimento amministrativo siano effettivamente valutate dall’Amministrazione ed è necessario che di tale valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale” (T.A.R. Napoli - Campania, Sez. III, 4/11/2008, n. 19267) – ed ancora “nell’ambito del procedimento amministrativo, l’onere di motivazione che incombe sulla p.a. in ordine alle “memorie scritte e documenti” presentati dai soggetti di cui agli artt. 7 e 9, l. 7 agosto 1990 n. 241, non è tale da ricomprendere in sé la confutazione punto per punto e analiticamente di tutte le osservazioni e i rilievi ivi formulati dai soggetti interessati, richiedendosi piuttosto che la p. a. dia conto della ragione sostanziale della decisione maturata tenuto conto dell’apporto collaborativo dei soggetti coinvolti nel procedimento e che della relativa valutazione resti traccia nella motivazione del provvedimento finale” (T. A. R. L’Aquila - Abruzzo, Sez. I, 6/06/2007, n. 285).

Infine, il Collegio notava come, nel caso in esame, l’Amministrazione, neppure avesse tentato, per superare la violazione legislativa, di replicare alla dirimente censura invocando, ad esempio, la cd. sanatoria dei vizi formali, ex art. 21 octies, comma 2, della legge generale sul procedimento amministrativo, a tenore del quale “il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

Pertanto, il T.A.R. Salerno, sulla scorta degli esposti rilievi, ravvisando una violazione, da parte dell’ente, della disciplina legislativa in materia di comunicazione di avvio del procedimento, accoglieva il ricorso, per l’effetto dichiarando l’illegittimità del provvedimento finale della pubblica amministrazione. MB

 



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Inserito in data 12/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 9 marzo 2016, n. 953

Contestazione della graduatoria e giurisdizione del G.A.

Con la pronuncia in epigrafe, il Consesso conferma la giurisdizione del Giudice amministrativo in materia di criteri generali ed astratti predisposti dall’amministrazione per la formazione e l’aggiornamento delle graduatorie (decreto ministeriale n. 235/2014). 

Evidenzia, inoltre, che “al fine della individuazione della giurisdizione, la graduatoria non rileva come atto di gestione in sé, ma come proiezione applicativa di un non corretto esercizio del potere di organizzazione, il quale rimane pur sempre l’oggetto del giudizio e della contestazione del privato”.

Pertanto, “la posizione giuridico-soggettiva fatta valere è sempre quella di interesse legittimo e non anche di diritto soggettivo, atteso che la contestazione è sempre diretta alla legittima determinazione dei criteri generali”.

Sicché, “l’oggetto del giudizio, unitariamente considerato, e, dunque, la natura delle posizioni giuridico-soggettive coinvolte non mutano per effetto della mera qualificazione e denominazione dell’atto oggetto di impugnativa (graduatoria)”.

Alla luce di quanto suddetto, deve confermarsi l’orientamento già espresso dalla Sezione in materia, laddove si è ritenuto che “la stretta correlazione tra le domande azionate non consente una ripartizione della potestas iudicandi tra giudice ordinario e giudice amministrativo, essendo concentrata dinanzi a quest’ultimo la tutela invocata da parte ricorrente” (sent. n. 4485/2015 del 24-9-2015) ed affermandosi, altresì, che nella specie sono comunque rilevabili “contestazioni che investano direttamente il potere governativo o ministeriale, ovvero la potestà di emanare atti amministrativi generali di natura non regolamentare”, atteso che “nella situazione in esame si censurano infatti non le modalità di valutazione delle singole posizioni soggettive, ma in via principale le determinazioni espresse dal MIUR nel decreto n. 235 in data 1 aprile 2014 (aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il triennio 2014-2017), per profili organizzativi di carattere generale, inerenti a titoli che, ad avviso degli appellanti, consentirebbero una parziale riapertura delle graduatorie stesse” (ordinanza n. 364/2016 del 29-1-2016). EF

 



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Inserito in data 11/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 7 marzo 2016, n. 917

Regolarizzazione del DURC a richiesta della stazione appaltante e par condicio competitorum

La questione posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada attiene “alla sanabilità delle irregolarità contributive emerse subito dopo la stipula del contratto d’appalto e riscontrate dalla stazione appaltante a seguito della espressa richiesta agli istituti previdenziali delle condizioni di esistenza della regolarità contributiva dell’impresa aggiudicataria”.

A tal proposito, l’art. 31, comma 8, del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, convertito nella legge n. 98 del 2013, recante semplificazioni in materia di DURC, dispone che “ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all'articolo 1 della legge 11 gennaio 1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”.

Tuttavia, già dalla portata letterale della disposizione si evince che la norma trova applicazione nei casi di richiesta del DURC da parte dell’impresa interessata (sia in sede di prima emissione del documento, sia in sede di rinnovo) nell’ambito delle attività di normale gestione dell’impresa; “ma non certo nei casi … in cui la richiesta del DURC provenga da una stazione appaltante e sia funzionale ad acclarare se il concorrente … abbia in concreto i requisiti dichiarati per restare aggiudicatario di un appalto pubblico”.

In tali casi, infatti, “ammettere la regolarizzazione postuma del requisito contributivo mancante sarebbe evidentemente violativo della par condicio competitorum” ; di guisa che appare incensurabile “la determinazione con la quale è stato disposto il ritiro dell’aggiudicazione e la risoluzione del contratto già stipulato, essendo l’impresa venuta meno all’obbligo di mantenere il requisito contributivo fino alla stipula del contratto”.

La conclusione è, peraltro, coerente con quanto statuito dall’Adunanza Plenaria, sentenza 4 maggio 2012 n. 8, nella quale è stato affermato che “la valutazione della gravità delle violazioni alle norme in materia previdenziale ed assistenziale non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, posto che ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di “violazione grave” si deve desumere dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; con la conseguenza che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (DURC) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto”. EF

 



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Inserito in data 10/03/2016
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 9 marzo 2016, n. 49

Potestà legislativa concorrente in materia di DIA e SCIA

La Corte Costituzionale, nella sentenza in esame, si è pronunciata sui limiti che incontra la potestà legislativa concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio rispetto alla disciplina statale in materia di DIA e SCIA ed, in particolare, si è interrogata della legittimità o meno di una legge regionale che ammetteva l’adozione di provvedimenti inibitori e sanzionatori anche oltre il termine di trenta giorni dopo la presentazione della SCIA previsto dalla disciplina statale.

Il presente giudizio aveva, dunque, ad oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 84-bis, comma 2, lettera b), della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005, in riferimento all’art. 117, comma 3 e comma 2, lettera m), della Costituzione, nella parte in cui prevede che “nei casi di SCIA […], decorso il termine di trenta giorni di cui all’articolo 84, comma 6, possono essere adottati provvedimenti inibitori e sanzionatori qualora ricorra uno dei seguenti casi: […] b) in caso di difformità dell’intervento dalle norme urbanistiche o dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici generali, degli atti di governo del territorio o dei regolamenti edilizi”.

Secondo il remittente, la disposizione impugnata sarebbe affetta da illegittimità costituzionale in quanto consentirebbe all’Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, in un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990; più radicalmente, poi, il rimettente osserva che nella disposizione in questione il potere attribuito all’Amministrazione sarebbe quello generale di controllo e non di autotutela, come previsto dalla normativa statale.

Il remittente, inoltre, deduce l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale per il mancato rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali stabiliti con legge dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Ritiene la Corte Costituzionale che, secondo giurisprudenza pacifica, nell’ambito della materia concorrente “governo del territorio”, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale, e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (DIA) e per la SCIA che, seppure con la loro indubbia specificità, si inseriscono in una fattispecie il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi.

Tale fattispecie, peraltro, ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell’Amministrazione (rispettivamente nei termini di sessanta e trenta giorni); una seconda, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa.

La disciplina di questa fase ulteriore, dunque, è parte integrante di quella del titolo abilitativo e costituisce con essa un tutt’uno inscindibile: ne discende che anche per questa parte la disciplina in questione costituisce espressione di un principio fondamentale della materia “governo del territorio” che soggiace alle regole di ripartizione della competenza fra Stato e Regioni nelle materia si potestà concorrente.

Al riguardo, precisa la Corte, “il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi”: ebbene, la normativa regionale in esame, nell’attribuire all’Amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale che invade la riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l’unitarietà della disciplina che tale invasione comporta.

Ne consegue, concludono i Giudici della Legge, la fondatezza della questione di costituzionalità con riferimento all’art. 117, comma 3, Cost., il che comporta, peraltro, l’assorbimento dell’ulteriore censura di violazione dell’art. 117, comma 2, lettera m), Cost. SS

 



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Inserito in data 09/03/2016
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 2 marzo 2016, n. 124

Sulla portata del diniego di autotutela ex art. 243 bis d.lgs. n. 163/2006

Con la sentenza in epigrafe viene accolto il ricorso intentato da un operatore economico il quale lamentava, nell’ambito di una procedura di gara, la violazione dell’art. 46, comma 1 bis del d.lgs. n. 163/2006, per non avere la stazione appaltante provveduto all’esclusione degli altri concorrenti, i quali avevano omesso di indicare, nella propria offerta economica, gli oneri relativi alla sicurezza c.d. specifici.

Costituitosi in giudizio, l’ente comunale resistente eccepiva l’inammissibilità del gravame, per la mancata impugnazione, da parte del ricorrente, dell’emarginato diniego di autotutela, formatosi a seguito dell’inerzia dell’amministrazione, previamente informata dell’intenzione dell’interessato di proporre un ricorso giurisdizionale.

Detta eccezione preliminare viene ritenuta dal collegio giudicante del tutto destituita di fondamento. Si osserva in proposito come la giurisprudenza abbia precisato che il citato art. 243 bisnon prevede un obbligo della stazione appaltante di riscontrare l’atto di informativa ivi previsto; l’istituto in discorso rappresenta, infatti, un mero strumento offerto alla p.a. per valutare l’opportunità di un riesame della fattispecie in via di autotutela, tanto che il silenzio su tale informativa non è qualificato in termini di Ê»rigetto’ o di Ê»rifiuto’, ma solo di Ê»diniego di (procedere in) autotutela’, la cui mancata impugnazione non comporta una possibile causa di inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso già proposto avverso l’aggiudicazione”. La norma in questione (ai sensi della quale “il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, della procedura ad evidenza pubblica è impugnabile solo con l’atto a cui si riferisce, ovvero, se quest’ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti”) “lungi dall’imporre l’impugnazione del diniego di autotutela, ha un mero rilievo processuale, volto a consentire che la necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella solamente eventuale, secondo i principî generali, del diniego di autotutela vengano trattate nell’ambito di un simultaneus processus”.

È del pari infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa impugnazione del bando e del disciplinare di gara, in base al fatto che la predetta impugnazione sarebbe stata necessaria, per non avere né il bando né il disciplinare previsto la quantificazione già nell’offerta dei c.d. oneri di sicurezza specifici. In contrario, infatti, si osserva come l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza aziendali integri dall’esterno la lex specialis di gara” (cfr., da ultimo, C.S. 5873/2015).

Nel merito, il ricorso viene accolto in consonanza con le pronunce dell’adunanza plenaria nn. 3 e 9/2015, a mente delle quali: “nelle procedure di affidamento di lavori i concorrenti devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara, come si evince da un’interpretazione sistematica delle norme regolatrici della materia date dall’art. 26 comma 6, del d.lgs. n. 81/2008 e dagli artt. 86, comma 3 bis, e 87, comma 4, del d.lgs. n. 163/2006”. FM 


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Inserito in data 09/03/2016
TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I - 29 febbraio 2016, n. 66

Necessarietà della sanzione ex art. 38, comma 2 bis d.lgs. n. 163/2006

Il Tribunale amministrativo, riconosce la legittimità di una determinazione comunale di escussione parziale della cauzione provvisoria prodotta da una ditta partecipante a una gara, in un caso di disposta integrazione documentale, della quale la ricorrente aveva rappresentato di non volersi avvalere.

In sede cautelare, era stata ritenuta “condivisibile l’interpretazione del comma 2 bis dell’art. 38 del codice dei contratti data dall’A.n.a.c. e invocata dalla ricorrente, in quanto più in linea con la ratio deflattiva sottesa alla novella normativa in discorso”. Sarebbe, infatti “illogica e ingiustamente afflittiva la sanzione pecuniaria per il concorrente che, reso edotto dell’incompletezza o di altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive, scelga di ritirarsi dalla competizione (non avvalendosi del soccorso istruttorio) consentendo alla stazione appaltante di procedere celermente con le operazioni di gara senza strascichi giudiziarî”.

Osservava l’amministrazione resistente come la sanzione in narrativa non costituisca una “misura alternativa all’esclusione”, bensì uno strumento mirato a colpire “l’irregolarità essenziale della documentazioneex se. Si riportava, in proposito, l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza.

Il collegio evidenzia la procedimentalizzazione dell’istituto del soccorso istruttorio, per effetto della l. n. 114/2014, non mancando di enuclearne la logica fondamentale: “prevenire esclusioni determinate da mere omissioni documentali sanabili in corso di gara senza eccessivi aggravî, contemperando (…) i principî di massima partecipazione e di par condicio che, in ragione dell’altalenante prevalere dell’uno sull’altro, avevano determinato una posizione ondivaga della giurisprudenza”.

Presupposto legittimante l’adozione della misura sanzionatoria, il ricorrente individuava “nell’effettivo sfruttamento della riconosciuta possibilità di rimanere in gara nonostante l’irregolarità commessa”.

Diversamente opinando, l’amministrazione costruiva la propria tesi sulla considerazione che già la sola incompletezza documentale, fosse sufficiente ai fini dell’irrogazione della sanzione.

Il Tribunale motiva la propria scelta muovendo dal dato testuale normativo. Nella direzione già richiamata in apertura, i giudici emiliani riscontrano come appaia chiara “la volontà del legislatore di ricollegare l’effetto sanzionatorio alla sola incompletezza documentale senza subordinarlo a successive valutazioni della concorrente in ordine alla persistenza di un proprio eventuale interesse a permanere in gara”. Ove così non fosse “risulterebbe svilita la funzione della norma che (…) persegue, altresì, l’obiettivo di indurre i concorrenti alla presentazione di offerte serie e ponderate evitando inutili aggravî procedimentali”. FM 


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Inserito in data 08/03/2016
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - ricorsi nn. 17708, 17717, 17729, 22994/12 - SEZ. I, SENTENZA 25 febbraio 2016

Indennizzo Legge Pinto ed istanza di prelievo

La Corte di Strasburgo interviene, con la pronuncia in esame, in materia di indennizzo della violazione del termine di ragionevole durata dei processi – in specie riguardo a quelli amministrativi, facendo cadere il principio  della necessaria presentazione dell’istanza di prelievo come condizione di ammissibilità dell’istanza di indennizzo ex lege Pinto.

L’intervento è degno di nota, poiché con esso è ravvisata una violazione – da parte dell’Ordinamento italiano – nell’adozione di rimedi preventivi – volti a deflazionare la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, tra i quali parrebbe rientrare, per l’appunto, l’istanza di prelievo – di cui  all’art. 71 cpv. c.p.a., e in precedenza dall’art. 51 R.D. 642/07.

Ad avviso dei Giudici francesi, in sostanza, la previa, necessaria presentazione di tale istanza costituirebbe una mera formalità, destinata ad ostacolare l’accesso ai “procedimenti Pinto”.

Infatti, sottolinea sempre la Corte, il Presidente del Tar ha una semplice facoltà di anticipare la trattazione dell’udienza, a seguito della presentazione dell’istanza di prelievo e, nella prassi giudiziaria, il periodo di tempo che intercorre tra la presentazione dell’istanza di prelievo  e la fissazione delle cause per le quali è chiesta l’istanza sembra dipendere in maniera aleatoria dalle politiche di priorità di ciascun TAR.

E’ evidente come, in tal guisa, la necessità di anticipare e snellire l’accesso ai giudizi ex lege Pinto – originariamente riscontrabile nella richiesta di una previa presentazione di un’istanza di prelievo, ha finito con il costituirne un ostacolo – rallentando il relativo iter processuale e gravando di ulteriori oneri i ricorrenti, già appesantiti da vicende giudiziarie annose.

Proprio ciò considerando, i Giudici di Strasburgo sanciscono la violazione degli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, posto che la suddetta istanza non riesce a delimitare l’irragionevole durata dei processi; né, altresì, a consentirne una maggiore accelerazione.

Di conseguenza, la Corte condanna lo Stato italiano a rifondere ai ricorrenti le spese per i danni morali patiti a seguito dell’ulteriore dilatazione dei tempi processuali e statuisce, frattanto, il tramonto di una norma che, invero, tradiva lo spirito di maggiore snellezza per cui era stata originariamente pensata dal nostro Legislatore. CC

 




Inserito in data 08/03/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - GRANDE CAMERA, SENTENZA 1 marzo 2016 - C-443/14 e C-444/14

Beneficiari protezione sussidiaria ed obbligo di residenza

La Corte di giustizia dell’Unione europea chiarisce la portata dell’articolo 33 della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale.

Essa sottolinea, più nel dettaglio, che  gli Stati membri devono permettere alle persone alle quali hanno concesso lo status di beneficiario della protezione sussidiaria  di circolare liberamente nel loro territorio secondo condizioni identiche a quelle riservate alle altre persone non aventi la cittadinanza dell’UE che ivi risiedono legalmente.

In tal modo, infatti, facendo specifico riferimento alla normativa tedesca – oggetto dell’odierna pronuncia, la Corte stabilisce che, quando i beneficiari della protezione sussidiaria percepiscono prestazioni sociali, il loro permesso di soggiorno deve essere accompagnato da un obbligo di residenza in un luogo determinato.

Tale misura mira a garantire un’adeguata ripartizione degli oneri di tali prestazioni tra i diversi enti competenti in materia. Essa inoltre può avere l’effetto di facilitare l’integrazione nella società tedesca delle persone non aventi la cittadinanza dell’UE.

Tale applicazione – ad avviso dei Giudici del Lussemburgo, è in linea con la ratio della suddetta Direttiva, volta a perseguire ragioni di carattere umanitario.

Si ritiene possibile ed anzi perseguibile, infatti, imporre un obbligo di residenza ai rifugiati qualora essi siano più esposti a difficoltà di integrazione rispetto ad altre persone non aventi la cittadinanza dell'Ue e residenti legalmente nel medesimo Stato membro. CC



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Inserito in data 07/03/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 3 marzo 2016, n. 880

L’avvalimento c.d. infragruppo

L’appello controverte della legittimità dell’aggiudicazione di un appalto di servizi ad una ditta che, in sede di presentazione dell’offerta, aveva dichiarato di concorrere per la sua consorziata ed aveva allegato alla propria offerta un contratto di avvalimento infragruppo in relazione al fatturato specifico, legittimità contestata dal ricorrente proprio con riferimento alla valutazione del contratto di avvalimento, a suo avviso “generico” e come tale non idoneo a dimostrare all’Amministrazione la serietà dell’offerta e la concreta possibilità di far fronte agli impegni contrattuali.

Il T.A.R. capitolino, nella pronuncia impugnata, aveva rilevato che ricorrendo, nella fattispecie, un’ipotesi di avvalimento infragruppo, non sarebbe stato necessario, per dimostrare il possesso dei requisiti, il relativo contratto ex art.49, co. 2 g del D.Lgs. n.163/2006, tanto più che la questione riguardava imprese di un consorzio “stabile”.

Ma considerato che l’aggiudicataria si era ugualmente avvalsa del contratto di avvalimento, il Collegio aveva dovuto verificarne la determinatezza del contenuto ai sensi dell’art.49 del D.Lgs. n.163/2006 e dell’art.88 del D.P.R. n.207/2010, ritenendolo conclusivamente sufficientemente determinato.

I giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia in epigrafe, hanno confermato la decisione resa in primo grado, ribadendo come “in tema di avvalimento, la giurisprudenza di questo Consesso ha ripetutamente affermato l’esigenza, ricavata dalle disposizioni dell’art. 49, che il contratto in parola rechi una esplicita ed esauriente indicazione del relativo oggetto (..) e che le risorse ed i mezzi da prestare all’ausiliata siano indicati in modo determinato e specifico”.

Ma l’intensità del dovere di specificazione – hanno ulteriormente precisato i giudici della IV Sezione - può essere “diversamente determinata”, poiché il citato art. 49 “richiama in più punti la possibilità che la lex specialis concursus rechi una disciplina del contenuto del contratto di avvalimento “ in relazione ad una specifica gara” (comma 1 dell’art. 49) o con specifico riguardo alle “risorse necessarie” (comma 2 lett. f del medesimo articolo) per l’appalto”.

Applicando il citato criterio alla fattispecie de qua, il Collegio ha evidenziato come il bando di gara, nel caso in esame, non disponesse nulla di particolarmente specifico sul punto, sicché la valutazione di idoneità del contratto di avvalimento compiuta dal T.A.R. Roma, secondo i criteri dell’art. 49, doveva ritenersi immune dai vizi ipotizzati dal ricorrente. MB

 



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Inserito in data 07/03/2016
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 1 marzo 2016, n. 313

DURC: sindacabilità innanzi al G.A.

Con la pronuncia in epigrafe, la II Sezione del T.A.R. Brescia si è occupata della giurisdizione amministrativa in tema di documento unico di regolarità contributiva, c.d. DURC.

Nella fattispecie, la stazione appaltante aveva indetto una procedura di cottimo fiduciario con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, invitando l’impresa - odierna ricorrente - a presentare la propria offerta. Dopo la comunicazione dell’aggiudicazione in via provvisoria dell’appalto, l’Azienda appaltante aveva comunicato (con note del luglio 2015) di avere riscontrato, in base ad un DURC negativo, una irregolarità contributiva e di aver proceduto alla revoca dell’aggiudicazione e all’esclusione della ricorrente dalla procedura di gara.

Il Collegio, nell’affrontare la questione preliminare della sindacabilità del DURC da parte del giudice amministrativo, ha sinteticamente ripercorso la normativa di riferimento in materia, precisando che il DURC trova origine nell’art. 2 del d.l. n°210/2002, conv. nella l. n°266/2002, a tenore del quale “le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva a pena di revoca dell'affidamento”, disposizione – questa - con la quale si è voluto scongiurare il rischio che le commesse pubbliche, tradizionalmente considerate generatrici di occupazione, si traducessero nell’arricchimento di soggetti non rispettosi dei diritti dei lavoratori.

A tale norma, ha fatto seguito – hanno ricordato i giudici bresciani – l’art. 38 del d.lgs. 163/2006, per cui costituiscono causa di esclusione dalle pubbliche gare le "violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali".

La normativa – ha ulteriormente precisato il TAR Brescia - è stata coordinata dalla pronuncia n°4/2012 resa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, in estrema sintesi, ha chiarito che “la verifica di tale requisito è demandata all’ente previdenziale: se esso rilascia un DURC positivo, l’impresa è in regola e può partecipare; se invece esso rilascia un DURC negativo”.

Ciò premesso, si pone un problema di tutela nel caso di errori del DURC, con particolare riguardo all’individuazione del giudice al quale rivolgersi nell’ipotesi in cui l’Istituto previdenziale abbia sbagliato nel rilasciare il DURC.

Con la pronuncia in esame, il Collegio ha mostrato di condividere l’orientamento espresso dalla sez. VI del C.d.S. n°2219/2015, per cui “il certificato in questione costituisce un atto interno al procedimento, che va impugnato unitamente all’atto finale e che è sottoposto, quanto alla sua regolarità, alla giurisdizione del giudice amministrativo come oggetto di una questione preliminare”.

Ed infatti, ad avviso dei giudici bresciani, il difforme orientamento per cui ogni questione relativa al DURC sarebbe devoluta alla giurisdizione ordinaria (da adire in via principale per ricostruire il rapporto previdenziale) non appare condivisibile poiché - considerati i tempi del giudizio civile – questa soluzione lascerebbe la parte senza effettiva tutela e finirebbe, inoltre, con il porsi in contrasto con l’art. 8 c.p.a. che, in via generale, consente al G.A. di conoscere con efficacia limitata al processo di tutte le questioni preliminari.

Sulla scorta di queste considerazioni, il TAR ha ritenuto di poter esercitare sul punto una mera cognizione incidentale.

Venendo al merito del ricorso, i giudici della II Sezione hanno precisato che il  sistema originariamente previsto dal D.M. 24 ottobre 2007 - fondato su una alternativa secca fra il rilascio di un DURC positivo ed uno negativo - è stato sostituito da altro delineato dall’art. 4 del d.l. n°34/2014, conv. nella l. n°78/2014, che in sintesi “sostituisce il documento propriamente detto con il risultato di una interrogazione telematica, che attesta o denega la regolarità nei termini previsti da un regolamento attuativo”: il  D.M. 30 gennaio 2015 (in vigore dal 16 giugno successivo), il quale prevede - allo scopo di soccorrere l’imprenditore in buona fede - che se l’interessato ottempera nel termine prescritto, l’Istituto rilascia un DURC positivo, diversamente, a fronte della mancata regolarizzazione, verrà emesso il documento negativo. “Il regolamento, con effetto dalla sua entrata in vigore, ha ridefinito il concetto di grave violazione contributiva, non più costituito dalla violazione ostativa al rilascio, ma dalla violazione ostativa non sanata a fronte dell’invito”.

A fronte di ciò – ha rilevato il TAR Brescia - la giurisprudenza si è chiesta “se tale nuovo regime sia innovativo o ricognitivo, ovvero valga anche per il passato” – questione, questa, rimessa alla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le ordinanze sez. IV 29 settembre 2015 n°4540 e sez. V 20 ottobre 2015 n°4799.

Nella fattispecie in esame – ha poi precisato il Collegio - il sub procedimento di verifica della regolarità contributiva si è svolto dopo il 16 giugno 2015, ovvero a nuova disciplina già in vigore, sicché, nel silenzio della legge, non vi sarebbe ragione alcuna di assoggettare alla disciplina abrogata, più severa, una procedura svoltasi per intero nella vigenza di una normativa nuova, poiché “in tal senso, depongono sia il principio generale, che favorisce la partecipazione alle gara, sia l’interesse alla salvaguardia dei contributi previdenziali”.

Quindi, il Collegio, con la pronuncia de qua, ha annullato la determinazione con la quale la stazione appaltante aveva disposto la revoca dell’aggiudicazione, in via provvisoria, della ricorrente e la sua esclusione dalla gara. MB

 



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Inserito in data 05/03/2016
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 2 marzo 2016, n. 488

Pretermissione del contraddittorio in materia di bonifica di siti inquinati

Il Tar Salerno, nella sentenza in esame, si è pronunciato sulla legittimità o meno di un’ordinanza di recupero e smaltimento dei rifiuti abbandonati in un terreno non preceduta dall’instaurazione del previo contraddittorio con la parte interessata.

In particolare, parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 192, comma 3 del d.lgs. 152/2006 nella parte in cui prevede che “[…] chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all’avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.

Afferma il Collegio che l’inequivoca previsione normativa depone sufficientemente nel senso della fondatezza del rilievo di parte ricorrente, non risultando l’atto impugnato preceduto da alcun contraddittorio con la ditta ricorrente, tuttavia, stante la natura prettamente formale del rilievo stesso, occorre verificare se la sua carica potenzialmente inficiante la legittimità dell’atto gravato sia superabile mercé l’applicazione dell’art. 21 octies della l. 241/1990, che sancisce il principio della dequotazione dei vizi formali.

Al riguardo, il Tar ritiene di dover risolvere la questione facendo applicazione del consolidato orientamento del Consiglio di Stato in base al quale: “poiché al disposto di cui all'art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006 si attaglia il principio secondo cui vi deve essere necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa del proprietario dell’area per configurare un suo obbligo a provvedere allo smaltimento dei rifiuti ivi abbandonati, […] si deve ritenere che la preventiva, formale comunicazione dell’avvio del procedimento si configuri come un adempimento indispensabile al fine dell’effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con gli interessati, apparendo recessive, dunque, in tale specifica materia, le regole stabilite in via generale dagli artt. 7 e 21 octies della L. n. 241/1990”.

Ne consegue, pertanto, il necessario annullamento dell’ordinanza censurata. SS



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Inserito in data 04/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 29 febbraio 2016, n. 853

Sulla giurisdizione del giudice tributario

Il Consiglio di Stato, nella sentenza in epigrafe, ha individuato i casi in cui, rispetto ad atti amministrativi, sussista la giurisdizione del giudice tributario.
Il Collegio, nel premettere di non discostarsi dall’orientamento consolidato della Corte Costituzionale e della Corte Suprema di Cassazione in materia, ha affermato che la giurisdizione del giudice tributario è ravvisabile nelle sole ipotesi in cui la controversia abbia ad oggetto immediato e diretto la contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa avanzata dall’amministrazione finanziaria o dei relativi accessori normativamente individuati, ossia l’an o il quantum di un particolare tributo, di modo che la stessa sia imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto controverso.

Infatti, l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria - sia che derivi direttamente da un’espressa disposizione legislativa ovvero, indirettamente, dall’erronea qualificazione di “tributaria” data dal legislatore (o dall’interprete) ad una particolare materia - comporterebbe la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali ex art. 102, comma 2 Cost.

Di contro, continua il Consiglio, l’impugnazione di un “atto generale, di natura organizzativa, e solo indirettamente produttivo di conseguenze di natura tributaria” dovrebbe rientrare pienamente nell’alveo della giurisdizione amministrativa senza che su tale profilo possa incidere il tasso di discrezionalità ad esso sotteso.

Poiché nel caso di specie, tuttavia, ci si trova al cospetto di atti direttamente determinativi di un aspetto fondamentale della obbligazione tributaria (aumento della tassa portuale e determinazione dell’aliquota), occorre interrogarsi in ordine alla circostanza se la controversia abbia o non abbia ad oggetto la concreta disciplina di un rapporto tributario.

Ed in ipotesi positiva, laddove cioè risulti chiara la stretta inerenza dell’atto al rapporto tributario – precisa il Collegio – è necessario affermare la spettanza della giurisdizione al Giudice tributario, essendo inutile discutere, ai fini del riparto della giurisdizione, della consistenza di tale posizione rispetto all’atto in questione (se, cioè, si configuri un interesse legittimo o un diritto soggettivo) giacché, una volta stabilita la natura tributaria dell’atto medesimo e, di conseguenza, della controversia cui dà luogo la sua impugnazione, deve essere tout court affermata la giurisdizione esclusiva del giudice tributario.

La controversia in esame, conclude il Consiglio, ha proprio per oggetto la contestazione, sotto il profilo dell’an o del quantum, di un atto impositivo dell’amministrazione finanziaria: non si colloca “a valle” di un rapporto tributario non contestato che ha esaurito i propri effetti e, pertanto, ricorre la giurisdizione del Giudice tributario. SS



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Inserito in data 03/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 febbraio 2016, n. 754

Il requisito d’iscrizione camerale non è surrogabile dalla prova di aver presentato la domanda  

La questione affrontata dalla quinta sezione del Consiglio di Stato scaturisce dall’impugnazione proposta dal titolare di un’impresa individuale avverso la sentenza con la quale il giudice di prime cure aveva confermato il provvedimento della stazione appaltante di escludere l’odierna ricorrente dalla gara per carenza dei requisiti prescritti dal capitolato d’oneri, segnatamente per non aver la concorrente documentato il possesso del requisito relativo alla sua iscrizione alla camera di commercio mediante certificazione o autocertificazione ed essersi, invece, limitata ad allegare la ricevuta di avvenuta presentazione telematica della richiesta di iscrizione al registro delle imprese.

Preliminarmente, il Collegio, condividendo l’eccezione sollevata dall’ente resistente, dichiarava l’improcedibilità dell’appello, in quanto la ricorrente non aveva impugnato l’atto di aggiudicazione definitiva della gara – pur tempestivamente comunicato – e  al riguardo osservava che “è principio acquisito quello secondo cui, nel processo amministrativo, il ricorso avverso la esclusione da una gara pubblica è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse allorché non sia impugnata, nonostante la tempestiva comunicazione, l’aggiudicazione definitiva dell’appalto, che costituisce l’atto che rende definitiva la lesione dell’interesse azionato dal soggetto escluso. Infatti l’eventuale annullamento della esclusione, che ha effetto viziante e non caducante, lasciando sopravvivere l’aggiudicazione non impugnata, non è idoneo ad attribuire al ricorrente alcun effetto utile”.

Dichiarata, quindi, l’improcedibilità dell’appello, il Collegio, per completezza, ugualmente affrontava il merito della questione, rilevando che “nella materia delle gare pubbliche il requisito della iscrizione camerale non è surrogabile dalla prova di aver presentato la domanda di iscrizione, in quanto il certificato non è richiesto solamente ai fini dell’esercizio dell’attività da parte dell’aggiudicataria, ma quale prova del possesso delle condizioni soggettive e oggettive cui è subordinata la iscrizione, il cui accertamento demandato all’ente camerale è implicito nella iscrizione. In tale ottica la iscrizione assume valenza costitutiva e non può che decorrere dal momento in cui è disposta la iscrizione”.

In particolare, la quinta sezione puntualizzava che il termine per la presentazione delle domande di partecipazione alla gara costituisce il “discrimen temporale” entro il quale il concorrente, a pena di esclusione, deve possedere i requisiti richiesti dalla lex specialis.

Nel caso di specie, la ricorrente non aveva dato prova del possesso del prescritto requisito di iscrizione alla camera di commercio e, non potendosi - ad avviso del Collegio -  condividere il principio di retrodatazione dell’iscrizione alla data di presentazione online della domanda, la stazione appaltante del tutto legittimamente aveva quindi disposto l’esclusione della partecipante dalla gara pubblica. MB

 



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Inserito in data 02/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 29 febbraio 2016, n. 842

Reddito disponibile: illegittimità del regolamento sulla revisione dell’i.s.e.e.

Il Consiglio di Stato conferma la pronuncia di primo grado e dichiara l’illegittimità del regolamento sulla revisione delle modalità di determinazione e sui campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (d.P.C.m. 5 Dicembre 2013, n. 159), nella parte in cui prevede una nozione di reddito disponibile eccessivamente allargata.

L’indicatore (introdotto dal d.l.gs. n. 109/1998), tendente allo scopo di “fissare criterî uniformi per la valutazione della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni o servizî sociali o assistenziali non destinati alla generalità dei soggetti o, ad ogni modo, collegati nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche”, è costituito da una componente reddituale (i.s.r.) e da una componente patrimoniale (i.s.p.), ed è utilizzabile per confrontare famiglie, con composizione e caratteristiche differenti, grazie ad una scala di equivalenza (s.e.). Il citato decreto n. 159, risponde all’esigenza di assicurare una maggiore equità nell’individuazione dei beneficiarî: la precedente normativa, infatti, non aveva “ben considerato tutte le diverse fonti di reddito disponibile e di ricchezza patrimoniale delle famiglie”. Ai sensi del d.l. n. 201/2011 si sarebbe dovuta “adottare una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale, e che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia nonché dei pesi dei carichi familiari, in particolare dei figlî successivi al secondo e di persone disabili a carico; migliorare la capacità selettiva dell’indicatore, valorizzando in misura maggiore la componente patrimoniale sita sia in Italia sia all’estero…; permettere una differenziazione dell’indicatore per le diverse tipologie di prestazioni…”.

Rientrano nell’ambito dell’i.s.e.e. anche le “prestazioni agevolate di natura sociosanitaria… (rivolte)… a persone con disabilità e limitazioni dell’autonomia”: categoria di appartenenza dei ricorrenti, i quali lamentavano eccessive limitazioni all’accessibilità alle prestazioni de quibus.

Preliminarmente, il collegio ritiene l’atto impugnato sindacabile; infatti, nonostante la natura regolamentare, esso non appare munito, in tutti i suoi aspetti, dalle caratteristiche della generalità e dell’astrattezza; il decreto n. 159 è già in sé lesivo degli interessi dei ricorrenti e non meramente programmatico, e non è dunque “ascrivibile al novero dei regolamenti c.d. di volizione preliminare”.

In prime cure i privati avevano emarginato tra i motivi del ricorso “l’illegittima ed irrazionale attuazione del criterio direttivo che, nel disporre l’adozione di Ê»una definizione di reddito disponibile che includa la percezione di somme, anche se esenti da imposizione fiscale’, si sarebbe dovuto interpretare nel senso dell’eliminazione delle lacune della precedente regolamentazione (facendo, cioè, emergere cespiti anche cospicui ma esenti da tributo o diversamente tassati), non certo nel senso d’includere nella definizione di reddito disponibile pure i trattamenti indennitarî o risarcitorî percepiti dai disabili a causa della loro accertata invalidità e volti ad attenuare tal oggettiva situazione di svantaggio”.

La sentenza del Tribunale amministrativo accoglie la doglianza, stigmatizzando come l’art. 4, comma 1, lettera f, del decreto n. 159, individui quale reddito disponibile proventi “che l’ordinamento pone a compensazione della oggettiva situazione di svantaggio, anche economico, che ricade sui disabili e sulle loro famiglie”, “peraltro senza darne adeguata e seria contezza, poiché non si tratta né di reddito, né tampoco di reddito disponibile”.

Il Consiglio di Stato, a tal proposito, ribadisce che le somme in questione: “Sono erogate al fine di attenuare una situazione di svantaggio (e) tendono a dar effettività al principio di uguaglianza, di talché è palese la loro non equiparabilità ai redditi già di per sé, ossia indipendentemente dalla loro inserzione nel calcolo dell’i.s.e.e.”. “Non v’è dubbio che l’i.s.e.e. possa, anzi debba, ai fini di un’equa e seria ripartizione dei carichi (…), tener conto di tutti i redditi che sono esenti ai fini i.r.p.e.f., purché redditi. Ed è conscio il collegio che, ai fini dell’i.s.e.e., prevalgano considerazioni di natura assicurativa ex art. 38, commi II e IV, Cost., che integrano il diritto alla salute di cui al precedente art. 32, comma I. Ciò si nota soprattutto quando (…) le prestazioni assistenziali siano strettamente intrecciate a quelle sociosanitarie e, dunque, serva un indicatore più complesso del solo reddito personale imponibile, per meglio giungere ad equità, ossia ad una più realistica definizione di capacità contributiva”; “tuttavia, nulla quaestio fintanto che si resta nel perimetro concettuale del (…) reddito-entrata (…), ma quando si vuol sussumere alla nozione di reddito un quid di economicamente diverso ed irriducibile, non può il legislatore (…) dimenticare che ogni forma impositiva va comunque ricondotta al principio ex art. 53 Cost., e che le esenzioni e le esclusioni non sono eccezioni alla disciplina del predetto obbligo e/o del presupposto imponibile. Esse sono piuttosto vicende presidiate da valori costituzionali aventi pari dignità dell’obbligo contributivo, l’effettiva realizzazione dei quali rende taluni cespiti inadatti alla contribuzione fiscale. Ebbene, se di indennità o di risarcimento veri e proprî si tratta (… – si pensi all’indennità di accompagnamento o alle misure risarcitorie per inabilità che prescindono dal reddito), né l’una, né l’altro rientrano in una qualunque definizione di reddito assunto dal diritto positivo, né come reddito-entrata, né come reddito-prodotto (…). In entrambi i casi, per vero, difetta un valore aggiunto, ossia la remunerazione d’uno o più fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo”. Si ritiene, pertanto, di essere al cospetto di somme accordate al fine di “ristabilire una parità morale e competitiva”, che non determina “una migliore situazione economica del disabile rispetto al non disabile, al più mirando a colmare tal situazione di svantaggio subita da chi richiede la prestazione assistenziale”. “Pertanto, la capacità selettiva dell’i.s.e.e., se deve scriminare correttamente le posizioni diverse e trattare egualmente quelle uguali, allora non può compiere l’artificio di definire reddito un’indennità o un risarcimento, ma deve considerali per ciò che essi sono, perché posti a fronte di una condizione di disabilità grave e in sé non altrimenti rimediabile”. FM

 



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Inserito in data 02/03/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. V - 27 febbraio 2016, n. 1088

Concorsi: legittima la valutazione numerica se i criterî sono predeterminati

Con la pronuncia in esame il Tribunale partenopeo accoglie le istanze del ricorrente, il quale lamentava la violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), per la mancata predeterminazione, da parte di una commissione esaminatrice, dei criterî e delle modalità di valutazione delle prove concorsuali.

Secondo le motivazioni espresse, veniva a mancare “una griglia di valutazione a cui ancorare la scelta discrezionale del singolo commissario nell’attribuzione del punteggio a sua disposizione”, risultando il metodo seguito “estremamente generico e, dunque, in contrasto con l’esigenza di tutela della par condicio, (nonché) coi principî costituzionali di cui agli artt. 3 e 97 Cost., e con la normativa nazionale di riferimento (art. 35, comma 3, d.lgs. n. 165/2001)”, oltre che con la l. n. 241/1990, sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di motivazione, con conseguente grave violazione delle regole di trasparenza e di imparzialità.

Osserva il collegio come anche le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 14896/2010) abbiano affermato che: “La commissione esaminatrice è tenuta per legge a far precedere la correzione, e le singole valutazioni, da una sintesi delle proprie ipotesi valutative”, avendo il legislatore imposto “la preventiva, generale ed astratta posizione delle (…) regole di giudizio, al fine di assicurare che le singole, numerose, anche remote valutazioni degli elaborati siano tutte segnate dai caratteri dell’omogeneità e permanenza. Solo attraverso la fissazione di tale preventiva cornice è possibile assicurare l’auspicabile risultato di una procedura concorsuale trasparente ed equa”. La funzione tendenziale appare evidentemente quella di autolimitare la discrezionalità tecnica della commissione d’esame, inquadrando ab initio il livello generale e astratto delle valutazioni da compiere in concreto.

Inoltre, riportando un precedente giurisprudenziale formulato dal Consiglio di Stato, i giudici riscontrano che: “La discrezionalità riconosciuta dalla legge alle commissioni giudicatrici se non consente di costringere il giudizio entro parametri rigidamente predeterminati, non tollera neppure l’omissione di qualsiasi criterio, anche solo orientativo volto ad indirizzare le valutazioni dei candidati in modo omogeneo”.

Anche in ordine all’insufficienza del solo punteggio numerico, in assenza di predeterminazione dei criterî di valutazione, il Tribunale ritiene la censura fondata. Ed infatti, la mancata esternazione di un giudizio potrebbe considerarsi legittima, solo a condizione che vengano rigidamente prestabiliti i parametri di riferimento, laddove nel caso di specie “una compiuta motivazione sarebbe stata (invece) necessaria”, posto l’accento sul carattere aperto delle domande d’esame. “Inoltre, per la legittimità della votazione numerica data ad una prova scritta, è necessaria almeno l’apposizione di note a margine dell’elaborato o l’uso di segni grafici, che consentano di individuare gli aspetti della prova valutati positivamente”.

Secondo il Tribunale: “È imposto alle commissioni esaminatrici di rendere percepibile l’iter logico seguito nell’attribuzione del punteggio, se non attraverso diffuse esternazioni verbali relative al contenuto delle prove, quantomeno, mediante taluni elementi che concorrono ad integrare e chiarire la valenza del punteggio esternando le ragioni dell’apprezzamento sinteticamente espresso con l’indicazione numerica. Il rispetto dei principî suddetti impone che al punteggio numerico si accompagnino ulteriori elementi sulla scorta dei quali sia consentito ricostruire ab externo le motivazioni del giudizio valutativo, tra questi, particolare significato assume la predeterminazione dettagliata e puntuale dei criterî di valutazione”.

Conclusivamente, il Tribunale campano opta, pertanto, per una posizione intermedia tra le due opposte tesi, allo stato, seguite dalla giurisprudenza amministrativa. La sufficienza del voto numerico può essere predicata solamente a condizione che questo sia “leggibile alla stregua di una congrua e articolata predeterminazione dei criterî stabiliti per la sua attribuzione, predeterminazione che può essere contenuta direttamente nel bando e/o essere aggiunta (o integrata) dalla commissione giudicatrice (…) prima dell’esame”. FM

 



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Inserito in data 01/03/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZE 29 febbraio 2016, nn. 5 e 6

In sede di verifica la stazione appaltante non ha l’obbligo di preavviso di DURC negativo

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato è stata chiamata a stabilire ex art. 99 C.P.A. “se l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione del DURC (c.d. preavviso di DURC negativo), previsto dall’art. 7, comma 3 D.M. 24 ottobre 2007 e ribadito dall’art. 31, comma 8, del decreto legge n. 69 del 2013, sussista anche nel caso in cui la richiesta provenga dalla stazione appaltante in sede di verifica della dichiarazione resa dall’impresa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera i) del d.lgs. n. 163 del 2006. Se, in altri termini, la mancanza dell’invito alla regolarizzazione impedisca di considerare come “definitivamente accertata” la situazione di irregolarità contributiva".

Aderendo all’orientamento prevalente, con le sentenze gemelle nn. 5 e 6, l’Adunanza Plenaria ha affermato che l’invito alla regolarizzazione non è necessario in caso di DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di verifica.

A sostegno della propria tesi, il Supremo Consesso amministrativo ha addotto, innanzitutto, argomenti fondati sul dato letterale dell’art. 31 c. 8 d.l. n. 69/13: infatti, quest’ultima disposizione non contiene alcun riferimento alla disciplina dell’evidenza pubblica o dei contratti pubblici, mentre, ai sensi dell’art. 255 d.lgs. n. 163/06, le modifiche e abrogazioni al codice degli appalti vanno operate in modo esplicito. Sotto altro profilo, è stato evidenziato che l’art. 38 c. 2 d.lgs. n. 163/06 rinvia alle norme dell’ordinamento previdenziale solo per stabilire quando l’irregolarità contributiva debba considerarsi grave, mentre un analogo rinvio non è previsto al fine di determinare quando l’irregolarità possa dirsi definitiva: da ciò si deduce che l’autonomia della nozione di “definitività” della violazione nell’ambito della materia degli appalti rispetto all’ordinamento previdenziale.

Dal punto di vista sistematico, il Collegio ha notato che il preavviso di DURC negativo ricorda l’istituto previsto in via generale dall’art. 10-bis L. 241/90 (comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza), fattispecie che non trova applicazione nei procedimenti amministrativi che iniziano d’ufficio e nelle procedure concorsuali; ciò rafforza l’idea secondo cui l’invito alla regolarizzazione non sia necessario nel caso di richiesta della stazione appaltante (trattandosi di procedimento concorsuale e iniziato d’ufficio).

Inoltre, il Supremo Consesso ha osservato che, ammettendo la regolarizzazione postuma, risulterebbero vulnerati i principi di parità di trattamento e di autoresponsabilità (che, secondo la decisione dell’Ad. Plen. n. 9/14, impongono ai concorrenti di sopportare le conseguenze di errori, omissione e falsità commesse nella formulazione dell’offerta e nella presentazione delle dichiarazioni) e il principio di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione alla gara (interpretato dall’Adunanza Plenaria, nella decisione n. 8/14, nel senso che i requisiti non possono essere persi dal concorrente neppure temporaneamente nel corso della procedura).

D’altro canto, alla luce del generale principio di gerarchia delle fonti normative, il D.M. 30 gennaio 2015 non può aver introdotto l’obbligo della stazione appaltante di preavviso di DURC negativo, modificando la disciplina legislativa che non prevede siffatto obbligo.

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria ha chiarito che questa tesi non contrasta coi principi dell’ordinamento comunitario, e, segnatamente, col principio di tutela del legittimo affidamento, atteso che tale principio deve essere bilanciato col principio di autoresponsabilità. Operando tale bilanciamento, infatti, non può dirsi legittimo l’affidamento sulle risultanze del precedente DURC nutrito da parte dell’ impresa che, volontariamente o colposamente, si trovi in una situazione di irregolarità contributiva. TM

 



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Inserito in data 29/02/2016
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV - 15 febbraio 2016, n. 510

Abilitazione alla professione di avvocato: predeterminazione delle domande d’esame

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo etneo accoglie il ricorso presentato da una candidata all’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, la quale, ammessa a sostenere le prove orali, aveva ricevuto una valutazione insufficiente, e veniva pertanto dichiarata non idonea.

L’interessata segnatamente lamentava la violazione dell’art. 12 del d.P.R. 9 Maggio 1994 n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), in quanto le domande poste nello svolgimento delle prove non erano state “formulate sulla base di quesiti predeterminati dalla commissione ed estratti a sorte dal candidato”.

Il collegio, ritenendo la censura fondata, e richiamando propria precedente giurisprudenza (cfr. sentenza n. 2331/2015), osserva come la disposizione citata (ai sensi della quale “Le commissioni esaminatrici (…) immediatamente prima dell’inizio di ciascuna prova orale, determinano i quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna delle materie di esame”, e “Tali quesiti sono proposti a ciascun candidato previa estrazione a sorte”), debba trovare applicazione anche con riferimento alle procedure d’esame le quali, in senso stretto, non potrebbero essere definite concorsuali. Ciò in quanto la norma è “volta a garantire, in applicazione del principio di imparzialità, che un candidato non venga preferito (o penalizzato) rispetto ad altri”.

I giudici, per quanto precede, conclusivamente annullano il verbale impugnato, e ordinano alla commissione d’esame, in diversa composizione, di ripetere, entro quaranta giorni dalla comunicazione o notificazione della sentenza, la prova d’esame orale, in osservanza della normativa esaminata. FM

 



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Inserito in data 29/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2016, n. 3260

Danno morale: niente automatismi ma valutazione caso per caso

Con la pronuncia in epigrafe, la terza sezione della Corte di Cassazione è tronata ad occuparsi del tema della liquidazione del danno non patrimoniale, affermando il seguente principio di diritto: “ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l'utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico, individuato nelle tabelle in uso non implica che, accertato il primo (danno biologico), il secondo non abbia bisogno di alcun accertamento, perché se così fosse si duplicherebbe il risarcimento degli stessi pregiudizi, invece, il metodo suddetto va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l'accertamento con metodo presuntivo, attenendo la sofferenza morale ad un bene immateriale, dell'esistenza del pregiudizio subito, attraverso l'individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo sulla base della necessaria allegazione del tipo di pregiudizio e dei fatti dai quali lo stesso emerge da parte di chi ne chiede il ristoro”.

Nella fattispecie in esame, il ricorrente contestava la quantificazione che il giudice di prime cure aveva fatto del danno non patrimoniale, sotto il profilo del danno morale soggettivo, chiedendone la riconsiderazione in aumento. Nell’esaminare l’appello incidentale, la Corte d'Appello, richiamando l'arresto delle Sezioni Unite (n. 26972/2008) secondo cui “il danno morale soggettivo non può configurarsi come conseguenza immediata e diretta della durata e dell'intensità della lesione psicofisica, con la conseguenza che esso postula una dimostrazione e motivazione specifica”, aveva rilevato che, nella pronuncia resa in primo grado il danno non patrimoniale era stato quantificato secondo una certa “proporzione aritmetica” rispetto a quello biologico, con un sistema escluso quindi dalla richiamata giurisprudenza.

Tuttavia – rileva la Corte di legittimità nella sentenza de qua – la Corte di merito avrebbe del tutto omesso di decidere in ordine all’appello incidentale, trascurando ogni indagine circa la sussistenza delle condizioni per la valutazione della congruità del danno morale liquidato.

Ad avviso degli Ermellini, la Corte d’Appello sarebbe giunta a tali conclusioni sull’erroneo presupposto che la liquidazione del danno morale da parte del giudice di primo grado, “attraverso l’individuazione di una proporzione percentuale del danno da lesione all’integrità fisica (c.d. danno biologico)”, integrasse la violazione del principio affermato dalle citate Sezioni Unite, “secondo il quale il danno morale soggettivo non può configurarsi come conseguenza immediata e diretta dell’intensità della lesione psicofisica”.

Ha poi ulteriormente rilevato la terza sezione che ciò che nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite rappresentava “una mera esemplificazione, è divenuto, nell’errata interpretazione estrapolativa del giudice di merito, un principio generale consistente nel divieto dell’utilizzo di quel metodo di quantificazione in senso stretto”.

In definitiva, la liquidazione del danno morale, come percentuale di quello biologico, non deve tradursi in un “automatismo” – poiché, per questa via, si rischierebbe di incorrere in una inammissibile duplicazione del risarcimento delle voci di danno per il medesimo pregiudizio - ma è sempre necessario un accertamento caso per caso della sofferenza psicologica patita, mentre il metodo percentuale “va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l'accertamento con metodo presuntivo". MB

 




Inserito in data 26/02/2016
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. V, 22 febbraio 2016, n. 961

Decadenza dall’assegnazione dell’alloggio popolare: giurisdizione

La sentenza in esame accoglie preliminarmente l’eccezione di difetto di giurisdizione in capo all’autorità giudiziaria amministrativa, nel caso di un ricorso presentato avverso una comunicazione di occupazione abusiva dell’immobile di edilizia residenziale pubblica, emesso dall’Istituto autonomo per le case popolari territorialmente competente, e un verbale di rigetto della richiesta di regolarizzazione locativa, emesso dalla Commissione assegnazione alloggî.

Il ricorrente lamentava, in ordine a tale ultimo provvedimento, la determinazione assunta dall’amministrazione, la quale aveva inferito le proprie motivazioni dalla circostanza che il coniuge dell’interessato fosse titolare di un diritto di proprietà su un immobile ad uso abitativo, sito in territorio appartenente al medesimo distretto provinciale. Veniva di conseguenza emessa la comunicazione di occupazione abusiva, nonostante le contestazioni del privato.

Ad avviso del collegio: “Spetta al giudice ordinario, in applicazione delle regole generali sul riparto di giurisdizione, la definizione dell’azione proposta contro l’ordine di rilascio dell’immobile per occupazione senza valido titolo, reso ai sensi dell’art. 18, d.P.R. 30 Dicembre 1972, n. 1035 (Norme per l’assegnazione e la revoca nonché per la determinazione e la revisione dei canoni di locazione degli alloggî di edilizia residenziale pubblica), ove l’occupante, contestando il diritto al rilascio azionato, faccia valere un proprio diritto soggettivo a mantenere il godimento dell’alloggio”. FM

 



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Inserito in data 25/02/2016
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 18 febbraio 2016, n. 207

Diritto di accesso funzionalmente alla tutela in sede giurisdizionale

I Giudici torinesi intervengono in materia di accesso, in particolare delimitandone le condizioni di esercizio nel caso in cui esso sia strumentale ad un’eventuale azione giudiziaria.

Nel caso di specie, infatti, parte ricorrente – destinataria di una raccomandata, impugna il silenzio serbato dall’Ente postale a seguito dell’istanza di accesso riguardo agli estremi di tale comunicazione – di cui aveva smarrito ogni traccia ed il cui ritrovamento, invero, sarebbe stato certamente utile al fine di interrompere i termini prescrizionali in vista dell’introduzione di un giudizio.

A fronte dell’istanza di correzione del petitum – erroneamente avanzata dall’Amministrazione resistente, il Collegio piemontese condivide le doglianze del privato istante, riconoscendolo, in primo luogo, quale soggetto portatore di una posizione qualificata.

Prosegue, poi, ricordando come il diritto di accesso presupponga, inevitabilmente, un’attività di ricerca che, in specie, l’Amministrazione si sarebbe rifiutata di compiere.

Non si tratta, infatti, come avanzato ex adverso – di un’attività di rielaborazione che avrebbe compromesso il normale facere dell’Ente.

Questo, infatti, - evidenziano i Giudici - avrebbe dovuto provvedere solamente a consultare il registro, estrarre il dato richiesto, anche effettuando semplicemente la fotocopia della pagine in cui sono stati trascritti i dati.

In tal senso, insiste il Collegio, la domanda di accesso poteva essere soddisfatta.

Esso approda, pertanto, alla declaratoria di illegittimità del diniego all’accesso serbato dall’Amministrazione, sancendone l’illegittimità perché, invero, l’interesse sottostante è giuridicamente rilevante e diretto ad ottenere un atto, il cui rinvenimento non implica una attività elaborativa. CC

 



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Inserito in data 24/02/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 febbraio 2016, n. 36

Illegittimità costituzionale della Legge Pinto

Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale si è pronunciata su ben sei ordinanze provenienti dalla Corte d’Appello di Firenze ed aventi ad oggetto tutte la censura di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis e 2-ter della legge n. 89/2001 (cd. Legge Pinto).

La Corte remittente sostiene che l’art. 2 della suindicata legge – nell’assicurare un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente dall’irragionevole durata del processo – abbia introdotto, ai commi censurati, una disciplina legale dei termini entro i quali il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio di ragionevole durata del processo che viola gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

In particolare, i giudici remittenti si dolgono del fatto di dover applicare la stessa disciplina legale dei termini prevista dai commi 2-bis e 2-ter per i processi ordinari di cognizione (3 anni per il primo grado, 2 anni per il secondo grado e 1 anno per il giudizio di legittimità, nonché 6 anni complessivi per definire in modo irrevocabile il giudizio) anche ai processi regolati proprio dalla l. n. 89/2001.

La Corte EDU avrebbe, infatti, reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo: per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla l. 89/2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.

Al riguardo, le SS.UU. (sent. n. 6312/2014) avevano ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge Pinto, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi 2 anni.

Così individuati i contorni della questione, la Corte Costituzionale ha in primo luogo precisato, facendo propria l’osservazione formulata dall’Avvocatura dello Stato, che per ciò che concerne l’art. 2, comma 2-ter, esso non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge Pinto, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera “comunque” ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi. Ne consegue che la relativa questione deve considerarsi inammissibile.

 

In secondo luogo, invece, la Corte Costituzionale dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito.

La Corte afferma, in motivazione, che dalla giurisprudenza europea consolidata si evince il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia. Ne consegue che l’art. 6 della CEDU […] preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale. SS



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Inserito in data 24/02/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 23 febbraio 2016, n. 736

Ricorso contra silentium: limiti al potere del giudice di valutare la fondatezza della pretesa

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato è tornato a occuparsi dei limiti che incontra il giudice amministrativo nell’accertare la fondatezza della pretesa del richiedente quando sia stato esperito il ricorso contra silentium ex art. 31 c.p.a.

In particolare, il Collegio – nel confermare la sentenza di primo grado che non ha ritenuto formato il silenzio-accoglimento ex art. 35 della l. n. 47/1985 su una domanda di concessione edilizia in sanatoria – ha rammentato preliminarmente che, nei giudizi sul silenzio, in base a quanto dispone l’art. 31 del c.p.a., il giudice amministrativo, almeno di regola, non può andare oltre la declaratoria d’illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere in modo esplicito e formale, restandogli precluso, almeno in linea di principio, il potere di accertare in via diretta la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi così all’Amministrazione rimasta inerte.

Il giudice potrà conoscere, sul piano sostanziale, dell’accoglibilità dell’istanza solo nelle ipotesi individuate dal comma 3 dell’art. 31 c.p.a., non ricorrendo le quali si andrebbe incontro a un utilizzo inappropriato e, per così dire, “esorbitante”, del rimedio peculiare di cui al citato articolo, incompatibile tra l’altro con la natura semplificata del giudizio sul silenzio e della decisione che deve definire il giudizio medesimo. SS

 



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Inserito in data 23/02/2016
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 19 febbraio 2016, n. 52

Questioni giuridiche controverse in tema di contratto di avvalimento: rinvio all'Adunanza Plenaria

Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha rimesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni di diritto in merito al contratto di avvalimento, di massima importanza e passibili di dar luogo a contrasti giurisprudenziali:

1) se l’articolo 88 d.P.R. 207/2010 – nel richiedere che il contratto deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente, l’oggetto indicando le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico – riguarda unicamente la determinazione dell’oggetto del contratto (così legittimando anche interpretazioni di tipo estensivo) oppure, oltre all’oggetto, anche il c.d. requisito della forma-contenuto;

2) se nell’ipotesi di categorie che richiedono particolari requisiti – come nel caso di specie risulta per la categoria OS18A – tali particolari requisiti debbano essere indicati in modo esplicito nel contratto di avvalimento oppure possano essere desunti dall’interpretazione complessiva del contratto;

3) se l’istituto del soccorso istruttorio, come disciplinato dopo le novità introdotte dal d.l. 90/2014, possa essere utilizzato anche con riferimento ad incompletezze del contratto di avvalimento che, sotto un profilo civilistico, portano ad affermare la nullità del negozio per mancanza di determinatezza del suo oggetto”. TM

 



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Inserito in data 23/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 febbraio 2016, n. 2951

La negazione della titolarità del diritto sostanziale allegato integra una mera difesa

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione sono state chiamate a stabilire se la contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio integri una mera difesa (la cui dimostrazione graverebbe sulla parte che se ne proclama titolare) o un’eccezione in senso tecnico (il cui onere della prova, nel rispetto della disciplina sulle decadenza e preclusioni processuali, graverebbe sulla parte che contesta tale titolarità).

Secondo le Sezioni Unite, la parte che agisce in giudizio deve allegare e dimostrare ex art. 2697 c.c. una serie di fatti (cd. fatti costitutivi), che si distinguono in meri fatti e fatti diritto (es. in caso di domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., la parte deve provare il mero fatto del danno ma anche il fatto diritto della titolarità del diritto di proprietà sul bene danneggiato); di conseguenza, qualora il convenuto contesti uno dei fatti costitutivi affermati dall’attore e, in particolare, la titolarità del diritto sostanziale dedotto in giudizio, egli pone in essere una mera difesa, non soggetta alla decadenza ex art. 167 c. 2 c.p.c., rilevabile d’ufficio e proponibile come motivo di appello.

Infine, è stato precisato che, a fronte del principio del libero apprezzamento (art. 116 c.p.c.), il principio di non contestazione (art. 115 c.p.c) opera in misura attenuata rispetto ai fatti costitutivi ascrivibili alla categoria dei fatti-diritto, nel senso che la mancata contestazione specifica della titolarità del diritto non obbliga il giudice a considerare lo stesso esistente, laddove dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto emerga la sua inesistenza. TM 

 




Inserito in data 22/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 17 febbraio 2016, n. 636

Avvalimento dei progettisti: rimessione alla Corte europea

La fattispecie in esame trae origine dal ricorso in appello proposto da una società, classificatasi al secondo posto nell’ambito di una gara (concernente l’affidamento della progettazione ed esecuzione dei lavori di costruzione di alcuni alloggi) vinta da un’impresa che aveva partecipato come A.T.I. ma che, non essendo in possesso dei requisiti per lo svolgimento dei servizi di progettazione, aveva comunicato, in occasione dell’offerta, che avrebbe affidato la progettazione ad un professionista, capogruppo di un costituendo raggruppamento (R.T.P.), il quale, ovviava ad una propria carenza di requisiti di partecipazione, ricorrendo, a sua volta, all’avvalimento di un ulteriore soggetto, in possesso dei requisiti richiesti dal disciplinare di gara.

Il giudice di prime cure, disattendendo le eccezioni proposte dall’odierna ricorrente, aveva ritenuto legittimo l’ulteriore avvalimento, “istituto applicabile non soltanto ai concorrenti, ma a tutti gli operatori economici”. Il T.A.R. per la Sardegna, interpretando la normativa italiana (artt. 49 e 53, co. III, d.lgs. 163/2006) in coerenza con quella europea (artt. 47 e 48 della direttiva n. 18/2004), aveva infatti concluso affermando che “anche il progettista semplicemente “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 (…), essendo pur sempre un operatore economico, potrebbe beneficiare dell'istituto, giovandosi dei requisiti di un altro soggetto progettista”.

Il ricorrente, in sede di impugnazione del provvedimento, escludeva invece che il  progettista “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 - dovendosi ritenere nient’altro che un “collaboratore esterno” del concorrente - potesse beneficiare dell’avvalimento, applicabile – a suo avviso - solo ai concorrenti. In particolare, rilevava che detta impostazione emergeva dalla normativa nazionale dell’istituto, confermata anche dalla disciplina europea, ove il termine “operatore economico” (di cui alla direttiva n. 18/2004), corrisponderebbe nella sostanza a quello di “concorrente/candidato”.

A questo punto, il Collegio rilevava che già la stessa Sezione aveva, con l’ordinanza n. 2737/2015, sollevato una questione pregiudiziale di diritto comunitario afferente proprio la compatibilità dell’art. 53, co. 3, d.lgs. n. 163/2006 con l’art. 48 della direttiva n. 18/2004 e, ritenendo che la richiamata questione fosse rilevante rispetto alla definizione del presente giudizio, reiterava, quindi, le argomentazioni già svolte in occasione del proprio precedente provvedimento.

Rilevava anzitutto come, punto centrale della questione consistesse nello stabilire se il professionista “indicato” ai sensi dell’art. 53, comma 3, d.lgs. n. 163-2006, potesse o meno fare ricorso ad un progettista terzo, utilizzando a sua volta l’istituto dell’avvalimento, considerato che, da una parte, il citato articolo stabilisce che: “quando il contratto ha per oggetto anche la progettazione, ai sensi del comma 2, gli operatori economici devono possedere i requisiti prescritti per i progettisti, ovvero avvalersi di progettisti qualificati, da indicare nell’offerta, o partecipare in raggruppamento con soggetti qualificati per la progettazione (..)”, dall’altra, che il Consiglio di Stato “ha respinto la possibilità che il progettista “indicato” possa a sua volta qualificarsi mediante l’istituto dell’avvalimento, sulla base di fondamentali criteri esegetici: a) il criterio letterale posto dall’art. 49, per il quale solo “il concorrente” singolo, consorziato o raggruppato, può ricorrere all’avvalimento trattandosi di un istituto di soccorso al concorrente in sede di gara, per cui va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del requisito richiesto dal bando; b) il fatto che se il progettista indicato non è legato da un vincolo negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non è legato il suo ausiliario che è soggetto terzo che non può offrire alcuna garanzia all’Amministrazione”.

Inoltre, il Collegio osservava che, “pur essendo pacifico in giurisprudenza il carattere generalizzato dell’istituto dell’avvalimento, finalizzato a favorire la massima partecipazione nelle gare di appalto, tale istituto deve essere pur sempre contemperato con la esigenza di assicurare idonee garanzie alla stazione appaltante per la corretta esecuzione degli appalti”.

La stessa giurisprudenza amministrativa nazionale ha più volte statuito – rilevava inoltre la V Sezione - che “nel caso in cui sia lo stesso progettista indicato a ricorrere ai requisiti posseduti da terzi, ciò comporterebbe potenzialmente una «catena di avvalimenti di ausiliari dell’ausiliario», non consentendo un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara” dei requisiti stabiliti dalla lex specialis e che “l’avvalimento rappresenta, già di per sé, una deroga al principio di personalità dei requisiti di partecipazione alla gara, e deve pertanto essere consentito solo in ipotesi delineate in maniera rigorosa onde garantire l’affidabilità, in executivis, del soggetto concorrente”.

Alla luce di queste considerazioni, la V Sezione, con l’ordinanza de qua, sospendeva il presente giudizio e rimetteva la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, riponendo il seguente quesito interpretativo: “se sia compatibile con l’art. 48 direttiva CE 31 marzo 2004, n. 18 una norma come quella di cui all’art. 53, comma 3, d.lgs. 16 aprile 2006, n. 163, che ammette alla partecipazione un’impresa con un progettista “indicato”, il quale, secondo la giurisprudenza nazionale, non essendo concorrente, non potrebbe ricorrere all’istituto dell’avvalimento”. MB 



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Inserito in data 22/02/2016
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I, 17 febbraio 2016, n. 253

La segretezza del voto è principio generale delle operazioni elettorali

Nella fattispecie in esame, il ricorrente aveva impugnato, avanti il T.A.R. - Lombardia, sezione di Brescia, la deliberazione assembleare del Collegio Regionale dei maestri di sci relativa all’elezione e proclamazione dei membri del Consiglio direttivo, evidenziando una pluralità di condizioni sintomatiche della violazione dei principi fondamentali sottesi all’esercizio di ogni tipo di voto, con conseguente illegittimità dei risultati conseguiti.

In particolare, il ricorrente aveva rilevato le seguenti irregolarità: la circostanza che l’assemblea si fosse svolta in una sala avente una capacità inferiore rispetto al ben più cospicuo numero dei partecipanti, presieduta per di più dal Presidente uscente, benché candidato, e che le operazioni di voto fossero avvenute in spregio di ogni forma di segretezza e riservatezza. Tutto ciò, nella prospettazione formulata dal ricorrente, avrebbe determinato la violazione del diritto di ogni componente dell’associazione di partecipare attivamente alla votazione, l’inosservanza del principio di par condicio tra i candidati e la contrazione di ogni garanzia di voto.

Il Collegio, condividendo i rilievi formulati dal ricorrente, ha osservato che, nel caso di specie, “si può prescindere dall’indagare l’esistenza, nell’ordinamento, di un principio generale, riconducibile a quello valido per le elezioni politiche o amministrative, essendo assai più agevole (…) ravvisare la violazione di un, ancor più chiaramente affermabile, principio generale quale quello della segretezza del voto”.

Il diritto di voto – ha affermato la prima Sezione - appare agli occhi dell’operatore del diritto come la cartina di tornasole per verificare la democraticità del sistema di volta in volta indagato. Esso può ritenersi pieno e garantito solo se segreto, così come garantito dalla Costituzione (art. 48). Quello della segretezza può, dunque, essere considerato come un principio generale, applicabile, al pari di quello del favor voti, anche al di fuori delle operazioni elettorali di tipo più strettamente «politico»”.

Solo la segretezza – ha ammonito il Collegio - può rappresentare, anche nell’ambito di organizzazioni sociali come quella ricorrente nel caso de quo, l'unico strumento in grado di contribuire al ricambio delle cariche sociali.

Dunque, sulla scorta dei precisati rilievi, ritenendo fondata la doglianza relativa ad una situazione di totale assenza di ordine e riservatezza nelle operazioni di svolgimento dell’assemblea e di esercizio del voto, i giudici bresciani hanno, con la pronuncia in epigrafe, accolto le istanze formulate dal ricorrente, dichiarando l’annullamento delle operazioni elettorali e la caducazione dei conseguenti atti. MB 


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Inserito in data 19/02/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 17 febbraio 2016, n. 30

Trasporto pubblico locale: competenze delle Regioni

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale, sollevata con ordinanza dal Tar Piemonte, dell’art. 12, comma 3 della legge della Regione Piemonte n. 22/2006 recante norme in materia di trasporto di viaggiatori effettuato mediante noleggio di autobus con conducente nella parte in cui prevede il divieto per le imprese che svolgono suddetta attività di incrementare il parco autobus con automezzi usati.

In particolare, il Tar remittente censura l’art. 12 della normativa regionale in riferimento agli artt. 3, 41 e 117, primo e secondo comma, Cost. in quanto esso: a) avrebbe introdotto un requisito di esercizio non previsto dal diritto europeo, con effetto discriminatorio nei confronti delle imprese stabilite nella Regione Piemonte; b) si porrebbe in diretto contrasto con la natura ”trasversale” e prevalente della tutela della libera concorrenza e introdurrebbe una gravosa restrizione all’utilizzo di autobus usati nei confronti dei soli operatori economici iscritti nel registro della Regione Piemonte, al di fuori dei principi stabiliti dalla legge statale e delle competenze riservate alla legislazione regionale; c) ove il divieto di acquisire autobus usati trovasse la propria giustificazione nell’obiettivo di salvaguardare la sicurezza […] e di tutelare l’ambiente […], si porrebbe in contrasto con la riserva di potestà esclusiva statale nelle materie della sicurezza e della tutela dell’ambiente (rispettivamente art. 117, comma 2 lett. h ed s).

La Corte Costituzionale dà conto del fatto che, dopo l’adozione dell’ordinanza di rimessione, la disposizione in esame è stata sostituita dalla legge della Regione Piemonte n. 20/2015, tuttavia afferma anche che tale ius superveniens non fa venir meno la rilevanza della questione sollevata, in quanto il giudice a quo è sempre tenuto al rispetto del principio del tempus regit actum.

Ne consegue che il nucleo della questione, ad avviso della Corte, è capire se la Regione, che è titolare di competenza legislativa residuale in materia di trasporto pubblico locale, possa prevedere o meno – nell’esercizio di tale competenza – un limite all’iniziativa economica privata, in presenza della legge statale n. 218 del 2003.

Con tale legge, il legislatore statale ha, infatti, inteso definire il punto di equilibrio fra il libero esercizio dell’attività di trasporto e gli interessi pubblici interferenti con tale libertà: il bilanciamento così operato (fra la libertà di iniziativa economica e gli altri interessi costituzionali), costituendo espressione della potestà legislativa statale nella materia della tutela della concorrenza, definisce un assetto degli interessi che il legislatore regionale non è legittimato ad alterare.

Pertanto, le Regioni sono abilitate a regolare gli oggetti indicati dalla stessa legge statale e, in generale, la gestione del servizio, ma non possono introdurre, a carico delle imprese di trasporto aventi sede nel territorio regionale, limiti che, lungi dal rispettare i criteri di tutela della libertà di concorrenza fissati nella legge statale, penalizzerebbero gli operatori “interni”, data l’assenza di delimitazioni territoriali delle autorizzazioni rilasciate nelle altre regioni.

Conclude, dunque, la Corte che l’art. 12, comma 3 della legge Regione Piemonte n. 22/2006, non solo comporta maggiori oneri in capo alle imprese di trasporto aventi sede in Piemonte rispetto a quelle situate in altre Regioni, ma è altresì idoneo a produrre l’effetto (nel caso in cui l’impresa non abbia le maggiori risorse necessarie per comprare un autobus nuovo) di impedire irragionevolmente l’espansione dell’attività delle imprese stesse e, dunque, di limitare la concorrenza e con essa le possibilità di scelta da parte dei committenti: ne va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale. SS 



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Inserito in data 18/02/2016
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. II, 16 febbraio 2016, n. 170

Acquisizione sanante e servitù pubblica di passaggio

Il Tar Veneto, con la sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla possibilità o meno che una delibera del Consiglio comunale costituisca una servitù pubblica di passaggio su un tratto di strada privata impiegando l’istituto dell’acquisizione sanante ex art. 42 bis D.P.R. 327/2001.

In particolare, i ricorrenti si dolevano del fatto che fossero in radice carenti i presupposti per l’esercizio del potere previsto dal sopracitato art. 42 bis in quanto l’istituto dell’acquisizione sanante è utilizzabile per acquisire solo servitù al patrimonio di soggetti privati e pubblici titolari di concessioni, autorizzazioni e licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia, ma non in favore del Comune e della collettività, nonché in quanto difetta l’ulteriore presupposto necessario all’applicazione della norma, ossia il previo esperimento di una non valida procedura di esproprio.

Ne conseguenza che, ad avviso dei ricorrenti, l’istituto dell’acquisizione sanante non viene applicato in questo caso per rimediare ad un pregresso cattivo utilizzo del potere espropriativo, ma per costituire ex novo un diritto di servitù di pubblico passaggio.

Il Tar adito, nell’accogliere le censure mosse dai ricorrenti, sottolinea che l’istituto dell’acquisizione sanante, per giustificarsi anche dal punto di vista costituzionale, richiede l’esercizio di un potere di carattere necessariamente “rimediale”, che presuppone la necessità di ovviare ad una situazione di fatto che contrasta con quella di diritto a causa del pregresso difettoso esercizio del potere ablatorio. Solo in quest’ottica può ritenersi giustificato il ricorso all’acquisizione del bene mediante tale istituto, […] ferma restando la necessaria ricorrenza degli stringenti ulteriori requisiti previsti dalla norma, quali le “attuali ed eccezionali” ragioni di interesse pubblico che giustificano l’emanazione dell’atto, “valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati”, e “l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”.

Peraltro, conclude il Collegio, è da escludere la possibilità di applicare l’istituto di cui all’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001, ad una servitù di passaggio pubblico, motivando l’acquisizione prevista da tale norma sulla base di quegli stessi requisiti che, ove sussistenti (e nel caso in esame, precisa il Tar, che sono insussistenti), avrebbero comportato anche in via di fatto la costituzione della servitù di pubblico passaggio pur in assenza di un apposito titolo. SS 



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Inserito in data 17/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 febbraio 2016, n. 4

Pratiche commerciali aggressive: competenza a irrogare sanzioni

Relativamente al tema affrontato dalle due sentenze gemelle dell’adunanza plenaria dello scorso 9 Febbraio, nn. 3 e 4, già oggetto di commento pubblicato in data 13 Febbraio, il presente scritto pone l’accento sul secondo profilo ermeneutico suscitato. Rilevata la competenza esclusiva dell’A.g.c.m. per l’irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie in relazione a pratiche commerciali ritenute scorrette ai sensi degli artt. 20, 24, 25 e 26, lett. f, d.lgs. n. 206/2005 (Codice del consumo), il collegio, seguendo comunque un unico criterio motivazionale, si sofferma sull’analisi della seguente questione: “se la circostanza che lo ius superveniens (art. 27, comma 1-bis, Codice del consumo – come introdotto dal d.lgs. n. 21/2014) abbia attribuito ad A.g.c.m. la competenza all’esercizio del potere sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza – formulata con riguardo alla sanzione adottata da tale Autorità nel precedente regime – anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione”.

Osserva in proposito il collegio come “la relazione illustrativa allo schema del (…) d.lgs. n. 21/2014 (attuazione della direttiva 2011/83/U.e. sui diritti dei consumatori) evidenzia che la norma di modifica del Codice del consumo con la quale si attribuisce in via esclusiva all’Antitrust, acquisito il parere dell’Autorità di settore, la competenza a intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, ha l’obiettivo di superare” la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea contro l’Italia, per l’inadeguata applicazione dell’art. 3, par. 4, e degli artt. da 11 a 13 della direttiva in materia di pratiche sleali (non essendo stato correttamente trasposto il principio della lex specialis contenuto nella direttiva, che regola il coordinamento tra tale disciplina (a carattere transettoriale) e le normative specifiche di settore – la Commissione, segnatamente, contesta la tesi per cui l’esistenza di una disciplina specifica settoriale, in quanto considerata esaustiva, comporterebbe la prevalenza di tale disciplina su quella generale, ancorché di derivazione europea, in materia di tutela dei consumatori). “Ciò posto, alla luce di quanto appena detto, è evidente che tale norma ha una portata esclusivamente di interpretazione autentica, atteso che (…), anche alla luce di una corretta analisi ermeneutica delle sentenze dell’adunanza plenaria da 11 a 16-2012 e dell’applicazione dei principî da esse scaturenti è indubbia la competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette (…) già in base alla normativa antecedente che l’art. 1, comma 6, lett. a), d.lgs. 21 Febbraio 2014, n. 21 si è limitata, per quanto qui rileva, soltanto a confermare”. “Né in senso contrario può opporsi la previsione, contenuta in tale norma sopravvenuta, di un eventuale previo parere dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, poiché tale segmento procedimentale, ora previsto nell’art. 16 della delibera A.g.c.m. Primo Aprile 2015, n. 25411 (Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore) era già previsto in precedenti delibere (…); il legislatore, pertanto, non ha fatto altro che innalzare al rango di norma primaria una disposizione già esistente nell’ordinamento, che, per tale motivo, non può ritenersi avere portata sostanzialmente innovativa”.

In conclusione, “non viene meno l’interesse alla pronuncia di annullamento per incompetenza dell’Antitrust, dovendo essere invece direttamente respinta la censura di incompetenza”. FM 


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Inserito in data 17/02/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 15 febbraio 2016, n. 628

L’atto istruttorio del commissario ad acta non è reclamabile ex art. 114 c. 6 CPA

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato delinea l’ambito di operatività dell’art. 114 c. 6 C.P.A., a mente del quale “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.

In particolare, “il Collegio ritiene che il reclamo disciplinato dall’art. 114, comma 6, del c.p.a. possa essere giudicato esperibile quando il commissario ad acta debba esercitare in concreto un effettivo potere decisionale”. “Quando invece il commissario ad acta, come è avvenuto nella specie, abbia esercitato un ruolo solo istruttorio e preparatorio rispetto a un’esecuzione del giudicato destinata a sostanziarsi in successivi provvedimenti discrezionali di competenza delle autorità amministrative, le contestazioni delle parti interessate devono in tal caso essere proposte, secondo le regole generali, in sede di impugnazione dell’atto conclusivo del procedimento”.

Ciò in quanto, “in sede di decisione del reclamo proposto contro l’atto infraprocedimentale, oggetto della proposta del commissario ad acta, il giudice amministrativo non potrebbe emettere statuizioni che incidano sull’esercizio dei poteri istituzionali di cui è titolare l’autorità competente all’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento. Sotto tale aspetto, … rileva il principio di carattere generale previsto dall’art. 34, comma 2, del c.p.a., (per il quale «in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati»), principio che trova deroga alloquando si tratta di dare esecuzione a giudicati che precludano l’esercizio di poteri discrezionali, ma non anche quando proprio il giudicato – come nella specie – abbia fatto salvo l’ulteriore esercizio dei poteri discrezionali non esercitati”.

Pertanto, anche al fine di evitare un’inutile duplicazione di attività processuale, va dichiarato inammissibile il reclamo avverso l’atto endo-procedimentale del commissario ad acta. TM 


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Inserito in data 16/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 febbraio 2016, n. 627

L’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta e il soccorso istruttorio

La Quinta Sezione del Consiglio di Stato si è soffermata sulla causa di esclusione dalle gare d’appalto, consistente nell’incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, prevista dall’art. 41 c. 1 bis d.lgs. n. 163/06.

Per il Consiglio di Stato, “In sede di interpretazione di questa disposizione, si deve tener conto anche dei limiti entro i quali la stessa stazione appaltante può utilizzare lo strumento del soccorso istruttorio”. Segnatamente, secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 9/14), “il ‘soccorso istruttorio’ non può essere utilizzato per supplire a carenze dell'offerta, sicché non può essere consentita al concorrente la possibilità di completare l'offerta successivamente al termine finale stabilito dal bando, salva la rettifica di errori materiali o refusi” (vale a dire di divergenze tra il giudizio e la sua espressione, cagionate da una mera svista o disattenzione, che devono emergere ictu oculi).

Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, la stazione appaltante ha il potere tecnico-discrezionale di valutare se il vizio che affligge l’offerta possa qualificarsi come errore materiale o refuso, e quindi sia passibile di soccorso istruttorio (circostanza non verificatasi nel caso di specie, ateso che le manifestazioni testuali dell’offerta si prestavano a una pluralità di manifestazioni di giudizio); essendo espressione di discrezionalità tecnica, tale valutazione sarà sindacabile dal giudice amministrativo sotto il profilo dell’irragionevolezza od illogicità. TM

 



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Inserito in data 15/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 10 febbraio 2016, n. 565

Scelta del medico di medicina generale nel caso di ASL “pluricomunale”

Con la pronuncia in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto da un medico di base avverso la sentenza resa dal T.A.R. Calabria che aveva ritenuto legittimo il provvedimento regionale con cui si limitava la facoltà di scelta degli assistiti, in favore dei medici di medicina generale, ai più circoscritti “Distretti infracircoscrizionali” in cui era stata suddivisa l’ASP di Reggio Calabria.

I giudici di palazzo Spada, richiamando costante giurisprudenza del Consiglio di Stato, hanno ricordato anzitutto come la facoltà di scelta del medico generico, da parte dell’assistito, sia regolata dal “principio della fiducia personale”, attese le prevalenti finalità di tutela della salute pubblica.

Si tratta di una libertà di scelta – ha precisato il Collegio - che non può tuttavia ritenersi incondizionata ed illimitata, ma che deve pur sempre coordinarsi, per esigenze di razionalizzazione organizzativa, con l’ambito territoriale di riferimento, nella norma, coincidente con quello della ASL di appartenenza.

Diversamente da quanto accade nei comuni maggiori, ove operano più ASL e l’ambito territoriale ordinariamente coincide con una frazione del comune stesso, nell’ipotesi in cui l’ASL sia invece “pluricomunale” – ad avviso del Collegio - non appare ammissibile un potere di scelta circoscritto ad una parte soltanto del territorio su cui insiste l’Azienda Sanitaria, poiché ciò determinerebbe un’intollerabile “limitazione del potere di scelta, non consentita dall’art. 25L. n. 833/1978” oltreché “una evidente disparità di trattamento tra cittadini e sanitari di grossi centri e quelli residenti in piccoli comuni ai quali ultimi, cioè ai sanitari, verrebbe attribuito un bacino di utenza più limitato”.

Sulla scorta di questi rilievi, la terza sezione del Consiglio di Stato ha, in riforma della sentenza impugnata, accolto l’appello ed annullato, quindi, il provvedimento regionale. MB 


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Inserito in data 13/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 febbraio 2016, n. 3

Competenza esclusiva dell’AGCM all’irrogazione di sanzioni per pratiche commerciali aggressive

Con la recente sentenza n° 3/2016, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata sulla questione del riparto di competenza tra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), da una parte, e l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni  (AgCom), dall’altra, in materia di tutela dei consumatori.

La Sezione remittente del Consiglio di Stato, si è soffermata sull’interpretazione del comma 1-bis dell’art. 27 Codice Consumo, come introdotto dal D.Lgs. 21/2014, e, ravvisato un contrasto giurisprudenziale, ha, con l’ordinanza n° 4352/2015, correttamente investito della questione l’Adunanza Plenaria, ad essa sottoponendo il quesito relativo alla “competenza ad irrogare la sanzione per pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva”.

Secondo una prima interpretazione, legata al dato letterale della norma, il citato comma, attribuirebbe, in materia di pratiche commerciali scorrette, una competenza generale ed esclusiva ad AGCM, anche nei settori c.d. “regolati”, dunque anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea.

Secondo una diversa impostazione - tracciata da significative pronunce dell’Adunanza Plenaria (n. da 11 a 16 del 2012), che avevano interpretato il principio di specialità sancito a livello comunitario come prevalenza della norma speciale di settore rispetto alla disciplina generale delineata dal Codice del Consumo - la disciplina generale del Codice del consumo sarebbe applicabile in via esclusiva da parte di AGCM - anche nei settori c.d. regolati – “solo quando la normativa di settore non abbia previsto ex ante, in modo completo ed esaustivo, la regola comportamentale applicabile”, sicché l’Autorità Antitrust sarebbe incompetente “ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette nei settori in cui la tutela del consumatore sia attribuita ad un’autorità regolamentare, secondo la disciplina della specialità per settori”.

L’ordinanza di remissione ha evidenziato come il comma 1-bis dell’art. 27 Cod. Cons., pur caratterizzato da una formulazione letterale in apparenza univoca, in realtà presti il fianco a rilevanti criticità, soprattutto con riferimento al coordinamento con la normativa europea.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, per la risoluzione della questione, ha ritenuto necessario muovere anzitutto dall’analisi del caso concreto, valorizzando la condotta che ha dato luogo all’irrogazione della sanzione contestata e consistente nell’aver il professionista attivato servizi di navigazione in internet senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore,  in questo modo esponendo l’utente ad inconsapevoli addebiti e limitando la sua facoltà di scelta.

La fattispecie descritta – ad avviso dell’Adunanza Plenaria – costituirebbe una condotta senz’altro “anticoncorrenziale”, integrante la fattispecie della pratica commerciale considerata aggressiva, vietata ai sensi dell’art. 26, comma 1, lett. f) d.lgs n. 206/2005, pur se posta in essere attraverso l’inosservanza degli obblighi informativi imposti dal Codice delle comunicazioni elettroniche.

Nel nostro sistema – ha osservato l’Adunanza Plenaria - “mentre la pratica commerciale aggressiva è inequivocabilmente attratta nell'area di competenza dell'Autorità Antitrust, la violazione degli obblighi informativi è invece suscettibile di sanzione da parte dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni”.

Tuttavia – ha proseguito l’Adunanza Plenaria - “nel caso di specie, si assiste ad una ipotesi di specialità per progressione di condotte lesive che, muovendo dalla violazione di meri obblighi informativi comportano la realizzazione di una pratica anticoncorrenziale vietata ben più grave per entità e per disvalore sociale, ovvero di una pratica commerciale aggressiva. Si realizza quindi, nell'ipotesi in esame, sempre ai fini dell'individuazione dell'Autorità competente, più che un conflitto astratto di norme in senso stretto, una progressione illecita, descrivibile come ipotesi di assorbimento-consunzione, atteso che la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall'Autorità Antitrust”.

Tale conclusione – ha precisato l’Adunanza Plenaria - non deve ritenersi in contrasto con la richiamata pronuncia n. 11/2012, ove era stato affermato che “per escludere la possibilità di un residuo campo di intervento di Antitrust occorre verificare la esaustività e la completezza della normativa di settore”.

Ed infatti nel caso in esame, muovendo proprio da tale inciso, “il comportamento contestato all'operatore economico con il provvedimento Antitrust impugnato non è per nulla interamente ed esaustivamente disciplinato dalle norme di settore”, con la conseguenza – ed è questo il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria nella pronuncia in epigrafe - che “la competenza ad irrogare la sanzione per una pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva è sempre da individuare nell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. MB

 



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Inserito in data 12/02/2016
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 8 febbraio 2016, n. 39

Requisiti del bando per la costituzione di R.T.I. “di tipo verticale”

Con la sentenza in epigrafe, i giudici del C.G.A. hanno tracciato i limiti per la costituzione di un valido raggruppamento temporaneo di imprese “di tipo verticale” e quindi di un raggruppamento che è in grado di ripartire le prestazioni richieste tra le imprese associate secondo la loro natura ‘principale’ o ‘secondaria’ ed in relazione alle rispettive qualificazioni.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, l’art. 37, comma 2 d.lgs. 163/2006 ammette tale costituzione solo previa indicazione nel bando da parte della Stazione appaltante di quali prestazioni siano considerate “principali” e quali “secondarie” o comunque “scorporabili” .

Ne consegue che, afferma il Collegio, in mancanza della predetta condizione, i concorrenti alla gara d’appalto non hanno la facoltà di “scomporre”, di propria iniziativa, il ‘contenuto’ dell’appalto (id est: la ‘prestazione unitaria dedotta in obbligazione’) in sub-prestazioni ‘principali’ ed ‘accessorie’ (o secondarie) allo scopo di individuare competenze settoriali interne e di ripartirle fra i vari partecipanti; e, soprattutto, allo scopo di ‘selezionare’ fra essi quelli per i quali l’obbligo di possedere i requisiti indicati dal Bando si appalesi non operante.

Peraltro, continua il C.G.A., non può nemmeno essere sostenuto che il concorrente privo del requisito soggettivo in questione possa “avvalersi” - mediante stipula di un apposito “contratto di avvalimento” - del requisito posseduto dall’associato, soprattutto quando esso rappresenti (come nel caso di specie lo è il certificato di operatore aereo) un requisito di idoneità tecnica implicante un’elevata specializzazione professionale ed un alto grado di affidabilità, e dunque strettamente personale. SS

 



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Inserito in data 11/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 9 febbraio 2016, n. 538

È ammissibile il silenzio-assenso per i nulla osta paesaggistici? Rinvio all’Adunanza Plenaria

I Giudici di Palazzo Spada, in questa importante ordinanza, rimettono all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c.p.a. la questione che attiene alla possibilità (o meno), in materia ambientale, di rilasciare per silenzio-assenso il nulla osta richiesto ad un Ente parco.

Rileva il Collegio che, in ordine alla questione prospettagli, ciò che è controverso è quale sia la norma applicabile.

Infatti, la tesi dell’appellante è che debba valere la disposizione dell’art. 13, comma 1, della legge n. 394/1991 in base alla quale “il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all’interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell’Ente parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento e l’intervento è reso entro sessanta giorni dalla richiesta. Decorso inutilmente tale termine il nulla osta si intende rilasciato…”.

Secondo la tesi, invece, fatta propria dal giudice di prime cure, si applicherebbe l’art. 20 della l. 241/1990 la quale, con riforma del 2005, ha operato una generalizzazione dell’operatività dell’istituto del silenzio-assenso e pur tuttavia l’ha escluso nelle materie elencate al comma 4 fra cui vi rientra la materia ambientale.

Ritiene il Consiglio che fra le disposizioni ricordate intercorre un’antinomia, per sciogliere la quale è possibile ricorrere a criteri differenti e, dunque, approdare a soluzioni diverse.

In base a un primo criterio (di specialità), precisa il Consiglio, l’art. 13 suindicato non sarebbe stato implicitamente abrogato dalla riforma della l. 241/90 tant’è vero che quest’ultima, avendo generalizzato l’operatività dell’istituto in questione, non ha sancito l’impossibilità in assoluto di prevedere specifiche ipotesi di silenzio-assenso in materia ambientale ma ha semplicemente previsto l’inapplicabilità della regola di cui al comma 1 dello stesso art. 20.

Di talché, l’art. 13 l. 394/91 è pienamente in vigore in quanto il legislatore potrebbe introdurre, nelle materie elencate dal comma 4 dell’art. 20, norme specifiche aventi a oggetto il silenzio-assenso, a meno che non sussistano espressi divieti, derivanti dall’ordinamento comunitario o dal rispetto dei principi costituzionali.

In base, invece, al secondo criterio (cronologico) – continua il Collegio – le norme avrebbero la medesima natura procedimentale e verrebbero a disciplinare lo stesso istituto operante in materia di edilizia e ambiente; resterebbe, infatti, escluso che tra esse possa configurarsi un rapporto di specialità, poiché questo presupporrebbe un certo grado di equivalenza tra norme a confronto, ma che non potrebbe spingersi sino alla sostanziale identità tra le due discipline in contrasto.

Ne deriva, conseguentemente, che il conflitto tra le disposizioni dovrebbe quindi essere risolto alla luce della successione nel tempo tra due norme generali e pertanto secondo il principio per cui la legge posteriore abroga la legge anteriore con essa incompatibile.

Nel rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, il Consiglio ritiene di non poter fare a meno di segnalare la maggiore fondatezza della seconda delle alternative prospettate, e ciò, non solo per coerenza con l’orientamento della Sezione, ma anche per la non trascurabile linea di tendenza del sistema normativo di cui è indice l’art. 30, comma 9 del cd. “decreto del fare” che, pur non essendo direttamente applicabile, prevede che “qualora l'immobile oggetto dell’intervento sia sottoposto a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, […] il procedimento è concluso con l'adozione di un provvedimento espresso …”. SS

 



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Inserito in data 10/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 3 febbraio 2016, n. 410

Annullamento dell’interdittiva antimafia e revoca dell’aggiudicazione

La peculiare complessità della fattispecie risolta dalla pronuncia in oggetto impone preliminarmente una sintetica disamina del relativo diagramma evenemenziale.

Nelle more dello svolgimento di una procedura di gara scadeva l’efficacia triennale della qualificazione di una delle imprese partecipanti; quest’ultima era stata medio tempore colpita da un’interdittiva antimafia, e non avrebbe pertanto potuto ottenere da alcuna società organismo di attestazione (SOA) la rituale verifica di mantenimento dei requisiti ex art. 77 d.P.R. n. 207/2010. Preso atto di una successiva informativa liberatoria, il Consiglio di Stato, in sede cautelare, sospendeva gli effetti del provvedimento prefettizio. Ottenuta la certificazione in narrativa, la stazione appaltante aggiudicava definitivamente la gara alla ricorrente, e tuttavia, in seguito, agiva in revoca di tale determinazione, inferendo le proprie valutazioni dall’assunto che l’operatore economico non sarebbe risultato in linea con la normativa nell’intero arco temporale del procedimento. In ordine a tale ultima circostanza si declina la vicenda giudiziaria conclusasi con la sentenza in epigrafe.

In primo grado, il Tribunale amministrativo territorialmente competente aveva ritenuto che l’informativa liberatoria avesse nondimeno lasciato impregiudicati gli effetti prodotti dal certificato interdittivo, il quale appariva certamente legittimo, e validamente sostenuto da elementi di fatto e di diritto, nel contesto storico-amministrativo in cui era stato emesso. Correttamente, dunque, la situazione giuridica soggettiva dell’interessata era stata incisa dall’informativa interdittiva.

I giudici di Palazzo Spada, diversamente opinando, accolgono il ricorso in appello del privato, non avendo il contestato provvedimento di revoca dell’aggiudicazione tenuto conto della “non imputabilità della mancata copertura delle certificazioni antimafia”, oltre che delle ragioni sottese alla menzionata ordinanza cautelare del supremo consesso.

L’impresa (infatti) non ha potuto richiedere tempestivamente la verifica triennale dell’attestazione SOA per ragioni oggettive”.

Viene soprattutto evidenziato come l’ordinanza cautelare avesse “rilevato l’insussistenza dei presupposti per disporre l’esclusione dell’impresa dalla gara”, e come la stessa mantenesse ancora intatta la propria efficacia alla data di emanazione della revoca.

L’illegittimità del provvedimento di revoca impugnato in primo grado – nel singolare caso venutosi a verificare, in cui si sono accavallati provvedimenti amministrativi e pronunce dei giudici amministrativi – risulta dalla convergente applicazione dei principî sostanziali in tema di interdittive e di quelli processuali sulla effettività della tutela giurisdizionale”.

Sotto il profilo sostanziale, va richiamato l’art. 67 del Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011), il quale dispone che Ê»Le persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II, non possono ottenere: (…) e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici’”. “Dal successivo art. 85 del Codice antimafia si evince che le società organismo di attestazione sono tenute ad eseguire anche i controlli previsti dal Codice antimafia, con la conseguenza che la rilevazione di un’interdittiva avrebbe comunque impedito, ex art. 67, il rilascio della SOA”. “Ciò comporta che non può essere ravvisata l’inerzia della appellante nella richiesta della verifica triennale, in quanto essa non era legittimata, perché risultava a suo tempo efficace l’interdittiva antimafia”.

È però decisivo considerare che (…) è risultata l’illegittimità della originaria certificazione negativa”.

Poiché la durata del giudizio non può essere posta a carico della parte che ha ragione”, il collegio, preso atto dell’esito dell’appello nel cui ambito era stata ritenuta meritevole d’accoglimento l’istanza cautelare, “nella sostanza ha statuito che erano definitivamente venuti meno gli effetti dell’atto di esclusione, impugnato in quel giudizio”. La stazione appaltante non avrebbe dunque potuto revocare l’aggiudicazione “ritenendo insussistente la ‘perdurante copertura’ della certificazione antimafia, e cioè proprio la circostanza che aveva sostanzialmente già a suo tempo comportato l’esclusione (i cui effetti erano stati sospesi in sede giurisdizionale)”. FM 


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Inserito in data 10/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 4 febbraio 2016, n. 2196

Casi di consenso espresso per le comunicazioni commerciali

La Corte di cassazione conferma l’orientamento ermeneutico espresso dai giudici di merito circa l’illegittimità delle comunicazioni telefoniche a scopo commerciale, quando manca un consenso espresso da parte dell’utente ai sensi dell’art. 129, comma secondo, del d.lgs. n. 196/2003, in ipotesi di chiamate a “contatto abbattuto” o “mute” (originate dal sistema informatico, ma che per la temporanea indisponibilità di un operatore, restano inevase, pur attivandosi la comunicazione), oltre che di recapito non inserito in uno degli elenchi cartacei o elettronici a disposizione del pubblico, come nel caso dei telefoni cellulari.

La suprema Corte sottolinea la conformità alla direttiva comunitaria 2002/58-C.e. (relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) dell’art. 130, comma terzo bis, del codice in materia di protezione dei dati personali, il quale consente, in deroga al citato principio del consenso espresso, il trattamento di dati personali mediante l’impiego del telefono per comunicazioni di natura commerciale nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione mediante iscrizione della propria numerazione nell’apposito registro pubblico. La disposizione ora riferita non trova, tuttavia, applicazione nei casi in cui siano inoltrate telefonate senza operatore, ovvero l’utenza contattata non risulti inserita in alcun elenco pubblico.

La prescrizione formulata, a monte della vicenda giudiziaria, dal Garante per la protezione dei dati personali richiedeva all’operatore economico ricorrente di impedire la reiterazione di chiamate mute, escludendo la possibilità di ricontattare la specifica utenza per un intervallo di tempo pari almeno a trenta giorni.

In prime cure era stata ritenuta l’illiceità del sistema adoperato dal ricorrente, “atteso che i destinatarî avevano visto utilizzati i proprî dati per telefonate non valevoli a proporre alcun contratto ma solo a creare allarme circa la provenienza”. Il Tribunale riscontrava la scorrettezza della modalità di trattamento dei dati, in quanto era diretta “a ottimizzare il successo delle chiamate (…) facendo ricadere il rischio, e il disagio, della chiamata muta sui soli destinatarî”. Il sistema non veniva dunque reputato in linea con i canoni di correttezza, pertinenza, e non eccedenza, rispetto alle finalità dell’utilizzo, ai quali l’attività in questione andrebbe informata (artt. 4 e 11, d.lgs. n. 196/2003).

Osserva il collegio come l’art. 130, comma terzo bis, del codice della riservatezza, non abbia il significato generalissimo che il ricorrente intende attribuirgli, e vada interpretato in coerenza con la direttiva comunitaria 2002/58-C.e.; in particolare, l’opzione di esclusione, recepita dal citato comma, viene ipotizzata dalla direttiva menzionata solo con riferimento alle chiamate con operatore.

Anche alla luce dell’art. 7 della direttiva 95/46-C.e. (sulla tutela del trattamento e della libera circolazione dei dati personali), norma a effetto diretto secondo la prospettazione fornita dalla sentenza n. 468/2011 della Corte di giustizia, il trattamento di dati personali, in linea generale, può essere effettuato soltanto quando la persona interessata abbia manifestato il proprio consenso in maniera inequivocabile. È anche dalla stessa statuizione consentito il trattamento di dati in ipotesi alterative, elencate tuttavia in numerus clausus, e tra le quali non si annovera l’attività di commercio telematico.

Nell’alveo tracciato dalla direttiva da ultimo considerata, agli Stati membri viene delegato il compito di determinare, nei rispettivi ordinamenti, alcuni dettaglî ovvero optare tra differenti soluzioni. Non è comunque mai consentito prevedere requisiti supplementari che modifichino la portata di uno dei limiti previsti all’art. 7, laddove è invece possibile una semplice precisazione. “Gli Stati membri non possono aggiungere nuovi principî relativi alla legittimazione del trattamento dei dati personali, né prevedere requisiti supplementari che porterebbero a modificare l’ambito di applicazione di uno degli evocati principî in senso sfavorevole all’interessato”.

Per quanto precede, e in conclusione, la Corte ritiene “esorbitante il metodo di utilizzo del dato personale in rapporto all’interesse o ai diritti o alle libertà fondamentali delle persone coinvolte”. FM




Inserito in data 09/02/2016
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 4 febbraio 2016, n. 171

Trasferimento del dipendente pubblico per assistere un familiare portatore di handicap grave

La vicenda de qua trae origine dall’impugnazione, da parte di un dipendente pubblico, del provvedimento di diniego dell’amministrazione alla richiesta di trasferimento, formulata ai sensi dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992, al fine di poter prestare assistenza ad un familiare portatore di handicap grave.

I giudici piemontesi hanno accolto il ricorso, condividendo la censura, prospettata dal ricorrente, di eccesso di potere per difetto di istruttoria e per complessiva contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione.

A tal riguardo hanno precisato che la mancanza nell’operato dell’amministrazione sia soprattutto da rinvenirsi nell’omessa valutazione delle esigenze e delle carenze di organico della sede di destinazione.

La normativa che disciplina il trasferimento del dipendente (art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992), stabilisce, tra l’altro, che il lavoratore “ha diritto a scegliere ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere”.

In un passaggio della sentenza, la prima sezione, aderendo alla costante interpretazione della giurisprudenza amministrativa, ha chiarito che “l'inciso «ove possibile» sta a significare che, avuto riguardo alla qualifica rivestita dal pubblico dipendente, deve sussistere la disponibilità nella dotazione di organico della sede di destinazione del posto in ruolo per il proficuo utilizzo del dipendente che chiede il trasferimento”.

Pertanto, se da una parte l’amministrazione ha il dovere di compiere un bilanciamento tra le proprie esigenze di servizio e l’interesse del dipendente di avvicinarsi al luogo ove si trova la persona portatrice di handicap da assistere - dovendo con ciò valutare le esigenze organizzative della sede di appartenenza del dipendente – dall’altra, è tenuta a compiere una valutazione complessiva della situazione della sede di destinazione.

Nel caso di specie, nelle motivazioni rappresentate nel provvedimento di diniego, l’amministrazione – ad avviso del T.A.R. Piemonte - si sarebbe limitata a rappresentare le esigenze della sede attualmente assegnata al dipendente, senza nulla precisare con riguardo alla sede di destinazione, trascurando, quindi, completamente l’istruttoria con riferimento alle esigenze organizzative della sede oggetto di trasferimento. MB

 



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Inserito in data 09/02/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 3 febbraio 2016, n. 413

Affidamento diretto per ragioni di estrema urgenza

La fattispecie in esame concerne l’affidamento diretto di un appalto per la gestione temporanea di un impianto sportivo, senza pubblicazione di bando, per ragioni di estrema urgenza.

Nella sentenza impugnata, il TAR Campania – Napoli aveva ritenuto censurabile la scelta del Comune di non dare adeguata pubblicità della gara e di non interpellare la ricorrente ai fini della presentazione di un’offerta alla gara senza bando.

I giudici di prime cure avevano in particolare ritenuto che l’attività posta in essere dal Comune fosse illegittima “costituendo principio immanente alle procedure di affidamento di contratti pubblici il rispetto dei principi di derivazione comunitaria che impongono, nella generalità dei casi, l’apertura alla concorrenza e la parità di trattamento tra gli operatori”.

Pertanto, ad avviso dei giudici campani, “una volta riconosciuta la necessità di operare in via d’urgenza,  non v’era motivo di disconoscere la necessità di una diversa modalità di selezione del contraente, consentendo la concorrenzialità tra gli operatori del settore (…) Prescegliendo di percorrere la diversa strada dell’affidamento temporaneo, non si potevano eludere le ragioni che imponevano la ricerca del contraente attraverso una selezione anche informale, non concentrandosi unicamente sull’aggiudicataria e senza trascurare la posizione della ricorrente e di altri potenziali interessati”.

Di avviso diverso la quinta sezione del Consiglio di Stato che, nella pronuncia in epigrafe, ha ritenuto che la fattispecie in esame fosse riconducibile a quelle descritte dall’art. 57 d.lgs. n. 163/06.

Precisa il Collegio che “il sistema di scelta del contraente a mezzo di procedura negoziata senza pubblicazione del bando di cui all'art. 57, comma 2, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, rappresenta un'eccezione al principio generale della pubblicità e della massima concorrenzialità tipica della procedura aperta, con la conseguenza che i presupposti fissati dalla legge per la sua ammissibilità devono essere accertati con il massimo rigore e non sono suscettibili d'interpretazione estensiva (..) L’affidamento diretto è consentito nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette, o negoziate previa pubblicazione di un bando di gara. Le circostanze invocate a giustificazione della estrema urgenza non devono essere imputabili alle stazioni appaltanti”.

Nel caso concreto, l’affidamento si era reso necessario per evitare di far fronte a costi non sostenibili derivanti dal pericolo di un’eventuale “non gestione” della struttura per un tempo apprezzabile e non predeterminabile, con connessa alta probabilità di danni - non imputabili all’Amministrazione - che all’ente sarebbe potuta derivare dall’eventuale danneggiamento degli impianti notatori.

L’Amministrazione – ha affermato il Collegio – “nel valutare i presupposti per l’affidamento senza gara, ha valutato ragionevolmente i presupposti dell’urgenza (dettati dalla necessità di evitare, per l’appunto, atti di vandalismo ed il deterioramento della struttura) in vista di effettuare l’affidamento provvisorio della piscina, sicché non emergono elementi tali da evidenziare una macroscopica illogicità, irrazionalità della stessa, ovvero un travisamento dei fatti”. MB

 



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Inserito in data 08/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 8 febbraio 2016, n. 499

Condizioni di validità della sentenza in forma semplificata

Con la sentenza in esame, i Giudici di Palazzo Spada trattano, tra l’altro, delle condizioni al ricorrere delle quali può essere adottata una sentenza in forma semplificata.

Vale al riguardo ricordare che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale …, da cui non vi è motivo per discostarsi, ai fini della validità della sentenza in forma semplificata è necessario che il Collegio, oltre alla previa verifica della regolarità del contraddittorio e della completezza dell'istruttoria, abbia puntualmente informato le parti costituite - e presenti all'udienza in camera di consiglio - della possibilità di adottare un tale tipo di pronuncia. Com'è noto, detta informazione, che non è finalizzata alla previa acquisizione del consenso delle parti (non richiesto dalla legge), bensì a consentire alle parti l'esercizio completo ed esauriente del proprio diritto di difesa nel caso concreto (mediante un'eventuale richiesta di un rinvio per la produzione di nuove prove o per proporre motivi aggiunti ovvero per chiedere un termine a difesa, cfr. Cons. Stato, VI, 26 giugno 2003, n. 3852), deve essere riferita specificamente alla singola controversia e non può pertanto essere considerata validamente sostituita dall'avvertimento eventualmente fatto in sede di "preliminari d'udienza" per tutte le istanze cautelari da chiamare nella camera di consiglio”. TM 

 



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Inserito in data 08/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 2 febbraio 2016, n. 1914

L’ordinanza ex art. 348ter CPC è ricorribile in via straordinaria per cassazione

Le Sezioni Unite sono state chiamate a stabilire l’an e il quomodo della ricorribilità per cassazione dell’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello che non ha una ragionevole probabilità di essere accolto (artt. 348bis e 348ter c.p.c.).

Secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (“Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”), tutti i provvedimenti decisori e definitivi, ossia capaci di incidere con efficacia di giudicato sui diritti soggettivi, possono formare oggetto di ricorso straordinario in Cassazione, indipendentemente dalla forma di sentenza, ordinanza o decreto in cui gli stessi siano stati adottati.

Ciò premesso, l’ordinanza di rimessione ha evidenziato un contrasto in seno alla giurisprudenza della Cassazione sulla “definitività” dell’ordinanza ex art. 348ter c.p.c.: secondo un orientamento, tale ordinanza potrebbe dirsi definitiva e ricorribile ex art. 111 Cost. laddove pronunciata al di fuori dei casi normativamente previsti, trattandosi di un error in procedendo che non potrebbe essere fatto valere nel ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado; secondo un altro orientamento, l’ordinanza ex art. 348ter è priva del requisito della definitività, in quanto questo carattere va riferito solo alla situazione giuridica sostanziale dedotta nel processo, che può essere rimessa in discussione attraverso il ricorso in cassazione contro la sentenza di primo grado.

Ad avviso delle Sezioni Unite, l’ordinanza ex art. 348ter c.p.c. è ricorribile in Cassazione, atteso che l’accezione restrittiva di definitività non trova riscontro nel dato normativo costituzionale, né nella legislazione processuale ordinaria, né tanto meno nella giurisprudenza della Cassazione. D’altro canto, se l’ordinanza de qua non fosse ricorribile, la parte potrebbe essere privata arbitrariamente del giudizio d’appello e del connesso riesame della causa nel merito; il che porterebbe a scaricare sulla Corte di Cassazione, mediante il ricorso avverso la sentenza di primo grado, le questioni che dovrebbero essere filtrate attraverso il giudizio di appello.

Per i Giudici di piazza Cavour, non tutti gli errores in procedendo astrattamente ipotizzabili possono essere fatti valere col ricorso straordinario avverso l’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. Segnatamente, si potrà lamentare il mancato rispetto degli artt. 348bis e ter c.p.c. (ossia: la pronuncia dell’ordinanza dopo aver cominciato la trattazione o senza aver sentito le parti o nei casi in cui è obbligatorio l’intervento del PM o nelle cause svoltesi secondo il rito sommario di cognizione o al fine di dichiarare l’improcedibilità o l’inammissibilità dell’appello sotto il profilo processuale…), la violazione dell’art. 112 c.p.c. (vale a dire i vizi di omessa pronuncia, ultrapetizione ed extrapetizione, con esclusione dell’omessa pronuncia su di un motivo di appello), l’inosservanza dell’obbligo di motivazione ex art. 111 c. 4 Cost. (ravvisabile nei casi di mancanza materiale e grafica della motivazione ovvero nelle ipotesi assimilabili di motivazione apparente, perplessa o contraddittoria).

In conclusione, le Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio di diritto: “Avverso l'ordinanza pronunciata dal giudice d'appello ai sensi dell'art. 348-ter c.p.c. è sempre ammissibile ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. limitatamente ai vizi propri della medesima costituenti violazioni della legge processuale che risultino compatibili con la logica (e la struttura) del giudizio sotteso all'ordinanza in questione, dovendo in particolare escludersi tale compatibilità in relazione alla denuncia di omessa pronuncia su di un motivo di appello, attesa la natura "complessiva" del giudizio prognostico, necessariamente esteso a tutte le impugnazioni relative alla medesima sentenza nonché a tutti i motivi di ciascuna impugnazione, e potendo, in relazione al silenzio serbato in sentenza su di un motivo di censura, eventualmente porsi (nei termini e nei limiti in cui possa rilevare sul piano impugnatorio) soltanto un problema di motivazione”. TM 

 




Inserito in data 06/02/2016
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - 29 gennaio 2016, n. 91

Permesso di costruire ex art. 5 c. 9’ Decreto Sviluppo n. 70/11 e misure premiali

Il Collegio piemontese avalla le doglianze di parte ricorrente  che, avanzando un’istanza - ex art. 5, co. 9’ – D.L. 70/11, volta ad ottenere un permesso di costruire – subisce il rigetto da parte dell’Amministrazione comunale competente, per ritenuta carenza dei presupposti fondanti.

Il Comune, infatti, ritiene manchi o comunque non risulti evidente quell’interesse pubblico al cui soddisfacimento è volta l’impostazione premiale – prevista dal Legislatore con il suddetto D.L. n. 70/11 (Decreto Sviluppo) e che, pertanto, non sia possibile procedere in deroga agli ordinari strumenti urbanistici –  ex art. 14 del d.p.r. n. 380/2001- come parte ricorrente, invece, avrebbe richiesto.

L’Amministrazione comunale sottolinea, altresì, come manchi persino la previa autorizzazione da parte del Consiglio comunale che, invece, è espressamente prevista dal Legislatore del 2011 e la cui assenza vizia il procedimento stesso (Cfr. TAR Piemonte, sez. II, 10 luglio 2015, n. 1210; TAR Piemonte, sez. II, 28 novembre 2013, n. 1287; TAR Pescara, sez. I, 14 novembre 2014, n. 450; TAR Basilicata, 19 aprile 2014, n. 267).

I Giudici torinesi non condividono simili valutazioni, ritenendo, più semplicemente, che le argomentazione del Comune resistente si fondino su una erronea interpretazione del dato normativo.

L’Ente, infatti, non ha considerato che l’intervento costruttivo rientrante nelle finalità di cui all’art. 5 comma 9 del Decreto Sviluppo e, come tale, suscettibile di interventi premiali, assume di per sé un rilievo pubblicistico nella misura in cui razionalizza e riqualifica aree degradate, con il solo limite che “si tratti di destinazioni tra loro compatibili e complementari”.

Pertanto, è possibile annoverare entro tale fattispecie l’istanza promossa da parte ricorrente e, proprio perché tale, prosegue il Collegio, dovrà competere al Consiglio comunale la valutazione circa la effettiva rispondenza dell’intervento costruttivo privato alle finalità di interesse pubblico di cui all’art. 5 comma 9 del Decreto Sviluppo.

Il Collegio ritiene, infine, che non possa nemmeno essere condivisa l’argomentazione della società ricorrente secondo cui nel caso di specie la deliberazione del consiglio comunale non sarebbe necessaria attesa la conformità della destinazione residenziale del nuovo edificio da costruire con l’attuale destinazione residenziale dell’area, dal momento che la valutazione rimessa dalla legge al consiglio comunale non è limitata alla verifica della compatibilità della destinazione in progetto con quella prevista dallo strumento urbanistico, ma si estende alla considerazione, più in generale, della effettiva rispondenza dell’intervento costruttivo alle finalità di recupero.

In forza di ciò, i Giudici torinesi annullano il provvedimento di diniego, invitando l’Ente a valutare l’istanza di parte ricorrente per mezzo del competente Consiglio comunale. CC

 



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Inserito in data 05/02/2016
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, 1 febbraio 2016, n. 328

Concentrazione di cubatura su unico lotto di terreno

Nella sentenza de qua, il T.A.R. Catania si è pronunciato sulla possibilità di concentrare la cubatura su un unico lotto di terreno optando per soluzioni dislocative dei volumi differenti rispetto a quelle previste nell’originario piano di lottizzazione.

In particolare, la società ricorrente si doleva del fatto che il Comune gli avesse rigettato un’istanza di autorizzazione a una variante del piano di lottizzazione per l’esecuzione di un piano abitabile aggiuntivo, variante che essa stessa voleva realizzare attraverso la concentrazione su detto lotto della volumetria di un terreno limitrofo di sua proprietà, compreso nel medesimo piano e nella medesima zona omogenea del vigente P.R.G. comunale.

Il T.A.R. adito, dapprima accoglie le censure mosse da parte ricorrente in ordine al difetto motivazionale del provvedimento di rigetto impugnato e alla sua contraddittorietà rispetto alle risultanze istruttorie assunte nel corso del relativo procedimento circa la fattibilità dell’operazione proposta, dopo di che passa ad esaminare la legittimità dell’operazione di concentrazione di cubatura posta in essere dalla società ricorrente.

In particolare, il Collegio ricorda come il Consiglio di Stato (sent. 927/2012) ha già avuto occasione di riconoscere, “il valore non già vincolante bensì meramente indicativo della dislocazione e del disegno di ingombro dei fabbricati contenuti in generale nei piani di lottizzazione, chiarendo come la volumetria massima edificabile ivi fissata su ciascun lotto non precluda la realizzazione di una volumetria inferiore o di nessuna volumetria, con la conseguenza che sarebbe, perciò, ben possibile, non solo non edificare affatto su alcuni lotti, ma anche - per quanto qui di interesse - concentrare su un unico lotto la quantità di volumetria prevista su lotti contigui, pur sempre nel rispetto della volumetria complessivamente conseguita, delle distanze e della destinazione d’uso dei fabbricati”.

Infatti, conclude il T.A.R. Catania, “sempre il Consiglio di Stato ha precisato come il presupposto logico dell'asservimento dev’essere rinvenuto nella indifferenza, ai fini del corretto sviluppo della densità edilizia (per come configurato negli atti pianificatori), della materiale collocazione dei fabbricati, atteso, infatti, che, per il rispetto dell’indice di fabbricabilità fondiaria, assume esclusiva rilevanza il fatto che il rapporto tra area edificabile e volumetria realizzabile nella zona di riferimento resti nei limiti fissati dal piano, risultando del tutto neutra l’ubicazione degli edifici all’interno del comparto, con conseguente possibilità di computare la superficie di un lotto vicino, ai fini della realizzazione, in un altro lotto, della cubatura assentibile in quello asservito, sul rilievo della indifferenza, per il Comune, della materiale ubicazione degli edifici, posto che l’interesse dell’amministrazione si appunta sulla diversa verifica del rispetto del rapporto tra superficie edificabile e volumi realizzabili nell’area di riferimento e, cioè, dell’indice di fabbricabilità fondiaria”. SS


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Inserito in data 04/02/2016
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 2 febbraio 2016, n. 19

Estensione della giurisdizione esclusiva del G.A.: inammissibilità

La Corte Costituzionale, con la ordinanza indicata in epigrafe, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 133, comma 1, lett. b) del c.p.a. nella parte in cui non devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche le questioni che attengono la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi e ausili finanziari.

Ad avviso del Tribunale remittente, l’estensione della giurisdizione anche alle questioni sopra citate potrebbe trovare il suo fondamento nell’art. 12 della l. 241/90 che qualifica come concessioni le “sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati”.

Poiché, però, tale percorso ermeneutico non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori che hanno escluso che le controversie relative alla revoca di sovvenzioni in denaro pubblico rientrino nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, osserva il giudice a quo che continua ad applicarsi il criterio in base al quale “le controversie in tema di agevolazioni finanziarie sono attribuite alla giurisdizione amministrativa se riferite al momento genetico del rapporto, ovvero se – pur riguardando il momento funzionale − l’amministrazione abbia adottato un provvedimento discrezionale; spettano, invece, al giudice ordinario le controversie relative al momento funzionale, se l’atto che incide sulla posizione del privato consegue all’inadempimento e ha natura vincolata”.

In base ai criteri appena individuati, il T.A.R. remittente si duole che la norma censurata gli permette di avere la cognizione “di soli due dei sei motivi di revoca posti a fondamento dell’atto impugnato, mentre il ricorso sarebbe inammissibile con riferimento agli altri quattro motivi del medesimo provvedimento”.

Dunque, l’ostacolo che incontrerebbe il giudice amministrativo nel conoscere tutte le ragioni poste a base del provvedimento impugnato sarebbe incompatibile, in primo luogo, con gli artt. 24 e 111 Cost., “in quanto la disposizione impugnata, escludendo dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di diritti, relative alle agevolazioni finanziarie, si porrebbe in contraddizione con il principio costituzionale del giusto processo, sotto il profilo della concentrazione delle tutele”; in secondo luogo, con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost., in quanto costringerebbe ad adire due giudici e a coltivare due giudizi per rimuovere dalla realtà giuridica un solo atto; ed infine, con l’art. 76 Cost. per eccesso di delega.

La Corte Costituzionale, dato atto dell’oggettiva situazione di non agevole distinguibilità tra posizioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo in materia di concessione di agevolazioni finanziarie nonché del fallimento del tentativo di pervenire all’estensione in via interpretativa in quanto tale percorso non è stato condiviso dalla giurisprudenza delle Corti superiori, afferma che “il petitum del rimettente è dichiaratamente volto ad ottenere una pronuncia additiva”.

Tuttavia, ritiene conclusivamente la Corte, l’addizione invocata dal rimettente non tiene conto della previsione di cui all’art. 103 Cost., laddove stabilisce che “sia la legge ad indicare le particolari materie nelle quali è attribuita agli organi di giustizia amministrativa la giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi”.

Peraltro, ad avviso dei giudici costituzionali, “la motivazione dell’ordinanza di rimessione non spiega le ragioni per le quali il denunciato vulnus di costituzionalità possa, e debba, essere eliminato mediante l’attrazione nella giurisdizione del giudice amministrativo delle controversie relative a diritti in materia di concessioni di contributi e sovvenzioni: il petitum del rimettente non è, quindi, supportato da elementi che consentano di ritenere che quella invocata sia l’unica scelta costituzionalmente compatibile e necessitata”.

Per entrambe le sopraindicate ragioni, conclude la Corte, la questione deve essere dichiarata inammissibile. SS

 

 



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Inserito in data 03/02/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 29 gennaio 2016, n. 364

Graduatorie ad esaurimento degli insegnanti e giurisdizione del giudice amministrativo

Come già aveva fatto con l’ordinanza n. 5861/15, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza Plenaria la questione circa la possibilità di inserire nelle graduatorie ad esaurimento di aspiranti docenti i titolari di diploma magistrale, conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002.

In via pregiudiziale, il Collegio dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo. Invero, secondo la giurisprudenza consolidata, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la questione dell’inserimento in base a titoli predeterminati e della corretta posizione nelle graduatorie degli insegnanti che abbiano già instaurato un rapporto di lavoro con l’amministrazione, ancorché precario; viceversa, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo laddove, come nel caso di specie, vengano in rilievo contestazioni che investono direttamente il potere regolamentare, governativo o ministeriale, ovvero la potestà di emanare atti amministrativi generali di natura non regolamentare, sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 2 c. 1 d.lgs. n. 165/01. Ad avviso del Consiglio di Stato, “Nella situazione in esame si censurano infatti non le modalità di valutazione di singole posizioni soggettive, ma in via principale le determinazioni espresse dal MIUR nel decreto n. 235 in data 1 aprile 2014 (aggiornamento delle graduatorie ad esaurimento per il triennio 2014 – 2017), per profili organizzativi di carattere generale, inerenti a titoli che, ad avviso degli appellanti, consentirebbero una parziale riapertura delle graduatorie stesse. A tale tipologia di contestazioni, che investono la regolamentazione in via autoritativa del settore, effettuata dall’Amministrazione quale datrice di lavoro non può che corrispondere – secondo il più recente, citato orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione – la giurisdizione del giudice amministrativo”. TM 


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Inserito in data 03/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 28 gennaio 2016, n. 305

Procedura di mobilità e concorso dell’Agenzia delle entrate

Il Consiglio di Stato dichiara l’illegittimità del concorso indetto dall’Agenzia delle entrate per la copertura di posti dirigenziali di seconda fascia, nella parte in cui, in violazione dell’art. 30, comma 2 bis, del d.lgs. n. 165/2001 (attuativo del principio generale, mai dismesso, di cui all’art. 39, comma 3, terzo periodo, della l. n. 449/1997), non sono stati previamente individuati i posti da coprire mediante mobilità volontaria.

Viene, per l’effetto, parzialmente accolto il ricorso di un dirigente regionale avverso la sentenza di primo grado che non aveva considerato come l’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16/2012 (convertito con modificazioni dalla l. n. 44/2012), abbia “delineato una procedura concorsuale specifica per il reclutamento dei dirigenti nelle Agenzie fiscali (lasciando comunque) fermi i limiti assunzionali a legislazione vigente”.

La specialità derogatoria della previsione da ultimo citata consiste nella sola possibilità di indire procedure di gara in considerazione dell’urgente e inderogabile esigenza di assicurare la funzionalità operativa delle tre Agenzie fiscali, al fine di un’efficace attuazione delle misure di contrasto all’evasione, e non consente, quindi, di superare alcuna regola posta dall’ordinamento in ordine al reclutamento dei lavoratori subordinati pubblici. Detta specialità “si limita all’espletamento dei concorsi de quibus, ma non tocca gli altri istituti che regolano i modi di provvista di tali lavoratori”.

Più nel dettaglio, la stessa norma prevede l’indizione dei concorsi secondo le modalità di cui agli artt. 1, comma 530, della legge finanziaria 2007 (n. 296/2006), e 2, comma 2, secondo periodo, del d.l. n. 203/2005 (convertito con modificazioni dalla l. n. 248/2005), e proprio tale ultima disposizione, rinviando ulteriormente al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, prevede che vengano stabilite “le modalità, anche speciali, per il reclutamento, ivi inclusa la possibilità di utilizzare graduatorie formate a seguito di procedure selettive già espletate (…), ovvero di ricorrere alla mobilità”.

Osserva tuttavia il collegio come nella fattispecie venga in rilievo un’ipotesi di mobilità volontaria, e non d’ufficio ex art. 34 bis, del decreto 165/2001; nel primo caso, le amministrazioni sono tenute “a rendere nota la disponibilità dei soli posti in organico che scelgono di coprire con il passaggio diretto del personale da altre amministrazioni”, nel secondo, invece, si “deve dar contezza e render disponibili tutti i posti che (si) intende coprire tramite il concorso”. Non è pertanto possibile “affermare che i posti da assegnare alla mobilità volontaria coincidano con quelli disponibili da mettere a concorso”. Orbene, pur muovendo l’istituto, di cui al citato art. 30, dall’equiordinazione del personale, appare evidente la non automatica estensibilità di tale principio ad ogni contesto organizzativo. Nella circostanza contingente l’amministrazione “ricerca in via prioritaria personale particolarmente versato nelle specialistiche funzioni inerenti al prelievo tributario (…). Pertanto i posti da coprire con la mobilità vanno individuati, di volta in volta ed in base alla valutazione discrezionale circa il loro effettivo fabbisogno, soltanto in relazione a quei posti di funzione disponibili, che l’Agenzia vuol ricoprire con il passaggio diretto di personale da altre amministrazioni ed a fronte di professionalità adeguate per tutti i suoi compiti d’istituto. È allora compito dell’Agenzia dare adeguata pubblicità sì delle disponibilità dei posti in organico da ricoprire con la mobilità volontaria, ma pur sempre tenendo conto delle proprie esigenze organizzative”. “Se si considera il complesso di compiti, specie se affidati al personale dirigente (…), non si possono individuare ragioni di indifferenziata applicazione, in qualsiasi luogo di lavoro, di dipendenti amministrativi di pari qualifica a quelli reclutandi con il concorso esterno, ma privi in sé della professionalità adeguata ed immediatamente disponibile (stante la ragione dell’urgenza per il loro reclutamento). Tale esigenza s’avverte meno (…) nei confronti di chi dovrà invece svolgere le attività logistiche e d’amministrazione delle risorse e del patrimonio”.

Spetta all’Agenzia di valutare se ed in qual misura sia necessario o solo opportuno o, addirittura, sconsigliato reclutare personale mediante il passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, all’uopo fissando previamente i criterî di scelta in relazione ai profili professionali carenti ed alle specifiche esigenze di funzionalità di tutti e ciascun suo ufficio”.

Conclusivamente ritiene il collegio di non poter predicare l’illegittimità tout court del bando impugnato, il quale appare, nella sua struttura, legittimo; lo stesso sottende, tuttavia, un accertamento non corretto a priori (quello relativo al numero dei posti messi a concorso), sul quale si condensa la portata lesiva del provvedimento nella prospettiva dell’appellante; viene, pertanto, eliminato “dal mondo giuridico l’accertamento operato al buio, che, solo, ha portata lesiva”. Si dispone, dunque, che vengano, se del caso, scorporati dal bando i posti da coprire con la mobilità, solamente in seguito alla fissazione discrezionale, da parte dell’Agenzia, dei prevî criterî inerenti alla procedura di trasferimento, e alla pubblicazione della relativa disponibilità.

Se il numero dei posti predetti è condizionato da un’attività sì ulteriore della stessa Agenzia, ma diversa dalla procedura concorsuale, allora quest’ultima di per sé sola non è preclusa, né sospesa, tranne diversa volizione della p.a., dallo svolgimento delle operazioni inerenti alla mobilità volontaria”. FM

 



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Inserito in data 02/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 gennaio 2016, n. 292

Scuole paritarie “senza fini di lucro”

Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato ha ritenuto fondata l’impugnazione proposta dall’Associazione nazionale degli istituti non statali di educazione e di istruzione (ANINSEI) avverso la sentenza resa, in primo grado, dai giudici capitolini.

Il Collegio si è, in particolare, espresso in ordine all’illegittimità dell’art. 4 del D.M. n. 46 del 2013, nella parte in cui identifica le scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico “senza fini di lucro”, quali destinatarie di contributi pubblici in via prioritaria rispetto alle altre scuole paritarie, ai sensi dell’art. 1, comma 636, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 ("legge finanziaria 2007"), con le scuole paritarie “gestite da soggetti giuridici senza fini di lucro”.

I giudici di palazzo Spada, aderendo alla prospettazione svolta dall’appellate, hanno ritenuto di dover seguire il criterio soggettivo–formale della natura giuridica dell’ente gestore, anziché fare applicazione del criterio oggettivo, in base al quale “il fine di lucro della scuola paritaria va posto in correlazione diretta con le caratteristiche, economico – commerciali, o meno, dell’attività esercitata, e non con la natura dell’ente”.

Ad avviso del Collegio, diversamente da quanto stabilito nel citato art. 4 del D.M., ai fini dell’erogazione di contributi pubblici in via prioritaria, per scuole paritarie senza scopi di lucro non devono intendersi quelle gestite da soggetti giuridici senza fini di lucro, ma devono ritenersi tali “le scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico senza corrispettivo, vale a dire a titolo gratuito, o dietro versamento di un corrispettivo solo simbolico per il servizio scolastico prestato, o comunque di un corrispettivo tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, dovendo, in questo contesto, il pagamento di rette di importo non minimo essere considerato fatto rivelatore dell’esercizio di un’attività con modalità commerciali”.

In un primo momento – osserva la VI sezione – il giudice di prime cure si era correttamente espresso nel senso dell’illegittimo utilizzo di un “criterio soggettivo” diretto a individuare le “scuole paritarie senza fini di lucro”, con un conseguente restringimento del novero delle scuole paritarie non aventi scopo di lucro rispetto a quanto indicato all’art. 4 del decreto.

Tuttavia – prosegue il Collegio – pur avendo fortemente criticato il criterio soggettivo/formale della natura giuridica dell’ente gestore fatto proprio dal D.M. n. 46/2013, il TAR Lazio ha finito con l’elaborare un’interpretazione del significato dell’espressione “fine di lucro” di cui al citato comma 636 adottando un criterio imperniato sulla natura giuridica dell'ente gestore e non dell’attività concretamente svolta.

Diversamente da quanto sostenuto nell’impugnata sentenza, la nozione di “scuola paritaria senza fini di lucro” – in vista della distribuzione dei contributi pubblici in via prioritaria – deve quindi essere formulata sulla base di parametri oggettivi, attinenti perciò alle modalità di svolgimento dell’impresa, e non assumendo quale riferimento la natura giuridica o lo status conferito all’ente gestore.

Oltretutto – ribadisce la VI sezione - il contesto giuridico al quale occorre fare riferimento per riempire di contenuti il concetto di scuole paritarie che svolgono il servizio scolastico senza fini di lucro, considerando sempre il risultato della concessione di contributi pubblici in via prioritaria, è anzitutto quello della giurisprudenza euro unitaria in materia di aiuti di Stato, posto che ciò che l’art. 1, comma 636, della l. n. 296 del 2006 demanda al d. m. è la fissazione di criteri e di parametri per l'assegnazione di contributi, ossia di aiuti pubblici, alle scuole paritarie e, in via prioritaria, a quelle che svolgono il servizio scolastico senza fini di lucro. Ebbene, nel settore degli aiuti pubblici, la giurisprudenza europea impone l’impiego di un criterio rigorosamente oggettivo per qualificare l’impresa commerciale, vale a dire l’impresa gestita con scopo di lucro.

In definitiva, se una scuola gestisce il servizio dietro pagamento, da parte degli alunni, di rette e di contributi d’importo non minimo, non può qualificarsi come scuola senza fini di lucro, e come tale dev’essere considerata in vista dell’erogazione dei contributi pubblici in via prioritaria, e ciò indipendentemente dalla natura giuridica dell’ente gestore. MB

 



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Inserito in data 02/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 27 gennaio 2016, n. 1516

La domanda nuova in appello, pur inammissibile, interrompe la prescrizione

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite Civili sono intervenute per risolvere la questione relativa all’efficacia interruttiva della prescrizione della domanda nuova proposta in fase di appello nel corso di un procedimento civile.

Componendo un vivace contrasto giurisprudenziale, le SS.UU. della Suprema Corte hanno affermato che la proposizione di una domanda nuova in appello, pur se inammissibile, ha effetti interruttivi della prescrizione.

Il primo comma dell’art. 2943 cod. civ. – viene ribadito nella sentenza de qua - stabilisce che la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, nonché dalla domanda proposta nel corso di esso.

Ebbene, la proposizione di una nuova domanda, ai sensi del primo comma dell’art. 170 c.p.c. - al di fuori delle ipotesi di contumacia del convenuto (fattispecie non pertinente al caso de quo) - non può che essere notificata al difensore costituito, sebbene questi sia solo un rappresentante in senso tecnico della parte sostanziale.

In quest’ipotesi – affermano le SS.UU. – la prescrizione non decorre fino al momento in cui non sia passata in giudicato la sentenza che abbia definito il giudizio (art. 2945, comma 2, c.c.). “L’unica eccezione a tale ulteriore effetto, di natura sospensiva, è costituita dall’estinzione del processo, che in ogni caso fa salvo l’effetto interruttivo istantaneo legato alla notificazione dell’atto di citazione”.

Svolte queste premesse, le SS.UU. rilevano come la Corte d’Appello leccese abbia ritenuto di escludere entrambi gli effetti, in considerazione del fatto che la domanda proposta in sede di gravame fosse nuova, e come tale inammissibile.

In realtà, così facendo, il giudice di secondo grado “avrebbe confuso – si legge in sentenza - l’aspetto processuale dell’inammissibilità con quello sostanziale dell’interruzione della prescrizione”. Ed infatti – precisano le SS.UU. – anche la domanda inammissibile necessita di una pronunzia giudiziale, suscettibile di passaggio in giudicato formale.

Ove l’inammissibilità non fosse rilevata dal giudice, si creerebbe una vistosa contraddizione tra l’inidoneità astratta all’interruzione e l’eventuale efficacia di un giudicato sostanziale, che evidentemente si sovrapporrebbe all’inidoneità genetica, sanandola ex post, ai fini interruttivi del decorso della prescrizione”.

La Corte di legittimità ritiene ancor più contraddittoria ed illogica “la negazione di alcun valore alla domanda nuova – sia pure preclusa,  in linea di principio, in grado di appello (..) ove la si ponga a confronto con l’efficacia interruttiva dell’atto di citazione in un processo conclusosi con l’estinzione”. MB




Inserito in data 01/02/2016
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 29 gennaio 2016, n. 1

Soppressione del reparto, indicazione di gradimento e diritto all’indennità di trasferimento

La questione sottoposta all’Adunanza Plenaria consiste nello stabilire “se debba riconoscersi l'indennità di cui all'art. 1 comma 1 della legge 29 marzo 2001, n. 86 al personale ivi contemplato, e nel caso di specie a militari e sottufficiali della Guardia di Finanza, che, in relazione alla soppressione (o dislocamento) del reparto o articolazione organizzativa in cui prestavano servizio, abbiano espresso, comunque, una indicazione preferenziale di gradimento relativa a una sede distante oltre dieci chilometri da quella a quo, cui sia stato dato seguito dall'Amministrazione. Il tutto per le ipotesi non ricadenti sotto la vigenza dell’art. 1 comma 163 L. 24.12.2012 n. 228” (in quanto quest’ultima riforma ha escluso l’indennità rispetto ai militari trasferiti a seguito della soppressione o dislocazione dei reparti o relative articolazioni).

Secondo l’orientamento accolto nell’ordinanza di rimessione, già prima della riforma del 2012, non integrava il trasferimento d’autorità la mobilità del personale militare dovuta alla soppressione del reparto e conforme a domanda di trasferimento o a clausole di gradimento accessive al provvedimento di trasferimento.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non condivide tale ricostruzione.

A tal fine, preliminarmente, il Collegio chiarisce che “gli elementi costitutivi del diritto di credito alla corresponsione della indennità di trasferimento sono: I) un provvedimento di trasferimento d’ufficio; II) una distanza fra la vecchia e la nuova sede di oltre 10 chilometri; III) l’ubicazione della nuova sede in un comune diverso”. Rispetto al primo elemento costitutivo dell’indennità di trasferimento, l’Adunanza Plenaria precisa che “è qualificabile come d’ufficio il trasferimento diretto a soddisfare in via primaria l’interesse pubblico, … senza che rilevino le eventuali dichiarazioni di assenso o di disponibilità dell’interessato”; infatti, la clausola di acquiescenza “incide solo sugli effetti ubicazionali ovvero lato sensu geografici dell’ordine di trasferimento; essa comporta acquiescenza in senso proprio a tali effetti perché implica rinuncia al proprio diritto di agire in giudizio…. L’acquiescenza rende dunque irretrattabile l’individuazione della sede prescelta rendendo inammissibili, per carenza di interesse ad agire, le eventuali iniziative contenziose intraprese dal militare che subisce il trasferimento, ma non incide sul diritto di credito (a percepire l’indennità) che scaturisce direttamente dalla legge al ricorrere di determinati presupposti”.

In favore della propria ricostruzione, l’Adunanza Plenaria adduce anche la circostanza che la riforma del 2012 non ha natura di norma interpretazione autentica. Secondo il Supremo Consesso amministrativo, “Una volta assodata la portata non retroattiva della nuova disciplina, è consequenziale ritenere, analizzando in chiave storica l’evoluzione della legge sul punto controverso, che assume rilievo il criterio esegetico fondato sul c.d. argumentum a contrario: la nuova norma presuppone logicamente che la pregressa disciplina abbia attribuito, in caso di soppressione del reparto di appartenenza e nel concorso di tutti gli altri presupposti di legge, l’indennità di trasferimento anche al militare che avesse espresso il gradimento circa la nuova sede di servizio in quanto privo di alternativa alla movimentazione (non esistendo più la pregressa sede di servizio) ed astretto al dovere di obbedienza”.

Alla stregua delle suesposte argomentazioni, l’Adunanza plenaria formula il seguente principio di diritto: “Prima dell’entrata in vigore (al 1° gennaio 2013) dell’art. 1, co. 163, l. 24 dicembre 2012, n. 228 - che ha introdotto il comma 1-bis nell’art. 1, l. 29 marzo 2001, n. 86 - spetta al personale militare l’indennità di trasferimento prevista dal comma 1 del medesimo articolo, a seguito del mutamento della sede di servizio dovuto a soppressione (o diversa dislocazione) del reparto di appartenenza (o relative articolazioni), anche in presenza di clausole di gradimento (o istanze di scelta) della nuova sede, purché ricorrano gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ovvero una distanza fra la nuova e l’originaria sede di servizio superiore ai 10 chilometri e l’ubicazione in comuni differenti”. TM 


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Inserito in data 01/02/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 27 gennaio 2016, n. 3691

Ampia portata al nuovo reato di autoriciclaggio

La pronuncia in esame costituisce il primo rilevante intervento, in sede di giurisdizione di legittimità, concernente l’art. 648 ter 1, c.p..

A margine della questione concreta, chiarisce preliminarmente il collegio che “in materia di misure cautelari il sindacato di legittimità che compete alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui varî punti della decisione impugnata, senza la possibilità di verificare la corrispondenza delle argomentazioni alle acquisizioni processuali, essendo interdetta in sede di legittimità una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione”; “in particolare in materia di misure cautelari reali, il giudizio di legittimità risulta ancora più circoscritto, in quanto cade in un momento processuale, quale quello delle indagini preliminari, caratterizzato dalla sommarietà e provvisorietà delle imputazioni; ciò comporta che in sede di legittimità non è consentito verificare la sussistenza del fatto reato, ma soltanto accertare se il fatto contestato possa astrattamente configurare il reato ipotizzato”.

Scendendo in medias res, e per quanto ai nostri fini rileva, la suprema Corte riconosce la possibilità di configurare il delitto in narrativa anche ove il reato presupposto sia stato commesso anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 648 ter 1, c.p..

Viene pertanto confermata l’ordinanza di parziale sequestro dei beni di un soggetto, già indagato per riciclaggio, il quale all’esito di un’ispezione successiva all’ingresso in Italia, provenendo dal territorio svizzero, era stato trovato in possesso di una notevole somma di denaro, non congruamente motivata dai redditi dichiarati al fisco.

Invocato dalla difesa il fondamentale principio d’irretroattività della legge penale, essendo stato commesso l’assunto reato presupposto – di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000 (dichiarazione infedele) – in data antecedente l’introduzione del reato di autoriciclaggio, la Corte nondimeno conclude dichiarando la manifesta infondatezza del motivo di ricorso. In particolare, rilevano i giudici di Piazza Cavour: “Impropriamente viene invocato il principio di irretroattività della legge penale di cui all’articolo 2 del Codice penale in relazione ad un reato, quale quello di autoriciclaggio, nel quale soltanto il reato presupposto si assume commesso in una epoca antecedente la data di entrata in vigore della legge 15-12-2014 n. 186, ma quando comunque lo stesso reato (presupposto) era già previsto come tale dalla legge”. FM 




Inserito in data 30/01/2016
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 30

Indizione procedura mobilità esterna e diritto ad assunzione mediante scorrimento graduatoria

Il Collegio pugliese interviene, con la pronuncia in epigrafe, riguardo all’attualissima questione circa le modalità di arruolamento del personale e, in particolare, in merito alla possibilità di adottare il metodo dello scorrimento di una graduatoria residua.

In particolare, accogliendo le doglianze di parte ricorrente, i Giudici intimano all’Amministrazione opposta di procedere alla relativa assunzione – trattandosi di soggetto appartenente ad una graduatoria ancora in corso di validità, ma non adoperata dall’Ente.

Quest’ultimo, infatti, aveva pubblicato un avviso di mobilità esterna – ai sensi dell’art. dall’art. 30 D. Lgs. n. 165/2001 – proprio riguardo alla necessità di assumere nell'ambito dello stesso profilo concorsuale per il quale vige ancora la suddetta graduatoria.

Il Collegio, ricordando l’excursus normativo e giurisprudenziale in merito, sottolinea come la procedura di mobilità sia opportuna nell’ipotesi di indizione di nuove procedure concorsuali; ove, invece, i profili professionali siano reperibili mediante lo scorrimento di graduatorie esistenti in seno all’Ente, non sussiste motivazione alcuna perché si decida di ricorrere a personale esterno – come accaduto nella fattispecie odierna.

Di conseguenza, i Giudici annullano l’avvio di procedura di mobilità esterna – indetta ex art. 30 D. Lgs. 165/01 – e dispongono l’assunzione – in favore della ricorrente – in forza di scorrimento di graduatoria cui la medesima appartiene.

Infine il Collegio chiude la pronuncia rigettando la richiesta risarcitoria – avanzata dalla ricorrente – riguardo al ritardo con cui l’Amministrazione resistente provvede all’immissione in ruolo.

Si ricorda, infatti, che il "diritto all'assunzione" si colloca al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale e che, pertanto, la questione del risarcimento del danno da ritardo nella assunzione, in quanto derivante dal riconoscimento della lesione del relativo diritto soggettivo è configurabile solo dopo che l’amministrazione abbia deciso di procedere all’assunzione e deve essere prospettata innanzi al giudice ordinario (Cfr., ex multis, Cons. St., sez. III, 21 maggio 2013 n. 2754).

In forza di ciò, il ricorso viene accolto limitatamente alla parte riferita all’annullamento dell’avviso di mobilità esterna.

Invece, per la parte riferita all’accertamento e declaratoria del diritto all’assunzione e al risarcimento dei danni, i Giudici baresi dichiarano il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito, demandandola a al giudice ordinario, innanzi al quale le parti potranno più correttamente riassumere il giudizio. CC

 



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Inserito in data 30/01/2016
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 28 gennaio 2016, C - 50/14

Associazioni volontariato, ambulanze: conforme al diritto UE affidamento diretto 

Il Giudice europeo sancisce la compatibilità tra gli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'Unione e la normativa italiana che, in ambito di servizi di trasporto sanitario pubblico, prevede l’affidamento diretto, senza previo esperimento di gara, in cambio di un rimborso spese.

La Corte del Lussemburgo, infatti, intervenendo a fronte di un gravame promosso da un consorzio artigiano di taxi ed auto – noleggio avverso il provvedimento con cui un’Azienda Sanitaria piemontese aveva agito senza previa gara – ricorda che «non ostano a una normativa nazionale che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, purché il contesto normativo e convenzionale in cui si svolge l'attività delle associazioni contribuisca effettivamente a una finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio».

E in questi casi, prosegue la sentenza, l'autorità che proceda all'affidamento non è neppure tenuta, in base alle norme dell'Unione, a comparare preliminarmente più offerte di varie associazioni. 
Peraltro, conclude la Corte, l'associazione di volontariato può anche esercitare attività commerciali (volte alla realizzazione di un profitto), purché le stesse non snaturino la vocazione benefica dell'associazione.

Pertanto, rispettando di tali indicazioni, i Giudici ricordano come  la nostra normativa non infranga il dettato comunitario ove preveda la facoltà per le associazioni in questione di svolgere attività lucrative – purchè rappresentino una minima parte della attività complessiva e servano comunque a sostenere gli scopi benefici che le connotano sin dall’atto costitutivo. CC

 




Inserito in data 29/01/2016
TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 26 gennaio 2016, n. 70

Parità di genere negli organi rappresentativi provinciali

Nella sentenza de qua, il Tar Reggio Calabria si è pronunciato in materia di principio di pari opportunità tra uomo e donna e, in particolare, sulla necessità che tale principio venga rispettato anche in sede di nomina di assessori provinciali.
Infatti, nel caso de quo, la ricorrente impugna i provvedimenti di nomina assessorile in quanto recanti tutti destinatari di sesso maschile e, conseguentemente, denuncia la violazione dei precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 51 Cost., nonché delle norme di legge che ad essi danno attuazione e che garantiscono la parità di genere negli organi rappresentativi.

Ad avviso della ricorrente, i decreti di nomina non recherebbero adeguate giustificazioni in ordine alle ragioni che hanno precluso la possibilità di conferire l’incarico di amministratore della provincia ad una assessore appartenente al genere femminile, nonché la stessa nomina simbolica di una assessore donna, avvenuta con successivo decreto impugnato con motivi aggiunti, eluderebbe il principio di pari opportunità.

Il Tar adito, dopo aver delineato il quadro normativo instaurato dalle leggi n. 215/2012 e n. 56/2014 attuative dei precetti costituzionali sopra richiamati, ha sottolineato come siano oramai superati gli orientamenti che, sulla base del previgente sistema normativo, ritenevano “insindacabile”, “in assenza di norme statutarie che stabiliscano una quota di riserva, il provvedimento di nomina di una Giunta provinciale che preveda solo un assessore di sesso femminile”.

Infatti, l’esigenza della presenza di entrambi i generi integra una “fondamentale coordinata ordinamentale di diretta attuazione degli indicati precetti costituzionali” e i principi espressi dalle summenzionate leggi devono trovare applicazione anche nelle ipotesi, come quella in questione, in cui le operazioni elettorali si siano svolte in epoca anteriore alla loro entrata in vigore.

In questo modo, afferma il Tar, “non si dà applicazione retroattiva ad una norma di legge, bensì si individua la regola iuris di composizione e di funzionamento dell’organo collegiale, in ragione dell’immediata applicabilità di disposizioni aventi primario referente costituzionale e volte a garantire la presenza di genere negli organismi rappresentativi degli Enti locali”.

Peraltro, afferma il Tar che “sebbene l’attuazione del precetto tendente a garantire la pari opportunità dei generi non è, allo stato, vincolata dalla previsione di precise indicazioni numeriche, tuttavia non si può pervenire ad una sostanziale elusione del precetto per mezzo di provvedimenti che, pur formalmente garantistici in ordine al rispetto della parità di genere, di fatto si sostanzino nella elusione della portata conformativa indotta dalle citate norme: come, appunto, nel caso di specie, in cui il Presidente della Giunta Provinciale ha provveduto a nominare un solo assessore appartenente al genere femminile”.

Alla fondatezza delle censure relative alla illegittimità dei decreti di nomina gravati per violazione del principio di parità di genere, non consegue, tuttavia, conclude il Tar, la fondatezza della ulteriore domanda proposta dalla ricorrente tendente all’accertamento del proprio diritto ad essere nominata assessore provinciale in quanto l’atto di nomina di un assessore è un atto connotato da alta discrezionalità che in quanto tale può essere sottoposto solo a un vaglio di ragionevolezza, coerenza ed adeguatezza motivazionale. SS



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Inserito in data 28/01/2016
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 18 gennaio 2016, n. 92

È ammissibile l’avvalimento per la certificazione etica SA8000?

I giudici del Tar Toscana si sono pronunciati sulla idoneità o meno di un contratto di avvalimento a realizzare la messa a disposizione del requisito della certificazione etica SA (Social Accountability) 8000 richiesto dalla legge di gara ai fini della partecipazione.
In particolare, la ricorrente si duole del fatto che la commissione di gara abbia ritenuto ammissibile la partecipazione alla procedura della controinteressata, in virtù dell’anzidetto contratto di avvalimento che, a suo avviso, ha ad oggetto un requisito che non potrebbe essere messo a disposizione da un’impresa a un’altra.

Il Tar adito ricostruisce la ratio della certificazione in questione e sottolinea come essa attesti il rispetto di standard attinenti alla responsabilità sociale di impresa e, in particolare, al rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, alla tutela contro lo sfruttamento dei minori, alla sicurezza e salubrità dei posti di lavoro.

A ben vedere, dunque, essa concerne una serie di fattori il cui giudizio di conformità ingloba l’intera organizzazione aziendale e finisce per atteggiarsi ad “attributo soggettivo dell’impresa, nel senso che il grado etico di un’azienda, pur non identificandosi con la morale individuale dei soggetti che dell’impresa fanno parte o che vi collaborano, esprime l’attitudine di quella individuata organizzazione a offrire il rispetto di uno standard di responsabilità sociale”, che rappresenta l’essenza stessa dell’impresa moderna negli Stati democratici e, come tale, “è materialmente irriproducibile fuori dal contesto aziendale al cui interno è generato”.

Vero è, afferma il Collegio, che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (C.d.S. 4860/2015) sembra essersi da ultimo attestata sull’affermazione secondo cui “nulla osta, in astratto, a che l'avvalimento possa riguardare anche i requisiti soggettivi di qualità, purché in questo caso l'impresa ausiliaria assuma l'impegno di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata non la certificazione di cui dispone, ma le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo”; ma è pur vero che la generale ammissibilità di un avvalimento del requisito qualitativo è stata esclusa in concreto sul rilievo che, non potendo l’avvalimento della certificazione di qualità andare disgiunto dal “prestito” dell’intero sistema aziendale dell’ausiliaria cui la certificazione stessa pertiene, “si avrebbe nei fatti un utilizzo distorto dell’istituto e una sorta di subappalto dissimulato” (C.d.S. 887/2014).

Tale ragionamento, ritiene la Corte, vale a fortiori se riferito alla certificazione etica, la quale non misura la qualità del processo produttivo, ma l’impegno sociale dell’impresa, ovvero il suo modo di essere e di comportarsi (innanzitutto nei confronti dei lavoratori), requisito di per sé intrasmissibile.

Peraltro, anche a voler ritenere che l’avvalimento non possa in nessun caso soffrire di esclusioni generalizzate sulla base della oggettiva difficoltà di circoscriverne in concreto l’oggetto, è la stessa giurisprudenza che si è richiamata ad esigere che “l’impegno assunto dall’impresa ausiliaria a norma degli artt. 49 D.Lgs. n. 163/2006 e 88 D.P.R. n. 207/2010, per potersi dire effettivo, specifichi con esattezza le risorse e i mezzi prestati all’impresa ausiliata”, requisito che, nel caso de quo, non è soddisfatto, conclude il Tar, dal contratto di avvalimento stipulato dalla controinteressata. SS



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Inserito in data 27/01/2016
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 8 gennaio 2016, n. 4

Danno da ritardo P.A. e diritto al risarcimento 

La pronuncia in esame è significativa, giacchè con essa il Collegio ligure ha delimitato la portata della pretesa risarcitoria del privato a fronte del ritardo di una Pubblica Amministrazione.

In particolare, nel caso di specie, il gravame riguarda l’emanazione tardiva di un decreto interministeriale con cui il Ministero degli Interni avrebbe dovuto riconoscere, previo recepimento di una accordo sindacale, degli emolumenti in favore di una pluralità di soggetti trovantisi nelle odierne condizioni di ricorrenti.

Questi, nella specie, quantificano l’ammontare del risarcimento nella misura dell’indennità che sarebbe loro spettata se la stessa fosse stata corrisposta dalla data di decorrenza del biennio disciplinato dall’accordo sindacale – recepito, invece, solo molti anni dopo.

I Giudici genovesi ritengono di non poter condividere tale assunto, evidenziando come – invero – non fosse previsto alcun termine finale entro cui recepire le nuove direttive in seno all’Amministrazione.

Essi ricordano, infatti, che in assenza di una specifica previsione normativa che individui un termine finale di adozione del decreto occorre utilizzare le normali categorie del danno da ritardo.

Di conseguenza, richiamando l’attenzione sulla posizione dei ricorrenti, il Collegio estende l’applicabilità – al caso di specie – dell’art. 30 C.p.A. e sottolinea, pertanto, come la pretesa risarcitoria possa essere fatta valere solo dal momento in cui l’Amministrazione sia stata messa in mora, specie nelle ipotesi – come quella odierna – in cui difetti l’espressa statuizione di un termine finale.

I Giudici liguri, in sostanza, intendono evitare che l’asserito danneggiato rimanga inerte per poi giovarsi dell’inerzia della P.A. a fini risarcitori (Cfr. TAR Sicilia Palermo III 5 giugno 2015 n. 1316).

Tutto ciò, come è chiaro, in linea con i principi solidaristici che governano il nostro Ordinamento e che, specie negli ultimi anni, hanno preso maggior spazio anche nei rapporti tra privati ed Amministrazione pubblica.

In ragione di tali valutazioni e trasponendo tali principi al caso di specie, il Collegio delimita il danno, ritenendolo risarcibile soltanto dal momento della notifica all’Amministrazione della messa in mora da parte degli odierni ricorrenti. CC

 



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Inserito in data 27/01/2016
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, ORDINANZA di RIMESSIONE alle SEZIONI UNITE della CORTE DI CASSAZIONE - 8 gennaio 2016, n. 2

Diniego richiesta rinnovo di permesso di soggiorno: giurisdizione

Il Collegio latinense rimette la pronuncia in esame alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, perché si pronuncino in punto di giurisdizione - ex art. 11 – 3’ co. C.p.A.

La questione verte sul diniego – da parte dell’Amministrazione intimata – a fronte della richiesta di rinnovo di permesso di soggiorno avanzata dal ricorrente - cittadino extracomunitario.

Nella specie, i Giudici laziali ritengono che la posizione giuridica soggettiva azionata dall’istante sia di diritto soggettivo, posto che l’Autorità procedente esercita in materia di rilascio/ rinnovo di permesso di soggiorno per motivi umanitari potestà di natura essenzialmente vincolata.

Si richiama, in merito, la recente giurisprudenza amministrativa che così recita: “La giurisdizione sul diniego di rilascio e di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari all'extracomunitario spetta al giudice ordinario, in quanto la posizione giuridica azionata dall'interessato ha consistenza di diritto soggettivo, ma a condizione che la consistenza dell'interesse fatto valere risulti da un esplicito provvedimento di diniego, atteso che l'esito dell'istanza di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere il più diverso, ivi compresa la conversione dell'istanza e il rilascio di permesso di soggiorno per lavoro subordinato o altra causa rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo”. (Cfr. TA.R. Ancona (Marche) sez. I 08 maggio 2015 n. 356; C di Stato sent. n. 1881/13).

Di conseguenza, attesa la necessità di comprendere la reale indole dell’azione amministrativa nel caso di specie, i Giudici richiedono che sulla spettanza della giurisdizione si pronuncino le Sezioni unite della Cassazione ex articolo 11, comma 3, c.p.a.. CC

 



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Inserito in data 26/01/2016
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA DI RIMESSIONE alla CORTE DI CASSAZIONE, 22 gennaio 2016, n. 123

Diniego di ammissione alla procedura di emersione del lavoro nero: giurisdizione

Il collegio catanzarese solleva conflitto di giurisdizione ai sensi dell’art. 11, comma 3, c.p.a., nella controversia concernente la mancata ammissione di un imprenditore, da parte della competente Commissione di coordinamento della vigilanza presso la Direzione provinciale del lavoro, alla procedura di regolarizzazione e riallineamento retributivo e contributivo di rapporti di lavoro non risultanti da scritture o da altra documentazione obbligatoria, di cui all’art. 1, commi 1192 e seguenti, della legge finanziaria 2007 (l. n. 296/2006).

L’articolata vicenda a monte della questione prende le mosse dal ricorso gerarchico – presentato al Comitato regionale per i rapporti di lavoro presso la Direzione regionale del lavoro – rigettato per incompetenza, ai sensi dell’art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 124/2004. Depositato il ricorso giurisdizionale dinnanzi al Tribunale civile, il giudice del lavoro declinava la propria giurisdizione in favore del Tribunale amministrativo regionale territorialmente competente, trattandosi di causa avente ad oggetto “sostanzialmente l’impugnazione di provvedimenti amministrativi finalizzata al relativo annullamento”, ed essendo la domanda diretta a ottenere la condanna del Comitato regionale a “riesaminare il proposto ricorso gerarchico”.

In sede di riassunzione, con l’ordinanza in esame, i giudici amministrativi osservano che “a prescindere dalla prospettazione della domanda, formulata secondo il modello impugnatorio (…), le parti controvertono circa il diritto ad accedere alle disposizioni agevolative di cui alla l. n. 296 del 2006, con riferimento al rapporto di lavoro subordinato intercorso tra la parte ricorrente e cinque lavoratori”; e “invero, le disposizioni normative sopra citate integrano il sistema complessivo delle leggi in materia di assicurazioni sociali, assistenza e previdenza obbligatoria, quali norme speciali che accedono alla normativa generale e non conferiscono all’autorità amministrativa preposta alcun margine valutativo”.

Conclusivamente, il Tribunale amministrativo ritiene “che il giudizio involva (…) questioni di diritto soggettivo e che, non rientrando la materia nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art., 133 c.p.a., debba sollevarsi conflitto di giurisdizione”, e per l’effetto ordina la trasmissione degli atti alla Corte di cassazione. FM



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Inserito in data 26/01/2016
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 19 gennaio 2016, n. 29

Comunicazione della seduta di gara a un numero di fax diverso da quello indicato

Con la pronuncia in oggetto i giudici veneziani accolgono il ricorso presentato da un operatore economico, nella qualità di aggiudicatario provvisorio, avverso l’annullamento in autotutela di una procedura di gara, disposto dall’amministrazione per avere comunicato, ad altra impresa partecipante, la data della seconda seduta pubblica ad un numero di fax differente da quello emarginato nell’offerta. Per effetto dell’errore l’ente resistente aveva lamentato “di non aver potuto partecipare a tale seduta, con conseguente violazione delle regole relative allo svolgimento delle pubbliche gare, in particolare del principio di par condicio”.

Il ricorrente denunciava: l’erroneità dei presupposti dell’annullamento, rilevando come il mero invio a un recapito diverso (comunque riconducibile al destinatario) non potesse considerarsi alla stregua di un mancato invito; che il concorrente avrebbe dovuto comportarsi secondo i principî generali di buona fede, diligenza e fattiva collaborazione, “atteso che l’omessa segnalazione interna (…) non poteva essere invocata per negare la conoscenza della convocazione”; l’illegittimità dell’annullamento, essendo stata omessa ogni attività istruttoria in ordine all’utenza telefonica e alle ragioni per le quali era stata utilizzata dalla stazione appaltante; e infine, che la società destinataria dell’informazione aveva censurato unicamente la modalità di convocazione, senza contestare alcun profilo di svolgimento della relativa seduta.

Il collegio giudicante, preso atto della titolarità dell’utenza in questione, nonché della sua appartenenza alla sede operativa della società (diversa da quella legale), nonostante la discrasia con quanto indicato nella domanda di partecipazione alla gara, ritiene, in conclusione, il recapito rientrante nella sfera di controllo dell’ente, e pertanto, la società “usando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto comunque apprendere della data in cui si sarebbe tenuta la seduta di gara”. “È noto, infatti, che chi partecipa a procedure ad evidenza pubblica è soggetto ad un onere di ordinaria diligenza e di buona fede in relazione ad atti ed attività che potrebbero incidere sul regolare svolgimento della gara, ciò anche nel rispetto dell’ampio patto d’integrità cui si vincola il soggetto che decide di partecipare a gare pubbliche”. FM

 



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Inserito in data 25/01/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, 19 gennaio 2016, n. 571

Revoca dall’incarico di Giudice di pace ex art. 9, comma 3, l. 174/1991

I giudici della sezione prima quater del T.A.R. Lazio - Roma, con la pronuncia in epigrafe, si sono espressi in ordine alla legittimità del provvedimento, emesso dal Consiglio Superiore della Magistratura, con il quale era stata disposta, ai sensi del 3° comma dell’art. 9 della l. n° 174/1991, la revoca dall’incarico di Giudice di pace del ricorrente, in ragione dei reiterati ed ingiustificati ritardi dal medesimo accumulati nella definizione dei procedimenti trattati.

Il ricorrente aveva, nella fattispecie, impugnato la deliberazione del CSM sotto molteplici profili, eccependo, anzitutto, l’assenza di criteri normativi predefiniti ed oggettivi rispetto ai quali valutare la condotta oggetto di contestazione, ritenuta, dall’Organo di autogoverno, contraria ai doveri di diligenza e di laboriosità richiesti nello svolgimento dell’attività giurisdizionale.

A norma dell’articolo 9, comma 3, della legge 174 del 1991 – ricordano i giudici nella pronuncia de qua - “nei confronti del giudice di pace  possono essere disposti l'ammonimento, la censura, o, nei casi più gravi, la revoca se non è in grado di svolgere diligentemente e proficuamente il proprio incarico ovvero in caso di comportamento negligente o scorretto”.

Il T.A.R. capitolino ha ritenuto che nel caso di specie – contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente – la sistematicità dei ritardi nell’emissione dei provvedimenti giurisdizionali, nonché la loro stessa entità fosse ictu oculi sproporzionata rispetto al periodo temporale di servizio del giudice, esaminato dal CSM, costituendo essi “certamente presupposti e circostanze fattuali riconducibili, secondo criteri di ragionevolezza, logicità e razionalità, alla condotta astrattamente prevista dall’art. 9, comma 3 della legge n. 374 del 1991, anche se in assenza di criteri normativi di dettaglio”.

Pertanto, il Collegio ha concluso nel senso di ritenere la condotta ascritta al giudice onorario riconducibile alla mancanza di diligenza e di proficuo svolgimento della funzione giurisdizionale, sanzionabile, appunto, con la rimozione del medesimo dall’incarico. MB

 



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Inserito in data 25/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 197

Presupposti per lo scioglimento dell’organo consiliare per infiltrazioni mafiose

Con la pronuncia in esame, i giudici di palazzo Spada si sono soffermati ad esaminare i presupposti dello scioglimento di un Consiglio comunale in ragione di presunte infiltrazioni della criminalità organizzata.

L’appello de quo scaturiva dall’impugnazione della sentenza resa dal T.A.R. Lazio con la quale, in primo grado, era stato accolto il ricorso proposto da un sindaco avverso il decreto presidenziale con cui era stato disposto lo scioglimento dell’organo consiliare dell’ente.

In particolare l’appellante, in sede di gravame, aveva dedotto un unico e ben articolato motivo, ovvero la circostanza che il giudice di prime cure si fosse limitato ad una parziale e non esaustiva disamina dei vari profili sottesi al provvedimento di scioglimento del Consiglio comunale, soffermandosi sull’analisi dei singoli e separati episodi, senza tuttavia valutarli nel loro quadro complessivo, nella loro visione d’insieme.

Il Collegio, prima di affrontare la fattispecie in concreto, ha richiamato i principi di diritto applicabili alla materia, funzionali – a suo avviso – ad un preliminare e corretto inquadramento della vicenda. Segnatamente – ha precisato la terza sezione, richiamando consolidata giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato – “lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose, ai sensi dell’art. 143 del T.U.E.L. (d. lgs. 267/2000), non ha natura di provvedimento di tipo sanzionatorio, ma preventivo, con la conseguenza che, per l’emanazione del relativo provvedimento di scioglimento, è sufficiente la presenza di elementi che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto tra l’organizzazione mafiosa e gli amministratori dell’ente considerato infiltrato.

“L’art. 143, comma 1, nel testo novellato dall’art. 2, comma 30, della l. 94/2009” - ha proseguito il Collegio – “richiede che detta situazione sia resa significativa da elementi «concreti, univoci e rilevanti», che assumono valenza tale da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi amministrativi e da compromettere l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, aspetto, quest’ultimo, che riveste carattere essenziale per l’adozione della misura di scioglimento dell’organo rappresentativo della comunità locale (…). Gli elementi sintomatici del condizionamento criminale devono, quindi, caratterizzarsi per concretezza ed essere, anzitutto, assistiti da un obiettivo e documentato accertamento nella loro realtà storica; per univocità, intesa quale loro chiara direzione agli scopi che la misura di rigore è intesa a prevenire; per rilevanza, che si caratterizza per l’idoneità all’effetto di compromettere il regolare svolgimento delle funzioni dell’ente locale”.

Pertanto, alla luce dei richiamati principi, è necessario che i fatti sottesi all’adozione di un provvedimento di scioglimento dell’organo consiliare vengano valutati nel loro insieme - non atomisticamente – in modo da risultare idonei a delineare il quadro complessivo del condizionamento mafioso. In poche parole, l’astratta previsione delineata dall’art. 143 del T.U.E.L. deve misurarsi con la realtà del singolo ente comunale, calandosi, concretamente, nel contesto ambientale e temporale di riferimento.

Alla luce delle considerazioni esposte, deve pertanto attribuirsi significanza e rilievo anche a  quelle “situazioni non traducibili in episodici addebiti personali ma tali da rendere, nel loro insieme, plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una soggezione o di una pericolosa contiguità degli amministratori locali alla criminalità organizzata (vincoli di parentela o affinità, rapporti di amicizia o di affari, frequentazioni), e ciò anche quando il valore indiziario degli elementi raccolti non sia sufficiente per l’avvio dell’azione penale o per l’adozione di misure individuali di prevenzione”.

Nella fattispecie in esame, il giudice di prime cure, pur avendo esaminato in modo analitico e rigoroso i fatti esposti nella relazione prefettizia, si era tuttavia limitato a valutarli nella loro esistenza atomistica, trascurando del tutto l’interpretazione sistematica del loro valore complessivo ed unitario.

I singoli elementi sintomatici del condizionamento o collegamento - ha precisato infatti  il Collegio – possono non avere tutti, ciascuno singolarmente considerato, le caratteristiche richieste dal novellato art. 143 del T.U.E.L., nel senso della loro concretezza, univocità e rilevanza, ma sicuramente deve essere il loro complesso a denotare tale concretezza, univocità e rilevanza”, ciò in quanto lo scioglimento dell’organo consiliare rappresenta “la sintesi e non la somma dei singoli elementi”, rispetto ai quali occorre un giudizio, sintetico e conclusivo che tenga debitamente conto della “intima interconnessione e del nesso sistematico” dei singoli episodi. MB



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Inserito in data 23/01/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 119

Compilazione domanda di concorso in base a istruzioni equivoche: obbligo di prestare soccorso istruttorio?

Il TAR Milano si è pronunciato, nella sentenza de qua, sull’importante questione relativa alla possibilità o meno per l’amministrazione di esimersi dall’avviare il soccorso istruttorio in caso di errore nella compilazione di una domanda di concorso da parte di un candidato (si trattava di concorso straordinario per l’assegnazione di sedi farmaceutiche per il privato esercizio).

Le ricorrenti lamentano, infatti, l’illegittimità del criterio, introdotto dalla commissione giudicatrice, in base al quale si “ritengono tamquam non esset i titoli di studio la cui tipologia non sia stata specificata in sede di compilazione della domanda” in quanto tale criterio sarebbe viziato da eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, risolvendosi sostanzialmente nell’esclusione dell’obbligo dell’amministrazione procedente di prestare soccorso istruttorio, ciò che non può essere escluso in radice.

Ritenendo la censura condivisibile, spiega il Tribunale adito che la dizione impiegata nelle istruzioni di compilazione (nel caso di specie “titolo”) è equivoca (“titolo”, infatti, può indicare non solo la tipologia del corso, ma anche l’oggetto del corso seguito): le istruzioni avrebbero dovuto esplicitare, infatti, con terminologia univoca, quali informazioni avrebbero dovuto essere indicate in tale campo.

Afferma il Tar, dunque, che la Regione resistente, avendo ritenuto insufficiente l’indicazione fornita dalla ricorrente, “avrebbe dovuto provvedere a fornire il soccorso istruttorio non potendo far ricadere sul concorrente le conseguenze della inesatta predisposizione della piattaforma informatica (e delle relative istruzioni)”, piattaforma che costituiva, tra l’altro, l’unico modo di presentazione della domanda.

Non sussistono, inoltre, condivisibili ragioni per cui l’amministrazione avrebbe potuto nel caso di specie non prestare tale forma di soccorso istruttorio il che pone le basi, a detta del Collegio, per operare un’elencazione dei presupposti nonché dei limiti dello stesso.

Sotto un primo profilo, “è necessario che si tratti della rettifica o integrazione di una dichiarazione comunque resa”, nel caso di specie relativa ad un titolo già conseguito, così “risolvendosi in una precisazione che non altera la par condicio fra i concorrenti e la legalità della procedura”, avendo ad oggetto un fatto meramente integrativo di una situazione sostanzialmente già verificatesi ed acquisita.

Sotto un secondo profilo “è necessario che il responsabile del procedimento sia in grado di accorgersi della erroneità o incompletezza della dichiarazione o istanza presentata”.

Sotto un terzo profilo, ritiene, infine, il Tar, si deve tenere conto dell’insegnamento della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9/2014 in base al quale in relazione alle procedure comparative e di massa, caratterizzate dalla presenza di un numero ragguardevole di partecipanti (come nel caso di specie) “si configurano in capo al singolo partecipante obblighi di correttezza - specificati attraverso il richiamo alla clausola generale della buona fede, della solidarietà e dell’auto responsabilità - rinvenienti il fondamento sostanziale negli artt. 2 e 97 Cost., che impongono che quest’ultimo sia chiamato ad assolvere oneri minimi di cooperazione: si pensi al dovere di fornire informazioni non reticenti e complete, di compilare moduli, di presentare documenti ecc. …” e tenendo sempre ben presente che “il divieto del formalismo incontra il limite derivante dalla particolare importanza che assume l’esigenza di speditezza (e dunque di efficienza, efficacia ed economicità), dell’azione amministrativa”.

Peraltro, sottolinea conclusivamente il Tar Milano (discostandosi dall’orientamento espresso dal Tar Veneto nella sent. n. 1048/2015), “non può di per sé rilevare l’esigenza di preferire fra più candidati chi ha adempiuto esattamente a quanto previsto dalla procedura”: ciò non significa che la carenza di diligenza del concorrente nella presentazione della domanda non rilevi, ma che “essa non possa, di per sé ed in assenza di ulteriori circostanze, assurgere ad elemento che impedisca il soccorso istruttorio”. SS


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Inserito in data 22/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 19 gennaio 2016, n. 167

Sulla distinzione tra illeciti permanenti e illeciti istantanei ad effetti permanenti

Discostandosi da quanto sostenuto dall’AGCM e dal Giudice di primo grado, la Sesta Sezione ha qualificato come illecito istantaneo ad effetti permanenti (anziché come illecito permanente) la pratica restrittiva della concorrenza consistente nell’introduzione nel codice deontologico medico di misure volte a limitare l’uso della pubblicità.

Ciò in quanto, secondo il Consiglio di Stato, l’illecito permanente postula che la lesione persista grazie al comportamento dell’agente. Mentre, quando si protraggono nel tempo solo le conseguenze dannose dell’illecito per effetto della mancata rimozione dello stato antigiuridico da parte dell’autore dell’illecito, si ha un illecito istantaneo con effetti permanenti.

La distinzione (illecito permanente e illecito istantaneo con effetti permanenti) rileva sotto il profilo del dies a quo della prescrizione che, soltanto nel caso dell’illecito permanente, si sposta in avanti e coincide col momento in cui viene meno la permanenza. Pertanto, nel caso di specie, è stato annullato il provvedimento sanzionatorio emesso dall’Antitrust, ritenendo che lo stesso fosse intervenuto quando l’illecito amministrativo si era già prescritto. TM



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Inserito in data 21/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 gennaio 2016, n. 189

Invalidità della notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo

Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è nuovamente imbattuto nella tematica concernente la validità/invalidità nel processo amministrativo della notifica a mezzo PEC mostrando un nuovo “irrigidimento” che si pone in contrasto con le recenti pronunce intervenute in materia da parte della stessa Sez. III e della Sez. V del C.d.S., nonché da parte del C.G.A.

In particolare, sostengono i giudici di Palazzo Spada che la notifica dell’atto processuale (nel caso de quo, la notifica dell’appello) effettuata mediante PEC “non è una modalità utilizzabile nel processo amministrativo” in quanto essa non è ammessa in base al disposto di cui all'art. 16-quater, comma 3-bis, del D.L. n. 179/12 come convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 che esclude l'applicabilità alla giustizia amministrativa delle disposizioni idonee a consentire l'operatività nel processo civile del meccanismo di notificazione in argomento.

Precisa il Consiglio che, in questo momento, manca un apposito Regolamento che, così come avvenuto per il processo civile e penale, detti le relative regole tecniche anche per il processo amministrativo e che tale regolamento non può che individuarsi nel D.P.C.M. previsto dall’art. 13 dell’All. 2 al c.p.a. allo stato non ancora intervenuto.

Ne consegue che, solo dopo l’emanazione del suddetto D.P.C.M., “l’intero processo amministrativo digitale avrà una completa regolamentazione e la notifica del ricorso a mezzo PEC potrà avere effettiva operatività ed abbandonare l’inequivocabile ed ineludibile carattere di specialità oggi affermato dall’art. 52, comma 2, c.p.a., che prevede per il suo utilizzo, facendo all’uopo espresso riferimento all’art. 151 c.p.c., una specifica autorizzazione presidenziale, del tutto mancante nel caso all’esame”.

Il Collegio, nel prosieguo della sentenza, dà anche conto della tendenza del processo amministrativo a trasformarsi sempre più in processo telematico, ma afferma chiaramente che tale “tendenza” costituisce solo un “orientamento” che non può portarsi avanti senza regole tecnico-operative concrete, “in assenza delle quali il Giudice amministrativo non può certo sostituirsi al legislatore statuendo l’ordinaria applicabilità di una forma di notifica allo stato ancora non tipizzata”.

Peraltro, aggiunge conclusivamente il Consiglio, la notifica avvenuta mediante PEC costituisce un’ipotesi di inesistenza in alcun modo sanabile (nemmeno con la successiva costituzione in giudizio del soggetto destinatario della notifica); anche a volerla considerare un’ipotesi di nullità ex art. 44, comma 3, c.p.a., “l’eventuale costituzione dell’intimato è sì idonea a sanare la nullità medesima, ma, a differenza che nel processo civile, con efficacia ex nunc, ossia con salvezza delle eventuali decadenze già maturate in danno del notificante prima della costituzione in giudizio del destinatario della notifica, ivi compresa la scadenza del termine di impugnazione”. SS

 



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Inserito in data 20/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 93

Tassatività delle cause d’esclusione e costi di sicurezza esterni

L’articolata fattispecie risolta dal Consiglio di Stato concerne l’esclusione dalla gara di un operatore economico, per la omessa presentazione, insieme all’offerta economica, della dichiarazione di remuneratività e delle giustificazioni, ex art. 87, comma secondo, del codice dei contratti pubblici, relative alle voci di prezzo che concorrono a formare l’importo complessivo del servizio, entrambe richieste dal disciplinare. In sede incidentale, viene affrontato il tema degli oneri di sicurezza esterni.

Confermando la pronuncia del T.a.r. competente, il collegio statuisce primariamente in merito alla tempestività dell’impugnazione introdotta dalla società esclusa. Viene richiamato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui la decorrenza del termine decadenziale si verifica dalla piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione, a prescindere dall’invio di una comunicazione formale ex art. 79, comma quinto, lettera b, del codice dei contratti pubblici, ciò in quanto, l’art. 120, comma quinto, c.p.a., “non prevedendo forme di comunicazione esclusive e tassative, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo”. Si osserva, tuttavia, come nel caso di specie non vi sia stata “certezza della piena conoscenza del contenuto del provvedimento da parte del soggetto che era presente (…) alla seduta (…), in cui è stata disposta l’esclusione (…). Infatti, il verbale non risulta sottoscritto dal Ê»delegato’, né risulta che gliene sia stata consegnata copia; nemmeno consta espressamente dal verbale che sia stata oralmente comunicata ad alta voce la duplice motivazione dell’esclusione, in modo da farla comprendere ai presenti”.  I giudici ritengono, pertanto, plausibile che la piena conoscenza dell’esclusione si sia verificata, ai sensi degli artt. 79, d.lgs. n. 163/2006, e 41, comma secondo, c.p.a., solo a seguito della comunicazione.

Circa la dichiarazione di remuneratività dell’offerta, l’appellante, aggiudicatario della gara, ne prospettava la riconducibilità alla previsione normativa di cui all’art. 106 del regolamento di attuazione del codice dei contratti. Osservano tuttavia i giudici di Palazzo Spada, in consonanza con la pronuncia di prime cure, come la disposizione afferisca al settore dei lavori pubblici, e non a quello dei servizî o delle forniture, cui è riconducibile la gara in questione. Viene pertanto ribadita la nullità della clausola di esclusione (rilevabile anche d’ufficio), per contrasto con l’art. 46, comma primo bis, del codice dei contratti, a mente del quale le circostanze legittimanti un provvedimento di esclusione si individuano in numerus clausus. Una simile dichiarazione apparirebbe, peraltro, “ininfluente in sede di formulazione dell’offerta (posto che la sostenibilità economica può assumere rilevanza soltanto nell’ambito del procedimento di verifica della congruità)”. Si osserva, a margine, come le modalità di compilazione dell’offerta, per altro verso, non avrebbero comunque impedito alla commissione di considerare la dichiarazione come non indispensabile, ai sensi dell’art. 38, comma secondo bis, del codice dei contratti.

In merito alle giustificazioni, l’obbligo di allegazione all’offerta è venuto meno con l’abrogazione dell’originario comma quinto dell’art. 86 del codice dei contratti, e la modifica del successivo art. 87 richiede tali specificazioni solo in via eventuale, nella fase successiva di verifica dell’anomalia. L’appellante sosteneva, tuttavia, che la previsione del disciplinare concernesse un adempimento diverso da quello sancito dall’art. 87, comma secondo, consistente in una “specificazione delle voci di prezzo necessaria per poter individuare una potenziale anomalia”. La tesi sostenuta confliggeva però con l’espressa formulazione adottata, la quale chiaramente allude alla disposizione da ultimo citata. Pertanto il Consiglio di Stato, sempre alla luce dell’art. 46, conferma la dichiarazione di nullità della relativa clausola.

Gli ulteriori profili di lagnanza, suscitati con ricorso incidentale, e successivamente in appello, parimenti non colgono nel segno. Segnatamente, secondo il collegio, l’omessa indicazione degli oneri della sicurezza da rischî da interferenza, c.d. esterni (non di quelli aziendali, c.d. interni – sui quali si è intrattenuta l’adunanza plenaria, con le sentenze nn. 3 e 9/2015), non comporta un vizio dell’offerta quando la specificazione non è univocamente richiesta dalla lex specialis, come avviene nella fattispecie. “Non vi è alcuna norma (infatti) che imponga ai concorrenti, tanto meno a pena di esclusione, di riprodurre nell’offerta la quantificazione dei costi da interferenza già effettuata dalla stazione appaltante; una previsione in tal senso non avrebbe utilità, posto che i concorrenti non possono far altro che tenere conto di detta quantificazione all’atto della formulazione dell’offerta; le radicali differenze che investono la natura dei costi della sicurezza dell’uno e dell’altro tipo impediscono di estendere la regola della necessaria indicazione dei costi aziendali, anche ai costi da rischî da interferenza; l’art. 86, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, dove stabilisce che il Ê»costo relativo alla sicurezza’ debba essere Ê»specificamente indicato’, si rivolge, al tempo stesso: per i costi da interferenza/esterni, alla stazione appaltante, chiamata a fornire detta indicazione in occasione della predisposizione della gara d’appalto; per i costi aziendali/interni, ai concorrenti, ai fini della formulazione dell’offerta”. “Mentre la valutazione della serietà dell’offerta economica, ovvero la volontà di vincolarsi al rispetto delle norme a tutela della sicurezza dei lavoratori – sulla base delle quali l’appellante prospetta la necessità di un’indicazione specifica dei costi della sicurezza esterni – sono demandate alla verifica della congruità, ai sensi degli artt. 86 e 87 del Codice”. FM 


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Inserito in data 20/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 gennaio 2016, n. 103

Trasferimento di un militare per incompatibilità ambientale

Con la pronuncia in esame il Consiglio di Stato decide dell’appello proposto, dal Ministero dell’economia e delle finanze e dal Comando generale della Guardia di finanza, avverso la sentenza d’annullamento di una determinazione recante il trasferimento extraregionale d’autorità e per esigenze di servizio di un appuntato scelto della Guardia di finanza, il cui suocero era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare degli arresti domiciliari, in relazione a un tentativo di estorsione in danno di un suo debitore; il delitto avrebbe dovuto essere materialmente eseguito da due pregiudicati vicini alla criminalità organizzata. Dell’arresto aveva dato notizia ai proprî superiori lo stesso appuntato.

Il giudice di prime cure rilevava che il trasferimento, qualificato come d’autorità e per esigenze di servizio, “è invece correlato a un profilo d’incompatibilità ambientale”; “non è stato dato avviso dell’avvio del procedimento (…), e senza che sussistessero ragioni d’urgenza”; “non è stato considerato che il provvedimento di custodia cautelare era stato già annullato”.

Gli appellanti censuravano la sentenza di primo grado, sostenendo comunque la riconducibilità del trasferimento per ragioni d’incompatibilità ambientale all’ambito dei trasferimenti di autorità. Rilevavano, inoltre, l’appartenenza del provvedimento in questione alla categoria degli ordini, sottratta alle garanzie partecipative, ed espressione di ampia discrezionalità. Sottolineavano infine, come l’amministrazione, chiaramente a conoscenza dell’annullamento del provvedimento custodiale, avesse comunque ritenuto tale circostanza irrilevante, individuandosi “le ragioni del trasferimento (…) nella contiguità del suocero con ambienti malavitosi, e quindi nella negativa ricaduta sia sul prestigio del Corpo che sulla stessa serenità dell’interessato, tenuto conto del particolare contesto territoriale”.

Nella memoria di costituzione in giudizio, l’appellato deduceva l’assoluzione del suocero per insussistenza del fatto ascrittogli.

Nelle note difensive, l’Avvocatura generale dello Stato, rimarcava “l’irrilevanza della sentenza penale assolutoria, che al pari dell’ordinanza custodiale assume mera valenza di fatto storico, laddove l’incompatibilità ambientale si radica in funzione dei rapporti del suocero con soggetti pregiudicati”.

I giudici del Consiglio di Stato rigettano l’appello.

In disparte l’omissione delle formalità partecipative – delle quali, in effetti, la prevalente giurisprudenza nega l’applicabilità ai trasferimenti disposti anche per ragioni d’incompatibilità ambientale, in quanto ricondotti pur sempre alla species dei trasferimenti di autorità, e quindi degli ordini (…), benché un minoritario indirizzo ne valorizzi l’accostamento, in qualche misura, a quelli disciplinari”.

È indubbio che la valutazione della situazione soggettiva che, anche in difetto di comportamenti colpevoli del militare, costituisce la causa funzionale del trasferimento, debba fondarsi su una compiuta e complessiva considerazione dell’episodio di vita, della sua gravità, della sua idoneità concreta, anche in relazione ai compiti disimpegnati dal militare, a ledere il prestigio del reparto o comando di appartenenza, o quantomeno a menomarlo in modo significativo”. “In tale prospettiva, non poteva restare indifferente, però, che la misura custodiale era stata già annullata”, e successivamente era anche intervenuta una sentenza d’assoluzione con formula piena. Peraltro “non sono state addotte circostanze da cui possa desumersi non solo l’adesione, bensì anche soltanto una consuetudine di frequentazione con pregiudicati e con sodalizî criminali”. L’appuntato, poi, “non svolge alcun incarico operativo esterno o di natura investigativa”, e presenta una “situazione familiare di peculiare difficoltà”.

L’atto impugnato, per quanto precede, appare viziato da lacunosità dell’istruttoria, da carenza di motivazione, e da difetto di proporzionalità. FM

 



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Inserito in data 19/01/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 7 gennaio 2016, n. 64

Il GA conosce delle domande risarcitorie da inadempimento degli accordi di programma

La sentenza in esame trae origine da un accordo concluso tra la Regione Campania, la Provincia di Caserta e i Comuni di Maddaloni e di Marcianiese; la società privata, che nell’accordo era indicata come quella che avrebbe realizzato l’intervento concordato, era intervenuta all’accordo, impegnandosi ad adempiere a tutti gli obblighi ivi previsti.

Secondo le Sezioni Unite, detto accordo va qualificato come accordo di programma ai sensi dell’art. 27 della L. n. 241/90 (successivamente trasfuso nell’art. 34 del d.lgs. n. 267/00), ossia “una convenzione tra Regioni, Province e Comuni ed altre amministrazioni pubbliche, mediante la quale le parti coordinano le loro attività per la realizzazione di opere, interventi o programmi di intervento che richiedono, per la loro realizzazione, l’azione integrata e coordinata di due o più tra i soggetti predetti”; mentre l’impegno assunto dal privato deve essere ricondotto agli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento di cui all’art. 11 della L. 241/90.

Poiché tra gli accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15 L. n. 241/90 e gli accordi di programma sussiste un rapporto di genere a specie, ne consegue che la disciplina prevista per i primi si applica anche ai secondi; in particolare, l’art. 11 della L. 241/90 (oggi transitato nell’art. 133 c.1 lett. a n. 2 C.P.A.) – che riserva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi – deve  applicarsi anche all’accordo in esame, in quanto  richiamato dall’art. 15 c. 2 della stessa legge.

Ciò premesso, secondo le Sezioni Unite, la domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento degli obblighi assunti dalla società privata con l’accordo in questione appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché attiene alla fase dell’esecuzione di un accordo di programma tra enti pubblici volto alla realizzazione di un interesse pubblico e cui ha aderito una società privata. TM

 




Inserito in data 19/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 15 gennaio 2016, n. 109

Sull’insussistenza di un obbligo a contrarre la cessione bonaria in capo all’espropriante

Secondo la Quarta Sezione, “deve recisamente escludersi che possa affermarsi la sussistenza, in capo all’amministrazione, di un obbligo a contrarre, attribuendo effetti obbligatori alla comunicazione della misura dell’indennità di esproprio seguita da manifestazione di disponibilità dell'interessato ad addivenire alla cessione bonaria”.

Ciò in quanto, come ha precisato la Cassazione, “nell'intervenuto scambio fra le parti dei due atti (la comunicazione dell'espropriante e la dichiarazione di condivisione dell'espropriando) non è ravvisabile un contratto preliminare rispetto a quello successivo di cessione volontaria del bene perché nessuno degli atti in questione ha un contenuto volitivo, ma solo conoscitivo nel senso che il primo dei due si limita a fornire alla controparte gli elementi di conoscenza necessari perché questi possa consapevolmente decidere di optare per il proseguo del procedimento oblatorio, ovvero per una soluzione negoziale, mentre il secondo, a sua volta, si limita a dichiarare che condivide la stima effettuata dal primo, dichiarandosi, quindi, disponibile ad una cessione su base negoziale del terreno”.

Pertanto, “ciò che è precluso all'Amministrazione è di procedere all'esproprio se l'interessato ha dichiarato la disponibilità alla cessione bonaria e in tal senso deve intendersi che " il proprietario ha il diritto di stipulare col soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà”, secondo la formulazione dell’art. 45 del d.P.R. n. 327/2001, e non anche che l'Amministrazione sia obbligata a stipulare il negozio di cessione bonaria, salva naturalmente la scadenza dei termini per le espropriazioni e quindi del vincolo espropriativo”. TM

 



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Inserito in data 18/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 14 gennaio 2016, n. 91

Niente “DASPO” se non c’è scavalcamento di barriera

È illegittimo il divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive (c.d. DASPO) emesso nei confronti di un tifoso che non abbia oltrepassato la barriera che delimita i settori delle tifoserie – questo, sinteticamente, quanto affermato nella pronuncia in epigrafe dalla terza sezione del Consiglio di Stato.

Preliminarmente, il Collegio, con riguardo alla presunta inammissibilità del ricorso introduttivo dichiarata dal T.A.R. di Bari, in quanto notificato a mezzo p.e.c., chiarisce - richiamando recente giurisprudenza del Consiglio di Stato - che “la mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, cod. proc. amm. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo posta elettronica certificata, atteso che, nel processo amministrativo, trova applicazione immediata la legge 53/1994 (ed in particolare gli articoli 1 e 3 bis), nel testo modificato dall’art. 25 comma 3, lett. a) della legge 183/2011, secondo cui l’avvocato può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale… a mezzo della posta elettronica certificata di Stato”.

Poi, nel merito, passando all’esame della censura dedotta dall’appellante avverso il provvedimento impugnato, i giudici di palazzo Spada osservano che l’art. 6-bis, comma 2, della lege n° 401 del 1989 (richiamata dallo stesso art. 6 della medesima legge) concerne una fattispecie diversa rispetto a quella contestata al ricorrente, prendendo in considerazione, infatti, il comportamento di chi “… supera indebitamente una recinzione o separazione dell’impianto ovvero, nel corso delle manifestazioni sportive, invade il terreno di gioco….”.

Quindi, la richiamata disposizione – ed il relativo trattamento sanzionatorio - sarebbe applicabile nelle sole ipotesi in cui sia stato accertato lo scavalcamento od il superamento, da parte del tifoso, di un ostacolo materiale, fattispecie che, nel caso concreto, non risulta essere stata provata, essendosi invece l’appellante semplicemente arrampicato alla barriera senza tuttavia oltrepassarla.

La formulazione complessiva degli artt. 6 e 6-bis, nel testo attualmente vigente, rivela l’intenzione del legislatore di individuare una serie di fattispecie tipiche, dettagliatamente specificate, e ciò sembrerebbe escludere la possibilità di estensioni interpretative o analogiche, quanto meno quando il fatto non abbia prodotto, come nel caso di specie, turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica.

Pertanto, il Supremo Consesso ha ritenuto che la fattispecie non potesse considerarsi riconducibile alla previsione di cui all’art. 6-bis ai fini dell’applicazione del DASPO, e per tali ragioni, ha annullato il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo. MB

 



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Inserito in data 18/01/2016
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 5 gennaio 2016, n. 29

La pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite hanno respinto la prospettazione contenuta nell’ordinanza interlocutoria con la quale la Sezione VI, in presenza di non univoci orientamenti della Corte, sollecitava – ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. “il riesame del dibattuto rapporto di pregiudizialità tra la questione di giurisdizione e quella di competenza – ritenendo, la corte rimettente – condivisibile l’opinione risalente, un tempo maggioritaria, che la competenza rivesta carattere prioritario: giacché l’accertamento della spettanza della giurisdizione (…) non può che essere decisa dal giudice in astratto competente per materia, valore e territorio a conoscere la controversia, sulla base della prospettazione della domanda”.

La Suprema Corte, diversamente opinando, osserva che “in un ordinamento giurisdizionale connotato da più giurisdizioni – ciascuna con proprie e specifiche attribuzioni giurisdizionali – il diritto alla tutela giurisdizionale, la garanzia del giudice naturale e gli stessi principi del giusto processo … per risultare pienamente ed effettivamente realizzati, esigono la massima certezza quanto all’individuazione del giudice legittimato alla cognizione della controversia relativamente alla quale si chiede tutela: innanzitutto del giudice – ordinario, amministrativo, speciale – al quale è attribuita, secondo Costituzione, tale cognizione (potestas judicandi) e, soltanto in seconda e definitiva approssimazione, del giudice al quale è concretamente attribuita, secondo l’ordinamento processuale di ciascuno ordine giurisdizionale stabilito con legge ordinaria, la cognizione medesima (potestas decidendi)”.

Quindi, da tali considerazioni, le Sezioni Unite traggono il principio di diritto secondo cui “la pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto alla questione di competenza – in quanto fondata sulle norme costituzionali relative al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, comma 1), alla garanzia del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, comma 1), ai principi del giusto processo (art. 111, commi 1 e 2), all’attribuzione della giurisdizione a giudici ordinari, amministrativi e speciali ed al suo riparto tra questi secondo criteri predeterminati (art. 102, commi 1 e 2, art. 103, VI disp. trans. e fin.) – può essere derogata soltanto in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, come, ad esempio, nei casi di mancanza delle condizioni minime di legalità costituzionale nell’instaurazione del giusto processo, oppure della formazione del giudicato, esplicito od implicito, sulla giurisdizione”.

E proprio le considerazioni sull’affermata pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto alla questione di competenza – prosegue il supremo Collegio – consente di esaminare il quesito nello specifico posto dalla fattispecie processuale in questione, ovvero se “nel caso in cui avverso una sentenza (di primo grado)  con la quale il giudice ordinario adito abbia esaminato e deciso sia una questione di giurisdizione, dichiarando espressamente la giurisdizione del giudice ordinario, sia una questione di competenza, declinando la propria competenza ed indicando il diverso giudice ritenuto competente – sia stato proposto regolamento di competenza, la Corte di cassazione possa o meno, in tale sede, rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione del giudice ordinario originariamente adito”.

Il Collegio ha ritenuto che nella fattispecie, non operando la preclusione pro judicato sulla dichiarazione di giurisdizione del giudice ordinario pronunciata dal giudice a quo (e neppure l’adesione della ricorrente a detta pronuncia), l’applicazione dell’art. 37 c.p.c. consente di riesaminare, d’ufficio, la questione di giurisdizione.

In particolare – hanno affermato del Sezioni Unite – ogni giudice adito, qualora egli stesso  o la parte – dubiti della sua competenza, deve sempre preliminarmente verificare, anche d’ufficio, la sussistenza della propria giurisdizione e, solo in un momento successivo, in caso affermativo, la sussistenza della propria competenza, nel rispetto delle prescrizioni dettate dall’art. 38 c.p.c., diversamente operando la previa “statuizione sulla sola questione di competenza potrebbe risultare inutiliter”, qualora il giudice adito fosse poi dichiarato privo di giurisdizione, oltreché collidente con i principi di economia processuale e del giusto processo.

Quindi, Le Sezioni Unite civili, muovendo dall’affermazione della pregiudizialità della questione di giurisdizione rispetto a quella di competenza, derogabile solo in forza di norme o principi della Costituzione o espressivi di interessi o di valori di rilievo costituzionale, hanno conclusivamente affermato che, qualora sia stato proposto regolamento di competenza (facoltativo) avverso una sentenza di primo grado declinatoria della competenza, la Corte di cassazione, non essendosi formato il giudicato sulla giurisdizione, giusta l’art. 43, comma 3, primo periodo, c.p.c., possa rilevarne d’ufficio l’eventuale difetto da parte del giudice ordinario adito ai sensi dell’art. 37 c.p.c.

Da ultimo, con riferimento alla giurisdizione in materia di opposizione ad ingiunzione fiscale per il pagamento dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) - “imposta da qualificarsi come tributo e non come entrata patrimoniale pubblica extratributaria” - gli Ermellini hanno espresso il principio per cui “la controversia promossa dal contribuente – ai sensi dell’art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n° 639, nel testo sostituito dall’art. 34, comma 40, del d.Lgs. 10 settembre 2011, n° 150, e disciplinata dall’art. 32 dello stesso d.Lgs n° 150 del 2011 – avverso l’ingiunzione fiscale, emessa dal comune in pendenza del giudizio tributario promosso contro l’avviso di accertamento ai sensi dell’art. 68 del d.Lgs n° 546 del 1992 e quindi sostanzialmente equivalente all’iscrizione dell’imposta nel ruolo notificata al contribuente, è assimilabile alla controversia avente ad oggetto l’impugnazione del ruolo, con la conseguenza che la controversia medesima, alla luce del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, primo periodo, e 19, comma 1, lett. d) del d.Lgs. n° 546 del 1992, e 15 del d.Lgs. n° 504 del 1992, è attribuita alla giurisdizione del giudice tributario”. MB

 




Inserito in data 16/01/2016
CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 13 gennaio 2016, n. 1035

Guida in stato d’ebbrezza e particolare tenuità del fatto – ex art. 131 bis cp.

Il Collegio della Quarta Sezione della Corte di Cassazione penale interviene – con la pronuncia di cui in epigrafe – in seno all’attualissimo dibattito circa l’applicabilità dell’articolo 131 bis – introdotto al codice penale dall’articolo 1 – co. 2’ del D. Lgs. 16 marzo 2015, n. 28. "Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67".

I Giudici, infatti, delimitano l’operatività e l’applicabilità della suddetta norma nel caso in esame in cui, il sinistro stradale, pur procurato da un soggetto incensurato, aveva inciso sulla sicurezza di più soggetti – a seguito dello scontro con un autobus.

Peraltro, il tasso alcolemico presentato dall’autore del sinistro era di ammontare triplo rispetto al consentito.

Come si vede, uniformemente a quanto già notato dai primi Commentatori di tale arresto, il Collegio adopera – ai fini della decisione -  valutazioni di buon senso che, per quanto non del tutto rilevanti nel caso in esame, risultano comunque decisive al fine di individuare la portata applicativa del nuovo articolo 131 bis del codice penale.

I Giudici, infatti, sottolineano - in merito alla guida in stato d'ebbrezza - la natura di reato di pericolo e non di evento e, in quanto tale, ricordano come – in casi simili - sia maggiormente rilevante la mera condotta dell’imputato più che le modalità in cui la stessa si è articolata.

In forza di tali valutazioni e, peraltro in linea con l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite penali - n. 19089/15 con cui è stato posto il quesito circa l’operatività e l’estensione applicativa  dell’articolo 131 bis, la Quarta Sezione decide di non garantirne l’applicabilità al caso in esame, in cui l’imputato, invero, ha mostrato una condotta del tutto dissonante rispetto alla mera tenuità. CC 




Inserito in data 16/01/2016
TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 5 gennaio 2016, n. 1

Disattivazione e rimodulazione punti nascita

La pronuncia in esame è degna di nota giacchè interviene in un ambito di estrema attualità, quale quello relativo alla riorganizzazione del piano sanitario – in particolare riguardo alla rimodulazione dei punti nascita in taluni ospedali ubicati in centri abitativi di piccole dimensioni.

Infatti, per quanto riguardi ovviamente vicende più risalenti (Accordo sanità Stato – Regioni del 2010), si evidenzia comunque la piena apertura del Prefetto abruzzese il quale, consapevole delle nuove richieste formulate – da ultimo – alle competenti, attuali strutture ministeriali sanitarie, ha manifestato – a ridosso dell’udienza di discussione qui esaminata – la propria volontà di riconsiderare la questione, solo se e quando vengano a monte ripensate le disposizioni direttive che hanno determinato l’adozione degli atti oggi impugnati.

In specie, il Comune ricorrente, nel caso in esame, impugnava il decreto con cui il Prefetto di una provincia abruzzese - nella qualità di Commissario ad acta - aveva disposto talune misure restrittive della sanità locale, con particolare attenzione ad un punto nascita sito in un territorio particolarmente ridotto.

I Giudici aquilani sanciscono l’infondatezza dell’impugnativa, negando – in primo luogo – che il decreto commissariale gravato si fosse fondato su presupposti falsi.

La valutazione fatta dal Prefetto, infatti, prendeva in considerazione un lasso di tempo abbastanza consistente – pari ad un triennio, nel corso del quale era prevedibile che fossero state rispettate le oscillazioni nel numero dei parti e, quindi, fosse stato rasentato il limite quantitativo minimo previsto dal Piano per la Sanità censurato.

Ricorda il Collegio che, il limite minimo costituisce, come anche ribadito dal Consiglio di Stato, “prerequisito dimensionale in carenza del quale le ripetute Linee di indirizzo non ammettono deroghe (Cfr. sentenza n. 4393 del 2014. Nello stesso senso, Tar Puglia, Bari, n. 428 del 2015). Ne consegue che “la mancanza di tale prerequisito è perciò la ragione primaria e sufficiente della prevista disattivazione, a prescindere dalle motivazioni economico finanziarie della revisione della rete ospedaliera imposta dal piano regionale di rientro” (Cfr. sentenza consiglio di Stato 4393/14 cit.).

Pertanto, chiosa il Collegio abruzzese, la determinazione commissariale di disattivazione del Punto nascita risulta conforme ai criteri numerici stabiliti nel vincolante accordo Stato-Regioni del 2010.

I Giudici proseguono nel contestare le doglianze di parte ricorrente, ove questa lamentava l’inattendibilità delle tempistiche delineate dall’ASL intimata, nel suo crono programma, per la definizione di talune misure organizzatorie interne.

Ad avviso del Collegio, tali censure si palesano peraltro inammissibili, perché non lamentano l’illegittimità delle previsioni temporali del cronoprogramma, bensì l’impossibilità pratica di rispettarle, con conseguenti disservizi sull’utenza. In buona sostanza, si contesta, non già l’auspicabile “contestualità” fra disattivazione del punto nascita e rinforzo organizzativo delle strutture sostitutive, bensì la presunta superficialità con cui l’ASL avrebbe rassicurato l’utenza, sui temuti disservizi post chiusura.

Pertanto, data l’evidente iniquità del gravame e la mancanza di vere e proprie censure di legittimità che dovrebbero costituirne il fondamento, il Collegio approda alla relativa declaratoria di inammissibilità.

Esso ricorda, peraltro, la possibile esperibilità - in favore dell'utenza - dell’azione avverso il silenzio – rifiuto – ex artt. 31 e 117 CPA e le connesse pretese risarcitorie – ex art. 2 bis L. 241/90 – nelle ipotesi in caso di proseguito impasse dell’Amministrazione sanitaria – quale qui solo ipotizzato. CC



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Inserito in data 15/01/2016
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 14 gennaio 2016, n. 2

Politiche sociali provincia Trento e vulnus alla Convenzione di NY e all’articolo 38 della Costituzione

I Giudici della Consulta sono chiamati ad intervenire su una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trento con riguardo all’articolo 18 della legge della Provincia autonoma di Trento 27 luglio 2007, n. 13 (Politiche sociali nella provincia di Trento), ritenendolo presuntivamente in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione e con l’articolo 4 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Testo unico delle leggi costituzionali concernente lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), in relazione alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata e resa esecutiva con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità).

Più nel dettaglio, il Giudice a quo ravvisa il contrasto ove la norma interna, a dispetto delle previsioni convenzionali, richieda la necessaria cooperazione del nucleo familiare cui appartiene il soggetto disabile.

Le doglianze del Tribunale trentino si fondano, in sostanza, sulla ritenuta, ma erronea valutazione secondo cui la predetta Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (evocata quale parametro interposto della dedotta violazione dell’articolo 4 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché l’articolo 38, primo comma, della Costituzione, avrebbero posto la condizione individuale e autonoma della persona disabile come specifico ed esclusivo oggetto di protezione. Ne deriverebbe – ad avviso del Rimettente - che, ai fini della conformazione degli istituti di assistenza, non possa né debba assumere alcuna rilevanza la situazione del relativo nucleo familiare: non soltanto sul piano delle garanzie e dei diritti della persona interessata, ma anche – ed è questo il punto che rileva agli effetti del presente scrutinio – sul versante dei possibili doveri o obblighi dei suoi familiari.

Il Collegio della Consulta, investito della questione, ne coglie da subito l’iniquità.

In primo luogo, con riferimento ai dettami della Convenzione del 2006 – i Giudici costituzionali negano la ritenuta tendenza a valutare il soggetto disabile quale distinto e separato dal restante nucleo familiare.

Evidenzia il Collegio che, semmai ed in forza delle ultime tendenze giurisprudenziali e normative, è proprio la famiglia la sede privilegiata del più partecipe soddisfacimento delle esigenze connesse ai disagi del relativo componente, così da mantenere intra moenia il relativo rapporto affettivo e di opportuna e necessaria assistenza, configurando solo come sussidiaria – e comunque secondaria e complementare – la scelta verso soluzioni assistenziali esterne (Cfr. sentenza n. 203 del 2013) e che, da tale impostazione sociologica e culturale – propria del nostro Ordinamento - i principi convenzionali non si discostano in alcun modo.

Diversamente, infatti, la Convenzione finirebbe con l’incidere in un ambito – quale quello della individuazione delle disabilità e del necessario sostegno sul piano economico – tradotto nel nostro sistema agli articoli 433 e ss. del codice civile e verrebbe meno, pertanto, la ragion d’essere della portata auto - applicativa della Convenzione in seno al nostro Stato – stante l’eventuale contrarietà a principi fondanti il relativo sistema giuridico.

Occorre ricordare, piuttosto, come il nucleo della Convenzione ruoti essenzialmente, intorno all’avvertita esigenza di conformare i vari ordinamenti interni in chiave non già meramente protettiva delle persone con disabilità, ma piuttosto in una prospettiva dinamica e promozionale, volta a garantire a ciascuna di esse la più efficace non discriminazione.

Appare infondata, pertanto, la prima doglianza mossa dal Tribunale trentino.

Del pari, i Giudici della Consulta sanciscono l’infondatezza della questione sollevata anche con riguardo alla lamentata incisione del parametro costituzionale di cui all’articolo 38.

Essi, evidenziando – in primo luogo - la carenza motivazionale dell’ordinanza di rimessione, sottolineano, altresì, come la garanzia costituzionale del «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» presuppone che la persona disabile sia «sprovvista dei mezzi necessari per vivere» e che, pertanto, l’accertamento di questa condizione di effettiva indigenza possa richiedere anche una valutazione delle condizioni economiche dei soggetti tenuti all’obbligo alimentare.

Ove così non fosse, ricorda la Consulta, verrebbero a poter irragionevolmente godere dello stesso trattamento di assistenza e di mantenimento, con conseguente identico carico finanziario e sociale, tanto le persone con disabilità individualmente e “familiarmente” non abbienti, quanto quelle prive di reddito ma concretamente assistite o anche potenzialmente assistibili da familiari con consistenti possibilità economico-patrimoniali.

In ragione di ciò è facile, quindi, evidenziare l’infondatezza di ambedue le censure mosse dal Giudice trentino. CC 


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Inserito in data 14/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 26

Lottizzazione abusiva: rilevanza o meno del carattere risalente o della condonabilità degli interventi

I giudizi (riuniti) oggetto della decisione de qua  afferiscono ad un’unica vicenda amministrativa sostanziale, ovvero alla “lottizzazione abusiva” ipotizzata dall’Amministrazione comunale in relazione ad aree di proprietà degli appellanti - derivanti tutte dal frazionamento di una medesima area originaria - e contestata con provvedimenti coevi, frutto di sopralluoghi svolti in un medesimo lasso temporale e culminati in un’ingiunzione di rimozione delle opere abusive, sotto comminatoria di acquisizione delle aree al patrimonio comunale.

La questione centrale sottesa a tutti i giudizi riuniti concerneva, nello specifico, la presunta insussistenza dei presupposti per la configurabilità della fattispecie della lottizzazione abusiva ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, ipotizzata dall’Amministrazione nelle ordinanze impugnate in prime cure.

In particolare, il Collegio, nella valutazione della questione, si è richiamato al costante e consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “in presenza di riscontrati abusi edilizi sul territorio, l’intento lottizzatorio (..) può essere legittimamente desunto da una pluralità di elementi indiziari, anche di per sé non univocamente significativi, ma che nel loro complesso denuncino in modo ragionevolmente inequivoco la strumentalità degli abusi al perseguimento delle suindicate finalità”.

Nel caso in esame, i giudici della IV sezione hanno ritenuto ragionevole e adeguatamente motivata la conclusione dell’Amministrazione che ha desunto l’intento lottizzatorio da plurimi e concordanti indizi, quali, tra tutti, la circostanza che i lotti derivassero dal frazionamento di un’unica e vasta area, la contestualità temporale delle vendite delle singole aree, ed ancora la realizzazione di interventi edilizi abusivi incompatibili con l’originaria destinazione dell’area.

In particolare, ai fini della configurazione della fattispecie della lottizzazione abusiva, ciò che più rileva – ha sottolineato il Collegio - è il discendere degli abusi dall’iniziale frazionamento dell’area, fatto, questo, idoneo a dimostrarne la coerenza con il divisato intento lottizzatorio, “inteso nella comune accezione, come volontà di realizzare un non consentito frazionamento dei suoli, o comunque di alterarne surrettiziamente la destinazione urbanistica in contrasto con gli strumenti vigenti”.

Oltretutto, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, alcuna rilevanza avrebbe potuto rivestire “la circostanza che taluni singoli interventi edilizi possano essere stati sanati a seguito di istanza di condono, o addirittura che potessero essere stati ab initio assentiti dal Comune, dovendo considerarsi non già le singole porzioni di suolo in modo isolato e atomistico, ma lo stravolgimento della destinazione di zona nel suo complesso”.

Neanche la buona fede dei ricorrenti che avessero, eventualmente, assunto di aver acquistato i lotti solo a valle del frazionamento dell’area - hanno osservato conclusivamente i giudici della IV sezione - avrebbe potuto incidere negativamente ai fini della riconducibilità della fattispecie ad un’ipotesi di “lottizzazione abusiva”, atteso che essa – per costante orientamento giurisprudenziale – “opera in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali se del caso potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni con i propri danti causa”.

Sulla base dei superiori rilievi, il Collegio ha quindi respinto i ricorsi (riuniti) proposti e confermato le impugnate sentenze rese dal T.A.R. della Lombardia. MB

 



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Inserito in data 14/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 11 gennaio 2016, n. 49

È necessario individuare l’autore responsabile dell’abuso prima di emettere un’ordinanza di demolizione

Con la pronuncia de qua, la VI sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello, formulato da una società attiva nel settore della formazione professionale, avverso la sentenza resa dal T.A.R. del Molise con la quale era stato dichiarato irricevibile, per tardività, il ricorso proposto contro il provvedimento con cui l’amministrazione comunale - contestato il presunto cambio di destinazione d’uso dell’edificio e l’abusiva realizzazione di opere edili in assenza di permesso di costruire - aveva ingiunto al legale rappresentante della società, nella sua qualità, l’immediata demolizione e riduzione in pristino dello stato dei luoghi.

Il caso in esame rappresenta l’occasione, per i giudici di palazzo Spada, per ribadire l’obbligo, incombente sull’Amministrazione, di accertare, prima di procedere all’emissione di un’ordinanza di rimozione o demolizione, “l’autore responsabile dell’abuso” edilizio compiuto in difformità od in assenza di permesso, ovvero con variazioni essenziali.

Stando alla prospettazione formulata dall’appellante, l’Amministrazione avrebbe erroneamente rivolto al rappresentante legale della società, nella sua qualità, l’ordine di immediato ripristino dello status quo ante dei luoghi, senza aver, tuttavia, nello specifico indicato gli elementi in fatto ed in diritto che l’avevano indotta ad individuarlo quale corretto destinatario del provvedimento.

In particolare, è emerso come, seppur il Comune - con finalità meramente cautelativa - avesse richiamato, nel gravato provvedimento, gli articoli “seguenti” all’art. 31 del d.P.R. n. 380/2001, “evidenti ragioni di garanzia connesse ai principi di tipicità e tassatività delle fattispecie sanzionatorie imponessero all’amministrazione di indicare in modo puntuale le condotte contestate ed i relativi riferimenti normativi”.

Essendo apparso inequivoco che l’Ente avesse inteso circoscrivere al solo citato art. 31 il possibile fondamento normativo dell’ingiunzione, il Collegio ha precisato che deve, nella fattispecie, trovare necessaria applicazione il terzo comma del medesimo articolo il quale espressamente prevede che “il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso la rimozione o la demolizione”.

Nello specifico, l’Amministrazione, esclusa agevolmente la qualità di “proprietario” dell’edificio della società ricorrente, in spregio alla lettera della disposizione, ha erroneamente ritenuto di poter individuare nell’appellante il soggetto “responsabile dell’abuso” – destinatario, quindi, dell’ingiunzione - senza tuttavia allegare alcuna circostanza idonea a supporto e senza fornire, sul punto, ulteriori e puntuali elementi motivazionali.

I giudici di palazzo Spada hanno inoltre ritenuto fondato il motivo di appello afferente il contestato mutamento d’uso dell’immobile, condividendo le osservazioni rese sul punto dal ricorrente secondo cui l’attività svolta nei locali oggetto di causa - censiti con destinazione d’uso commerciale - rivestisse concretamente carattere commerciale.

Oltretutto – ha precisato la VI sezione – ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a) del citato d.P.R. n. 380/2001, “il mutamento della destinazione d’uso costituisce variazione essenziale ai sensi del precedente art. 31 solo laddove essa abbia comportato variazione degli standard previsti dal d.m. 2 aprile 1986” – variazione della quale, nel caso di specie, non è stata data prova da parte dell’Amministrazione che, nel provvedimento impugnato in primo grado, ha invece erroneamente presupposto “una piena assimilazione fra il mutamento di destinazione d’uso e la realizzazione di una variazione essenziale in quanto tale”. MB

 



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Inserito in data 13/01/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III - 7 gennaio 2016, n. 121

La giurisdizione in tema di scissione dei pagamenti (cd. split system) per l’IVA

I giudici del Tar Roma si sono pronunciati sulla giurisdizione in materia di controversie che concernono gli atti regolamentari che istituiscono o disciplinano tributi di qualsiasi genere ed, in particolare, di quelli che hanno introdotto il meccanismo di scissione dei pagamenti (cd. split system) dell’IVA.

Il criterio discretivo fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione tributaria è costituito dal tipo di potere esercitato dall’amministrazione: “se è in discussione l’esercizio di un potere discrezionale, per di più a carattere generale, trattandosi di atti a contenuto normativo destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti, nei confronti degli stessi non vi è giurisdizione del giudice tributario ma di quello amministrativo”.

Afferma il Tar, ribadendo l’orientamento espresso dal giudice regolatore della giurisdizione, che è affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice tributario la tutela del contribuente riguardo ai “tributi di ogni genere e specie”, in base all'art. 2, comma 1, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come modificato dall'art. 12, comma 2, l. 28 dicembre 2001, n. 448. Tale tutela, nondimeno, può svolgersi solo attraverso l'impugnazione di specifici atti impositivi dell'amministrazione finanziaria, nell'inammissibilità di ogni accertamento preventivo, positivo o negativo del debito di imposta, sia dinanzi alle commissioni tributarie, che dinanzi al giudice ordinario.

Ove, invece, manchi uno specifico atto impositivo, nella richiesta del cui annullamento consiste il petitum sostanziale idoneo a radicare la giurisdizione esclusiva del giudice tributario, questo, in mancanza della “mediazione” rappresentata dall'impugnativa dell'atto impositivo, non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere, incidenter tantum ed entro confini determinati, solo ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell’atto amministrativo presupposto dell'atto impositivo impugnato.

Nel caso di specie, come sopra evidenziato, la ricorrente contesta, in via principale ed esclusiva, non già uno specifico atto impositivo, bensì la legittimità di un atto amministrativo generale il quale ha introdotto l’istituto della scissione dei pagamenti dell’IVA che, per effetto della nuova disciplina deve essere versata dalla Regione direttamente all’Erario.

Ne consegue, conclude il Tar, che la controversia in esame non riguarda la fase del procedimento impositivo, vale a dire il vero e proprio rapporto tributario tra il contribuente e l'Ente locale, bensì l’iter procedimentale che precede il sorgere dell'obbligazione tributaria e che sfocia nell'adozione di un atto amministrativo generale assunto dall’Amministrazione, pertanto la giurisdizione appartiene al giudice amministrativo. SS

 



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Inserito in data 13/01/2016
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 22 dicembre 2015, n. 740

L’interpretazione del nuovo divieto di rideterminazione della media e della soglia di anomalia 

Nella sentenza de qua, il C.G.A.R.S. si è interrogato sull’interpretazione dell’art. 38, comma 2 bis del Codice dei contratti così come introdotto dal d.l. 90/2014 nella parte in cui ha sancito il divieto di procedere al ricalcolo della media dopo la fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte.

Innanzitutto, il Collegio ha delineato il perimetro applicativo della disposizione precisando che essa vada interpretata nel senso di “non permettere qualsiasi successiva variazione della media e della soglia di anomalia o per effetto di una pronuncia giurisdizionale o in ragione di provvedimenti adottati dall’amministrazione in sede di autotutela”.

 Tale interpretazione risponde alla finalità perseguita dal legislatore di giungere alla rapida stipulazione ed esecuzione del contratto, peraltro, per evitare qualunque dubbio di legittimità costituzionale, va precisato che per l’interessato – ostacolato dalla norma nell’acquisire il bene della vita cui aspirava – resta impregiudicata la possibilità del rimedio risarcitorio per equivalente nonché le connesse responsabilità dell’amministrazione e dei funzionari per il loro operato.

In secondo luogo, il C.G.A. si è interrogato su quale sia il momento a partire dal quale opera per l’amministrazione il divieto di agire in autotutela. A tal fine, il Consiglio ha sposato una tesi in base alla quale il potere di agire in autotutela è vietato dalla norma de qua solo dopo che la stazione appaltante ha adottato il provvedimento di aggiudicazione definitiva.

Precisa il Collegio che “nonostante il fatto che la norma possa legittimare una diversa interpretazione (maggiormente restrittiva del potere dell’amministrazione di agire in autotutela, escludendo tale possibilità sin dall’atto di ammissione o di esclusione), ragioni di carattere sistematico e logico impongono la soluzione che esclude il potere della stazione appaltante di agire in autotutela solo dopo l’adozione dell’atto di aggiudicazione definitiva, rimanendo possibile prima di tale momento”.

Ragionando diversamente, l’utilizzo della locuzione “successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte” significherebbe che l’amministrazione non possa “ritornare sui suoi passi”, agendo in autotutela, dopo che, nel momento destinato alla verifica dei requisiti, abbia ammesso o escluso un operatore economico e, dunque, già sin dalla seduta in cui, aperta la busta, sia stata decisa l’ammissione o l’esclusione.

Si avrebbe, conseguentemente, che, ammesso o escluso un operatore economico, l’amministrazione non potrebbe rivedere la sua scelta a prescindere dal momento in cui si è accorta dell’errore (prima dell’aggiudicazione provvisoria, dopo l’aggiudicazione provvisoria e prima di quella definitiva, dopo l’aggiudicazione definitiva). Peraltro, l’operatore pretermesso non avrebbe la possibilità di ottenere una revisione in autotutela dell’operato dell’amministrazione (e l’aggiudicazione in suo favore) e, potrebbe agire solo per il risarcimento del danno, sempre che si accolga la tesi che ammette tale possibilità. SS



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Inserito in data 12/01/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 12 gennaio 2016, n. 59

È ammesso solo il controllo estrinseco sui giudizi sul rendimento degli ufficiali della GDF

La sentenza in esame tratta la tematica dell’intensità del controllo giurisdizionale sui giudizi valutativi sul rendimento del personale della Guardia di Finanza.

Secondo il collegio, “ogni valutazione espressa per la formazione dei quadri di avanzamento al grado superiore goda di specifica autonomia, senza che un giudizio successivamente formulato possa essere vincolato ad uno precedentemente espresso”. ”E ciò a maggior ragione quando, come nella specie, il giudizio in contestazione non attenga né allo stesso grado già precedentemente scrutinato ma ad altro grado, né allo stesso periodo, con ciò ancor più giustificandosi una possibile diversità dei risultati e la non invocabilità del “principio di continuità logica delle valutazioni””.

Pertanto, “il controllo giurisdizionale dei giudizi valutativi sul rendimento, sulle capacità lavorative e sulle attitudini del personale militare è assai limitato, in quanto si tratta di una tipica valutazione di "merito" riservata all'Amministrazione militare”. In particolare, “il giudicante deve limitarsi al mero riscontro di eventuali profili sintomatici dell'eccesso di potere, inteso sia nelle figure tradizionali sia in quelle più evolute del sindacato di ragionevolezza e di proporzionalità (in particolare nel caso in cui i fatti accertati e posti a fondamento del giudizio valutativo si rivelino insussistenti, oppure, ancorché effettivamente sussistenti, siano stati macroscopicamente travisati nel loro valore tale da indurre alla formulazione di valutazioni del tutto inverosimili, la cui erroneità sia talmente palese da essere percepibile da chiunque)”. TM 


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Inserito in data 12/01/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 12 gennaio 2016, n. 67

Se nel bando i costi per la sicurezza sono già stimati, l’offerente non deve esplicitarli

La pronuncia segnalata riguarda una procedura di affidamento di appalti pubblici e desta interesse, soprattutto, sotto due profili.

Da un canto, si chiarisce l’ambito applicativo del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 3 del 2015. Segnatamente, l’Adunanza Plenaria aveva affermato che anche i concorrenti alle procedure di affidamento di lavori hanno l’obbligo di esplicitare i costi per la sicurezza a prescindere dalla sussistenza di una prescrizione del bando in tal senso e a pena di esclusione dalla gara. Ad avviso della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, “il principio di diritto di cui alla invocata decisione dell’Adunanza Plenaria non è applicabile alla fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio, riguardando un caso in cui la Stazione appaltante non aveva in alcun modo specificato e predeterminato i costi della sicurezza c.d. interni”. ”Nella lex specialis dell’appalto di cui trattasi, al contrario, tali costi sono stati puntualmente stimati”.

D’altro canto, ci ricorda che la stazione appaltante può caducare in autotutela l’aggiudicazione provvisoria, senza inoltrare agli interessati la specifica comunicazione di avvio del procedimento. Ciò in quanto “l’aggiudicazione provvisoria quale atto che determina una scelta non ancora definitiva del soggetto aggiudicatario della gara non costituisce provvedimento conclusivo del procedimento, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso”. “Pertanto detta aggiudicazione, al contrario di quella definitiva, è inidonea ad attribuire in modo stabile il bene della vita, ed alla Stazione appaltante è quindi riconosciuta la possibilità di procedere alla sua revoca o al suo annullamento ovvero, ancora, di non procedere affatto all'aggiudicazione definitiva”. TM 


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Inserito in data 11/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 27

Variazione di strumenti urbanistici ex art. 5 d.P.R. n. 447/1998

Il Consiglio di Stato si pronuncia sulla variante urbanistica semplificata al programma di fabbricazione (p.d.f.), in ordine all’insediamento di una media struttura commerciale di vendita, ricadente in area originariamente destinata a zona “agricola semplice”, convertita all’esito dell’apposita conferenza dei servizî in zona “industriale-artigianale”.

Il ricorrente, e appellante, titolare di altro esercizio di vendita, situato nelle immediate vicinanze del suolo interessato dall’intervento, si opponeva al provvedimento.

Il collegio affronta primariamente la questione della mancata sottoposizione della variante urbanistica alla valutazione ambientale strategica (v.a.s.). Osservano i giudici di Palazzo Spada, in conformità alla pronuncia del Tribunale di prime cure, come tale acquisizione avrebbe dovuto certamente essere effettuata in base alla normativa vigente al tempo della delibera consiliare di variazione. Tuttavia, l’aggiunta medio tempore del comma dodicesimo all’art. 6 del d.lgs. n. 152/2006, ha determinato il difetto di interesse dell’istante alla decisione sul punto. Essendo, infatti, venuto meno l’obbligo di sottoporre le modifiche in questione alla valutazione in parola, la rinnovazione dell’attività amministrativa, all’esito di un eventuale annullamento della delibera di approvazione della variante, in applicazione del principio tempus regit actum, non avrebbe comunque reso necessaria l’attivazione della procedura di v.a.s.. Viene in proposito richiamato il prevalente insegnamento giurisprudenziale secondo cui: “In seguito all’annullamento giurisdizionale di un titolo abilitativo (o di un diniego di esso), l’Amministrazione deve riesaminare la relativa istanza non già Ê»ora per allora’, ma tenendo conto della normativa sopravvenuta medio temporecon il solo limite – che qui non viene in rilievo – dell’inopponibilità delle modifiche legislative intervenute dopo la notifica della sentenza da parte del ricorrente vittorioso”. Non sussiste nemmeno un interesse all’accertamento incidentale della divisata illegittimità a fini risarcitorî, ex art. 34, comma terzo, c.p.a., avendo lo ius superveniens privato il ricorrente di ogni chance di ottenere un risultato diverso.

Il Consiglio di Stato reputa invece fondata la censura relativa all’improprio ricorso allo strumento della variante urbanistica semplificata ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 447/1998. Viene, infatti, rilevata l’insussistenza del presupposto fattuale richiesto dalla norma, la quale consente la variante laddove l’area interessata dall’intervento abbia una destinazione incompatibile con lo stesso, a condizione che “lo strumento urbanistico non individui aree destinate all’insediamento di impianti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato”.

Nella fattispecie, l’assetto urbanistico vigente contemplava alcune aree astrattamente idonee allo scopo perseguito, le quali risultavano, secondo le motivazioni del provvedimento amministrativo, in concreto non sfruttabili. Uno dei comparti, sito in zona di espansione, prevedeva fra le destinazioni quella commerciale, ma al suo interno doveva ritenersi non possibile la realizzazione di una media struttura di vendita, in considerazione della prevalente destinazione residenziale delle aree, sulle quali avrebbero potuto essere realizzati soltanto esercizî “di vicinato”. Un’altra area, destinata al piano per gli insediamenti produttivi (p.i.p.), era interessata da un problema di salute pubblica, legato alle emissioni provenienti da un elettrodotto, superiori ai minimi consentiti dalla legislazione regionale. La stessa area, peraltro, consentiva soltanto attività commerciali all’ingrosso, e non al dettaglio.

Riprendendo la propria giurisprudenza, il collegio ribadisce il carattere eccezionale e derogatorio della procedura in esame, “la quale non può essere surrettiziamente trasformata in una modalità ordinaria di variazione dello strumento urbanistico generale”; “perché a tale procedura possa legittimamente farsi luogo, occorre che siano preventivamente accertati in modo oggettivo e rigoroso i presupposti di fatto richiesti dalla norma, e quindi anche l’assenza nello strumento urbanistico di aree destinate ad insediamenti produttivi (o commerciali) ovvero l’insufficienza di queste, laddove per insufficienza deve intendersi, in costanza degli standard previsti, una superficie non congrua (e, quindi, insufficiente) in ordine all’insediamento da realizzare”. “Più specificamente, si è affermato che, se è vero che il concetto di sufficienza o insufficienza delle aree esistenti va verificato in relazione al progetto presentato, il che certamente significa che esiste un margine di flessibilità e adattabilità di quest’ultimo, per inserirlo nel contesto risultante dallo strumento urbanistico, resta fermo, però, che il parametro di riferimento è costituito dallo strumento vigente, il quale non può essere esso oggetto di modifiche per adeguarlo alle esigenze del proponente”.

Appare evidente, secondo i giudici, “che il presupposto fattuale costituito dalla assenza o insufficienza nello strumento urbanistico di aree a destinazione specifica e coerente con il progetto va inteso nel senso della necessità di verificare preventivamente la disponibilità non soltanto di aree stricto sensu destinate a insediamenti produttivi, ma anche di aree con destinazione commerciale, anche se non in via esclusiva, quali certamente sono le aree (…) di espansione”.

Il giudizio di “insufficienza” delle aree esistenti nel p.d.f., pertanto, “è scaturito non già da una ritenuta insufficienza delle superfici (…), bensì da un apprezzamento tecnico-discrezionale dell’impatto che la realizzazione della struttura avrebbe avuto sulle diverse e residue destinazioni impresse alle medesime aree”. I giudici ritengono, pertanto, “molto discutibile che in tal modo possa dirsi integrato il presupposto normativo”, e opinabile il giudizio che ha portato a “sostenere che nelle aree in questione avrebbero potuto essere insediati solo esercizî di vicinato (limitazione, quest’ultima, non presente nelle disposizioni urbanistiche vigenti e che a sua volta è discesa dal suindicato apprezzamento tecnico-discrezionale); è evidente, infatti, che quella dell’inserimento della struttura commerciale nell’area in discorso e del suo raccordo con le altre destinazioni a questa impresse dal p.d.f. era questione afferente alle modalità esecutive dell’insediamento, e da affrontare in una alle altre problematiche connesse al rilascio dell’autorizzazione unica per l’esercizio commerciale”; “l’aver elevato tale problematica a elemento impeditivo a monte dell’utilizzabilità delle aree in questione, in modo da integrare il presupposto normativo per procedere a variante urbanistica su altra e diversa porzione del territorio comunale, costituisce chiaro elemento indiziario di sviamento di potere, inteso a offrire ai proponenti il progetto la possibilità, non consentita alla stregua della vigente disciplina urbanistica, di operare su aree in loro proprietà non compatibili dal punto di vista urbanistico con l’insediamento de quo”.

Inoltre, anche con riferimento alle circostanze ritenute ostative all’utilizzabilità dell’ulteriore area p.i.p., successivamente alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma terzo, della l.r. campana n. 13/2001, per violazione della competenza statale in materia ambientale, nella parte in cui introduceva parametri di riferimento per le emissioni elettromagnetiche più rigorosi di quelli stabiliti dal d.P.C.m. 23 Aprile 1992, le misurazioni a suo tempo condotte devono ritenersi superate.

Infine, e sempre in ordine all’area da ultimo menzionata, l’ulteriore impedimento costituito dalla norma tecnica di attuazione del p.i.p., che consente la presenza nella zona di soli esercizî all’ingrosso, ben avrebbe potuto essere superata con una semplice modifica del piano stesso, senza intervenire sullo strumento urbanistico generale.

Appariva pertanto preclusa, nel caso di specie, la possibilità di avvalersi dello strumento derogatorio ed eccezionale della variante semplificata. FM 


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Inserito in data 11/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 8 gennaio 2016, n. 32

Riconoscimento del titolo professionale conseguito all’estero

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato definitivamente decide del ricorso avverso il provvedimento con il quale era stata respinta la domanda volta al riconoscimento del titolo di “economista”, conseguito in Spagna, quale titolo valido per l’iscrizione all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili in Italia.

Accolta in primo grado l’istanza del ricorrente; il Ministero della giustizia propone appello, deducendo violazione e/o falsa applicazione degli artt. 10 bis e 21 octies della l. n. 241/1990, degli artt. 11, 12, 13 e 14 della direttiva 2005/36/C.e., degli artt. 20, 21 e 22 del d.lgs. n. 206/2007, e dell’art. 1 del d.lgs. n. 139/2005, assumendosi che il mancato preavviso di rigetto non avrebbe, nel caso concreto, portata invalidante “essendo il provvedimento di reiezione vincolato dall’assenza di una specifica formazione professionale post-laurea svolta in Spagna dall’istante”.

Il collegio ritiene l’appello manifestamente fondato. Segnatamente, i giudici di prime cure avevano fondato la propria pronuncia sulla “ritenuta sussistenza del vizio procedimentale di omissione della previa notificazione all’interessato del preavviso di rigetto”. I giudici di Palazzo Spada, diversamente opinando, giungono alla conclusione che possa invece senz’altro applicarsi la causa di esclusione dell’annullabilità sancita dal già menzionato art. 21 octies.

In linea con la difesa erariale si osserva, infatti, come la direttiva 2005/36/C.e., recepita in Italia dal d.lgs. n. 206/2007, sia “costantemente interpretata dalle stesse istituzioni europee nel senso di non consentire l’automatico riconoscimento di titoli conseguiti in altro Stato dell’Unione, qualora questo sia richiesto al fine di ottenere l’attribuzione di un titolo per il quale l’ordinamento nazionale richiede un esame o una formazione professionale specifica, ulteriore rispetto al diploma di laurea” (cfr. Corte di giustizia dell’Unione europea, 29 Gennaio 2009, C-311). L’ottenimento del titolo di “economista” in territorio spagnolo è conseguibile sulla base della sola laurea, non essendo previsto nessun esame abilitativo, né alcuna formazione professionale: “Ne discende in modo pressoché vincolato l’impossibilità che tale titolo possa consentire in Italia l’iscrizione all’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili”. FM

 



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Inserito in data 09/01/2016
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 5 gennaio 2016, n. 6

Disciplina della cd. “cinotecnica”, SCIA ed eccesso di potere

Il Collegio lombardo condivide le ragioni del soggetto ricorrente che, dedicatosi ad un’iniziale attività di onoterapia ed avendo deciso di ampliarla nel quadro di un più articolato progetto di pet therapy – subiva la inibizione dell’esercizio di tali attività.

L’Amministrazione comunale, infatti, contestava l’avvenuta rettifica della SCIA originariamente presentata dal ricorrente. In particolare, dissentiva dalla possibilità che quest’ultimo si dedicasse anche alla disciplina della cd. cinotecnica (addestramento e selezione di specie canine), in quanto privo della qualifica di imprenditore agricolo – ex art. 2135 cod. civ. – ritenuta presuntivamente necessaria per un’attività non più classificabile come amatoriale – quale ritenuta, invece, dall’istante.

L’Ente evidenziava, ancora, la necessaria qualifica di imprenditore agricolo in considerazione del fatto che l’attività contestata fosse esercitata in un territorio pianificato ed individuato quale zona agricola.

I Giudici dissentono dalle valutazioni svolte dall’Amministrazione in sede di inibizione delle suddette attività.

In primo luogo, infatti, sottolineano la non necessarietà della previa qualifica di imprenditore agricolo in capo al ricorrente.

Essi ricordano, infatti, come lo stesso art. 2135 del c.c. – nello stabilire il criterio di collegamento dell'attività economica con il fattore produttivo “terra”, individuando le “attività connesse” come quelle che si inseriscono nel ciclo dell'economia agricola (cfr. Corte di Cassazione, sez. I civile – 10/5/2013 n. 11237) – è comunque rubricato “imprenditore agricolo”, e dunque si rivolge ai soggetti che (diversamente dal caso di specie) prestano l’attività in forma professionale.

Tanto, per l’appunto, non ricorre nella questione in esame.

Peraltro, richiamando la disciplina normativa regolante la cd. cinotecnica - L. n. 349/96 – il Collegio lombardo evidenzia come – sia pure in una lettura oscillante del suddetto dato normativo – parrebbero non sussistere ragioni logiche per escludere l’operatività di tale disciplina in un caso pari a quello oggi contestato – consistente solo in iniziative limitate all’addestramento. A dispetto, dunque, di quanto sostenuto dalla Difesa resistente, secondo la quale si debbano necessariamente comprendere – per rendere operativa tale regolamentazione - anche l’allevamento e la selezione canina, non praticate in tal caso.

Infine, nell’avallare il gravame promosso, i Giudici lombardi condividono anche le valutazioni fatte in ultimo dal ricorrente, riguardo al ricorrere di un presunto eccesso di potere per illogicità manifesta, da parte dell’Amministrazione resistente.

Il Collegio, infatti, ricorda che la pet therapy consiste effettivamente in un’attività terapeutica di promozione della salute dei soggetti beneficiari, i quali si trovano in condizioni di particolare debolezza o fragilità: l’instaurazione di una relazione positiva con l’animale domestico realizza un evidente interesse di portata generale, ossia il miglioramento del benessere degli individui in difficoltà. Situazioni concretanti proprio quei servizi di interesse pubblico che l’Amministrazione, in questo caso, parrebbe non aver voluto perseguire. CC 


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Inserito in data 08/01/2016
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III TER, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE - 28 dicembre 2015, n. 14564

Limiti costituzionali alle leggi “impropriamente retroattive”

Con l’ordinanza in esame, il Collegio laziale ha ritenuto di sottoporre al giudizio della Corte costituzionale l’art. 26, commi 2 e 3, d.l. 91/14 (in tema di incentivi spettanti ai titolari di impianti fotovoltaici).

La questione dell’incostituzionalità del comma 3 (per violazione degli artt. 3 e 41 Cost.) desta interesse in quanto rientra nel tema dei limiti costituzionali alle leggi che modificano in peius il rapporto di durata, con riflessi negativi sulla posizione acquisita dall’interessato (cd. retroattività impropria). Secondo la Corte costituzionale, tali leggi sono legittime nonostante incidano su diritti soggettivi perfetti, purché la retroattività sia necessaria a tutelare principi, beni e diritti di rilievo costituzionale, che costituiscono motivi imperativi di interesse generale, ai sensi della CEDU; inoltre, tali disposizioni non devono collidere coi principi costituzionali e altri fondamentali valori di civiltà giuridica (es. il principio di ragionevolezza, la tutela del legittimo affidamento, la sicurezza giuridica, il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario…). Analogamente, secondo la Corte di Giustizia UE, le disposizioni che incidono su rapporti di durata sono legittime, quando l’operatore economico prudente e accorto poteva prevederle. “Tanto premesso, ritiene il Collegio che in capo ai soggetti titolari di impianti fotovoltaici, fruitori delle relative incentivazioni pubbliche in forza di “contratto di diritto privato” (ex art. 24 d.lgs. n. 28/2011) o convenzione (avente la medesima natura […]) stipulati col GSE, sussista una posizione di legittimo affidamento nei sensi innanzi precisati, non essendo mai emersi nel corso del tempo elementi alla stregua dei quali un operatore “prudente e accorto” avrebbe potuto prevedere (al momento di chiedere gli incentivi, di decidere se far entrare in esercizio il proprio impianto e di stipulare con il Gestore il negozio che disciplina l’erogazione degli incentivi) l’adozione da parte delle autorità pubbliche di misure lesive del diritto agli incentivi stessi”. TM 


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Inserito in data 07/01/2016
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 30 dicembre 2015, n. 2867

Ordinanza di rimozione dei rifiuti abbandonati

Con la pronuncia in esame, i giudici meneghini si sono espressi in merito alla legittimità o meno di un’ordinanza di rimozione e smaltimento di rifiuti, indirizzata alla società proprietaria dell’area interessata dall’incontrollato abbandono, emessa sul mero presupposto della sua qualità di proprietaria del fondo e senza il previo accertamento, da parte dei soggetti preposti al controllo, della sua responsabilità a titolo di dolo o colpa.

Il Collegio ha ritenuto che l’ordinanza emessa dal Comune, nella fattispecie, fosse in contrasto con il disposto dell’art. 192 del d.lgs. n. 15/2006 e non sorretta da adeguata motivazione.

Ed infatti, costante giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che è prevista la corresponsabilità solidale del proprietario o del titolare di diritti personali o reali di godimento sull’area ove siano stati abusivamente abbandonati o deposti i rifiuti “solo in quanto la violazione sia imputabile anche a quei soggetti a titolo di dolo o colpa”, precisando ulteriormente che l’ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente in base agli accertamenti effettuati dai soggetti preposti al controllo, in contraddittorio, quindi, con i soggetti interessati.

Nel caso di specie, l’ordine risultava assolutamente carente di motivazione, in quanto emesso sulla base della qualità di mera proprietaria dell’aera della ricorrente, senza, quindi, un previo accertamento della sua responsabilità, a titolo di dolo o colpa, per l’abbandono dei rifiuti ed in assenza di contraddittorio.

Questo principio – hanno osservato i giudici milanesi – risulta altresì consacrato, a livello comunitario, dalla nota sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-534-2013), pronunciatasi sulla questione pregiudiziale sollevata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (ordinanze n. 21/2013 e n. 25/2013) con riguardo agli obblighi del proprietario incolpevole in ordine alla messa in sicurezza ed alla bonifica di un sito inquinato.

Uniformandosi all’orientamento maggioritario espresso dalla giurisprudenza amministrativa, il Giudice europeo ha confermato che “qualora il proprietario di un’area inquinata non sia anche l’autore della contaminazione, non è tenuto ad adottare le misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica della stessa”.

Ed infatti, l’applicazione del regime di responsabilità, istituito dalla Direttiva UE 2004/35 sul danno ambientale, ha come suo ineludibile presupposto “l’individuazione di un soggetto che possa essere qualificato come responsabile della contaminazione, dovendo, dunque, l’Amministrazione accertare il nesso di causalità che esiste tra l’attività svolta dall’operatore e il danno ambientale contestato”.

Tali principi – ha affermato il Collegio - devono ritenersi estensivamente applicabili anche alle ipotesi di abbandono dei rifiuti, con la conseguenza che, non essendo stata, nel caso di specie, preventivamente accertata la responsabilità, a titolo di colpa o dolo, del proprietario dell’area per la violazione, alcun obbligo di provvedere allo smaltimento ed al ripristino può essere emesso nei suoi confronti. MB 


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Inserito in data 07/01/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 dicembre 2015, n. 5864

Giurisdizione in materia di contributi pubblici

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato sull’individuazione del giudice dotato di potestas judicandi con riguardo ad una controversia generata dalla revoca di un contributo regionale all’edilizia convenzionata.

In via generale, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento sia riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti.

Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se sia fatta questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione; diversamente, la giurisdizione è del giudice amministrativo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, ovvero quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse (ex plurimis, SS.UU. ord. N. 1776/2013, Ad.Pl. n. 6/2014).

Il Collegio, uniformandosi a questo principio, ritiene quindi sussistente la giurisdizione del giudice ordinario, quando vi sia stata una sovvenzione pubblica e si contesti un atto di decadenza. “A maggior ragione – sottolineano i giudici di Palazzo Spada – quando, come avvenuto nel caso di specie, l’Amministrazione ritenga di essere creditrice di una somma di denaro, in quanto erogata a chi non la doveva percepire”.

Pertanto, il Consiglio di Stato, in riforma dell’impugnata sentenza, ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sussistendo quella del giudice ordinario. MB

 



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Inserito in data 05/01/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 dicembre 2015, n. 5873

Indicazione degli oneri di sicurezza aziendale

La sentenza in oggetto si inserisce nel novero delle pronunce che nel corso degli ultimi due anni hanno segnato l’importante dibattito sul tema dell’omessa previsione nella lex specialis dell’obbligo, a carico dei concorrenti, di indicare nell’offerta economica i costi di sicurezza aziendali, e della conseguente violazione dell’art. 87 del codice dei contratti pubblici, alla luce del quale il bando deve ritenersi etero integrato, secondo l’attuale orientamento giurisprudenziale.

Il ricorrente lamentava la violazione dei principî elaborati dall’adunanza plenaria n. 16 del 2014, del favor partecipationis e del legittimo affidamento dei concorrenti; oltre che l’inammissibilità del ricorso in primo grado per la mancata impugnativa del bando di gara e della relativa modulistica, e l’impossibilità di invocare la tecnica di etero integrazione, la quale costituirebbe, di fatto, una disapplicazione della lex specialis. Costituiva gravame, infine, la prospettata violazione degli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici “sotto il profilo che l’incidenza dei costi di sicurezza aziendali andrebbe vagliata nella sede propria della valutazione della anomalia dell’offerta”, nonché la violazione del principio di tassatività delle clausole di esclusione “sotto il profilo della violazione dell’art. 46 del codice dei contratti pubblici, come interpretato dalla sentenza dell’adunanza plenaria n. 9 del 2014”.

I giudici di Palazzo Spada respingono l’appello per infondatezza.

Richiamandosi alle sentenze pronunciate dall’adunanza plenaria (nn. 9 e 3 del 2015, e 16 e 9 del 2014), i giudici ribadiscono che: “In tutte le gare di appalti di lavori, servizî e forniture, le imprese devono indicare in sede di offerta economica gli oneri di sicurezza aziendali (c.d. costi di sicurezza interni); tale obbligo integra un precetto imperativo che etero integra la legge di gara, ove questa sia silente sul punto o comunque compatibile con esso, nel rispetto del ‘principio di tassatività attenuata’ delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46 del codice dei contratti pubblici”; “Nel caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa (come nel caso di specie) prima della pubblicazione della decisione dell’adunanza plenaria n. 3 del 2015”; “Nella vicenda in esame: il bando di gara non ha imposto di non esplicitare, da parte dell’impresa concorrente, i costi di sicurezza aziendali (anzi ha specificato, che la dichiarazione relativa all’offerta economica doveva essere compilata adeguandola alla fattispecie); in ogni caso, quand’anche si dovesse ritenere che il bando di gara abbia escluso l’obbligo delle imprese di indicare i costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, in parte qua esso è stato espressamente impugnato dalla ditta (appellata) (sicché per tale ipotesi non si può che disporre l’annullamento in parte qua del bando, nel senso del suo adeguamento alle disposizioni di legge, quale fonte del dovere dell’Amministrazione di disporre l’esclusione dell’appellante)”. FM 


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Inserito in data 04/01/2016
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 28 dicembre 2015, n. 5844

Autorizzazione paesaggistica: preavviso di rigetto; poteri della Sovrintendenza

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato si pronuncia sull’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza di autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma ottavo, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42/2004), e sulle competenze delle Soprintendenze ai sensi dello stesso art. 146, comma quinto.

Nel caso di specie, il ricorrente agiva per l’annullamento del parere negativo reso dalla Soprintendenza, in ordine al progetto di realizzazione di un’unità produttiva artigianale, dopo che l’organo consultivo comunale aveva invece espresso “parere favorevole di compatibilità dell’intervento rispetto ai valori paesaggistici”.

L’interessato, segnatamente, deduceva: violazione del citato art. 146, eccesso di potere, carenza di potere, sviamento e inammissibilità, “in quanto la Soprintendenza, invece di esercitare un controllo di legittimità sulla decisione comunale, si sarebbe sostituita all’ente locale compiendo un’autonoma valutazione di merito, non consentita, sulla compatibilità dell’intervento, pienamente assentibile”; violazione dell’art. 146, dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e dell’art. 97 Cost., “perché dal parere dell’organo statale non emerge una contestazione specifica degli elementi valutati dall’ente locale – (e inoltre il parere stesso) impinge nel merito di valutazioni tecnico discrezionali che ricadono nella sfera di competenza esclusiva dell’ente locale, preposto alla tutela del vincolo”; e infine, violazione dell’art. 10 bis della l. n. 241/1990, e degli artt. 146 e 159 del d.lgs. n. 42/2004, violazione del giusto procedimento amministrativo e del contraddittorio, “in quanto né il Comune, né la Soprintendenza hanno preventivamente comunicato all’interessato i motivi ostativi al rilascio del parere positivo”.

In ordine al profilo da ultimo emarginato, il Collegio, conformemente alla statuizione di primo grado, osserva che ai sensi dell’art. 146, comma ottavo (nel testo vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato – in vigore dal 24 Aprile 2008 al 12 Luglio 2011), “l’obbligo di comunicazione gravava in capo alla sola Regione (o all’ente sub delegato), prima di adottare il provvedimento definitivo di diniego”, e che, nel caso di specie, il procedimento non era ancora giunto a tale fase, avendo il ricorrente immediatamente deciso di impugnare, in via diretta, il parere negativo della Sovrintendenza, il quale è senz’altro dotato di immediata e autonoma capacità lesiva.

Circa la violazione diretta dell’art. 10 bis, quale norma di carattere generale, in base alla quale la Sovrintendenza sarebbe tenuta a comunicare le “ragioni ostative all’accoglimento delle domande dei privati prima di ogni atto che si pronunci in maniera definitiva e sfavorevole al richiedente”, i giudici di Palazzo Spada ribadiscono le precedenti pronunce in base alle quali “il parere reso al Comune ai fini paesaggistici dall’Amministrazione preposta alla tutela dello specifico interesse non è soggetto all’obbligo di comunicazione preventiva del preavviso di rigetto di cui al citato art. 10 bis, in quanto costituisce esercizio, entro un termine decadenziale, di un potere che intercorre tra autorità pubbliche”.

Relativamente ai primi motivi di impugnazione, si osserva che nel nuovo regime ex art. 146 “l’autorità statale esprime un parere vincolante ed esteso al merito circa l’assentibilità paesaggistica dell’intervento progettato”. Non si è in presenza di un atto di secondo grado, incidente su una precedente determinazione amministrativa; il parere viene reso “in autonomia utilizzando competenze tecnico-specialistiche senza la necessità di confutare analiticamente punto per punto le ragioni della valutazione favorevole operata dal Comune”.

Sul difetto di motivazione e di presupposti, la carenza d’istruttoria e il travisamento di fatti, l’irragionevolezza manifesta e l’esorbitanza dalle competenze della Soprintendenza, “posto che il parere negativo si baserebbe su ragioni di carattere urbanistico anziché attinenti alla tutela del paesaggio”, i giudici rilevano preliminarmente che la Soprintendenza, diversamente dal passato, è titolare di un potere di valutazione sull’intervento progettato che non si limita al sindacato di legittimità (cfr. regime transitorio, vigente fino al 31 Dicembre 2009, ex art. 159, d.lgs. n. 42/2004), ma si estende al merito; l’organo periferico dello Stato “compie una valutazione di discrezionalità tecnica di compatibilità con i valori protetti, espressione dei nuovi poteri di cogestione del vincolo paesaggistico ex art. 146”. Per tutto quanto precede, la Soprintendenza non può ritenersi obbligata a confutare puntualmente le considerazioni favorevoli svolte dall’organo comunale. “Il potere di valutazione tecnica esercitato è sindacabile in sede giurisdizionale soltanto per difetto di motivazione, illogicità manifesta ovvero errore di fatto conclamato, tutte ipotesi che nella specie non ricorrono”. “La motivazione del parere indica dimensioni e caratteristiche dell’intervento, descrive il contesto paesaggistico nel quale esso si colloca e il rapporto tra intervento progettato e contesto stesso, con specifico riguardo al profilo dell’inserimento armonico dell’opera nel paesaggio”. “La motivazione del parere, pur non particolarmente ampia, è sufficiente e adeguata nell’indicare le ragioni dell’impatto dell’opera sul paesaggio circostante e del contrasto con le esigenze di tutela e di riqualificazione dell’area”. “Le considerazioni dell’organo statale territoriale sulla vocazione agricola residuale dell’area si inscrivono (…) entro una valutazione, doverosa e globale, da parte della Soprintendenza, del contesto di riferimento”, non già come illegittimi rilievi di tipo urbanistico. FM 


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Inserito in data 02/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 28 dicembre 2015, n. 5861

Graduatorie ad esaurimento degli insegnanti: rimessione alla Plenaria

Con l’ordinanza de qua, il Consiglio di Stato si è interrogato sulla dibattuta questione della possibilità o meno di inserire nelle graduatorie ad esaurimento i docenti possessori di diploma magistrale conseguito entro l’anno 2001/2002.

Premesso che le graduatorie ad esaurimento, in cui gli appellanti vorrebbero essere inseriti, discendono dalla trasformazione delle graduatorie permanenti del personale docente, con alcuni ulteriori inserimenti per personale già abilitato o con abilitazione in corso di conseguimento o per chi si fosse iscritto al corso di laurea in scienze della formazione, nessuna inclusione invece è prevista per chi abbia conseguito il diploma entro l’anno 2001/2002, pur essendo il titolo in questione antecedente alla chiusura delle graduatorie stesse.

In sede di ricorso straordinario, si è riconosciuta l’efficacia abilitante del titolo ma – precisa il Collegio – continua ad essere espressamente negata la possibilità di iscrivere i docenti in questione nelle graduatorie ad esaurimento, “per la preclusione normativa sussistente al riguardo, ovvero per non essere stata rappresentata in tempo utile la possibilità di inserimento degli stessi nelle graduatorie permanenti, con conseguente tardività dell’impugnazione sotto tale profilo”.

La tesi sostenuta dagli appellanti afferma che il carattere abilitante del titolo di cui trattasi non farebbe sorgere una posizione diversa da quella degli insegnanti, a suo tempo inseriti nelle graduatorie permanenti e quindi, all’atto della trasformazione delle stesse, nelle graduatorie ad esaurimento.

In tal senso sono stati presentati numerosissimi ricorsi in alcuni casi accolti in sede di appello, tuttavia, ad avviso del Consiglio, tali conclusioni sono ampliative rispetto a quelle del citato ricorso straordinario e, dunque, non appaiono condivisibili.

Peraltro, sottolinea il Collegio, come “la domanda degli appellanti vada ben oltre, se intesa come indiscriminata rivendicazione della possibilità – per chiunque avesse avuto (a tempo debito) la possibilità di accedere alle graduatorie, per il reclutamento di personale docente (prima a titolo precario, poi anche a tempo indeterminato) – di richiedere ed ottenere in qualsiasi momento l’iscrizione nelle graduatorie, ormai ad esaurimento”.

Ne consegue che va rimessa all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., al fine di risolvere e prevenire futuri contrasti giurisprudenziali, la questione della riapertura delle graduatorie ad esaurimento, per i possessori di diploma magistrale conseguito entro l’anno scolastico 2001/2002. SS

 



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Inserito in data 02/01/2016
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 30 dicembre 2015, n. 5862

Annullamento in autotutela di una gara per finanziamento pubblico: legittimazione all’impugnazione

I giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sull’annullamento in via di autotutela di un bando di concorso per la realizzazione di alloggi di edilizia residenziale sociale, mediante erogazione di appositi finanziamenti e sulla necessità, di regola, che la ditta interessata partecipi alla gara per riconoscere la sua legittimazione all’impugnazione.

In particolare, hanno precisato che è legittimo l’esercizio del potere di autotutela motivato con la presenza di gravi vizi del procedimento riscontrati ex post dall’amministrazione in quanto “l’interesse pubblico alla revoca dell’illegittimo finanziamento prevale sull’eventuale affidamento ingenerato nel beneficiario soprattutto quando, considerando le modalità palesemente illegittime attraverso le quali quest’ultimo si è visto assegnare il beneficio economico, è da escludere che si possa essere ingenerato un qualsiasi legittimo affidamento”.

Peraltro, l’annullamento in autotutela dell’illegittima ammissione al finanziamento “ha natura sostanzialmente doverosa sotto il profilo delle responsabilità e della legittima gestione delle risorse pubbliche”: non rileva nella specie, infatti, solo la validazione della spesa da parte dell’Amministrazione, ma anche la necessità stessa di ripristinare la legalità violata che ha originato un’indebita (anche potenziale) erogazione di benefici economici comunque a danno delle finanze pubbliche.

Per ciò che concerne, invece, la legittimazione all’impugnazione, il Consiglio ha affermato che, soprattutto in materia di controversie aventi ad oggetto gare di appalto e affidamenti di servizi, “il tema della legittimazione al ricorso è declinato nel senso che essa deve essere correlata alla circostanza che l’instaurazione del giudizio non solo sia proposta da chi è legittimato al ricorso, ma anche che non appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto, pretese impossibili o contra ius”.

In ogni caso, “l’impresa che non partecipa alla gara non può contestare la relativa procedura e l’aggiudicazione in favore di ditte terze”, in quanto a tale regola generale può essere fatta eccezione solo in tre tassative ipotesi: quando si contesti in radice l’indizione della gara; quando, all’inverso, si contesti che una gara sia mancata, avendo l’amministrazione disposto l’affidamento in via diretta del contratto; e quando si impugnino direttamente le clausole del bando deducendo che le stesse siano immediatamente escludenti. SS

 



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Inserito in data 30/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 dicembre 2015, n. 5856

Da attività alberghiera ad attività di affittacamere: vi è mutamento di destinazione d’uso?

Il Consiglio di Stato, nella sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla sussistenza o meno di un mutamento di destinazione d’uso nell’ipotesi di utilizzo di un immobile destinato ad albergo per l’esercizio dell’attività di affittacamere.

In particolare, il Comune appellante si doleva della falsa rappresentazione in ordine alla destinazione dell’immobile effettuata da parte appellata al momento della presentazione della domanda di autorizzazione per lo svolgimento della sopra citata attività.

Al riguardo, il Collegio ha ribadito che “l'attività di affittacamere, pur differenziandosi da quella alberghiera per le dimensioni modeste, richiede non solo la cessione del godimento di un locale ammobiliato e provvisto delle necessarie somministrazioni (luce, acqua, ecc.), ma anche la prestazione di servizi personali, quali il riassetto del locale stesso e la fornitura della biancheria da letto e da bagno”.

Ne consegue che non sussiste la radicale oggettiva diversità tra le due modalità di destinazione (alberghiera e di affittacamere) denunciata dall’appellante, di talchè non è configurabile una falsa rappresentazione in ordine al denunciato cambio di destinazione dell’immobile, considerata la parziale sovrapposizione tra le due forme di destinazione e la circostanza che l’eventuale impiego del bene secondo modalità parzialmente diverse da quelle che configurano “l’affittacamere” comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria. SS

 



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Inserito in data 30/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 28 dicembre 2015, n. 5841

Espropriazione per p.u.: rapporto tra impugnazione della dichiarazione e risarcimento dei danni

Con la sentenza de qua, i giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a pronunciarsi sul rapporto intercorrente tra l’impugnazione della dichiarazione di pubblica utilità e l’azione risarcitoria per i danni da occupazione illegittima, nonché sui poteri del giudice amministrativo in queste ipotesi.

In particolare, si sono domandati se la reiezione del ricorso avverso la dichiarazione di pubblica utilità implicasse automaticamente anche la reiezione della domanda risarcitoria e se, visto l’assenza nell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001 di un termine per adottare l’atto di acquisizione sanante, il giudice possa ordinare alla p.a. occupante di scegliere, entro un determinato termine, tra l’emanazione del provvedimento di acquisizione sanante e la restituzione del bene.

Con riguardo alla prima questione, ritiene il Consiglio, che “è errata la sentenza di primo grado che fa discendere automaticamente dal rigetto dei motivi di impugnazione della delibera di approvazione del progetto, alla quale era riconnessa la dichiarazione di pubblica utilità, anche l’infondatezza dell’azione risarcitoria da occupazione illegittima, ove risulti che la parte ricorrente abbia chiesto anche la condanna della p.a. espropriante al risarcimento e quest’ultima non abbia emesso il decreto di espropriazione entro i termini decorrenti dall’occupazione d’urgenza, atteso che l’illegittima occupazione dei terreni del privato costituisce di per sé un’autonoma fattispecie costitutiva di danno”.

Con riguardo alla seconda questione, il Collegio ha dapprima richiamato l’orientamento di recente espresso dalla Corte Costituzionale (sent. 71/2015) che ha eliminato ogni dubbio di costituzionalità sull’art. 42 bis nella parte in cui non prevede un termine per adottare il relativo provvedimento di acquisizione, e ha, poi, affermato che, proprio al fine di far ottenere al privato una decisione della p.a. in un termine giudizialmente stabilito, “il giudice possa condannare l’Amministrazione a scegliere, entro un termine fissato, tra l’adozione del provvedimento di acquisizione o la restituzione del bene con il risarcimento dei danni derivanti dall’occupazione illegittima”. SS

 



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Inserito in data 29/12/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 22 dicembre 2015, n. 14441

Deficit di fiducia ed esclusione dalla gara: obbligo motivazionale della stazione appaltante

Con la pronuncia in epigrafe, il TAR Lazio – Roma ha accolto il ricorso proposto da un’impresa avverso il provvedimento con il quale la stessa era stata esclusa dalla gara - ex art. 38, co. 1, lett. f) del d. lgs. n. 163/2006 – a causa di un precedente inadempimento contrattuale che – nella prospettazione della ricorrente – sarebbe in realtà dipeso da un evento di causa di forza maggiore in capo ad altra impresa facente parte del costituito RTI.

I giudici romani, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, affermano che l’esclusione dalla gara d’appalto prevista dall’art. 38 lett. f) d.lgs n. 163/2006 scaturisce dalla necessità di garantire l’elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della pubblica amministrazione, fin dal momento genetico, in questo modo scongiurando le situazioni di pericolo che potrebbero discendere dalla stipulazione di un contratto con operatori economici ritenuti professionalmente inaffidabili.

Per giungersi ad un tale giudizio di inaffidabilità, e quindi “ai fini dell’esclusione di un concorrente dalla gara, non è necessario un accertamento della responsabilità per l’inadempimento relativo ad un precedente rapporto contrattuale - quale sarebbe richiesto per l’esercizio di un potere sanzionatorio - ma è sufficiente una motivata valutazione dell’Amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell’esercizio delle prestazioni affidate dalla Stazione appaltante che bandisce la gara, che abbia fatto venir meno la fiducia nell’impresa, potere il quale, in quanto discrezionale, è soggetto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore di fatto”. 

La lesione dell'elemento fiduciario trova la propria ragion d’essere nelle valutazioni - di carattere discrezionale - rimesse alla stazione appaltante. Vero è però che il carattere discrezionale del provvedimento di esclusione impone alla pubblica amministrazione di assolvere ad un puntuale e rigoroso onere motivazionale del provvedimento.

In particolare – precisano i giudici romani – “dalla motivazione del provvedimento di esclusione, deve emergere l'incidenza della malafede o negligenza dell'operatore economico privato nel pregresso inadempimento contrattuale, al fine di evitare che il deficit di fiducia venga strumentalizzato allo scopo di determinare l'esclusione definitiva dell'impresa dal mercato degli appalti pubblici”.

Diversamente, la mera allegazione di un precedente inadempimento contrattuale – nel caso di specie neppure imputabile all’impresa partecipante alla gara - non si appalesa di per sé idonea a giustificare l’adozione del provvedimento di esclusione ai sensi della lettera f) dell’art. 38 del codice degli appalti, occorrendo invece una motivazione puntuale e rigorosa a sostegno delle ragioni per cui, oltre all’inadempimento, l’impresa esclusa abbia compiuto rilevanti violazioni dei doveri professionale o contrattuali, dolose o gravemente colpose, tali da compromettere il rapporto fiduciario tra le parti. MB 



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Inserito in data 28/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 21 dicembre 2015, n. 5786

Decorrenza della penalità di mora

La IV Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, si è espressa in ordine all’individuazione del momento della decorrenza della penalità di mora, nella fattispecie accogliendo il ricorso proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza resa dal Tar Lazio-Roma concernente l’ottemperanza al giudicato di un decreto della Corte di Appello di Roma.

Il Giudice di prime cure, rilevato che il titolo giudiziale, già passato in giudicato, non aveva ancora ricevuto esecuzione, aveva ordinato al Ministero di dare integrale esecuzione al decreto, al tempo stesso aveva accolto la domanda di condanna ex art 114, co. 4, lett. e) del cod. proc. amm., fissando la decorrenza della penalità a far data dalla notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di ottemperanza.

In particolare, il tribunale amministrativo regionale, nella motivazione della sentenza, aveva ritenuto di dover concedere all’Amministrazione “un termine di tolleranza di sei mesi, la cui decorrenza va individuata con riferimento alla data in cui il titolo giudiziale recante la condanna al pagamento di una somma di denaro a titolo di indennizzo, munito della prescritta formula esecutiva, è stato notificato nei confronti dell'Amministrazione soccombente”.

La IV Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto, con la pronuncia in epigrafe, di non poter condividere le motivazioni rese in primo grado dal Collegio, per un duplice ordine di ragioni.

Anzitutto poiché la condanna ex art. 114, co. 4, lett. e), appare, nel caso di specie, sproporzionata in ragione dell'entità della pretesa azionata, avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro di importo esiguo, da corrispondere a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, e ciò tanto più alla luce del dato normativo che prescrive che il giudice possa ordinare all'Amministrazione il pagamento di una penalità di mora per ogni ulteriore ritardo nell'adempimento, "salvo che ciò sia manifestamente iniquo”.

Sotto altro profilo - ha rilevato il Collegio - il TAR avrebbe, erroneamente, fatto decorrere la penalità di mora dalla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di ottemperanza, senza rispettare il termine di tolleranza di sei mesi, indicato nella sentenza.

Con riguardo all’individuazione del momento di decorrenza  della penalità di mora – ha osservato il Consiglio di Stato – la giurisprudenza amministrativa non appare del tutto uniforme.

Segnatamente, secondo un primo orientamento, formatosi successivamente alla pronuncia dell’Ad. Plen. n. 15/2014 (a cui aderisce la sentenza impugnata), la decorrenza delle astreintes va individuate con riferimento al giorno della notifica del ricorso per l'ottemperanza.

Secondo una diversa prospettazione, il termine iniziale decorrerebbe invece dalla data di notifica del provvedimento da ottemperare.

Tuttavia, la IV Sezione ha ritenuto non condivisibili sul piano logico le citate soluzioni, in quanto esse non concederebbero all’amministrazione soccombente - alla luce delle procedure contabili che essa è tenuta a rispettare -  un lasso temporale, neppure minimo, per adempiere al pagamento.

Le richiamate soluzioni si porrebbero, quindi, in contrasto con la ratio stessa dell'istituto, in quanto “fissano il termine iniziale di decorrenza della astreinte in un momento antecedente rispetto alla pronuncia sull'ottemperanza, la quale, constatando l'intervenuto inadempimento da parte dell'amministrazione, definisce il termine minimo dal quale può operare la penalità di mora”.

In questo modo – ritiene il Collegio - la penalità di mora “perderebbe la sua funzione riconosciuta come esclusiva di stimolo all'adempimento, e lato sensu sanzionatoria, per assumere una funzione risarcitoria, estranea al dettato legislativo, e comunque già assicurata dagli interessi legali”.

Pertanto, ritiene conclusivamente il Collegio con la pronuncia de qua, appare più aderente al dettato normativo “la soluzione secondo cui la penalità decorra, solo eventualmente, dallo spirare del termine concesso all'amministrazione per adempiere”, ed infatti – proseguono i giudici di palazzo Spada – le astreinte si configurano come “uno strumento per contrastare non l’inottemperanza, ma il protrarsi della stessa nonostante l'intervenuto accertamento di essa”, trovando esse applicazione “a partire dal momento in cui l'Amministrazione dimostri la sua pervicace volontà di non attuare il giudicato” e quindi “solo allorquando l'Amministrazione non abbia ottemperato nel termine prescritto dalla sentenza di ottemperanza, il quale a sua volta decorre dal giorno della comunicazione/notificazione della stessa”. MB 

 



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Inserito in data 23/12/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 18 dicembre 2015, n. 2662

Riduzione del finanziamento pubblico per il comportamento del beneficiario

Con la sentenza in epigrafe il collegio campano conferma l’orientamento in base al quale difetta la giurisdizione amministrativa in caso di controversia concernente un finanziamento pubblico già riconosciuto, quando la questione attiene al comportamento del beneficiario.

Richiamando la precedente giurisprudenza: “In tema di sovvenzioni e di contributi pubblici, successivamente all’attribuzione del beneficio, il destinatario risulta titolare di un diritto soggettivo, per cui in caso di insorgenza di controversia nella fase di erogazione del contributo o sovvenzione, per un preteso inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al giudice ordinario anche se ci si trovi in presenza di atti denominati di revoca, di decadenza, di risoluzione ecc., quando essi si fondino sull’asserito inadempimento da parte del destinatario alle obbligazioni assunte in sede di concessione del contributo. Diversamente, ricorre una situazione soggettiva d’interesse legittimo se la controversia riguarda una fase procedimentale precedente all’attribuzione del beneficio o se il provvedimento sia annullato o revocato per vizi di legittimità o di contrasto iniziale con il pubblico interesse”; “La controversia avente ad oggetto la riduzione dell’importo di finanziamenti già erogati, essendo il beneficiario titolare di un diritto soggettivo alla conservazione dell’erogazione stessa disposta di fronte alla contraria posizione assunta dall’amministrazione, con provvedimenti variamente denominati (…), per l’asserito inadempimento, da parte del concessionario, della disciplina regolatrice del rapporto, rientra nella giurisdizione del g. o.”.

L’inadempimento dell’amministrazione comunale ricorrente, avverso l’ente regionale che aveva provveduto alla rettifica di valore, riguardava nello specifico due irregolarità emerse nel corso della procedura di gara indetta per l’affidamento dei lavori di riqualificazione e messa in sicurezza di un plesso scolastico. Segnatamente: l’appalto in questione era stato sostanzialmente modificato, stralciando dal computo metrico originario i lavori di bonifica dell’amianto; ed erano stati violati i termini di ricezione delle offerte.

Ai sensi e per gli effetti dell’art. 11, comma secondo, c.p.a., la questione può essere riassunta di fronte al competente giudice ordinario, nel termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della decisione in esame. FM

 



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Inserito in data 23/12/2015
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 18 dicembre 2015, n. 1757

Liberalizzazione degli orarî e dei turni di apertura delle farmacie

L’autorità giudiziaria amministrativa accoglie il ricorso presentato avverso un’ordinanza emessa da un sindaco per la riorganizzazione degli orarî e dei turni delle farmacie e dei dispensarî farmaceutici nel territorio comunale, per effetto della quale veniva operata una sostanziale liberalizzazione delle scelte assunte sul tema dai varî operatori, “garantendo comunque un orario di apertura settimanale non inferiore a quaranta ore suddiviso in almeno cinque giorni, per le farmacie urbane (,) e di trentasei ore settimanali (sempre suddivise in almeno cinque giorni), per le farmacie rurali”.

Nel merito, la sezione rigetta l’eccezione preliminare d’inammissibilità del ricorso per mancanza di interesse concreto ed attuale all’impugnazione, svolgendo i ricorrenti (titolari di una serie di farmacie operanti sul territorio, nonché l’Associazione provinciale titolari di farmacie) “un ruolo costitutivo ed ineliminabile nell’organizzazione e gestione del servizio farmaceutico comunale”, a nulla rilevando “che non si siano ancora verificati sostanziali disagî nell’erogazione del servizio”.

La materia in oggetto è stata recentemente incisa dall’art. 11, comma ottavo, d.l. n. 1/2012 (c.d. decreto Salva Italia), convertito con modificazioni dalla l. n. 27/2012, ai sensi del quale: “I turni e gli orarî di farmacia stabiliti dalle autorità competenti in base alla vigente normativa non impediscono l’apertura della farmacia in orari diversi da quelli obbligatorî”.

I giudici, richiamando propria nonché consolidata giurisprudenza, ribadiscono che la norma citata: “Da un lato richiama e fa salve (...) tutte le disposizioni vigenti in materia di turni e di orari delle farmacie e insieme ad esse i provvedimenti amministrativi emanati ed emanandi; dall’altro lato innova il sistema precisando che detti provvedimenti sono vincolanti solo nella parte in cui fanno obbligo, alle singole farmacie, di rimanere aperte in un determinato orario e/o in un determinato turno, ma non sono più vincolanti nella parte in cui prevedono che esse rimangano chiuse in orari e/o turni diversi (…). La norma attribuisce inoltre direttamente a ciascun esercente, titolare di farmacia, la facoltà di programmare a sua discrezione l’orario e il calendario dell’apertura del proprio esercizio, salvo il rispetto degli obblighi di apertura imposti dall’autorità; e ciò senza il bisogno dell’intermediazione di appositi provvedimenti amministrativi”.

La specifica regolamentazione della materia, attribuita alla legislazione regionale, assume dunque funzione di “garanzia minima e cogente dei limiti temporali di apertura del servizio”. Detta normativa continua a “prevedere l’obbligo dell’autorità comunale di fissare la disciplina degli orarî, dei turni e delle ferie delle farmacie”.

Nel caso di specie, il Comune non aveva “dato applicazione ad una norma (quella regionale) finalizzata a garantire corretti standard minimi di erogazione del servizio farmaceutico”. A tale proposito il collegio ritiene che il “pericolo per l’organizzazione del servizio (non) possa essere neutralizzato dal fatto che alcuni esercizî farmaceutici rispettino (…) orarî di apertura più ampî di quelli minimi previsti dalla legislazione regionale o che più farmacie (…) operino 24 ore su 24”; si è, infatti, in presenza di mere “scelte aziendali”, prive di “cogenza e stabilità”, le quali “non incidono sull’obbligo normativo di regolamentare gli orarî minimi di apertura degli esercizî farmaceutici”.

Un ulteriore profilo di censura del provvedimento impugnato si ravvisa nell’omissione degli obblighi stabiliti, sempre dalla normativa regionale in questione, con riferimento alla consultazione delle organizzazioni sindacali delle farmacie pubbliche e private, previo parere dei rappresentanti degli ordini professionali di competenza, acquisito il parere dei competenti ufficî dell’a.u.s.l.. FM

 

 



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Inserito in data 22/12/2015
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 16 dicembre 2015, n. 689

Appalti: decorrenza del termine d’impugnazione previsto dall’art. 120, co. 5 c.p.a.

I giudici del C.G.A., pronunciandosi sulla decorrenza del termine d’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva o dell’esclusione dalla gara, si sono occupati del caso in cui l’interessato, in assenza di formale comunicazione da parte della stazione appaltante, abbia comunque acquisito la conoscenza degli elementi essenziali dei relativi provvedimenti.

Al riguardo – afferma il Collegio – “l’art. 120, comma 5 c.p.a., non prevedendo forme di comunicazione esclusive e tassative, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con precipuo riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con forme diverse rispetto a quelle divisate dall’art. 79 del Codice dei contratti pubblici”.

Non v’è dubbio, infatti, che la conoscenza dell’atto di aggiudicazione definitiva possa avvenire con modalità diverse da quelle in prima battuta previste dal richiamato articolo 120, comma 5 c.p.a. e, non a caso, tale conclusione risulta avvalorata proprio dall’inciso contenuto nel predetto comma 5 ove si dice “ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto”.

In conclusione, dunque, ai sensi del combinato disposto degli artt. 79 commi 5 e 5 bis Codice dei contratti pubblici e 120 comma 5 c.p.a., “è irricevibile il ricorso proposto contro un provvedimento di esclusione dopo lo spirare del termine di trenta giorni dalla sua conoscenza ottenuta mediante comunicazione compiuta dalla stazione appaltante via fax e, ai fini della piena conoscenza di un provvedimento lesivo, non è necessario che esso sia conosciuto nella sua integralità, ma è sufficiente la concreta percezione dei suoi elementi essenziali, posto che la completa successiva cognizione di tutti gli aspetti del provvedimento o del procedimento può consentire la proposizione dei motivi aggiunti”.

Tale conclusione, sempre a giudizio del Collegio, è legislativamente imposta: ragionando diversamente, infatti, il termine per impugnare “slitterebbe” in avanti sino al momento della comunicazione formale ex articolo 79 cod. contr. SS 



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Inserito in data 22/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 21 dicembre 2015, n. 5802

Requisiti negli appalti: cosa si intende per definitività dell’accertamento dell’irregolarità contributiva?

Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul requisito di regolarità contributiva previsto dall’art. 38, comma 1, lett. i) del d.lgs. 163/2006 nella parte in cui afferma che le violazioni gravi alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali debbano essere “definitivamente accertate” per poter condurre all’esclusione dell’impresa dalla procedura ad evidenza pubblica.

Precisa il Collegio che “il concetto di definitività nell’ambito delle gare pubbliche va fotografato al momento della scadenza del termine di presentazione dell’offerta, nel senso che dubbi sulla debenza devono sussistere a quel momento, oppure a quella data deve risultare accolta una istanza di rateizzazione, ovvero deve essere stato presentato e risultare ancora pendente un ricorso amministrativo (se previsto) e/o giurisdizionale”.

Peraltro, non può valere a sanatoria della situazione di inerzia la mera pendenza del termine di contestazione giudiziale della contestata irregolarità, laddove il gravame giurisdizionale è stato presentato in una data successiva al momento storico (quello costituito dal termine finale di presentazione dell’offerta) in cui l’impugnativa giudiziale avrebbe potuto e dovuto essere proposta, di guisa che il DURC negativo reso alla data della relativa verifica deve ritenersi definitivo.

Opinare diversamente – concludono i giudici di Palazzo Spada – significherebbe rimettere alla mera volontà dell’interessato la gestione di una azione che ha effetti sull’attività di conduzione della gara da parte della stazione appaltante e che soprattutto incide negativamente sulla par condicio degli offerenti. SS

 



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Inserito in data 21/12/2015
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, 16 dicembre 2015, n. 1745

L’esclusione dalla gara per omissione degli oneri di sicurezza è euro-compatibile?

Attesa la scarsa chiarezza delle disposizioni legislative sul tema, con la sentenza n. 3 del 2015, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che le ditte partecipanti alle gare pubbliche per l’affidamento di lavori devono indicare separatamente nell’offerta economica gli oneri di sicurezza aziendale, pena l’esclusione dalla procedura anche se non prevista dal bando di gara.

Poi, con la successiva decisione n. 9 del 2015, la stessa Adunanza Plenaria ha precisato che tale lettura interpretativa ha natura dichiarativa e, conseguentemente, ha escluso la possibilità di esercitare i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, pure per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si fosse conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015.

Ciò premesso, il T.A.R. Piemonte ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità del diritto vivente così sintetizzato coi principi comunitari: in primis, coi principi del legittimo affidamento e di certezza del diritto, che risulterebbero traditi nella misura in cui la normativa italiana pretende che l’impresa di gara eterointegri il bando non solo con la legge ma anche con l’interpretazione estensiva accolta dall’Adunanza Plenaria; in secundis, coi principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di favor partecipationis e di parità di trattamento sostanziale tra le imprese concorrenti, che sarebbero violati in quanto l’esclusione opera anche quando l’impresa sia concretamente rispettosa degli oneri di sicurezza aziendale. TM 


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Inserito in data 21/12/2015
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. II - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE, 17 dicembre 2015, n. 1747

È legittimo l’art. 30 CPA, che sottopone l’azione risarcitoria al termine di 120 gg? 

Il T.A.R. Torino ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30 c. 3 C.P.A., nella parte in cui stabilisce che la domanda di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi deve essere proposta “entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal momento in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”.

In primo luogo, la previsione di un brevissimo termine decadenziale per la proposizione dell’azione risarcitoria è sospettata di contrasto con l’accezione funzionale del principio del giusto processo (sancito negli artt. 47 della Carta dei diritti UE, 6 e 13 della CEDU, 111 c. 1 Cost.), secondo la quale il processo è giusto se garantisce adeguate forme di tutela della situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente.

Inoltre, ad avviso del Giudice piemontese, “l’ingiustificato favore per la posizione della pubblica amministrazione responsabile dell’illecito, nonché la potenziale disparità di trattamento di situazioni soggettive ugualmente meritevoli di tutela (diritto soggettivo – interesse legittimo) sottoposte, dalla norma censurata, ad un regime processuale sensibilmente diseguale (prescrizione ordinaria – decadenza breve), inducono a ravvisare anche la violazione del principio di uguaglianza proclamato dall’art. 3 della Costituzione”.

Da ultimo, “l’art. 30 cod. proc. amm. appare in contrasto con il principio di generalità ed effettività della tutela giurisdizionale che è sancito, per il processo amministrativo, dagli artt. 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione”. TM

 



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Inserito in data 19/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 18 dicembre 2015, n. 5776

Prescrizione farmaci biosimilari, pazienti di nuova diagnosi e diritto alla salute 

La pronuncia in epigrafe è degna di nota poiché interviene in un contesto, quale quello attinente alla prescrizione di farmaci e alla correlata tutela della salute, di indubbio interesse per la collettività.

Il Collegio, infatti, respinge gli appelli – riuniti ex art. 70 C.p.A. – di due società farmaceutiche avverso la delibera regionale con cui si auspicava la necessità/opportunità di «conseguire un tasso di utilizzo di farmaci biosimilari, qualora siano disponibili ad un costo inferiore rispetto al farmaco originatore, pari almeno all’incidenza dei pazienti di nuova diagnosi (“drug naive”) sul totale dei pazienti trattati».

I Giudici respingono le doglianze paventate avverso i suddetti atti di indirizzo, chiaramente rivolti ai Direttori generali delle Aziende sanitarie locali, negando – in primo luogo – la ritenuta violazione del dettato costituzionale – di cui all’articolo 117 – 2’ co. Lett. m). Non si ritiene, infatti, che la Regione avrebbe inciso – con le delibere impugnate – sulla possibilità di mantenere standards univoci su tutto il territorio nazionale in tema di tutela della salute.

Il Collegio della Terza Sezione continua ricordando, poi, come sia pacificamente ammessa sia dalla giurisprudenza amministrativa che dall’AIFA, Agenzia del Farmaco, il confronto concorrenziale tra farmaci biosimiliari ed il corrispondente farmaco originatore (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III n. 5478 del 3 dicembre 2015, CdS n. 298 del 22 gennaio 2014).

Quel che occorre, evidenziano i Giudici, è che a fronte di un’equa operatività dei farmaci sul piano scientifico, ovviamente prioritaria, si possa agire in modo da favorire il sistema sanitario nazionale e garantire una concentrazione delle spese.

Inoltre, pronunciandosi riguardo alla posizione dei medici prescrittori ed alla paventata delimitazione del relativo modus operandi, il Collegio ricorda come non sussista alcun vincolo  – posto che il medico può comunque disporre l’utilizzazione del farmaco da lui ritenuto maggiormente appropriato al caso di specie» (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza n. 4516 del 1 ottobre 2015).

In ultimo, insistendo nella reiezione delle posizioni delle aziende farmaceutiche, i Giudici concludono ricordando che l’Amministrazione non è sempre tenuta a servirsi del farmaco in assoluto più evoluto o ritenuto migliore, soprattutto se il farmaco più evoluto è certamente più costoso di altro farmaco di pari e sicura efficacia nella terapia della maggior parte dei casi trattati. Fermo restando la possibilità di acquisire anche il farmaco più evoluto e costoso se ciò si rileva (per una parte dei pazienti da trattare) realmente necessario (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, n. 5476 del 3 dicembre 2015).

Come si vede, sulla base di un equo contemperamento tra tutela della salute, efficienza delle professioni mediche ed economicità delle aziende sanitarie sul piano nazionale, i Giudici sono fermi nel respingere le contestazioni mosse dalle ditte farmaceutiche appellanti. CC

 



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Inserito in data 18/12/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 18 dicembre 2015, n. 5778

Difetto di giurisdizione: tesi della prospettazione e diritto ad una tutela piena 

Il Collegio della Terza Sezione conferma, sia pure con motivazione differente, la posizione assunta dai Giudici di primo grado.

Questi ultimi, infatti, erano intervenuti – declinando la propria giurisdizione in favore di quella ordinaria – nell’ambito di un contratto di fornitura siglato tra una ditta produttrice di strumentazione per attività ospedaliera ed un’azienda sanitaria locale, interrotto nelle more dell’esecuzione.

La denegata giurisdizione veniva fondata, ad avviso del primo Collegio amministrativo, sulla ritenuta qualificazione - dell’avvenuta interruzione del contratto, oggetto dell’odierna pronuncia - come recesso, anziché quale revoca – come prospettato, invece, dall’Azienda sanitaria resistente,.

In sostanza, il T.A.R. aveva accettato la tesi che con gli atti susseguenti all’aggiudicazione sia stato giuridicamente perfezionato il contratto; proprio per questo le successive manifestazioni di volontà dell’Azienda Sanitaria dovevano essere interpretate, a tutti gli effetti, come “recesso dal contratto” al di là della errata denominazione “revoca dell’aggiudicazione”.

Pertanto, i Giudici avevano ritenuto di poter fondare la giurisdizione civile e non quella amministrativa, originariamente adita.

Di contro, la ricorrente – odierna appellante – contesta il fatto che non spettasse  ai Giudici qualificare la vicenda oggetto dell’odierno contenzioso come recesso, piuttosto che come revoca.

Il Collegio interviene in sede di gravame, sottolineando, in primo luogo, la pienezza dei propri poteri – riguardo alla devoluzione di questioni attinenti alla giurisdizione, ex art. 9 C.p.A.

Ritiene, poi, che la questione di giurisdizione debba essere risolta prendendo come riferimento la posizione giuridica soggettiva rivendicata dalla parte ricorrente in primo grado.

Di conseguenza, dibattendo tra effettività della tutela giurisdizionale e rilevanza della cd. tesi della prospettazione, i Giudici di Palazzo Spada insistono nel ritenere fondata la devoluzione al Giudice civile.

Infatti, dando seguito alle doglianze presentate dall’appellante, si è dato vigore alla tesi per cui l’atto interruttivo – oggetto di contestazione - sia stato emesso in carenza di potere.

Come tale, e prescindendo dalla individuazione come recesso piuttosto che come revoca, quel che rileva – sottolinea il Collegio  – è l’impostazione data dalla ricorrente alla propria domanda, che si risolve nella chiara rivendicazione di una posizione di diritto soggettivo (il diritto, o se si vuole il complesso di diritti, nascente dal contratto) a fronte della quale l’atto impugnato risulta viziato da “carenza di potere”.

Si tratta, dunque, di una domanda sulla quale deve pronunciarsi il Giudice ordinario. CC

 



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Inserito in data 17/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 10 dicembre 2015, n. 5630

Appalti: offerta al lordo o al netto dell’i.v.a.

Il Consiglio di Stato respinge il ricorso presentato da un operatore economico, secondo classificato in una gara d’appalto per l’affidamento di un servizio, il quale lamentava l’erronea applicazione, nel verbale d’aggiudicazione e nella nota-comunicazione della stazione appaltante, del criterio del prezzo più basso, calcolato al netto dell’i.v.a. anziché al lordo, in asserita violazione dell’art. 82 del codice dei contratti pubblici, e della lex specialis.

In particolare, il ricorrente, costituito in o.n.l.u.s., essendo esente dal pagamento dell’imposta indiretta, motivava nel senso di ritenere la propria offerta migliore rispetto a quella dell’aggiudicatario, che in qualità di soggetto commerciale è invece assoggettato all’imposta sul valore aggiunto.

Si rilevava, già in primo grado, come il disciplinare di gara, non impugnato, fosse “chiaro ed univoco nel prevedere quale criterio di aggiudicazione il prezzo più basso al netto dell’i.v.a.”; inoltre, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza, “nelle gare d’appalto il prezzo base d’asta e, correlativamente, il prezzo oggetto dell’offerta, dovevano sempre considerarsi al netto dell’i.v.a., al fine di garantire la parità di trattamento tra i concorrenti, la libera concorrenza e la trasparenza dell’azione amministrativa, da ritenersi prevalenti sull’interesse della stazione appaltante a sopportare costi inferiori, venendo diversamente svantaggiate le imprese commerciali rispetto agli enti senza fini di lucro, già destinatarî di un regime fiscale e contributivo agevolato estraneo alla disciplina delle offerte nelle gare pubbliche di appalto, il cui mercato era aperto, a parità di condizioni, a tutti gli operatori a prescindere dal regime fiscale cui fossero assoggettate singole categorie”.

Per le medesime ragioni l’appello è ritenuto infondato, non sussistendo alcuna “erronea interpretazione ed applicazione del principio comunitario della par condicio”, con riferimento al quale si era paventato un contrasto con l’ordinamento europeo, e conseguentemente suscitata istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e. (si riporta, a margine, la formulazione del quesito: “Se il termine Ê»prezzo più basso’ di cui all’art. 53, comma 1, lett. b), della Direttiva 2004/18/CE dev’essere interpretato nel senso che la stazione appaltante deve, nella determinazione del prezzo più basso, tenere in considerazione eventuali agevolazioni e/o esenzioni fiscali sul corrispettivo d’appalto, o se invece il prezzo più basso va sempre e comunque determinato al netto di eventuali gravami fiscali”). FM 


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Inserito in data 17/12/2015
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 11 dicembre 2015, n. 1921

Annullamento della cartella di pagamento per oneri di urbanizzazione

Con la sentenza in epigrafe il Tribunale amministrativo di Catanzaro conferma l’orientamento giurisprudenziale secondo cui: “Qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, (viene) meno la giustificazione causale della corresponsione di somme a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all’attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell’originaria obbligazione di dare, cosicché l’importo versato va restituito” (cfr. da ultimo T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 17 Marzo 2015, n. 420).

L’interessato ricorreva avverso una cartella di pagamento con la quale l’ente riscossore agiva per l’esazione di oneri di urbanizzazione. Segnatamente, il privato forniva la prova dell’adempimento, evincibile dai bollettini prodotti nonché dalla concessione edilizia. Le somme in questione erano state pagate al competente funzionario comunale, il quale non aveva tuttavia provveduto al conseguente versamento.

In sede penale, il pubblico ufficiale patteggiava per il reato di peculato. Sui beni del soggetto veniva disposto il sequestro conservativo.

In ordine al secondo motivo di censura, il ricorrente eccepiva la circostanza del mancato utilizzo della concessione cui gli oneri si connettono.

Il Comune, nonostante la richiesta di rimborso avanzata dal ricorrente, risulta che non avesse mai contestato l’utilizzo del titolo edilizio.

Il Collegio si pronuncia per la fondatezza del secondo motivo di ricorso, ritenendo assorbito il primo, accoglie la richiesta del privato, e per l’effetto accerta e dichiara che il soggetto non è debitore della somma contestata, conseguentemente annulla la cartella impugnata.

L’ente comunale non viene tuttavia condannato al rimborso delle somme trasferite dalla controparte al funzionario, in considerazione della circostanza che dalle risultanze documentali in atti il pagamento non risulta effettuato in favore del Comune, bensì di soggetto non legittimato a riceverlo. Conclude il Tribunale osservando come resti comunque salva l’applicazione delle norme civilistiche dettate in materia di ripetizione, attivabili nei confronti del soggetto percettore dell’indebito. FM

 



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Inserito in data 16/12/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 24 novembre 2015, n. 46624

Nessun raddoppio di sospensione della patente per chi rifiuta alcoltest e guida auto di terzo

Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite Penali hanno affrontato la seguente questione: “se, nel caso di rifiuto a sottoporsi all’esame alcolemico previsto dall’art. 186, comma 7, cod. strada, il rinvio operato dalla norma all’art. 186, comma 2, lettera c), è limitato al trattamento sanzionatorio ivi previsto per la più grave fattispecie di guida in stato di ebbrezza o sia esteso anche alla previsione del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato”.

Nella fattispecie in esame, il Tribunale di Treviso aveva raddoppiato (determinandola in anni quattro) la durata della sospensione della patente di guida dell’imputato - chiamato a rispondere del reato di rifiuto di sottoposizione ad esame alcolemico di cui all’art. 186, comma 7, Cod. strada - in considerazione del fatto che l'autovettura appartenesse a persona estranea alla violazione.

Avverso detta statuizione, l’imputato aveva proposto ricorso per cassazione, deducendo che il richiamo operato dall’art. 186, comma 7 al precedente comma 2, lett. c) avrebbe dovuto essere interpretato come riferito alla sola misura delle sanzioni penali, essendo la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente sottoposta, invece, ad un regime autonomo rispetto a quello previsto dal comma 2 del medesimo articolo.

A tale impostazione aveva altresì aderito il Procuratore generale, ulteriormente specificando come la clausola di esclusione (“salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”), contenuta nel secondo periodo del comma 7, art. 186 cod. strada, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, dovesse essere interpretata come collegata direttamente alla sola sanzione accessoria della confisca e non anche alla sospensione della patente di guida.

Le Sezioni Unite penali, investite della questione dalla IV sezione assegnataria del ricorso, dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento della fattispecie, hanno dato atto dell’esistenza di due contrapposti orientamenti in materia. Segnatamente, un primo filone – richiamato dal ricorrente – si era espresso nel senso che “il rinvio operato dall’art. 186, comma 7 all’art. 186, comma 2, lett. c) dovesse considerarsi limitato al trattamento sanzionatorio previsto per la più grave fattispecie di guida in stato di ebrezza, mentre, in relazione alle sanzioni amministrative accessorie, il legislatore ha, al comma 7, espressamente disciplinato la sospensione della patente di guida con autonoma cornice edittale (fino ad un massimo di due anni), e la confisca del veicolo, rinviando - limitatamente a quest’ultima - ad altra disposizione di legge, solo con esclusivo riferimento alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione”.

La conseguenza diretta di detta impostazione ermeneutica è che la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto ai sensi dell’art. 186, comma 7, cod. strada, non dovrebbe essere raddoppiata nell’ipotesi in cui il veicolo appartenga ad un soggetto terzo.

Altra impostazione, di segno diametralmente opposto rispetto alla precedente, riteneva, invece, che il rinvio al trattamento sanzionatorio dell’art. 186, comma 2, lett. c), contenuto nel comma 7 dell’art. 186 cod. strada, legittimasse l’applicazione del raddoppio della durata della pena accessoria della sospensione della patente qualora il veicolo appartenesse ad un soggetto terzo e non fosse possibile quindi procedere alla sua confisca, ciò in ragione del fatto che tale rinvio, da qualificarsi come “formale” (o “dinamico), implica di dover individuare la disciplina applicabile per relationem, avendo cioè riguardo a quella attualmente contenuta nell'art. 186, comma 2, lett. c).

Il Supremo Consesso, dopo aver esaminato le principali modifiche intervenute nella disciplina della fattispecie ed aver altresì analizzato le presumibili intenzioni del legislatore nella regolamentazione della materia in oggetto, ha ritenuto di dover aderire alla prima delle tesi esposte, enunciando il seguente principio di diritto: “il rinvio alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione, contenuto nel secondo periodo del comma 7 dell'art. 186 cod. strad., dopo le previsioni relative alla sospensione della patente di guida ed alla confisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole modalità e procedure contenute nell'art. 186, comma 2, lett. c), che regolano il sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, qualora il veicolo appartenga a persona estranea al reato; conseguentemente la durata della sospensione della patente di guida, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell'art. 186, comma 7, secondo periodo, tra il minimo di sei mesi ed il massimo di due anni, non deve essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato”. MB

 




Inserito in data 16/12/2015
CONSIGLIO DI STATO- SEZ. V, 11 dicembre 2015, n. 5662

A chi spetta la rimozione dei rottami di un aereo precipitato?

La V sezione del Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, ha rigettato il ricorso proposto da Alitalia SpA, volto alla riforma della sentenza resa dal T.A.R. Sardegna con la quale era stata confermata l’ordinanza emessa dal Comune di Sarroch ed intimante alla compagnia aerea il recupero e lo smaltimento dei rottami dell’aeromobile DC-9, di proprietà della compagnia di volo ATI (incorporata, a far data dal 1994, dal gruppo Alitalia), precipitato nel lontano 1979.

In particolare, il Collegio ha ritenuto di non poter condividere la tesi prospettata dalla ricorrente ed afferente la presunta assenza di responsabilità di Alitalia quale successore universale di A.T.I., in quanto a mente dell’art. 192, co. 4 del D. Lgs. n. 152 del 2006, “qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica, ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del d.l. n. 231/2001,  in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni”.

Con riguardo a tale rilievo – ha precisato la V Sezione – i rapporti giuridici attivi e passivi della Società incorporata (ATI), non concernono sanzioni di natura amministrativa – notoriamente intrasmissibili agli eredi - ma riguardano la responsabilità derivante da un evidente danno ambientale causato dalla società dante causa: ciò è sufficiente a sgombrare il campo dalla censura rappresentata dall’appellante.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto parimenti infondati i rilievi formulati dalla ricorrente e relativi, da una parte, all’assenza di un accertamento della responsabilità in capo ai proprietari delle aree interessate dallo spargimento dei rottami, dall’altra, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai fini dell’instaurazione del contraddittorio tra le parti coinvolte.

In virtù del terzo comma dell’art. 192 del D. Lgs. n. 152 del 2006, “fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”. Tuttavia, nel caso in esame, la dinamica dell’evento ed il clamore realizzatosi intorno al fatto fanno ritenere insussistente il nesso causale tra la condotta del proprietario dei terreni sui quale il velivolo è precipitato - che sorge esclusivamente in relazione ad un atteggiamento doloso o colposo - ed il danno realizzatosi.

Ad avviso del Collegio, del tutto pleonastica deve altresì ritenersi la comunicazione di avvio del procedimento di rimozione, in considerazione del fatto che la responsabilità non potesse che essere ascritta alla Società proprietaria dell’aeromobile.

Da ultimo – hanno precisano i giudici di palazzo Spada – parimenti infondato l’argomento, sostenuto dalla ricorrente, afferente la “vetustà” dei rifiuti, l’inerzia delle amministrazioni coinvolte ed il lungo tempo trascorso che avrebbero reso i rottami aerei “res derelictae” usucapite dai proprietari dei terreni. Ed invero, la giurisprudenza del Consiglio di Stato da sempre ha affermato che “l’inquinamento dà luogo a una situazione di carattere permanente al pari dell’abuso edilizio, che perdura fino a che non ne siano rimosse le cause e i parametri ambientali non siano riportati entro i limiti normativamente accettabili; da tale presupposto la giurisprudenza ha fatto derivare l’applicazione della legge ratione temporis vigente per far cessare i perduranti effetti della condotta omissiva ai fini della bonifica, anche indipendentemente dal momento in cui siano avvenuti i fatti origine dell’inquinamento”. MB 

 



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Inserito in data 15/12/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 14 dicembre 2015, n. 5666

L’idoneo è titolare di un (mero) interesse legittimo allo scorrimento della graduatoria

Questa interessante decisione del Consiglio di Stato si sofferma sulla posizione soggettiva degli idonei di una graduatoria concorsuale vigente, operando un’efficace sintesi della problematica sottesa.

Va premesso che, la previsione di ultrattività delle graduatorie dei concorsi non può fondare, secondo l’insegnamento dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio 28.7.2011, n. 14, un diritto soggettivo pieno all'assunzione degli idonei mediante scorrimento della graduatoria, che sorgerebbe per il solo fatto della vacanza e disponibilità di posti in organico”.

“L'amministrazione non è incondizionatamente tenuta alla copertura dei posti, ma deve comunque assumere la decisione organizzativa di procedere al reclutamento di personale, correlata ad eventuali limiti normativi alle assunzioni, alla disponibilità di bilancio, alle scelte programmatiche compiute dagli organi di indirizzo e ad ulteriori altri elementi di fatto e di diritto rilevanti”.

“Di conseguenza, rimane ampiamente discrezionale la decisione sull’opportunità di procedere alla copertura del posto vacante; solo allorchè si è stabilito di procedere alla provvista di personale, l'amministrazione è tenuta a motivare in ordine alle modalità di reclutamento utilizzate, dando conto dell’esistenza di eventuali graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci al momento dell'indizione del nuovo concorso”. TM

 



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Inserito in data 14/12/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 dicembre 2015, n. 262

La prescrizione dell’azione di responsabilità contro gli amministratori della SNC

La Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2941, numero 7), del codice civile, nella parte in cui non prevede che la prescrizione sia sospesa tra la società in nome collettivo e i suoi amministratori, finché sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”.

Come sottolineato dal Giudice delle Leggi, “Per le azioni di responsabilità, intraprese dalle società in nome collettivo contro gli amministratori, non opera la sospensione della prescrizione, sancita per le persone giuridiche e per le società in accomandita semplice”.

La ratio di tale causa di sospensione -  sintetizzabile nella considerazione che “durante la permanenza in carica degli amministratori, è più difficile per la società acquisire compiuta conoscenza degli illeciti che essi hanno commesso e determinarsi a promuovere le azioni di responsabilità” – non ha alcuna attinenza né con la distinzione tra soci accomandanti e soci accomandatari, né con la personalità giuridica e, pertanto, è riferibile tanto alle s.a.s. quanto alle s.n.c.

In conclusione, la norma codicistica viola l’art. 3 Cost., in quanto opera una discriminazione tra S.N.C. da un lato, S.A.S. e persone giuridiche dall’altro, priva di una giustificazione plausibile. TM

 



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Inserito in data 12/12/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 dicembre 2015, n. 5617

Sugli organismi di diritto pubblico (e, in particolare, sulla Fondazione Arena di Verona)

Al fine di vagliare la legittimità dell’inserimento della Fondazione Arena di Verona tra le amministrazioni sottoposte alla spending review, il Consiglio di Stato si è preliminarmente interrogato sulla possibilità di qualificare tale ente come organismo di diritto pubblico.

Ai sensi dell’ art. 3 c. 26 DLGS 163/06, un ente può qualificarsi come organismo di diritto pubblico se presenta tutti e tre i seguenti requisiti: 1) ha come fine istituzionale il soddisfacimento di specifiche esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale e commerciale; 2) possiede la personalità giuridica (anche di natura privata); 3) è finanziato in percentuale maggioritaria dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione è sottoposto al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza è costituito da membri, dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali, o da altri organismi di diritto pubblico.

Secondo il Consiglio di Stato, “La rispondenza della fondazione appellante (della quale sono soci fondatori lo Stato, la Regione Veneto e il Comune di Verona) ai parametri sopra indicati risulta innegabile in base a dati non controversi, quali il possesso di personalità giuridica – la cui natura privata non esclude il perseguimento di rilevanti interessi pubblici, connessi alla diffusione dell’arte musicale e quindi alla promozione della cultura, quale valore riconducibile all’art. 9, primo comma, della Costituzione – con ulteriore (e di primario rilievo sotto il profilo in esame) percezione di contributi pubblici , nonchè assoggettamento a controlli di assoluta pregnanza” (quali, ad esempio, la vigilanza del Ministero per i beni e le attività culturali, il controllo sulla gestione finanziaria da parte della Corte dei Conti…).

Né tale qualificazione può essere messa in dubbio dal riconoscimento statutario dell’autonomia nell’esercizio delle funzioni affidate alla fondazione. Infatti, la giurisprudenza prevalente si attiene a una nozione di controllo che prescinde dal finanziamento pubblico e non esclude criteri imprenditoriali di gestione. “Appare evidente, dunque, come l’elemento fondante dell’organismo di diritto pubblico sia appunto quello, riconducibile alla rilevanza degli interessi generali perseguiti, in rapporto ai quali non può venire meno una funzione amministrativa di controllo, anche qualora la gestione fosse produttiva di utili (come dimostra il carattere espressamente disgiunto dei requisiti, di cui al precedente punto “c”): è propria dell’Amministrazione, infatti, la cura concreta di interessi della collettività, che lo Stato ritiene corrispondenti a servizi da rendere ai cittadini e che pertanto, ove affidati a soggetti esterni all’Apparato amministrativo vero e proprio, debbono comunque rispondere a corretti parametri gestionali, anche sul piano dell’imparzialità e del buon andamento”. TM



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Inserito in data 11/12/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 dicembre 2015, n. 260

Norme fintamente interpretative e diritto ad un processo equo ex art. 117 Cost. 

Con la sentenza in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 …, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui prevede che l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine”.

Secondo il Giudice delle Leggi, la norma censurata non presenta i requisiti minimi per poter essere qualificata come interpretativa, in quanto fornisce un significato non ricavabile dalla disposizione interpretata. Nello specifico, la norma impugnata vieta la stabilizzazione al ricorrere di qualunque violazione di norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine e, quindi, non solo in caso di rinnovo o proroga illegittima ma anche in caso di apposizione al primo contratto di un termine illegittimo. Al contrario, “La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo “rinnovo” evoca un concetto diverso rispetto a quello dell’illegittimità del termine, apposto al primo contratto”. “Se il rinnovo attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale, la questione scrutinata nel giudizio principale verte su un vizio genetico, che inficia il contratto sin dall’origine. … L’autonomia concettuale dei rinnovi traspare da una trama, variegata e coerente, di disposizioni” (cfr.  art. 2 L. 230/62; artt. 4 e 5 DLGS 368/01; art. 21 DLGS 81/15).

Stante l’assenza di un appiglio semantico con la norma oggetto di interpretazione, la norma censurata era diretta a produrre effetti retroattivi. In questo modo la disposizione impugnata ha leso l’affidamento legittimo dei consociati e si è ingerita arbitrariamente nell’esercizio della funzione giurisdizionale, in mancanza di motivi imperativi di interesse generale. Pertanto, nella misura in cui impedisce la stabilizzazione anche in caso di illegittima apposizione del termine, la norma impugnata contrasta con l’art. 117 Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, che consacrano il diritto ad un processo equo. TM

 



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Inserito in data 10/12/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 1 dicembre 2015, n. 47489

Apologia dell’IS via web: istigazione a delinquere aggravata da finalità terroristica

La prima sezione penale della Corte di Cassazione, con la pronuncia in epigrafe, ha affermato che integra l’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 414 c.p., comma 3, aggravato dalla finalità di terrorismo, la diffusione, a mezzo internet, di documenti, scritti in lingua italiana e diretti ad un numero potenzialmente illimitato di soggetti radicati sul territorio nazionale, che incitino al sostegno delle ragioni di un’organizzazione terroristica, esaltandone la sua espansione, e che disvelino collegamenti con personaggi ufficialmente classificati come terroristi nei documenti internazionali.

Nel caso di specie, il ricorrente era stato indagato per aver fatto pubblicamente apologia dello Stato Islamico, tramite la diffusione in rete di un documento, redatto in lingua italiana, di propaganda delle attività del Califfato.

La Corte ha anzitutto ricordato, come ai fini dell’integrazione del delitto di cui all'art. 414 c.p., comma 3, non sia sufficiente l'esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, occorrendo invece che “il comportamento dell'agente, per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell'autore e per le circostanze di fatto in cui esso si esplica, appaia tale da determinare concretamente il rischio della consumazione di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato”.

I giudici di piazza Cavour - muovendo dall’assunto che l'apologia possa avere ad oggetto anche un reato associativo, quindi anche il delitto di associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale (art. 270 bis c.p., comma 2) – precisano che l’accertamento del pericolo effettivo è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità qualora sia stato correttamente ed esaustivamente motivato.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto di non poter accogliere la tesi - sostenuta dal ricorrente - secondo cui il documento sollecitava un’adesione soltanto “ideologica”, ed invero lo scritto propagandistico diffuso in rete presupponeva “la natura combattente e di conquista violenta da parte dell'organizzazione”, esaltando l’espansione del Califfato, anche con l'uso delle armi.

Pertanto, ad avviso dei giudici, l'adesione sollecitata nei destinatari non poteva affatto essere considerata una mera manifestazione del pensiero, anzi, la circostanza che il documento fosse scritto in italiano, rivolto quindi ad un pubblico di soggetti radicati sul territorio nazionale, ne tradiva la sua attitudine ad essere in concreto capace di suscitare ampio interesse ed illimitata condivisione.

Parimenti infondata la censura relativa all’operatività dello “Stato Islamico” dentro confini geografici suoi propri: la Suprema Corte ha, con riguardo a tale rilievo, osservato che l'apologia di reato oggetto della contestazione, senza alcun dubbio, è stata posta in essere in Italia, ulteriormente precisando che, in ogni caso, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana è sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato l'evento o sia stata compiuta, in tutto o in parte, l'azione.

In particolare – proseguono gli Ermellini - integra “il delitto di associazione con finalità di terrorismo, anche internazionale, la formazione di un sodalizio, connotato da strutture organizzative "cellulari" o "a rete", in grado di operare contemporaneamente in più Paesi, anche in tempi diversi, che realizzi anche una delle condotte di supporto funzionale all'attività terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali (…), con l'affermazione della giurisdizione italiana in caso di cellula operante in Italia per il perseguimento della finalità di terrorismo internazionale sulla base dell'attività di indottrinamento, reclutamento e addestramento al martirio di nuovi adepti”.

Quindi – concludono i giudici della I sezione – in un contesto simile, contrassegnato dalla potenzialità diffusiva indefinita sui siti web di documenti inneggianti ad organizzazioni terroristiche e caratterizzati dalla fruibilità illimitata, la natura pubblica dell’apologia appare pienamente integrata. MB

 




Inserito in data 10/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 7 dicembre 2015, n. 5572

Sospensione del procedimento disciplinare a carico del g.a. nel caso di inizio dell’azione penale

La IV Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta sulla questione relativa all’applicabilità, anche ai magistrati amministrativi, dell’art. 59 del D.P.R. n. 916 del 1958 che prevede la sospensione del procedimento disciplinare a carico del magistrato nel caso di inizio dell’azione penale.

La vicenda de qua trae origine dal ricorso proposto da un magistrato, all’epoca dei fatti Presidente TAR ed imputato di intrattenere contatti telefonici aventi ad oggetto la decisione di un ricorso riguardante una gara di appalto - avverso l’applicazione di una sanzione disciplinare, irrogata per aver il comportamento del magistrato denotato “una violazione dei doveri afferenti l’ufficio, con conseguente eventuale lesione dell’immagine pubblica del magistrato e dell’intero ordine giudiziario amministrativo”. Contestualmente, gli stessi fatti avevano portato all’apertura di un procedimento penale per l’accertamento dell’eventuale rilevanza penale della condotta posta in essere dal magistrato.

L’appellante era insorto, prospettando plurime censure di violazione di legge e facendo presente che si era al cospetto di un “vuoto normativo” circa la normativa applicabile ai magistrati amministrativi.

Il Giudice di prime cure aveva respinto il ricorso, osservando anzitutto che “mentre le norme di cui al R.d.lgs. n. 511 del 1946 erano venute meno per i magistrati ordinari - nei cui confronti operavano le norme di cui al d.lgs. n 109 del 2006 - esse continuavano ad applicarsi ai magistrati amministrativi. Doveva pertanto ritenersi che, fino all’emanazione di una nuova legge relativa ai procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati amministrativi, il corpus normativo applicabile ai Magistrati Amministrativi era quello costituito dagli artt. 18, 19 e 21 della legge sulle guarentigie della magistratura, nonché, per quanto concerne il rapporto tra procedimento disciplinare e penale, dall’art. 59 del d.P.R. n. 916 del 1958”.

Con riferimento al caso di specie, i giudici romani avevano altresì ritenuto che la pendenza dell’azione penale non ostasse alla conclusione del procedimento disciplinare ed all’eventuale irrogazione della sanzione, in considerazione del fatto che il procedimento disciplinare era stato avviato per violazione dei doveri d’ufficio, con particolare riferimento all’obbligo di riserbo, mentre quello penale aveva ad oggetto il reato di corruzione in atti giudiziari di cui all’art. 319 ter c.p. in relazione all’art 318 c.p., e non sussisteva, quindi, “alcuna identità” del fatto materiale addebitato.

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, sovverte la decisione resa dal Tar Lazio – Roma, anzitutto precisando che la disposizione cui far riferimento, nel caso di specie, è quella di cui all’art. 59 del D.P.R. n. 916 del 1958, da sempre interpretata nel senso di norma “espressiva di una pregiudizialità penale che impone la sospensione del procedimento disciplinare dal momento in cui si abbia notizia dell’avvenuto avvio dell’azione penale”.

Il punto centrale della questione – osserva il Collegio – è comprendere la “latitudine applicativa” della disposizione, ovvero stabilire le condizioni in forza delle quali il giudizio disciplinare debba necessariamente arrestarsi allorché sia stata intrapresa l’azione penale.

Sul significato da attribuirsi all’espressione contenuta nell’ultimo comma della citata norma – precisa il collegio - si sono espresse, in termini lapidari, le SS.UU. della Corte di Cassazione (n° 7310/2014), affermando che esso debba intendersi nel senso di “medesima vicenda”.

Quindi, ciò che rileva è che si proceda in relazione al “medesimo fatto storico”, diversamente - qualora detta locuzione venisse intesa nel più ristretto significato di “stessa imputazione” –  “si determinerebbero inevitabili sovrapposizioni con potenziali contrasti e divergenze nell'ambito degli accertamenti svolti”, sicché l'incolpato si troverebbe potenzialmente esposto ad una duplice condanna disciplinare, anziché ad una sola: nel caso di specie, una prima condanna disciplinare per il fatto qualificato quale rivelazione di segreto d’ufficio, una seconda (conseguente all’eventuale condanna penale) coincidente con l’imputazione positivamente riscontrata dal giudice in sede penale.

La IV Sezione ritiene, pertanto, di non poter condividere le motivazioni espresse dal Tar, poiché esse traviserebbero le esigenze sottese al decisum delle SS.UU. sopra richiamate, facendo venir meno il favor rei processuale di cui la disposizione è portatrice e che si declina proprio “nella opportunità di evitare che l’incolpato si trovi esposto alla possibilità di contestazioni c.d. grappolo e frazionate nel tempo in relazione al medesimo fatto storico diversamente qualificato”. MB 

 



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Inserito in data 09/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 4 dicembre 2015, n. 5530

Giurisdizione per la quantificazione dell’indennizzo ex art. 42 bis d.P.R. n. 327/01

In una controversia esclusivamente attinente alla quantificazione dell’importo dovuto ai sensi dell’art. 42 bis del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, il Consiglio di Stato ribadisce la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario.

Nella fattispecie in questione, osserva il collegio, non veniva in contestazione l’utilizzo da parte dell’amministrazione dell’istituto dell’acquisizione sanante, né la legittimità dello stesso in relazione alla sussistenza dei presupposti normativamente previsti per l’emanazione del relativo provvedimento.

I giudici di Palazzo Spada riprendono la propria recente pronuncia n. 4777 del 19 Ottobre 2015, nonché le statuizioni sul medesimo tema della Corte regolatrice della giurisdizione (sentenza 29 Ottobre 2015, n. 22096) e della Corte costituzionale (sentenza 30 Aprile 2015, n. 71). In particolare, secondo le sezioni unite: “Può affermarsi che, nella fattispecie delineata dal d.P.R. n. 327/2001, art. 42 bis, l’illecita o l’illegittima utilizzazione di un bene immobile da parte dell’amministrazione per scopi di interesse pubblico costituisce soltanto il presupposto indispensabile, unitamente alle altre specifiche condizioni previste da tale articolo per l’adozione – si noti: nell’ambito di un apposito procedimento espropriativo, del tutto autonomo rispetto alla precedente attività della stessa amministrazione – del peculiare provvedimento di acquisizione ivi previsto (presupposto da indicare puntualmente nella motivazione di tale provvedimento …), con la conseguenza che , ove detto autonomo, speciale ed eccezionale procedimento espropriativo sia stato legittimamente promosso, attuato e concluso, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, in quanto previsto dal legislatore per la perdita della proprietà del predetto bene immobile, non può che conferire all’indennizzo medesimo natura non già risarcitoria ma indennitaria, con l’ulteriore corollario che le controversie aventi ad oggetto la domanda di determinazione o di corresponsione dell’indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario”.

Viene pertanto dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo per appartenere la stessa al giudice ordinario, dinanzi al quale il processo può essere riproposto, nei termini e con gli effetti di cui all’art. 11 c.p.a.. FM

 



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Inserito in data 07/12/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 2 dicembre 2015, n. 13655

Sanzioni A.n.a.c.: false dichiarazioni in merito ai requisiti morali

Con la sentenza in epigrafe i giudici laziali respingono il ricorso collettivo proposto per l’annullamento dei provvedimenti con i quali il Consiglio dell’Autorità nazionale anti corruzione aveva deliberato di irrogare, contro due operatori economici, sanzioni pecuniarie ai sensi dell’art. 6 comma 11, d.lgs. n. 163/2006, nonché la sanzione dell’iscrizione nel casellario informatico dei contratti pubblici di lavori, servizî e forniture, ai sensi degli artt. 38, comma 1 ter, decreto citato, e 8, comma 2, lettera s), d.P.R. n. 207/2010.

Nel dettaglio, la stazione appaltante aveva segnalato all’Autorità il rilascio da parte dei ricorrenti di dichiarazioni ritenute false, circa l’assenza di condanne penali rilevanti ai sensi dell’art. 38, comma 1, lettera c), codice dei contratti pubblici.

L’A.n.a.c. aveva ritenuto, ai sensi dell’art. 38 comma 2, fonte citata, che i partecipanti alla procedura di gara avrebbero dovuto indicare tutte le condanne penali riportate, e non soltanto quelle relative alla moralità professionale (essendo esclusi dall’informativa i soli casi espressamente emarginati dalla disposizione richiamata). Ciò in quanto la valutazione in ordine alla rilevanza dei casi spetta esclusivamente alla stazione appaltante.

I ricorrenti lamentavano, la violazione del più volte menzionato art. 38, sotto diversi profili. Segnatamente assumevano: in merito al comma 1, lettera c), che i reati di cui alle condanne riportate non sarebbero rientrati nel novero di quelli richiamati; con riferimento al comma 1 ter, l’assenza del dolo o della colpa grave in considerazione della rilevanza o della gravità dei fatti (e ciò anche ai fini dell’art. 8 del citato regolamento del 2010); e infine, un ulteriore profilo di illegittimità “sarebbe costituito dalla ritenuta automaticità della sanzione e dell’iscrizione nel casellario ogni volta che il concorrente abbia taciuto una condanna riportata, senza considerare la sua rilevanza ai fini della moralità professionale e della partecipazione alla gara”.

Si eccepiva ancora: l’eccesso di potere per errata o inconferente motivazione, difetto di istruttoria, e violazione degli artt. 3 e 10 l. 241/1990; la violazione dell’art. 8 comma 6 d.lgs. n. 163/2006; l’eccessiva afflittività della ritardata pubblicazione dell’annotazione; la violazione dell’art. 6 d.lgs. n. 163/2006.

Il collegio non condivide nessuna delle censure relative all’art. 38, ed osserva come il primo e il secondo periodo del comma 2 della norma debbano essere letti disgiuntamente, “in quanto il legislatore è stato chiaro nell’imporre, anzitutto, la declaratoria dei requisiti mediante l’indicazione di Ê»tutte le condanne penali riportate’, comprese quelle per cui l’operatore ha beneficiato della non menzione”. “Questo per consentire alla stazione appaltante la valutazione connaturata alla lettera c) del primo comma in ordine alla natura dei reati eventualmente dichiarati ed alla loro possibile ascrizione ad una delle categorie Ê»escludenti’ ivi contemplate: è per tale ragione che la dichiarazione da rendere ai fini dell’attestazione del possesso dei requisiti di ordine generale deve, pertanto, essere completa, e dunque contenere tutte le sentenze di condanna subite, a prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione con il requisito della moralità professionale, la cui valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante” (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 28 Settembre 2015, n. 4511). “Parimenti, non rileva, in sede di valutazione di legittimità della partecipazione alla gara, lo stato soggettivo con cui l’omissione è commessa (che deve invece essere valutato dall’A.n.a.c. nel procedimento sanzionatorio); e, di conseguenza, neppure rileva che la condanna sia stata, o non, incidente sulla moralità professionale e suscettibile di condurre all’esclusione dalla gara”. “Non merita accoglimento neppure il profilo di doglianza secondo il quale, nella circostanza, l’A.n.a.c. avrebbe applicato un sostanziale automatismo tra l’omissione dichiarativa e l’esercizio del suo potere sanzionatorio, senza considerare che la mancata indicazione di una condanna non comportante l’esclusione dalla gara eliderebbe in radice la sussistenza dell’elemento soggettivo della colpa o del dolo”. “L’elemento determinante ai fini della valutazione dello stato soggettivo dell’incolpato non è, né può essere, legato alla natura della condanna riportata e non dichiarata; proprio perché la valutazione della condanna ai fini dell’esclusione deve essere condotta esclusivamente dall’appaltante. Ciò che invece rileva è costituito dalla compromissione di tale potere valutativo mediante l’omissione dichiarativa, tanto che non può rilevare il c.d. falso innocuo (…) (cfr. T.a.r. Lazio 5 Febbraio 2015, n. 2129), la completezza delle dichiarazioni da fornire in gara costituisce di per sé un valore, ed una dichiarazione falsa o incompleta incide, già solo perché tale, sull’interesse tutelato dall’art. 38”.

Istruttoria e motivazione del provvedimento appaiono complete e coerenti.

Del tutto generico e meritevole di rigetto si palesa il terzo motivo (d’appello)”.

Parimenti destinato alla reiezione il quarto mezzo, con cui le ricorrenti invocano la violazione dell’art. 6, comma 11, del d.lgs. n. 163/2006”. “Il motivo, come ripetuto, sottende un assunto errato, ovvero che la sanzione possa essere irrogata solo quando l’elemento oggetto di falsa dichiarazione (…), se palesato, avrebbe condotto all’esclusione dalla gara”. FM

 



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Inserito in data 05/12/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 3 dicembre 2015, n. 245

Illegittima la norma della L. finanziaria 2014 sul rinnovo dei contratti di locazioni delle PP.AA.

La Corte Costituzionale, con la sentenza in epigrafe, dichiara l’illegittimità dell’art. 1, comma 388 della Legge Finanziaria del 2014 (L. n. 147/2013) nella parte in cui, nel sancire il divieto di rinnovo dei contratti di locazione stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni senza l’autorizzazione dell’Agenzia del Demanio, estende l’anzidetto divieto anche al caso in cui tale autorizzazione non sia stata espressa.

In particolare, la Regione ricorrente invoca la violazione degli artt. 3, 42, 117, 118 e 119 Cost. e contesta il potere esercitato dallo Stato sotto il profilo della ragionevolezza e proporzionalità dell’obiettivo perseguito rispetto all’incidenza sull’autonomia privata regionale, nonché su quella organizzativa e finanziaria.

Inoltre, la ricorrente censura la soluzione adottata dalla normativa (nulla osta espresso dell’Agenzia del demanio emesso nei 60 giorni prima della data entro la quale l’amministrazione locataria può avvalersi della facoltà di comunicare il recesso dal contratto) mettendo in evidenza il rischio che l’impedimento al rinnovo del contratto derivi non dall’accertata esistenza di un bene pubblico idoneo ovvero dalla inadeguatezza del canone pattuito, bensì anche dal mero silenzio dell’Agenzia del demanio entro il termine dato.

Al riguardo, la Corte Costituzionale afferma che “se è vero che le finalità perseguite dalla norma sono meritevoli di tutela al punto tale da giustificare un’indubbia compressione dell’autonomia regionale, è anche vero che solo la dimostrata esistenza delle condizioni che permettono la valorizzazione di beni demaniali e la riduzione dei canoni può produrre tale effetto”.

“Ciò evidentemente non avviene quando l’Agenzia del demanio si limita a non provvedere. In tale evenienza l’effetto preclusivo dell’esercizio dell’autonomia privata regionale troverebbe il suo fondamento non nella effettiva tutela dell’interesse pubblico, ma in un meccanismo meramente formale, per di più contrastante con il principio generale enunciato dall’art. 2 della legge n. 241/1990, secondo cui il procedimento deve concludersi con un provvedimento espresso”.

Conclude la Consulta che la norma in questione è dunque costituzionalmente illegittima nella parte in cui ricollega al semplice silenzio dell’Agenzia del demanio un’efficacia preclusiva al rinnovo del contratto, e cioè nella parte in cui prevede “non abbia espresso il nulla osta” anziché “espresso il diniego di nulla osta”. SS

 



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Inserito in data 04/12/2015
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II - ORDINANZA 26 novembre 2015, n. 1823

Conflitto di giurisdizione in materia di occupazioni illegittime della P.A.

Con l’ordinanza de qua, il Tar ha sollevato d’ufficio innanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione un conflitto negativo di giurisdizione ex art. 11, comma 3 c.p.a. relativamente alla domanda di condanna della P.A. intimata alla corresponsione dell’indennità da occupazione legittima.

In particolare, il proprietario di un’area occupata illegittimamente dalla P.A. per la realizzazione di un’opera pubblica aveva proposto, con un’unica azione giudiziaria, sia domanda di condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da occupazione illegittima, sia domanda di condanna della P.A. alla corresponsione dell’indennità da occupazione legittima.

Rileva il Tar adito che secondo l’assetto normativo delineato dall’art. 53, comma 2 D.P.R. 327/2001 (e confermato dall’art. 133 comma 1 lett. f) c.p.a.) “resta ferma la giurisdizione del giudice ordinario per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa”, di talché per la parte relativa alla domanda di corresponsione dell’indennità la giurisdizione spetta al giudice ordinario.

Precisa il Tar che nemmeno l'eventuale connessione tra la domanda di corresponsione dell’indennità per il periodo di occupazione legittima e la domanda di risarcimento del danno per l’occupazione illegittima “può giustificare l'attribuzione di entrambe le domande allo stesso giudice, essendo pacifico ed indiscusso in giurisprudenza il principio generale dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione”.

Peraltro, in caso di pluralità di domande, quella di corresponsione dell’indennità può rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo quando “il diritto che ne costituisca l’oggetto sia alternativo e/o subordinato alla tutela chiesta in via principale rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo”.

Nel caso di specie, conclude il Tar, le domande proposte da parte ricorrente “sono distinte e non possono dar luogo ad una trattazione unitaria, per avere ad oggetto causa petendi e petitum diversi e per l’assenza di una prospettazione subordinata della richiesta di indennità da occupazione legittima rispetto all’azione risarcitoria”. SS



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Inserito in data 03/12/2015
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV - 27 novembre 2015, n. 2785

Accesso alla cartella clinica del coniuge per scioglimento del vincolo matrimoniale

Il Tar Catania, con la pronuncia in epigrafe, ha dichiarato l’illegittimità del silenzio serbato da una Casa di cura, accreditata presso il Servizio Sanitario Nazionale,  rispetto all'istanza di accesso, formulata dal ricorrente, alla cartella clinica del coniuge e propedeutica all’introduzione del giudizio di nullità del matrimonio in sede sia civile che canonica.

Il Collegio ricostruisce, anzitutto, il quadro normativo di riferimento e, dopo aver precisato che la Casa di cura, quale concessionaria accreditata al servizio sanitario nazionale, rientra tra i soggetti passivi di richiesta di accesso agli atti, osserva come, in ogni caso, in tema di accesso ai documenti amministrativi, è sufficiente che un soggetto di diritto privato ponga in essere un'attività che corrisponda ad un pubblico interesse affinché lo stesso assuma la veste di pubblica amministrazione e sia, quindi, sottoposto alla specifica normativa dettata dalla l. n. 241/1990.

La IV Sezione richiama poi l'art. 22, comma 1, lett b) legge n. 241/90, nel testo novellato dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15, il quale richiede, per la legittimazione attiva all'esercizio del diritto di accesso, la titolarità di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l'accesso"; l'art. 24, comma 7, che precisa che "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”;  l'art. 92, par. 2, del D.lgs. 196/2003 che, nel dettare una disciplina specifica sull'accesso alla cartelle cliniche quali documenti contenenti dati "sensibilissimi", stabilisce che “eventuali richieste di presa visione o di rilascio di copia della cartella e dell'acclusa scheda di dimissione ospedaliera da parte di soggetti diversi dall'interessato possono essere accolte, in tutto o in parte, solo se la richiesta è giustificata dalla documentata necessità: a) di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell'articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile; b) di tutelare, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.

Nel caso di specie – osserva il Collegio – l'istanza di accesso alla cartella clinica del coniuge risulta formulata in rapporto di stretta strumentalità con la necessità di utilizzo della medesima nell'ambito del procedimento di scioglimento del matrimonio canonico pendente innanzi al Tribunale ecclesiastico.

E, sotto tale profilo, il Collegio, richiamando pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato, ritiene che “il fine dello scioglimento del vincolo matrimoniale (religioso) costituisca una situazione giuridica di rango almeno pari alla tutela del diritto alla riservatezza dei dati sensibili relativi alla salute, in quanto involgente un significativo diritto della personalità, con la conseguenza che in presenza di tale situazione deve ritenersi sussistente l'interesse personale idoneo a legittimare la proposizione della domanda di accesso alla cartella clinica, senza che sia necessaria alcuna penetrante indagine in merito alla essenzialità o meno della documentazione richiesta, né circa le prospettive di buon esito del rito processuale concordatario”.

Quanto poi al carattere non statuale dei Tribunali ecclesiastici – osservano ulteriormente i giudici catanesi - l'intento di adire la via giurisdizionale concordataria per la declaratoria di nullità del vincolo coniugale deve essere assimilato, ai fini dell'esercizio del diritto di accesso, all'intento di adire il giudice nazionale per il conseguimento del divorzio. La tesi, nel caso concreto, risulta peraltro suffragata dalla circostanza che il ricorrente avesse rappresentato nell’istanza di accesso alla cartella contenete i dati clinici del coniuge di aver già introdotto un giudizio di separazione, presso il competente Tribunale ordinario.

Pertanto, sulla scorte dei rilievi esposti, il T.A.R. Catania ha ritenuto che il silenzio avversato dalla Casa di cura fosse del tutto ingiustificato, per l’effetto accogliendo il ricorso. MB 

 



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Inserito in data 03/12/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 13 novembre 2015, n. 23306

Risarcimento danni subiti da società partecipate per condotte illecite dei dipendenti: giurisdizione G.O.

Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sull’azione di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite dei dipendenti, in quanto l'autonomia patrimoniale di essa esclude ogni rapporto di servizio tra agente ed ente pubblico danneggiato e impedisce di configurare come erariali le perdite che restano esclusivamente della società, che è regolata come ogni altro soggetto sovrapersonale di diritto privato”. Questo il principio espresso dalle SS.UU. della Suprema Corte con l’ordinanza in epigrafe.

Nel caso concreto, il socio pubblico della società partecipata (Alitalia S.p.A.) aveva convenuto in giudizio, avanti la Sezione giurisdizionale regionale della Corte dei Conti per la regione Lazio, alcuni dipendenti per la presunta commissione atti di “mala gestio”. Quindi, i soggetti chiamati a risarcire il danno (presidenti, amministratori delegati e dirigenti di Alitalia S.p.A.) con distinti ricorsi (poi riuniti), proponevano, dinanzi alla Corte di Cassazione, regolamento di giurisdizione per la declaratoria del difetto di giurisdizione della Corte dei Conti.

Ricorda anzitutto la Suprema Corte come, con riguardo al tema del riparto della giurisdizione - tra giudice ordinario e Corte dei Conti - rispetto alle azioni di risarcimento per i danni arrecati al patrimonio delle società partecipate, si siano, nel tempo, formati orientamenti giurisprudenziali piuttosto precisi.

In particolare, nell’ordinanza in esame, le SS.UU., precisano che la giurisdizione spetta al giudice ordinario nell’ipotesi in cui il danno di cui si chiede il risarcimento sia stato arrecato al patrimonio sociale “avuto riguardo alla natura di ente privato della società ed all'autonomia giuridica e patrimoniale di essa rispetto al socio pubblico, non essendo configurabile, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico”.

Invece – proseguono le SS.UU. – la giurisdizione deve essere attribuita alla Corte dei conti “sia quando l'azione di responsabilità miri al risarcimento di un danno che sia stato arrecato al socio pubblico direttamente, e non quindi quale mero riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale conseguente al danno arrecato alla società, sia quando essa trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio o li abbia comunque esercitati in modo tale da pregiudicare il valore della partecipazione”.

Richiamati questi principi di carattere generale, la Suprema Corte precisa altresì come il quadro complessivamente tracciato non sia in grado di esaurire l'intero spettro delle questioni. Ad esempio, spetta alla Corte dei Conti la giurisdizione sulle azioni di risarcimento del danno cagionato dai dipendenti di talune società che, in considerazione della natura speciale del loro statuto legale, sono caratterizzate da una significativa compenetrazione della sfera pubblica.

Allo stesso modo, si è ritenuto sussistere la giurisdizione della Corte dei Conti con riguardo alle azioni di responsabilità proposte nei confronti di organi o dipendenti delle c.d. società in house: la ragione risiede nel fatto che “un tale tipo di società, quanto meno ai fini del riparto della giurisdizione, non è in rapporto di alterità con la pubblica amministrazione partecipante, bensì è una sua longa manus”, con la conseguenza che “il danno arrecato al patrimonio sociale si configura come danno direttamente riferibile all'ente pubblico”.

Venendo al caso in concreto, la Suprema Corte sofferma la propria attenzione su due aspetti: la struttura organizzativa nonché l'attività societaria svolta da Alitalia S.p.A. In relazione all’assetto organizzativo – osserva la Corte – non vi è dubbio alcuno circa il carattere concretamente civilistico della struttura societaria e dei suoi organi rappresentativi.

Con riguardo, invece, al secondo aspetto – osservano le SS.UU. – a seguito del  processo di liberalizzazione del settore del trasporto aereo - che ha comportato l’apertura al mercato delle compagnie aeree, libere quindi di scegliere  i meccanismi tipici di ottimizzazione dell'attività economica - il ruolo di Alitalia “si è uniformato a quello di un'impresa che svolge la sua attività in regime concorrenziale di libero mercato, avendo ormai perso la fisionomia di "compagnia di bandiera". In questa ottica, “i finanziamenti erogati nel tempo dal socio pubblico rientrano nel normale procedimento privatistico quali forme di partecipazione al capitale sociale nel quale sono confluiti, anche ai fini degli aumenti dello stesso”.

Sulla scorta delle considerazioni svolte – concludono le SS.UU. - deve ritenersi che Alitalia “svolge un'attività economica e commerciale in regime di mercato libero e la sua veste giuridica non rappresenta un mero schermo di copertura di una struttura amministrativa pubblica”, con la conseguenza che, in tema di riparto di giurisdizione, si applicherà il principio già affermato secondo il quale dell’azione di risarcimento del danno subito da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite poste in essere dai suoi dipendenti può conoscere il solo giudice ordinario. MB 

 




Inserito in data 02/12/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 12 novembre 2015, n. 23113

Giurisdizione sulle cause inerenti il provvedimento d’iscrizione d’ipoteca su immobili

Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha affermato che è ammissibile il regolamento di giurisdizione proposto d’ufficio dal giudice dinanzi al quale la causa era stata riassunta, dopo aver provveduto sull’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Ciò in quanto, a mente dell’art. 59 c. 3 L. 69/09, il giudice davanti  al quale la causa è riassunta può sollevare d'ufficio la  questione di giurisdizione davanti alle sezioni unite della Corte   di  cassazione,  “fino  alla  prima  udienza  fissata  per  la trattazione del merito”; e, secondo la Corte di Cassazione, “la norma deve essere interpretata nel senso che il limite oltre il quale il secondo giudice non può sollevare il conflitto di giurisdizione non è costituito dal compimento in sé della prima udienza, se nell'udienza prevista dall'art. 183, primo comma, cod. proc. civ. il giudice si è limitato ad adottare i provvedimenti indicati nello stesso primo comma, cioè provvedimenti ordinatori ed eventualmente decisori su questioni impedienti di ordine processuale, logicamente precedenti quella di giurisdizione; in tal caso, quel limite si sposta all'udienza che il giudice fissa in base al secondo comma del medesimo articolo”; in definitiva, il termine ultimo per la proposizione della questione di giurisdizione non era stato superato, come si evince sia dal tenore letterale della disposizione (ove si parla della prima udienza fissata per la trattazione del merito), sia da un’interpretazione costituzionalmente orientata della medesima, poiché l’opposta conclusione finirebbe col vanificare la garanzia costituzionale della tutela.

Ciò premesso, per il Supremo Giudice della giurisdizione, “Le controversie aventi ad oggetto il provvedimento di iscrizione di ipoteca sugli immobili, ai sensi dell’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, appartengono … alla giurisdizione del giudice tributario solo qualora i crediti garantiti dall'ipoteca abbiano natura tributaria, spettando altrimenti la giurisdizione al giudice ordinario“ (nel caso di specie,  la giurisdizione spettava al g.o. perché l’ipoteca era stata iscritta a tutela di crediti aventi natura non tributaria, in quanto relativi a sanzioni amministrative per indebita percezione di aiuti comunitari per l’olio d’oliva). TM 



Inserito in data 02/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 1 dicembre 2015, n. 11

Sebbene privo di qualificazione, l’offerente può omettere il nominativo del subappaltatore

L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a stabilire “se, in ipotesi di gara d’appalto avente ad oggetto lavorazioni rientranti nelle categorie c.d. a qualificazione obbligatoria, il concorrente il quale risulti sprovvisto per esse dei necessari requisiti di qualificazione sia tenuto sempre (e, dunque, anche qualora sia in possesso di qualificazione nella categoria prevalente per l’intero importo dell’appalto) non solo a dichiarare preventivamente l’intento di subappaltare le dette prestazioni, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006, ma anche a indicare già in sede di offerta i nominativi delle imprese che saranno subappaltatrici”.

A tale questione il Supremo consesso amministrativo ha dato una risposta conforme a quella già fornita con la sentenza n. 9/2.11.2015, relativa ad identica questione di diritto. Segnatamente, è stato ribadito il principio di diritto secondo cui “l’indicazione del nominativo del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta non è obbligatoria, neanche nell’ipotesi in cui il concorrente non possieda la qualificazione nelle categorie scorporabili previste all’art. 107, comma 2, del citato d.P.R. n. 207/2010, tanto discendendo da plurime considerazioni di ordine testuale, sistematico e logico”. TM 

 



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Inserito in data 01/12/2015
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. II, 27 novembre 2015, n. 1274

Avvocatura interna Enti pubblici e diritto all’indipendenza da altri uffici amministrativi

Il Collegio veneto accoglie il ricorso, proposto da un Avvocato appartenente all’organico della Difesa civica, avverso una deliberazione della Giunta comunale con cui veniva disposta la sottoposizione degli Uffici legali dell’Ente alle direttive di altri Uffici di gestione amministrativa del medesimo Soggetto pubblico.

I Giudici veneziani, ricordando giurisprudenza consolidata (ex pluribus Cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 16 febbraio 2015 n. 486; Tar Basilicata, Sez. I, 8 luglio 2013, n. 405; Tar Sardegna, Sez. II, 14 gennaio 2008 n. 7) unitamente alle numerose posizioni assunte nello stesso senso dal Consiglio Nazionale forense, evidenziano la necessità che le Avvocature degli Enti pubblici debbano essere costituite in un apposito ufficio dotato di adeguata stabilità ed autonomia organizzativa, nonché distinzione dagli altri uffici di gestione amministrativa, al quale devono essere preposti avvocati addetti in via esclusiva alle cause e agli affari legali con esclusione dello svolgimento di “attività di gestione.

Considerato che nulla del genere ricorreva nel caso di specie e che, peraltro, gli ultimi parametri legislativi in materia (Cfr. Art. 23 della legge 31 dicembre 2012, n. 247) riconfermano la suddetta esigenza di autonomia ed indipendenza della classe forense, anche all’interno di Uffici legali destinati alle difese di Strutture pubbliche, il Collegio non può che condividere le doglianze della ricorrente.

Ella, infatti, sottoposta – in forza della delibera impugnata – alla volontà di un apparato amministrativo, peraltro carente degli specifici requisiti culturali e professionali ope legis richiesti, lamentava la sopravvenuta, carente autonomia decisionale ed il venir meno di indipendenza.

Data la distonia rispetto ai principi propri della legge professionale di appartenenza, l’Avvocato ricorrente ottiene conferma – dal Collegio veneto - delle proprie doglianze. CC

 



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Inserito in data 01/12/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 30 novembre 2015, n. 5410

Diritto di accesso copia integrale cartelle esattoriali e decorso termini actio ad exhibendum

I Giudici di Palazzo Spada respingono la posizione assunta da un TAR campano in merito alla ritenuta fondatezza di un diniego di accesso di cartelle esattoriali, disposto dal Concessionario a carico di una società contribuente.

Più nel dettaglio, la denegata possibilità di accedere ai documenti richiesti veniva fondata dall’Ente concessionario ed avallata dal Collegio partenopeo sul ritenuto decorso del termine quinquennale entro cui l’Amministrazione sarebbe tenuta a mantenere copia delle cartelle esattoriali (Cfr. artt. 23 e ss.del D.P.R. 602/1973).

Ad avviso del contribuente/appellante, invece, unitamente alla giurisprudenza consolidata dei massimi Giudici amministrativi, un simile assunto non è condivisibile, posto che – in primo luogo - verrebbe eluso il termine prescrizionale ordinario previsto ope legis per la pretesa erariale.

Fattispecie, questa, assolutamente non superabile, posto che il termine dei cinque anni – assunto a propria difesa dal Concessionario  – costituisce un mero obbligo minimo di conservazione delle cartelle e non un termine massimo di conservazione delle stesse.

Peraltro, con riferimento a rapporti impositivi non ancora definiti, come quelli oggetto dell’odierno giudizio, è necessario conservare anche gli atti presupposti – quali, per l’appunto, le cartelle esattoriali, ex art. 26 del D.P.R. 602/1973, in guisa da consentire al contribuente di conoscere la propria posizione al cospetto dell’Erario.

Nel caso di specie, nulla del genere era ricorso; peraltro, il contribuente aveva chiesto l’ostensione di cartelle limitatamente alle quali il quinquennio non era neppure spirato e che, a fortiori, non avrebbe potuto essere incisa dall’atteggiamento volutamente ostruzionistico del Concessionario.

Ciò posto e richiamando, peraltro, posizioni consolidate in seno a Palazzo Spada, i Giudici della Quarta sezione convalidano la posizione del contribuente, il quale vanta un interesse concreto ed attuale all’ostensione di tutti gli atti relativi alle fasi di accertamento, riscossione e versamento, dalla cui conoscenza possano emergere vizi sostanziali procedimentali tali da palesare l’illegittimità totale o parziale della pretesa impositiva (Cfr. in tal senso, l’art. 22, comma 1, lett. b) l. n. 241 del 1990) (cfr. Cons. Stato, sez. VI, sent. 15 febbraio 2012, n. 766).

Pertanto, contrariamente a quanto addotto ex adverso, viene statuita la fondatezza della pretesa ostensiva avanzata dalla società/contribuente – odierna appellante e, per l’effetto, riconosciuto alla medesima il diritto ad ottenere copia delle cartelle esattoriali originariamente richieste. CC 


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Inserito in data 30/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 25 novembre 2015, n. 5356

Requisito formale del contratto di appalto

Nella fattispecie in esame, una stazione appaltante rifiutava di prendere atto dello scioglimento da ogni vincolo, dichiarato dall’aggiudicatario ai sensi dell’art. 11, comma nono, d.lgs. n. 163/2006 – per l’asserita mancanza di tempestività nella stipulazione – sul presupposto che il contratto si fosse invece già perfezionato. L’ente appaltante contestava all’aggiudicatario l’inadempimento degli obblighi contrattuali.

L’adito Tribunale amministrativo regionale declinava la propria giurisdizione, ritenendo che la controversia concernesse la fase esecutiva del contratto.

Ricorreva in appello l’aggiudicatario lamentando come non potesse ritenersi stipulato il contratto secondo l’ordo procedendi stabilito dalla lex specialis.

Il Consiglio di Stato respinge il ricorso.

I giudici di Palazzo Spada, sulla scorta degli artt. 11, commi settimo, nono e tredicesimo, d.lgs. n. 163/2006, e 133, comma primo, lettera e), numeri uno e due, c.p.a., nonché dei consolidati principî elaborati dalla giurisprudenza, ribadiscono che: “Nel settore dell’attività negoziale della pubblica amministrazione (omissis) la cognizione dei comportamenti e degli atti assunti prima dell’aggiudicazione della gara (compresi tra tali atti anche quelli di autotutela pubblicistica e questi ultimi pure dopo la conclusione del contratto), e nella successiva fase compresa tra l’aggiudicazione e la conclusione del contratto, spetta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; mentre le controversie relative alla fase di esecuzione del contratto (salvo quelle, tassativamente indicate, relative al divieto di rinnovo tacito dei contratti, alla clausola di revisione prezzi e ai provvedimenti applicativi dell’adeguamento dei prezzi) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria”; “Appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendosi la fattispecie svolta ed esaurita tra l’originaria aggiudicazione e la stipula del contratto (,) la controversia introdotta dall’aggiudicatario decaduto per ottenere l’accertamento del preteso inadempimento dell’ente agli obblighi contrattuali e la sua condanna alla restituzione delle cauzioni versategli, oltre accessorî, nonché al risarcimento del danno asseritamente patito nel corso della trattativa precontrattuale; in tali casi, infatti, alla deliberazione di aggiudicazione dell’appalto non segue la stipula della convenzione di disciplina tra le parti, bensì, all’esito di una fase interlocutoria volta alla eventuale rinegoziazione dell’oggetto dell’instaurando rapporto, la decadenza dalla stessa aggiudicazione”; “La cognizione degli atti autoritativi emessi in sede di autotutela – conformemente allo schema disegnato dagli artt. 75 e 113 del codice contratti pubblici, in forza del quale, ai fini dell’incameramento della cauzione provvisoria, va considerato Ê»fatto dell’aggiudicatarioʼ sia il recesso volontario dalle trattative sia il difetto dei requisiti che preclude la stipula, imponendo la caducazione dell’aggiudicazione – appartiene alla cognizione del giudice amministrativo”; e che “Nel sistema disegnato dal codice dei contratti pubblici, il contratto deve essere necessariamente concluso in forma scritta non potendosi attribuire al provvedimento di aggiudicazione definitiva il valore di conclusione del contratto medesimo”.

Il Collegio giunge a ritenere che il contratto sia stato effettivamente concluso nella forma della scrittura privata: la nota denominata “lettera di aggiudicazione”, inviata dalla stazione appaltante conteneva, infatti, oltre alla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva, una serie di elementi relativi al contenuto essenziale del contratto; tale nota era stata firmata dall’aggiudicatario per benestare e accettazione e restituita all’ente appaltante. In relazione ai detti elementi l’impresa aveva, inoltre, posto in essere tutti gli adempimenti connessi alla stipulazione del contratto. Ancora, il capitolato speciale d’appalto prevedeva che, in considerazione dell’urgenza dell’intervento, il verbale di consegna dei lavori avrebbe potuto essere anteriore alla firma del contratto: “Il che dimostra che per la stazione appaltante – e per la ditta che vi ha espressamente aderito – nel caso di specie la conclusione del contratto è coincisa con la sottoscrizione della lettera di comunicazione dell’aggiudicazione”. Deve pertanto concludersi che il consenso delle parti si sia formato “nell’ambito di un contesto documentale scritto recante gli elementi essenziali del regolamento contrattuale”.

Dall’esame in astratto della causa petendi della domanda proposta in primo grado emerge che, nella sostanza, è stata introdotta un’azione contrattuale sub specie di declaratoria di nullità o inesistenza del rapporto contrattuale per contrasto della forma in concreto seguita con le prescrizioni, che si assumono vincolanti, dettate dalla lex specialis e che non consentirebbero la stipula fra assenti; tale controversia, per le ragioni dianzi esposte, deve ritenersi attribuita alla cognizione del giudice ordinario”. FM 


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Inserito in data 30/11/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 26 novembre 2015, C - 166/14

Appalti: termine per l’azione risarcitoria

Il diritto dell’Unione europea, segnatamente il principio di effettività, osta ad una normativa nazionale che subordina la proposizione di un ricorso diretto ad ottenere il risarcimento danni per violazione di una norma in materia di appalti pubblici al previo accertamento dell’illegittimità della procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione per mancata previa pubblicazione di un bando di gara, qualora tale azione di accertamento di illegittimità sia soggetta ad un termine di decadenza di sei mesi a partire dal giorno successivo alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi, indipendentemente dalla circostanza che colui che propone l’azione fosse o meno in grado di conoscere l’esistenza dell’illegittimità di tale decisione dell’amministrazione aggiudicatrice”.

Tanto dichiara la Corte di Lussemburgo in ordine alla questione pregiudiziale suscitata ai sensi dell’art. 267 T.f.U.e., dal Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa austriaca), nel caso MedEval G.m.b.H., interpretando la direttiva 89/665/CEE del Consiglio (c.d. direttiva ricorsi), come modificata dalla direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (nuova direttiva ricorsi), nonché i principî di effettività e di equivalenza.

La cognizione della Corte austriaca concerne una decisione dell’Ufficio federale degli appalti, con la quale veniva respinta la domanda della MedEval diretta a far constatare l’illegittimità della procedura di gara d’appalto pubblico svolta dalla Federazione degli organismi austriaci di sicurezza sociale, riguardante l’attuazione di un sistema di gestione elettronica della prescrizione di medicinali – appalto che era stato assegnato alla Cassa delle retribuzioni dei farmacisti.

La ricorrente lamentava la mancanza di una previa pubblicazione o indizione della gara.

L’Ufficio sopra citato aveva dichiarato irricevibile il ricorso, essendo spirato il termine semestrale previsto dalla legislazione austriaca per la proposizione dell’azione di accertamento dell’illegittimità – termine (asseritamente conforme al precetto dell’art. 2 septies, paragrafo 1, lettera b, della direttiva 89/665) decorrente dal giorno successivo alla data di aggiudicazione dell’appalto, indipendentemente dalla circostanza che la ricorrente fosse in quel momento a conoscenza, o meno, dell’illegittimità della procedura. Ai sensi della normativa federale, inoltre, la collegata azione di risarcimento dei danni è ricevibile solo qualora, in via preliminare, e a seguito del tempestivo esercizio dell’azione di accertamento, consti l’illegittimità della procedura.

Sulla questione incidentale posta dal giudice del rinvio, la Corte di giustizia, dopo aver precisato l’ambito di riferimento, e individuato le direttrici fondamentali della materia (cfr. artt. 1, paragrafi uno e tre, e 2, paragrafo uno, della direttiva 89/665), osserva come il menzionato art. 2 septies, alla lettera b, consenta agli Stati membri di prevedere termini di decadenza applicabili ai ricorsi di cui all’art. 2 quinquies (la cui lettera a, sancisce che venga assicurato, in caso di mancata pubblicazione del bando fuori dai casi consentiti, che il contratto sia considerato privo di effetti), purché venga rispettato il limite minimo dei sei mesi, decorrente dal giorno successivo alla data della stipula del contratto. Tutte le altre azioni giudiziarie relative agli appalti, comprese quelle dirette ad ottenere il risarcimento dei danni, sono soggette ai termini stabiliti dal diritto nazionale, con il limite segnato dall’art. 2 quater.

L’art. 2 septies, paragrafo uno, lettera b, non osta pertanto a disposizioni di diritto nazionale, come quella in esame. Si confronti anche il considerando 27 della direttiva 2007/66.

Circa il risarcimento danni, la direttiva 89/665 prevede all’art. 2, paragrafo sei, che gli Stati membri possano subordinare l’esercizio di una siffatta azione al previo annullamento della decisione contestata.

Rientra dunque nella facoltà degli Stati la determinazione delle modalità procedurali dei ricorsi per risarcimento danni. E tuttavia, non è possibile prescindere dai principî di equivalenza e di effettività; in particolare, relativamente a quest’ultimo, “Subordinare la ricevibilità delle azioni per risarcimento danni alla previa constatazione dell’illegittimità della procedura di aggiudicazione dell’appalto in questione a causa dell’assenza della previa pubblicazione di un bando di gara, allorché tale azione di constatazione è soggetta a un termine semestrale di decadenza, senza tener conto della conoscenza o meno, da parte del soggetto leso, dell’esistenza di una violazione di una norma giuridica, può rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di proporre un’azione per risarcimento danni”.

In conclusione, in assenza della previa pubblicazione del bando di gara, un termine semestrale fissato in base ai criterî ora richiamati, rischia di non consentire al danneggiato di raccogliere le informazioni necessarie al fine di un eventuale ricorso, lasciando il soggetto privo di tutela. FM




Inserito in data 28/11/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 27 novembre 2015, n. 5378

Domanda di accesso ai documenti ed effettività del diritto di difesa

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada forniscono un ulteriore chiarimento in merito al bilanciamento tra esercizio del diritto di accesso ed effettività della tutela giurisdizionale.

Più nel dettaglio, contestando la posizione del TAR, i Giudici della Quinta Sezione condividono le doglianze di parte appellante, ove essa dimostra chiaramente di agire per l’ostensibilità di documenti afferenti ad un altro giudizio, pendente sempre dinanzi al medesimo Organo giurisdizionale e la cui prima udienza è già fissata per i mesi futuri.

In casi del genere, ritiene il Collegio, non v’è dubbio alcuno  che le garanzie procedimentali di accesso ai documenti si atteggiano a “diritto fondamentale di difesa”, poiché laddove sia negata la conoscenza di tale documentazione, il diritto di difesa perde di effettività.

E, prosegue il Consesso nell’accogliere il gravame, non rientra comunque tra i poteri del Giudice valutare nel merito l’idoneità dimostrativa della documentazione richiesta, bensì soltanto verificare la verosimiglianza delle allegazioni a sostegno dell’istanza di accesso per ragioni di difesa in giudizio.

In considerazione di ciò, viene disposta la riforma della sentenza impugnata e, per l’effetto, annullato l’originario diniego e consentito l’accesso oggetto dell’odierna impugnazione. CC

 



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Inserito in data 27/11/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 27 novembre 2015, n. 5377

Ordinanza contingibile ed urgente e competenza del Sindaco

Il Collegio della Quinta Sezione interviene, ancora una volta, in tema di ordinanze contingibili ed urgenti, affermando l’infondatezza dell’appello sollevato avverso un simile provvedimento, emesso dal Sindaco di un Comune campano per motivi di igiene e sicurezza pubblica.

I Giudici affrontano, in primo luogo, il lamentato vizio di incompetenza dell’Amministrazione comunale e, per essa, del Sindaco, in merito all’emissione dell’ordinanza oggi impugnata.

A dispetto di quanto affermato da parte appellante, riguardo alla necessità che provvedessero Organi diversi alla rimozione degli autoveicoli rottamati (i cui liquami, anche  a seguito di fenomeni temporaleschi, davano luogo a situazioni generalizzate di insalubrità, il Collegio – ribadendo invece la pronuncia di primo grado – ha ritenuto correttamente esercitato l’adozione da parte del Sindaco di un'ordinanza contingibile ed urgente in materia di igiene e sanità ai sensi della statuizione dell’art. 38 della l. n. 142 del 1990, poi confluito nell'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 e nel d.P.R. n. 915 del 1982, trattandosi di sua competenza esclusiva. (in senso conforme anche TAR Campania sez. I  Salerno , n. 1275/2014 , T.A.R.  sez. V  Napoli , Campania n. 3630/2015 , TAR Puglia Lecce, sez. I, 7 luglio 2007, n. 1084 Cass. pen. Sez. I, 3 luglio 1996).

Del pari, vi è da ricordare che l’obbligo incombente sulla società appellante - quale proprietaria dell’area - di eliminare tale situazione di pericolo, discenda comunque dalla necessità di ottemperare un provvedimento, quello del Sindaco – per l’appunto, legittimamente emanato in applicazione dei principi costituzionali di tutela dell’ambiente, della salubrità e sicurezza pubbliche – incise da una contingenza da debellare.

A fronte di valori di tale rango, ricordano i Giudici di Palazzo Spada, le argomentazioni dell’appellante, oltrechè prive di fondamento, appaiono comunque recessive.

Per l’effetto, quindi, va confermata la fondatezza dell’impugnato provvedimento di urgenza. CC

 



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Inserito in data 26/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 novembre 2015, n. 5328

Presupposti della lottizzazione abusiva

Con la pronuncia in epigrafe, la VI Sezione del Consiglio di Stato ha accolto il ricorso in appello proposto avverso la sentenza resa dal T.A.R. Lazio – Roma con la quale era stato, in primo grado, respinto il ricorso avverso un ordine di sospensione dei lavori per presunta lottizzazione abusiva, seguito dal provvedimento repressivo di cui all’art. 30 del d.P.R. n° 380/2001 (nella fattispecie si trattava dell’acquisizione di diritto dell’aera al patrimonio comunale).

I Giudici di Palazzo Spada hanno precisato che a mente del citato art. 30, ricorre la fattispecie di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando “vengono iniziate opere che comportano trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni stessi, in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione, nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti, che per le loro caratteristiche (…) denunciano in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio”.

Alla luce del richiamato dettame normativo, deve ritenersi integrata la tipologia di abusivismo di particolare gravità in presenza di alcuni indici sintomatici quali, anzitutto, il compimento di opere edilizie eseguito con modalità tali da far supporre “la destinazione a scopo edificatorio” e con interventi idonei, in concreto, a “stravolgere l’assetto territoriale preesistente”, tali quindi da giustificare l’adozione di severe misure repressive, tra cui l’acquisizione ex se al patrimonio comunale delle aree lottizzate.

Tuttavia – precisa il Collegio – la nozione di lottizzazione abusiva, nell’ambito della quale la fattispecie in esame era stata ricondotta dal giudice di prime cure, “non deve confondersi con l’effettuazione di qualsiasi pur ampio intervento edificatorio non autorizzato o non compatibile con la disciplina urbanistica vigente”.

Ed infatti – prosegue la VI Sezione, richiamando consolidata casistica giurisprudenziale – la fattispecie della lottizzazione abusiva può individuarsi “solo in presenza della preordinata trasformazione di una porzione di territorio, in modo tale da aggiungere una nuova e composita maglia al tessuto urbano”, con conseguente necessità – per la consistenza innovativa dell’intervento – di costituzione o integrazione della necessaria rete di opere di urbanizzazione.

Oltretutto, osserva ancora il Consiglio di Stato, il dato normativo contenuto nel citato art. 30 sembrerebbe riferirsi non tanto alla materiale entità dell’intervento, quanto piuttosto alle finalità del medesimo, in termini di “peso insediativo” sul territorio. Sicché, potendo la sanzione repressiva essere comminata in via preventiva, è necessario che “l’intento sia evidenziato da elementi precisi ed univoci, ovvero da un quadro indiziario idoneo a prefigurare un perseguito assetto dell’area, globalmente incompatibile sia con quello esistente che con quello previsto dagli strumenti urbanistici”.

Nel caso concreto, il Collegio ha ritenuto che non fossero stati adeguatamente rappresentati i presupposti e i segnali indicatori della lottizzazione abusiva, in considerazione del fatto gli interventi in questione non avrebbero potuto determinare una così profonda modificazione dell’assetto del territorio sì da essere equiparati all’introduzione di un nuovo insediamento in area non ancora urbanizzata, e per tale ragione, il Collegio ha accolto il ricorso e, in riforma della sentenza appellata, annullato l’ordinanza impugnata. MB

 



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Inserito in data 26/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO, SENTENZA 23 novembre 2015, n. 23837

Mobbing e demansionamento: il danno esistenziale va provato

Alla condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni per mobbing, non segue automaticamente anche quella per danno c.d. esistenziale – questo il principio di diritto affermato dalla Cassazione con la pronuncia de qua.

In particolare – hanno chiarito i giudici di piazza Cavour – il lavoratore è tenuto a dimostrare l’effettivo cambiamento nelle abitudini di vita che, proprio per il carattere «personale» della fattispecie di danno, non può presumersi, con la conseguenza che il “giudice è astretto alla allegazione che ne fa l’interessato sull’oggetto e sul modo di operare dell’asserito pregiudizio”.

Anzitutto la Corte traccia, nell’ambito del danno non patrimoniale, una linea di demarcazione tra danno biologico e morale, da una parte, e danno esistenziale, dall’altra - soprattutto in termini di allegazione della prova - osservando come quest’ultimo sia fondato sulla natura non meramente emotiva, bensì su quella oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero potute adottare se non si fosse verificato l’evento dannoso.

Detta categoria di danno – sottolineano gli Ermellini - essendo indissolubilmente legata alla persona - come tale non passibile di parametrazione secondo il sistema tabellare - necessita di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato è in grado di fornire, allegando ed indicando le circostanze comprovanti la significativa alterazione delle abitudini di vita personale e sociale ed attestanti il peggioramento del trend di vita.

Alla luce delle argomentazioni svolte, non può quindi ritenersi sufficiente, ai fini dell’accertamento della sussistenza del danno c.d. esistenziale, la mera prova della “dequalificazione, dell’isolamento, della forzata inoperosità, dell’assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie”, poiché questi elementi integrano l’inadempimento del datore, essendo poi comunque necessario dimostrare la sussistenza del danno esistenziale, e cioè che tutto ciò abbia effettivamente inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita, provocando concretamente conseguenze pregiudizievoli – allegazione, questa, che, nel caso in esame, non è avvenuta. MB

 




Inserito in data 25/11/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 20 novembre 2015, n. 2457

Oneri di sicurezza: effetti dell’omessa previsione nel modello di domanda

Definendo il giudizio in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’art. 60 c.p.a., il Tribunale adito accoglie il ricorso presentato da un operatore economico, escluso da una procedura di selezione aperta per non avere indicato gli oneri c.d. interni per la sicurezza del lavoro, essendo il ricorrente ragionevolmente incorso in errore, per l’allegazione al disciplinare di gara di un modello per la formulazione dell’offerta economica non contenente alcun riferimento alla suddetta necessaria componente.

Rileva in particolare il Collegio come l’indicazione degli oneri di cui all’art. 87, comma quarto, del codice dei contratti pubblici (norma esaminata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 20 Marzo 2015, n. 3), non fosse contemplata né dal menzionato modello fornito dalla stazione appaltante, né tantomeno dalla lex specialis. I giudici campani inferiscono dai riscontri che precedono il carattere scusabile dell’errore omissivo della società ricorrente, e dunque l’illegittimità della sanzione espulsiva cui la stessa è stata sottoposta. Si osserva come, ai fini della fattispecie, non assuma rilievo il principio di c.d. etero-integrazione “dal momento che esso attiene alla individuazione delle regole disciplinatrici del procedimento di gara ed è quindi atto a colmare la lacuna emergente sul punto dalla lex specialis, laddove il modello di offerta fornito alle imprese concorrenti dalla stazione appaltante riguarda il (omissis) diverso piano del concreto comportamento che deve essere tenuto dai concorrenti ai fini della partecipazione alla gara”. Può, secondo il T.a.r., “esigersi uno sforzo di diligenza da parte del concorrente nell’ipotesi di mera carenza prescrittiva della lex specialis, laddove la lacuna possa essere colmata mediante il riferimento integrativo alle norme vigenti (così come enucleate a livello interpretativo dalla giurisprudenza dominante)”, tuttavia “a diversa conclusione deve pervenirsi qualora, come nella specie, la stazione appaltante abbia posto a disposizione del concorrente strumenti documentali funzionali ad agevolare e semplificare gli oneri e gli adempimenti partecipativi dei concorrenti, tali da giustificare l’affidamento di coloro che, come l’impresa ricorrente, avvalendosene, ritengano ragionevolmente di avere esaustivamente assolto alle prescrizioni della disciplina di gara, astenendosi dall’effettuare specifiche indagini al fine di individuare eventuali regole partecipative ulteriori, pur vigenti nell’ordinamento, ma che in essa non abbiano trovato esplicita previsione”.

Conclude il collegio lasciando comunque impregiudicato l’onere dell’impresa di specificare, in sede di verifica della congruità dell’offerta, quanto rileva ai fini del citato art. 87, comma quarto (cfr. Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 28 Settembre 2015, n. 4537). FM

 



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Inserito in data 25/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 18 novembre 2015, n. 23542

Eccesso di potere giurisdizionale: limiti del ricorso ex art. 41 c.p.c.

È inammissibile il ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione che – in un giudizio proposto in primo grado innanzi al giudice ordinario il quale, in corso di causa, abbia adottato, a domanda del ricorrente (omissis) ex art. 700 c.p.c., un provvedimento (d’urgenza) diretto ad accordare al ricorrente (stesso) una tutela provvisoria ed interinale nelle more del giudizio incidentale di costituzionalità che contestualmente, con ordinanza di rimessione, abbia sollevato – lamenti l’eccesso di potere giurisdizionale di quel giudice assumendo che la tutela cautelare era preclusa per legge e che il contestuale sollevamento della questione di legittimità costituzionale non autorizzava quel giudice a non applicare la norma della cui legittimità (omissis) dubitava, atteso che nella questione così proposta non è identificabile una questione di giurisdizione ex artt. 37 e 41 c.p.c. che la Corte di cassazione, a sezioni unite, possa essere chiamata a risolvere”.

Questo il principio di diritto formulato con l’ordinanza in epigrafe, ai sensi dell’art. 384, comma primo, c.p.c..

L’articolata vicenda a monte del provvedimento in esame, prende le mosse dal procedimento sommario di cognizione (ex art. 702 bis, sgg., c.p.c.) intentato ai sensi dell’art. 22, d.lgs. n. 150/2011 (c.d. semplificazione dei riti civili), per l’asserita illegittimità del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, con il quale era stata dichiarata, in applicazione dell’art. 8, d.lgs. n. 235/2012 (c.d. legge Severino), la sospensione dalla carica del neo eletto Presidente della Regione Campania, condannato in primo grado per il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.); il ricorrente prospettava profili di ritenuta illegittimità costituzionale degli artt. 7 e 8, del citato d.lgs. n. 235/2012.

Interveniva nel giudizio ad opponendum, oltre ad altri, un cittadino elettore, per sentire dichiarare l’inammissibilità o l’infondatezza del ricorso.

Il ricorrente domandava successivamente al Tribunale, in via cautelare ex art. 700 c.p.c., di “sospendere o disapplicare” l’atto impugnato e “conseguentemente reintegrare e conservare, con effetto immediato, il ricorrente (omissis) nella carica (omissis) con l’esercizio dei connessi poteri e funzioni fino alla decisione di merito”; in subordine, reiterata la richiesta di rimessione della questione di legittimità costituzionale come sopra riferita, chiedeva la sospensione del citato decreto e la reintegrazione provvisoria nella carica “almeno fino alla prima udienza successiva alla decisione della Corte costituzionale”.

Il Tribunale, inaudita altera parte, accoglieva in via provvisoria la domanda cautelare, sospendendo l’efficacia del decreto governativo; successivamente, pronunciandosi sul provvedimento d’urgenza, il Tribunale stesso sollevava la questione incidentale di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma primo, e 1, comma primo, lettera b, in relazione all’art. 7, comma primo, lettera c, d.lgs. n. 235/2012; e accoglieva provvisoriamente la domanda cautelare, sospendendo gli effetti del provvedimento impugnato “fino alla camera di consiglio di ripresa del giudizio cautelare successiva alla definizione delle questioni di legittimità costituzionale”.

Reclamava, ex art. 669 terdecies c.p.c., avverso il provvedimento cautelare, il menzionato interveniente nel procedimento sommario di cognizione. L’istanza veniva rigettata.

Lo stesso cittadino elettore, proponeva, inoltre, ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, chiedendo alle sezioni unite di dichiarare “limiti e ampiezza” dei poteri del giudice ordinario investito della controversia, statuendo: sulla “inesistenza, in capo al Tribunale adito, del potere (omissis) cautelare di sospensione del menzionato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri” (potere giurisdizionale ritenuto escluso per effetto degli artt. 5 e 22, d.lgs. n. 150/2011); sulla “inesistenza (omissis) del potere (omissis) di disapplicare la legge dello Stato sospendendo il menzionato d.P.C.m. pur riconoscendone la conformità a legge seppur affetta, secondo il Tribunale, da un dubbio non manifestamente infondato di legittimità costituzionale”; e infine sulla “attribuzione alla Corte d’appello del potere giurisdizionale sulle impugnazioni delle decisioni cautelari collegiali del Tribunale adito e in subordine a diversa sezione del Tribunale o, in mancanza, al Tribunale più vicino”.

Osservava, infatti, il ricorrente come rientri tra le questioni di cui all’art. 41 c.p.c. non soltanto l’accertamento del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice speciale, ma anche la definizione delle forme di tutela che il legislatore assegna a un dato potere giurisdizionale.

Le sezioni unite dichiarano il ricorso inammissibile, in quanto fondato su questioni che non rientrano nel proprium del regolamento preventivo.

Sul terzo motivo di ricorso, le sezioni unite rilevano immediatamente come la questione attenga alla sede del reclamo – peraltro proposto dal ricorrente stesso – e concerna dunque una questione di competenza, e non di giurisdizione.

In ordine, invece, all’asserito eccesso di potere giurisdizionale da parte del Tribunale, secondo la formulazione dei primi due motivi di ricorso, osservano le sezioni unite come la categoria dei c.d. limiti esterni del potere giurisdizionale si innesti tra il generale sindacato straordinario di legittimità di cui al comma settimo dell’art. 111 della Costituzione (già inteso in chiave ampiamente comprensiva, e considerato riflesso, nell’ambito della tutela giurisdizionale, del principio di uguaglianza), e il più ristretto sindacato sulla giurisdizione di cui al successivo comma ottavo dello stesso articolo 111, i cui confini vengono dunque allargati. Tuttavia, continua la Corte, ove “il sindacato di legittimità per violazione di legge può dispiegarsi a tutto campo (,) il canone dell’eccesso di potere giurisdizionale non ha, in linea di massima, autonomia concettuale e normativa rispetto alla violazione di legge”: e ciò è quanto si verifica nel caso di specie, non rientrando la pronuncia del Tribunale tra quelle contemplate dal citato comma ottavo; ragione per cui l’asserito error in iudicando rimane interno “ai meccanismi processuali del sistema delle impugnazioni”. Ricorda, a margine, il giudice di nomofilachia, come l’eccesso di potere giurisdizionale acquisti anche autonomia in caso di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e investita della decisione sia la Corte costituzionale. A tal ultimo fine, il ricorrente nel caso di specie non potrebbe certamente dedurre un simile vizio nel regolamento preventivo “quasi in via di sussidiarietà”.

Per ipotesi, il regolamento di cui all’art. 41, comma primo, c.p.c., non può essere adoperato nemmeno in funzione impugnatoria di un provvedimento abnorme del giudice, assunto in violazione dell’art. 101, comma secondo, della Costituzione.

Osserva conclusivamente la Corte come l’inammissibilità del ricorso emergerebbe anche a prescindere dal rito, in considerazione dell’evidente assenza di eccesso di potere giurisdizionale. Ciò in quanto “la tutela d’urgenza costituisce in linea di massima un corollario della tutela giurisdizionale in generale ed appartiene alla garanzia costituzionale dell’art. 24 Cost., cui il legislatore ordinario può derogare solo in presenza di particolari esigenze di segno opposto che giustifichino, secondo uno scrutinio stretto, un regime differenziato di eccezione”. “La Corte costituzionale (omissis) ha ripetutamente affermato che la tutela cautelare in quanto preordinata ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale, in particolare a non lasciare vanificato l’accertamento del diritto, è uno strumento fondamentale e inerente a qualsiasi sistema processuale, anche indipendentemente da una previsione espressa”. Orbene, un’esclusione della tutela cautelare non sembra potersi rinvenire nella disposizione contenuta all’art. 22, d.lgs. n. 150/2011, la quale stabilisce che tutte le controversie elettorali, cui sia applicabile il rito descritto, “siano trattate in ogni grado in via d’urgenza”. L’art. 5 dello stesso decreto “detta una disposizione processuale a carattere generale per l’ipotesi in cui sia prevista la sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato stabilendo che il giudice, se richiesto, vi debba provvedere sentite le parti e con ordinanza non impugnabile, sempre che ricorrano gravi e circostanziate ragioni esplicitamente indicate nella motivazione”. Inoltre, secondo la Consulta il giudice, sia speciale sia ordinario, può “senza esaurire i suo potere giurisdizionale d’urgenza, adottare misure provvisorie per accordare una tutela interinale nel tempo occorrente per la definizione del giudizio incidentale di costituzionalità”. “Ricorrente nella giurisprudenza della Corte è l’affermazione secondo cui il giudice ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare anche quando conceda provvisoriamente la relativa misura su riserva di riesame della stessa e nello stesso tempo sospenda il giudizio con l’ordinanza di rimessione, purché tale concessione non si risolva, per le ragioni addotte a suo fondamento, nel definitivo esaurimento del potere cautelare”. “Infatti, la potestas iudicandi non può ritenersi esaurita quando la misura cautelare è fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, dovendosi in tal caso ritenere che la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato abbia carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale”. FM 



Inserito in data 24/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19786

Limiti alla ricorribilità per cassazione del DPR conclusivo del ricorso straordinario

Confermata l’ammissibilità in astratto di un ricorso per cassazione  contro il provvedimento con il quale il Presidente della Repubblica decide in caso di ricorso straordinario, le Sezioni Unite tracciano i limiti di tale impugnazione.

Al fine di confermarne la ricorribilità per cassazione, la Corte di Cassazione ripercorre tutti gli elementi normativi che inducono ad affermare la natura giurisdizionale del d.P.R. che definisce il ricorso straordinario e, di conseguenza, consentono di ricomprendere tale decreto nell’ambito di applicazione dell’art. 111 c. 8 Cost., a mente del quale “contro le decisioni del Consiglio di Stato … il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.

In ordine ai limiti di tale impugnazione, le Sezioni Unite precisano che il ricorso per cassazione contro il provvedimento che definisce il ricorso straordinario è proponibile per gli stessi motivi per i quali si può ricorrere in Cassazione contro un'ordinaria decisione del Consiglio di Stato, ossia “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione” (cfr. artt. 111 c. 8 Cost., 326 c.p.c. e 110 c.p.a.). Segnatamente, “con riferimento specifico ai compiti del Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, i motivi inerenti alla giurisdizione si rapportano ai limiti dell'istituto che…. il legislatore ha ridefinito in senso riduttivo nel codice del processo amministrativo”; vale a dire, in Cassazione, si potrà lamentare che il ricorso al Presidente della Repubblica sia stato proposto per controversie devolute al g.o. (in violazione dell’art. 7 c.p.a.) o per una delle materie della giurisdizione amministrativa rispetto alle quali è esclusa l’esperibilità (in contrasto con gli artt. 120 e 128 c.p.a.). “Rimangono invece fuori dal perimetro dei motivi inerenti alla giurisdizione tutte le situazioni in cui si denunzi un cattivo esercizio da parte del Consiglio di Stato della propria giurisdizione, quando cioè si prospetti una violazione nell'interpretazione di norme di legge, o falsa applicazione delle stesse, posta in essere dal Consiglio di Stato all'interno dell'area riservata alla sua giurisdizione. In questo caso il vizio, attenendo all'esplicazione interna del potere giurisdizionale conferito dalla legge al giudice amministrativo, non può essere oggetto di ricorso per cassazione”. TM

 




Inserito in data 24/11/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUARTA - SENTENZA 17 novembre 2015, causa C-115/14

Sull’obbligo di salario minimo a pena di esclusione dalle gare di appalto

In risposta alla prima questione pregiudiziale sollevata, i Giudici di Lussemburgo hanno affermato che “L’articolo 26 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio… deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che impone agli offerenti e ai loro subappaltatori di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato”. Ciò in quanto, a norma dell’art. 26 della direttiva 2014/18, possono essere imposte condizioni particolari in merito all’esecuzione dell’appalto basate su considerazioni sociali «purché siano compatibili con il diritto comunitario», circostanza verificatesi nel caso di specie. Infatti, la condizione di cui si discute rispetta il principio di trasparenza (perché menzionata nel bando di gara e nel capitolato degli oneri), non è direttamente o indirettamente discriminatoria e, pur costituendo una restrizione alla libertà di prestazione dei servizi degli offerenti stabiliti in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’amministrazione aggiudicatrice, è giustificata dall’obiettivo di tutela dei lavoratori pubblici.

Poi, rispondendo alla seconda questione pregiudiziale, la Corte di Giustizia ha chiarito che “L’articolo 26 della direttiva 2004/18… deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa di un ente regionale di uno Stato membro, come quella controversa nel procedimento principale, che prevede l’esclusione, dalla partecipazione ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, degli offerenti e dei loro subappaltatori che si rifiutino di impegnarsi, mediante una dichiarazione scritta che deve essere allegata alla loro offerta, a versare un salario minimo, fissato dalla suddetta normativa, al personale che sarà assegnato all’esecuzione delle prestazioni oggetto dell’appalto pubblico considerato”. Difatti, il considerando 34 della direttiva 2004/18 enuncia che gli Stati possono prevedere per il mancato rispetto degli obblighi imposti dal diritto nazionale in materia di condizioni di lavoro, tra l’altro, l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico. Peraltro, la condizione di cui si discute non risulta particolarmente onerosa per gli operatori, concretandosi nel mero riempimento di moduli già predisposti. Infine, l’esclusione appare una conseguenza adeguata e proporzionata, atteso che la normativa nazionale prevede espressamente che siffatta esclusione può essere applicata solo se, dopo aver invitato l’operatore interessato a completare l’offerta allegando a quest’ultima il suddetto impegno, questi si rifiuti di ottemperarvi. TM

 



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Inserito in data 23/11/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - 19 novembre 2015, n. 5278

Permesso di costruire: nozione di “vicinitas” rilevante per la legittimazione ad agire

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si è pronunciato sulla differente nozione di vicinitas nel caso in cui ad impugnare il permesso di costruire, a cui è correlata un’autorizzazione commerciale, sia un operatore economico, al fine di comprendere se quest’ultimo abbia o meno la legittimazione e l’interesse ad agire nel caso di specie.

Al riguardo, il ragionamento del Collegio si fonda sul presupposto che la nozione di vicinitas vada differentemente apprezzata a seconda che: a) ad impugnare il permesso di costruire sia o meno il titolare di un immobile confinante, adiacente o prospiciente su quello oggetto dell'intervento assentito; b) ad impugnare il permesso di costruire cui è correlata un'autorizzazione commerciale, sia un operatore economico.

Nel primo caso, l’orientamento giurisprudenziale ormai pacifico ritiene che ai fini della legittimazione a impugnare un titolo edilizio da parte del proprietario confinante, è sufficiente la semplice vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra l'immobile del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in linea di principio la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore; ciò in quanto tale pregiudizio deve ritenersi sussistente in re ipsa. Diversamente, nel caso in cui ad impugnare il titolo edilizio non sia il proprietario confinante (o un soggetto che si trovi in posizione analoga), il mero criterio della vicinitas riguardato in senso solo materiale non può di per sé radicare la legittimazione al ricorso giurisdizionale, occorrendo a tal fine la specificazione con riferimento alla situazione concreta e fattuale del come, del perché ed in quale misura il provvedimento impugnato si rifletta sulla propria posizione sostanziale, determinandone una lesione concreta, immediata e di carattere attuale.

Nel secondo caso, in cui vi rientra la fattispecie sottoposta all’esame del Consiglio di Stato, il riconoscimento della legittimazione ad agire non è genericamente ammesso nei confronti di tutti gli esercenti commerciali, ma è subordinato al riconoscimento di determinati presupposti, e ciò al fine di poter ritenere giuridicamente rilevante, nonché qualificato e differenziato, l'interesse all'impugnazione.

Pertanto, è necessario che l’operatore economico che intenda impugnare un titolo edilizio, a cui acceda una valida e formale autorizzazione commerciale, eserciti l’attività nelle immediate adiacenze, che tale attività sia dello stesso tipo in tutto o in parte di quella relativa ai provvedimenti in contestazione, e che le due attività vengano a servire uno stesso bacino di clientela oggettivamente circoscritto o comunque circoscrivibile con sufficiente certezza.

Osserva il Consiglio, in totale riforma delle statuizione del primo giudice, che, nel caso di specie, al titolo edilizio in contestazione non accede alcuna valida e formale autorizzazione commerciale, di talché l'impugnativa del solo permesso di costruire deve sottostare agli usuali criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia edilizia (primo caso) per la individuazione della sussistenza della vicinitas necessaria a legittimare l'azione giurisdizionale intrapresa.

Peraltro – concludono i giudici di Palazzo Spada – la vicinitas commerciale, nonostante la mancanza dell’anzidetta autorizzazione, non sussisterebbe in ogni caso in quanto mancherebbe la possibilità, per le attività in questione (turistico-alberghiere), di circoscrivere oggettivamente quel concetto di “bacino di utenza” elaborato dalla giurisprudenza amministrativa. SS

 



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Inserito in data 23/11/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 20 novembre 2015, n. 5299

Grave negligenza in precedenti appalti: legittimità dell’esclusione dalla gara

Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato ha valutato la legittimità e chiarito i presupposti dell’esclusione dalla gara di un’impresa conseguente a sua grave negligenza o malafede nell’esecuzione di precedenti appalti ai sensi dell’art. 38, co. 1 lett. f) d.lgs. 163/2006.

In particolare, la società appellante si doleva del fatto che la semplice indagine penale sui contestati episodi di grave negligenza nel pregresso rapporto contrattuale era stata dal giudice di prime cure ritenuta da sola sufficiente a minare il rapporto di fiducia ed ad escludere l’affidabilità professionale dell’impresa, a nulla valendo la circostanza che la inadempienza fosse stata commessa in epoca molto pregressa.

Afferma il Collegio che l'esclusione dalla gara d'appalto prevista dall’art. 38, comma 1 lett. f) d.lgs. 163/2006, si fonda sulla necessità di garantire l'elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della Pubblica Amministrazione fin dal momento genetico.

“Non rileva pertanto che i fatti valutati dall’Amministrazione per addivenire alla decisione di rilevare grave negligenza o malafede nell’esercizio di un precedente rapporto contrattuale tra le parti, se oggetto di indagine penale, siano sub iudice, né che non siano stati oggetto di condanna, poiché ciò che giustifica la scelta di esclusione è solo l'imperizia emersa nel corso dell'attività professionale, che a sua volta ha leso quel rapporto di fiducia nella capacità professionale dell'impresa”.

Peraltro, il concetto normativo di “violazione dei doveri professionali” cui la norma in questione fa riferimento abbraccia un’ampia gamma di ipotesi, riconducibili alla negligenza, all’errore ed alla malafede, purché tutte qualificabili “gravi” e richiede che la responsabilità risulti accertata e provata con qualsiasi mezzo di prova, senza la necessità di una sentenza passata in giudicato o di un accertamento della responsabilità del contraente per l'inadempimento in relazione ad un precedente rapporto contrattuale, quale sarebbe richiesto per l'esercizio di un potere sanzionatorio, ma è sufficiente una motivata valutazione dell'Amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell'esercizio delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara.

Posto, infine, che il provvedimento di esclusione costituisce esercizio di un potere discrezionale che dunque, in quanto tale, è sottoposto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti, il Consiglio conclude – respingendo l’appello – che la stazione appaltante ha, non illogicamente, ritenuto che i comportamenti in questione avessero costituito grave inadempimento contrattuale, sotto il profilo della violazione del dovere di diligenza qualificata da un comportamento colposo o doloso, e che fossero idonei ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario con la stessa stazione appaltante. SS

 



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Inserito in data 20/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 17 novembre 2015, n. 5230

Mediazione: diritto alle spese per gli Organismi anche se negativo l’esito del “primo incontro”

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, ha accolto le censure mosse dall’Amministrazione appellante in ordine alle statuizioni di annullamento della disciplina regolamentare di cui al D.M. 180/2010 avente ad oggetto il criterio di calcolo delle indennità spettanti agli organismi di mediazione cui è pervenuto il giudice di prime cure.

Per quel che concerne la prima statuizione di annullamento operata nella sentenza impugnata, l’Amministrazione appellante si duole della pronuncia di illegittimità dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del D.M. 180/2010 che prevedono sempre e comunque l’erogazione di somme da parte dell’utente anche in caso di esito negativo del primo incontro, anche quando cioè tale erogazione possa apparire in contrasto con l’innovativa disposizione di cui al comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/2010, secondo cui: “…Nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione”.

Peraltro, siffatta incompatibilità veniva in sentenza ricondotta a un difetto di coordinamento fra la “novella” di cui al d.l. 69/2013 ed il preesistente impianto normativo, avendo la prima introdotto il principio della gratuità del ricorso alla mediazione, sia pure limitatamente alla fase del “primo incontro”.

Al riguardo, i giudici del Consiglio di Stato, accogliendo il motivo di appello, hanno ritenuto che, stante l’infelicità della novella del 2013 che adotta (per indicare il corrispettivo del servizio di mediazione) il termine generico “compenso” anziché il termine tecnico di “indennità”, bisogna effettuare una scomposizione delle varie voci di spese.

Dal citato art. 16, fra le varie voci, si traggono anche quelle di “spese di avvio” e di “spese di mediazione”: nessun dubbio – afferma il Consiglio – può porsi per le spese di mediazione, le quali, comprendendo “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), integrano certamente il nucleo essenziale dell’indennità di mediazione. Di queste, in applicazione del richiamato comma 5-ter dell’art. 17, “non può che essere esclusa la debenza in caso di esito negativo del primo incontro”.

Diversamente può ritenersi per le spese di avvio: ed invero, esse, quantificate dal legislatore in modo fisso e forfettario (e, quindi, sganciato da ogni considerazione dell’entità del servizio effettivamente prestato dall’organismo di mediazione), vanno qualificate come onere economico imposto per l’accesso a un servizio che è obbligatorio ex lege per tutti coloro i quali intendano accedere alla giustizia in determinate materie.

Per quel che concerne la seconda statuizione di annullamento effettuata dal giudice di prime cure, l’Amministrazione censura il capo di sentenza con cui è stato annullato il comma 3, lettera b), dell’art. 4 del D.M. 180/2010, nella parte in cui obbligava anche gli avvocati a seguire i percorsi di formazione e aggiornamento previsti per gli organismi di mediazione.

Ritiene il Consiglio, accogliendo il motivo di appello, che “non può sussistere dubbio sulla diversità ontologica dei corsi di formazione e aggiornamento gestiti per l’avvocatura dai relativi ordini professionali - i quali possono bensì prevedere anche una preparazione all’attività di mediazione, ma solo come momento eventuale e aggiuntivo rispetto ad una più ampia e variegata pluralità di momenti e percorsi di aggiornamento – rispetto alla formazione specifica che la normativa primaria richiede per i mediatori, proprio in ragione dell’esigenza di assicurare che il rischio di incisione sul diritto di iniziativa giudiziale costituzionalmente garantito sia bilanciato da un’adeguata garanzia di preparazione e professionalità in capo agli organismi chiamati a intervenire in tale delicato momento”.

La stessa disciplina regolamentare, vero è che afferma che “gli avvocati sono mediatori di diritto”, ma subito dopo aggiunge che “…Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 55 bis del codice deontologico forense (…)”. SS


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Inserito in data 19/11/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 novembre 2015, n. 236

E' legittima l’applicazione retroattiva della L. 190/12 - cd. Legge Severino

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità dell’applicazione retroattiva della sospensione dalla carica elettorale prevista dalla cd. legge Severino (L. 190/12 - art. 11, co. 1 lett. a) anche a fattispecie di reato contro la P.A. realizzatesi prima della sua entrata in vigore rispetto agli artt. 2, 4, co. 2, 51, co. 1 e 97, co. 2 Cost.

In particolare, il Giudice rimettente (Tar Campania – Napoli) contestava la sussistenza, in questa ipotesi, di un eccessivo sbilanciamento a favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto ad altri interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost., nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, co. 2 Cost. ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, co. 2 Cost.

Il rimettente, peraltro, a riprova della sua affermazione, argomentava in ordine essenzialmente a tre elementi: il carattere sanzionatorio della sospensione dalla carica; l’applicazione retroattiva della sospensione, in contrasto con un divieto di retroattività che si ricaverebbe dallo stesso art. 51, co. 1 Cost.; il collegamento della sospensione con una condanna non definitiva.

La Corte, con la sentenza de qua, dichiara l’infondatezza della q.l.c. sollevata motivando in ordine a ciascun singolo elemento posto a base del giudice rimettente per sostenere la sua affermazione.

In ordine al carattere sanzionatorio della sospensione della carica, la Consulta richiama le sue pregresse pronunce sulle norme di legge che costituiscono i “precedenti” della cd. legge Severino al fine di ribadire che è escluso che le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione abbiano carattere sanzionatorio.

Tali misure, afferma la Corte, “non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”, inoltre “esse rispondono ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio e, trattandosi di sospensione, costituiscono misura sicuramente cautelare”. 

In ordine, poi, all’asserita retroattività dell’art. 11 della legge Severino, la censura mossa dal giudice rimettente va intesa nel senso che la violazione dell’art. 51, co. 1 Cost. deriverebbe dall’applicazione della norma censurata ad un mandato già in corso, e ciò in quanto, come si legge nell’ordinanza di rimessione, l’art. 51 vieterebbe alla legge – alla quale affida il compito di stabilire i requisiti dell’elettorato passivo – di introdurre sanzioni in via retroattiva in virtù di una presunta “costituzionalizzazione” dell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile nei casi di riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali.

Afferma la Corte che la tesi della “costituzionalizzazione” del principio di irretroattività in tutti i casi in cui la Costituzione ponga una riserva di legge per la disciplina di diritti inviolabili “è infondata, dato che, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25, co. 2 Cost. – al quale il giudice rimettente non ha fatto riferimento – le leggi possono retroagire, rispettando una serie di limiti che questa Corte ha da tempo individuato”.

Ritiene la Consulta che non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, “per evitare un inquinamento dell’amministrazione e per garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico”; tali esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore.

Infine, sotto il profilo dell’applicazione della sospensione anche per condanne non definitive, la Corte afferma che “anche una condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto da tale mandato, sicché si deve concludere che la scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità non ha superato i confini di un ragionevole bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco”. SS

 



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Inserito in data 18/11/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 17 novembre 2015, n. 5240

Insussistenza onere di dichiarare condanne procuratore ad negotia con poteri limitati

Con la pronuncia in commento, la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha affermato l’insussistenza dell’onere, in capo all’impresa partecipante ad una gara, di segnalare le eventuali condanne riportate dai procuratori ad negotia con poteri limitati, altresì dichiarando l’impossibilità di disporre l’esclusione dalla gara per omessa dichiarazione di un reato di lieve entità – per di più risalente nel tempo - qualora il modulo predisposto dalla stazione appaltante imponga di dichiarare soltanto i reati gravi.

Nel caso in esame, la stazione appaltante, dopo la definitiva aggiudicazione dell’appalto all’unica impresa partecipante, avendo riscontrato l’esistenza di una sentenza di condanna a carico del procuratore speciale della società ed avendo, per ciò, ravvisato una causa ostativa alla sottoscrizione del contratto, aveva dichiarato l’inefficacia dell’aggiudicazione.

Il giudice di prime cure, innanzi al quale aveva proposto ricorso l’aggiudicataria, aveva respinto le ragioni della ricorrente, argomentando che “i procuratori ad negotia, muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza e riferiti ad una pluralità di oggetti, rientrano nella figura cui si richiama l’art. 38, comma 1, Cod. Appalti”, altresì precisando che, in ogni caso, la falsa dichiarazione resa in ordine ai precedenti penali non possa considerarsi un “falso innocuo”, di talché “l’inefficacia dell’aggiudicazione è stata disposta non già per l’esistenza di una condanna, bensì per la violazione dell’obbligo di rendere autodichiarazioni veritiere”.

I Giudici di Palazzo Spada, investiti della questione, hanno osservato come il Tar Abruzzo avesse “correttamente individuato il principio applicabile alle false o incomplete dichiarazioni sull’assenza di cause ostative ex art. 38 del Codice, qualora effettuate da procuratori speciali”, errando, tuttavia, nel qualificare la posizione del procuratore ad negotia nel caso concreto.

Ed infatti – ha ricordato il Collegio richiamando un principio espresso dall’Ad. Pl. nella pronuncia n. 23/2013 –  appare pienamente condivisibile l’assunto secondo cui con riferimento “ai procuratori speciali muniti di poteri decisionali di particolare ampiezza (..), debbano trovare applicazione le previsioni sull’obbligo di dichiarazione dell’assenza di cause ostative ex art. 38 del Codice dei contratti pubblici”,

Oltretutto, la portata interpretativa del citato art. 38 appare ispirata ad un’ottica sostanzialistica di natura comunitaria, volta a tutelare l'interesse pubblico affinché l’amministrazione non contratti “con persone giuridiche governate in sostanza da persone fisiche sprovviste dei richiesti requisiti di onorabilità ed affidabilità morale e professionale”.

Venendo, tuttavia, al caso di specie, i poteri decisionali del procuratore speciale non apparivano, in concreto, particolarmente significativi ed ampi, e comunque “non tali da potersi equiparare a quelli propri degli amministratori e a quelli concretamente attribuiti ai consiglieri di amministrazione dallo statuto”.

Inoltre – ha ulteriormente argomentato la Terza Sezione – “quanto all’orientamento della giurisprudenza, secondo il quale l’esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti – quali, appunto, la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna - si configura come causa autonoma di esclusione, va osservato che l’art. 75 del d.P.R. 445/2000, commina la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera; ma, qualora - come nel caso in esame - la dichiarazione non sia necessaria ai fini della partecipazione alla gara, viene meno quella stretta correlazione tra il beneficio – costituito, per l’appunto, dall’aggiudicazione - e la dichiarazione, che impone di sanzionarne la falsità”.

In ogni caso, nella fattispecie, deve attribuirsi rilevanza esimente alla circostanza che “la dichiarazione sia stata resa sul modulo predisposto dalla stazione appaltante che, in modo fuorviante, menzionava le (sole) condanne per reati gravi” e che il reato, oltre ad essere risalente nel tempo, fosse di lieve entità, percepito, quindi, dalla concorrente come “irrilevante ai fini della moralità professionale attuale e dell’obbligo di dichiarazione in gara”.

Dunque, sulla scorta delle esposte argomentazioni, il Consiglio di Stato, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto il ricorso proposto dall’impresa aggiudicataria, per l’effetto annullando i provvedimenti con essa impugnati. MB 


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Inserito in data 18/11/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 16 novembre 2015, n. 2419

Illegittima la sospensione “sine die” di un procedimento amministrativo

Con la sentenza in epigrafe, i Giudici Salernitani hanno sancito l’illegittimità della sospensione “sine die” del procedimento amministrativo qualora non sia, cioè, stato fissato alcun termine certo alla durata della disposta sospensione.

Nella fattispecie, il ricorrente, titolare di uno stabilimento balneare, aveva presentato al Comune istanza volta ad usufruire del beneficio della proroga di cui all’art. 34-duodecies della L. n. 221/12 e, in risposta, il Responsabile dell’Ufficio Demanio del Comune, preso atto dell’esistenza di accertamenti in corso da parte dell’U.T.C., aveva disposto la sospensione dell’iter istruttorio, in attesa della conclusione degli accertamenti.

La Seconda Sezione del Collegio, pur ammettendo che l’orientamento giurisprudenziale più diffuso, “volto a negare la legittimità della sospensione del provvedimento amministrativo, ove disposta sine die, si riferisce, generalmente, alle ipotesi in cui la sospensione incide su provvedimenti amministrativi già in atto”, ha, tuttavia, ritenuto di poter estendere il richiamato principio pure alle ipotesi di sospensione di un procedimento amministrativo, “in quanto anche nelle suddette fattispecie deve ravvisarsi la violazione, da parte dell’Amministrazione procedente, dei principi di correttezza e buona fede, nonché di ragionevole conclusione del procedimento, racchiusi nell’art. 2 della legge n. 241/90, ed espressione dei canoni generali dell’azione amministrativa”.

Pertanto, il Collegio, basandosi sulla circostanza assorbente che, nella fattispecie, il Comune non avesse previsto un termine certo alla durata della disposta sospensione, ma, al contrario, avesse sospeso l’iter procedimentale a tempo indeterminato ovvero con il generico richiamo alla futura quanto imprecisata conclusione degli accertamenti da parte dell’U.T.C., ha accolto il ricorso, per l’effetto annullando l’impugnato provvedimento amministrativo. MB

 



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Inserito in data 17/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 13 novembre 2015, n. 10

In caso di discrasia, l’offerta espressa in lettere prevale su quella espressa in cifre

L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a stabilire il “criterio utile a dirimere le incertezze derivanti dall’emersione di discordanze fra le offerte espresse in lettere e quelle espresse in cifre, in sede di esame delle offerte presentate dagli operatori partecipanti ad una gara finalizzata all’affidamento di un contratto pubblico di lavori, servizi o forniture”.

Secondo una parte della giurisprudenza, di regola la discrasia andava risolta dando prevalenza all’indicazione più vantaggiosa per l’Amministrazione, in applicazione dell’art. 72 r.d. n. 827/24.

Con la pronuncia in esame, l’Adunanza Plenaria aderisce all’opposto indirizzo giurisprudenziale, affermando che, in caso di discrasia, l’offerta espressa in lettere prevale su quella espressa in cifre, in attuazione dell’art. 119 DPR 207/10; infatti, quest’ultima norma esprime un principio di portata generale nel settore degli appalti pubblici; viceversa, non rispondendo alla logica comunitaria della tutela della concorrenza, l’art. 72 r.d. n. 827/24 deve applicarsi alle fattispecie non sottoposte al Codice dei contratti, id est nelle ipotesi di procedure ad evidenza pubblica aventi ad oggetto la stipula di contratti passivi come la vendita o la locazione di beni .

Più nello specifico, contro il criterio dell’offerta maggiormente vantaggiosa per l’Amministrazione si evidenzia che tale criterio genererebbe delle interferenze col meccanismo di esclusione delle offerte anomale: da un canto, l’offerta più vantaggiosa per la PA potrebbe risultare anomala e passibile di esclusione; d’altro canto, la stessa soglia di anomalia risulterebbe falsata, in quanto essa si determina sulla base del valore medio delle offerte presentate dalla totalità dei concorrenti nel corso della gara. Inoltre, il criterio dell’offerta più vantaggiosa per l’amministrazione violerebbe il principio di unicità della offerta di cui all’art. 11 c. 6 DLGS n. 163/06, atteso che la PA individuerebbe l’offerta più vantaggiosa  soltanto in una fase successiva alla individuazione delle offerte degli altri concorrenti.

Poi, nel senso dell’applicazione del criterio previsto dall’art. 119 depone la maggiore ponderazione che richiede la scritturazione in lettere rispetto a quella in cifre, argomento tenuto in considerazione anche in altri settori dell’ordinamento (cfr. art. 6 r.d. n. 1669/33; art. 9 r.d. n. 1736/33). TM 


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Inserito in data 16/11/2015
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 13 novembre 2015, n. 3321

Prestazioni non suddivise: errata la forma del r.t.i. verticale

L’adito Tribunale amministrativo regionale respinge per infondatezza nel merito il ricorso presentato da un raggruppamento temporaneo di imprese, unico partecipante alla selezione, per l’annullamento della nota di esclusione dalla gara – emessa in seguito all’annullamento in autotutela dell’aggiudicazione provvisoria – essendo stata adottata dal ricorrente la forma dell’associazione di tipo verticale, nell’ambito di una procedura aperta per l’affidamento di servizî la quale non prevedeva una suddivisione delle prestazioni in principale e secondarie.

Osserva il Collegio salentino, come la mancata individuazione nel bando delle due categorie di prestazioni – anche in termini economici – non consenta, alla luce dell’interpretazione fornita dell’art. 37, del codice dei contratti pubblici, la possibilità per gli operatori economici di organizzarsi alla stregua di una ripartizione verticistica delle competenze; dovendo, invece, gli stessi essere obbligati alla medesima prestazione, secondo uno schema di tipo orizzontale “nel quale i requisiti richiesti devono essere posseduti, almeno in percentuale, da tutte le imprese associate”.

Il Tribunale fonda il proprio giudizio sull’assenza nella lex specialis di elementi che consentano ai partecipanti di costituirsi in raggruppamenti verticali; segnatamente, avendo la stazione appaltante provveduto all’indicazione di un’unica prestazione; a nulla rilevando la descrizione, pur dettagliata, degli interventi, anche di carattere accessorio, posta a specificazione dell’oggetto del servizio, trattandosi di mera elencazione riassuntiva, inidonea a distinguere le varie voci all’interno di ipotetiche categorie – si ritiene a tal ultimo proposito rilevante la circostanza dell’omessa quantificazione delle relative percentuali.

Il giudice territoriale esclude, inoltre, di dover disporre il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ex art. 267, T.f.U.e., per l’eventuale contrasto del citato art. 37, con l’art. 4 della direttiva 2004/18/CE, il quale stabilisce che le amministrazioni aggiudicatrici non possano esigere dai raggruppamenti di operatori economici l’assunzione di specifiche forme giuridiche. La questione è stata infatti considerata insussistente, riferendosi la norma ai diversi tipi societarî, e non già all’assetto del raggruppamento, il quale può configurarsi come verticale, in caso di “pluralità di prestazioni, di cui alcune specialistiche e/o scorporabili da quella principale”, ovvero orizzontale, quando si riscontra invece la “uniformità della specializzazione professionale delle imprese partecipanti”; l’ordinamento può conseguentemente fissare “i correlati differenti requisiti di idoneità professionale e di capacità tecnica dei singoli operatori economici”.

Si osserva, inoltre, come l’impugnativa del bando – sul punto immediatamente lesivo dell’interesse del ricorrente, venendo in rilievo un requisito di partecipazione alla gara – debba ritenersi irricevibile per tardività, ai sensi dell’art. 120 del codice del processo amministrativo. FM 


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Inserito in data 16/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 novembre 2015, n. 45278

Applicazione dell’art. 169 c.p.p.

Avverso il provvedimento del giudice territoriale che rigettava l’appello, il ricorrente eccepiva in sede di legittimità l’erroneità della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale, effettuata ai sensi dell’art. 161, comma quarto, c.p.p., trattandosi di soggetto stabilmente residente all’estero, rispetto al quale avrebbe dovuto trovare applicazione la disciplina stabilita dall’art. 169, c.p.p..

Si osservava, segnatamente, da parte della difesa, come la mera dichiarazione – in atti – del domicilio all’estero, non potesse essere assunta alla stregua di una indicazione inidonea, integrante la circostanza riferita dal citato art. 161, comma quarto, essendo stata detta dichiarazione rilasciata nel corso di un’indagine amministrativa, svoltasi prima del procedimento penale (concernente, nel dettaglio, l’esecuzione di un sequestro ex art. 10, d.lgs. n. 74/2000).

La suprema Corte, confermando le conclusioni del giudice di merito, ribadisce che l’art. 169 c.p.p. trova applicazione soltanto in occasione della prima notifica al soggetto indagato o imputato, che risulti avere residenza o dimora all’estero, ed è posto a garanzia delle informazioni di carattere essenziale cui la parte processuale deve avere accesso, al fine di renderla edotta dell’esistenza e dell’oggetto, “ancorché con tratti sommarî, ma al momento sufficienti”, di un procedimento penale a suo carico. La dichiarazione o l’elezione di domicilio nel territorio dello Stato, per le successive notificazioni, risponde all’esigenza di rendere più “celere e agevole” il flusso di comunicazioni, “garantendo in primis all’interessato la pronta e sicura conoscenza dell’atto a lui inviato”. Rileva infine la Corte, come nel caso di specie l’iter seguito appaia corretto, essendo stato ritualmente notificato il primo atto (consistente in un decreto di sequestro), mettendo la parte “a conoscenza delle già citate informazioni essenziali (omissis) che, diversamente, avrebbe avuto diritto di apprendere a mezzo della raccomandata di cui all’art. 169, comma primo, c.p.p.”; inoltre, con il medesimo adempimento amministrativo, il soggetto era anche stato invitato a dichiarare o eleggere domicilio in Italia “al fine di consentire notifiche più certe e rapide nelle (allora eventuali) fasi successive del procedimento medesimo, senza però provvedervi”. Nella fattispecie, l’esecuzione del sequestro aveva costituito “l’occasione per inverare in fatto quanto previsto dall’art. 169 (omissis), senza così imporre l’invio della raccomandata all’estero; l’inottemperanza del ricorrente, poi, ha comportato l’ovvia declaratoria di inidoneità del domicilio dichiarato all’estero, ed ha imposto la notifica ex art. 161, comma quarto, c.p.p.”. FM 



Inserito in data 13/11/2015
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 6 novembre 2015, n. 1141

Legittimità del diniego all'autorizzazione alla vendita dei farmaci soggetti a prescrizione nelle parafarmacie 

Il T.A.R. Veneto, con la pronuncia in esame, respinge il ricorso volto all’annullamento del diniego di autorizzazione alla vendita al pubblico di tutte le specie medicinali in commercio, comprese quelle soggette a prescrizione medica, richiesta dal titolare di una parafarmacia, regolarmente abilitato all’esercizio della professione di farmacista ed iscritto al relativo albo professionale.

La questione relativa alla dispensazione dei farmaci dietro prescrizione medica nelle parafarmacie costituisce un tema molto discusso, già oggetto di approfondimento da parte della Consulta e della Corte di Giustizia.

Nella pronuncia de qua, il Collegio richiama la decisione n° 216/2014 con la quale la Corte Costituzionale aveva dichiarato legittimo, per le parafarmacie, il divieto di dispensare i medicinali soggetti a prescrizione medica ex art. 87, c. 1, del d.lgs n. 219/2006, per l’effetto limitandone la distribuzione alle sole farmacie e ciò in quanto la “complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata ad assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute”.

Nell’ambito della citata pronuncia, la Consulta ha ben chiarito che il regime delle farmacie è conforme all’ordinamento comunitario ed in particolare al principio di tutela della concorrenza, altresì osservando come “l’incondizionata liberalizzazione di quella categoria di farmaci inciderebbe con effetti non privi di conseguenze sulla distribuzione territoriale delle parafarmacie le quali, non essendo inserite nel sistema di pianificazione di cui al d.l. n° 201 del 2011, potrebbero alterare il sistema stesso, posto prima di tutto a garanzia della salute dei cittadini”.

Anche la Corte di Giustizia – ricordano i Giudici veneziani - ha avuto, in più occasioni, modo di sottolineare come la salute e la vita delle persone occupino una posizione preminente tra gli interessi protetti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, precisando che spetta agli Stati membri stabilire “il livello al quale essi intendono garantire la tutela della salute pubblica e il modo in cui tale livello debba essere raggiunto”.

Ed ancora – osserva la Corte - l’apertura ed il dislocamento delle farmacie sul territorio italiano è oggetto di un sistema di pianificazione, con la conseguenza che l’eventuale liberalizzazione, nella conduzione delle parafarmacie, dei medicinali soggetti a prescrizione medica, senza osservare il requisito della pianificazione territoriale, avrebbe inevitabilmente ripercussioni negative sull’effettività dell’intero regime di pianificazione delle farmacie e quindi sulla sua stabilità.

Nel solco tracciato dalla Consulta nella citata pronuncia, il T.A.R Veneto ribadisce quindi il divieto, per le parafarmacie, di dispensazione al pubblico dei farmaci soggetti a prescrizione medica. MB

 



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Inserito in data 13/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 9 novembre 2015, n. 44765

Gli assegni familiari percepiti dal genitore non affidatario concorrono al mantenimento dei figli

La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui,  in assenza di espressa indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, gli importi erogati a titolo di assegni familiari al genitore naturale lavoratore e da questi spontaneamente versati in favore del genitore affidatario per il mantenimento del minore, concorrono ad integrare l'obbligo di mantenimento per la prole e possono, quindi, essere impiegati per integrare il pagamento dell’assegno.

Con la pronuncia in esame, la Cassazione - nel confermare la sentenza di appello con la quale era stato assolto il genitore naturale, non affidatario, condannato in primo grado con l’accusa di avere fatto mancare al figlio minore i mezzi di sussistenza – osserva, anzitutto, come con riferimento alla fattispecie de qua, trattandosi di genitori non legati dal vincolo di coniugio, non sia invocabile l’art. 211 della L. n° 151/1975, a mente del quale il coniuge affidatario ha diritto di percepire direttamente gli assegni familiari anche quando questi siano corrisposti all’altro coniuge.

Ed infatti – ragguaglia la Corte, richiamando consolidata giurisprudenza – detti assegni, costituendo «una prestazione generale e astratta di sostegno al reddito familiare in ragione della presenza di minori», spettano al lavoratore cui vengono corrisposti per consentirgli di far fronte al proprio obbligo di mantenimento della prole e, salva diversa statuizione del giudice, non possono affatto essere “pretesi” dall’altro genitore.

Pertanto – concludono i giudici di Piazza Cavour - «in assenza di diversa specifica indicazione del giudice civile in sede di determinazione dell’assegno di mantenimento, nel caso di genitore naturale lavoratore, non affidatario, l’importo degli assegni familiari destinati al figlio minore concorre ad integrare la somma alla cui periodica corresponsione lo stesso è obbligato». MB

 




Inserito in data 12/11/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2015, n. 229

Non commette reato il medico che non impianta gli embrioni malati (L. n. 40/04)

Con la sentenza  de qua, la Consulta “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 …, nella parte in cui contempla come ipotesi di reato la condotta di selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 … e accertate da apposite strutture pubbliche”.

Difatti, secondo la Consulta, per il principio di non contraddizione rilevante ex art. 3 Cost., quanto è divenuto lecito, per effetto della pronunzia additiva n. 96/15 della Corte costituzionale, non può essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. Sotto questo profilo si ricorda che, con la sentenza n. 96/15, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 c. 1 e 2 e 4 c. 1 della L. n. 40/04, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di PMA, al fine esclusivo della previa individuazione degli embrioni sani,  alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6 c. 1 lett. b) della L. 194/78, accertate da apposite strutture pubbliche.

Viceversa, secondo la Corte costituzionale, non è “censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita … agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica”.

Infatti, tale scelta legislativa non è irragionevole, atteso che gli embrioni malati non sono mero materiale biologico e, perciò, non meritano, per il solo fatto della malformazione, un trattamento deteriore rispetto a quello riservato agli embrioni sani creati in sovrannumero. Pertanto, ex artt. 14 L. 40/04 e 2 Cost., deve essere tutelata la dignità dell’embrione, ancorché malato. D’altro canto, nella fattispecie in esame, non esiste alcun interesse di rilievo costituzionale che giustifichi l’affievolimento della tutela dell’embrione. Da ultimo, la Corte chiarisce che la norma incriminatrice censurata non contrasta col diritto all’autodeterminazione, posto che il divieto di soppressione non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante.  TM 

 



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Inserito in data 11/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 6 novembre 2015, n. 22763

Irragionevole durata del processo: termine per il deposito dei documenti

Soggiace al termine perentorio stabilito dall’art. 4 legge n. 89/01 unicamente il deposito nella cancelleria della Corte d’appello adita di un ricorso avente i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., richiamato dal primo comma dell’art. 3 stessa legge. Pertanto, il deposito degli atti e dei documenti elencati nel terzo comma del medesimo articolo può sopravvenire in qualunque momento utile, prima che il presidente della Corte o il consigliere da lui designato provvedano con decreto sulla domanda, ovvero nel termine eventualmente concesso ai sensi dell’art. 640, primo comma c.p.c., richiamato dal successivo quarto comma dello stesso art. 3”.

Questo il principio di diritto espresso ai sensi dell’art. 384, comma primo, c.p.c., dalla Corte di legittimità, con la sentenza in epigrafe, pronunciata in ordine alla domanda di equa riparazione per irragionevole durata del processo.

La Corte d’appello aveva ritenuto la domanda inammissibile “per l’incompletezza e l’inidoneità della documentazione depositata”; aggiungendo, nel decreto reso nel giudizio d’opposizione intentato ai sensi dell’art. 5 ter della c.d. legge Pinto, che “il ricorso mancava degli atti e dei verbali di causa del giudizio presupposto, nonché del provvedimento definitivo”. La Corte, in composizione collegiale, osservava come non fosse “possibile assegnare alla parte un termine ai sensi dell’art. 3, comma 4 legge citata per integrare le produzioni, dovendosi osservare il termine perentorio prescritto dall’art. 4 anche con riguardo all’integrazione dei documenti”, e il richiamo all’art. 640, c.p.c., dovesse essere “inteso nel senso che la richiesta d’integrazione della prova riguardava il solo caso in cui apparisse necessario l’esame di documenti ulteriori, utili ai fini della decisione, mentre essa restava senz’altro esclusa quando a mancare fossero stati, nelle forme prescritte, gli atti e i documenti indicati dalla legge e Ê»da allegare al ricorso a pena di decadenzaʼ”.

I giudici della sesta sezione civile della Cassazione, rilevano come le disposizioni contenute agli artt. 3, comma terzo, e 4, della legge Pinto, “si coordinino agevolmente tra loro senza per questo integrarsi”. La logica ermeneutica seguita, invece, dalla Corte territoriale conduceva a ritenere invalido, e non rinnovabile oltre il termine di cui all’art. 4, il ricorso privo del corredo documentale richiesto dal citato art. 3. La Corte di nomofilachia, premettendo che “l’inammissibilità non è altro che la conseguenza di una nullità (formale o extraformale) insanabile o non più sanabile ovvero di una preclusione”, riscontra come la produzione documentale ai sensi dell’art. 3 non possa essere considerata alla stregua di una condizione d’ammissibilità del ricorso. Conferma quest’interpretazione la norma di cui al comma quarto dello stesso art. 3, laddove rinvia ai commi primo e secondo dell’art. 640 c.p.c., consentendo al giudice di richiedere un’integrazione degli atti: per tali dovendosi intendere quelli di cui al comma terzo dell’art. 3; ed invero, ritenere, al contrario, che l’invito possa riferirsi soltanto a “quant’altro appaia utile”, sembra apertamente confliggere, in relazione al contenuto del comma secondo del citato art. 640, con la ratio sottesa al comma terzo dell’art. 3, che fornendo un’elencazione dettagliata dei documenti da allegare, implicitamente li considera “necessarî e sufficienti” ai fini della decisione. Sullo stesso tema, osserva ancora la Corte che, ove si seguisse l’interpretazione del giudice territoriale “la seconda parte del quarto comma dell’art. 3 esprimerebbe un potere di ricerca officiosa della prova inconciliabile con la natura monitoria del procedimento”. Infine, rileva la Corte, come l’art. 125 c.p.c., richiamato dal comma primo dell’art. 3, disciplinando contenuto e sottoscrizione dell’atto di parte, non elenchi “tra i requisiti di validità le produzioni documentali, che per loro stessa natura riguardano la prova del diritto azionato, non la sua corretta ed efficiente postulazione mediante la domanda giudiziale”.

Il ricorrente, in caso di respingimento della domanda per insufficienza della documentazione, stante la natura pienamente devolutiva dell’opposizione ex art. 5 ter, avrebbe peraltro potuto ancora, in quella sede, provvedere al deposito degli atti mancanti, senza alcun vincolo di subordinazione dell’esercizio di tale facoltà ad una previa concessione. FM

 




Inserito in data 11/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5069

Alterata la competizione elettorale per la partecipazione di un soggetto incandidabile

Il Consiglio di Stato pronuncia l’annullamento integrale di una consultazione elettorale, a fronte del ricorso, presentato da un cittadino elettore e candidato sindaco non eletto, avverso il provvedimento di ammissione di una lista alla quale partecipava (quale candidato sindaco) un soggetto non candidabile, per l’effetto dell’art. 10, comma primo, del d.lgs. n. 235/2012, in quanto condannato in via definitiva alla pena della reclusione per anni uno e mesi sei, per i reati di cui agli artt. 323 e 479, c.p..

Il giudice di prime cure, accogliendo la linea difensiva del Comune resistente, aveva dichiarato il ricorso inammissibile per tardività: la circostanza della conoscenza da parte del ricorrente della condizione ostativa alla candidabilità, già rilevata dalla prefettura competente, e l’immediata lesività del provvedimento di ammissione, avrebbero imposto, secondo l’interpretazione del T.a.r., la proposizione dell’impugnativa entro il brevissimo termine stabilito dall’art. 129, c.p.a., anziché, ai sensi del successivo art. 130, alla conclusione del procedimento elettorale unitamente all’atto di proclamazione degli eletti. Nell’ermeneutica del Tribunale, dunque, costituirebbero provvedimenti lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale, “anche gli atti di ammissione di candidati o liste differenti da quelle del ricorrente”.

Il Consiglio di Stato, richiamando la propria giurisprudenza pregressa, afferma la non condivisibilità del sopra menzionato orientamento; rilevando come, nonostante la novella del citato art. 129, il tenore letterale della norma, fin dall’indicazione della rubrica rimasta inalterata, non consenta un’estensione dell’ambito applicativo al di fuori degli atti di esclusione. Il criterio stesso dell’immediata lesività non può che riferirsi al diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale; e su tale diritto certamente non incide l’altrui ammissione; la quale “può solo dispiegare un’eventuale influenza sfavorevole sul futuro esito dell’elezione, riverberandosi quindi su un interesse di natura sostanziale che solo, però, alla luce del concreto risultato elettorale registrato potrebbe dirsi leso”. Si rammenta, inoltre, come la norma in esame venga unanimemente reputata di stretta interpretazione, in ragione della “pesante compressione del contraddittorio processuale che caratterizza tutti i termini” in essa stabiliti. Infine, la regola generale “tanto in tema di gare quanto di concorsi, vuole che le ammissioni di terzi si rendano impugnabili unicamente in occasione dell’impugnativa dell’atto di conclusione dei relativi procedimenti, in aderenza, del resto, al più ampio canone della non impugnabilità degli atti endoprocedimentali se non unitamente all’atto che definisce la procedura interessata”.

Nel merito della fattispecie dedotta in giudizio, rimasta incontestata la condizione ostativa alla candidabilità, il Collegio passa a considerare le conseguenze derivanti dalla partecipazione del soggetto alle elezioni.

Il ricorrente asseriva l’irrimediabile compromissione del risultato.

I giudici di Palazzo Spada rilevano “che effetto minimo inevitabile di una patologia siffatta è quello del disconoscimento alla corrispondente lista dei seggi consiliari che le fossero stati assegnati”. È infatti sancito dall’art. 71 del d.lgs. n. 267/2000 “un intimo legame tra le candidature alla carica di sindaco e le liste collegatevi”. “L’indicazione del candidato sindaco costituisce, quindi, un elemento essenziale della valida presentazione della lista”. La nullità della candidatura, ex art. 10, d.lgs. n. 235/2012, inficia il risultato della lista collegata. Una diversa conclusione “permetterebbe alla lista collegata al sindaco, pur incandidabile, di tesaurizzarne il risultato elettorale, sia pure ai limitati fini della distribuzione dei seggi consiliari”. Secondo la sentenza in esame il citato art. 10 non fornisce “alcun elemento che possa denotare un ipotetico intento legislativo di escludere la possibilità di una propagazione dell’invalidità da esso stabilita al di là di quanto concerne la specifica persona del soggetto incandidabile”.

In ordine alla domanda principale, volta all’invalidazione integrale delle elezioni comunali, il ricorrente presentava l’impugnativa nella “duplice qualità di cittadino elettore e di candidato a sindaco non eletto”; autorevole giurisprudenza, osserva il Consiglio di Stato, ha escluso che la spendita del doppio titolo di legittimazione attiva possa viziare il ricorso, ritenendo, anzi, che si tratti di prassi normale, e che tali qualifiche siano suscettibili di “reciproca integrazione”; il giudice, in sede di valutazione, deve osservare ad entrambe le dimensioni, non può, dunque, limitare il proprio sindacato “al solo risultato elettorale ottenuto dalla specifica lista collegata al candidato sindaco ricorrente (come opina la difesa comunale nel tentativo di dimostrare la carenza di interesse al ricorso)”, ma deve anche guardare “al risultato conseguito dalle altre liste”, “l’impugnativa (omissis), infatti, deve (omissis) essere vagliata alla stessa stregua di quella identicamente proponibile da qualsiasi altro cittadino elettore”.

Viene comprovata la “incidenza totalmente invalidante del vizio cagionato dall’illegittima partecipazione”. Appare, infatti, alterata “in misura rilevante la posizione conseguita dalle altre forze politiche”.

Non sono invece ammissibili le richieste di ripetizione della consultazione, nonché di limitare la partecipazione a quest’ultima alle sole liste legittimamente ammesse ab origine. Con riferimento alla prima: “La rinnovazione delle elezioni (omissis) esorbita il petitum consentito dalla disciplina dell’art. 130 c.p.a.”. La seconda richiesta, invece, oltre a costituire una domanda formulata ex novo in appello, appare anche priva di fondamento, essendo ogni tornata elettorale “diretta a costituire una rappresentanza politica che sia emanazione della volontà attuale del corpo elettorale legittimato a esprimersi”, e potendovi, dunque, “partecipare tutte le formazioni politiche che adempiano agli oneri previsti dalla legge per la presentazione delle liste”.

Si rileva a margine come il Collegio abbia ribadito, in via preliminare, che l’unica parte pubblica necessaria nel giudizio elettorale, a differenza di quanto disposto dall’art. 129, c.p.a., si individua nell’ente “cui vanno imputati i risultati elettorali”; non sono, dunque, contraddittori necessarî gli ufficî elettorali “i quali esauriscono la loro funzione con la proclamazione degli eletti”, né l’amministrazione statale. Non viene seguito, infatti, un criterio d’imputazione formale degli atti. FM 


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Inserito in data 10/11/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 novembre 2015, n. 216

L’art. 26 del DL 201/11 viola il legittimo affidamento dei possessori di lire 

Dopo l’introduzione dell’euro avvenuta l’1/1/99, le banconote e le monete in lire continuarono ad avere corso legale fino al 28/2/02. Ai sensi degli artt. 3 c. 1 e 1bis L. 96/97 e 52-ter c. 1 e 1bis D.LGS. 213/98, da tale data iniziò a decorrere il termine di prescrizione decennale in favore dell’Erario delle lire ancora circolanti, con la conseguenza che il diritto di convertire in euro le banconote e le monete metalliche in lire poteva essere esercitato fino al  28/2/12. 

In questo quadro normativo si è inserito l’art. 26 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, il quale, al fine di ridurre il debito pubblico, aveva disposto la prescrizione anticipata, con effetto immediato, delle lire ancora in circolazione dopo il 28/2/02, stabilendo altresì che il relativo controvalore fosse versato all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnato al Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato.

Con la sentenza de qua, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dei principi di tutela dell’affidamento e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dell’art. 26 del d.l. n. 201/2011, come convertito.

Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti, “il valore del legittimo affidamento, il quale trova copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., non esclude che il legislatore possa assumere disposizioni che modifichino in senso sfavorevole agli interessati la disciplina di rapporti giuridici «anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti», ma esige che ciò avvenga alla condizione «che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale… Solo in presenza di posizioni giuridiche non adeguatamente consolidate, dunque, ovvero in seguito alla sopravvenienza di interessi pubblici che esigano interventi normativi diretti a incidere peggiorativamente su di esse, ma sempre nei limiti della proporzionalità dell’incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti, è consentito alla legge di intervenire in senso sfavorevole su assetti regolatori precedentemente definiti”.

Nel caso di specie, non ricorrevano le circostanze che legittimano il legislatore a modificare la disciplina giuridica in senso peggiorativo per gli interessati: per un verso, le posizioni giuridiche dei possessori di banconote e monete in lire erano adeguatamente consolidate, essendo decorsi 9 anni e 9 mesi dalla cessazione del corso legale della lira senza alcuna modifica dell’assetto normativo regolatore del rapporto; per altro verso, la sopravvenienza dell’interesse dello Stato alla riduzione del debito pubblico poteva giustificare la compressione, ma non la radicale e irreversibile estinzione di situazioni giuridiche consolidate verificatasi nel caso di specie (cioè sarebbe stato legittimo ridurre il termine di prescrizione, lasciando un termine residuo per la conversione). TM

 



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Inserito in data 10/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 28 ottobre 2015, n. 21946

Limiti all’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii

Le Sezioni Unite aderiscono al principio enunciato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 238/14), secondo cui la consuetudine internazionale sull’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri per atti iure imperii va interpretata in modo restrittivo, nel senso di non comprendere l’immunità degli Stati rispetto alle azioni di danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità (cd. delicta imperii lesivi delle norme di ius cogens che tutelano i diritti inviolabili della persona). Tale adesione è fondata su due ragioni: in primis, sul “vincolo (negativo) che deriva, per tutti i giudici comuni, da una sentenza interpretativa di rigetto resa dalla Corte costituzionale, consistente nell’imperativo di non applicare la norma ritenuta non conforme al parametro costituzionale evocato e scrutinato dalla Corte costituzionale”; in secundis, “perché la propugnata lettura adeguatrice … trova rispondenza negli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte, la quale più volte nel recente passato, proprio in tema di immunità dalla giurisdizione civile dello Stato estero, ha ritenuto prevalenti, sul dogma della sovranità, i principi e i diritti fondamentali che si riconnettono ai valori costitutivi della dignità umana”. Pertanto, secondo le Sezioni Unite, il principio di immunità giurisdizionale non è opponibile al cittadino statunitense che domandi il risarcimento del danno patito per un fatto terroristico annoverabile tra i crimini internazionali e imputabile allo Stato iraniano.

Tuttavia, nel caso di specie, non può essere riconosciuta la sentenza di condanna dello Stato iraniano pronunciata dalla United States District Court for the District of Columbia, poiché nessuno dei titoli di giurisdizione propri dell’ordinamento italiano consentiva a tale giudice di decidere la controversia sottoposta alla sua cognizione, mentre, a mente dell’art. 64 c. 1 lett. a L. 218/95, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera, è necessario che il giudice straniero che ha pronunciato la sentenza avesse la competenza internazionale in base ai criteri propri dell’ordinamento italiano. Del resto, la necessità di ricercare un titolo di giurisdizione conforme all’ordinamento italiano non è venuta meno per effetto della sentenza n. 238/14, in quanto con tale decisione la Corte costituzionale non ha creato un nuovo criterio di collegamento giurisdizionale fondato sul principio di giurisdizione civile universale, bensì ha fornito un’interpretazione restrittiva della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati esteri  per atti iure imperii. TM

 




Inserito in data 09/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5070

Oneri di sicurezza cd. esterni: è obbligatoria l’indicazione nell’offerta?

I giudici di Palazzo Spada, nella sentenza de qua, si sono pronunciati sull’obbligatorietà o meno dell’indicazione degli oneri di sicurezza cd. esterni in sede di presentazione dell’offerta, e, in particolare, se l’omessa riproduzione di tale tipo di oneri possa generare di per sé un’indeterminatezza dell’offerta stessa o possa essere tale da far venir meno un elemento essenziale di essa.

La censura mossa dall’appellante incidentale era quella che l’offerta avversaria si era limitata a indicare la percentuale di ribasso, senza specificare l’ammontare degli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso da sottrarre all’importo a base d’asta, e perciò senza chiarire su quale base andasse applicato il ribasso offerto: essa, dunque, riguardava i soli oneri di sicurezza cd. esterni.

A ben vedere – chiarisce il Consiglio – che bisogna tenere distinti gli oneri di sicurezza in questione da quelli cd. interni o aziendali (già oggetto della sentenza dell’Ad. Plen. n. 3/2015) tant’è vero che le radicali differenze che investono la natura degli oneri di sicurezza dell’uno e dell’altro tipo (ben evidenziati dalla anzidetta sentenza) “escludono, invero, che la regola della necessaria indicazione da parte delle concorrenti degli oneri interni o aziendali, i quali sono appunto loro individualmente propri, possa essere estesa anche agli oneri cd. esterni, giacché la definizione di questi ultimi compete appunto, per converso, alla sola Amministrazione, chiamata a fissarli a monte della procedura, e su di essi le concorrenti non dispongono di alcun potere dispositivo, sicché anche una loro eventuale indicazione sul punto sarebbe solo pedissequamente riproduttiva di quella posta a base della procedura”.

D’altra parte, non vi è alcuna norma che imponga ai concorrenti di riprodurre nella loro offerta la quantificazione degli oneri di sicurezza c.d. esterni già effettuata dall’Amministrazione: un precetto simile, infatti, non compare né nella disciplina positiva, né nella specifica lex specialis. Né l’adempimento ulteriore preteso dall’appellante presenterebbe utilità di sorta, proprio per la ragione che la determinazione degli oneri di sicurezza cd. esterni compete alla Stazione appaltante che vi procede impartendo un’indicazione di cui i concorrenti non possono far altro che tenere conto all’atto della formulazione delle loro offerte.

Alla luce delle pregresse considerazioni – conclude il Collegio – il ribasso offerto senza la specificazione sulla cui omissione si appunta la doglianza dell’appellante incidentale “non può che essere inteso alla luce della previsione della lex specialis già indicativa dell’importo a base d’asta ammesso a ribasso”: l’offerta dell’impresa avversaria deve, pertanto, essere riferita al (solo) importo soggetto a ribasso in forza della legge di gara.

Giova, peraltro, evidenziare che la sentenza in epigrafe si è pronunciata anche su altre due rilevanti questioni: sulla necessità o meno di una apposita motivazione da parte della Stazione appaltante nel caso di valutazione dell’irrilevanza di una condanna penale a carico del rappresentante legale di un’impresa, e sulla possibilità o meno di comprovare mediante avvalimento il requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali.

In ordine alla prima questione, il Consiglio di Stato, applicando la regola generale della necessità di motivazione degli atti amministrativi e il principio di trasparenza dell’azione amministrativa, ha affermato che, nel caso in cui nel corso di una gara di appalto sia stata riscontrata l’esistenza di un precedente penale a carico del legale rappresentante di una impresa, la Stazione appaltante, prima di ammettere in gara la stessa, deve effettuare una apposita valutazione di cui deve dare contezza con puntuale motivazione. “Vero è che, secondo un indirizzo della giurisprudenza, la Stazione appaltante che non ritenga un precedente penale incisivo sulla moralità professionale non è tenuta a esplicitare in maniera analitica le ragioni del proprio convincimento, potendo la sua motivazione risultare anche per implicito o per facta concludentia, ma tale orientamento non è suscettibile di applicazione quando la situazione concreta non offra indici idonei a comprovare che la Stazione appaltante abbia effettivamente compiuto la propria valutazione sull’eventuale ostatività del precedente emerso”.

In ordine alla seconda questione, il Collegio ha chiarito che l’istituto dell’avvalimento non può essere utilizzato nel caso della carenza, da parte di una concorrente, del requisito dell’iscrizione all’Albo dei Gestori Ambientali, dovendosi negare l’applicabilità dell’avvalimento con riguardo ai requisiti cd. soggettivi. SS

 



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Inserito in data 09/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 6 novembre 2015, n. 5078

Pubblico impiego: mobilità o utilizzazione della graduatoria per l’assunzione?

Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla questione della legittimità della riapertura della graduatoria ricavata da un procedimento di mobilità volontaria per la copertura di un posto di dirigente e ciò dopo aver proceduto alla formazione e all’utilizzo della graduatoria di mobilità ed al successivo scorrimento della tuttora vigente graduatoria del concorso pubblico per esami per la copertura di tale posizione lavorativa.

Al riguardo, secondo l’orientamento consolidato, “il reclutamento dei dipendenti pubblici avviene attraverso un procedimento complesso nell’ambito del quale la procedura concorsuale non è affatto soppressa, ma è subordinata alla previa obbligatoria attivazione della procedura di mobilità, in attuazione dei fondamentali principi di imparzialità e buon andamento, predicati dall’articolo 97 della Costituzione”.

Dunque – afferma il Collegio – bene ha fatto l’Amministrazione a dare priorità nel “piano assunzionale” all’esperimento delle procedure di mobilità ex art. 30 e 34 bis stabilite dal D. Lgs. 165 del 2001 e a prevedere lo scorrimento eventuale delle graduatorie concorsuali vigenti in caso di assenza o parziale risposta alle predette procedure.

Tuttavia, nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, il problema risiede nella potestà dell’amministrazione di continuare i procedimenti di assunzione per i posti che le possibilità di bilancio offrono di ricoprire, “utilizzando nuovamente la procedura di mobilità al tempo attivata ed esaurita e quindi successivamente e nuovamente sostituita dallo scorrimento delle graduatorie”.

Vero è che secondo l’orientamento espresso dall’Ad. Plen. nella sentenza n. 14/2011 “si è oramai realizzata la sostanziale inversione del rapporto tra l’opzione per un nuovo concorso e la decisione di scorrimento della graduatoria preesistente ed efficace, in quanto quest’ultima modalità di reclutamento rappresenta oggi la regola generale”, ma ciò non significa che il previo esperimento delle procedure di mobilità (previste dal citato art. 30 a pena di nullità prima di avviare le altre procedure di assunzione del personale) dia luogo alla formazione di sorta di graduatorie sul modello di quelle concorsuali.

Si può concludere, dunque, che “le graduatorie formate a seguito delle procedure di mobilità non possono essere considerate efficaci negli anni seguenti al pari di quelle concorsuali”, ma si esauriscono al momento delle specifiche assunzioni cui sono finalizzate: “infatti, come si è visto, la regola generale delle assunzioni rimane sempre quella di tipo concorsuale dello scorrimento delle graduatorie che viene derogata solo nella fase preliminare mediante le procedure di mobilità”. SS



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Inserito in data 06/11/2015
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 5 novembre 2015, n. 221

Rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso: necessario l’intervento chirurgico “demolitorio”?

La Consulta è stata chiamata a pronunciarsi sulla q.l.c. sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 32, e 117 Cost. (quest’ultima norma in riferimento all’art. 8 della CEDU) ed avente ad oggetto l’art. 1 della l. n. 164/1982 nella parte in cui – prevedendo che, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, sia necessaria l’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari – esso viene interpretato nel senso che tali modificazioni richiedano sempre dei trattamenti clinici altamente invasivi (nello specifico, nel caso di mutamento da uomo a donna, di un vero e proprio intervento chirurgico “demolitore”).

Ritiene la Corte che la questione non sia fondata in quanto è necessario interpretare la disposizione in esame come il vero e proprio “approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU)”.

Viene, infatti, ribadito che la legge n. 164 del 1982 accoglie “un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero naturalmente evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale”.

Alla luce di tali considerazioni – dice la Consulta – deve essere lasciato all’interprete il compito di definire il perimetro di tali modificazioni sessuali e, per quanto qui rileva, delle modalità attraverso le quali realizzarle. Di talché, nella disposizione oggetto di censura, la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione sessuale, “porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali”.

L’impostazione ermeneutica seguita dalla Corte Costituzionale coincide anche con quella fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità nella recente sentenza della Cassazione n. 15138/2015 in base alla quale, dunque, si può concludere che “la prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. SS

 


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Inserito in data 05/11/2015
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 2 novembre 2015, n. 707

Il Comune può intervenire nei rapporti di utenza tra il gestore del SSI e l’utente moroso?

La vicenda in esame trae origine dal ricorso proposto da una società gestrice del servizio idrico integrato (S.I.I.) per l’annullamento di un’ordinanza sindacale, emanata ai sensi dell’art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, contenente l’ingiunzione di ripristino immediato dell’erogazione della fornitura di acqua potabile presso un’utenza domestica, sospesa a causa della situazione di grave morosità dell’utente.

In particolare, la ricorrente deduceva la violazione dell’art. 50 T.U.E.L. e l’eccesso di potere di sviamento, rilevando che le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere emesse dall’Autorità comunale, in persona del Sindaco pro tempore, solo per il superamento di emergenze sanitarie o di pubblica igiene – nel caso di specie non sussistenti - né sarebbe tantomeno pertinente il richiamo, operato nell’ordinanza, agli aspetti di natura socio-assistenziale, i quali non assumerebbero rilievo alcuno ai fini dell’emanazione di un provvedimento ai sensi del citato art. 50 T.U.E.L.

I Giudici laziali, investiti della questione, hanno osservato come recente giurisprudenza amministrativa (ex multis, T.A.R. Sardegna, Sez. I, 12 giugno 2015, n. 855; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 13 maggio 2015, n. 1000), già intervenuta in casi simili, abbia chiarito che il Sindaco non possa “intervenire con l’ordinanza prevista dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L. a vietare al gestore del servizio idrico l’interruzione della fornitura nei confronti di singoli utenti morosi, poiché in questo caso si realizza uno sviamento di potere che vede il Comune, estraneo al rapporto contrattuale gestore–utente, impedire al medesimo gestore di azionare i rimedi di legge tesi ad interrompere la somministrazione di acqua nei confronti di utenti non in regola con il pagamento della prevista tariffa, e ciò a prescindere dall’imputabilità di siffatto inadempimento a ragioni di ordine sociale”.

Il Collegio ha, in particolare, chiarito come debba senz’altro condividersi il principio per cui all’Autorità comunale non possa essere “riconosciuto un ruolo nello svolgersi del rapporto di utenza tra il soggetto gestore del S.I.I. ed il destinatario della fornitura idrica”, ed ha ulteriormente precisato che se anche si volesse ipotizzare una sorta di “dinamica di rapporti” tra l’Autorità comunale ed il gestore del servizio, “lo strumento amministrativo utilizzabile non potrebbe legittimamente rinvenirsi nell’ordinanza ex art. 50 cit., che, in carenza dei presupposti di contingibilità e di urgenza (che nel caso di specie, per l’appunto, difetterebbero), risulterebbe del tutto sproporzionato rispetto all’obiettivo da raggiungere”.

In definitiva, non vi sarebbe spazio, nella fattispecie, per l’esercizio del potere ex art. 50, comma T.U.E.L., sicché la Prima Sezione del Collegio ha ritenuto fondata la censura dedotta dal ricorrente per difetto dei presupposti per l’esercizio del potere sindacale di ordinanza previsto dall’art. 50, comma 5, T.U.E.L., per l’effetto, disponendo l’annullamento dell’ordinanza sindacale impugnata con il ricorso. MB

 



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Inserito in data 05/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 27 ottobre 2015, n. 43264

Via libera alla particolare tenuità del fatto anche se la p.o. non compare davanti al G.P.

 “Nel procedimento avanti al giudice di pace, dopo l'esercizio dell'azione penale, la mancata comparazione in udienza della persona offesa - ritualmente citata ancorché irreperibile - non è di per sé di ostacolo alla dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale per particolare tenuità del fatto, in presenza dei presupposti di cui all'art. 34 comma 3 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274”, questo il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza in epigrafe, depositata il 27.10.2015.

Le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale esistente in ordine alla possibilità o meno di dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto - in base all’articolo 34, comma 1 Dlgs 274/2000 - quando la vittima del reato, dopo l’esercizio dell’azione penale (nulla quaestio per la fase precedente l’esercizio dell’azione penale), benché regolarmente citata o irreperibile, non compaia in udienza.

La Corte – investita del quesito – ha precisato che, con riferimento alla questione, da tempo, si contendono il campo due contrapposti indirizzi giurisprudenziali: i) secondo un primo orientamento, “la mancata comparizione della persona offesa in udienza non può essere interpretata come una volontà di non opposizione rispetto ad una meramente eventuale valutazione del giudice circa la particolare tenuità del fatto, trattandosi di un fatto neutro, non espressivo di alcuna specifica volontà”; ii) a mente di un diverso filone ermeneutico, la decisione della persona offesa di non comparire in udienza implicherebbe invece “una volontà di rinuncia all’esercizio di tutte le facoltà processuali previste dalla legge, tra cui quella di opporsi all’esito del procedimento per particolare tenuità del fatto”.

Le Sezioni Unite hanno quindi notato come, effettivamente, entrambi i richiamati orientamenti, pur pervenendo a soluzioni contrapposte, in realtà finiscano per definire la mancata comparizione in udienza della persona offesa “in termini indicativi, ora in senso negativo, ora in senso positivo, di una manifestazione di acquiescenza ad un esito del processo di improcedibilità per particolare tenuità del fatto, ai fini di quanto previsto dal comma 3 dell’art 34 d.lgs. n. 274/2000”.

Tuttavia, entrambe le citate impostazioni muovono da un presupposto non corretto, ovvero “il presupposto secondo cui, dopo l’esercizio dell’azione penale, affinché possa pervenirsi ad un esito liberatorio, occorre accertare un’adesione – implicita od esplicita – della persona offesa” (che sia stata, beninteso, posta in grado di esprimere la propria eventuale opposizione). “Sennonché, la norma in esame non richiede da parte della persona offesa (come pure dell’imputato) un’adesione a un simile esito, stabilendo invece che esso sia escluso solo in presenza di una presa di posizione che abbia valore di una opposizione”.

In altri termini, ai fini dell’operatività dell’istituto in esame, il citato art. 34, comma 3° prevede, nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, una condizione negativa - ovvero la non opposizione della persona offesa (o dell’imputato) - non già una condizione positiva.

E proprio il tenore letterale della disposizione conduce a ritenere – hanno concluso le Sezioni Unite – che tale volontà di opposizione debba essere necessariamente espressa, in quanto l'opposizione prevista come condizione ostativa dall'art. 34 comma 3 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, “non può essere desunta da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà in tal senso”.

Al termine del lungo argomentare, il Collegio in seduta plenaria ha, quindi, concluso nel senso che la mancata comparizione all’udienza della persona offesa, sic, non possa impedire l’adozione, da parte del Giudice di Pace, della sentenza liberatoria per particolare tenuità del fatto. MB

 




Inserito in data 04/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 30 ottobre 2015, n. 4984

Deposito del ricorso a mezzo del servizio postale

Avverso la dichiarazione dell’inammissibilità del ricorso pervenuto presso la Segreteria del T.a.r. tramite posta, anziché mediante consegna manuale, l’appellante sosteneva l’insussistenza di ragioni giuridiche fondanti l’invalidità o l’inefficacia della modalità formale di deposito seguita, e in via gradata il soccorso del principio di cui all’art. 156, comma terzo, c.p.c., concernente la sanatoria degli atti che, pur affetti da nullità, nondimeno raggiungano lo scopo cui erano destinati.

Il giudice di prime cure aveva inferito le proprie conclusioni in considerazione dell’assenza di una disposizione che consentisse l’invio del ricorso avvalendosi del servizio postale.

Diversamente opinando, il Consiglio di Stato desume dal richiamato art. 156, c.p.c., un principio generale di libertà, o equivalenza, delle forme degli atti processuali. In tale prospettiva, deve guardarsi alla concreta idoneità della forma adottata di realizzare il fine perseguito dall’ordinamento. Si sottolinea la non necessarietà di una norma autorizzativa della possibilità di compiere l’atto in un determinato modo; e anzi, una previsione espressa occorrerebbe soltanto ove si volesse interdire uno specifico modus agendi, ovvero si intendesse rendere obbligatoria una data condotta, vietando implicitamente tutte le altre.

Il Collegio ritiene di non poter dedurre dall’art. 5 delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, un onere di consegna manuale del fascicolo direttamente da parte dell’interessato; non apparendo in linea con la prassi applicativa un’interpretazione della norma rigidamente letterale e restrittiva.

La sentenza si sofferma anche sull’eventualità di un divieto dell’invio a mezzo posta motivato da esigenze di ordine pratico, quali gli “inconvenienti e disguidi che potrebbero derivare dall’impersonalità del mezzo e dalla mancanza di un incontro diretto fra la parte, o chi la rappresenta, e l’operatore che riceve il deposito”. I giudici di Palazzo Spada, pur assumendo la ragionevolezza di simili censure, ribadiscono l’inesistenza, allo stato, di una disciplina che escluda o regoli diversamente il fenomeno.

Aggiunge tuttavia il Collegio, che sono posti a carico di chi si avvale del mezzo postale i normali rischî ad esso connessi: “Non si può dunque estendere al deposito del ricorso giurisdizionale il principio che ai fini dei termini di decadenza vale la data di spedizione, non quella di ricevimento dell’atto”. FM 


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Inserito in data 04/11/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA 28 ottobre 2015, n. 22003

Interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.p. e 684 c.p. 

Con riferimento a una richiesta risarcitoria, la prima sezione civile della Corte di cassazione rimette al Primo presidente, per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, la questione relativa all’interpretazione del combinato disposto degli artt. 114 c.p.p. (Divieto di pubblicazioni di atti e di immagini) e 684 c.p. (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale); chiedendo “se la valutazione del giudice di merito debba ritenersi vincolata al semplice rilievo della minima riproduzione di un atto non divulgabile ovvero possa essere orientata all’apprezzamento dei contenuti della riproduzione medesima”; e quale sia il bene giuridico effettivamente protetto dalla previsione normativa.

La Corte rileva, nella fattispecie, la ricorrenza di orientamenti “non sempre armonici e collimanti”, tali da incidere sulla certezza del diritto, “in un contesto che vede implicati valori di rango costituzionale che attengono alla tutela della persona, alla libertà di stampa ed all’esercizio della giurisdizione”.

In base a un primo canone ermeneutico, le disposizioni di cui all’art. 114, c.p.p., poste a integrazione del precetto penale dell’art. 684 c.p., conducono a “elidere ogni rilievo al dato quantitativo della limitatezza della trascrizione dell’atto non divulgabile”, e consentono di enunciare il principio di diritto in base al quale: “Fatta salva la possibilità di pubblicare il contenuto di atti non coperti dal segreto, non può derogarsi al divieto di pubblicazione di tali atti (mediante riproduzione integrale o parziale o estrapolazione di frasi), nei casi previsti dall’art. 114 c.p.p., in dipendenza del dato quantitativo della limitatezza della riproduzione, trattandosi di deroga non prevista dalla norma e non compatibile con le esigenze sottese alla disciplina relativa alla pubblicazione di atti di un procedimento penale” (cfr., ex multis, Cass. civ. n. 838/2015; e Cass. pen. n. 473/2013).

Secondo altro orientamento, invece: “Non integra la contravvenzione di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale la pubblicazione di una brevissima frase, riportata tra virgolette, dell’interrogatorio dell’indagato” (cfr., Cass. pen. n. 43479/2013).

Sotto un diverso profilo, si riscontra un ulteriore elemento di incertezza valutativa, in ordine all’individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 684 c.p..

La giurisprudenza prevalente propende per il riconoscimento della natura plurioffensiva del reato, ritenendo che esso sia “volto a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo, nonché l’interesse dello Stato al retto funzionamento dell’attività giudiziaria, al fine di garantire l’assenza di condizionamenti del giudice dell’eventuale futuro dibattimento”.

La sezione rimettente rileva, tuttavia, la presenza di una recente pronuncia discordante, ad avviso della quale: “la tutela penale accordata dall’art. 684 c.p., non attiene alla sfera di riservatezza dell’indagato o dell’imputato, ma alla protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova” (cfr., Cass. civ. n. 19746/2014).

Osservano, a tal proposito, i giudici di legittimità come l’interpretazione da ultimo richiamata, determinando uno spostamento dell’offensività verso il profilo pubblicistico della giurisdizione, “riproporrebbe il problema della legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria per la mera violazione dell’art. 684 c.p., in assenza, quindi, di un concreto pregiudizio alla sua reputazione”. FM

 




Inserito in data 03/11/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 28 ottobre 2015, n. 2271

La Regione non può porre a totale carico degli assistiti il costo della PMA eterologa

Il T.A.R. Milano ha annullato la delibera della Regione Lombardia che aveva posto a totale carico degli assistiti il costo delle prestazioni per la PMA di tipo eterologo, diversamente da quanto previsto per la PMA di tipo omologo, per la quale gli utenti sono tenuti al versamento del solo ticket.

Ad avviso del Collegio, “Trattandosi … di prestazione riconducibile a una pluralità di beni costituzionali – libertà di autodeterminazione e diritto alla salute – né il legislatore né, a maggior ragione, l’autorità amministrativa possono ostacolarne l’esercizio o condizionarne in via assoluta, la realizzazione, ponendo a carico degli interessati l’intero costo della stessa, al di fuori di ogni valutazione e senza alcun contemperamento con l’eventuale limitatezza delle risorse finanziarie”.

In ogni caso, l’ipotizzata carenza di risorse non potrebbe comunque determinare il completo sacrificio delle posizioni giuridiche dei soggetti che, in possesso dei prescritti requisiti (cfr. il punto 11.1 del considerato in diritto della sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale), volessero ricorrere alla procedura di PMA eterologa, considerato che il nucleo essenziale di un diritto fondamentale, qual è quello alla salute, cui la predetta prestazione va ricondotta, non può giammai essere posto in discussione, pur in presenza di situazioni congiunturali particolarmente negative”.

Ad abundantiam va altresì evidenziato come il trattamento deteriore riservato alla PMA di tipo eterologo appare illegittimo anche per violazione del canone di ragionevolezza, attesa la riconducibilità di questa allo stesso genus della PMA di tipo omologo, assoggettata invece al pagamento del solo ticket”. TM

 

 



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Inserito in data 02/11/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 2 novembre 2015, n. 9

Sull’obbligatorietà dell’indicazione del subappaltatore già in sede di presentazione dell’offerta

L’Adunanza Plenaria, nella sentenza in epigrafe, è stata chiamata a risolvere il contrasto giurisprudenziale riguardante, in primo luogo, la questione dell’obbligatorietà (o meno) dell’indicazione del nominativo del subappaltatore già nella fase di presentazione dell’offerta nei casi di cd. subappalto necessario, ossia quando l’impresa concorrente sia sprovvista di una qualificazione in una o più categorie scorporabili.

Affermano i giudici dell’AP, operando una disamina della normativa di riferimento, che dal combinato disposto degli artt. 92, co. 7 e 109, co. 2, D.P.R. 207/2010 e 37, co. 11, d.lgs. 163/2006 risulta che il concorrente che non possiede la qualificazione per le opere scorporabili indicate all’art. 107, co. 2 (c.d. opere a qualificazione necessaria) non può eseguire direttamente le relative lavorazioni ma le deve subappaltare a un’impresa provvista della relativa, indispensabile qualificazione. L’art. 118 del d.lgs. citato occupandosi, a sua volta, di definire le modalità e le condizioni per il valido affidamento delle lavorazioni in subappalto, prevede quali condizioni indefettibili che il concorrente abbia indicato nella fase dell’offerta le lavorazioni che intende subappaltare e che abbia, poi, trasmesso alla stazione appaltante il contratto di subappalto almeno venti giorni prima dell’inizio dei lavori subappaltati.

Ne deriva, dunque, che l’indicazione del nome del subappaltatore non è obbligatoria all’atto dell’offerta in quanto la normativa citata ha evidentemente inteso circoscrivere, in maniera tassativa ed esaustiva, le condizioni di efficacia del subappalto agli anzidetti presupposti (tra cui non compare l’obbligo di indicare il nome dell’impresa subappaltatrice), sicché ogni opzione ermeneutica che si risolvesse nell’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento deve essere rifiutata in quanto finirebbe per far dire alla legge qualcosa che la legge non dice (e che, si presume, secondo il brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, non voleva dire).

Ragionando diversamente – afferma l’AP – in primo luogo, si avrebbe una vera e propria “eterointegrazione del bando mediante l’inammissibile inserzione automatica nella lex specialis di un obbligo non previsto da alcuna disposizione normativa cogente pretermessa nell’avviso (da valersi quale unica condizione legittimante della sua eterointegrazione)”, in secondo luogo, “la statuizione dell’adempimento in questione finirebbe per costituire una clausola espulsiva atipica”, in palese spregio del principio di tassatività delle cause di esclusione e, infine, la tesi favorevole all’affermazione dell’obbligo in questione comporterebbe una confusione tra avvalimento e subappalto, “nella misura in cui tale obbligo attrae il rapporto con l’impresa subappaltatrice nella fase della gara, anziché in quella dell’esecuzione dell’appalto, con ciò assimilando due istituti che presentano presupposti, finalità e regolazioni diverse”.

I Giudici dell’AP sono stati, altresì, chiamati a pronunciarsi sulla questione riguardante la doverosità (o meno) dell’uso dei poteri di soccorso istruttorio nei casi in cui la fase procedurale di presentazione delle offerte si sia perfezionata prima della pubblicazione della decisione della stessa Adunanza Plenaria n.3/2015 con la quale è stato chiarito che l’obbligo, codificato all’art. 87, co. 4, d.lgs. 163/2006, di indicazione degli oneri di sicurezza aziendale si applica anche agli appalti di lavori.

A tal proposito, l’AP ritiene di offrire una risposta negativa conformandosi alla recente decisione pocanzi richiamata in base alla quale è stata espressamente “esclusa la sanabilità con il soccorso istruttorio dell’omissione dell’indicazione degli oneri di sicurezza aziendale, che si risolverebbe in un’inammissibile integrazione postuma di un elemento essenziale dell’offerta”.

A ben vedere – dice l’AP - se non fosse così si finirebbe con l’attribuire alla esegesi giurisprudenziale valore ed efficacia normativa in contrasto con la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione del diritto.

Richiamando l’orientamento della Suprema Corte (SS.UU. n. 15144/2011), l’AP chiarisce che l’unica ipotesi in cui si potrebbe legittimamente attribuire valore innovativo all’intervento nomofilattico è allorquando concorrono tre presupposti (nel caso di specie non sussistenti): a) che l’esegesi incida su una regola del processo; b) che si tratti di esegesi imprevedibile e susseguente ad altra consolidata nel tempo e tale, dunque, da ingenerare un ragionevole affidamento; c) che, infine, essa determini un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa. SS 



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Inserito in data 31/10/2015
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, ORDINANZA 23 ottobre 2015, n. 919

Condizioni di legittimità della valutazione meramente numerica delle prove d’esame

Con l’ordinanza in esame, il T.A.R. Catania ha accolto la domanda cautelare di sospensione dell’efficacia del verbale della Commissione di esame di avvocato, nella parte in cui aveva giudicato insufficienti alcuni degli elaborati del ricorrente.

Secondo il Giudice catanese, il giudizio numerico integra un’adeguata motivazione della valutazione della prova d’esame solo a certe condizioni, non rispettate nel caso di specie. In particolare, “nella fase di valutazione di prove d’esame (o di offerte in sede di gara d’appalto) da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è sufficiente quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro le quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, è talmente analitica da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e un massimo di portata tale da rendere di per sé evidente l'iter logico seguito nel valutare le singole prove d’esame, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito”.

Pertanto, il Collegio ha ordinato alla Commissione di procedere, in diversa composizione, entro 40 giorni, ad una nuova correzione degli elaborati giudicati insufficienti, assegnando un punteggio alle singole voci (ad es. esposizione, esauriente trattazione delle varie parti della traccia, ecc.) prima di procedere a calcolare il punteggio definitivo. TM

 



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Inserito in data 30/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 30 ottobre 2015, n. 4890

Promozione del personale della PS: il parere della Commissione Centrale non è vincolante

La vicenda portata all’attenzione della III Sezione del Consiglio di Stato attiene all’applicazione delle disposizioni relative alla ricompensa della promozione alla qualifica superiore per meriti straordinari e speciali del personale della Polizia di Stato, disciplinata dall’art. 71 del d.P.R. n. 335/1982 e dagli artt. 70-75-ter del regolamento emanato con d.P.R. n. 782/1985.

Nel caso in esame, il ricorrente – destinatario, in un primo momento, di un decreto del Capo della Polizia con il quale era stata disposta, per meriti straordinari e speciali, la sua promozione alla qualifica di vice sovrintendente, successivamente annullata in “autotutela” e sostituita con un encomio solenne – aveva impugnato la sentenza resa dai Giudici Pugliesi con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del decreto di promozione, in quanto unicamente fondato sull’errato presupposto che la Commissione Centrale per le ricompense avesse espresso parere conforme alla proposta del Questore, mentre in realtà si era espressa per la concessione di un encomio solenne.

I Giudici di Palazzo Spada confermano la statuizione di primo grado e, pur ammettendo che - con riguardo al carattere vincolante o meno del parere della Commissione Centrale - effettivamente le disposizioni che disciplinano il procedimento per l’assegnazione delle ricompense non qualificano espressamente il parere della Commissione come vincolante e determinante ai fini del conferimento, osservano come “purtuttavia il sistema complessivo della normativa lascia intendere che la pronuncia della commissione sia il momento culminante e decisivo della procedura; l’ipotesi che il Capo della Polizia se ne discosti, pur se ammessa, si configura dunque come una eccezione, che richiederebbe un’esplicita motivazione”, nel caso di specie mai resa, anzi esclusa dal successivo annullamento in autotutela del provvedimento precedentemente emesso.

A prescindere dalla vincolatività o meno del parere, nella fattispecie deve ritenersi “risolutiva la considerazione che il Capo della Polizia ha decretato la promozione basandosi sull’erroneo convincimento che in quel senso fosse il parere della commissione. Il Capo della Polizia non intendeva esercitare il suo (supposto) potere di decidere in modo difforme dal parere, al contrario intendeva uniformarvisi e tale vizio appare in sé sufficiente per giustificare l’annullamento in autotutela del provvedimento”.

Ed invero – proseguono ulteriormente i Giudici della III Sezione – il giudizio in ordine al conferimento della ricompensa – caratterizzato, peraltro, da un’ampia discrezionalità - è affidato alla commissione centrale che assume altresì il compito di garantire un’equilibrata “proporzionalità nonché l’omogeneità dei criteri, laddove le proposte dei singoli Questori, proprio perché provengono da una pluralità di fonti, potrebbero risultare scoordinate fra loro”, non costituendo vizio del parere reso la circostanza che esso sia risultato difforme rispetto alla proposta del Questore. MB

 



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Inserito in data 29/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 ottobre 2015, n. 4871

Interesse a ricorrere della terza graduata

La pronuncia in epigrafe offre l’occasione per esaminare una questione di particolare rilievo, già oggetto di riflessione da parte dell’Adunanza Plenaria, ovvero l’individuazione delle condizioni per la valutazione della sussistenza dell’interesse a ricorrere della terza in graduatoria in una procedura di gara.

La vicenda de qua scaturisce dall’impugnazione proposta dall’impresa aggiudicataria avverso la sentenza resa dal TAR Lazio – Roma con la quale era stato parzialmente accolto il ricorso proposto dalla terza graduata per l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva in favore dell’aggiudicataria ed altresì disposta l’attivazione del sub procedimento di anomalia dell’offerta della seconda in graduatoria, sull’assunto che la posizione di terza graduata “non impedisce in assoluto l’impugnazione dell’esito sfavorevole della gara ove sia fatta valere l’illegittimità delle posizioni delle imprese collocate in posizione poziore”.

I Giudici di Palazzo Spada accolgono le censure formulate dall’appellante, precisando che con riferimento alla sussistenza dell’interesse a ricorre della terza graduata, “l’utilità che essa ricorrente tiene a conseguire, sia essa finale o strumentale, deve derivare in via immediata e secondo criteri di regolarità causale dall’accoglimento del ricorso e non già in via mediata da eventi incerti e potenziali quali l’esito negativo di una verifica di anomalia”.

Ebbene, nel caso in esame, la circostanza della presunta anomalia dell’offerta della seconda graduata – eccepita dalla ricorrente in primo grado - “costituisce una mera eventualità, di modo che l’esclusione per tale ragione (..) non rappresenta, dal punto di vista giuridico formale, una normale ed immediata conseguenza dell’annullamento dell’aggiudicazione originaria della prima graduata”.

Quanto sopra rilevato – ricorda la V Sezione - è un principio consolidato in giurisprudenza e da ultimo confluito nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 3.02.2014 che ha affermato che “l’utilità o bene della vita cui aspira il ricorrente (..) deve porsi in rapporto di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla domanda di annullamento proposta e non restare subordinata ad eventi solo potenziali e incerti”.

Alla luce di tali criteri ermeneutici, nel caso in questione – osserva la V Sezione del Consiglio di Stato - la terza graduata conseguirebbe il bene della vita solo nell’eventualità in cui, all’esito del giudizio di anomalia dell’offerta della seconda in classifica, questa risultasse incongrua, con conseguente esclusione dell’impresa dalla procedura di gara.

La circostanza sopra dedotta non sarebbe di per sé sufficiente a radicare l’interesse e la legittimazione a ricorrere della ricorrente, poiché mancherebbe quel peculiare “rapporto di immediatezza causale, prossimità e regolarità” – invocato dalla citata Adunanza Plenaria - che consente la tutela della posizione della terza graduata.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Consiglio di Stato, in riforma parziale della sentenza impugnata, ha accolto l’appello proposto dall’impresa aggiudicataria, dichiarando, quindi, l’inammissibilità del ricorso in primo grado per difetto di interesse della terza in graduatoria. MB 

 



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Inserito in data 28/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 22 ottobre 2015, n. 4863

Validità della notifica del ricorso a mezzo p.e.c.

L’amministrazione appellante eccepiva la nullità della notifica del ricorso introduttivo, avvenuta esclusivamente a mezzo posta elettronica certificata, in assenza dell’autorizzazione di cui al comma secondo dell’art. 52, c.p.a.. Nel dettaglio, sulla base di un’articolata serie di connessioni normative, si asseriva che non trovando applicazione di fronte alla giustizia amministrativa (ex art. 16 quater, comma terzo bis, l. n. 221/2012), le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dello stesso art. 16 quater (concernenti l’adeguamento del d.m. n. 44/2011, in ordine alle modifiche apportate, sempre dall’art. 16 quater, alla. l. n. 53/1994, nonché l’entrata in vigore delle stesse), la notificazione in via telematica, in quanto speciale, non potesse validamente avvenire se non a seguito dell’autorizzazione espressa dal presidente dell’organo giudicante investito del ricorso in primo grado.

Il Consiglio di Stato, confermando l’orientamento già in precedenza espresso, esclude la nullità della notifica.

I giudici di Palazzo Spada ribadiscono che i precetti di cui alla citata l. n. 53 del 1994 (relativa alle notificazioni di atti civili, amministrativi, e stragiudiziali, da parte di avvocati), trovano immediata applicazione nel processo amministrativo. Segnatamente, l’art. 1, come modificato dall’art. 25, comma terzo, lettera a, della l. n. 183/2011, stabilisce che l’avvocato possa eseguire la notificazione di atti in materia amministrativa a mezzo posta elettronica certificata. Non è pertanto “ostativa alla validità ed efficacia della notificazione”, l’omessa autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52 c.p.a.. Il Collegio rileva infatti, anche sulla scorta dell’art. 13 delle norme di attuazione contenute nel secondo allegato al d.lgs. n. 104/2010, l’irreversibile transizione della giustizia amministrativa verso forme processuali tecnico-operative di tipo telematico. FM



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Inserito in data 28/10/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 ottobre 2015, n. 21090

Spedalità: l’osservanza delle dotazioni e istruzioni non esclude la responsabilità

La Corte di legittimità, pronunciandosi in ordine a una fattispecie di risarcimento del danno derivante da attività medico-chirurgica, ribadisce che “l’osservanza da parte di un nosocomio – pubblico o privato – delle dotazioni ed istruzioni previste dalla normativa vigente per le prestazioni di emergenza non è sufficiente ad escludere la responsabilità per i danni subiti da un paziente in conseguenza della loro esecuzione, essendo comunque necessaria l’osservanza delle comuni regole di diligenza e prudenza”.

La Corte riscontra come i giudici di merito abbiano negato rilevanza al rispetto delle previsioni normative dettate in tema di gestione delle emergenze, sulla base dell’assunto che è comunque “onere della struttura assicurare all’utenza condizioni di massima sicurezza e prevedere diligentemente che l'emergenza da affrontare non sarà sicuramente nei casi concreti di entità lieve o tale da consentire tempi di attesa superiori ai minimi indispensabili”.

La Corte osserva, ulteriormente, come le valutazioni compiute non tendano a “sindacare le modalità di organizzazione delle strutture erogatrici dell’assistenza sanitaria”, né tantomeno le regole, spesso di rango legislativo, che ne stabiliscono la dotazione, bensì a ribadire che “anche il pieno rispetto della normativa vigente (omissis) non esime affatto da responsabilità la struttura ospedaliera se, in relazione proprio a quelle condizioni di partenza pur non ottimali, le condotte degli operatori siano valutate comunque inadeguate”. “Non basta osservare le norme espressamente previste, dinanzi a regole generali e sussidiarie di obbligo di diligenza immanenti nell’ordinamento”. Oltre al rispetto delle disposizioni normative di carattere tecnico-organizzativo e gestionale, infatti, l’obbligo del nosocomio di eseguire la prestazione dovuta con la massima diligenza e prudenza implica la tenuta in concreto, da parte degli operatori, di “condotte adeguate alle condizioni disperate del paziente ed in rapporto alle precarie o limitate disponibilità di mezzi o risorse, benché conformi alle dotazioni o alle istruzioni previste dalla normativa vigente, adottando di volta in volta le determinazioni più idonee a scongiurare l’impossibilità del salvataggio del leso”. FM

 




Inserito in data 27/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 ottobre 2015, n. 4899

Sono legittimi i decreti prefettizi di annullamento delle trascrizioni dei matrimoni gay

Intervenendo su una questione caldissima, la decisione de qua  riconosce la legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle trascrizioni di matrimoni omosessuali contratti all’estero da cittadini italiani.

In primis, secondo la terza sezione, il matrimonio omosessuale contratto all’estero tra cittadini italiani non produce alcun effetto giuridico in Italia (a prescindere dalla individuazione del vizio che lo affligge, questione del tutto ininfluente in questo caso). Ciò in quanto l’art. 115 c.c. assoggetta i cittadini italiani alle disposizioni codicistiche che definiscono le condizioni necessarie per contrarre il matrimonio, anche quando l’atto viene celebrato all’estero; ai sensi degli artt. 107, 108, 143, 143bis e 156bis, la prima condizione di validità ed efficacia del matrimonio è proprio la diversità di sesso dei nubendi.

In secundis, i Giudici di Palazzo Spada affermano la non trascrivibilità nei registri dello stato civile del matrimonio omosessuali contratto all’estero da cittadini italiani. Invero, catalogando i requisiti di trascrivibilità del matrimonio,  l’art. 64 dpr 396/00 attribuisce all’ufficiale dello stato civile il potere-dovere di controllarne la presenza e di rifiutare la trascrizione dei matrimoni che ne risultino privi; segnatamente, nel caso di matrimonio gay, difetterebbe la condizione relativa alla “dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”, prevista dall’art. 64, comma 1, lett. e), d.P.R cit.

In terzo luogo, secondo il Consiglio di Stato, non può sostenersi la trascrivibilità dei matrimoni same sex sulla base di un’interpretazione costituzionalmente, convenzionalmente o comunitariamente orientata della normativa vigente. Da un canto, la Corte costituzionale ha affermato la coerenza dell’omessa assimilazione del matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, atteso che solo il secondo trova riconoscimento nell’art. 29 Cost. D’altro canto, la Corte EDU (sentenza Oliari) ha ribadito che l’eventuale previsione del matrimonio omosessuale rientra nella discrezionalità riservata agli Stati, censurando lo Stato italiano perché non assicura alcuna protezione giuridica alle unioni omosessuali. D’altro canto ancora, il rispetto delle libertà di circolazione e soggiorno è imposto solo nelle materie rimesse al diritto europeo, tra cui non può annoverarsi la regolazione legislativa del matrimonio.

Da ultimo, il Consiglio di Stato riconosce la legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali. Infatti, il sindaco esercita le competenze statali in tema di registri dello stato civile quale ufficiale di governo, cioè delegato dello Stato, e, di conseguenza, resta soggetto ai poteri di direzione, sostituzione e vigilanza del Prefetto, tra cui va annoverato il potere di annullamento gerarchico degli atti illegittimi adottati dal sindaco. Né le norme che attribuiscono al giudice civile il potere di controllare, rettificare e cancellare gli atti dello stato civile costituiscono una preclusione all’esercizio del potere di autotutela del prefetto: difatti, tali norme riguardano le sole trascrizioni produttive di effetti giuridici, proteggono unicamente interessi privati e, in ultima analisi, non assicurano la rimozione in modo uniforme su tutto il territorio nazionale di atti apparenti ma che potrebbero legittimare istanze di prestazioni pubbliche connesse allo stato civile di coniugato. TM

 



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Inserito in data 27/10/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 ottobre 2015, n. 205

L’art. 72 d.lgs, 151/01 (indennità di maternità) viola gli artt. 3, 31 e 37 Cost.

 La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 c. 1, 31 c. 2 e 37 c. 1 Cost., della disciplina in tema di indennità di maternità (ossia l’art. 72 del d.lgs. 151/01, vigente fino al 24 giugno 2015), nella parte in cui non riconosce tale prestazione economica alla madre libera professionista che proceda all’adozione nazionale di un bambino di età superiore ai 6 anni.

Preliminarmente, la Consulta evidenzia la finalità dell’istituto. “Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore […]. È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione. […] Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare. […] Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.).”.

Ciò premesso, secondo il Giudice delle Leggi, “Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino”.

Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana. […] Soltanto per tale fattispecie la disciplina in esame continua a subordinare il godimento dell’indennità a un limite (i sei anni di età del minore), che è stato già superato dal legislatore per le madri lavoratrici dipendenti (art. 2, comma 452, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, […]) e da questa Corte, con la sentenza n. 371 del 2003, per le madri libere professioniste che privilegino l’adozione internazionale. La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi. […] e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015”.

Quanto al secondo profilo, “L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età. Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione”. TM



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Inserito in data 26/10/2015
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 22 ottobre 2015, n. 634

Ammissibilità della questione di giurisdizione sollevata per la prima volta in appello: rinvio ad AP

Con l’ordinanza in epigrafe, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., hanno rimesso all’Adunanza Plenaria il punto di diritto controverso avente ad oggetto l’ammissibilità o meno di sollevare, per la prima volta, una questione di giurisdizione nel giudizio di secondo grado, quando a sollevarla sia l’appellante incidentale, ossia colui che nel giudizio di primo grado, con ricorso incidentale, non soltanto non aveva contestato la scelta della ricorrente principale di rivolgersi al TAR, ma anzi aveva espressamente evidenziato la sussistenza della giurisdizione amministrativa in relazione alla vicenda controversa.

In primo luogo, il Consiglio ritiene di non potersi conformare a quella pur autorevole impostazione secondo la quale se la parte vittoriosa nel merito avanti al TAR solleva, con l’appello incidentale, una questione di giurisdizione il giudice potrà esaminarla “solo quando, per effetto dello sviluppo della sua decisione sull’appello principale, tale parte, già vittoriosa nel merito, diventi soccombente”.

Infatti, come peraltro sostenuto dall’Adunanza Plenaria, la necessità di definire la controversia muovendo dall'esame delle questioni preliminari, “costituisce, oltre che una regola di giudizio da sempre pacificamente ritenuta applicabile, anche un’espressa previsione positiva, ora stabilita dal codice del processo amministrativo” all’art. 76, co. 4 c.p.a. che richiama espressamente l’art. 276, co. 2 c.p.c.

In secondo luogo, il Consiglio ha chiarito che, nel caso di specie, la questione merita attento esame posto che trattasi di procedura di affidamento a terzi di spazi commerciali all’interno di un’aerostazione effettuata dalla concessionaria (vera e propria sub-concessione) e non di procedura di affidamento di un servizio. Ne deriva che, non essendo tale sub-concessione coessenziale al trasporto aereo propriamente detto ed essendo disposta autonomamente dalla concessionaria in base ai suoi poteri privatistici, le controversie ad essa relative rientrerebbero nella giurisdizione del giudice ordinario.

In ordine al merito della questione, i giudici del CGARS hanno ritenuto non estensibili al caso di specie i percorsi evolutivi, intrapresi dalla giurisprudenza prevalente (in contrasto con l’originaria idea della giurisdizione come espressione inderogabile della sovranità statale), che hanno prediletto i principi di economia processuale e di ragionevole durata dei processi al fine di stigmatizzare l’utilizzo potenzialmente strumentale delle questioni di giurisdizione (cd. abuso del processo).

Ritiene il Consiglio, da una parte, che la tesi dell’abuso del processo (benché elaborata per la posizione del ricorrente principale) “si attaglia anche al caso qui in esame in cui il ricorrente incidentale, in primo grado, ha affermato la sussistenza di quella giurisdizione amministrativa che ora, in appello (tra l’altro dopo essere risultato vincitore nel merito) nega venendo appunto contra factum proprium”; dall’altra parte, che tale tesi non è concretamente praticabile per una serie di considerazioni.

a) La deduzione per la prima volta in appello della questione di giurisdizione non costituisce una novità vietata di per sé dalla legge processuale. Dal momento che il difetto di giurisdizione in primo grado è rilevabile d’ufficio, ne consegue che “non viola il divieto di novità la parte la quale impugni la sentenza di primo grado per il difetto di giurisdizione, ancorché non lo abbia appunto eccepito in prime cure”.

b) “Non sembra che la nozione di abuso del diritto in sede processuale possa essere ricostruita partendo dalla violazione del dovere generale di comportarsi in giudizio con lealtà e probità” o, in generale, partendo dalla violazione di norme di rito (l’art. 96 c.p.c. dà sì luogo ad un abuso del processo ma ha come conseguenza una responsabilità aggravata e non un’inammissibilità della domanda e, in ogni caso, ha come presupposto indefettibile la soccombenza).

c) L’abuso del processo, ostativo all’esame della domanda, può essere configurato “soltanto proiettando sul campo processuale quelle regole contrattuali di buona fede e correttezza in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost.”.

Nel caso delle questioni in esame – ritiene il CGARS – “non sembra potersi predicare l’estensione dell’operatività di un principio di buona fede sostanziale e negoziale”. Il vero è, in conclusione, che “nel diritto positivo l’unico caso in cui la questione di giurisdizione può ritenersi preclusa è il caso in cui sulla stessa si sia formato il giudicato implicito o esplicito”. “Ne consegue – come insegna la Suprema Corte – che, qualora chi agisce in giudizio, dopo avere adito un giudice, ne eccepisca in appello il difetto di giurisdizione, è legittimato a farlo”.

Alla luce delle superiori considerazioni, rilevando il potenziale contrasto giurisprudenziale che deriverebbe dalla non applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, il CGARS rinvia la suindicata questione all’Adunanza Plenaria. SS



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Inserito in data 23/10/2015
CORTE DI APPELLO DI ROMA - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA del 22 ottobre 2015

“WHY NOT”: la CdA di Roma assolve il sindaco De Magistris

 Poche ore fa si è registrato il “tramonto” del “Caso De Magistris”, all'indomani della bocciatura – da parte della Consulta – del ricorso del Tar Campania sulla applicazione, al sindaco, della Legge Severino sulla eleggibilità degli amministratori condannati.
Invero, con la pronuncia in epigrafe, la terza Corte di appello di Roma ha assolto il sindaco di Napoli Luigi De Magistris – nonché il consulente Giocchino Genchi – dall'accusa di abuso d'ufficio con riferimento alla vicenda della acquisizione di tabulati telefonici di politici durante l'inchiesta “Why Not”, condotta dallo stesso nelle vesti di PM a Catanzaro, perché “il fatto non costituisce reato da tutti i capi d'imputazione”.

Ripercorrendo velocemente il fatto, dopo la condanna di primo grado a 15 mesi di carcere per abuso d'ufficio, nel settembre 2014, il sindaco de Magistris, era stato sospeso dalle sue funzioni dal Prefetto di Napoli, alla luce, e in applicazione, del d.lgs. 235 del 2012 ovvero legge Severino sulla sospensione degli amministratori locali nei casi di condanna.

In seguito, il Tar Campania, ha successivamente disposto la “sospensione della sospensione”, chiedendo, dunque, alla Corte costituzionale, di pronunciarsi sulla natura di sanzione penale della sospensione dell'incarico, nonché sulla sua applicazione retroattiva, alla luce della considerazione secondo la quale de Magistris era già in carica ancor prima della entrata in vigore della norma de qua.

Dunque, il rigetto del ricorso del g.a., dai giudici costituzionali, ha fatto sì di aprire la strada al ripristino della sospensione dell'incarico.

Tuttavia, nonostante ciò, la Corte d'Appello, accogliendo la richiesta del Pg, ha eliminato completamente la causa della sospensione, decidendo per la prescrizione dei reati addebitati antecedentemente al sindaco. GMC




Inserito in data 23/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 20 ottobre 2015, n. 4796

Sul giudizio di “anomalia dell'offerta”

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito al giudizio di anomalia dell'offerta, decidendo in merito alla infondatezza del motivo teso a contestare il difetto di motivazione, nonché la violazione delle regole di competenza che – riprendendo la pronuncia - “inficerebbero il giudizio di anomalia”.

I Giudici, invero, ribadendo un pacifico insegnamento pretorio, chiariscono che il giudizio positivo di anomalia non richiede una “specifica motivazione”, mentre, incombe – su chi contesti l'aggiudicazione – l'onere (nel caso de quo non assolto) di individuare tutti gli specifici elementi volti a dimostrare che la valutazione tecnico – discrezionale della Pubblica Amministrazione sia stata manifestamente irragionevole, o, comunque, basata su fatti travisati o erronei (si consideri, ad esempio, CDS, sez. V, 17 luglio 2014, n. 3800). GMC 



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Inserito in data 22/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 15 ottobre 2015, n. 4764

Soccorso istruttorio e avvalimento di garanzia

La V Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, si è espressa in merito al soccorso istruttorio, con riguardo alle irregolarità della polizza fideiussoria per il rilascio della cauzione, e all’avvalimento di garanzia.

Con riferimento alla prima questione, il Collegio, richiamando pregressa e consolidata giurisprudenza del C.d.S. (Cons. Stato, sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5781; sez. IV, 20 gennaio 2015, n. 147; sez. V, 10 febbraio 2015, n. 687; 22 maggio 2015, n. 2563), ha osservato come, in applicazione del principio di tassatività delle cause di esclusione, sancito dall’art. 46, comma 1 bis, del D, Lgs. n. 163 del 2006, debbano ritenersi emendabili mediante il potere di soccorso istruttorio le irregolarità concernenti la cauzione provvisoria comunque prestata nei termini previsti dalla lex specialis.

Nel caso di specie – ha osservato il Collegio - se anche è vero che la polizza fideiussoria a rilasciare la cauzione definitiva per l’esecuzione del contratto di cui all’articolo 113 del D. Lgs. 163/2006 - allegata all’offerta presentata dal raggruppamento aggiudicatario - risultava sprovvista dell’apposita appendice recante la precisazione che l’impegno alla costituzione della garanzia era da intendersi a favore di ciascun ente aderente al contratto in sede di esecuzione, “tale mancanza, non incidendo sulla serietà e sulla certezza dell’offerta e sulla sua provenienza, né sulla validità ed effettività della polizza prodotta, non poteva determinare - come invece ritenuto dai primi giudici - l’esclusione di quell’offerta dalla gara, dovendo essere piuttosto considerata una mera irregolarità sanabile attraverso l’esercizio del soccorso istruttorio”.

In ordine, invece, alla seconda censura formulata dall’appellante, relativa all’avvalimento di garanzia, il Collegio ha rilevato come la giurisprudenza, pur riconoscendo il carattere generale dell’istituto dell’avvalimento (interdetto soltanto per i requisiti di cui agli artt. 38 e 39 del D. Lgs n. 163/2006) – volto a massimizzare la partecipazione alle gare pubbliche ed a consentire alle imprese non munite dei requisiti di partecipazione di giovarsi delle capacità tecniche, economiche e finanziarie di altre imprese – ha tuttavia sottolineato che “la messa a disposizione del requisito mancante non può risolversi nel prestito di un valore puramente cartolare e astratto, essendo invece necessario che dal contratto risulti chiaramente l’impegno dell’impresa ausiliaria a prestare tutti quegli elementi che giustificano l’attribuzione del requisito partecipativo”.

Per questa via, il Collegio ha ulteriormente ribadito, con riferimento all’avvalimento di garanzia, invocato dall’appellante, che esso “può spiegare la funzione di assicurare alla stazione appaltante un partner commerciale con solidità patrimoniale proporzionata ai rischi di inadempimento contrattuale, solo se rende palese la concreta disponibilità attuale delle risorse e dotazioni aziendali da fornire all’ausiliata”, ipotesi che, nel caso in esame, non risulta essersi affatto perfezionata.

Pertanto, sulla scorta delle considerazioni svolte, la V Sezione del Consiglio ha respinto l’appello proposto dalla capogruppo mandataria del costituendo R.T.I., confermando la sentenza resa dal TAR Toscana – Firenze. MB

 



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Inserito in data 22/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 20 ottobre 2015, n. 4794

Lotta alla ludopatia: i poteri dei Sindaci

Con la sentenza in epigrafe, la V Sezione del Consiglio di Stato è intervenuta su una questione particolarmente significativa, soprattutto sotto il profilo sociale: la legittima limitazione, da parte dei Sindaci, degli orari di utilizzo delle sale da gioco e degli esercizi ove sono installate le relative apparecchiature.

I Giudici di Palazzo Spada, nel caso in esame, hanno respinto l’appello proposto dagli esercenti di alcune rivendite di generi di monopolio avverso la sentenza di primo grado resa dal TAR Liguria con la quale era stata rilevata la competenza del Sindaco, ex art. 50, comma 7, del d. lgs. n. 267 del 2000, a regolamentare gli orari per l’utilizzo dei giochi leciti a pagamento, sul presupposto che la “libertà di iniziativa privata non può sovrapporsi al principio costituzionale della tutela della salute e che il Comune è tenuto a compiere un bilanciamento tra tali principi, con possibilità di introdurre vincoli”.

Due i motivi di gravame formulati dai ricorrenti: a) l’asserita violazione e falsa applicazione del comma 2°, lett. h) dell’art. 117 della Costituzione; b) la presunta violazione e falsa applicazione dell’art. 50, comma 7 del d.lgs n. 267/2000.

Con riguardo alla prima delle due censure, i ricorrenti, richiamando le sentenze della Consulta n. 237/2006 e n. 72/2010, hanno sostenuto che gli atti relativi alla gestione del «gioco lecito» sarebbero attratti nella competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine e sicurezza, mentre la lotta alla ludopatia rientrerebbe nelle competenze dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ex l. n. 189 del 2012.

Il Collegio non ha, tuttavia, ritenuto condivisibile la tesi sostenuta dai ricorrenti, affermando che la normativa in materia di gioco d’azzardo non è riferibile alla competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, comma secondo, lettera h), Cost., bensì - come rilevato dalla Corte Costituzionale con le pronunce n. 300/2011 e n. 995/2015 - alla tutela del benessere psico-fisico dei soggetti maggiormente vulnerabili e della quiete pubblica, rientrante nelle attribuzioni del Comune ex artt. 3 e 5 del d.lgs. n. 267 del 2006.

Ed invero – prosegue il Collegio – “la disciplina degli orari delle sale da gioco è infatti volta a tutelare in via primaria non l’ordine pubblico, ma la salute ed il benessere psichico e socio economico dei cittadini, compresi nelle attribuzioni del Comune ai sensi di dette norme. Pertanto, il potere esercitato dal Sindaco, nel definire gli orari di apertura delle sale da gioco, non interferisce con quello degli organi statali preposti alla tutela dell’ordine e della sicurezza, atteso che la competenza di questi ha ad oggetto rilevanti aspetti di pubblica sicurezza, mentre quella del Sindaco concerne in senso lato gli interessi della comunità locale, con la conseguenza che le rispettive competenze operano su piani diversi e non è configurabile alcuna violazione dell'art. 117, comma secondo, lett. h), della Costituzione”.

Con riferimento alla seconda doglianza, i ricorrenti hanno dedotto che il comma 7, dell’art. 50 del d.lgs. n. 267 non attribuirebbe al Sindaco il potere di disciplinare gli orari degli esercizi commerciali senza vincoli di sorta, né tantomeno l’emanazione di provvedimenti in materia di giochi, ma solo per esigenze di tutela della salute pubblica e di contrasto ai turbamenti della pubblica quiete.

Anche in questo caso il Collegio ha ritenuto non condivisibile la tesi secondo la quale l’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 possa essere interpretato nel senso che la competenza del Sindaco non riguardi anche la materia dei giochi, atteso che la disposizione gli attribuisce espressamente il compito di coordinare e riorganizzare gli orari degli esercizi commerciali e dei pubblici esercizi, nella cui ampia nozione rientrano certamente le attività di intrattenimento espletate all’interno delle sale da gioco.

Di talché – precisa il Collegio, richiamando quanto già affermato dalla medesima sezione con la pronuncia n. 3271/2014 – “il Sindaco può esercitare il proprio potere regolatorio, anche quando si tratti dell’esercizio del gioco d’azzardo, allorquando le relative determinazioni siano funzionali ad esigenze di tutela della salute e della quiete pubblica”.

Alla luce dei rilievi svolti, deve quindi ritenersi che rientri nelle competenze del Comune – in persona del Sindaco - il potere, previsto art. 50, comma 7, del d. lgs. n. 267 del 2000, di limitazione degli orari di utilizzo delle sale da gioco, ciò allo scopo di arginare i fenomeni di patologia sociale connessi al gioco compulsivo, “poiché la moltiplicazione incontrollata della possibilità di accesso al gioco accresce il rischio di diffusione di fenomeni di dipendenza” con effetti pregiudizievoli per la comunità locale. MB 

 



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Inserito in data 21/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA 20 ottobre 2015, n. 4793

Il requisito dell’attività prevalente nella definizione dell’ente in house: rinvio a CGUE 

Com’è noto, l’affidamento in house è un istituto delineato dalla Corte di Giustizia (a partire dalla cd. sentenza Teckal del 18 novembre 1999, C-107/98), mediante il quale si individuano dei soggetti cui è possibile affidare direttamente (cioè senza gara) i servizi pubblici.

Recentemente, sono intervenute delle direttive che trattano degli elementi costitutivi delle società in house al fine di delimitare l’ambito applicativo delle direttive sugli appalti e sulle concessioni (cfr. direttive nn. 2014/23/UE, 2014/24/UE, 2014/25/UE). Non essendo ancora scaduto il termine per il loro recepimento, tali direttive non possono produrre il cd. effetto diretto, né l’obbligo di interpretazione conforme, ma dovrebbero imporre al giudice italiano di evitare qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva. Tuttavia, osserva la Quinta sezione, nel caso di specie non si corre un tale rischio, poiché le disposizioni nazionali che richiamano la nozione di ente in house non ne enunciano la definizione, bensì rinviano all’ordinamento europeo per la sua corretta delimitazione (cfr., ad esempio, art. 149bis d.lgs. n. 152/06); ne consegue che il giudice deve ricostruire la nozione di ente in house e, segnatamente, il requisito dell’attività prevalente sulla base del diritto dell’Unione europea vigente al tempo dell’adozione dell’atto impugnato.

Secondo la Corte di Giustizia, sussiste il requisito dell’attività prevalente quando l’ente controllato “realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti locali che la controllano” (sentenza Teckal); per raggiungere la soglia della prevalenza, devono considerarsi gli affidamenti disposti direttamente dall’ente controllante, mentre non rileva né chi remunera le prestazioni dell’impresa, né su quale territorio sono erogate tali prestazioni (sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, in C-340/04).

Poiché la giurisprudenza comunitaria non chiarisce alcuni profili della nozione di attività prevalente rilevanti nel caso de quo, il Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali ex art. 267 TFUE:

a) “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci”.

b) “se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del cd. controllo analogo”. TM

 



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Inserito in data 21/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 21 ottobre 2015, n. 4799

Giurisdizione in tema di DURC e definitività dell’irregolarità contributiva: rinvio ad AP

Rilevata l’esistenza di contrasti giurisprudenziali in tema di documento unico di regolarità contributiva (d’ora in poi DURC), il Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c. 1 c.p.a., due quesiti di diritto, uno relativo a una questione di rito e l’altro relativo a una questione di merito.

1) In rito, è stato chiesto al Supremo Consesso di stabilire “Se rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, adito per la definizione di una controversia avente ad oggetto l'aggiudicazione di un appalto pubblico, ovvero al giudice ordinario, accertare la regolarità del documento unico di regolarità contributiva, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal partecipante ad una gara”.

a) Infatti, secondo il primo orientamento, rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, l’accertamento, senza efficacia di giudicato, della regolarità del documento di regolarità contributiva, poiché trattasi di uno dei requisiti che la normativa di settore richiede ai fini dell’ammissione alle gare di appalto.

b) Per l’opposto indirizzo, invece, il giudice amministrativo non può valutare la regolarità del DURC. In tal senso, da un canto, si sottolinea che requisito di ammissione alle gare è il possesso del DURC e non la regolarità contributiva delle imprese partecipanti; d’altro canto, si sostiene che gli eventuali errori contenuti nel DURC incidono su posizioni di diritto soggettivo afferenti al sottostante rapporto contributivo; d’altro canto ancora, si nega rilevanza alla natura esclusiva della giurisdizione amministrativa in materia di affidamento di appalti pubblici, poiché l’ampiezza della cognizione finirebbe con l’allargarsi a fatti e diritti inerenti ad un accertamento fidefaciente, riservarti alla cognizione in via principale del g.o.

2) Relativamente al diritto sostanziale, l’Adunanza Plenaria è stata chiamata a chiarire “Se la norma di cui all'art. 31, comma 8, del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni, nella l. 9 agosto 2013, n. 98, sia limitata al rapporto tra impresa ed Ente preposto al rilascio del d.u.r.c. senza che lo svolgimento di tale fase riguardi la stazione appaltante (dovendo essa applicare comunque l’art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006, che richiede il possesso dei requisiti al momento della partecipazione alla gara), ovvero se la disposizione abbia sostanzialmente modificato, per abrogazione tacita derivante da incompatibilità, detto art. 38 e si possa ormai ritenere che la definitività della irregolarità sussista solo al momento di scadenza del termine di quindici giorni da assegnare da parte dell’Ente previdenziale per la regolarizzazione della posizione contributiva”.

a) In effetti, secondo una parte della giurisprudenza amministrativa, le stazioni appaltanti possono sindacare il requisito della definitività della violazione della normativa fiscale. Nello specifico, la violazione della normativa fiscale può dirsi definitivamente accertata e legittimare l’esclusione dalle gare di appalto, solo laddove sia scaduto il termine assegnato dall’ente previdenziale ex art. 31 c. 8 d.l. 69/13 senza che il contribuente abbia proceduto alla regolarizzazione; viceversa, non può dirsi definitivamente accertata l’irregolarità in cui versa l’impresa, se, al momento di presentazione della domanda di partecipazione, ancora pende il termine per la regolarizzazione o se tale termine non è stato assegnato.

b) Diversamente, secondo altra parte della giurisprudenza, l’art. 31 c. 8 predetto concerne l’Ente previdenziale e non la stazione appaltante, che non può sindacare il DURC neppure sotto il profilo della definitività; ne consegue che il contribuente può procedere alla regolarizzazione entro e non oltre la scadenza dei termini per presentare la domanda di partecipazione alla gara, dovendosi altrimenti considerare la sua irregolarità definitivamente accertata. TM 


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Inserito in data 20/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 16 ottobre 2015, n. 4773

Costi addebitabili all’utente per l’esercizio del recesso

Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla portata dell’art. 1, comma terzo, del decreto Bersani (d.l. n. 7/2007, convertito con modificazioni dalla l. n. 40/2007), nella parte in cui stabilisce che gli operatori di telefonia, reti televisive, e comunicazione elettronica, devono consentire il recesso dal contratto “senza spese non giustificate da costi dell’operatore”.

L’emittente televisiva, ricorrente in appello, secondo una delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (A.g.com.), confermata dal T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, aveva considerato quali costi addebitabili agli utenti che esercitavano il diritto di recesso “spese non pertinenti, in violazione dei limiti imposti”.

Osserva l’Avvocatura dello Stato, che la disposizione in esame “si inserisce in un contesto di liberalizzazioni del mercato delle comunicazioni elettroniche e contiene misure volte a promuovere la concorrenza e la tutela del (omissis) contraente più debole”. Le Linee guida pubblicate dall’A.g.com., per l’esercizio della propria attività di vigilanza, aggiungono che le finalità del provvedimento legislativo tendono a “rafforzare il diritto di scelta dei consumatori ed agevolare il passaggio fra i varî operatori, sancendo il divieto di previsioni contrattuali, che, in sostanza, potrebbero trasformarsi in barriere o deterrenti per gli utenti al momento della scelta concorrenziale”. All’utente non possono essere comminate penali, comunque denominate; possono, invece, essere poste a suo carico “le spese per cui sia dimostrabile un pertinente e correlato costo (omissis) sopportato (dall’operatore) per procedere alla disattivazione o al trasferimento”.

La rete televisiva, eccepiva “di sostenere costi iniziali per l’instaurazione del rapporto contrattuale che non erano remunerati dall’utente né mediante il pagamento iniziale di un corrispettivo una tantum né mediante canoni corrisposti lungo l’arco del rapporto contrattuale, nonché costi finali connessi alla gestione del recesso. Doveva pertanto a suo avviso ritenersi legittima (omissis) la previsione di un recupero non solo dei costi di recesso in senso stretto, ma anche dei costi sostenuti per l’instaurazione del rapporto contrattuale e non recuperati”.

L’appellante, segnatamente, sosteneva l’erroneità dell’interpretazione restrittiva dell’art. 1, comma terzo, citato. Ritenendo che il legislatore non potesse non riferirsi a “tutti i costi comunque sostenuti (dall’operatore) per il servizio”; e che, diversamente opinando si sarebbe verificato un intervento additivo sulla norma, peraltro in contrasto con i principî costituzionali posti a tutela dell’iniziativa economica, oltre che con l’autonomia contrattuale, svilendo l’attività d’impresa. Quest’ultima, infatti, “imporrebbe la remunerazione dei costi come presupposto per la realizzazione del giusto profitto concorrenziale”.

I giudici di Palazzo Spada, confermano la sentenza del giudice di prime cure: l’art. 1, comma terzo, della l. n. 40/2007, nel riferirsi ai “costi sostenuti”, benché la dizione normativa non specifichi in tal senso, allude “alle (sole) spese effettivamente affrontate dal fornitore del servizio per la disattivazione dell’impianto ed in funzione della stessa”. Se così non fosse verrebbe frainteso “lo spirito della norma”, e “rimarrebbe sostanzialmente invariato il quadro precedente all’intervento legislativo”.

Parimenti infondate appaiono, ad avviso del Collegio, le censure concernenti l’asserita lesione dell’iniziativa economica di impresa, stante la piena disponibilità per l’operatore di fissare altrimenti legittime modalità contrattuali di recupero dei costi sostenuti per l’attivazione del servizio. “L’operatore può, quindi, legittimamente recuperare tutte le spese, sia quelle sostenute nella fase iniziale (ma facendole rientrare nel prezzo per l’attivazione dell’abbonamento o nel canone mensile), sia quelle direttamente affrontate per il recesso (facendole rientrare nel costo del recesso). Resta (omissis) a carico dell’operatore solo l’alea per il mancato guadagno conseguente ad un possibile recesso anticipato ma si tratta di un evento il cui avverarsi è incerto e che… rientra nel rischio d’impresa”. FM 


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Inserito in data 20/10/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 16 ottobre 2015, n. 41693

Stupefacenti: rielaborazione del rapporto tra reato base e reati satellite

La Corte di cassazione ha affermato che, nel rideterminare la pena calcolata a titolo di continuazione tra reati di detenzione illecita di droghe c.d. pesanti e di droghe c.d. leggere, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, il giudice dell’esecuzione può rielaborare il rapporto tra reato base e reati satellite modificando l’individuazione del reato più grave.

Nella fattispecie concreta, il giudice dell’esecuzione aveva respinto l’istanza di rideterminazione della pena – concordata ex art. 444, c.p.p. – con riferimento al reato di detenzione di sostanze stupefacenti, attenuato ai sensi del comma settimo dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, e al quale veniva applicato un aumento di pena a titolo di continuazione. I fatti, nella vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter, del d.l. n. 272/2005 (convertito con modificazioni dall’art. 1, comma primo, della l. n. 49/2006 – c.d. legge Fini-Giovanardi), concernevano, quale reato base, la detenzione di droghe c.d. leggere, e tra i reati satellite (per la minore quantità della sostanza interessata), anche la cessione di droghe c.d. pesanti. In conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale dei citati artt. 4 bis e 4 vicies ter (sentenza n. 32/2014), la reviviscenza della distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, secondo il giudice dell’esecuzione, non avrebbe consentito al detenuto di ottenere alcun effetto migliorativo, essendo più favorevole, nello specifico, la cornice edittale di cui al decreto del 2005.

Il ricorrente in Cassazione eccepiva, invece, la possibilità di una rimodulazione della pena alla luce della pronuncia degli Ermellini, rimarcando che alla definizione della sanzione penale avevano concorso più episodî di detenzione illecita di droghe leggere; e che in ordine alla cessione di droghe pesanti si sarebbe potuta applicare, in sede esecutiva, l’attenuante della lieve entità del reato (ai sensi del comma quinto dell’art. 73, del d.P.R. n. 309/1990).

I giudici di legittimità ritengono fondato il ricorso avverso l’ordinanza del giudice dell’esecuzione.

Viene richiamata la sentenza delle sezioni unite, n. 42858/2014, secondo la quale deve ritenersi superabile il limite dell’impermeabilità del giudicato, non soltanto nei casi in cui la Consulta si pronunci in merito all’abrogazione della norma incriminatrice, ma anche quando l’effetto prodotto dalle decisioni incida sul mero trattamento sanzionatorio. L’impianto argomentativo delle citate sezioni unite è incentrato sulla differenza che corre tra le pronunzie di illegittimità costituzionale e gli ordinarî interventi legislativi di riforma delle normative; le prime seguono, infatti, ad ipotesi di invalidità originaria delle disposizioni impugnate, e si proiettano retroattivamente, pur non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili “perché già compiuti o del tutto consumati” (cfr. art. 30, comma quarto, l. n. 87/1953). Le sezioni unite affermano che il rapporto esecutivo che nasce dal giudicato, non può dirsi esaurito fino a quando la pena è in atto. “Viene (dunque) imposta al giudice dell’esecuzione una verifica di rilevanza del decisum della Corte costituzionale nel caso concreto”. L’illegittimità della pena, si osserva, costituisce un ostacolo al perseguimento degli obiettivi rieducativi di cui all’art. 27, comma terzo, della Costituzione, e ancòra: “Il diritto fondamentale alla libertà personale deve prevalere sul valore dell’intangibilità del giudicato”. Nell’applicare detti principî di diritto il giudice dell’esecuzione deve comunque rispettare il limite dei “fatti accertati” nella sentenza di cognizione, con conseguente “impossibilità di riconoscere una circostanza attenuante non ritenuta nel giudizio”.

Dichiarata l’incostituzionalità della cornice edittale posta alla base del patteggiamento il giudice dell’esecuzione dovrà verificare “la fattibilità di un nuovo accordo tra le parti”, e “ove non si addivenga a tale accordo (egli) sarà funzionalmente competente a rideterminare la sanzione in via autonoma ed in applicazione dei criterî generali di cui agli artt. 132 e 133 c.p.”.

Il decreto del 2005, superata la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, prevedeva una pena edittale minima di anni sei, determinando in relazione alle droghe pesanti un sensibile effetto migliorativo rispetto al regime previgente, il cui minimo era stabilito in anni otto. In ordine a tale contesto, la stessa Corte costituzionale, con la citata sentenza n. 32/2014, dichiara che se la caducazione delle norme del 2005 spiega un immediato effetto favorevole in ipotesi di droghe leggere, con riferimento alle droghe pesanti, la disposizione di cui all’art. 2, comma quarto, c.p., dettata in materia di successioni di leggi nel tempo, impedisce l’estensione al reo degli effetti sfavorevoli: “Da ciò deriva che il limite edittale di anni sei resta intangibile per la detenzione a fini di spaccio della droga pesante ed è quest’ultimo il fatto-reato da porre – nella nuova determinazione – a base della continuazione, degradando tutte le ulteriori fattispecie a reato satellite, la cui incidenza andrà commisurata ai Ê»rivissutiʼ parametri edittali”. FM

 




Inserito in data 19/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 19 ottobre 2015, n 4777

Giurisdizione in materia di acquisizioni di beni per pubblica utilità ex art. 42 bis D.P.R. 327/2001

Con la sentenza de qua, i giudici del Consiglio di Stato si sono imbattuti, mutando al riguardo il loro precedente orientamento, in una questione di giurisdizione concernente il decreto di acquisizione emesso dall’amministrazione ai sensi dell’art. 42 bis del D.P.R. 327/2001.

Nel caso di specie, veniva impugnata la sentenza di primo grado in quanto ritenuta dagli appellanti erronea nella parte in cui dichiarava il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria amministrativa in materia di procedimento di acquisizione di beni per pubblica utilità.

Afferma il Collegio che ogni valutazione concernente l’art. 42 bis, introdotto a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del citato D.P.R., deve essere effettuata alla luce della recente pronunzia della Corte Costituzionale n. 71/2015. Essa qualifica, in discontinuità con il passato, il nuovo istituto come una “sorta di procedimento espropriativo semplificato, che assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, e quindi sintetizza uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma”.

La nuova acquisizione sanante ex art. 42 bis si caratterizza, secondo la Consulta, non solo per i significativi elementi di novità che la rendono compatibile con gli art. 3, 24, 42 e 117 Cost., ma anche per aver eliminato “quella situazione di défaillance structurelle” lamentata dalla Corte EDU riguardo al fenomeno italiano delle espropriazioni indirette, “in considerazione dell’efficacia ex nunc del provvedimento, della rinnovazione della valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’acquisizione, nonché nello stringente obbligo motivazionale”.

Dunque, ad avviso del Consiglio di Stato, il ristoro previsto dall’art. 42-bis del T.U. espropri “configura un indennizzo da atto lecito, sicché le controversie inerenti alla sua quantificazione devono essere devolute alla giurisdizione ordinaria ai sensi dell’art. 133, lett. g) c.p.a”. Infatti, a seguito dell’emanazione del decreto acquisitivo, la P.A. riprende a muoversi nell’alveo della legalità, pertanto – continua il Collegio respingendo, peraltro, l’appello – “appare non più percorribile l’opzione ermeneutica, accolta dalla più recente giurisprudenza di questa Sezione”, alla cui stregua si tratterebbe di questioni risarcitorie devolute alla giurisdizione del G.A. Invero, perseverare nell’impostazione che qualifica l’atto di acquisizione sanante come espressione di un potere meramente rimediale di un illecito, “significherebbe dare all’art. 42 bis una lettura contrastante con le conclusioni rassegnate dalla Consulta nella sentenza n. 71 del 2015”. SS

 



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Inserito in data 19/10/2015
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 13 ottobre 2015, n. 632

Tassatività delle cause di esclusione nelle procedure ad evidenza pubblica 

Il C.G.A.R.S. ha applicato, nella sentenza in epigrafe, l’orientamento consolidato della giurisprudenza amministrativa in materia di cause di esclusione dalla procedura di gara ex art. 46 comma 1 bis d.lgs. 163/2006. Secondo l’orientamento in questione, i bandi di gara possono prevedere l’esclusione dei concorrenti “qualora gli stessi non prestino adempimenti doverosi o essenziali, contemplati (anche senza comminatoria di esclusione) dal codice degli appalti e dal relativo regolamento, nonché da altre disposizioni di leggi statali vigenti”.

Si trattava, nel caso di specie, da una parte, di omessa indicazione, nel plico contenente l’offerta economica, del piano di ripartimento del servizio tra i componenti di un raggruppamento professionale come richiesto a pena di esclusione da una clausola del disciplinare, dall’altra, di mancato rilascio, entro il termine di scadenza del bando, di autorizzazione da parte dall’ente pubblico di appartenenza nei confronti di uno dei professionisti del RTP, anche questa causa di esclusione dalla procedura di gara ex art. 53 d.lgs. 165/2001.

In ordine alla prima causa di esclusione, il C.G.A.R.S., respingendo l’appello, ha evidenziato che, al riguardo, “il codice richiede soltanto la previa indicazione in sede di offerta delle parti del servizio che ciascun componente dovrà svolgere, ma non impone particolari modalità di dichiarazione” né d’altra parte l’inserimento di tale dichiarazione (solo e soltanto) all’interno dell’offerta economica “corrisponde ad un interesse della stazione appaltante il cui rilievo possa connotare di essenzialità il richiesto adempimento”.

In ordine alla seconda causa di esclusione, il Consiglio, accogliendo l’appello, ha invece evidenziato che l’anzidetta autorizzazione, da un punto di vista sostanziale, “costituisce in generale condizione per il conferimento in concreto dell’incarico professionale ad un pubblico dipendente, e non requisito di partecipazione all’eventuale procedura selettiva finalizzata all’individuazione del soggetto da incaricare”. In altri termini, fatto salvo il caso in cui l’autorizzazione previa sia espressamente imposta dalla lex specialis, la necessità dell’autorizzazione emerge solo all’atto dell’accettazione dell’incarico o del conferimento dello stesso, e non nel segmento procedimentale, sia esso un concorso o una selezione di evidenza, che eventualmente precede l’instaurazione del rapporto.

Ne consegue definitivamente – conclude il C.G.A.R.S. – che l’esibizione dell’autorizzazione rientrava nel novero degli adempimenti prodromici alla eventuale stipula del contratto in caso di aggiudicazione e non era invece necessaria ai fini della mera partecipazione alla selezione. SS



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Inserito in data 17/10/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 12 ottobre 2015, n. 11600

Astreinte comminabile nel caso di decreto di condanna all’equa riparazione

Con la sentenza de qua, i Giudici della Prima sezione del Tar Lazio – Roma  si sono pronunciati sul ricorso proposto per l’esecuzione, da parte dell’Amministrazione, del giudicato formatosi sul decreto della Corte di Appello di Roma, sez. “equa riparazione, nonché in ordine al pagamento della c.d. penalità di mora ex art. 114, comma 1, lett. e, c.p.a. per l’ulteriore ritardo nell’esecuzione del giudicato.

I Giudici Laziali preliminarmente ricordano che, ai sensi dell’art. 112, comma 2, lett. c, c.p.a., il ricorso per l’ottemperanza innanzi al giudice amministrativo è esperibile anche nei confronti dei decreti non opposti di condanna all’equa riparazione previsti dall’art. 3, l. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto), avendo essi natura decisoria su diritti soggettivi e idoneità ad assumere valore ed efficacia di giudicato.

Inoltre  - proseguono – l’istituto della penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. – il quale assolve ad una finalità di natura essenzialmente sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto finalizzato a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria - è comminabile anche nel caso di decreto di condanna all’equa riparazione.

Per quanto concerne il profilo della quantificazione della astreinte, il TAR Lazio - Roma ritiene di poter assumere quale parametro di riferimento quello individuato dalla Corte E.D.U., ovvero “l’interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante tale periodo, aumentato di tre punti percentuali”.

Quindi, alla luce delle considerazioni svolte, non avendo, nel caso di specie, l’Amministrazione - alla quale il ricorso era stato correttamente notificato - smentito l’assunto del ricorrente in ordine alla mancata esecuzione del giudicato, il TAR Lazio ha ordinato all’Ente di dare piena e integrale esecuzione alla statuizione in epigrafe, altresì condannandolo al risarcimento del danno da ritardo in favore della parte ricorrente. MB

 



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Inserito in data 16/10/2015
TAR CAMPANIA, NAPOLI, SEZ. I, 7 ottobre 2015, n. 4705

Sul ricorso esperito avverso il silenzio inadempimento

Il TAR della Campania interviene, con la pronuncia de qua, in merito alla sussistenza della giurisdizione amministrativa per il ricorso esperito avverso il silenzio inadempimento serbato dalla Regione, in ordine all'atto di diffida alla copertura degli oneri relativi al servizio di trasporto pubblico locale.
I giudici di merito chiariscono che si si tratti di una controversia relativa all'esercizio di un potere amministrativo nella gestione di una concessione di servizio pubblico, che ricade, dunque, nella giurisdizione esclusiva in materia di concessioni di pubblici servizi, ex art. 133, c.1, lett. C, c.p.a.

A ben vedere, quindi, la sussistenza del potere, in tal caso, esclude che la posizione giuridica azionata abbia natura di diritto soggettivo, nonostante, nell'ambito del potere di programmazione delle risorse, una quota di tali risorse finanziarie, sia stata destinata dalla legge dello Stato alla specifica copertura degli oneri derivanti dai rinnovi contrattuali.

Viene precisato che la natura della posizione soggettiva, invero, non dipende dal carattere vincolato o discrezionale del potere pubblico esercitato, bensì dalla “configurazione del rapporto giuridico intercorrente tra i soggetti”.

Nel caso in parola, la pretesa dedotta in giudizio, non deriva direttamente da un rapporto obbligatorio intercorrente tra le parti, bensì dal concreto esercizio del potere pubblico da parte dell'amministrazione regionale.

Quest'ultimo, dovrebbe tener conto – in sede di programmazione delle risorse da destinare al trasporto pubblico – di una quota indisponibile già vincolata dallo Stato.

Alla luce di quanto chiarito dai giudici di merito, dunque, non si controverte della sussistenza di un diritto soggettivo al conseguimento di determinate somme, bensì di un interesse legittimo pretensivo al corretto esercizio del potere di programmazione finanziaria. GMC 


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Inserito in data 16/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 13 ottobre 2015, n.

Sulla moralità professionale del concorrente: art. 38 D.lgs. 163/20016

Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla moralità professionale del concorrente e, nello specifico, circa la verifica sul possesso del suddetto requisito.  La IV Sezione, chiarisce che:“Laddove l’esclusione dalla gara di cui al più volte citato art. 38, comma 1, lett. c), del D. Lgs. n. 163/2006, si facesse dipendere dalla mera sussistenza di una condanna penale, prescindendo da ogni valutazione circa la gravità del comportamento colpevole del soggetto, la norma si porrebbe in contrasto con l’articolo 45, par. 2 della direttiva 31/3/2004 n. 2004/18/CE, secondo cui può essere escluso dalla partecipazione alla gara ogni operatore economico quando il reato “incida” sulla sua moralità professionale (lett. c).”
Dunque, da quanto disposto, da ciò discende che il summenzionato art. 38, va letto nel senso che costituiscono condizioni, perché l’esclusione consegua alla condanna, la gravità del reato e il riflesso dello stesso sulla moralità professionale dell’operatore economico, in modo tale che – al fine di apprezzare il grado di moralità del medesimo – in applicazione del principio comunitario di “proporzionalità”, possano assumere rilevanza la natura del reato, nonché il contenuto del contratto oggetto della gara, senza eccedere quanto è necessario per garantire l’interesse dell’Amministrazione di non contrarre obbligazioni con soggetti non in grado di garantire un’adeguata moralità professionale. GMC

 



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Inserito in data 15/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 13 ottobre 2015, n. 4699

Costo del lavoro e giudizio di adeguatezza dell’offerta

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, nell’accogliere l’impugnazione proposta avverso la sentenza resa dal Tar Lombardia – sez. dist. di Brescia, concernente l’aggiudicazione di una gara per l’affidamento e la gestione di servizi amministrativi, affronta la questione del giudizio di adeguatezza delle offerte economicamente più vantaggiose in relazione al costo lavoro.

La principale censura formulata dall’appellante concerneva la non sostenibilità dell’offerta dell’aggiudicataria, atteso che un’offerta che preveda l’applicazione di un CCNL che introduce livelli retributivi e normativi insufficienti rispetto alle tabelle ministeriali, stipulato per di più da associazioni non comparativamente più rappresentative nell’ambito di un settore regolato da una contrattazione collettiva nel quale è invece presente un contratto, non sarebbe idonea a garantire una presunzione di adeguatezza, determinando, quindi, un’anomalia dell’offerta stessa.

La Terza sezione del Collegio, nel valutare la fattispecie, richiama, anzitutto, gli artt. 86 e 87 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, i quali prevedono che l’Amministrazione, prima di procedere all’aggiudicazione definitiva, deve, in presenza di sintomatici rilevatori automatici di anomalia,  effettuare una valutazione sulla congruità complessiva dell’offerta ritenuta migliore: “l’offerta deve risultare nel suo complesso affidabile e conveniente al momento dell’aggiudicazione, ed in tale momento l’aggiudicatario deve dare garanzia di una seria esecuzione del contratto” (C. di St. n. 1487 del 27.03.14).

Proprio in considerazione del rilievo che il costo del lavoro assume, nonché delle esigenze di tutela dei lavoratori, il legislatore ha aggiunto, all’art. 86, con l’art. 1, comma 909, lettera a) della legge 27 dicembre 2006, n. 296, il comma 3-bis che prevede che gli enti aggiudicatori verifichino «che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro … il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture» e che, ai fini di tale disposizione, “il costo del lavoro è determinato periodicamente in apposite tabelle dal Ministero del Lavoro, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi”.

Alla luce di questi rilievi – osservano i Giudici di Palazzo Spada – “una determinazione complessiva dei costi basata su un costo del lavoro inferiore ai livelli economici minimi fissati normativamente (o in sede di contrattazione collettiva) per i lavoratori del settore può costituire indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti ed è fonte di pregiudizio per le altre imprese partecipanti alla gara che abbiano correttamente valutato i costi delle retribuzioni da erogare”.

Ciononostante, l’anomalia dell’offerta non può, in automatico, essere desunta dal mancato rispetto delle tabelle ministeriali richiamate dall’art. 87, comma 2, lett. g) del codice dei contratti pubblici, in quanto i costi medi del lavoro, indicati nelle tabelle predisposte dal Ministero del Lavoro, non costituiscono parametri inderogabili, bensì indici tipologici del giudizio di adeguatezza dell’offerta, oggetto di valutazione dell’Amministrazione. Ed infatti – chiarisce ulteriormente il Collegio - ai fini di una valutazione della congruità e serietà dell’offerta, la stazione appaltante deve altresì tenere conto delle possibili economie che le singole imprese possono conseguire, con la conseguenza che una possibile differenza del costo del lavoro determinato nell’offerta rispetto all’indice ministeriale potrebbe essere giustificata dalla diversa capacità organizzativa delle imprese partecipanti alla gara, sempre che esse non si discostino in modo evidente dai valori medi formulati nelle tabelle predisposte dal ministero del Lavoro.

Tuttavia, l’utilizzo, nel settore pubblico, di contratti collettivi di lavoro stipulati da sigle sindacali che non abbiano il sufficiente grado di rappresentatività costituisce un’evidente anomalia del sistema che avrebbe dovuto – diversamente da quanto accaduto nel caso di specie – essere sottoposta ad un rigoroso giudizio di accertamento, valutata non soltanto sulla scorta della ritenuta convenienza economica dell’offerta, ma anche della sua complessiva serietà ed affidabilità, tanto più in considerazione del fatto che in gare come quella in questione il bando ha espressamente previsto, in forza della c.d. clausola sociale, il passaggio dei lavoratori già occupati da un datore di lavoro ad un altro.

In quest’ottica – afferma il Collegio - “se si ammettessero senza riserve offerte formulate facendo applicazione di costi del lavoro molto più contenuti, oggetto di contratti collettivi di lavoro sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi, la competizione fra le imprese partecipanti alla gara si svolgerebbe non sulla base di una migliore o diversa articolazione del lavoro (e quindi sulle base di caratteristiche proprie dell’impresa) ma in base ai diversi costi del lavoro determinati dall’applicazione di diversi contratti collettivi anche eventualmente sottoscritti da sindacati non adeguatamente rappresentativi. Ciò conferma la necessità che il costo del lavoro debba avere come parametro di riferimento quello stabilito dalle tabelle ministeriali del settore interessato che sono calcolate sulla base della contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi”.

Alla luce di queste considerazioni, la Terza sezione del Consiglio accoglie l’appello e, ad integrale riforma della appellata sentenza del T.A.R. per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, annulla l’aggiudicazione della gara. MB

 



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Inserito in data 14/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 9 ottobre 2015, n. 4680

Dies a quo per la richiesta di equo indennizzo ex art. 2 D.P.R. n. 461/01

Il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla decorrenza iniziale del termine, stabilito dall’art. 2 del D.P.R. n. 461/2001, per far accertare la dipendenza da causa di servizio delle lesioni o dell’infermità, dell’aggravamento delle stesse, ovvero del decesso, di un dipendente, nonché per ottenere un corrispondente equo indennizzo, a fronte della menomazione dell’integrità fisica o psichica o sensoriale, o della perdita della vita.

La fattispecie concreta concerneva la domanda di accertamento della dipendenza da causa di servizio del decesso di un Ispettore superiore della Polizia di Stato, e la contestuale richiesta del riconoscimento dell’equo indennizzo, presentate dal coniuge superstite, oltre il termine di cui al comma quinto del citato art. 2, fissato in mesi sei dalla morte del de cuius.

La parte ricorrente eccepiva la tempestività delle richieste, ritenendo che il menzionato termine semestrale non potesse decorrere dall’evento morte, bensì dalla conoscenza, o comunque dalla conoscibilità, dell’effettiva dipendenza dell’infermità letale da causa di servizio. Dipendenza della quale la ricorrente dichiarava di aver avuto conoscenza, solo dopo aver incaricato un medico legale di fiducia di indagare sulle cause del decesso. La ricorrente riteneva di poter dedurre la regola del decorso del termine dalla conoscenza dell’evento invocato, dalla formulazione del comma primo dell’art. 2 stesso; si osservava, infatti, come una simile previsione valesse esplicitamente per il dipendente e che, pertanto, la medesima condizione dovesse essere riconosciuta anche ai suoi eredi, interpretando in via analogica le disposizioni di cui al comma quinto, dell’art. 2. A sostegno delle proprie doglianze l’appallante invocava inoltre la giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza n. 323/2008, il Giudice delle leggi dichiara l’illegittimità dell’art. 169, D.P.R. n. 1092/1973 “nella parte in cui non prevede che, allorché la malattia insorga dopo i cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine quinquennale di decadenza per l’inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte, ai fini dell’ammissibilità della domanda di trattamento privilegiato, decorra dalla manifestazione della malattia stessa”. L’appellante, segnatamente, argomentava “in relazione al principio per cui un diritto non si può mai prescrivere prima di poter essere esercitabile”. Sempre ad avviso della ricorrente, infine, la conoscenza delle circostanze effettive della vicenda clinica, quale presupposto indispensabile per la decorrenza del termine, si evincerebbe anche dalla necessità di indicare specificamente nella domanda per il riconoscimento della causa di servizio “la natura dell’infermità o lesione, i fatti di servizio che vi hanno concorso e, ove possibile, le conseguenze sull’integrità fisica, psichica, o sensoriale e sull’idoneità al servizio, allegando ogni documento utile”.

Il Consiglio di Stato dichiara l’appello infondato.

Il Collegio, a seguito di un’attenta lettura del più volte citato art. 2, esclude “qualsiasi disarmonia” tra il regime normativo riservato al dipendente, e quello previsto per i suoi eredi: “In tutti i casi il termine decorre dal manifestarsi dell’evento dannoso o dalla conoscenza dell’infermità, della lesione o dell’aggravamento, tutte evenienze che in caso di richiesta da parte degli eredi connessa al decesso coincidono con quest’ultimo”.

L’asserita insussistenza delle condizioni di conoscenza o conoscibilità, in capo all’interessato, del nesso eziologico intercorrente tra l’evento e la causa di servizio, spinta fino a quando non siano noti tutti gli elementi posti a corredo dalla domanda, “contrasta frontalmente con la normativa che richiede esplicitamente per la decorrenza solo la manifestazione dell’evento dannoso, e non il compimento da parte del soggetto interessato di un’indagine in merito ad esso, che spetta invece all’autorità amministrativa investita dall’istanza”.

L’interpretazione sostenuta dalla ricorrente, osservano i giudici di Palazzo Spada, “vanificherebbe del tutto la funzione del termine”, “posto a presidio dell’interesse pubblico alla verificabilità, entro termini congrui e ragionevoli, della dipendenza (dell’evento dannoso) da causa di servizio ad opera dell’apposita commissione”. Ove la tesi in narrativa avesse trovato accoglimento, l’interessato, “fuori dei casi di eventi traumatici puntuali”, avrebbe potuto determinarsi, in via discrezionale, in ordine al momento in cui avviare, e soprattutto concludere, l’iter di accertamento personale, rendendo senz’altro incerta la decorrenza del termine.

Il Collegio stesso, tuttavia, in un obiter dictum riscontra l’astratta attendibilità della tesi integrativa e costituzionalmente orientata sostenuta dall’appellante, nei casi in cui “la connessione con cause di servizio non sia percepibile e cioè non sia plausibile e nemmeno ipotizzabile al momento dell’evento dannoso e sorga quindi anche in termini ipotetici solo successivamente, per fatti sopravvenuti e non prevedibili. In tale caso sarebbe certamente invocabile il principio di buona fede e quello per il quale un diritto non si può mai prescrivere prima di essere esercitabile”. Soltanto in queste particolari ipotesi il termine contemplato ai commi primo e quinto dell’art. 2, D.P.R. n. 461/2001, decorre dal momento in cui viene acquistata dalla parte la “conoscenza minima e indispensabile” della connessione in parola.

Vengono pienamente confermate le considerazioni conclusive del T.a.r.: “Era onere della ricorrente, piuttosto che indagare in proprio sulle cause del decesso incaricando un medico legale di fiducia, promuovere, entro sei mesi dalla morte del marito, l’apposito subprocedimento per il riconoscimento della causa di servizio rimesso alla competenza di una commissione medica ad hoc (art. 6 del D.P.R. n. 461/2001), a conclusione del quale ben avrebbe potuto domandare, entro ulteriori sei mesi, la concessione dell’equo indennizzo, senza incorrere in decadenza alcuna”. FM

 



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Inserito in data 14/10/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 7 ottobre 2015, n. 40320

Mobbing del superiore nei confronti del dirigente e abuso d’ufficio

I giudici di legittimità annullano e rinviano per nuova deliberazione la sentenza emessa dal g.u.p., con la quale veniva pronunciato, ai sensi dell’art. 425 c.p.p., il non luogo a procedere nei confronti di un direttore d’unità operativa ospedaliera per insussistenza dei fatti di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.). Il soggetto è imputato per avere, in qualità di superiore gerarchico “posto in essere iniziative discriminatorie tendenti ad un demansionamento di fatto nei confronti del proprio sottoposto (omissis), dirigente medico specializzato”. La condotta era, segnatamente, volta a emarginare progressivamente la parte civile, e a umiliarne la professionalità (c.d. mobbing), arrecandogli un danno ingiusto.

In ordine all’art. 572 c.p., la giurisprudenza da tempo adotta un canone di interpretazione estensivo, facendo rientrare nella previsione di legge i rapporti professionali o di lavoro, purché il soggetto persecutore occupi una posizione di supremazia, caratterizzata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare che possa incidere, anche solo in prospettiva psicologica, nella sfera giuridica del sottoposto. Ai fini dell’applicabilità della norma nel senso ora esposto, il contesto di riferimento deve corrispondere a uno schema di tipo para-familiare, deve perciò presentare una “prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) (omissis), non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”. La condotta lesiva deve, invece, concretizzarsi in una “mirata reiterazione” di atteggiamenti “convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio”.

Il g.u.p., nel caso di specie, aveva ritenuto insussistente il requisito interpersonale della para-familiarità, trattandosi di “professionisti di elevata qualificazione, operanti in un’organizzazione di ampia dimensione”.

La Corte, diversamente opinando, considera compatibile con la realtà concreta un vincolo di soggezione, in ragione dell’oggettiva autorità esercitata dal superiore. Si pensi alla capacità dei suoi provvedimenti organizzativi di incidere profondamente sulla situazione del collega, sia per quanto concerne le potenziali acquisizioni pratiche ulteriori, sia anche relativamente al semplice mantenimento delle proprie abilità.

Parimenti censurabili, ad avviso della Corte, risultano essere le considerazioni formulate dal giudice di merito circa il parametro dimensionale dell’ente, rilevante ancora ai fini della para-familiarità. Non all’intera struttura ospedaliera dovrebbe farsi riferimento, ma il singolo reparto all’interno del quale i soggetti interessati prestano la propria attività. E comunque a prescindere da un dato “meramente quantitativo”, le dinamiche effettive del rapporto devono essere accertate alla luce di risultanze obiettive e qualitative. “Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para-familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da un rapporto di soggezione e subordinazione del sottoposto rispetto al superiore, il quale si atteggi in modo da innestare la sopra descritta dinamica relazionale supremazia – subalternità”.

Appare “del tutto illogico e irragionevole” il principio formulato dal primo giudice, secondo cui il reato in questione sarebbe “configurabile soltanto a condizione che la vittima accetti passivamente le vessazioni subite e che la successiva reazione della persona offesa, che abbia adito le vie legali per i fatti di cui sia stata vittima, sia suscettibile di esentare da penale rilevanza il comportamento criminale posto in essere, col che il reato di c.d. mobbing”. L’eventuale esperimento dei rimedî giuslavoristici posti a tutela del danneggiato, precisa il supremo collegio, non può determinare il venir meno della natura subordinata del rapporto instauratosi: “lo stato di subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima rispetto al superiore, quale condicio sine qua non per la sussumibilità del c.d. mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere all’atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non può essere escluso – ex post – dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti affinché possano essere perseguiti”.

Circa l’abuso d’ufficio, la sentenza del g.u.p. assumeva la “debole tassatività della norma penale integratrice” individuata nell’art. 13 d.P.R. n. 3/1957 (Statuto degli impiegati civili dello Stato), la quale impone ai dipendenti pubblici l’osservanza del principio di assidua e solerte collaborazione.

La Corte di cassazione, ribadendo la correttezza del richiamo all’art. 13, comma terzo, d.P.R. n. 3/1957, introduttivo del dovere di collaborazione, chiarisce che la disposizione è ancora vigente per i dipendenti pubblici dirigenti medici (oltre che per il personale pubblico non contrattualizzato), non essendo stato diversamente stabilito dalla contrattazione collettiva (cfr. artt. 2, D.lgs. n. 3/1993, e 2, D.lgs. 165/2001): è dunque sussistente il reato di cui all’art. 323 c.p., per violazione di legge, nei casi in cui vengano posti in essere comportamenti di vessazione, emarginazione, e sostanziale demansionamento, di un professionista.

Altrettanto fondata la Corte ritiene la censura del ricorrente avente ad oggetto l’applicabilità dell’art. 97 Cost.. Nonostante sia stata spesso negata la configurabilità dell’abuso d’ufficio per la violazione di tale norma, stante la sua genericità e valenza meramente programmatica, potenzialmente lesiva del principio di tassatività, il Collegio stabilisce, nondimeno, la possibilità di adoperarne il dispositivo, quale parametro di riferimento, “nella parte in cui esprime un carattere immediatamente precettivo, in relazione all’imparzialità dell’azione del funzionario pubblico, che, nel suo nucleo essenziale, si traduce nel divieto di favoritismi e, quindi nell’obbligo per l’amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la medesima misura”. Il già affermato principio “deve applicarsi anche al caso di vessazione, emarginazione e discriminazione motivata da ritorsione e finalizzata a procurare un ingiusto danno”. FM




Inserito in data 13/10/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 9 ottobre 2015, n. 4684

Principi in tema di lex specialis delle pubbliche gare d’appalto

La pronuncia in esame desta interesse perché si sofferma, tra l’altro, sulla composizione della lex specialis delle gare d’appalto, sui criteri di risoluzione delle antinomie interne alla stessa e sulla sua interpretazione.

La Quinta Sezione ci ricorda che il bando, il disciplinare di gara e il capitolato speciale d’appalto costituiscono la lex specialis della gara, vincolando tanto i concorrenti quanto l’amministrazione appaltante, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost. Ciascuno di essi ha una propria specifica funzione nell’economia della procedura, “il primo fissando le regole della gara, il secondo disciplinando in particolare il procedimento di gara ed il terzo integrando eventualmente le disposizioni del bando (con particolare riferimento – di norma – agli aspetti tecnici anche in funzione dell’assumendo vincolo contrattuale”.

Quanto agli eventuali contrasti (interni) tra le singole disposizioni della lex specialis ed alla loro risoluzione, è stato osservato che tra i ricordati atti sussiste nondimeno una gerarchia differenziata con prevalenza del contenuto del bando di gara […], laddove le disposizioni del capitolato speciale possono soltanto integrare, ma non modificare le prime”.

L’interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli articoli 1362 e ss., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all’interpretazione letterale, in quanto compatibile con il provvedimento amministrativo, fermo restando, per un verso, che il giudice deve in ogni caso ricostruire l’intento perseguito dall’amministrazione ed il potere concretamente esercitato sulla base del contenuto complessivo dell’atto (c.d. interpretazione sistematica) e, per altro verso, che gli effetti del provvedimento, in virtù del criterio di interpretazione di buona fede, ex 1366 c.c., devono essere individuati solo in base di ciò che il destinatario può ragionevolmente intendere”.

Infine, si segnala che, nella presente pronuncia,  il Consiglio di Stato effettua un’efficace sintesi dei principi elaborati dall’Adunanza Plenaria e dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea in tema di ordine di trattazione del ricorso principale e di quello incidentale. TM

 



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Inserito in data 13/10/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19787

L’eccesso di potere giurisdizionale e i limiti esterni della giurisdizione del GA

Con la sentenza de qua, le Sezioni Unite forniscono dei chiarimenti sulla nozione di eccesso di potere giurisdizionale e sui limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo.

La figura dell’eccesso di potere giurisdizionale, quale costruzione giurisprudenziale di una fattispecie generale di difetto di giurisdizione del giudice (amministrativo, nella specie) per superamento dei limiti esterni della sua giurisdizione, si atteggia diversamente nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo …. e nella giurisdizione di merito del giudizio di ottemperanza. Nel primo caso il giudice amministrativo travalica i limiti esterni della giurisdizione  quando, apparentemente esercitando l’ordinaria giurisdizione di legittimità, nella sostanza entra nel merito dell’atto amministrativo impugnato ed esercita una discrezionalità che appartiene all’Amministrazione…. Nel secondo caso, in cui la giurisdizione è prevista come di merito…. si ha eccesso di potere giurisdizionale quando il giudice amministrativo ritiene che ci siano i presupposti dell’ottemperanza anche in casi in cui tali presupposti in realtà non ricorrono (nel senso che non sussistono né violazione, né soprattutto, elusione del giudicato)… Anche in questo caso il giudice amministrativo finisce per esercitare un’attività amministrativa discrezionale sotto le vesti di una giurisdizione dichiaratamente di merito”.

“Nell’ambito del giudizio di ottemperanza poi …una particolare ipotesi di travalicamento die limiti esterni della giurisdizione si ha allorché il giudice amministrativo conformi l’agire della pubblica amministrazione in un contenuto “impossibile” essendo la vicenda ormai “chiusa” con il definitivo accertamento dell’illegittimità del provvedimento annullato in sede di cognizione e non sussistendo più le condizioni perché la pubblica amministrazione possa provvedere ancora sicché la tutela dell’interesse legittimo violato, non più realizzabile nella forma (specifica) dell’ottemperanza, è indirizzata verso quella compensativa e risarcitoria”.

“In riferimento a quest’ultima fattispecie, particolare è l’ipotesi di delibera del CSM di assegnazione di incarichi giudiziari a magistrati con procedura concorsuale e quindi nell’esercizio del potere di autogoverno della magistratura…. Con riguardo ad essa può ribadirsi il principio espresso dalla citata pronuncia di queste Sezioni Unite (Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302): c’è eccesso di potere giurisdizionale se il giudice amministrativo, in sede di ottemperanza della pronuncia, passata in giudicato, di annullamento di una delibera del CSM, e quindi pur esercitando una giurisdizione di merito, “ordini” al CSM di attribuire, ora per allora, l’incarico giudiziario a magistrati che ormai non possono prendere possesso del posto” (perché già in quiescenza).

Sempre con riguardo a quest’ultimo caso, le Sezioni Unite precisano che “la circostanza del sopravvenuto collocamento in quiescenza dei magistrati in competizione nella procedura concorsuale non esime il giudice amministrativo, investito della legittimità della delibera del CSM impugnata da uno dei magistrati concorrenti, dal pronunciarsi nel merito delle censure … anche se tale circostanza sopravvenuta non consentirà, in caso di accoglimento dell’impugnativa, un’ottemperanza in forma specifica con l’assegnazione, ora per allora, dell’incarico giudiziario”. In quest’ipotesi, in attuazione del giudicato amministrativo, il CSM potrà o confermare l’assegnazione del posto a chi era stato nominato con la delibera impugnata sulla base di una diversa e puntuale motivazione; oppure il CSM potrà adottare una delibera di non luogo a provvedere per mera acquiescenza al giudicato amministrativo, se non ravvisi più le ragioni giustificatrici dell’assegnazione dell’incarico al magistrato inizialmente assegnatario.

Per completezza, si segnala che le Sezioni Unite trattano l’eccesso di potere giurisdizionale sotto altri due profili, enunciando i seguenti principi di diritto:

Non sussiste eccesso di potere giurisdizionale ove – in caso di duplice impugnativa dello stesso atto amministrativo sia con ricorso per ottemperanza sia con ordinario ricorso in sede di legittimità – il Consiglio di Stato, dopo essersi pronunciato, rigettandolo, sul ricorso per ottemperanza, si pronunci nuovamente in sede di appello avverso la sentenza di primo grado del TAR che abbia deciso il ricorso ordinario”.

In caso di concorso bandito dal Consiglio Superiore della magistratura per l’attribuzione di un incarico giudiziario travalica i limiti esterni della giurisdizione il Consiglio di Stato che, adito in grado d’appello avverso una pronuncia di primo grado avente ad oggetto la legittimità, o no, della delibera del CSM e quindi nell’esercizio dell’ordinaria cognizione di legittimità, operi direttamente una valutazione di merito del contenuto della delibera stessa e ne apprezzi la ragionevolezza, così sovrapponendosi all’esercizio della discrezionalità del CSM, espressione del potere, garantito dall’art. 105 Cost., di autogoverno della magistratura, invece di svolgere un sindacato di legittimità di secondo grado, anche a mezzo del canone parametrico dell’eccesso di potere quale possibile vizio della delibera stessa”. TM

 




Inserito in data 12/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 ottobre 2015, n. 4652

I consorzi ordinari di concorrenti nelle procedure ad evidenza pubblica

I Giudici del Consiglio di Stato, accogliendo il primo motivo d’appello, hanno ritenuto sussistere, nel caso di specie, una violazione degli artt. 34, co. 1 lett. e) e 37 del d.lgs. 163/2006 in materia di requisiti dei partecipanti alle procedure di affidamento di contratti pubblici.

In particolare, alla procedura indetta per l’affidamento di un servizio di pulizia aveva partecipato e si era aggiudicata la gara la società consortile appellata costituente consorzio ordinario composto da due società.

Essa aveva dichiarato di partecipare ed eseguire il servizio al 100% in nome proprio e per conto di una sola delle due imprese consorziate e, per tale motivo, in violazione dell’art. 34 pocanzi citato che, in merito ai consorzi ordinari, rimanderebbe integralmente alla disciplina delle associazioni temporanee d’impresa (ATI), nelle quali è necessario che tutte le imprese prendano parte alla gara ed alla relativa esecuzione del servizio.

Il TAR Molise, in primo grado, aveva respinto il ricorso incidentale facendo una distinzione, priva di qualsivoglia dato positivo, tra consorzi ordinari costituiti nella “forma semplice” di cui agli art. 2602 e ss. c.c., e consorzi costituiti con la forma della società consortile ai sensi dell’art. 2615-ter c.c..

Il Consiglio di Stato, invece, precisa che la disciplina civilistica della società consortile e la personalità giuridica di cui è titolare “non comportano che essa sia esentata dagli adempimenti richiesti dalla disciplina in materia di contratti pubblici qualora la società consortile partecipi a gare d'appalto indette dalla pubblica amministrazione”.

Infatti, così come richiamato dall’art. 34, co. 1 lett. e), si applica la disciplina prevista dall’art. 37 per le ATI, ossia quella prevista per i contratti associativi atipici fondati sul mandato collettivo speciale e gratuito conferito da parte delle associate ad una di esse (cd. capogruppo) la quale assume, nei confronti del committente, la rappresentanza esclusiva di tutte le mandanti.

Le società consortili, infatti – motiva il Consiglio – “non sono imprese autonome, ma consorzi, per la natura e le finalità mutualistiche in favore delle imprese consorziate, con l'unica differenza che è loro consentito di operare in forma societaria, sicché la causa consortile del contratto permane e prevale sulla forma societaria assunta”.

“La circostanza che tale soggetto abbia personalità giuridica e si presenti alla gara come impresa singola, in limine, rileva ai fini dell'assunzione della responsabilità nei confronti della stazione appaltante, ma non può esimere dagli obblighi posti dal codice dei contratti pubblici ai consorzi, qualunque sia la loro forma giuridica assunta”. SS

 

 



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Inserito in data 12/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III - 9 ottobre 2015, n. 4679

Sull’informativa interdittiva antimafia

Con la sentenza de qua, i Giudici di Palazzo Spada sono tornati ad occuparsi di informativa interdittiva antimafia e hanno effettuato talune precisazioni in relazione a quello che è il suo ruolo di massima anticipazione dell’azione di prevenzione in ordine ai pericoli di inquinamento mafioso negli appalti pubblici.

In primo luogo – afferma il Consiglio – il pericolo di infiltrazione dell’appellante può essere deducibile da elementi sintomatici ed indiziari che, nel loro insieme, “siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata”.

In secondo luogo, i legami di natura parentale possono assumere rilievo “qualora emerga un intreccio di interessi economici e familiari, dai quali sia possibile desumere la sussistenza dell’oggettivo pericolo che rapporti di collaborazione intercorsi a vario titolo tra soggetti inseriti nello stesso contesto familiare costituiscano strumenti volti a diluire e mascherare l’infiltrazione mafiosa nell’impresa considerata”.

Tuttavia – continua il Collegio – il vincolo di parentela non può rappresentare di per sé l’unico elemento ostativo, ma deve essere considerato unitamente al ruolo svolto nell’impresa dal dipendente in passato e nell’attualità.

Infine, in ogni caso, “la misura interdittiva antimafia non richiede il massimo grado di certezza dei suoi presupposti, né l'accertamento, in sede penale, di carattere definitivo in ordine all'esistenza della contiguità con organizzazioni malavitose ed al condizionamento in atto dell'attività di impresa, essendo sufficiente, al riguardo, la semplice dimostrazione del pericolo del pregiudizio, mediante il riferimento ad alcuni fatti sintomatici ed indizianti che, considerati e valutati nel loro complesso, inducano ad ipotizzare la sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata”. SS

 



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Inserito in data 09/10/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 5 ottobre 2015, n. 19785

Le Sezioni Unite in tema di leasing finanziario

Le Sezioni Uniti della Suprema Corte, intervengono, con la sentenza de qua, in merito all'articolato tema della locazione finanziaria.

In generale, com'è noto, il leasing è un tipo di contratto appartenente alla categoria dei c.d. “nuovi contratti”, risultando, infatti, dalla combinazione di due differenti schemi negoziali: quello della vendita con patto di riservato dominio, di cui all'art. 1523 c.c., nonché del contratto di locazione, così come espressamente previsto all'art. 1571 del codice civile. Nello specifico, il leasing c.d. finanziario, è contraddistinto, dalla presenza di un rapporto trilaterale, intervenendo tre differenti soggetti: il locatore, l'utilizzatore (o locatario) ed il fornitore.

Scendendo nel merito della sentenza ivi in questione, gli Ermellini chiariscono che, ove i vizi della cosa siano emersi prima della consegna, il concedente dovrà sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nei cui confronti può agire per la risoluzione del contratto di fornitura ovvero la riduzione del corrispettivo.

Viene, inoltre, stabilito che se questi ultimi si siano rivelati dopo la consegna, l'utilizzatore avrà azione diretta verso il fornitore.

Comunque, in ogni caso, il medesimo utilizzatore potrà agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni e la restituzione dei canoni già pagati dal concedente.

Dunque, a ben vedere, in tema di vizi della cosa concessa in locazione finanziaria – che la rendano “inidonea” all'uso – occorrerà, quindi, distinguere l'ipotesi in cui gli stessi siano emersi prima della consegna (rifiutata dall'utilizzatore), da quella, invece, in cui siano emersi successivamente alla stessa, perché nascosti o, comunque, taciuti in mala fede dal fornitore.

Se, dunque, il primo caso in questione, dev'essere assimilato a quello della mancanza consegna, con la conseguenza, quindi, che il concedente – alla luce e nel rispetto del principio di buona fede – ha il dovere di sospendere il pagamento del prezzo in favore del fornitore, nel secondo caso, l'utilizzatore avrà – come premesso – azione diretta verso il fornitore, al fine di eliminare i vizi o sostituire la cosa.

Tuttavia, in ogni caso, l'utilizzatore potrà agire contro il fornitore per il risarcimento dei danni, compresa la restituzione della somma corrispondente ai canoni già precedentemente pagati al concedente. GMC 




Inserito in data 09/10/2015
TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 8 ottobre 2015, n. 678

Sul diritto di accesso in materia ambientale: normative a confronto

Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di merito intervengono in merito al tema dell'accesso in materia ambientale ex art. 3 del d.lgs. n. 195/2005, differenziandolo dalla disciplina dettata dall'art. 22 del d.lgs. 241/1990.

Invero, l'art. 3 del d.lgs. n. 195/2005 – con cui è stata data attuazione alla direttiva n. 2003/4/Ce sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale – ha introdotto una fattispecie speciale di accesso in materia ambientale, che si caratterizza, rispetto a quella generale prevista nella l. n. 241/1990, per due peculiarità: l'estensione del novero dei soggetti legittimati all'accesso e il contenuto delle cognizioni accessibili.

Esaminando il primo profilo ivi considerato, l'art. 3 del d.lgs. n. 195/2003, chiarisce che le informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda, senza necessità (in deroga alla disciplina generale sull'accesso ai documenti amministrativi) di dimostrare un suo particolare e qualificato interesse.

Analizzando il secondo punto, invece, la medesima disposizione estende il contenuto delle notizie accessibili alle "informazioni ambientali" – le quali implicano anche un'attività elaborativa da parte dell'amministrazione debitrice delle comunicazioni richieste – garantendo, in tal modo, al richiedente, una tutela più ampia di quella garantita dall'art. 22, l. n. 241/1990, di fatto circoscritta ai soli documenti amministrativi formati e nella disponibilità dell'amministrazione.

Oltre a ciò, è bene chiarire, che le informazioni cui fa riferimento la normativa de qua, concernono esclusivamente lo stato dell'ambiente (aria, sottosuolo, siti naturali etc.) ed i fattori che possono incidere sull'ambiente (sostanze, energie, rumore, radiazioni, emissioni), sulla salute e sulla sicurezza umana, con esclusione, dunque, di tutti i fatti ed i documenti che non possiedono un “rilievo ambientale”.

Da quanto chiarito emerge, quindi, che l'accesso alle informazioni ambientali è del tutto svincolato da motivazioni precise e dalla dimostrazione dell'interesse del singolo, poiché l'informazione ambientale consente, a “chiunque ne faccia richiesta”, di accedere ad atti o provvedimenti che possano incidere sull'ambiente - quale bene giuridico protetto dall'ordinamento - con l'unico limite delle richieste "estremamente generiche". GMC

 



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Inserito in data 08/10/2015
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. II, 2 ottobre 2015, n. 1057

“Fascia costiera” e vincoli paesaggistici

La II Sezione del T.A.R. Sardegna è intervenuta in ordine ai motivi aggiunti al ricorso proposto da una società di idrocarburi con cui era stato richiesto l’annullamento della determinazione regionale che aveva dichiarato l’improcedibilità dell’istanza di valutazione d’impatto ambientale (c.d. V.I.A.) per la realizzazione di un pozzo esplorativo finalizzato alla ricerca di idrocarburi solidi e liquidi nel sottosuolo di alcuni comuni della provincia di Oristano.

Nello specifico, l’attività di ricerca si era concentrata in un’area adiacente ad un sito di importanza comunitaria (S.I.C.) e rientrante altresì nella c.d. “fascia costiera” delimitata dal P.P.R., quest’ultima sottoposta a vincoli di tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 22.01.2004 e degli artt. 17-20 delle NTA del PPR che, tuttavia, vi consentono, in via eccezionale, la realizzazione delle sole opere edilizie di cui al comma 1, dell’art. 12, e delle c.d. “infrastrutture puntuali (..)”.

Nella pronuncia in esame, il Collegio ha osservato, in via generale, come seppur la sussistenza di vincoli paesaggistici, di norma, non valga ad esaurire la valutazione di impatto ambientale - rispetto alla quale costituisce solo un “parametro di riferimento” – il principio perda tuttavia efficacia qualora il regime di tutela del paesaggio sia assolutamente inderogabile e la realizzabilità dell’intervento non sia quindi neppure minimamente prospettabile.

Punto di partenza – ha affermato la II Sez. T.A.R. – è, quindi, accertare se, nel caso di specie, ricorrano o meno i presupposti di applicabilità delle disposizioni “assolutamente preclusive” dettate dal PPR per la c.d. “fascia costiera”, ovvero se l’intervento in oggetto sia riconducibile ad una delle due categorie derogatorie all’immodificabilità dei vincoli paesaggistici previste dall’art. 20 delle NTA del PPR.

Il Collegio ha escluso in radice la possibilità di ricondurre l’intervento in questione all’ipotesi prevista dal 1° co., lett. a) dell’art. 12, a sua volta richiamato dal 1° co. dell’art. 20, il quale ammette la realizzazione nella c.d. fascia costiera dei “volumi tecnici di modesta entità, strettamente funzionali alle opere e tali da non alterare lo stato dei luoghi”. Ed invero, l’opera di perforazione, per le sue intrinseche caratteristiche e materiali proporzioni – da valutare con riferimento non soltanto alla fase esplorativa ma anche a quella estrattiva – non potrebbe che comportare un’alterazione ictu oculi del sito, non compatibile con il concetto di “volume tecnico” di modesta entità cui fa riferimento la disposizione normativa.

A ben vedere, il progetto di perforazione esplorativa – ha altresì precisato il Collegio - non risulta neppure riconducibile alla categoria derogatoria di cui al 2° comma dell’art. 20, n. 3, lett. b) che consente invece la realizzazione, in tutta la fascia costiera, di “infrastrutture puntuali o di rete, purché previste nei piani settoriali, preventivamente adeguati al P.P.R.”. E ciò in quanto l’attività energetica di ricerca di idrocarburi nel sottosuolo - oltre a comportare una rilevante alterazione del territorio – costituisce attività tipicamente mineraria, funzionale al rinvenimento di materie prime da utilizzare in separato ciclo produttivo, come tale non ascrivibile al novero delle “infrastrutture”, bensì a quello degli “insediamenti produttivi”, quindi riconducibile ad una tipologia di interventi ontologicamente e funzionalmente diversa dalle “infrastrutture”.

Pertanto, accertata l’assoluta irrealizzabilità dell’intervento per vincolatività assoluta dei limiti paesaggistici della “fascia costiera”, il TAR Sardegna, con la pronuncia in esame, ha respinto i motivi aggiunti al ricorso proposto dalla società di idrocarburi, per l’effetto censurando gli ulteriori gravami. MB



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Inserito in data 08/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 ottobre 2015, n. 4620

Omessa dichiarazione ex art. 37 – 8’ c. DLgs. n. 163/06 comporta esclusione dalla gara

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada hanno confermato la sentenza, resa dal TAR Lazio–Roma, concernente la legittima esclusione dalla prosecuzione della gara della concorrente mandataria in costituendo R.T.I., stante la mancata allegazione della dichiarazione, ex art. 37, comma 8, D.LGS. n. 163/2006, attestante l’impegno delle imprese mandanti, in caso di aggiudicazione, a conferire mandato collettivo speciale con rappresentanza al soggetto designato quale mandatario.

In particolare, il Collegio, confermando tutto quanto già affermato dal T.A.R. nella pronuncia appellata, ribadisce come l’omessa dichiarazione non possa essere “sanata” dal ricorso, da parte della stazione appaltante, al principio del c.d. soccorso istruttorio di cui al 1° co. dell’art. 46, D.LGS. n. 163/2006 - che consente l’integrazione e la specificazione della documentazione incompleta - in quanto la predetta dichiarazione non costituisce affatto una mera formalità la cui carenza sia ex post emendabile.

Al contrario – conclude il Collegio - proprio la natura negoziale della dichiarazione – idonea, in caso di raggruppamento costituendo, a perfezionare in capo alle imprese mandanti il vincolo negoziale nei confronti della mandataria - fa sì che trovi applicazione il comma 1-bis del medesimo articolo, il quale, per l’appunto, commina l’esclusione dell’offerta del concorrente nell’ipotesi in cui la stazione appaltante abbia – come avvenuto nel caso di specie - rilevato il mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice, dal Regolamento di attuazione e dalle altre disposizioni vigenti. MB 

 



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Inserito in data 07/10/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 6 ottobre 2015, C - 61/14

Diritto ad un ricorso effettivo e tassazione per l’accesso alla giustizia

La Corte di Lussemburgo, pronunciandosi sul rinvio pregiudiziale proposto ai sensi dell’art. 276 T.f.U.e. dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, ha affrontato l’importante questione interpretativa della compatibilità della legislazione italiana in materia di tassazione per l’accesso alla giustizia amministrativa nell’ambito degli appalti pubblici con l’ordinamento europeo, e segnatamente con l’art. 1 della Direttiva 89/665/CEE del Consiglio (come modificata dalla Direttiva 2007/66/CE del Parlamento europeo e del Consiglio), nonché con i principî di equivalenza ed effettività.

La Direttiva 89/665 citata coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori. Essa trova applicazione con riferimento agli appalti di cui alla Direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizî), e sempre che tali appalti non siano esclusi, ai sensi degli artt. 10-18 della Direttiva stessa.

Gli Stati membri devono garantire l’accessibilità a un ricorso efficace, e l’assenza di discriminazioni in ordine al trattamento delle situazioni giuridiche prodotte dall’ordinamento europeo, rispetto a quelle prodotte dall’ordinamento nazionale.

Nell’ambito dei processi amministrativi, il regime italiano di tassazione degli atti giudiziarî, fondato sul pagamento di un contributo unificato, viene stabilito indipendentemente dal valore della controversia, e non è pertanto proporzionale a quest’ultimo (art. 13, comma 6 bis, D.P.R. n. 115/2002). In materia di appalti pubblici, il contributo è più elevato, e tuttavia quantificato in ragione di tre diversi indici di rilevanza economica del contratto. Ulteriori addizionali prevede il Decreto stesso relativamente a circostanze specifiche. Il valore della causa corrisponde non al margine di utile che si può trarre dall’esecuzione del contratto, bensì all’importo posto a base d’asta dell’appalto stesso.

Il contributo unificato è versato non solo all’atto del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, ma anche per il ricorso incidentale e i motivi aggiunti che introducono domande nuove.

In una questione concernente gli oneri per l’accesso alla giustizia amministrativa, il ricorrente sollevava anche la questione di legittimità costituzionale del citato art. 13, comma 6 bis.

Il giudice amministrativo, ritenendo sussistente la propria competenza, e non quella del giudice tributario, e considerando il potenziale effetto dissuasivo della tassazione in ordine all’accesso alla tutela giurisdizionale, rimette alla Corte di giustizia la seguente questione: “Se i principî fissati dalla Direttiva 89/665 (…) ostino ad una normativa nazionale (…) che [ha] stabilito elevati importi di contributo unificato per l’accesso alla giustizia amministrativa in materia di contratti pubblici”.

In particolare, osserva il giudice del rinvio, “la normativa nazionale oggetto del procedimento principale limita il diritto di agire in giudizio, incide sull’effettività del controllo giurisdizionale, discrimina gli operatori che possiedono una debole capacità finanziaria (omissis) e li pone in una situazione svantaggiosa rispetto a coloro che, nell’ambito delle proprie attività, adiscono i giudici civili e commerciali”. Lo stesso giudice rileva come il costo dell’esercizio della giustizia amministrativa in materia di appalti pubblici non giustifichi un tanto più elevato onere finanziario a carico del ricorrente.

La Corte conferma, ancora una volta, il principio di autonomia processuale degli Stati membri, consistente in un potere discrezionale di scelta delle garanzie procedurali e delle relative formalità. Salvo, naturalmente, il rispetto dei principî di equivalenza (o non discriminazione) e di effettività.

L’indagine ermeneutica dei Giudici di Lussemburgo muove in due direzioni: ci si sofferma, da un lato, sull’importo del contributo unificato da versare per la proposizione di un ricorso in procedimenti giurisdizionali amministrativi in materia di appalti pubblici, e dall’altro, sull’ipotesi di cumulo di tali contributi versati nel contesto di una stessa procedura.

Con riferimento al primo profilo, quanto al diritto a un ricorso effettivo, emerge che gli importi fissi di contributo unificato “non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione in materia di appalti pubblici”.

Inoltre, relativamente all’applicazione del contributo unificato a svantaggio degli operatori economici che possiedono una debole capacità finanziaria, occorre rilevare che il “sistema non crea una discriminazione tra gli operatori che esercitano nel medesimo settore di attività”. Si consideri anche che le disposizioni delle direttive in materia d’appalti pubblici, stabiliscono ai fini della partecipazione di un’impresa ad una gara il possesso di opportuni requisiti di capacità economica e finanziaria.

Quanto al principio di equivalenza, la previsione di un contributo considerevolmente più elevato, per le procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, non consente di ravvisare, rispetto alle altre controversie amministrative e ai procedimenti civili, una violazione del precetto europeo. Questo impone, infatti, la parità di trattamento “tra i ricorsi fondati su una violazione del diritto nazionale” e “quelli, simili, fondati su una violazione del diritto dell’Unione, e non l’equivalenza delle norme processuali nazionali applicabili a contenziosi di diversa natura”.

Con riferimento al secondo profilo, concernente il cumulo dei contributi versati nel contesto di una medesima procedura giurisdizionale, il giudice del rinvio rileva che “solo l’introduzione di atti procedurali autonomi rispetto al ricorso introduttivo del giudizio e intesi ad estendere considerevolmente l’oggetto della controversia dà luogo al pagamento di tributi supplementari”.

La Corte ritiene che la previsione in esame non contrasti con l’ordinamento dell’Unione, e che la ratio legis tende al “buon funzionamento del sistema”, costituendo “una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri” dissuadendo “l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate” o meramente dilatorie.

La Corte precisa ulteriormente che: “Tali obiettivi possono giustificare un’applicazione multipla di tributi giudiziari (omissis) solo se gli oggetti dei ricorsi o dei motivi aggiunti sono effettivamente distinti e costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente”. Ove così non fosse, l’obbligo aggiuntivo si porrebbe in contrasto con le garanzie di accessibilità al ricorso.

La Corte di giustizia conclude, pertanto, che: “L’articolo 1 della Direttiva 89/665 nonché i principî di equivalenza e di effettività devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che impone il versamento di tributi giudiziarî, come il contributo unificato oggetto del procedimento principale, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi”; ed inoltre, le stesse disposizioni “non ostano né alla riscossione di tributi giudiziarî multipli nei confronti di un amministrato che introduca diversi ricorsi giurisdizionali relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici né a che tale amministrato sia obbligato a versare tributi giudiziarî aggiuntivi per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione di appalti pubblici, nel contesto di un procedimento giurisdizionale in corso. Tuttavia, nell’ipotesi di contestazione di una parte interessata, spetta al giudice nazionale esaminare gli oggetti dei ricorsi presentati da un amministrato o dei motivi dedotti dal medesimo nel contesto di uno stesso procedimento. Il giudice nazionale, se accerta che tali oggetti non sono effettivamente distinti o non costituiscono un ampliamento considerevole dell’oggetto della controversia già pendente, è tenuto a dispensare l’amministrato dall’obbligo di pagamento di tributi giudiziari cumulativi”. FM

 



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Inserito in data 07/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 ottobre 2015, n. 4617

Indicazione sintetica dei requisiti morali ex art. 38, let. c), Codice appalti

Con la sentenza in epigrafe i Giudici di Palazzo Spada, rigettano il motivo di doglianza concernente l’asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma primo, lettera e) (rectius, c), del D.lgs. n. 163/2006, nel caso di una dichiarazione “espressa con formula sintetica ed omnicomprensiva”.

Nella fattispecie sub iudice l’impresa aggiudicataria attestava l’assenza, in capo ad essa, “di qualsiasi reato grave che incida sulla moralità e sulla capacità professionale”, senza ulteriormente specificare. Il ricorrente, successivamente appellante, lamentava la “incompletezza” della dichiarazione.

Le motivazioni del Collegio giudicante pongono innanzitutto l’accento su una considerazione di “carattere logico-linguistico”, di evidenza icastica, fondata sul detto proverbiale secondo il quale “nel più sta il meno”: l’espressione adoperata dal dichiarante contiene in sé, implicitamente, anche l’affermazione della mancanza di condanne, passate in giudicato, per le tassative fattispecie di reato che comportano l’automatica esclusione del partecipante alla gara.

Il Consiglio di Stato rileva, inoltre, che anche a prescindere da tali deduzioni, nella fattispecie concreta, una formulazione omnicomprensiva della dichiarazione in parola era comunque consentita dallo stesso disciplinare di gara, essendo sufficiente “una pericope attestante la inesistenza di tutte le cause di esclusione previste dalla norma”.

La sentenza si sofferma anche sulla questione dell’asserita invalidità o inefficacia delle dichiarazioni rese dai soggetti che hanno ceduto all’aggiudicataria rami della propria azienda, ritenendo che non costituisca “alcun reale intralcio all’aggiudicazione”. In altro giudizio attinente al contratto di cessione d’azienda, l’Adunanza plenaria, in considerazione dalla “non univocità della normativa (ingenerante incertezza in ordine alla sussistenza dell’obbligo a carico dei suddetti ‘soggetti cedenti’)”, aveva ritenuto che “finanche la totale omissione della dichiarazione (condotta più grave di quella dedotta in giudizio, consistente nell’aver formulato la dichiarazione in maniera asseritamente troppo generica) non giustifica l’esclusione dalla gara”. In tali circostanze “l’esclusione va disposta non già per il fatto (puramente formale) della mera omissione della dichiarazione, ma solamente in ragione ed a cagione dell’acclarata assenza (fatto rilevante e dirimente in quanto sostanziale) dei requisiti di moralità” (Adunanza plenaria 16 ottobre 2013, n. 23). Il Consiglio di Stato uniforma dunque il proprio canone ermeneutico a un criterio di giustizia sostanziale, che la sentenza ora in esame ritiene di poter estendere a tutte le fattispecie: non appare “giusto né equo che un soggetto che possa dimostrare - eventualmente anche mediante strumenti procedimentali di c.d. ‘soccorso istruttorio’ - di avere tutti i prescritti requisiti morali (oltre agli altri richiesti dal bando), e che abbia inteso dichiarare in buona fede di esserne in possesso, sia escluso da una procedura concorsuale per il solo e semplice fatto di aver errato nella esposizione delle sue affermazioni al riguardo (o per il semplice fatto di essersi discostato dalla pedissequa e formale riproduzione del modello di dichiarazione prescritto nel bando)”. “Ovvero - ciò che è peggio - che venga escluso dalla gara (lo si ribadisce: non ostante il possesso di tutti i requisiti) per il solo e semplice fatto di aver reso una dichiarazione che pur se sostanzialmente ‘omnicomprensiva’ delle informazioni richieste dalla PA, sia stata espressa in forma sintetica (ma - si badi - non per questo linguisticamente e sintatticamente meno completa) anziché in forma analitica”. FM

 



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Inserito in data 06/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4585

Violazione del termine di “stand still” e declaratoria di inefficacia del contratto

Il Consiglio di Stato, nella sentenza indicata, ha ripercorso il substrato normativo e giurisprudenziale in materia di annullamento giudiziale dell’aggiudicazione di una pubblica gara e di mantenimento o meno dell’efficacia del contratto nel frattempo stipulato.

In particolare, la società appellante - classificatasi prima nella graduatoria relativa alla procedura di gara ma esclusa a causa della mancata indicazione nella propria offerta degli oneri per la sicurezza – si doleva del fatto che, nonostante fosse intervenuta sentenza di annullamento della sua precedente esclusione, la stazione appaltante avesse proceduto alla stipula del contratto con altra società in violazione del termine di cui all’art. 11, comma 10 d.lgs. 163/2006 (cd. termine di stand still).

Essa pretendeva, inoltre, la declaratoria di inefficacia del contratto e il suo automatico subentro nel medesimo senza però impugnare la sentenza di primo grado nella parte in cui non effettuava alcuna statuizione in ordine all’annullamento dell’impugnata aggiudicazione definitiva.

In primo luogo – afferma il Collegio - tale impugnazione costituisce “il presupposto che legittima il potere del giudice di dichiarare l’inefficacia del contratto” ed è tale che non può essere esaminato d’ufficio dal giudice d’appello.

In secondo luogo – continua il Consiglio - “l’annullamento dell’esclusione della società appellante non determina l’automatica aggiudicazione della gara in favore di quest’ultima, ma impone piuttosto all’amministrazione di rinnovare il procedimento di verifica della congruità dell’offerta, a nulla rilevando che lo stesso fosse stato già precedentemente espletato con esito favorevole, trattandosi evidentemente di una fase procedimentale travolta e resa inutilizzabile dal successivo accertamento della mancata indicazione degli oneri di sicurezza, fase di cui in ogni caso solo l’amministrazione con apposita e nuova dichiarazione di volontà (provvedimentale) può far rivivere, confermandola ai fini della legittima individuazione della ditta definitivamente aggiudicataria della fornitura” (tanto più che non risulta mai pronunciata nei confronti dell’appellante la definitiva aggiudicazione dell’appalto in questione).

Infine, i Giudici di Palazzo Spada, respingendo l’appello, escludono che la sola violazione del termine di stand still possa legittimare la declaratoria di inefficacia del contratto in quanto l’art. 121, comma 1 lett c) c.p.a. subordina tale declaratoria, non solo, all’accertamento che la violazione di quel termine abbia impedito all’interessato di avvalersi dei mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto, ma soprattutto, al fatto che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento.

Entrambe le circostanze – afferma il Consiglio - non ricorrono nel caso di specie: la prima in quanto “la stipulazione del contratto era avvenuta in esecuzione del provvedimento giurisdizionale di primo grado, non sospeso, che aveva ritenuto legittima l’esclusione dell’interessata dalla gara”; la seconda in quanto “nessun vizio proprio dell’aggiudicazione definitiva era stato fatto valere se non quello della violazione della clausola di stand still, mentre il mancato affidamento dell’appalto era stato determinato dall’esclusione della gara, che per effetto della sentenza di primo grado, non sospesa, risultava essere legittimo al momento dell’aggiudicazione definitiva disposta in favore della controinteressata”. SS

 



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Inserito in data 06/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4604

Sulla conversione delle azioni cumulativamente proposte nello stesso giudizio

Il Consiglio di Stato, adito in funzione di Giudice dell’ottemperanza, respingeva il ricorso dopo avere effettuato un’ampia disamina di ciò che costituisce violazione e di ciò che costituisce elusione del giudicato non ritenendone sussistenti i presupposti né dell’una né dell’altra.

Conseguentemente, si occupava della subordinata istanza di conversione dell’azione formulata dalla ricorrente avendo quest’ultima optato per l’attribuzione al Consiglio di Stato, nella medesima impugnativa, di un’azione di ottemperanza e di una di legittimità.

Fermo restando che ciò è ammesso ex art. 32 c.p.a. – afferma il Collegio – “il giudice adito è chiamato innanzitutto a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori”.

In particolare, deve precisarsi che la ‘conversione del rito’ prevista dal citato art. 32 presuppone evidentemente che il giudice adito sia competente su entrambe le azioni in quanto essa si sostanzia nella cancellazione del ricorso per ottemperanza dal ruolo degli affari in camera di consiglio e nella contestuale fissazione dell’udienza pubblica per giudizio di merito della domanda di impugnazione, al fine di osservare le forme tassativamente previste dall’art. 87 c.p.a. per le diverse tipologie di azioni esperibili davanti al giudice amministrativo.

Conclude il Consiglio - e con ciò dichiara la propria incompetenza – che, nel caso di specie, “la possibilità di emanare un simile provvedimento di carattere ordinatorio è impedito dall’assenza di un presupposto processuale quale la competenza”, pacificamente non sussistente in capo a questo Consiglio di Stato in relazione all’ordinaria domanda di annullamento svolta in via subordinata dalla ricorrente, e “non derogabile al di fuori dei casi tassativamente previsti dall’art. 13, comma 4-bis c.p.a., tra i quali non rientra in tutta evidenza quello del cumulo dell’azione di ottemperanza con quello di cognizione”. SS

 



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Inserito in data 05/10/2015
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 23 settembre 2015, n. 4595

Lesione dei diritti del medico da parte delle USL: la  giurisdizione è del G.O.

Con la pronuncia in esame, la Sezione I del T.A.R. Campania interviene su una questione estremamente delicata, concernente i confini, talvolta controversi, tra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria in materia di rapporti di lavoro, alla luce dell’intervenuto fenomeno di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego.

La vicenda de qua  trae origine dal ricorso proposto da un medico operante come pediatra di libera scelta e specialista ambulatoriale in regime di convenzionamento con il S.S.R., con il quale sono stati impugnati - sulla base del presunto contrasto dell'accordo integrativo regionale con quello nazionale - il D.C.A. del 29/5/2015 per la prosecuzione del piano di rientro del settore sanitario della Regione Campania, nonché la nota n. 590/PR1149 del 10/07/2015 con cui la stessa Regione Campania aveva imposto, in conformità al nuovo massimale previsto per il cumulo di attività, la riduzione del numero di assistiti.  

I Giudici Campani hanno dichiarato l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione amministrativa, del ricorso proposto dal medico, affermando che l’oggetto della controversia rientra, per le ragioni presto chiarite, nella cognizione del giudice civile, in funzione di giudice del lavoro.

In particolare, richiamando l’orientamento espresso in materia dalla più autorevole giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte Cassazione, i Giudici Campani hanno ricordato come seppur i rapporti tra medici operanti in regime di convenzionamento e le U.S.L. siano costituiti e regolamentati in funzione del primario soddisfacimento di un interesse tipicamente istituzionale - la salute pubblica, per l’appunto - essi “corrispondono a rapporti libero-professionali "parasubordinati" che si svolgono su un piano di parità, non esercitando l'ente pubblico, nei confronti del medico convenzionato alcun potere autoritativo, all'infuori di quello di sorveglianza, né potendo incidere unilateralmente, limitandole o degradandole ad interessi legittimi, sulle posizioni di diritto soggettivo nascenti, per il professionista, dal rapporto di lavoro autonomo”.

L’effetto immediato di questa impostazione è rappresentato dal fatto che le controversie aventi ad oggetto la presunta compromissione, da parte dell’ente pubblico, delle posizioni giuridiche soggettive del professionista operante in regime di convenzionamento – come quella, nel caso di specie, denunciata dal pediatra a seguito della riduzione del massimale degli assistiti in caso di cumulo di attività – incidendo su rapporti di natura sostanzialmente paritetica, libero-professionale tra le parti, sono integralmente riconducibili alla cognizione del giudice ordinario, non essendo ammessa, per esse, alcuna deroga in favore della giurisdizione del giudice amministrativo, neppure quando il medico abbia censurato “quale mezzo al fine della tutela dei diritti scaturenti dal detto rapporto, l'illegittimità di atti regolamentari o provvedimenti emessi dalla p.a”.

In considerazione di ciò, il T.A.R. Campania, pronunciandosi sul ricorso proposto, ne ha quindi, correttamente, dichiarato l’inammissibilità per difetto di giurisdizione amministrativa in favore del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro. MB 

 

 



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Inserito in data 05/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 29 settembre 2015, n. 4540

DURC negativo e concetto di definitività dell’accertamento

Con l’ordinanza in esame, il Collegio della Sezione IV è chiamato a pronunciarsi in ordine alla riforma di una sentenza del TAR Lazio - relativa all’affidamento del servizio luce e dei servizi connessi per le pubbliche amministrazioni - con la quale era stata confermata l’esclusione dalla gara dell’impresa appellante, stante: i) la non veridicità dell’attestazione resa dal l.r. in ordine ai requisiti di moralità professionale posseduti dal preposto alla gestione tecnica di una società consorziata alla società offerente; ii) la risultanza negativa dei documenti unici di regolarità contributiva (DURC) rilasciati ad alcune delle imprese consorziate della partecipante.

I Giudici di primo grado avevano, infatti, respinto il ricorso proposto dell’impresa esclusa dalla gara, affermando che il concetto di violazione definitivamente accertata “nell'ambito delle gare pubbliche dev’essere esaminato alla data di scadenza del termine di presentazione dell'offerta”.

Il Collegio, prima di entrare nel cuore del dibattito, effettua un breve excursus normativo per delimitare i confini della questione e ricorda che, a mente dell’art. 38, comma 1, lettera i) del codice dei contratti pubblici, «sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, (…), e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti»; richiama poi il D.M. del 24 ottobre 2007 che definisce le infrazioni ostative al rilascio del DURC e che, all’art. 7, comma 3, prevede l’obbligo per gli Enti, in caso di mancanza dei requisiti di regolarità contributiva - prima che venga rilasciato un DURC negativo - di invitare “l’interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni”.

Quindi, i Giudici del gravame si soffermano sulla spinosa questione relativa all’ipotesi in cui la dichiarazione sostitutiva resa dall’impresa partecipante alla gara, sulla base di un DURC in corso di validità, si sia poi rivelata in contrasto con le risultanze negative del DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di controllo e, con riferimento a tale aspetto, hanno notato come sul tema sia, da tempo, in atto un contrasto esegetico fra le Sezioni, che richiede l’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria, alla quale, con l’ordinanza de qua, essi hanno per l’appunto rimesso la questione.

Si condividono il campo – precisa il Collegio - due contrapposti orientamenti: il primo, più risalente nel tempo ma maggiormente consolidato, secondo il quale, ai fini dell’accertamento del “requisito, oggetto di dichiarazioni sostitutive degli offerenti, debba aversi riguardo al DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di controllo, con riferimento, all’esatta data della domanda di partecipazione, con conseguente insufficienza, ai fini della prova, di eventuali DURC in possesso degli offerenti ed ancora in corso di validità” e sempre secondo il quale, il cd. preavviso di DURC negativo non si applica quando il DURC sia richiesto dalla stazione appaltante, con la conseguenza che l’eventuale regolarizzazione postuma non sarebbe comunque idonea a rimuovere l’irregolarità alla data della presentazione dell’offerta.

Secondo un più recente ma meno diffuso orientamento, al contrario, “l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione sussiste anche ove la richiesta sia fatta in sede di verifica dalla stazione appaltante”.

La questione sembrerebbe, per il futuro, superata alla luce dall’entrata in vigore del Decreto Ministeriale 30.01.2015, rubricato «Semplificazioni in materia di Documento Unico di Regolarità Contributiva», a mente del quale, la nozione di “definitivo accertamento” sarebbe subordinato all’invito, da parte dell’Ente di previdenza, rivolto al contribuente, di provvedere a regolarizzare la propria posizione previdenziale e fiscale, anche quando l’interrogazione sia compiuta dalla stazione appaltante in funzione di controllo. Tuttavia, il problema persiste ed è tutt’altro che superato con riguardo al periodo antecedente all’entrata in vigore del D.M.

Nell’ordinanza in esame, i Giudici rimettenti sembrerebbero aderire all’orientamento secondo il quale l’obbligo del previo avviso di regolarizzazione debba ritenersi sussistente anche nell’ipotesi in cui la richiesta provenga dalla stazione appaltante, in quanto, in difetto, si finirebbe con il violare il principio - costituzionalmente garantito - di affidamento dei privati, finendo, per questa via, per attribuirsi carattere di “definitività” ad una violazione contributiva mai previamente comunicata al contribuente.

Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte, il Collegio, al fine di sciogliere i nodi interpretativi che hanno alimentato il dibattito esegetico, ha rimesso la questione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, frattanto sospendendo, in via cautelare, la provvisoria efficacia della sentenza gravata, nonché la successiva stipula del contratto. MB

 



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Inserito in data 02/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2015, n. 4594

Giurisdizioni a confronto: G.A. e Tribunale Superiore Acque Pubbliche

I Giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia de qua, intervengono in merito alla giurisdizione del g.a., chiarendo che la stessa prevalga su quella del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (TSAP), in tutte quelle controversie concernenti atti “solo strumentalmente” inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche.
Invero, alla luce di quanto in tale sede chiarito, l'art. 143, R.D. n. 1775/1933, c. 1, lett. a), non limita la giurisdizione del TSAP alle controversie tra concedente e concessionario in tema di derivazione idrica, bensì utilizza una formula ben più ampia, facendo, infatti, riferimento più in generale alla " materia delle acque pubbliche".

Urge sottolineare che, onde evitare la probabile insorgenza di dubbi, tale nozione, è stata chiarita dalla giurisprudenza delle magistrature superiori e, in particolare, delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato.

In particolare, l'ambito della giurisdizione del TSAP, è stato individuato in relazione a tutti i provvedimenti aventi “incidenza diretta e immediata” di tali atti sul regime delle acque pubbliche, inteso come regolamentazione del loro decorso e della loro utilizzazione.

La V Sezione del Consiglio di Stato, ha, inoltre, specificamente chiarito che la giurisdizione del TSAP ha ad oggetto i provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare “la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.”

A ben vedere, dunque, restano, invece, sottratte alla giurisdizione del TSAP, tutte quelle controversie nelle quali i provvedimenti impugnati incidono sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via – come premesso – meramente strumentale ed indiretta.

Nello stesso senso, alla luce di quanto anticipato, è la giurisprudenza della Suprema Corte, che utilizza lo stesso criterio esegetico dell'immediata incidenza dell'atto sull'utilizzo delle acque.

Si consideri, a tal proposito, Cass, Sez. Un., 25 ottobre 2013, n. 24154, che ha ritenuto sussistente la giurisdizione del TSAP nel caso di impugnazione dell'atto di approvazione, da parte della P.A., con deliberazione contenente anche la dichiarazione di pubblica utilità ai fini ablatori, di un progetto per la realizzazione di un serbatoio di accumulo di acque pubbliche.

Alla luce di quanto mostrato, appare pacifico sottolineare che la giurisdizione del g.a. prevalga, su quella del TSAP, in quelle controversie concernenti atti “solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque pubbliche, in cui rileva esclusivamente l'interesse al rispetto delle norme di legge nelle procedure amministrative volte all'affidamento di concessioni o di appalti di opere relative a tali acque”. GMC

 



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Inserito in data 02/10/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2015, n. 4510

Sulla natura di una società affidataria in house del servizio pubblico

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si occupa degli indici che devono sussistere per stabilire la natura pubblica o privata di una società affidataria in house del servizio pubblico.

Alla luce di quanto disposto con tale sentenza, al fine di stabilire la natura pubblica o privata di una società –  affidataria in house del servizio pubblico svolto in precedenza dal Consorzio dei Comuni –  si deve aver riguardo al “regime giuridico che conforma l'attività degli organi societari, gli atti adottati e, per quel che qui più rileva nel caso di specie, il rapporto di impiego con i dipendenti”. Dunque, valutando preliminarmente tali indici, la società rientra nel genus delle società di diritto privato, come, peraltro, già pacificamente mostrato dal fatto che il rapporto d'impiego, intrattenuto col ricorrente de quo, non è soggetto alle regole di cui al d.lgs. 165 del 2001, bensì interamente assoggettato al diritto del lavoro privato.

Valutando quanto chiarito, ne consegue che è infondata la censura che lamenta “l'errata valutazione” della Commissione concernente un bando di concorso pubblico, per soli titoli, per la copertura del posto di segretario generale dell'autorità di bacino Regionale, che ha esattamente ascritto la società, presso la quale il ricorrente ha svolto l'attività lavorativa de qua, tra le strutture private di cui trattasi. GMC



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Inserito in data 01/10/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 29 settembre 2015, n. 2037

Trascrizione unioni same sex nei registri stato civile: giurisdizione e validità

La pronuncia dei Giudici lombardi è particolarmente significativa, giacchè interviene in un ambito, quale quello relativo ai profili di validità dei matrimoni tra soggetti omosessuali ed ai connessi risvolti in punto di riparto di giurisdizione, di estrema attualità.

Nel caso in esame, il Collegio è chiamato a valutare la legittimità di un Decreto prefettizio di annullamento della trascrizione – sui registri di stato civile – di un’unione contratta in Francia tra i ricorrenti, appartenenti allo stesso sesso, effettuata dal Sindaco del Comune italiano di residenza degli stessi.

La pronuncia si snoda in due parti, intervenendo riguardo ai profili di giurisdizione e, in seguito, sul merito.

In primo luogo il Collegio declina la giurisdizione amministrativa rispetto ai ricorrenti originari. Questi, infatti, in quanto persone fisiche, non possono veder degradati o compressi i propri diritti per il tramite di un provvedimento amministrativo – quale quello contestato.

Si ricorda, infatti, l’assoluta carenza di potere del Prefetto il quale non ha alcun potere di integrazione o rettifica in un ambito, invero, in cui il Legislatore riconosce potere di intervento esclusivo all’Autorità giurisdizionale ordinaria – unico Giudice naturale dei diritti.

Infatti, ricordano i Giudici, dall’esame dell’ordinamento dello stato civile – da considerare quale ordinamento settoriale, in sé completo (cfr. art. 2, commi 12 e 14, della legge n. 127 del 1997) – emerge che non è possibile effettuare annotazioni sugli atti già registrati se non per disposto legislativo o per ordine dell’autorità giudiziaria (art. 453 c.c.) e che, in seguito alla chiusura della registrazione, tramite la firma dell’ufficiale dello stato civile, non è possibile effettuare alcuna variazione di quanto registrato (art. 12, comma 6, del D.P.R. n. 396 del 2000).

Pertanto, l’atto prefettizio qui impugnato è stato emesso in assoluta carenza di potere e, richiamando il disposto di cui all’articolo 21-septies della legge n. 241 del 1990 che classifica come nullo tale tipo di atto, è conseguente ed immediata la devoluzione delle relative controversie al giudice ordinario (Cfr. Consiglio di Stato, VI, 27 gennaio 2012, n. 372; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 11 febbraio 2015, n. 142).

Quindi, rispetto ai ricorrenti iniziali il ricorso è dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del G.A. ed i Giudici dichiarano necessaria la prosecuzione dinanzi all’A.G.O. – ex articolo 11, 2’ co. C.p.A.

Il Collegio è di differente avviso, invece, in merito alla posizione giuridica paventata dall’Amministrazione comunale che, intervenuta con motivi aggiunti, contesta del pari l’atto prefettizio di annullamento della trascrizione.

Il Sindaco, infatti, nella qualità di Ufficiale di stato civile, è incaricato di provvedere alla corretta gestione dei registri e, come tale, esplica una potestà di tipo pubblicistica.

Così inquadrato, egli risponde del proprio operato rispetto ad altri soggetti pubblici e, in un contrasto di competenze quale quella oggi esaminata, non può che profilarsi la giurisdizione amministrativa,  in assenza della quale potrebbe configurarsi un vuoto di tutela contrastante con il disposto di cui all’art. 113 Cost. (Cfr. T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, I, 3 dicembre 2014, n. 860).

Pertanto, confermando in tal caso la giurisdizione originariamente adita, il Consesso lombardo interviene sul merito.

Esso accoglie la doglianza del Sindaco e dell’Ente tutto, atteso che in materia di stato delle persone non può ammettersi un intervento atipico dell’Autorità amministrativa, ma attribuire la sua definitiva conformazione solo ad un organo indipendente.

Tanto non ricorreva nel caso di specie e, pertanto, va annullato l’intervento prefettizio teso all’annullamento della trascrizione del matrimonio contratto dai ricorrenti. CC 


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Inserito in data 30/09/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 settembre 2015, n. 4582

Sull’inquadramento della nozione di controinteressato in materia edilizia

I Giudici di Palazzo Spada confermano la pronuncia resa dal Collegio di primo grado.

In particolare, intervenendo riguardo ad un’impugnazione di un annullamento in autotutela di permesso di costruire in sanatoria, essi ricordano e chiariscono la nozione di controinteressato, con particolare riguardo alla materia edilizia.

In primo luogo, il Collegio ricorda che la qualifica di controinteressato in senso processuale richiede un requisito formale, dato dall’indicazione del nominativo nel provvedimento amministrativo, ed un requisito sostanziale, costituito dalla“sussistenza di un interesse favorevole al mantenimento della situazione attuale definita dal provvedimento stesso”.

Entrando nel caso in oggetto e richiamando anche giurisprudenza pregressa, il Collegio ricorda che il vicino assume la veste di controinteressato quando – come nella vicenda all’esame - l'adozione del provvedimento sanzionatorio, recante comunque il nominativo del controinteressato, sia stata “non solo sollecitata da un esposto del vicino medesimo, ma anche preceduta da atto prodromico (comunicazione di avvio di procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 7 agosto 1990 n. 241) parimenti comunicante il nominativo del controinteressato predetto, dovendosi comunque distinguere tra la posizione di colui che è titolare di un generico interesse a mantenere efficace il provvedimento impugnato e la posizione di colui che dal provvedimento medesimo viceversa riceve un vantaggio diretto e immediato (nel caso di specie, il ripristino delle distanze d’obbligo tra il proprio edificio e quello dell’attuale appellante), con la conseguente individuazione della posizione obbligatoriamente inclusa nel contraddittorio sia procedimentale che processuale”. (Cons. Stato, sez. VI, n. 3553/2015, Cons. St., sez. VI, 29 maggio 2012, n. 3212)

Tanto non è accaduto nella vicenda odierna in cui il ricorrente, non avendo provveduto a notificare il proprio ricorso al vicino – autore dell’esposto a suo carico – ha inciso sulla relativa efficacia, procurandone l’inammissibilità - ex articolo 41, comma 2, del C.p.A.

Una simile posizione, già assunta dai Giudici territoriali, viene confermata in sede di gravame, ove si riconosce posizione di controinteressato al soggetto/vicino confinante, dietro il cui impulso si è avviato l’annullamento in autotutela da parte dell’Amministrazione interessata.

In considerazione di ciò, è respinto l’appello e confermata la pronuncia del Tar Lazio. CC

 

 



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Inserito in data 29/09/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 28 settembre 2015, n. 4512

Sull’esclusione dalle gare d’appalto per negligenza nei precedenti contratti

L’art. 38 del d.lgs. 163/2006 disciplina le cause di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, nonché di subappalti e dalla stipula dei relativi contratti prevedendo tra queste, alla lett. f), l’esclusione di quei soggetti che, “secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.

Sulla base del dettato normativo appena indicato è stato presentato ricorso avverso il provvedimento di affidamento in concessione del servizio di gestione dei parcheggi di proprietà comunale, nonché di pulizia delle spiagge e di salvamento dei bagnanti, adducendo come motivazione la mancata o erronea valutazione del comportamento dell’impresa mandataria nel precedente rapporto contrattuale (caratterizzato da una negligenza tale da comportare la risoluzione del contratto da parte dell’amministrazione).

In particolar modo, a parere dell’appellante, il contratto di affidamento prevedeva la responsabilità solidale del raggruppamento nei confronti dell’amministrazione concedente e non già, come ritenuto con la sentenza impugnata, la divisione dell’obbligazione e la responsabilità parziaria in capo a ciascuna delle società in cui si componeva il raggruppamento di tipo verticale.

Il Consiglio di Stato, peraltro, richiamando l’indirizzo giurisprudenziale formatosi sul significato ermeneutico dell’art. 38, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 163/2006 sopra citato, che rimette all’amministrazione la dichiarazione della sussistenza della suddetta causa ostativa a seguito di una  valutazione discrezionale del comportamento censurato, rileva come il sindacato di legittimità sulla scelta dell’amministrazione procedente debba mantenersi entro i margini della verifica della manifesta illogicità ed irrazionalità dell’opzione attinta (C.d.S. 5063/ 14).

Nel merito il Supremo Consesso ha dichiarato l’infondatezza del ricorso attesa l’assenza dei vizi sopra indicati facendo così proprie le osservazioni mosse dalla convenuta. Più precisamente, nel valutare i profili di responsabilità della contro interessata si deve tenere in debita considerazione la particolare struttura dell’ATI verticale e la conseguente <<dicotomia fra il regime di responsabilità gravante sulla mandataria, che è ad un tempo personale per le prestazioni proprie e solidale per assunte dalle imprese raggruppate, e la responsabilità invece incombente sulla impresa mandante, circoscritta all’esecuzione delle prestazioni assunte in proprio>> (C.d.S. 6614/12), nonché la natura della responsabilità di cui all’art. 38 citato.

La norma in questione, invero, <<non fa affatto riferimento alla nozione civilistica di responsabilità da inadempimento di cui all’art. 1218 c.c. […] dove l’affermazione della responsabilità civile per inadempimento dell’obbligazione è sganciata dal giudizio sulla (imputabilità a) colpa del debitore, che rileva nel solo ambito della valutazione della causa di esonero dalla responsabilità per impossibilità sopravvenuta della prestazione>>.

Di contro, invece, l’art. 38, comma 1, lett. f) <<incentra il compito demandato alla stazione appaltante nella valutazione “della grave negligenza o mala fede nell’esecuzione delle prestazioni affidate” all’impresa partecipante alla procedura di gara>> a prescindere  dall’inadempimento o  inesattezza della prestazione ex art. 1218 c.c. VA 

 



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Inserito in data 29/09/2015
CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 settembre 2015, n. 38914

Dissenso del paziente e scriminanti putative

La Suprema Corte,  con la sentenza in commento, ha confermato la responsabilità penale di un infermiere per aver costretto un paziente a subire l’applicazione di un catetere vescicale nonostante l’espresso dissenso da quest’ultimo manifestato.

Il Collegio, infatti, ha ritenuto che il comportamento censurato configuri una violazione dei principi sanciti dalla nostra Costituzione ed in particolare dall’art. 32 ai sensi del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge.

La norma in questione, tuttavia, deve essere correlata all’art. 33 della l. 833/78 che fa salvi i presupposti di necessità ed urgenza di cui all’art. 54 c.p..

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha affermato che nel caso di specie non possono trovare applicazione gli artt. 51 e 54 c.p., neppure a livello putativo. Con riferimento all’art. 54 c.p., l’imputato, infatti, aveva ancorato la ritenuta sussistenza del requisito della necessità esclusivamente ad un criterio soggettivo, senza alcun riferimento a fatti concreti che avrebbero potuto indurlo ad una erronea valutazione, la scriminante prevista dall’art. 51 c.p., invece, non potrebbe trovare applicazione in caso di un esplicito dissenso validamente espresso.

Il Collegio, pertanto, ha correttamente ritenuto che <<non potendo equipararsi la situazione dell'assenza di consenso al trattamento terapeutico al rifiuto espresso dal paziente, la presenza di quest'ultimo avrebbe dovuto far desistere l'imputato dall' apporre il catetere, sicché l'aver provveduto a tale trattamento, ricorrendo a violenza fisica (…), per vincere la resistenza della p.o., integra le ipotesi di reato all'imputato attribuite. VA

 




Inserito in data 28/09/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 24 settembre 2015, n. 4485

Il riparto di giurisdizione in materia di graduatorie ad esaurimento (GAE)

La sesta Sezione del Consiglio di Stato, in accoglimento dell’appello proposto, ha messo fine al conflitto di giurisdizione fra giudice amministrativo e giudice ordinario in materia di GAE.

Così facendo ha, inoltre, fornito un’interpretazione delle sentenze delle SS.UU. n. 3031/2011 e dell’Ad.Pl. n. 11/2011 che si erano pronunciate al riguardo e su cui si era basata la sentenza di primo grado.

In particolare, il Tar Lazio aveva ritenuto sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo solo con riferimento alla parte del ricorso in cui la ricorrente si doleva della legittimità della regolamentazione delle GAE (in particolare, del D.M. n.235/2014), mentre aveva ritenuto rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario la parte relativa all’accertamento del diritto al collocamento in graduatoria della ricorrente e alla possibilità di modificare le GAE.

Afferma il Collegio che il procedimento di adozione e pubblicazione delle GAE va colto nella sua unitarietà, costituita da fasi predeterminate e tra di esse connesse e articolate in funzione dell'emanazione di un provvedimento finale, fasi che si realizzano in successione di tempo, una dopo l'altra, come è avvenuto nella specie, laddove la conclusione si è realizzata con la pubblicazione della graduatoria definitiva avvenuta a seguito di una valutazione discrezionale dell' interesse legittimo in capo alla ricorrente all'inclusione nelle GAE”.

Dunque, confermando il proprio precedente orientamento, il C.d.S. precisa che, una volta dichiarata la illegittimità della regolamentazione della graduatoria, lo stesso giudice amministrativo avrà anche il potere di dichiarare l’illegittimità della GAE definitiva nella parte in cui non ha ricompreso la ricorrente e conseguentemente ammettere definitivamente la stessa nella suddetta graduatoria.

“In altri e conclusivi termini, la stretta correlazione tra le domande azionate non consente una ripartizione della potestas iudicandi tra il giudice ordinario e quello amministrativo, essendo concentrata dinanzi a quest’ultimo la tutela invocata da parte ricorrente”. SS

 



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Inserito in data 28/09/2015
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA - 25 settembre 2015, n. 618

Può una legge regionale prevedere la nullità dell’atto amministrativo?

Il C.G.A.R.S., in riforma della sentenza di primo grado che aveva dichiarato la nullità di un bando di gara per violazione dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 15/2008 in materia di tracciabilità dei flussi finanziari, si è pronunciato sulla questione riguardante la possibilità che una legge regionale sancisca la nullità dell’atto amministrativo.

La soluzione della questione dipende – dice il C.G.A. – da come venga interpretata la lettera l) dell’art. 117 della Costituzione nella parte in cui riserva al legislatore statale la materia “giustizia amministrativa”, se cioè essa si riferisca esclusivamente alle norme processuali o se essa presenti un significato più ampio che va oltre le norme processuali estendendosi a tutte quelle disposizioni che contribuiscono a delineare il complessivo livello di giustizia nel settore amministrativo”.

Seguendo la prima opzione – continua il Consiglio – si avrà che “le regioni sarebbero autorizzate non solo a dettare le norme sostanziali ma anche ad individuare il regime di validità dell’atto con evidenti riflessi sull’attività del giudice statale e con pregiudizio per lo standard unitario di tutela che ci deve essere nell’intero territorio nazionale”.

Ragionando diversamente, invece, “sarà escluso che le regioni nelle materie di loro competenza possano dettare, oltre alle norme sostanziali, anche quelle afferenti al regime di validità dell’atto amministrativo perché si realizzerebbe un’indebita invasione di campo”.

In totale riforma del proprio precedente orientamento nel quale aveva optato per la nullità del bando non conforme alla legge regionale e per la rilevabilità d’ufficio dell’invalidità disciplinata dagli artt. 21 septies l. 241/1990 e 31, comma 4, c.p.a ed in conformità all’accoglimento da parte della Consulta della q.l.c. da lui stesso formulata in ordine al citato art. 2 l.r. 15/2008, il Consiglio ha dichiarato, per un verso, la caducazione ex tunc della legge regionale, e, per altro verso, la riconducibilità della materia della tracciabilità dei flussi finanziari alla disciplina statale che non contempla la nullità del bando; conseguentemente ha affermato che il bando di gara non è nullo e nel caso di specie deve considerarsi pienamente valido. SS



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Inserito in data 25/09/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 23 settembre 2015, n. 4456

Basi normative e ratio dell’esigenza di determinatezza del contratto di avvalimento

I Giudici di Palazzo Spada ci ricordano che l’oggetto del contratto di avvalimento deve essere puntualmente individuato, indicando non solo il requisito prestato, bensì le specifiche risorse materiali (mezzi, personale…) e immateriali (prassi…) messe a disposizione da parte dell’impresa ausiliaria.

L’esigenza che l’oggetto del contratto de quo sia determinato o determinabile discende, innanzitutto, dal combinato disposto dell’art. 49 del Codice dei contratti pubblici e degli artt. 1346 e 1418 c.c.; sul piano teleologico, tale esigenza si ricollega al rilievo che l’avvalimento, traducendosi in una deroga al principio del possesso dei requisiti di partecipazione da parte del concorrente, altrimenti consentirebbe l’agevole aggiramento del sistema dei requisiti di partecipazione alle gare pubbliche. TM 

 



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Inserito in data 24/09/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA 21 settembre 2015, n. 4374

La giurisdizione del G.A. in tema di sostegno scolastico è piena? Rinvio ad AP

Con l’ordinanza in esame, il Collegio ha chiesto all’Adunanza Plenaria di “valutare se, in tema di sostegno scolastico, la giurisdizione del giudice amministrativo possa ritenersi piena, o, come avviene in linea di principio per altri settori (come quello dei contratti ad evidenza pubblica), limitata alla fase procedurale che si completa con la formazione del P.E.I., con devoluzione al giudice ordinario delle controversie riferite alla successiva fase esecutiva del Piano stesso”.

Invero, sul punto sono recentemente intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 25011/14), modificando il loro precedente costante indirizzo. Ad avviso delle Sezioni Unite, il riparto di giurisdizione andrebbe delineato attraverso il riferimento al Piano educativo individualizzato (P.E.I.), indicante il numero di ore di sostegno necessarie per il singolo allievo disabile: dopo la formazione del P.E.I., non residuerebbe alcun margine di apprezzamento discrezionale per l’Amministrazione - autorizzata ad assumere insegnanti di sostegno anche in deroga ai rapporti numerici prefissati -  con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.

Diversamente, per il Giudice rimettente, il giudice amministrativo dovrebbe conoscere non solo delle controversie precedenti all’adozione del P.E.I., ma anche di quelle susseguenti a tale momento. In tal senso si evidenzia come tutte le controversie in esame potrebbero rientrare nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 133, c. 1, c.p.a. (“controversie in materia di pubblici servizi […] relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo”). Secondariamente, si rammenta che da tempo la giurisprudenza (Cfr. Corte cost. 140/07) ammette la configurabilità di interessi legittimi anche in rapporto ad atti vincolati, ovvero la coesistenza di provvedimenti autoritativi e diritti soggettivi perfetti (nella specie, tra il provvedimento che determina la concreta erogazione del servizio e il diritto al sostegno scolastico del disabile contemplato nel P.E.I.). Inoltre, la Sesta Sezione sottolinea come le più frequenti censure investano la formazione e non l’esecuzione del piano, vale a dire profili rispetto ai quali il giudice amministrativo presenta una maggiore specializzazione. Da ultimo, il Collegio adduce i principi di semplificazione e concentrazione delle competenze giudiziarie in settori unitari, stante l’esistenza nella procedura in esame di una stretta interdipendenza tra momento valutativo e momento vincolato. TM 



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Inserito in data 23/09/2015
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 17 settembre 2015, n. 2816

Sulla proroga di un termine in materia di gare pubbliche

Il TAR Lecce, con la pronuncia de qua, interviene in merito al tema della proroga dei termini in materia di gare pubbliche.

I giudici di merito specificano, invero, che la proroga in questione possa essere accordata solamente “in pendenza” del termine stesso, e non già successivamente alla scadenza di quest'ultimo.

È bene specificare, infatti, che, per principio generale – valevole a fortiori in materia di pubbliche gare a tutela della par condicio dei concorrenti medesimi – la proroga di un termine, definito, altresì, “perentorio” dalla stessa lex specialis, può esser accordata, come premesso, solamente in pendenza del termine in parola.

Nel caso de quo, la Società in questione, a sostegno della impugnativa interposta, deduce, essenzialmente, “l'illegittimità della disposta proroga dei termini per la presentazione delle offerte, in quanto assunta a termine ormai scaduto (non essendo configurabile la proroga di un termine – peraltro perentorio, come previsto dal bando stesso – ormai spirato)”.

Oltre a ciò, e riprendendo quanto chiarito in tale sede dai giudici di merito, “lamenta, inoltre, comunque, la pretestuosità delle giustificazioni poste a base della (prima) proroga […]” e “deduce, infine, la violazione della par condicio, in quanto la predetta proroga consentirebbe ad imprese “terze” di presentare domanda oltre il termine perentorio fissato inizialmente dal bando”.

Alla luce della disposta “revoca”, il Collegio, come emerge dalla sentenza ivi trattata, dichiara tale ricorso improcedibile per cessazione della materia del contendere, pur non mancando di evidenziare (ai fini, come specificato, della “soccombenza virtuale”), la fondatezza delle censure proposte, in quanto: “1) per principio generale, la proroga di un termine può essere accordata soltanto in pendenza del termine stesso [...]”. GMC

 



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Inserito in data 22/09/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 settembre 2015, n. 4139

Inquadramento dipendenti già in servizio e principio della priorità concorso pubblico

Il Collegio della Quinta Sezione, censurando l’operato del TAR calabrese, conferma ancora una volta il principio del concorso pubblico quale mezzo ordinario di accesso al pubblico impiego.

Nel caso in esame, i Giudici intervengono riguardo ad un ricorso presentato da un dipendente dell’Amministrazione resistente il quale lamentava il proprio mancato inserimento nelle dotazioni organiche degli uffici regionali e postulava, frattanto, l’espletamento di regolare procedura concorsuale in vista di tale nuovo assetto.

A fronte della decisione di primo grado, con cui si statuiva la carente legittimazione del ricorrente e la necessità di procedere esclusivamente per mezzo di reclutamento interno, i Giudici di Palazzo Spada ne riconoscono, invece, la fondatezza.

Essi sostengono, infatti, richiamando giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ormai salda,  che il concorso pubblico costituisce la modalità ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi costituzioni di uguaglianza (art. 3) ed i canoni di imparzialità e di buon andamento (art. 97) e che pertanto i concorsi interni sono da considerare come eccezione al principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso. In tal senso anche la facoltà del Legislatore di introdurre deroghe al predetto principio deve essere delimitata in senso rigoroso, potendo tali deroghe considerarsi legittime soltanto allorquando siano funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ricorrano altresì peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle. (Cfr. Corte Costituzionale sentenze n. 227 del 2013, n. 90 e n. 62 del 2012, n. 310 e n. 299 del 2011) 

Pertanto, con maggiore attenzione al caso di specie, posta la carente motivazione dei Decreti dirigenziali con cui era stato disposto il ricorso ad una procedura interamente riservata per la copertura di posti vacanti, i Giudici del gravame ne statuiscono l’illegittimità.

Si tratta, infatti, di una deroga al principio del necessario concorso pubblico per l’accesso a posti di pubblico impiego che non è sorretta da alcuna ragione di pubblico interesse, né finalizzata ad un rafforzamento di nessuna organizzazione interna.

E’ prioritario, semmai, insistono i Giudici del gravame, conferire alla selezione per il tramite del concorso pubblico, “…un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non istaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo” (Cfr. Corte Cost. 12 aprile 2012, n. 90).

Ciò, insiste il Collegio, implica che la valutazione delle necessità eccezionali, tali da escludere il ricorso alle procedure ordinarie, può essere giustificata solo in collegamento con altre esigenze di pari rango costituzionale (come ha sottolineato Cons. St., sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3438).

Tanto non ricorre nel caso in esame, in cui non si è ravvisata motivazione alcuna, tale da sovvertire la priorità del concorso pubblico – valutato quale unico criterio selettivo, trasparente e meritocratico, tanto da estenderne l’applicazione anche nelle ipotesi di progressioni verticali – quale quella oggi in esame.

Le doglianze del candidato escluso, pertanto, vengono accolte e, per l’effetto, nel ricordare la priorità della selezione pubblica, si dispone la riforma della pronuncia di primo grado. CC



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Inserito in data 21/09/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 18 settembre 2015, n. 4352

Competenza a sanzionare pratiche commerciali scorrette, dopo il DLgs 21/14: rinvio ad AP

Com’è noto, l’Adunanza plenaria (sentenze nn. 11-16 2012) aveva individuato nel principio di specialità il criterio di riparto di competenza tra l’AGCM e le altre Autorità, in merito all’adozione di provvedimenti sanzionatori di pratiche commerciali scorrette. Segnatamente, la disciplina generale doveva trovare applicazione nei casi in cui quella speciale presentasse lacune di tutela e non fosse esaustiva, in modo da garantire un minimo essenziale di tutela; altrimenti, in base al principio di specialità, la disciplina generale (e la competenza dell’AGCM) avrebbe dovuto recedere rispetto ad una norma speciale che offrisse una maggior tutela.

Sul punto è intervenuto l’art. 1, c. 6, lett. a, D.lgs. n. 21/14, che ha aggiunto il comma 1bis all’art. 27 del Codice del consumo; la nuova disposizione prevede che “Anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze”.

Con l’ordinanza in esame, la Sesta sezione del Consiglio di Stato si interroga su come tale nuova disposizione abbia inciso sul riparto di competenza tra AGCM e le altre Autorità in tema di pratiche commerciali scorrette e, temendo l’insorgere di un contrasto giurisprudenziale sul punto, rimette all’Adunanza plenaria ex art. 99 CPA la soluzione dei seguenti quesiti:

a) “se l’articolo 27, comma 1-bis, del Codice del consumo, sia da interpretarsi come norma attributiva di una competenza esclusiva ad AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea (ritenute idonee a reprimere il comportamento sia con riguardo alla completezza ed esaustività della disciplina, sia con riguardo ai poteri sanzionatori, inibitori e conformativi attribuiti all’Autorità di regolazione)”;

b) “in caso affermativo, se la circostanza che lo jus superveniens abbia attribuito ad AGCM la competenza all’esercizio del potere sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette comporti il venir meno dell’interesse alla decisione in ordine alla censura di incompetenza – formulata con riguardo alla sanzione adottata da tale Autorità nel precedente regime - anche nell’ipotesi in cui la nuova norma abbia aggravato il procedimento di irrogazione della sanzione con la previsione della necessaria acquisizione del parere dell’Autorità di regolazione”. TM

 



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Inserito in data 07/08/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 agosto 2015, n. 3778

Sale pubbliche da gioco: incompetenza sindacale ed eccesso di potere

Una S.p.A., concessionaria del servizio di gestione telematica del gioco, mediante slot machines e video-lotterie, impugnava avanti al TAR Campania un’ordinanza, che, nel disciplinare gli orari degli esercizi commerciali e di pubblici esercizi, aggiungeva all’elenco gli orari di apertura e chiusura delle sale pubbliche da gioco e, con successivi motivi aggiunti, l’ordinanza del 24 marzo 2011, integrativa della precedente, nella parte in cui il Sindaco di Salerno aveva “ridisciplinato, in senso più restrittivo, gli orari di apertura delle sale pubbliche da gioco e di scommesse, aggiungendo anche l’ulteriore limite degli orari di utilizzo dei video-giochi e slot-machine, posti all’interno di altri esercizi commerciali e pubblici esercizi, prescindendo dagli orari di apertura di questi ultimi”.
La ricorrente assumeva l’illegittimità per incompetenza sindacale in subiecta materia per molteplici profili di violazione di legge e dell’art. 50, 7° comma del D.Lgs. n. 267/2000 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali) e per eccesso di potere.

Il T.A.R. Campania respingeva il ricorso, riconoscendo la sussistenza di una competenza sindacale in ordine all’adozione dei provvedimenti impugnati ai sensi dell’art. 50, comma 7, del D.lgs. n. 267/2000. L’appellante ha, dunque, proposto appello avverso la suddetta sentenza, deducendo la violazione della riserva di legge in materia dei giochi, l’inapplicabilità degli artt. 50, comma 7, e 54, comma 4, del D.Lgs. n. 267/2000 nella fattispecie in esame, l’incompetenza del Comune e la competenza del Questore ai sensi dell’art. 88 TULPS in ordine ad attività svolte con concessionarie statali, la violazione dello stesso artt. 50, comma 7, del D.Lgs. n. 267/2000 sotto l’ulteriore profilo della carenza degli indirizzi da parte del consiglio comunale e della Regione, nonché l’eccesso di potere per carenza di motivazione, di proporzionalità e disparità di trattamento.
L’appello è tuttavia infondato.
Prima di procedere alla disamina delle varie censure prospettate da parte appellante, è necessario – ad avviso dei giudici di Palazzo Spada - esaminare il quadro normativo delineato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 220/2014, intervenuto nelle more della definizione del presente giudizio, che si è pronunciato in ordine a tre ordinanze di rimessione del TAR per il Piemonte, con le quali, tra l’altro, era stata sollevata, in riferimento agli artt. 32 e 118 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 7, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, “nella parte in cui tale disposizione non prevede la competenza dei Comuni ad adottare provvedimenti per limitare l'uso degli apparecchi da gioco di cui al comma 6 dell'art. 110 del regio decreto 18 giugno 1931 n. 773 (TULPS), negli esercizi autorizzati ai sensi dell'art. 86 dello stesso R.D. n. 773/1931”.
Anzitutto, la Corte ha dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 50, comma 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, sollevata in riferimento agli artt. 32 e 118 della Costituzione, concernente la configurabilità o meno di un competenza in ordine all’adozione di provvedimenti da parte degli enti locali in materia di gioco e scommessa in base al suddetto art. 50, 7° comma.
Come ampiamente chiarito, “la Corte è pervenuta a tale pronuncia di inammissibilità non per escludere la sussistenza di tale potere in base al tenore letterale di tale statuizione normativa, ma rilevando invece la non adeguata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente e la mancata esplorazione di diverse, pur praticabili, soluzioni ermeneutiche”.
Differentemente dalla vicenda in esame, in cui l’ordinanza sindacale non è stata preceduta dall’adozione dei criteri con delibera consiliare, nelle ordinanze di rimessione del TAR Piemonte l’impugnazione concerneva non solo l’ordinanza sindacale, ma anche la delibera consiliare, adottate ai sensi dell'art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, della cui adozione le parti ricorrenti denegavano la competenza degli enti locali a limitare l'uso degli apparecchi da gioco di cui al comma 6 dell'art. 110 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, nonché la violazione della normativa in tema di liberalizzazione delle norme costituzionali in tema di riparto delle competenze legislative ex art. 117, secondo comma, lettera h, Cost. e degli stessi artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267 del 2000.
La Corte, a tal proposito, ha evidenziato l'evoluzione della giurisprudenza amministrativa, secondo cui “l'art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267/2000 è una statuizione di carattere generale, nel cui ambito non vi sono ragioni preclusive a ritenere rientrante anche il potere sindacale di determinazione degli orari delle sale da gioco o di accensione e spegnimento degli apparecchi durante l’orario di apertura degli esercizi, in cui i medesimi sono installati”.
Oltre a ciò, la Corte ha richiamato la giurisprudenza amministrativa (Cons. St. Sez. IV sentenza n. 2710/2012), secondo cui l'esercizio del potere di pianificazione non può essere inteso solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma deve essere ricostruito come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, che tenga conto sia delle potenzialità edificatorie dei suoli, sia di valori ambientali e paesaggistici, sia di esigenze di tutela della salute e quindi della vita salubre degli abitanti.
A fronte di un tale ampliamento di prospettiva, “non può disconoscersi quindi la sussistenza del potere sindacale in un ambito più limitato quale quello di cui alla controversia in esame, in cui oggetto del giudizio sono semplicemente gli orari di apertura delle sale da gioco o di accensione e spegnimento degli apparecchi durante l’orario di apertura degli esercizi, in cui i medesimi sono installati”. Alla luce di quanto chiarito, i Giudici sottolineano che “la riconosciuta sussistenza del potere sindacale di carattere generale ed ordinario ex art. 50, 7° comma, essendo di per sé esaustiva, rende irrilevante la dedotta inapplicabilità dell’art. 54 comma quattro del TUEL, invocata dalla società appellante, che va comunque condivisa, perché non si è in presenza di un’ordinanza contingibile ed urgente”. Né ha pregio, altresì, l’ulteriore profilo di censura, secondo cui “non sussisterebbe una competenza sindacale, trattandosi di materia di competenza statale e, nel caso specifico, del Questore ai sensi dell’art. 88 TULPS e dell’art. 2, comma 2 quater del D.L. n. 40/2010, convertito con L. n.73/2010”.

Oltre a quanto disposto, in ragione dell'esigenza di garantire un livello di tutela dei consumatori particolarmente elevato e di padroneggiare i rischi connessi a questo settore, la giurisprudenza europea ha ritenuto legittime restrizioni all'attività (anche contrattuale) di organizzazione e gestione dei giochi pubblici affidati in concessione, purché ispirate da motivi imperativi di interesse generale, quali sono certamente quelli evocati dall'art. 1, comma 77, della legge n. 220 del 2010 (contrasto della diffusione del gioco irregolare o illegale in Italia; tutela della sicurezza, dell'ordine pubblico e dei consumatori, specie minori d'età; lotta contro le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore), e a condizione che esse siano proporzionate (sentenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, 30 giugno 2011, in causa C-212/08).
La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato, inoltre, ha riconosciuto che il regime di liberalizzazione degli orari dei pubblici esercizi, applicabile indistintamente agli esercizi commerciali e a quelli di somministrazione, non preclude all'amministrazione comunale la possibilità di esercitare il proprio potere di inibizione delle attività, per comprovate esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica; con la precisazione, tuttavia, che ciò è consentito dal legislatore solo in caso di accertata lesione di interessi pubblici tassativamente individuati quali quelli richiamati dall’art. 31, comma 2, del decreto-legge n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011 (sicurezza, libertà, dignità umana, utilità sociale, salute).
Pertanto, “una lettura coordinata della giurisprudenza costituzionale ed amministrativa porta a disattendere le prospettate censure di violazione degli artt. 118 e 32 Cost., in ordine al quale parte appellante ha richiamato anche il D.L. n. 158/2012, convertito con L. n. n. 189/2012 a supporto della esclusiva competenza statale, invano invocato anche nel giudizio di costituzionalità, conclusosi con la suindicata decisione della Corte n. 220/2014, che non ha in alcun modo dato rilevanza a tale normativa per denegare la competenza sindacale in subiecta materia”.
Così pure vanno disattese le dedotte violazioni dell'art. 41 Cost. per lesione della libertà costituzionale di iniziativa economica ed imprenditoriale, ribadita ed ampliata anche con il D.L. n. 138/2011, convertito in L. n. 148/2011 e, sotto un diverso profilo, quelle in riferimento all’asserita competenza esclusiva statale in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). GMC

 



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Inserito in data 06/08/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 agosto 2015, n. 3867

Valutazione delle anomalie delle offerte e discrezionalità tecnica

Il Collegio ha respinto i motivi di appello  presentati avverso la sentenza confermativa della legittimità dell’aggiudicazione di un bando di gara.

Il Consesso, infatti, con riferimento alle capacità tecnico-finanziarie dell’aggiudicataria, e più precisamente all’asserita mancanza della seconda referenza bancaria prevista dal disciplinare di gara, ha ribadito la preminente rilevanza del raggiungimento dello scopo di un atto ritenendo sufficientemente dimostrata l’assenza di anomalie di cassa e la solidità finanziaria dell’impresa anche attraverso una <<lettura interpretativa autentica>> della richiesta presentata dall’aggiudicataria alla banca.

Parimenti infondato è stato considerato il secondo motivo inerente l’anomalia dell’offerta dovuta anche alla mancata contabilizzazione del canone di leasing.

La Pubblica Amministrazione, infatti, in materia di valutazione delle anomalie delle offerte gode di discrezionalità tecnica. Ne consegue l’insindacabilità della suddetta valutazione da parte del giudice amministrativo,<<salva la necessità di una motivazione rigorosa ed analitica, e salva la regola per cui in sede di presentazione delle giustificazioni l’offerta economica deve comunque rimanere immodificabile, mentre possono essere invece modificate e integrate le giustificazioni, sino a consentire compensazioni fra sovrastime e sottostime, sempre nel quadro di un’offerta complessivamente coerente ed affidabile al momento dell’aggiudicazione>>. VA

 



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Inserito in data 05/08/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 agosto 2015, n. 3854

Responsabilità extracontrattuale della PA e nesso di causalità

Ai fini dell’accertamento della sussistenza e della misura dell’obbligo risarcitorio ex art. 2043 cc occorre stabilire una relazione di causalità tra la condotta della PA ed il danno ingiusto. Occorre muovere dall’applicazione dei principi penalistici, di cui agli art. 40 e 41 cp, per cui un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).

Più precisamente, in conformità alla struttura bipolare dell’illecito extracontrattuale, bisogna accertare un duplice nesso causale: in primo luogo, quello tra condotta ed evento, nel senso di lesione di un interesse giuridicamente protetto (c.d. causalità materiale) e, in secondo luogo, quello tra evento e conseguenze dannose, sotto forma di pregiudizi (nel caso) di carattere patrimoniale (c.d. causalità giuridica). CDC

 



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Inserito in data 04/08/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 4 agosto 2015, n. 3485

Nel ricorso elettorale devono essere indicati in modo specifico i motivi, ma non le prove

In applicazione dei principi fissati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 20 novembre 2014, n.32), i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che l’onere di specifica indicazione dei motivi su cui si fonda il ricorso, previsto dall’art. 40, c. 1, lett. d), c.p.a., trova applicazione anche nelle impugnazioni elettorali; in tale contesto, il predetto onere s’intende osservato quando “l’atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le medesime”. Per contro, nei giudizi elettorali, sono consentiti temperamenti in ordine al diverso ed ulteriore onere concernente l’offerta di mezzi di prova a sostegno di censure comunque ritualmente introdotte nell’atto introduttivo del giudizio. TM 


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Inserito in data 03/08/2015
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 29 luglio 2015, n. 4099

Sul combinato disposto di cui agli artt. 79 D. Lgs. 163/06 e 120 c. 5 C.P.A. 

La questione posta all’esame del Collegio è quella, più volte esaminata in giurisprudenza, del combinato – disposto degli artt. 79 co. 2 lett. c) d.lgs. 163/06 (le stazioni appaltanti inoltre comunicano …ad ogni offerente che abbia presentato un'offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell'offerta selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato il contratto o delle parti dell'accordo quadro) e 120 co. 5 c.p.a. (per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti,dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto), “la cui compatibilità con le Direttive comunitarie e con il diritto di difesa in giudizio, garantito dalla Costituzione, è stata messa in discussione da vari tribunali amministrativi regionali nonché dal Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione aveva rimesso la questione all’Adunanza Plenaria” (sez. VI, ord. 11 febbraio 2013 n. 790).

È noto che “quest’ultima, con la sentenza 14/2013, ha ritenuto di non doversi pronunciare in attesa della decisione della Corte di giustizia CE, cui nel frattempo era stata rimessa la questione dal Tar Puglia- Bari, con ordinanza 427/2013”.

Sul punto, infatti, la Sez. V, 8 maggio 2014, causa C-161/13, ha precisato che “in base al diritto comunitario non può essere messo in discussione il diritto dell’offerente, al quale non è stato aggiudicato un appalto, di conoscere il risultato della procedura di aggiudicazione di tale appalto e dei motivi che ne sono alla base, e anche di chiedere informazioni dettagliate al riguardo” (art. 49, paragrafo 2, della direttiva 2004/17) (par. 34 sentenza).

Tuttavia (par. 35) “il principio della certezza del diritto impone che le informazioni così ottenute e quelle che si sarebbero potute ottenere non possano più servire come fondamento per la proposizione di un ricorso da parte dell’offerente dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale.”

Orbene, la Corte ha verificato “la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’art. 120 co. 5 c.p.a., che fa decorrere il termine di impugnazione dell’aggiudicazione dalla sua comunicazione, con riferimento a due fattispecie distinte”: la prima, quando l’amministrazione aggiudicatrice “abbia adottato, dopo la scadenza del termine di ricorso, una decisione che possa incidere sulla legittimità di tale decisione di aggiudicazione”; la seconda quando l’aggiudicazione sia inficiata da “circostanze precedenti la medesima decisione di aggiudicazione” ma conosciute in un momento successivo.

Invero, nel primo caso è consentito proporre un ricorso efficace “soltanto se i termini imposti dal diritto nazionale per proporlo comincino a decorrere dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni; pertanto, il termine per contestare l’aggiudicazione deve ricominciare a decorrere dal momento in cui il soggetto partecipante venga a conoscenza della nuova decisione afferente un elemento essenziale dell’aggiudicazione precedentemente intervenuta”.

Con riguardo alla seconda ipotesi (aggiudicazione inficiata da circostanze precedenti la decisione ma conosciute in un momento successivo), invece, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, avendo il diritto di chiedere e pretendere dalla stazione appaltante informazioni dettagliate sui contenuti della gara”.

Il diritto italiano, secondo la Corte, “è conforme, anzi, più completo di quello comunitario laddove prevede, all’art. 79 co. 5 e ss., un sistema informativo che impone, già all’atto della comunicazione della decisione, la trasmissione del provvedimento e della relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al co. 2 lett. c) della medesima disposizione (le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato il contratto), salve le ragioni ostative alla diffusione di informazioni riservate e salva la possibilità di assolvere all’onere motivazionale tramite la trasmissione dei verbali di gara o il richiamo all’aggiudicazione definitiva già comunicata ove l’oggetto della informativa sia la data dell’avvenuta stipula del contratto (art. 79, co. 5-bis)”.

Il comma 5-quater, poi, prevede “un accesso facilitato agli atti del procedimento, che deve essere garantito dall’ente aggiudicatore nei dieci giorni successivi la singola comunicazione”.

Ciò detto, si ritiene che la circostanza che l’Amministrazione non abbia consentito l’accesso facilitato “nulla toglie al dato oggettivo che la comunicazione dell’aggiudicazione vi sia stata, con allegato il decreto di aggiudicazione contenente i requisiti di legge”.

Tale comunicazione, anche per la Corte di Giustizia come per la giurisprudenza nazionale, “rappresenta dunque la condizione sufficiente per realizzare la piena conoscenza del provvedimento lesivo ed è idonea a far decorrere il termine decadenziale, a nulla rilevando che l’impresa concorrente ignori in tutto o in parte i documenti interni del procedimento, configurandosi a suo carico un onere di immediata impugnazione dell’esito della gara entro trenta giorni, salva la proposizione di motivi aggiunti in relazione ad eventuali vizi di legittimità divenuti conoscibili in un momento posteriore” (cfr., in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 27 gennaio 2015 n. 380; id., 24 aprile 2012 n. 2407; Id., sez. V, 1 settembre 2011 n. 4895).

D’altra parte, “diversamente opinando e attribuendo al successivo comportamento della stazione appaltante - in relazione al diritto di accesso – un ruolo troppo significativo, si rischierebbe l’utilizzo strumentale delle istanze di accesso al fine di procrastinare sine die il termine di impugnazione di ogni aggiudicazione”.

Sulla questione è, altresì, chiara la posizione assunta dal Consiglio di Stato che, da ultimo, con la sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, ha seguito il consolidato e maggioritario indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “poiché il procedimento di scelta del privato contraente si conclude con l’aggiudicazione, relativamente alla quale il termine per proporre l’impugnazione decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l’autorità emanante, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo), non può assumere alcun rilievo la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi, la quale semmai può giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ma non consente la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione in via principale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3298; id., sez. V, 2 aprile 1996, n. 381; id., 4 ottobre 1994, n. 1120; C.g.a.r.s., 20 aprile 1998, n. 261).

Non vi è dubbio, infatti, che l’art. 120 co. 5 c.p.a., letto in combinato disposto con l’art. 79 d.lgs. 163/06, presenti una evidente finalità acceleratoria, individuando “una presunzione legale di conoscenza alla data della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva e la concentrazione della successiva fase dell’accesso in tempi e modalità tali da assicurare il rispetto del consequenziale termine di decadenza sicchè il riferimento fatto dal comma 5 dell’art. 120 c.p.a. alla possibilità di impugnativa in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto deve intendersi come riferito esclusivamente all’ipotesi in cui gli avvisi di cui all’art. 79 siano stati omessi dalla stazione appaltante” (così ancora Cons. St., 143/2015, cit.). EF

 




Inserito in data 03/08/2015
TAR CAMPANIA-NAPOLI, SEZ. IV, 29 luglio 2015, n. 4099

Sul combinato disposto di cui agli artt. 79 D. Lgs. 163/06 e 120 c. 5 C.P.A. 

La questione posta all’esame del Collegio è quella, più volte esaminata in giurisprudenza, del combinato – disposto degli artt. 79 co. 2 lett. c) d.lgs. 163/06 (le stazioni appaltanti inoltre comunicano …ad ogni offerente che abbia presentato un'offerta selezionabile, le caratteristiche e i vantaggi dell'offerta selezionata e il nome dell'offerente cui è stato aggiudicato il contratto o delle parti dell'accordo quadro) e 120 co. 5 c.p.a. (per l'impugnazione degli atti di cui al presente articolo il ricorso, principale o incidentale e i motivi aggiunti, anche avverso atti diversi da quelli già impugnati, devono essere proposti nel termine di trenta giorni, decorrente, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti,dalla ricezione della comunicazione di cui all'articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, o, per i bandi e gli avvisi con cui si indice una gara, autonomamente lesivi, dalla pubblicazione di cui all'articolo 66, comma 8, dello stesso decreto; ovvero, in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto), “la cui compatibilità con le Direttive comunitarie e con il diritto di difesa in giudizio, garantito dalla Costituzione, è stata messa in discussione da vari tribunali amministrativi regionali nonché dal Consiglio di Stato, la cui Sesta Sezione aveva rimesso la questione all’Adunanza Plenaria” (sez. VI, ord. 11 febbraio 2013 n. 790).

È noto che “quest’ultima, con la sentenza 14/2013, ha ritenuto di non doversi pronunciare in attesa della decisione della Corte di giustizia CE, cui nel frattempo era stata rimessa la questione dal Tar Puglia- Bari, con ordinanza 427/2013”.

Sul punto, infatti, la Sez. V, 8 maggio 2014, causa C-161/13, ha precisato che “in base al diritto comunitario non può essere messo in discussione il diritto dell’offerente, al quale non è stato aggiudicato un appalto, di conoscere il risultato della procedura di aggiudicazione di tale appalto e dei motivi che ne sono alla base, e anche di chiedere informazioni dettagliate al riguardo” (art. 49, paragrafo 2, della direttiva 2004/17) (par. 34 sentenza).

Tuttavia (par. 35) “il principio della certezza del diritto impone che le informazioni così ottenute e quelle che si sarebbero potute ottenere non possano più servire come fondamento per la proposizione di un ricorso da parte dell’offerente dopo la scadenza del termine previsto dal diritto nazionale.”

Orbene, la Corte ha verificato “la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’art. 120 co. 5 c.p.a., che fa decorrere il termine di impugnazione dell’aggiudicazione dalla sua comunicazione, con riferimento a due fattispecie distinte”: la prima, quando l’amministrazione aggiudicatrice “abbia adottato, dopo la scadenza del termine di ricorso, una decisione che possa incidere sulla legittimità di tale decisione di aggiudicazione”; la seconda quando l’aggiudicazione sia inficiata da “circostanze precedenti la medesima decisione di aggiudicazione” ma conosciute in un momento successivo.

Invero, nel primo caso è consentito proporre un ricorso efficace “soltanto se i termini imposti dal diritto nazionale per proporlo comincino a decorrere dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni; pertanto, il termine per contestare l’aggiudicazione deve ricominciare a decorrere dal momento in cui il soggetto partecipante venga a conoscenza della nuova decisione afferente un elemento essenziale dell’aggiudicazione precedentemente intervenuta”.

Con riguardo alla seconda ipotesi (aggiudicazione inficiata da circostanze precedenti la decisione ma conosciute in un momento successivo), invece, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, avendo il diritto di chiedere e pretendere dalla stazione appaltante informazioni dettagliate sui contenuti della gara”.

Il diritto italiano, secondo la Corte, “è conforme, anzi, più completo di quello comunitario laddove prevede, all’art. 79 co. 5 e ss., un sistema informativo che impone, già all’atto della comunicazione della decisione, la trasmissione del provvedimento e della relativa motivazione contenente almeno gli elementi di cui al co. 2 lett. c) della medesima disposizione (le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato il contratto), salve le ragioni ostative alla diffusione di informazioni riservate e salva la possibilità di assolvere all’onere motivazionale tramite la trasmissione dei verbali di gara o il richiamo all’aggiudicazione definitiva già comunicata ove l’oggetto della informativa sia la data dell’avvenuta stipula del contratto (art. 79, co. 5-bis)”.

Il comma 5-quater, poi, prevede “un accesso facilitato agli atti del procedimento, che deve essere garantito dall’ente aggiudicatore nei dieci giorni successivi la singola comunicazione”.

Ciò detto, si ritiene che la circostanza che l’Amministrazione non abbia consentito l’accesso facilitato “nulla toglie al dato oggettivo che la comunicazione dell’aggiudicazione vi sia stata, con allegato il decreto di aggiudicazione contenente i requisiti di legge”.

Tale comunicazione, anche per la Corte di Giustizia come per la giurisprudenza nazionale, “rappresenta dunque la condizione sufficiente per realizzare la piena conoscenza del provvedimento lesivo ed è idonea a far decorrere il termine decadenziale, a nulla rilevando che l’impresa concorrente ignori in tutto o in parte i documenti interni del procedimento, configurandosi a suo carico un onere di immediata impugnazione dell’esito della gara entro trenta giorni, salva la proposizione di motivi aggiunti in relazione ad eventuali vizi di legittimità divenuti conoscibili in un momento posteriore” (cfr., in questo senso, Cons. Stato, sez. III, 27 gennaio 2015 n. 380; id., 24 aprile 2012 n. 2407; Id., sez. V, 1 settembre 2011 n. 4895).

D’altra parte, “diversamente opinando e attribuendo al successivo comportamento della stazione appaltante - in relazione al diritto di accesso – un ruolo troppo significativo, si rischierebbe l’utilizzo strumentale delle istanze di accesso al fine di procrastinare sine die il termine di impugnazione di ogni aggiudicazione”.

Sulla questione è, altresì, chiara la posizione assunta dal Consiglio di Stato che, da ultimo, con la sentenza 20 gennaio 2015 n. 143, ha seguito il consolidato e maggioritario indirizzo giurisprudenziale secondo cui, “poiché il procedimento di scelta del privato contraente si conclude con l’aggiudicazione, relativamente alla quale il termine per proporre l’impugnazione decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l’autorità emanante, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo), non può assumere alcun rilievo la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi, la quale semmai può giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ma non consente la riapertura dei termini per proporre l’impugnazione in via principale (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2004, n. 3298; id., sez. V, 2 aprile 1996, n. 381; id., 4 ottobre 1994, n. 1120; C.g.a.r.s., 20 aprile 1998, n. 261).

Non vi è dubbio, infatti, che l’art. 120 co. 5 c.p.a., letto in combinato disposto con l’art. 79 d.lgs. 163/06, presenti una evidente finalità acceleratoria, individuando “una presunzione legale di conoscenza alla data della comunicazione dell’aggiudicazione definitiva e la concentrazione della successiva fase dell’accesso in tempi e modalità tali da assicurare il rispetto del consequenziale termine di decadenza sicchè il riferimento fatto dal comma 5 dell’art. 120 c.p.a. alla possibilità di impugnativa in ogni altro caso, dalla conoscenza dell’atto deve intendersi come riferito esclusivamente all’ipotesi in cui gli avvisi di cui all’art. 79 siano stati omessi dalla stazione appaltante” (così ancora Cons. St., 143/2015, cit.). EF

 



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Inserito in data 30/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V - 30 luglio 2015, n. 3756

Il principio “chi inquina paga” impedisce di presumere la responsabilità del proprietario

Il Consiglio di Stato si sofferma su uno dei principi generali in materia di ambiente, il principio “chi inquina paga”, ora contenuto nell’art. 3-ter del Testo Unico dell’Ambiente.

Tale principio implica l’imputazione dei costi ambientali al soggetto che ha causato in tutto o in parte la compromissione ecologica, tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità.

In applicazione di tale principio, l’art. 244 del TUA impone di compiere le opportune indagini al fine di accertare il responsabile dell’evento di contaminazione ambientale in precedenza individuato.

Correlativamente, gli artt. 242 c.1, 244 c. 2 e l’allegato 4 del TUA stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti “responsabili dell’inquinamento”. Ne consegue che tali obblighi non gravano su altri possibili soggetti coinvolti o interessati dal fenomeno di inquinamento ambientale e, segnatamente, sul proprietario delle aree contaminate (salvo che quest’ultimo abbia a sua volta tenuto un comportamento colpevole, doloso o colposo).

Pertanto, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità, risulta necessario individuare il comportamento che ha generato la contaminazione e, di conseguenza, il responsabile dell’inquinamento; a tal fine occorre compiere una adeguata istruttoria, ricercando prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni. TM



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Inserito in data 29/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 28 LUGLIO 2015, n. 3743

Accesso alla documentazione relativa ad una procedura di amministrazione straordinaria

Costituiscono documentazione amministrativa, suscettibile di accesso, gli atti anche di natura privatistica, coinvolti in una procedura di amministrazione straordinaria, effettuata nell’interesse pubblico al sostegno delle imprese.

Inoltre, sussiste il diritto di accesso anche rispetto a documentazione archiviata, nella misura in cui concerne documenti anche non formati dalla PA, ma comunque dalla stessa stabilmente detenuti.

Il soggetto da ritenere investito dell’attività idonea a soddisfare la richiesta di accesso è da individuare nel Ministero dello sviluppo economico. Esso, infatti, svolge la funzione di vigilanza sulla procedura di amministrazione straordinaria, alla quale afferiscono i documenti oggetto di accesso. Del resto, il Ministero ha compiti istituzionali nel campo di tali procedure e quindi ha titolo a detenere o a costituire la detenzione della relativa documentazione o, comunque, a svolgere ogni azione idonea a reperirla per consentirne l’accesso. CDC

 



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Inserito in data 28/07/2015
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 23 luglio 2015, n. 185

La recidiva obbligatoria ex art. 99 c 5 cp viola gli artt. 3 e 27 Cost.

La Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la costituzionalità dell’art. 99, c.5, c.p. Quest’ultima disposizione prevede la recidiva c.d. obbligatoria, in quanto stabilisce un aumento di pena automatico al riscontro formale della precedente condanna e dell’essere il nuovo reato compreso nell’elenco dell’art. 407, c. 2, lett. A, c.p.p., senza che il giudice sia tenuto (o legittimato) ad accertare in concreto se, in rapporto ai precedenti, il nuovo episodio delittuoso sia indicativo di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo.

Ad avviso del Giudice delle Leggi, la disposizione impugnata è irragionevole (e, quindi, viola l’art. 3 Cost.), perché introduce un rigido automatismo sanzionatorio basato sul dato formale del titolo del nuovo reato commesso, sebbene: per un verso, altri elementi (es. natura e tempo di commissione dei precedenti reati) potrebbero rivelare la non particolare colpevolezza e pericolosità del recidivo ex art. 99, c.5, c.p.; per altro verso, l’elenco ex art. 407, c.2, lett. a, c.p.p. dei delitti che comportano l’obbligatorietà comprende reati eterogenei, collegati dal legislatore solo in funzione di esigenze processuali e in particolare del termine di durata massima delle indagini preliminari, e quindi inidonei ad esprimere un comune dato significativo ai fini dell’applicazione della recidiva.

Introducendo un rigido automatismo sanzionatorio, l’art. 99, c.5, c.p., viola anche l’art. 27, c. 3, Cost., poiché non assicura la proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra.

Infine, l’art. 99, c.5, c.p. contrasta con l’art. 27, c. 3, Cost., proprio perché l’applicazione obbligatoria della recidiva può rendere la pena sproporzionata per eccesso, e, dunque, tale da essere avvertita come ingiusta dal condannato e, di conseguenza, inidonea a svolgere la finalità rieducativa.

In conclusione, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità per violazione degli artt. 3 e 27, Cost., dell’art. 99, c. 5, c.p., come sostituito dalla L. 251/05, limitatamente alle parole “è obbligatorio e,”. Pertanto, dopo questo arresto giurisprudenziale, pure la recidiva ex art. 99, c.5, c.p. deve essere ricompresa nell’alveo delle recidive facoltative. TM

 



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Inserito in data 27/07/2015
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, 25 luglio 2015, n. 1272

Sulla valutazione discrezionale della stazione appaltante

Con la pronuncia in esame, il Collegio osserva, in primis, che “il giudizio comparativo operato nelle gare pubbliche d'appalto, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dall'opinabilità dell'esito della valutazione, sfugge al sindacato intrinseco del giudice, se non vengono in rilievo specifiche contestazioni circa la plausibilità dei criteri valutativi o circa la loro manifesta violazione, non essendo ammissibile che l'impresa ricorrente vi contrapponga le proprie valutazioni di parte sulla qualità dei rispettivi progetti tecnici” (T.A.R. Torino (Piemonte), sez. II 27/05/2015 n. 866).

In secondo luogo, i Giudici sostengono che “a mente dell’art. 38 lett. c) D.Lgs. n.163/2006, solo ed esclusivamente i reati di partecipazione ad un’organizzazione criminale, frode o riciclaggio, danno luogo all’esclusione senza alcuna valutazione discrezionale da parte della stazione appaltante in ordine alla gravità dei reati e in ordine alla incidenza sulla moralità professionale; negli altri casi la disposizione consente alla stazione appaltante l’esercizio del potere discrezionale volto a valutare i suddetti requisiti.

D’altronde, “per giurisprudenza consolidata, mentre la motivazione della stazione appaltante deve essere particolarmente approfondita nel caso in cui l’amministrazione si determini nel senso di escludere il concorrente non ravvisando il requisito di idoneità morale, nel caso contrario non è tenuta ad esplicitare in maniera analitica le ragioni per le quali non ritiene il precedente penale incisivo della moralità professionale (ex plurimis T.A.R. Milano, sez. III, 3.11.2014 n.2626)”.

In particolare, le “valutazioni in ordine alla gravità delle eventuali condanne riportate dai concorrenti e la loro incidenza sulla moralità professionale spettano esclusivamente all'Amministrazione appaltante, la quale, qualora non ritenga il precedente penale incisivo della moralità professionale, non è tenuta ad esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale” (T.A.R. Lombardia Milano, Sez. III, sent. 03/11/2014, n. 2626).

Inoltre, per quanto concerne la valutazione delle offerte, è pacifico che la Commissione può mostrare il proprio apprezzamento per una determinata offerta senza particolari esternazioni nei verbali essendo sufficiente una mera indicazione numerica, infatti: “In sostanza, è compito della commissione esaminatrice rendere percepibile l'iter logico seguito nell'attribuzione del punteggio: all'uopo non sono necessarie diffuse esternazioni verbali, bastando che siano segnalati gli elementi che concorrono ad integrare e chiarire la valenza del punteggio, attraverso l'esternazione delle ragioni dell'apprezzamento sinteticamente espresso con l'indicazione numerica (Consiglio di Stato, Sez. VI, 8 luglio 2009, n. 4384)” (T.A.R. Bari 3 maggio 2011 n. 678). EF

 



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Inserito in data 24/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 luglio 2015, n. 3652

L’attività tecnico-discrezionale non può dar luogo alla ponderazione di interessi

Alla funzione di tutela del paesaggio (nel caso esercitata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali attraverso un parere obbligatorio nell’ambito del procedimento di compatibilità ambientale) è estranea ogni forma di attenuazione della tutela paesaggistica determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi, ancorché pubblici. Tale attenuazione, infatti, condurrebbe illegittimamente e paradossalmente a dare minor tutela, malgrado l’intensità del valore paesaggistico del bene, quanto più intenso e forte sia o possa essere l’interesse pubblico alla trasformazione del territorio.

Il parere del MiBAC in ordine alla compatibilità paesaggistica non può che essere un atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica, dove l’intervento progettato va messo in relazione con i valori protetti ai fini della valutazione tecnica della compatibilità fra l’intervento medesimo e il tutelato interesse pubblico paesaggistico. Tale valutazione è istituzionalmente finalizzata ad evitare che sopravvengano alterazioni inaccettabili del preesistente valore protetto.

Ciò applica il principio fondamentale dell’art. 9 Cost, il quale fa eccezione a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. La norma costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione – e questo richiede, a opera della PA appositamente preposta, che si esprimano valutazioni tecnico-professionali e non già comparative di interessi, quand’anche pubblici e da altre amministrazioni stimabili di particolare importanza.

Perciò, in tal caso, le valutazioni di comparazione e ponderazione di interessi, proprie della discrezionalità amministrativa, restano del tutto estranee alla fattispecie e, ove di fatto introdotte, rendono l’atto viziato per eccesso di potere.

Infatti, la discrezionalità tecnica, a differenza di quella amministrativa, si concentra su un unico interesse (nel caso, quello paesaggistico), attraverso la verifica in fatto della sua configurazione e trasformazione nel caso concreto. Diversamente dalla discrezionalità amministrativa, la discrezionalità tecnica non può dar luogo ad alcuna forma di comparazione e valutazione eterogenea. In altre parole, l’interesse che va preso in considerazione è solo quello circa la tutela paesaggistica, il quale non può essere aprioristicamente sacrificato in considerazione di altri interessi pubblici la cui cura esula dalle attribuzioni del MiBAC. CDC

 



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Inserito in data 23/07/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 22 luglio 2015, n. 15350

Non è possibile risarcire il danno da perdita della vita

Con la sentenza in questione le Sezioni Unite hanno posto fine al contrasto giurisprudenziale innescato dalla sentenza delle S.U. 1361/14 che, con il proprio revirement, aveva ammesso la risarcibilità jure hereditatis del danno derivante dalla perdita della vita, verificatasi immediatamente dopo le lesioni riportate, ponendo in evidenza la diversità ontologica dei beni giuridici dell’integrità fisica e del bene della vita, e sancendo la preminenza di quest’ultimo e la conseguente irragionevolezza dell’esclusione del suo risarcimento.

La pronuncia in commento, tuttavia, si pone in linea con il precedente e costante indirizzo giurisprudenziale che ammetteva esclusivamente il <<riconoscimento, pro quota, dei diritti entrati nel patrimonio del de cuius, e quindi, nel caso di morte che si verifica immediatamente o a breve distanza di tempo dalla lesione (…) solo il risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute della vittima, ma non quello del diverso bene giuridico della vita, che, per il definitivo venir meno del soggetto, non entra nel suo patrimonio e può ricevere tutela solo in sede penale>>.

Non sono state rinvenute, infatti, argomentazioni in grado di superare quel principio secondo cui, nel sistema della responsabilità civile, riveste importanza primaria l’esigenza di riparazione del danno cagionato. Nel caso di morte immediata o a brevissima distanza, tuttavia, la lesione ha ad oggetto il bene della vita che, costituendo un bene autonomo, può essere goduto dal soggetto leso solo in natura e, pertanto, non è suscettibile di reintegrazione per equivalente.

Parimenti prive di ogni fondamento sono state considerate le critiche mosse a tale soluzione, facenti leva esclusivamente su principi di ordine morale (sulla base dei quali, come già accennato, sarebbe ingiusto ed irragionevole ammettere il risarcimento del danno da lesione dell’integrità psicofisica ed escluderlo, invece, per la più grave lesione del bene primario della vita).

La Suprema Corte, infatti, oltre a rilevare come la coscienza morale non possa costituire una base sufficiente alla creazione del diritto positivo, mette in evidenza l’assenza di un vuoto di tutela in quanto  si produrrebbero conseguenze diverse e ben più gravi nei confronti di quanti, con la propria condotta illecita, abbiano cagionato la perdita della vita, conseguenze che si esplicano sul piano penale. 

Il Supremo Consesso sottolinea, inoltre, l’assenza di una norma che prescriva il necessario accompagnamento della tutela risarcitoria a quella penale, e l’intento di locupletazione di quanti sostengano il contrario. VA 




Inserito in data 23/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 luglio 2015, n. 3594

Sulla revisione dei prezzi: finalità, natura imperativa e operatività

Con la pronuncia de qua, i giudici di Palazzo Spada intervengono in merito al tema della revisione dei prezzi.

Stando a quanto deciso “Il Collegio rileva, in primo luogo, che il contratto d’appalto in esame è stato stipulato sotto la vigenza della L. n. 537-93 il cui art. 6 comma 4, prevedeva che “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui al comma 6”.
La disposizione normativa, poi ripresa in maniera pressoché identica dall’art. 115 d.lgs. n. 163-2006, è pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa quale norma imperativa che, come tale, è destinata ad operare anche in assenza di specifica previsione tra le parti ovvero in presenza di previsioni contrastanti (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 22 ottobre 2012, n. 5395)”.
Viene chiarito che, in particolare, la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di precisare che il predetto art. 6 della L. n. 537-93 detta una disciplina speciale circa il riconoscimento della revisione dei prezzi nei contratti stipulati dalla P.A.
Poiché questa è una previsione che prevale su quella generale di cui all’art. 1664 c.c., attribuendo direttamente alle imprese il diritto alla revisione dei prezzi, essa ha natura imperativa e si impone, come contenuto integrativo ope legis, nelle pattuizioni private, modificando e sostituendo la volontà delle parti contrastante con la stessa, attraverso il meccanismo introdotto dall’art. 1339 c.c.
Oltre a ciò, si puntualizza che “La sua finalità primaria, infatti, è quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non possano col tempo subire una diminuzione qualitativa a causa della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte.
Ne consegue che le disposizioni negoziali contrastanti con tale disposizione legislativa non solo sono colpite dalla nullità ex art. 1419 cc, ma sostituite de iure, ex art. 1339 c.c., dalla disciplina imperativa di legge (cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. V, 28 agosto 2008, n. 3994 e 9 giugno 2008, n. 2786)”.
Ciò posto, secondo i giudici “si deve fin d’ora rilevare che la clausola di cui all’art. 7 del capitolato d’oneri per cui è causa si appalesa contra legem, con sua conseguente nullità e con la sua sostituzione de iure, ex art. 1339 c.c., con la disciplina imperativa prevista dalla legge”. GMC

 



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Inserito in data 22/07/2015
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - CASE OF E. O. AND OTHERS v. ITALY - SEZ. IV, SENTENZA 21 luglio 2015 - Cause nn. 18766/11 e 36030/11

Riconoscimento unioni gay, la CEDU condanna l'Italia

 Il vuoto normativo italiano è divenuto oramai inaccettabile.
Con la pronuncia de qua, la Corte europea dei diritti dell'uomo condanna lo Stato italiano alla introduzione del riconoscimento legale per le coppie dello stesso sesso.

I giudici di Strasburgo, invero, hanno condannato l'Italia per la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare di tre coppie omosessuali che, da vari anni, vivono una relazione stabile, prevedendo che lo Stato dovrà versare, a ognuno di questi, cinquemila euro per i danni morali patiti.

Nello specifico, la condanna concerne la violazione dell'art. 8 CEDU, ossia il diritto al rispetto per la vita privata e familiare.

La Corte, sul punto, precisa che le coppie omosessuali “hanno le stesse necessità di riconoscimento e di tutela della loro relazione al pari delle coppie eterosessuali. Per questo l'Italia e gli Stati firmatari della Cedu devono rispettare il loro diritto fondamentale ad ottenere forme di riconoscimento che sono sostanzialmente allineate con il matrimonio”, oltre a ciò, come premesso, si precisa che “l'Italia è l'unica democrazia occidentale a mancare a questo impegno ed è stata quindi condannata per violazione dell'art.8 della Convenzione”.

La Corte ha così deciso alla unanimità, ritenendo, altresì, che “la tutela legale attualmente disponibile” nel nostro Paese “per le coppie omosessuali non solo fallisce nel provvedere ai bisogni chiave di due persone impegnate in una relazione stabile, ma non è nemmeno sufficientemente affidabile”.

I giudici di Strasburgo, dunque, pur non imponendo dei vincoli sullo strumento da utilizzare a tal fine (non trattando, specificamente, di matrimonio), richiede di trovare, tuttavia, una forma istituzionalmente definita al fine di riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso, alla luce della considerazione secondo la quale in Italia, ancora, non esiste una legge sulle unioni civili. GMC



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Inserito in data 21/07/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 21 luglio 2015, n. 8

Attestazioni SOA prorogate ex DPR 207/10: verifica triennale solo per le categorie invariate

Con la sentenza  de qua, l’Adunanza Plenaria ha risolto due differenti quesiti interpretativi in ordine alla disciplina in tema di appalti pubblici.

Innanzitutto, il Supremo Consesso amministrativo è stato chiamato a stabilire se, nel regime transitorio dettato dall’art. 357 del D.P.R. n. 207/10 e, in particolare, rispetto ai bandi di gara pubblicati precedentemente alla data di entrata in vigore del predetto regolamento, sia comunque necessario, per usufruire della proroga dell’efficacia delle attestazioni SOA rilasciate secondo la previgente normativa di cui al D.P.R. n. 34/2000, il requisito della verifica triennale, come prescritta prima dall’art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000 e poi dall’art. 76 del d.P.R. n. 207/2010.

Dall’esame della normativa coinvolta, l’Adunanza Plenaria deduce che la risposta al primo quesito merita una soluzione differenziata, a seconda che si tratti della disciplina transitoria dettata per le categorie non variate o di quella prevista per le categorie variate ad opera del d.P.R. 207/2010.

Invero, quanto alle categorie invariate, la conferma di validità delle attestazioni in corso ai sensi dell’art. 357, c. 12, primo periodo, D.P.R. 207/10 (“le attestazioni rilasciate nella vigenza del decreto del Presidente della Repubblica n. 34 del 2000 nelle categorie non modificate dal presente regolamento hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse …” ) vale anche a configurare un’implicita, ma inequivoca, applicabilità dell’onere di verifica triennale, che medio tempore maturi, richiesto sia dalla normativa previgente (art. 15-bis del d.P.R. n. 34/2000), che dal nuovo regolamento (art. 77 del d.P.R. n. 207/2010).

Relativamente alle categorie modificate, la proroga legale della scadenza delle attestazioni SOA deve individuarsi invece nell’art. 357, c. 16, secondo periodo, D.P.R. 207/10 (“Per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del presente regolamento, ai fini della partecipazione alle gare riferite alle lavorazioni di cui alle categorie OG 10, OG 11, OS 7, OS 8, OS 12, OS 18, OS 20, OS 21, di cui all' allegato A del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34, e OS 2 individuata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34, e rilasciata ai sensi del D.M. 3 agosto 2000, n. 294 , come modificato dal D.M. 24 ottobre 2001, n. 420 , la dimostrazione del requisito relativo al possesso della categoria richiesta avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34 , purché in corso di validità alla data di entrata in vigore del presente regolamento anche per effetto della disposizione di cui al comma 13”).

Ad avviso del Collegio, questa disposizione deve essere interpretata nel senso che, per le categorie “variate” non sussiste, durante il regime di proroga, l'obbligo di verifica triennale, di cui agli artt. 15-bis del d.P.R. n. 34 del 2000 e 77 del d.P.R. n. 207 del 2010. TM

 



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Inserito in data 21/07/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 21 luglio 2015, n. 8

Nelle gare di appalto i requisiti devono essere posseduti senza soluzione di continuità

Con la sentenza  de qua, l’Adunanza Plenaria ha risolto due differenti quesiti interpretativi in ordine alla disciplina in tema di appalti pubblici.

Segnatamente, col secondo quesito, è stato domandato all’Adunanza Plenaria di stabilire “se il principio del possesso continuativo dei requisiti di qualificazione debba essere interpretato e declinato nel senso che anche una temporanea interruzione, nel corso della procedura, della titolarità delle attestazioni prescritte comporti necessariamente l’esclusione dell’impresa che l’ha temporaneamente perduta e anche se la possedeva nei momenti della presentazione della domanda, del controllo dei requisiti e dell’aggiudicazione

Ribadendo la costante giurisprudenza, pure della medesima Adunanza Plenaria (cfr. A.P. 7 aprile 2011, n. 4), espressione di evidenti esigenze di certezza e di funzionalità del sistema di qualificazione obbligatoria, il Collegio ha statuito che “nelle gare di appalto per l’aggiudicazione di contratti pubblici i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dai candidati non solo alla data di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla procedura di affidamento, ma anche per tutta la durata della procedura stessa fino all’aggiudicazione definitiva ed alla stipula del contratto, nonché per tutto il periodo dell’esecuzione dello stesso, senza soluzione di continuità”. TM

 



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Inserito in data 20/07/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 16 luglio 2015, n. 1708

Il diritto di accesso può indirizzarsi anche sugli atti di natura privatistica

Con la pronuncia in esame, il Collegio richiama il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in base al quale: “Ai sensi dell'art. 13, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2015, n. 2096).

Deve, inoltre, escludersi “che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17 marzo 2015, n. 1370).

In particolare, “il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10 febbraio 2015, n. 714).

Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22 comma 1 lett. b), l. 7 agosto 1990 n. 241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22 dicembre 2014, n. 6352).

Alla luce di quanto suddetto, deve ritenersi possibile l’ostensione “anche di atti di natura privatistica, perché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione”. EF

 



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Inserito in data 17/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2015, n. 3517

Sull'omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali

Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato interviene in materia di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali o “da rischio specifico” negli appalti di servizi o di forniture.

I giudici di Palazzo Spada chiariscono che “lamenta anzitutto l’appellante il mancato scorporo matematico, da parte dell’aggiudicataria, degli oneri per la sicurezza da rischio specifico in offerta, per vero non avvenuto, ancorché non consti un obbligo specifico nella lex specialis di gara.
Ora, non sfugge al Collegio che, per gli appalti pubblici diversi da quelli sui lavori pubblici, vige la norma dettata ad hoc dall’art. 131 del Dlg 163/2006, in virtù del quale la relativa quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del Dlg 9 aprile 2008 n. 81, predisposto dalla stazione appaltante, fermo sempre restando l’obbligo di verifica dell’adeguatezza degli oneri stessi per tutti i contratti pubblici in forza dell’art. 86, c. 3-bis del medesimo decreto n. 163 (cfr., p. es., Cons. St., V, 3 febbraio 2015 n. 512).
Ma per gli appalti di forniture e di servizi, nei cui riguardi vige una disciplina differente, il principio da questa desumibile è nel senso che, ove la lex specialis non commini espressamente la sanzione espulsiva, l’omessa indicazione nell’offerta dello scorporo matematico di detti oneri non comporta di per sé l’esclusione dalla gara (cfr., per tutti, Cons. St., V, 2 ottobre 2014 n. 4907; id. III, 15 maggio 2015 n. 2388). L’indicazione, o meno, degli oneri rileva sì, ma ai fini dell’eventuale anomalia del prezzo offerto, nel senso che il momento di valutazione dei suddetti oneri è non già eliso, bensì solo differito al sub-procedimento di verifica della congruità dell’offerta nel suo complesso.

La ragione va rinvenuta appunto nell’art. 87, c. 4 del Dlg 163/2006, laddove «… nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all’entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture…». Il dato testuale non conclude nel senso dell’obbligo d’uno scorporo matematico specifico a pena di esclusione in sede d’offerta, ché, invece, detti oneri sono elementi dell’offerta stessa che vanno specificati e verificati ai soli fini del giudizio d’anomalia.
La ratio del puntuale richiamo, nell’art. 87, c. 4, II per., circa la specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture si riferisce alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per essi rispetto a quelli per lavori, non già come obbligo delle imprese che vi partecipano (se non in termini di congruità complessiva delle rispettive offerte) e men che mai a pena d’esclusione, neanche implicita o in via d’eterointegrazione della lex specialis (arg. ex Cons. St., III, 24 giugno 2014 n. 3195, con ampi riferimenti a precedenti conformi; id., VI, 5 gennaio 2015 n. 18). È appena da soggiungere che l’eterointegrazione in tanto trova una giustificazione, in quanto occorra conformare il contenuto del programma di obbligazioni dedotte in un contratto ad esigenze imperative non disponibili dalle parti”.

Ebbene, la Sezione ha chiarito che l’eterointegrazione della lex specialis si ha solo con riguardo ed in presenza di norme imperative che già in sé rechino in modo rigoroso, evidente e predefinito l’elemento che si deve sostituire alla clausola difforme, e non quando alle parti spetti di definire in via autonoma il quantum del corrispettivo e dei relativi elementi. GMC

 



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Inserito in data 16/07/2015
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. III, 15 luglio 2015, n. 801

Le ordinanze sindacali non possono svolgere funzione sussidiaria

Il Tar Veneto ha annullato l’ordinanza sindacale con la quale era stato prescritto il divieto di dimora, anche occasionale, presso le strutture di accoglienza per quanto risultassero privi di  regolare documento di identità e certificato medico, nonchè l'obbligo, da parte dei suddetto soggetti, individuati nel corso di accertamenti da parte della Polizia Locale, di sottoporsi entro tre giorni a visite mediche presso le competenti ULSS fino all’adozione da parte del ministero della salute di specifici provvedimenti.

Il pericolo sanitario determinato dalla fuga degli immigrati dai centri di accoglienza, infatti, costituisce un’emergenza nazionale e non locale. Non sussisterebbe, pertanto, una situazione emergenziale richiedente l’intervento sindacale mediante provvedimenti contingibili e urgenti.

La sussistenza dei presupposti necessari all’emanazione dei suddetti provvedimenti, infatti, deve essere <<suffragata da una istruttoria adeguata e da una congrua motivazione, in ragione delle quali si giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi e la possibilità di derogare alla disciplina vigente, stante la configurazione residuale, quasi di chiusura, di tale tipologia provvedimentale >> (C.d.S. 3077/12) in quanto <<la contingibilità deve essere intesa come impossibilità di fronteggiare l’emergenza con i rimedi ordinari, in ragione dell’accidentalità, imprescindibilità ed eccezionalità della situazione verificatasi» e l’urgenza come «l’assoluta necessità di porre in essere un intervento non rinviabile (C.d.S. 926/94).

L’accertamento di tali presupposti, inoltre, deve involgere anche la limitazione territoriale necessaria alla diversificazione della posizione dei cittadini residenti in un dato comune, sì da giustificare l’adozione delle misure straordinarie previste dagli artt. 50 e 54 del d.lgs. 267/00, <<ciò in particolare quando difettino accurati ed efficaci controlli sanitari da parte delle altre autorità preposte, non risultando tuttavia sufficiente una sorta di funzione sussidiaria a legittimare l’adozione di provvedimenti del tipo di quello adottato>>. VA

 



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Inserito in data 15/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2015, n. 3513

Controversie in tema di diritto alla mobilità e riparto di giurisdizione

La controversia in tema di diritto alla mobilità, come quella relativa al diritto allo scorrimento di una graduatoria concorsuale, non attiene alla fase della procedura di concorso ovvero al controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'Amministrazione, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo, ma alla connessa fase successiva relativa agli atti di gestione del rapporto di lavoro, facendosi valere il "diritto all'assunzione" al di fuori dell'ambito della procedura concorsuale, donde la sussistenza della giurisdizione civile.

Ove invece l’eventuale riconoscimento del suddetto diritto sia consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di diverse procedure per la copertura dei posti resisi vacanti, la controversia ha in realtà ad oggetto diretto il controllo giudiziale sulla legittimità della scelta discrezionale operata dell'amministrazione, a fronte della quale la situazione giuridica privata dedotta in giudizio appartiene alla categoria degli interessi legittimi, la cui tutela è demandata al giudice amministrativo. CDC

 



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Inserito in data 14/07/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 14 luglio 2015, n. 7

Solleva qlc ex art 117 Cost dell’art. 50 L. 388/00 ove travolge i DPR divenuti inoppugnabili

Con l’ordinanza in esame, l’Adunanza Plenaria ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di costituzionalità dell’articolo 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo della legge 23 dicembre 2000, nl. 388 […], nella parte in cui tale norma, sancendo la portata retroattiva dell’abrogazione dell’articolo 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425, prevede che detta abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute mediante decisioni definitive su ricorsi straordinari”. In particolare, in forza della norma sospettata di incostituzionalità, risulterebbero travolte le decisioni del Capo dello Stato che avevano affermato l’obbligo per l’Amministrazione di determinare i trattamenti economici dei ricorrenti conformemente all’art. 4 c. 9 L. 425/84, ossia considerando il superiore trattamento spettante ai colleghi (magistrati) collocati in ruolo in posizione successiva ai ricorrenti medesimi.

I) Relativamente al contrasto con l’art. 117 Cost., l’Adunanza Plenaria si sofferma su tre questioni principali: 1) il rango delle norme Cedu; 2) il momento a partire dal quale la decisione del ricorso straordinario ha assunto rango di giudicato; 3) il rapporto tra norme interpretative e legittimo affidamento della parte vittoriosa nel giudicato.

1) A giudizio del Collegio, le norme della Convenzione EDU non sono assimilabili alle norme comunitarie self-executing ai fini della disapplicazione delle norme interne contrastanti con le stesse, ma assumono rilevanza nell’ordinamento italiano quali norme interposte ex art. 117, c.1, Cost.

Infatti, in primis, le norme CEDU non determinano alcuna limitazione della sovranità nazionale e, pertanto, non trovano fondamento nell’art. 11 Cost.

In secundis, L'art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, ha confermato il citato orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale. La disposizione costituzionale ora richiamata distingue infatti, in modo significativo, i vincoli derivanti dall'«ordinamento comunitario» da quelli riconducibili agli «obblighi internazionali».” “Si tratta di una differenza non soltanto terminologica, ma anche sostanziale”. Contrariamente ai Trattati comunitari, “La Convenzione EDU […] non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce, quindi, norme direttamente applicabili negli Stati contraenti”.

Inoltre, “Va ribadita anche l'esclusione delle norme CEDU, in quanto norme pattizie, dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost., in conformità alla costante giurisprudenza della Consulta”.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, neppure l’art. 6 del Trattato di Lisbona, nel prevedere l’adesione dell’UE alla Convezione CEDU, ha modificato la posizione delle norme CEDU nel sistema delle fonti.

Infine, il Supremo Consesso amministrativo puntualizza che le norme CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, sono soggette al controllo di legittimità costituzionale. “Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione […]. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali […] o dei principi supremi […], ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali.”

2) Ricostruito in modo puntuale l’iter normativo che ha portato a riconoscere natura sostanzialmente giurisdizionale al ricorso al Presidente della Repubblica, l’Adunanza Plenaria accede alla tesi secondo cui solo le decisioni su ricorsi straordinari emesse dopo la riforma del 2009 (che ha reso vincolante il parere del Consiglio di Stato) esibirebbero carattere giurisdizionale e, quindi, sarebbero dotate di una forza resistente all’intervento caducatorio del legislatore. “Si deve infatti convenire che non viene in rilievo una revisione interpretativo di portata retroattiva, ma una riforma sostanziale ontologicamente inidonea a incidere in senso modificativo sulla natura giuridica di decreti presidenziali adottati in un contesto normativo in cui la decisione, pur esibendo nel suo nucleo essenziale la connotazione di statuizione di carattere giustiziale, non poteva ancora considerarsi espressione di 'funzione giurisdizionale' nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1. A sostegno dell’assunto della portata non retroattiva della novella si pone, quindi, la decisiva considerazione che la valenza sostanzialmente giurisdizionale del decisum è ora fondata sulla riconduzione, già in astratto, della paternità esclusiva della decisione all’autorità giurisdizionale”.

3) Ciò premesso, il Collegio reputa non manifestamente infondata la q.l.c. sollevata per violazione dell’art. 117, c.1, Cost., in quanto l’art. 50 summenzionato “produce il travolgimento di una decisione alternativa di giustizia che, pur non avendo carattere schiettamente giurisdizionale, risolve in modo definitivo e inoppugnabile una controversia”; così disponendo, tale norma contrasta con gli orientamenti comunitari e della Corte EDU (artt. 6 e 13 CEDU) che tutelano il legittimo affidamento del ricorrente vittorioso in merito all’intangibilità dell’assetto di interessi sancito da una decisione favorevole “sostanzialmente” giurisdizionale e, conseguentemente, vietano l’emanazione di norme retroattive sfavorevoli che estendano l’applicabilità di una norma interpretativa a precedenti decisioni irrevocabili.

II) “La normativa in questione pone anche dubbi di compatibilità con gli articoli 3 e 97, Cost, in quanto, alla stregua delle coordinate interpretative tracciate dalla Consulta […], con la legge provvedimento non è possibile esercitare un potere, atipico rispetto al novero dei poteri amministrativi tipizzati, diretto a incidere in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili.

Più in generale la cancellazione degli effetti di singole decisioni ai danni dei ricorrenti vittoriosi rischia di arrecare un vulnus, non giustificato da idonee ragioni di interesse generale, al principio di eguaglianza e al canone di ragionevolezza”. TM

 



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Inserito in data 13/07/2015
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 10 luglio 2015, n. 1170

Sulla mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali

Per quanto attiene alla mancata indicazione nell’offerta economica della società aggiudicataria degli oneri della sicurezza “aziendali”, il Collegio non può che richiamare i principi affermati dalla Sezione in altre fattispecie analoghe, secondo cui “E' legittima l'aggiudicazione di una gara di appalto di lavori in favore di una impresa che non ha indicato specificamente, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza aziendale; infatti, il combinato-disposto degli artt. 86-comma 3-bis, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163 e 26 comma 6, d.lg. 9 aprile 2008 n. 81 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale ed in nessuna parte di tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell'offerta i costi per la sicurezza aziendale; invero, gli artt. 86 e 87, cit. d.lg. n. 163 del 2006 regolano la verifica dell'anomalia dell'offerta, con la conseguenza che è in quella sede che l'obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta” (T.A.R. Piemonte, sez. I 12 dicembre 2014 n. 2000).

Del resto, “Nell'ipotesi in cui la "lex specialis" nulla abbia specificato in ordine all'onere che certezza del diritto, di tutela dell'affidamento e del "favor partecipationis", i concorrenti che hanno presentato un'offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal bando e dall'allegato modulo d'offerta; legittimamente, pertanto, la stazione appaltante, in osservanza del suddetto principio del "favor partecipationis", ammette a partecipare alla procedura di evidenza pubblica la medesima ditta” (TAR Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013 n. 1254; T.A.R. Piemonte sez. I 21 dicembre 2012 n. 1376).

Tali principi sono stati, peraltro, ribaditi dal Consiglio di Stato, il quale ha avuto modo di affermare che “La mancata indicazione nel bando di gara pubblica del formale scorporo dei costi di sicurezza aziendali non può comportare ex se l'esclusione dalla gara, essendo rimandata alla fase di verifica della congruità dell'offerta la valutazione dell'idoneità della stessa a soddisfare anche gli oneri connessi alla salvaguardia delle condizioni di sicurezza del lavoro” (Cons. Stato, sez. III, 13 maggio 2015 n. 2388; Cons. Stato, sez. V, 23 febbraio 2015 n. 884).

Deve, infine, rammentarsi che il “diverso principio affermato dall’Adunanza Plenaria dello stesso Consiglio di Stato con sentenza 20 marzo 2015, n. 3 non è pertinente alla fattispecie in esame perché relativo ad appalto di lavori”. EF

 



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Inserito in data 11/07/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 luglio 2015, n. 139

In caso di contestazione tardiva di un’aggravante si può chiedere l’abbreviato

La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità ex artt. 3 e 24 Cost. dell’art. 517 c.p.p., nella parte in cui non riconosce all’imputato la facoltà di richiedere al giudice del dibattimento il rito abbreviato nel caso di contestazione “tardiva” (ossia che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale e non immediatamente contestata per un errore del p.m.) di una circostanza aggravante, rispetto al reato cui questa si riferisce.

In tale ipotesi, “infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento”.

“Emergono, inoltre, non giustificabili sperequazioni di trattamento rispetto all’assetto complessivo della materia, conseguente ai precedenti interventi di questa Corte: da un lato, nel confronto con la facoltà, di cui l’imputato fruisce a seguito della sentenza n. 333 del 2009, di richiedere il giudizio abbreviato nel caso – non dissimile – di contestazione “tardiva” del fatto diverso; dall’altro, nel confronto con la possibilità, di cui l’imputato beneficia in forza della sentenza n. 184 del 2014, di accedere al “patteggiamento” nella medesima ipotesi della contestazione “tardiva” di una circostanza aggravante”. TM


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Inserito in data 10/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 luglio 2015, n. 3485

Il commissario ad acta non adempie al mandato? Nuovo ricorso al giudice dell’ottemperanza

La pronuncia segnalata desta interesse per l’interpretazione estensiva che fornisce dell’art. 114, comma 6, primo periodo, c.p.a., a mente del quale, “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta”.
Segnatamente, ad avviso della Terza Sezione del Consiglio di Stato, “Nella accezione più ampia e generale definita da questa norma, il compito del giudice dell’ottemperanza è quello di salvaguardare l’attuazione del giudicato tra le parti anche nei confronti del Commissario, qualora avvenga che egli se ne discosti, non giunga a decisioni conclusive e non sia riuscito a distanza di tempo a completare il suo mandato”. TM

 



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Inserito in data 09/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 luglio 2015, n. 3433

L’interesse a ricorrere per contestare la destinazione urbanistica di aree altrui

Nell’accertare la complessiva legittimità delle scelte pianificatorie dell’Amministrazione comunale, il Consiglio di Stato si sofferma, tra l’altro, sulla questione dell’interesse all’impugnazione degli atti di pianificazione urbanistica da parte del ricorrente che contesti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di sua proprietà.

In tale ipotesi, infatti, il consolidato orientamento del Consiglio di Stato reputa non sufficiente il criterio della vicinitas al fine di integrare il requisito dell’interesse al ricorso, esigendo invece che il ricorrente fornisca “un’adeguata dimostrazione circa i danni patrimoniali subiti e, in generale, circa il deterioramento delle condizioni di vita generati dalla nuova destinazione urbanistica assegnata ad un’area viciniore rispetto a quella di sua proprietà”.

In tal modo viene esclusa l’ammissibilità di ricorsi strumentali o con finalità meramente ostruzionistiche e dilatorie, agevolando la speditezza dell’azione di pianificazione urbanistica dell’Amministrazione”. TM



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Inserito in data 08/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 luglio 2015, n. 3415

Rientra nella giurisdizione del GO l’atto di esclusione dalle graduatorie degli insegnanti

Con la sentenza in commento, i Giudici di Palazzo Spada si allineano all’orientamento, già consolidato presso le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui le controversie concernenti la collocazione degli insegnanti nelle graduatorie (permanenti o ad esaurimento) per l’assegnazione degli incarichi di insegnamento rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

Inoltre, respingendo la tesi dell’appellante, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato precisa che tali considerazioni riguardano “non solo gli atti che determinano i punteggi e la conseguente collocazione all’interno della graduatoria, ma anche gli atti volti a verificare la sussistenza dei requisiti per l’inserimento nella graduatoria medesima”.

“In entrambi i casi, l’aspirante candidato fa valere un diritto soggettivo (o, comunque, una situazione di natura privatistica) che si sostanzia nella pretesa di essere inserito in graduatoria e di essere esattamente collocato al suo interno”.

“Del resto, la verifica dei requisiti per l’inserimento non richiede alcun esercizio di discrezionalità amministrativa, trattandosi al contrario di attività vincolata alla sussistenza dei presupposti di legge, rispetto alla cui verifica possono venire eventualmente in considerazione giudizi tecnico-valutativi, ma non scelte di opportunità amministrativa o, comunque, atti di esercizio di discrezionalità amministrativa”.

“Né rileva l’eventuale natura amministrativa del decreto ministeriale che prevede le modalità di inserimento nella graduatoria […]. Il decreto ministeriale viene in rilievo in via incidentale, ma non è la causa diretta della lesione lamentata. Di esso il giudice ordinario può occuparsi, incidenter tantum, nel valutare la legittimità dell’atto privatistico esclusione, esercitando il potere di disapplicazione”. TM 


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Inserito in data 07/07/2015
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. II, 6 luglio 2015, n. 637

Carattere eccezionale della normativa relativa all’affidamento diretto

Il Tribunale di merito di Bologna, chiamato ad annullare l’affidamento diretto ad una cooperativa sociale di alcuni servizi da parte della stazione appaltante, costituita da una società a totale partecipazione pubblica (in specie partecipata da una pluralità di comuni) ha accolto il ricorso  presentato da un’impresa operante nei settori oggetto degli affidamenti diretti.

Invero, sebbene l’art. 5 l. 381/91 preveda la possibilità per gli enti pubblici, anche economici, e per le società di capitali a partecipazione pubblica di derogare alla disciplina prevista per i contratti della pubblica amministrazione <<stipulando convenzioni con le cooperative che svolgono attività agricole, industriali, commerciali o di servizi per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli sociosanitari ed educativi il cui importo stimato al netto dell'IVA sia inferiore agli importi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di appalti pubblici, purché tali convenzioni siano finalizzate a creare opportunità di lavoro per le persone svantaggiate>> la normativa, nella parte in cui prescrive che debba trattarsi di appalti di fornitura e servizi, implica che le prestazioni siano rivolte all’Amministrazione <<per soddisfare una sua specifica esigenza al fine di ottenere, quale corrispettivo, il pagamento di una determinata somma e non fa riferimento all’affidamento di servizi pubblici locali quale quello in esame>>.

Nel caso di specie, tuttavia, le prestazioni oggetto dell’affidamento rientravano nella categoria dei servizi pubblici locali, trattandosi di servizi di <<spazzamento manuale, svuotamento dei cestini, raccolta domiciliare di rifiuti ingombranti, pulizia a chiamata, raccolta di sporte di rifiuti abbandonati ed altri simili>> e, pertanto, di prestazioni svolte direttamente a favore dei cittadini (v. C.d.S. 911/13).

Ne consegue che, dato il carattere eccezionale della normativa relativa all’affidamento diretto, che deroga ai principi generali della concorrenza ed alla relativa disciplina delle gare ad evidenza pubblica, dovendosi procedere ad una sua interpretazione restrittiva , non era possibile estenderne la portata applicativa al di là dei contratti specificamente indicati (C.d.S. 2829/10 e 2342/13). VA

 



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Inserito in data 06/07/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 luglio 2015, n. 6

Sull’applicazione retroattiva del termine decadenziale ex art. 30 comma 3 c.p.a.

L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a risolvere il contrasto interpretativo in merito all’applicabilità del termine decadenziale previsto dall’articolo 30 comma 3 c.p.a., ai sensi del quale <<la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo>>, anche agli illeciti consumati anteriormente all’entrata in vigore della suddetta normativa.

Da tempo, infatti, si contrapponevano sul punto due diversi orientamenti: il primo, maggioritario, contrario all’applicabilità retroattiva del termine in questione, il quale faceva leva sull’effetto limitativo del diritto di azione; il secondo che, di contro, richiamando il principio processuale del “tempus regit actum”, abbracciava la conclusione opposta.

Il Collegio, avallando il primo degli orientamenti sopra esposti, ha affermato che << Il termine decadenziale di centoventi giorni previsto, per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi, dall’articolo 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore del codice>>.

La determinazione dell’Adunanza Plenaria si fonda sulla portata innovativa del termine decadenziale rispetto al regime prescrizionale quinquennale operante in precedenza (art. 2947 c.c.) avendo l’introduzione normativa comportato una forte compressione del potere di azione nei confronti della Pubblica Amministrazione da parte dei soggetti danneggiati dal suo comportamento illecito e la conseguente anticipazione dell’estinzione della pretesa risarcitoria.

Sulla base di queste considerazioni il Collegio ha ritenuto che <<i principi generali stabiliti dalle preleggi, in materia di efficacia delle leggi nel tempo (art. 11) e di portata applicativa di norme eccezionali (articolo 14), impediscono, in assenza di una prescrizione esplicita in tal senso, l’applicazione retroattiva di una reformatio in peius a fattispecie sostanziali anteriori, senza che assuma rilievo l’epoca della proposizione del ricorso>>.

Nell’ipotesi in questione, infatti, il termine decadenziale avrebbe natura mista e non già prettamente processualistica non potendosi, pertanto, applicare il principio del tempus regit actum.

Argomentando in senso contrario, inoltre, verrebbero lese le aspettative di tutela ed il legittimo affidamento del danneggiato che ha orientato il proprio comportamento sulla base della normativa vigente all’epoca dei fatti con conseguente violazione del principio di effettività della tutela sancito a livello costituzionale, comunitario ed europeo.

La soluzione adottata dall’Adunanza Plenaria, inoltre, appare corroborata dell’articolo 2 dell’Allegato 3 al Codice, secondo cui <<per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti>>. VA

 



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Inserito in data 03/07/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 luglio 2015, n. 3290

Revoca autorizzazione SOA e violazione dei requisiti di autonomia ed indipendenza

Il Supremo Consesso ha confermato la legittimità del provvedimento di revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di attestazione emesso dall’Autorità Nazionale Anticorruzione in  applicazione dell’art. 73, comma 4 del d.P.R. 207/10 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Nel caso di specie la revoca era avvenuta a seguito di un accertamento per mezzo del quale era stato possibile dimostrare che i fondi utilizzati per il ripianamento delle perdite sociali provenivano da soggetti estranei alla compagine sociale, con conseguente violazione dei principi di cui agli artt. 7,8 3 12 del d.P.R. 34/2000 attinenti i caratteri di indipendenza ed assenza di interessi, nonché di trasparenza e corretta gestione, (oggi confluiti negli artt. 64, 66 e 70 del d.P.R. n. 207 del 2010).

Più precisamente i fondi utilizzati dalla società appellante provenivano da conti intestati ai familiari di due soci.

Il Collegio, tuttavia, ha precisato che <<la circostanza che il finanziatore esterno sia un familiare delle azioniste non pregiudica la correttezza delle conclusioni cui è giunta l’Autorità>>, invero, <<ciò che giustifica il provvedimento di revoca adottato dall’Autorità non è tanto la impossibilità di identificare il finanziatore o l’esistenza, in quanto tale, di un finanziamento. La revoca trova il suo fondamento nel venir meno dei requisiti di indipendenza della SOA come conseguenza dell’accertata carenza in capo ai suoi azioni dei necessari requisiti di capacità patrimoniale e reddituale>>.

Inoltre, sebbene i Giudici di Palazzo Spada abbiano precisato che non ogni forma di finanziamento esterno possa essere considerata, di per sé, un sintomo dell’insufficienza della capacità patrimoniale della società, la vicenda oggetto della controversia presentava ulteriori e peculiari indici della suddetta carenza: in particolare veniva fatto riferimento all’assenza di una capacità reddituale autonoma di uno dei due soci e all’ammontare del credito il quale aveva consentito l’integrale ripianamento delle perdite sociali.

Alla luce di quanto detto il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso presentato dalla società ed ha confermato il provvedimento di revoca.  VA

 



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Inserito in data 02/07/2015
TAR PIEMONTE-TORINO, SEZ. II, 1 luglio 2015, n. 1114

Tutela del terzo alla luce delle modifiche in materia di s.c.i.a. e d.i.a.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 15 del 2011, si era espressa in merito alla natura della denuncia di inizio attività ed agli strumenti di tutela del terzo che si ritenga leso dal relativo intervento edilizio.

Con la suddetta pronuncia l’Adunanza Plenaria limitava temporalmente il potere di controllo della pubblica amministrazione. Il mancato esercizio del potere inibitorio, infatti, implicava la fine del procedimento amministrativo (in quanto si sarebbe formato un silenzio significativo a contenuto negativo).

Data l’esistenza di un provvedimento amministrativo, seppur tacito, la tutela del terzo si sarebbe dovuta esplicare attraverso l’azione di annullamento e la conseguente condanna dell’amministrazione ad esercitare i poteri inibitori.

Il Tar Piemonte, con la sentenza in commento, si è interrogato sull’attualità delle statuizioni sopra esposte alla luce delle modifiche introdotte, nel corpo dell’art. 19 L. 241/90, prima dai DD.LD. 70/2011 e 138/2011, e poi dal D.L. 133/2014.

Invero, uno dei presupposti logici sui quali si regge la suddetta pronuncia è costituito dalla affermazione secondo la quale <<il decorso del termine assegnato dalla legge alla Amministrazione per esercitare il potere di inibire l’intervento oggetto di d.i.a. consuma il potere stesso e perciò conclude, ipso facto, il procedimento […] venendo meno il potere della Amministrazione di determinarsi sia pure tardivamente - il silenzio mantenuto dalla Amministrazione a seguito della presentazione di una d.i.a. non può essere qualificato come silenzio-inadempimento, poiché tale istituto presuppone la sopravvivenza del potere della Pubblica Amministrazione di provvedere>>.

L’art. 19 della L. 241/90, infatti, prima dell’intervento della riforma, prevedeva il termine di 60 giorni dal ricevimento della S.C.I.A. per l’esercizio da parte dell’Amministrazione del poter di adottare  provvedimenti motivati di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi della stessa, salva la possibilità per l’interessato di conformare la propria attività alla normativa vigente ed il potere della Amministrazione di adottare determinazioni in via di autotutela ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della L. 241/90.

La norma in questione, inoltre, prevedeva che, decorso il predetto termine, l’Amministrazione potesse intervenire solo in  particolari ipotesi quali la presenza di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l’ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e comunque previo motivato accertamento della impossibilità di tutelare tali interessi mediante conformazione dell’attività dei privati alla normativa vigente.

Con il D.L. 70/2011 nel corpo dell’art. 19 è stato introdotto il comma 6 bis il quale ha ridotto il termine di 60 giorni a 30 giorni, facendo salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 4 ed al comma 6 e le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità ed alle sanzioni previste con d.p.r. 380/11.

Il successivo D.L. 138/2011 ha modificato l’art. 19 comma 4 al fine di coordinarlo con il termine ridotto di trenta giorni nelle S.c.i.a. in materia edilizia. Lo stesso, inoltre, ha introdotto il comma 6 ter, con il quale ha stabilito che “La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio di verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31 commi 1 e 2 del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104”.

Già in passato i Tribunali amministrativi hanno affermato che il decorso del termini di cui ai commi 3 e 6-bis dell’art. 19, sì come modificato dalle riforme del 2011 non consuma il potere amministrativo (si veda in tal senso la sentenza 4799/14 del TAR Milano la quale afferma che se “E’ ben vero che, secondo l’orientamento recentemente espresso dalla giurisprudenza e condiviso dal collegio, il consolidarsi della d.i.a. determina - di regola – l’impossibilità per il Comune di intervenire oltre il termine, se non esercitando i propri poteri di autotutela (…) Tale regola, tuttavia, contempla almeno due eccezioni, stabilite dallo stesso legislatore. (…) ai sensi dell’art. 19, comma 4, della legge n. 241 del 1990, “(…) In secondo luogo, l’intervento inibitorio è doveroso laddove la presenza dei presupposti della d.i.a. sia denunciata dal terzo, titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, ai sensi del richiamato comma 6-ter del medesimo articolo 19”.

Sebbene, infatti, le modifiche apportate all’art. 19 della L. 241/90 sono ispirate da un intento di liberalizzazione e semplificazione di alcune attività, dove assume un’importanza centrale la tutela dell’affidamento del privato sulla legittimità della propria attività, queste devono confrontarsi con altri interessi meritevoli di tutela.

Il mancato richiamo ad un termine per l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo, dunque, deve essere interpretato come tacita volontà del legislatore di non circoscriverlo entro un determinato lasso temporale.

Ne consegue che <<Nella misura in cui il terzo può, ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 L. 241/90, sollecitare senza limiti di tempo le Amministrazioni queste possono (…) esercitare i poteri inibitori, o comunque assumere determinazioni coerenti con la rilevata illegittimità di una S.c.i.a. o di una D.i.a. e della attività intrapresa sulla base di essa, e ciò parimenti senza limiti di tempo. E questo significa, più in generale, che con il D.L. 138/2011 il legislatore è andato chiaramente (…) disconoscendo che l’inerzia mantenuta dalle Amministrazioni a fronte di tali atti possa integrare una qualsiasi ipotesi di silenzio significativo>>.

Questa interpretazione risulta coerente anche con la scelta del mezzo di tutela posto a disposizione del terzo il quale, in assenza di un provvedimento amministrativo (anche tacito) non può adire direttamente l’autorità giudiziaria dovendo, viceversa, sollecitare previamente l’attività di controllo della Pubblica Amministrazione e solo successivamente potrà impugnare il provvedimento amministrativo o agire ai sensi dell’art. 31 c.p.a.

Il Collegio, dunque, esaminato l’art.19 della L. 241/90, sì come modificato, ha preso atto della mutata disciplina sostanziale dell’istituto (applicabile solo alle d.i.a. e s.c.i.a. successive all’entrata in vigore dei suddetti provvedimenti normativi). VA

 



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Inserito in data 01/07/2015
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 25 giugno 2015, n. 119

Servizio civile e discriminazioni: illegittima l’esclusione degli stranieri

La Consulta, con la pronuncia de qua, interviene in merito all’illegittimità dell’esclusione, dal Servizio civile, degli stranieri.

Invero, la Corte Costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. del 5 aprile 2002 n. 77, nella parte in cui prevede il requisito della cittadinanza italiana ai fini dello svolgimento del servizio civile.

È bene rilevare che, con ordinanza del 1° ottobre 2014, le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, hanno sollevato − in riferimento agli artt. 2, 3 e 76 della Costituzione − questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 5 aprile 2002, n. 77 (Disciplina del Servizio civile nazionale a norma dell’articolo 2 della L. 6 marzo 2001, n. 64), nella parte in cui − prevedendo il requisito della cittadinanza italiana − esclude i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia dalla possibilità di essere ammessi a prestare il servizio civile. La Corte di cassazione, premette che la questione di legittimità costituzionale, è sorta nell’ambito di un giudizio promosso, ai sensi dell’art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), da un cittadino pachistano, unitamente a due enti non lucrativi, al fine di denunciare la natura discriminatoria del bando per la selezione di volontari da impiegare in progetti di servizio civile.

L’art. 3 del bando in parola, in applicazione della disposizione censurata, richiede − tra i requisiti e le condizioni di ammissione − il possesso della cittadinanza italiana.

La natura discriminatoria di tale art. 3, è, invero, stata dichiarata dal Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, con la quale è stato, inoltre, ordinato alla Presidenza del Consiglio dei ministri di sospendere le procedure di selezione e di modificare il bando, consentendo, per tale via, l’accesso anche agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia.

Tuttavia, ciò premesso, le Sezioni Unite rilevano che il successivo acquisto della cittadinanza italiana da parte del ricorrente, e l’integrale svolgimento degli effetti del bando, hanno determinato la sopravvenuta perdita di ogni utilità derivabile alle parti dall’accoglimento o dal rigetto del ricorso. Inoltre, con la prestazione del servizio civile da parte dei volontari selezionati, la vicenda concreta appare del tutto esaurita, né vi sarebbe spazio per l’accertamento dell’illegittimità del bando a fini risarcitori, non avendo i ricorrenti avanzato domanda in tal senso. La Corte di cassazione “ritiene quindi che in tale contesto siano venute meno le condizioni per pronunciare sul ricorso, il quale appare destinato alla definizione con una sentenza, in rito, di inammissibilità per sopravvenuto difetto di interesse”.

La Corte Costituzionale, provvede a chiarire che “l’istituto del servizio civile ha subito una rilevante trasformazione a seguito dei ripetuti interventi legislativi che ne hanno modificato i contorni”, invero “dall’originaria matrice di prestazione sostitutiva del servizio militare di leva, che trovava il suo fondamento costituzionale nell’art. 52 Cost., esso si qualifica ora come istituto a carattere volontario, al quale si accede per pubblico concorso”.

Pertanto, l’ammissione al servizio civile, consente oggi di realizzare i doveri inderogabili di solidarietà e di rendersi utili alla propria comunità, il che corrisponde, allo stesso tempo, ad un diritto di chi ad essa appartiene.

Il dovere di difesa della Patria, non si risolve soltanto in attività finalizzate a contrastare o prevenire un’aggressione esterna, ma può comprendere anche attività di impegno sociale non armato. Viene precisato che “accanto alla difesa militare, che è solo una delle forme di difesa della Patria, può dunque ben collocarsi un’altra forma di difesa, che si traduce nella prestazione di servizi rientranti nella solidarietà e nella cooperazione a livello nazionale ed internazionale (sentenza n. 228 del 2004)”.

Dunque, alla luce di quanto esposto, l’esclusione dei cittadini stranieri, che risiedono regolarmente in Italia, dalle attività alle quali tali doveri si riconnettono, appare di per sé irragionevole. GMC

 

 



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Inserito in data 30/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2015, n. 3243

Sulla giurisdizione del G.O. nel caso di irrogazione della sola sanzione accessoria

Secondo consolidata giurisprudenza, “in considerazione del «carattere accessorio» dell'irrogazione della sanzione pecuniaria, sussiste la giurisdizione del giudice civile nel caso di impugnazione dei provvedimenti comunali adottati ai sensi dell'art. 23, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285, con cui è disposta la rimozione di impianti pubblicitari abusivamente posizionati” (Cass. Civ., Sez Un., 19 agosto 2009, n. 18357; 23 giugno 2010 n. 15170; 14 gennaio 2009, n. 563; 18 novembre 2008, n. 27334; 6 giugno 2007, n. 13230; 17 luglio 2006, n. 16129; 19 novembre 1998, n. 11721; Cons. Stato, Sez. V, 31 ottobre 2012, n. 5556; 27 giugno 2012, n. 3786 e 3787; 27 marzo 2013, n. 1777).

Alla luce di tali pronunce, dunque, “l'art. 211, comma 7, del D.Lgs. n. 285 del 1992 va interpretato nel senso che la giurisdizione del giudice civile sussiste non solo in caso di ordinanza-ingiunzione congiuntamente irrogativa della sanzione pecuniaria e di quella accessoria, ma anche in caso di ordinanza-ingiunzione irrogativa della sola sanzione accessoria” (sul punto, cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 2001, n. 223; 23 luglio 2002, n. 10790). EF 


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Inserito in data 29/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2015, n. 3236

Gestione del servizio idrico e difetto di legittimazione del Comune

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato afferma il difetto di legittimazione attiva di un Comune, “le cui funzioni in materia di gestione del servizio idrico sono devolute all’ATO”.

Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha da tempo chiarito che “l’ATO è una struttura organizzativa dotata di una distinta soggettività giuridica” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 5243 del 2009; Sez. VI, n. 2948 del 2007 quest’ultima relativa proprio agli Ato disciplinati dalla l.r. Lazio n. 6/1996).

Le autorità d'ambito, infatti, “erano già previste dagli artt. 8 e 9 della legge n. 36 del 1994 e dagli articoli da 24 a 26-bis della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), che ne consentivano l'istituzione, da parte delle Regioni, con strutture e forme giuridiche diverse alle quali pure partecipavano necessariamente gli enti locali, come le convenzioni, i consorzi, le unioni di comuni, l'esercizio associato delle funzioni. Tali disposizioni sono state attuate dalla legislazione regionale mediante l'adozione di moduli organizzativi scelti tra quelli consentiti dalle disposizioni stesse, seppure diversamente denominati (agenzie, consorzi, autorità)”.

Così, Corte cost., n. 246/2009 ha chiarito che “l'art. 148 D.Lgs. n. 152/2006, ha razionalizzato il suddetto quadro normativo, superando la frammentazione della gestione del servizio idrico, nel rispetto delle preesistenti competenze degli enti territoriali ed unificando le modalità di esercizio della gestione delle risorse idriche, prevedendo espressamente il trasferimento delle relative competenze dagli enti locali all'autorità d'àmbito; autorità della quale - come visto - gli enti locali necessariamente fanno parte”.

Invero, “la necessità di attribuire le funzioni ad un autonomo soggetto giuridico è rimasta ferma anche all’indomani dell’abrogazione del citato art. 148”.

A tal proposito è intervenuta la pronuncia della Corte costituzionale, n. 50/2013, secondo la quale: “Per quanto riguarda le Autorità d'ambito, preposte alla programmazione ed alla gestione del servizio idrico integrato nel territorio delle Regioni, l'art. 2, c. 186-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (l. finanziaria 2010), nel sopprimere le Autorità d'ambito territoriale, di cui agli artt. 148 e 201 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152(Codice dell'ambiente), ha stabilito che "le regioni attribuiscono con legge le funzioni già esercitate dalle Autorità, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza". Con la modifica del 2009, la legislazione statale ha inteso realizzare, mediante l'attuazione dei principi di cui sopra, una razionalizzazione nella programmazione e nella gestione del servizio idrico integrato, superando la precedente frammentazione. Perché ciò avvenga, è innanzitutto necessario che i soggetti cui sono affidate le funzioni abbiano una consistenza territoriale adeguata, ma è anche indispensabile che i piani d'ambito abbiano natura integrata e unitaria, in modo da realizzare l'efficienza, l'efficacia e l'economicità del servizio. Il rispetto dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza, richiamati dal sopra citato art. 2, c. 186-bis, della legge n. 191/2009 , implica che non possa essere trascurato, nella prefigurazione normativa regionale della struttura e delle funzioni dei soggetti tributari dei servizi, il ruolo degli enti locali e che debba essere prevista la loro cooperazione in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale che il legislatore regionale reputa ottimale. Si deve ritenere, pertanto, che un organismo come l'assemblea dei sindaci (ASSI) ben si inserisca nell'organizzazione dell'ente regionale unitario, allo scopo di mantenere un costante rapporto tra programmazione e gestione del servizio su scala regionale ed esigenze dei singoli territori compresi nell'ambito complessivo dell'ERSI”.

In conclusione, spetta all’Ato, cui appartiene l’amministrazione comunale, assumere iniziative per garantire l’efficacia delle convenzioni. EF

 



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Inserito in data 26/06/2015
CORTE COSTITUZIONALE - UFFICIO STAMPA, COMUNICATO del 24 giugno 2015

Illegittimità del blocco dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici

La Consulta, con un comunicato stampa, ha anticipato la propria decisione con la quale, dando risposta ai dubbi di legittimità costituzionale sollevati con le ordinanze nn. r.o. 76/14 e 125/14, ha dichiarato <<l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del regime del blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, quale risultante dalle norme impugnate e da quelle che lo hanno prorogato>>.

Sebbene, infatti, ai sensi dell’art. 81 della Costituzione - lo Stato “assicura l’equilibrio fra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conte delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”, la spending review non può incidere sugli stipendi dei lavoratori.

Inoltre, quello che formalmente doveva limitarsi ad essere un mero blocco degli aumenti degli stipendi dei dipendenti pubblici, a seguito dell’imponente aumento della tassazione e del prelievo fiscale, si è tradotto, di fatto, in una riduzione degli stessi.

Un siffatto intervento sarebbe ammissibile solo in ipotesi straordinarie e per un circoscritto lasso temporale, non essendone ammissibile l’automatica rinnovazione con cadenza annuale.

Verosimilmente, dunque, il provvedimento normativo sarebbe stato giudicato dal Collegio sproporzionato rispetto allo scopo perseguito.

Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto con la precedente decisione con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità del blocco dell’adeguamento Istat previsto per le pensioni, è stato scongiurato il rischio per il bilancio pubblico derivante da un’applicazione retroattiva della decisione in commento.

Il Collegio, infatti, ha espressamente affermato che gli effetti della propria decisione si produrranno dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza.

Si attende il deposito delle motivazioni per capire coma la Consulta abbia giustificato una tale disparità di trattamento. VA

 



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Inserito in data 26/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 15 giugno 2015, n. 12316

Contratti di diritto privato stipulati da una P.A. e forma ad substantiam  

La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva dichiarato la nullità di un contratto di fornitura intercorso tra una Pubblica Amministrazione e una società per mancanza della forma scritta richiesta dall’art. 17 del r.d. 2240/23 e dall’art. 1326 c.c..

A parere della Corte di Cassazione, infatti, dall’art. 16 del regio decreto sopra citato si può desumere che <<i contratti stipulati con la Pubblica Amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta con la sottoscrizione di un unico documento, rappresentando essa uno strumento indefettibile di garanzia del regolare svolgimento dell’attività negoziale della Pubblica Amministrazione>>.

Questa regola può essere derogata solo nelle ipotesi previste nel successivo art. 17 r.d. 2240/23.

Anche in questo caso, tuttavia, la corrispondenza commerciale attraverso la quale si può addivenire alla conclusione di un contratto tra le parti deve manifestarsi attraverso uno scambio tra proposta ed accettazione ex art. 1326 c.c., in mancanza del quale il contratto non può dirsi perfezionato.

Nel caso di specie, pertanto, avendo l’impresa fornitrice adempiuto all’offerta commerciale senza manifestare previamente il proprio consenso, il contratto sarebbe stato affetto da nullità, non rilevando la produzione in giudizio delle fatture relative alla consegna della merce. Queste ultime, infatti, sono del tutto insufficienti ad integrare la forma scritta ad substantiam richiesta per la conclusione dei contratti con le pubbliche amministrazioni, anche nelle ipotesi in cui queste ultime agiscano “iure privatorum”. VA

 




Inserito in data 25/06/2015
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 22 giugno 2015, n. 598

Tempi impugnazione bando di gara, clausole escludenti e diritto alla restrizione candidati

I Giudici genovesi, con la pronuncia in esame, respingono il ricorso di una ditta partecipante ad una gara che, lamentando la violazione – da parte della stazione appaltante - degli artt. 41, 42 e 64 del Codice dei contratti pubblici, non avrebbe specificato negli atti di gara né i requisiti di capacità economica e finanziaria, né quelli di capacità tecnica e professionale richiesti ai concorrenti ai fini dell’ammissione alla procedura.

In tal modo, ad avviso dell’odierno ricorrente, verrebbe leso il proprio interesse alla restrizione del numero di candidati possibili.

Il Collegio, non ritenendo l’intento di limitare la platea dei partecipanti – come paventato dall’odierno istante – un interesse meritevole di tutela, sancisce l’inammissibilità della censura per carenza di interesse attuale a ricorrere.

Si ricorda, infatti, che clausole del tenore di quelle impugnate, non avendo natura escludente, né imponendo oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, non rientrano tra quelle per cui è necessaria ed imprescindibile un’impugnazione immediata del bando – come la giurisprudenza costantemente afferma (Cfr. Cons. di St., V, 26.5.2015, n. 2637; id., III, 14.5.2015, n. 2413).

Si tratta, semmai, di clausole non impeditive della partecipazione – a fronte delle quali il candidato dovrà attendere l’eventuale lesione del proprio patrimonio giuridico solo all’atto di approvazione della graduatoria.

Solo allora, infatti, ricordano i Giudici, sarà possibile individuare in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e vagliare, eventualmente, doglianze simili a quelle di oggi, invece prospettate prematuramente. CC



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Inserito in data 25/06/2015
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA - CASO D. contro Estonia, SENTENZA 16 giugno 2015 - n. 64569/09

Offese on line: responsabile il portale

Il massimo Organo giurisdizionale di Strasburgo interviene, con la pronuncia in esame, riguardo al primo episodio di responsabilità di un portale di news.

Infatti, a seguito di commenti sgradevoli ed offensivi, persino incitanti all’odio, pubblicati sul sito ad opera di soggetti terzi, i Giudici della Grande Camera dichiarano responsabile la società che gestisce il portale, che consentiva simili pubblicazioni senza alcun controllo o senza alcuna, previa registrazione.

La conclusione, cui giunge il Collegio, è conforme ai principi della Convenzione.

Ricorda la Corte, infatti, che – nel caso di specie - non si configura alcuna violazione della libertà di espressione, garantita dall'articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, da parte dello Stato che, attraverso i tribunali nazionali, procede così ad applicare una sanzione al portale che non blocca i commenti. CC

 




Inserito in data 24/06/2015
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. II, 22 giugno 2015, n. 602

Diritto di accesso: ribaditi i presupposti

Il Collegio ligure interviene riguardo all’impugnazione di un diniego di accesso, ritenendone fondati i motivi di impugnativa e delimitando i presupposti ai fini dell’ostensibilità di documenti.

Si tratta, infatti, di un’istanza avente ad oggetto una denuncia – esposto pendente sulla parte ricorrente, la quale chiede di conoscerne gli estremi subendo, tuttavia, un diniego da parte dell’Amministrazione competente.

Censurando tale provvedimento negativo, i Giudici genovesi ricordano come l’interesse richiesto dall’art. 22 L. 241/90 sia diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è chiesto l'accesso.

Con riguardo al caso di specie, non è dubitabile che sussista l’interesse della ricorrente alla conoscenza della denuncia, quale che possa essere stato l’esito della stessa.

Questa, infatti, sottolinea il Collegio - potrebbe condurre ad un procedimento sanzionatorio, onde la sussistenza dell’interesse sotto specie del diritto di difesa; oppure potrebbe, ove infondata, spingere la società istante a voler comunque conoscerne e valutarne gli estremi – in vista di una tutela più ampia in sede giurisdizionale.

Il Collegio disattende, altresì, il dubbio circa la genericità del documento della cui ostensione si tratta: infatti, trattandosi della richiesta di copia di una denuncia, è indubbiamente un atto specifico e ben determinato.

In considerazione di ciò, i Giudici accolgono il ricorso, con conseguente annullamento del diniego di accesso oggi impugnato. CC

 



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Inserito in data 23/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 giugno 2015, n. 3118

Tutela dell’ambiente: il singolo può agire giudizialmente

I Giudici di Palazzo Spada, con la pronuncia de qua, intervengono in tema di tutela dell’ambiente, chiarendone alcuni profili concernenti, principalmente, la possibilità, riservata ad un singolo, di agire in giudizio contro un provvedimento amministrativo esplicante effetti sull’ambiente.

Secondo quanto da essi chiarito, se è pur vero che la tutela dell’ambiente – lungi dal costituire un “autonomo” settore di intervento dei pubblici poteri – assuma il ruolo unificante di distinte tutele giuridiche, volte in favore di diversi beni nella vita che si collocano nell’ambiente e, altresì, considerando che l’ambiente sia un bene pubblico, non affatto suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, unitario, non attribuibile, deve ammettersi pacificamente, tenendo in considerazione gli artt. 24 e 113 della Carta costituzionale, che un singolo soggetto possa agire in sede giurisdizionale contro un provvedimento amministrativo che esplichi i suoi effetti sull’ambiente in cui vive.

Il singolo, in tale circostanza, sarà tenuto ad indicare quale sia il bene della vita suscettibile di essere pregiudicato dalla Pubblica Amministrazione (ad esempio, il suolo o l’acqua), dimostrando, altresì, che non si tratti di un bene che pervenga indivisibilmente ad una pluralità più o meno vasta di soggetti (nessuno dei quali ne ha tuttavia la esclusiva disponibilità) e che, rispetto ad esso, egli vanti una posizione differenziata. GMC



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Inserito in data 23/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 giugno 2015, n. 12722

Danno catastrofale: brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni

Con la pronuncia in questione, gli Ermellini intervengono in tema di danno catastrofale.

I Giudici della Suprema Corte, infatti, chiariscono che in caso di morte della vittima a seguito di sinistro stradale, la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità, ai fini risarcitori, del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude, invece, che la medesima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza.

Il diritto al risarcimento, dunque, sotto il profilo del danno morale, risulta, quindi, già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere pertanto fatto valere “iure hereditatis”. GMC

 




Inserito in data 22/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2015 n. 3090

L’autorizzazione alla detenzione ed al porto d’armi è ampiamente discrezionale

Per giurisprudenza pacifica, “l'autorizzazione alla detenzione ed al porto d'armi richiedono che il beneficiario osservi una condotta di vita improntata alla piena osservanza delle norme penali e di quelle poste a tutela dell'ordine pubblico, nonché delle regole di civile convivenza” (da ultimo, Consiglio di Stato, Sezione III, n. 1270 dell’11 marzo 2015).

In particolare, la valutazione che compie l'Autorità di Pubblica Sicurezza in materia è caratterizzata “da ampia discrezionalità e persegue lo scopo di prevenire, per quanto possibile, l’abuso di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili”.

Si è, pertanto, affermato che il giudizio di "non affidabilità" è giustificabile “anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza”, ma genericamente non ascrivibili a "buona condotta" (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1270 dell’11 marzo 2015, cit.; Sez. III, n. 5398 del 14 ottobre 2014).

La licenza di porto d'armi può essere poi negata o revocata anche “in assenza di pregiudizi e controindicazioni connessi al corretto uso delle armi, potendo l'Autorità amministrativa valorizzare, nella loro oggettività, sia fatti di reato, sia vicende e situazioni personali che non assumono rilevanza penale (e non attinenti alla materia delle armi), da cui si possa, comunque, desumere la non completa "affidabilità" del soggetto interessato all'uso delle stesse” (Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1270 dell’11 marzo 2015, cit.; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3979 del 29 luglio 2013). EF



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Inserito in data 22/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2015 n. 3126

Sulla legittimazione al ricorso del concorrente escluso dalla gara

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato afferma che “…la situazione legittimante costituita dalla partecipazione alla procedura costituisce la condizione necessaria per acquisire la legittimazione al ricorso”.

Invero, “la posizione sostanziale differenziata che radica la legittimazione al ricorso non è instaurata dal solo fatto storico della iniziale partecipazione alla gara, indipendentemente dalla successiva esclusione, oppure dall’accertamento della sua illegittimità.

La legittimazione del concorrente che abbia partecipato alla gara può, quindi, “essere impedita dall’inoppugnabilità dell’atto di esclusione perché non impugnato, o perché giudicato immune dai vizi denunciati dalla parte interessata”.

Da ciò discende che “la mera partecipazione di fatto alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso: la situazione legittimante costituita dall’intervento nel procedimento selettivo deriva infatti, secondo l’Adunanza Plenaria (n.4/2011), da una qualificazione di carattere normativo, che postula il positivo esito del sindacato sulla ritualità dell’ammissione del soggetto ricorrente alla procedura selettiva”.

Pertanto, “si deve concludere che non spetta alcuna legittimazione a contestare gli esiti della gara o comunque il suo svolgimento al concorrente escluso dalla gara, per il quale l’atto di esclusione non sia stato in qualche modo rimosso” (Sez. V n. 3994/2012 del 9.7.2012). EF

 



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Inserito in data 19/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 giugno 2015, n. 2980

Sulla realizzazione di lavori abusivi alla luce del D.P.R. 380/2001

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, chiarisce che la realizzazione di lavori abusivi, tali da comportare utilizzabilità, a fini residenziali, di un volume inutilizzabile secondo i titoli edilizi rilasciati e, quindi, da imprimere a tutta la superficie utile una destinazione urbanistica diversa rispetto a quella assentita, giustifica il procedimento di calcolo della sanzione pecuniaria basato sull’integrale volume della predetta superficie.

Invero, a tal proposito, viene precisato che, alla luce dell’art. 34, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, la sanzione dev’essere calcolata sulla parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire e, dunque, nella ipotesi ivi evidenziata, su tutta la superficie, nel caso de quo costituita da un sottotetto. GMC



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Inserito in data 19/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 18 giugno 2015, n. 12598

Estensione automatica della domanda al terzo chiamato

Con la pronuncia de qua, gli Ermellini intervengono in tema di estensione automatica della domanda al terzo chiamato.

Viene chiarito che nell'ipotesi in cui la parte convenuta in un giudizio di responsabilità civile chiami in causa un terzo in qualità di corresponsabile dell'evento dannoso, chiedendone – in caso di affermazione della propria responsabilità – la condanna a garantirla e manlevarla, l'atto di chiamata, indipendentemente dalla formula adottata, dev’essere inteso come chiamata del terzo responsabile, e non come “chiamata in garanzia impropria”, dovendosi privilegiare l'effettiva volontà della chiamante in relazione alla finalità, in concreto perseguita, di attribuire al terzo la corresponsabilità dell'evento dannoso.

Dunque, in tal caso, essendo, altresì, unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con la domanda principale e con la chiamata dei terzi, si verifica, come anticipato, l'estensione automatica della domanda al terzo chiamato.

Nel caso de quo, il giudice – secondo quanto prospettato dai giudici di Piazza Cavour – potrà, direttamente, emettere nei confronti di quest’ultimo una pronuncia di condanna, anche nel caso in cui l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza, peraltro, incorrere nel vizio di extrapetizione. GMC

 

 




Inserito in data 18/06/2015
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 15 giugno 2015, n. 111

Sul controllo di costituzionalità delle leggi della Regione siciliana

I Giudici della Consulta, intervenendo in un nuovo giudizio promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana, richiamano una propria pronuncia - n. 255 del 2014 – particolarmente significativa in tema di controllo sugli atti normativi della Regione a Statuto speciale.

Con la pronuncia anzidetta, infatti, il Collegio costituzionale aveva già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 31, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale» (come sostituito dall’art. 9, comma l, della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante «Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3»), limitatamente alle parole «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana», ritenendolo presuntivamente in contrasto con l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 200l n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

La declaratoria di incostituzionalità, nella specie, era fondata sul fatto che – data la natura preventiva del controllo effettuato sulle leggi siciliane – si riteneva di conferire un minor grado di garanzia dell’autonomia rispetto a quello previsto dall’articolo 127 della Costituzione -  a fronte di una clausola di maggior favore prevista dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 200l, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) a garanzia delle autonomie speciali.

A seguito  di tale pronuncia, ricorda la Consulta, deve pertanto estendersi anche alla Regione siciliana il sistema di impugnativa [successiva] delle leggi regionali, previsto dal riformato art. 127 Cost.» e devono ritenersi «non più operanti le norme statutarie relative alle competenze del Commissario dello Stato nel controllo delle leggi siciliane, alla stessa stregua di quanto affermato da questa Corte con riguardo a quelle dell’Alta Corte per la Regione siciliana (sentenza n. 38 del 1957), nonché con riferimento al potere del Commissario dello Stato circa l’impugnazione delle leggi e dei regolamenti statali (sentenza n. 545 del 1989)» (sentenza n. 255 del 2014).

In forza di ciò, una volta esteso alla Regione siciliana il controllo successivo previsto dagli articoli 127 della Costituzione e 31 della legge n. 87 del 1953 per le Regioni a statuto ordinario, anche l’odierno giudizio deve essere dichiarato improcedibile – stante la raggiunta impossibilità per questa Corte di esercitare il proprio sindacato sulla delibera legislativa siciliana - prima che quest’ultima sia stata promulgata e pubblicata e, quindi, sia divenuta legge in senso proprio. CC

 



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Inserito in data 17/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 15 giugno 2015, n. 2913

Diritto di prelazione della P.A. su edifici di interesse storico-artistico

Il Supremo Consesso ha confermato la sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di merito ha respinto il ricorso proposto avverso una delibera della giunta comunale relativa all’esercizio del diritto di prelazione su immobili di interesse culturale (ex art. 62 comma 2 d.lgs. 41/2004).

Argomentando la propria decisione il Collegio ha affermato che <<l’acquisizione di un bene di interesse storico-artistico non necessita di particolare motivazione>> dovendosi, pertanto, ritenere sufficiente l’esternazione della Pubblica amministrazione della sussistenza di interessi di rilievo pubblico che giustifichino l’esercizio del suddetto diritto e l’opportunità dell’acquisizione.

Inoltre, nel caso di specie, sebbene, come già detto, non fosse necessario un particolare rigore nella <<puntuale definizione degli scopi cui il bene stesso è destinato (C.d.S. 6350/04; 3209/12), dal momento che la prelazione stessa, essendo prevista in un'ottica di tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, presuppone che l'acquisizione del bene al patrimonio statale ne consenta una migliore tutela, e in particolare, una migliore valorizzazione e fruizione del pregio>> (Cons. St., VI, 21 febbraio 2001, n. 923) l’amministrazione deliberante, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, non si era limitata ad una motivazione generica, ma aveva esplicitato le esigenze pubbliche che avevano condotto alla determinazione all’acquisizione del bene (esigenze che si concretavano nella necessità di assicurare adeguati spazi da destinare alla pubblica istruzione, ai quali l’immobile era già adibito).

La motivazione fornita, dunque, appariva assolutamente congrua. VA



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Inserito in data 16/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 15 giugno 2015, n. 2917

Carattere interinale dell’ammissione con riserva ad una selezione concorsuale

Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato avverso la sentenza di conferma di un provvedimento di estromissione dalla graduatoria concorsuale del vincitore, emanato a seguito dell’ottemperanza al provvedimento cautelare di ammissione con riserva in favore di altri concorrenti, ne ha dichiarato l’illegittimità.

A parere del Supremo Consesso, infatti, <<l’ammissione con riserva ad una pubblica selezione concorsuale di un candidato non può produrre altro effetto, per la sua natura interinale, incidentale e cautelare, che quello di impedire, nelle more del giudizio, il protrarsi della lesione lamentata dal ricorrente, - consentendogli la partecipazione alle prove ovvero di essere inserito nella graduatoria- , ma ogni ulteriore effetto non può che conseguire dal passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole>>.

Il Collegio, inoltre, sottolinea come l’estromissione del soggetto collocato in posizione utile non costituisca una conseguenza automatica della decisione di merito definitiva. La decisione, infatti, rientra nel potere discrezionale della pubblica amministrazione che potrà essere esercitato a seguito delle opportune valutazioni degli interessi in gioco (ivi comprese le esigenze finanziarie della stessa). VA

 



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Inserito in data 15/06/2015
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 8 giugno 2015, n. 565

Pubblici dipendenti e pagamento delle ore di straordinario

Per costante giurisprudenza del giudice amministrativo in materia di retribuzione di ore di lavoro straordinario prestate da pubblici dipendenti, ma non pagate dall’amministrazione, “l’incontestata prestazione dello straordinario è condizione necessaria ma non sufficiente ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento da parte del datore di lavoro pubblico, occorrendo anche la previa formale autorizzazione a tale prestazione, oltre l’ordinario orario d’ufficio, da parte dell’organo superiore competente a rilasciarla”.

Invero, “tale indispensabile autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento ai quali, ai sensi dell’art. 97 della Carta Costituzionale, deve essere improntata l’azione della pubblica amministrazione” (v. Cons. Stato sez. III, 24/11/2012 n. 5953; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. I, 19/11/2012 n. 696; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. II, 27 marzo 2014 , n. 594).

L'autorizzazione, in definitiva, ”più che un mero atto di consenso, rappresenta il momento finale ed attuativo d'un processo di programmazione e di ripartizione delle risorse finanziarie a disposizione del Corpo per la gestione delle risorse umane (cfr. Cons. St., sez. V, 29 agosto 2006 n. 5057) e, come per tutto il pubblico impiego, rappresenta una concreta applicazione del principio costituzionale di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost.” (Cons. Stato sez. IV, n. 2620 del 2009; TAR Lazio –RM- sez. II, n. 22071 del 2010; T.A.R. Emilia – Romagna –BO- sez. I, n. 96 del 2012 cit.). EF 


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Inserito in data 15/06/2015
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 11 giugno 2015, n. 1026

Sul diritto di accesso alla cartella esattoriale

Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio afferma che “il potere di verifica fiscale è istituzionalmente esercitabile in funzione strumentale all'accertamento tributario e la relativa attività - avendo ontologicamente una funzione preparatoria del futuro provvedimento definitivo - non fa sorgere, di norma, il diritto di accesso nel caso in cui non si sia stato ancora emanato alcun avviso di accertamento, con la conseguenza che tale causa di esclusione opera con riguardo agli atti propedeutici alla emanazione del provvedimento terminale, ma non dopo che - conclusosi il procedimento tributario- sia stato adottato l'atto impositivo, potendo quest'ultimo essere, in astratto, immediatamente lesivo di posizioni giuridiche e, quindi, impugnabile, ancor prima che in sede giudiziaria” (ex plurimis: Cons. Stato, Sez. IV, 9 luglio 2002 n. 3825 e 21 ottobre 2008 n. 5144 Cons. Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2008 n. 5144).

Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe alla singolare conclusione secondo cui, in uno Stato di diritto, il cittadino possa essere inciso dalla imposizione tributaria - pur nella più lata accezione della "ragion fiscale" - senza neppure conoscere il perché della imposizione e della relativa “quantificazione".

In particolare, “l'art. 24 della legge 19.7.1990 n. 241, nella parte in cui esclude il diritto di accesso con riferimento ai procedimenti tributari - per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano- va interpretato nel senso che la inaccessibilità agli atti relativi deve essere ritenuta temporalmente limitata alla fase di mera “pendenza” del procedimento tributario, in quanto non sussistono esigenze di segretezza nella fase che segue la conclusione del procedimento con l'adozione del procedimento definitivo di accertamento dell'imposta dovuta, sulla base degli elementi reddituali che conducono alla quantificazione del tributo”.

Tale interpretazione “appare coerente con i principi espressi dalla nota sentenza della Corte Cost. n. 477 del 26 novembre 2002, le cui statuizioni sono state poi recepite, in via legislativa, dall'art. 2 comma 1 lett. e), della legge 28 dicembre 2005 n. 263, con cui è stato stabilmente introdotto nell'ordinamento giuridico il principio della scissione soggettiva degli effetti della notificazione, di guisa che essa si intende perfezionata, per il notificante, al momento della consegna del plico all'ufficiale giudiziario e, per il notificatario, soltanto al prodursi della legale conoscenza dello stesso” (ex plurimis: Cons. Stato Sez. V, 9 marzo 2009, n. 1365).

Pertanto, deve riconoscersi il diritto di accesso” qualora l'Amministrazione abbia concluso il procedimento con l'emanazione del provvedimento finale”.

Del resto, “l’interesse del contribuente alla ostensione degli atti propedeutici a procedure di riscossione è riconosciuto anche in via legislativa, mediante la previsione di obblighi in capo al concessionario alla riscossione”.

Invero, “l’art. 26 del D.P.R. n. 602 del 1973, al comma 4°, nel disporre che il concessionario di esattoria deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell'avvenuta notificazione o l'avviso di ricevimento ed ha l'obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell'amministrazione, introduce due obblighi per la società concessionaria, quali: a) la conservazione per cinque anni e b) l'obbligo di esibizione a richiesta del contribuente

Ne consegue che, “in relazione alla cartella esattoriale, la richiesta di accesso, ai sensi degli artt. 22 ss., l. n. 241 del 1990, si pone come strumentale rispetto alla tutela dei diritti del contribuente in tutte le forme consentite dall'ordinamento giuridico ritenute più rispondenti ed opportune”. EF

 



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Inserito in data 13/06/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 giugno 2015, n. 106

Provvedimenti di confisca preventivi e motivi di ricorso in Cassazione

La Corte di legittimità, tornando sull’annosa questione dei provvedimenti preventivi di confisca ha dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata con riferimento all’art. 4 comma 11 della legge 1423/1956 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e  dell’art. 3-ter comma 2 della legge 575/1965, n. 575, recante «Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere», (ora artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136»), per violazione degli artt. 3 e 24 Cost.,  «nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione».

Il dubbio di legittimità era stato sollevato nel corso di un giudizio all’interno del quale il ricorrente aveva dedotto il vizio di inesistenza e mera apparenza della motivazione sulla pericolosità sociale anche con riferimento all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale (art. 606, comma 1, lettera b) c.p.p.).

La dichiarazione di infondatezza è avvenuta a dispetto delle modifiche normative introdotte dall’art. 2-bis comma 6-bis della legge n. 575 del 1965, con il quale si ammette la possibilità di applicare le misure di prevenzione personali e patrimoniali in maniera disgiunta e, limitatamente alle misure di prevenzione patrimoniali, a prescindere dalla pericolosità sociale dal soggetto proposto al momento della richiesta della misura di prevenzione e nonostante i presupposti per la loro applicazione abbiano carattere più debole di quelli richiesti dall’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992 ai fini della confisca avverso il quale, di contro, è ammesso ricorso per Cassazione anche per vizio di motivazione.

Secondo il Supremo Consesso, infatti, le modifiche legislative che hanno interessato la confisca a scopo di prevenzione, sganciandola dalle misure personali, non hanno intaccato la loro natura giuridica che, continuando ad essere quella “preventiva”, deve essere applicata attraverso il relativo procedimento (Cassazione S.U. 4880/2015).

Ne consegue che alle impugnazioni contro i provvedimenti relativi al sequestro e alla confisca si applica la disciplina cui rinvia l’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965 (introdotto dalla legge n. 646 del 1982) e <<per effetto di questo rinvio, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge anche nei confronti del provvedimento della Corte d’appello relativo alle misure di prevenzione patrimoniali>> rimanendo, pertanto, esclusi i vizi di motivazione previsti dall’art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p..

Argomentando la propria decisione la Corte Costituzionale, infatti, ha ribadito la possibilità che procedimenti aventi caratteristiche differenti, quali il processo penale e quello finalizzato all’applicazione delle misure di sicurezza, possano consentire forme di difesa differenziate, senza che tale circostanza possa ritenersi lesiva dei principi di uguaglianza e del diritto di difesa. VA

 



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Inserito in data 13/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI - 12 giugno 2015, n. 2893

Sulla possibilità di applicare le ulteriori proroghe delle graduatorie alle Università

Il Collegio ha respinto il ricorso promosso avverso la sentenza del Tribunale di merito che aveva considerato decorso il termine di validità dell’idoneità conseguita per l’insegnamento.

Sebbene, infatti, le Università siano delle amministrazioni pubbliche e, pertanto, soggette al limite dell’assunzione mediante procedure concorsuali ed alle relative norme che le disciplinano, la procedura di valutazione comparativa per il conferimento dell’idoneità a professore universitario presenta delle peculiarità rispetto alle ordinarie procedure concorsuali, essendo volta ad assicurare che una conoscenza specialistica più aggiornata ed attuale possibile, esigenza che si ripercuote anche sulla disciplina relativa alla durata dell’idoneità e/o abilitazione all’insegnamento.

Ne consegue lì impossibilità di applicare le eventuali ulteriori proroghe rispetto al termine quinquennale ( l. 230/05 e l. 240/10) in assenza di un espresso richiamo da parte del legislatore.

Seguendo l’iter logico sopra esposto i Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che  <<a sostegno della tesi dell’appellante da quanto dispone il comma 101 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), che, nell’individuare le disposizioni dei commi precedenti non applicabili alle Università, ha indicato solo quelle in tema di divieto di assunzioni (commi 95 e 96) e non il comma 100 che ha prorogato di tre anni le graduatorie per le assunzioni del personale presso le pubbliche amministrazioni>>. VA 


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Inserito in data 12/06/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 giugno 2015, n. 96

PMA e diagnosi genetica preimpianto

La Corte costituzionale interviene, in materia di fecondazione, su uno dei temi più delicati dell’attuale scenario giuridico e non.

Con la pronuncia de qua, infatti, ha dichiarato la illegittimità degli artt. 1, commi 1, 2, 4, comma 1, della Legge del 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità che consentono l’accesso all’aborto terapeutico (art. 6, Legge n. 194 del 1978), accertate da apposite strutture pubbliche.

La Corte, con il deposito delle motivazioni, accoglie in toto le ragioni dei ricorrenti e riconduce a piena “coerenza e unitarietà il sistema”, raccordando la Legge n. 40 del 2004 con la Legge n. 194 del 1978.

Quanto al fatto, la pronuncia in questione, nasce nell’ambito di due procedimenti civili cautelari promossi da due coppie di coniugi che chiedevano di essere ammessi alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere ai figli la malattia genetica di cui sono portatori.

In tutti e due i casi, le coppie avevano dovuto interrompere una precedente gravidanza, ricorrendo all’aborto terapeutico, poiché il feto era risultato affetto da tale patologia, la quale evinceva dagli esiti degli esami diagnostici prenatali effettuati anteriormente.

Il Tribunale di Roma, aveva, dunque, sollevato due separate – seppur, tuttavia, identiche – questioni di legittimità costituzionale della norma che vieta l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie portatrici di malattie generiche per contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, comma 1, della Carta costituzionale, in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU.

La Corte, ribadendo la impossibilità di percorrere la via della disapplicazione della norma interna per contrasto con le norme CEDU (tenendo, quindi, in considerazione la propria giurisprudenza), nonché di individuare una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni oggetto della censura de qua, dichiara la incostituzionalità delle disposizioni per violazione delle norme di cui agli artt. 3 e 32 della Costituzione.

Nello specifico, per quanto concerne il primo profilo (art. 3), chiarisce “l’insuperabile aspetto di irragionevolezza dell’indiscriminato divieto” per le coppie affette da malattie geneticamente trasmissibili di accedere alle tecniche di PMA, con possibilità di procedere anche a “diagnosi preimpianto”.

L’irragionevolezza, conformemente al percorso argomentativo proposto dalla Corte EDU nel caso Costa e Paven contro Italia, risiede nella “palese antinomia normativa” con quanto previsto dalla legge 194/1978, la quale consente alle coppie “l’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali” al fine di “perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici”.

Specifica la Corte, altresì, che tale approccio, “non consente di far acquisire “prima” alla donna una informazione che le permetterebbe di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute” e “comporta anche la violazione del diritto alla salute della donna fertile portatrice di grave malattia genetica ereditaria (ex art. 32 Cost.): la compressione di tale diritto, inoltre, non trova – secondo la Corte – “un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in una esigenza di tutela del nascituro, il quale sarebbe comunque esposto all’aborto”.

Il divieto, dunque, secondo quanto chiarito dalla Corte, risulta colpito da irragionevolezza in termini di bilanciamento degli interessi coinvolti, nonché da irrazionalità alla luce di quanto previsto dalla Legge n. 194, provocando la violazione del diritto alla salute della donna, poiché non consente alle coppie affette da gravi malattie geneticamente trasmissibili di ricorrere alla procreazione assistita.

Specificamente, la Corte costituzionale, nell’affermare l’incostituzionalità del divieto, richiama il criterio della “gravità” previsto dalla Legge n. 194 in riferimento al secondo trimestre, proponendo un parallelismo nelle condizioni di accesso che riprende l’identità di ratio degli strumenti già in precedenza richiamata.

Dichiarando, dunque, la incostituzionalità del divieto, la Corte riconosce la necessità di un intervento normativo, il quale spetta al Legislatore, nei limiti che la discrezionalità legislativa incontra nel disciplinare l’attività medico – scientifica, alla luce di una consolidata giurisprudenza (sent. n. 282 del 2002), la quale rappresenta una condizione di legittimità di cui il Legislatore deve necessariamente tener in considerazione.

Alla luce di quanto esposto, gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della Legge del 19 febbraio 2004, n. 40 sono dichiarati incostituzionali, nella parte in cui non prevedono la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita con diagnosi genetica preimpianto alle coppie fertili, portatrici di malattie geneticamente trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità – i quali dovranno essere accertati da strutture pubbliche – che consentono l’accesso all’aborto terapeutico. GMC 


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Inserito in data 12/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 24431

Natura “penalistica” dei social networks: la diffamazione è a “mezzo stampa”

Con la pronuncia de qua, gli Ermellini intervengono chiarendo che offendere una persona scrivendo un “post” sulla sua bacheca di Facebook, integri il reato di diffamazione aggravata, come se l’offesa venisse portata dalle colonne di un quotidiano.

La prima sezione penale della Suprema Corte, con la sentenza n. 24431 in questione,  è, invero, tornata ad esprimersi su un tema di notevole interesse nell'era odierna, cioè quello della diffamazione a mezzo Facebook.
Specificamente, nell'offesa rivolta ad una persona tramite un “post”, pubblicato sulla bacheca del social network in questione, si riscontrano i profili del reato di diffamazione aggravata, così come avviene, esattamente, nell'offesa a mezzo stampa.
La decisione in questione, nasce da un conflitto negativo di competenza sollevato dal giudice di pace di Roma, dopo aver ricevuto la denuncia di un privato, denigrato, pubblicamente, sul proprio profilo Facebook. 
Realizzatasi l'ipotesi di diffamazione aggravata (di cui all’art. 59, 3° comma, c.p.) la causa ha raggiunto il Tribunale di Roma che, negando a sua volta la propria competenza, ha rinviato infine la decisione alla Suprema Corte.

La Suprema Corte, richiamando la giurisprudenza che avvalora la possibilità di diffamazione via internet, ha rilevato che l'aggravante rileva “nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (...) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa”.
Oltre a ciò, se, di norma, la diffamazione aggravata è “veicolata” dal mezzo della stampa, l'art. 595 c.p. riferisce di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.

Alla luce di ciò, la Corte ha ritenuto che la rete di amicizie di Facebook abbia “potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l'offesa in ambiti sociali allargati e concentrici”. GMC

 




Inserito in data 11/06/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 8 giugno 2015, n. 2794

Società per azioni di diritto privato, reclutamento del personale e profili di giurisdizione

Il Collegio della Quinta Sezione conferma la posizione del Giudice di primo grado riguardo al riconosciuto difetto di giurisdizione amministrativa e la conseguente, necessaria devoluzione dell’odierna controversia al Giudice ordinario.

Si tratta, infatti, di un ricorso proposto da un candidato escluso da una selezione per la formazione di nove graduatorie per l'eventuale assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato in merito ad un determinato profilo  – indetta da una società per azioni operante nel settore dei trasporti in seno alla Regione Lazio.

Conformemente a quanto addotto dal Giudice di prime cure, si ribadisce anche in questa sede l’appartenenza, di controversie simili, all’Autorità giurisdizionale Ordinaria.

Infatti, sottolinea la Quinta Sezione, posto che l’azienda - odierna appellata - non svolge attività strumentale all’esercizio di funzioni amministrative proprie della Regione Lazio, non è attratta nell’alveo del Giudice amministrativo – in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite n. 28330 del 2011.

La resistente, infatti, pur essendo interamente partecipata con capitali pubblici ed essendo soggetta a forme di controllo ed indirizzo pubblici, è comunque una società per azioni, soggetta a regole privatistiche e i cui dipendenti sono assunti con contratto di lavoro privato.

 Di contro, ricorda il Collegio, ciò che è essenziale per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di personale è la riconducibilità dell’atto o del comportamento all’esercizio di pubblici poteri e come tale circostanza, nel caso che occupa, debba escludersi, dal momento che la azienda resistente svolge attività di trasporto e non funzioni amministrative proprie della Regione.

Né, tantomeno, acquisisce pregio alcuno il fatto  che la selezione indetta dalla società per l’assunzione di personale sia stata ispirata al rispetto di principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità all’atto del reclutamento del personale e, in genere, ai dettami di cui al comma 3 dell’articolo 35 del D. lgs. n. 165 del 2001, che individua i principi cui si conformano le procedure di reclutamento nelle pubbliche Amministrazioni.

Tale aspetto, ricorda il Collegio, non è di per sé idoneo ad incardinare la relativa procedura nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia concorsuale.

Occorre, pertanto, che si escluda, alla stregua di quanto accaduto in primo grado, la giurisdizione del giudice amministrativo e, ricordando la natura privatistica del rapporto controverso, la necessaria devoluzione al Giudice Ordinario. CC

 



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Inserito in data 11/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 11770

Attività consolare errata, danno all’immagine e G.A.

La pronuncia in esame è significativa poiché interviene in un ambito importante, quale quello relativo alla risarcibilità del danno all’immagine.

Infatti, a seguito dell’errata cancellazione – da parte di un Console - dei dati telematici riguardanti – in particolare – l’elenco dei Legali iscritti in apposita sezione web del sito del Consolato - destinati alla difesa ed alla cura degli interessi dei connazionali, sarà possibile agire in sede risarcitoria.

Ricorda il Massimo Consesso, infatti, che quanto accaduto rientra nell’ordinaria attività amministrativa rimessa alla totale discrezionalità dell’Autorità consolare.

Di conseguenza, le controversie risarcitorie conseguenti all’errato esercizio della stessa – come nel caso sottoposto all’odierno scrutinio - sono devolute alla giurisdizione del Giudice amministrativo. CC

 




Inserito in data 10/06/2015
CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 9 giugno 2015, n. 108

Contratti pubblici: deferibilità arbitrato, parità delle armi e certezza del diritto

Il Collegio della Consulta interviene su una questione di legittimità costituzionale di estremo interesse ed attualità, quale quello relativo all’articolo 1, comma 25, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) - nella parte in cui non esclude dall’applicazione delle disposizioni di cui all’articolo 1, comma 19, della stessa legge, che ha sostituito l’art. 241, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), anche gli arbitrati che, come quello oggetto dell’odierna censura, sono stati «conferiti» dopo l’entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, sulla base di clausole compromissorie pattuite anteriormente.

In particolare, oggetto delle doglianze sarebbe, tra le tante, la presunta applicazione retroattiva della norma suddetta che, statuendo – ai fini dell’ammissibilità dell’arbitrato - la previa, necessaria autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione, parrebbe inficiare la validità delle precedenti clausole di bandi di gara che non contemplavano una simile previsione.

Si tratterebbe, ad avviso del Rimettente, di una limitazione ingiustificata ed iniqua dell’autonomia negoziale delle parti, unitamente a conseguenze gravanti sul piano della parità delle armi in sede processuale, della libertà di iniziativa economica oltrechè del buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Il Collegio costituzionale, invece, respinge acutamente le numerose censure prospettate, sostenendo la condivisibilità della previsione normativa contestata.

In primo luogo, infatti, non verrebbe inciso alcun principio di certezza del diritto – posto che il divieto di deferire le controversie ad arbitri senza una preventiva e motivata autorizzazione non ha l'effetto di rendere nulle in via retroattiva le clausole compromissorie originariamente inserite nei contratti, ma “solo” quello di sancirne l'inefficacia per il futuro.

Ne consegue, quindi, l’infondatezza della censura riguardante una presunta retroattività della normativa contestata, con conseguente caducazione delle doglianze ad essa connessa, quale la disparità di trattamento tra concorrenti delle numerose gare pubbliche, frattanto bandite, ed il conseguente vulnus al diritto di difesa delle stesse – costituzionalmente siglato all’articolo 24.

Parimenti infondata, prosegue la Consulta, la doglianza circa un potenziale privilegio processuale della posizione della P.A. riguardo alla facoltà di scelta ad essa conferita dalla norma oggetto dell’odierno scrutinio – con conseguente incisione dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 111; così come, del resto, è negato rilievo all’ulteriore censura – quella relativa al fatto che il potere di autorizzare ogni singolo arbitrato sia stato deferito all’organo di governo dell’amministrazione, piuttosto che alla dirigenza, intaccando – di conseguenza - il tenore letterale dell’articolo 97 della Costituzione.

I Giudici costituzionali, infatti, riguardo alla posizione processuale delle parti, affermano che il requisito introdotto dal legislatore, a pena di nullità della clausola compromissoria, si inserisce in una fase che precede l’instaurazione del giudizio – e la stessa scelta del contraente – e non determina pertanto alcuno squilibrio di facoltà processuali a favore della parte pubblica. Al contrario, lo stesso art. 241 prevede, nel successivo comma 1-bis, un adeguato meccanismo di tutela della libertà contrattuale della parte privata qualora l’autorizzazione sia concessa, stabilendo che l’aggiudicatario «può ricusare la clausola compromissoria, che in tale caso non è inserita nel contratto, comunicandolo alla stazione appaltante entro venti giorni dalla conoscenza dell’aggiudicazione».

Del pari, intervenendo in merito alla discussa distribuzione di competenze tra organi di governo e dirigenza in seno alla P.A. ed al conseguente vulnus al buon andamento della P.A., il Collegio della Consulta – ricordando un proprio costante orientamento, evidenzia come la separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa costituisce «un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost. L’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore.

Di conseguenza, prosegue il Collegio, la scelta operata dal legislatore, di affidare all’organo di governo il compito di autorizzare motivatamente il ricorso all’arbitrato nei contratti pubblici, non è irragionevole. L’ampia discrezionalità di cui gode l’amministrazione nel concedere o negare l’autorizzazione, non solo non è riducibile alla categoria dei semplici apprezzamenti tecnici, involgendo essa valutazioni di carattere politico-amministrativo sulla natura e sul diverso rilievo degli interessi caso per caso potenzialmente coinvolti nelle controversie derivanti dall’esecuzione di tali contratti, ma, per il suo stesso oggetto, si esprime in giudizi particolarmente delicati, in quanto connessi all’esigenza perseguita dalla disposizione censurata di prevenire e reprimere corruzione e illegalità nella pubblica amministrazione, e dunque non inopportunamente affidati all’organo di governo.

Così statuendo, la Corte Costituzionale salva la legittimità della previa autorizzazione circa la deferibilità a collegi arbitrali, inquadrando un nuovo, significativo ambito in seno alla disciplina dei contratti pubblici. CC

 



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Inserito in data 10/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 8 giugno 2015, n. 11769

Calcolo pensione errata ed azione di rivalsa: giurisdizione Corte dei Conti 

 Il Massimo Collegio di piazza Cavour, intervenendo in un regolamento di giurisdizione, delimita e traccia l’intervento del Giudice contabile.
 
In particolare, pronunciandosi riguardo ad un caso di errato calcolo pensionistico, gli Ermellini ricordano come l’Ente erogatore possa agire in rivalsa, per gli importi ultronei eventualmente versati in favore del dipendente, dinanzi al Giudice contabile.

Rientrano, infatti, nel quadro della giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti in materia pensionistica anche le controversie relative all’azione di rivalsa intrapresa ai sensi dell’art. 8 d.P.R. n. 538/1986. CC




Inserito in data 09/06/2015
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II BIS, 4 giugno 2015, n. 859

Improseguibilità degli affidamenti in essere

La questione posta al vaglio del Tar Firenze investe la legittimità della decisione di prolungare la proroga di un servizio fino alla definitiva individuazione del gestore “a regime” del servizio stesso da parte dell’A.T.O..

A tal proposito, una decisione della Prima Sezione del T.A.R. (che la Sezione condivide e decide di fare propria) ha rilevato “come, in ogni caso, le proroghe previste dalla normativa statale e regionale poste a base della presente vicenda (l’art. 13, 1° comma del d.l. 30 dicembre 2013, n. 150, convertito in l. 27 febbraio 2014 n. 15 e l’art. 68 della l.r. 24 dicembre 2013 n. 77) non possano <<essere interpretate nel senso di imporre la prosecuzione degli affidamenti in essere>>”.

Invero, tale interpretazione “condurrebbe a risultati contrastanti con le sovraordinate normative sia comunitaria, sia costituzionale. Appare, infatti, difficilmente compatibile con la normativa comunitaria in materia di contratti pubblici una seconda proroga degli affidamenti vigenti e se le suddette norme fossero interpretate nel senso di obbligare le Amministrazioni in tal senso, potrebbe emergere un’elusione da parte dello Stato italiano dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea. Sotto il profilo della compatibilità costituzionale apparirebbe poi difficilmente armonizzabile con il principio di libera iniziativa economica, ex art. 41 Cost., l’imposizione alle imprese attualmente affidatarie del servizio di gestione dei rifiuti urbani di una obbligatoria proroga contrattuale, alle condizioni in essere>> (T.A.R. Toscana, sez. I, 3 giugno 2014 n. 991)”.

In applicazione di quanto rilevato da T.A.R. Toscana, sez. I, 3 giugno 2014 n. 991, deve pertanto ritenersi che non si possa imporre, “in mancanza della necessaria adesione della controparte contrattuale, una proroga disposta in via unilaterale e chiaramente imposta, in violazione del principio di libertà di impresa ex art. 41 Cost (oltre che dei principi comunitari in materia di obbligatorietà della gara pubblica)”. EF 

 



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Inserito in data 09/06/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 3 giugno 2015, n. 7777

Sul diritto di accesso in materia di appalti pubblici 

Con la sentenza in esame, il Collegio si sofferma sull’interpretazione dell’art. 13, comma 1, del codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006), secondo cui "Salvo quanto espressamente previsto nel presente codice, il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, ivi comprese le candidature e le offerte, è disciplinato dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni".

Pertanto, “per gli aspetti non regolati diversamente dal Codice dei Contratti Pubblici, trovano applicazione anche in materia di appalti pubblici i principi dettati dalla legge n. 241 del 1990 e dal relativo regolamento di attuazione per quanto concerne i soggetti legittimati, i documenti oggetto del diritto di accesso, il contenuto di tale diritto e la disciplina procedimentale”.

Sul punto, “il Consiglio di Stato (Sez. VI, 30 luglio 2010, n. 5062) ha osservato come vi sia un rapporto di complementarietà, non di differenziazione, tra la normativa generale in tema di accesso e quella dettata in tema di contratti pubblici”.

Dunque, “la legge sul procedimento amministrativo si deve ritenere applicabile in tutti i casi in cui non si rinvengono disposizioni derogatorie nel Codice dei Contratti Pubblici e, quindi, in tutti quei casi non rientranti all'interno delle fattispecie, espressamente previste dall'art. 13, comma 6, di esclusione dal diritto di accesso e ogni forma di divulgazione”. EF 

 



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Inserito in data 08/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 27 maggio 2015, n. 10879

Occupazione e dichiarazione di pubblica utilità inefficace: giurisdizione del G.A.

In caso di controversia concernente l’occupazione di un fondo di proprietà privata sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità divenuta inefficace per l’inutile decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera e per l’emissione del decreto di esproprio, sussiste giurisdizione del giudice amministrativo.

Si tratta, infatti, di uno di quei comportamenti “mediatamente” riconducibili all’esercizio di un pubblico potere, che radicano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. g, cpa. Infatti la riconducibilità all’esercizio di un pubblico potere sussiste anche quando l’occupazione inizia, dopo la dichiarazione di pubblica utilità, in virtù di un decreto di occupazione d’urgenza, e prosegue anche dopo la sopravvenuta inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità. Anche in questo caso si ha il concreto esercizio del potere ablatorio, riconoscibile per tale in base al procedimento svolto e alle forme adottate, in consonanza con le norme che lo regolano, pur se poi l’ingerenza nella proprietà privata e la sua utilizzazione siano avvenute senza alcun titolo che le consentiva. CDC

 




Inserito in data 08/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 8 giugno 2015, n. 2810

Contratti esclusi: non operano tassatività cause di esclusione e soccorso istruttorio

Il principio di tassatività delle cause di esclusione e il principio della doverosità del soccorso istruttorio, sanciti dall’art. 46 d.lgs. 163/2006, sono derogatori dell’ampia potestà discrezionale della PA di determinare i contenuti della legge di gara e della disciplina generale dettata dall’art. 6 l. 241/1990 in materia di regolarizzazione procedimentale.

Pertanto, essi trovano applicazione alle sole fattispecie rientranti nell’ambito applicativo oggettivo del d.lgs. 163/2006 e successive all’entrata in vigore del d.l. 70/2011 e, non integrando alcuno dei principi generali richiamati dagli artt. 27, comma 1, e 30, comma 3, d.lgs. 163/2006, non sono applicabili ai c.d. contratti esclusi, salvi i casi di autovincolo della stazione appaltante. CDC

 



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Inserito in data 05/06/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 3 giugno 2015, n. 2707

Sull’obbligo di indicazione del subappaltatore e degli oneri di sicurezza

Il Supremo Consesso, interrogato sulla legittimità dell’esclusione di un’impresa da una gara d’appalto a causa della mancata indicazione del subappaltatore, ha deferito la questione all’Adunanza Plenaria.

Più precisamente, l’Adunanza Plenaria dovrà stabilire:  a) se il nominativo del subappaltatore, ai sensi dell’art. 118 del d.lgs. nr. 163/2006 e delle norme connesse, debba essere obbligatoriamente indicato già in sede di presentazione dell’offerta, quantomeno nelle ipotesi di c.d. subappalto necessario (cioè quando il concorrente non possieda i necessari requisiti di qualificazione per la partecipazione alla gara d’appalto); b) in caso di risposta affermativa se, laddove attenga a procedure la cui fase di presentazione delle offerte si sia esaurita in epoca anteriore alla pronuncia della Plenaria, si possa ovviare all’omissione ricorrendo al c.d. soccorso istruttorio; c) se il ricorso al c.d. soccorso istruttorio possa essere applicato in relazione all’obbligo di indicazione in sede di offerta dei costi per gli oneri di sicurezza aziendale.

Negli ultimi anni, infatti, l’indirizzo unanime ha avallato quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ai sensi dell’art. 118 comma 2 d. lgs. 163/06, << la dichiarazione deve contenere anche l’indicazione del subappaltatore, unitamente alla dimostrazione del possesso in capo al medesimo dei requisiti di qualificazione, ogniqualvolta il ricorso al subappalto si renda necessario in conseguenza del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (cd. subappalto necessario)>>, in quanto la ratio della norma sarebbe quella di assicurare che la partecipazione alle gare venga limitata ai concorrenti i quali risultino in possesso della qualificazione richiesta dalla lex specialis per tutte le prestazioni oggetto dell’appalto. In tal caso, dunque, l’esclusione dalla procedura selettiva conseguirebbe dal mancato possesso dei necessari requisiti di qualificazione per parte delle prestazioni oggetto dell’appalto, risultando del tutto irrilevante la carenza di una specifica previsione nell’art. 118.

Permane, tuttavia, un opposto orientamento secondo cui <<la normativa vigente non pone l’obbligo d’indicare i nominativi dei subappaltatori in sede di offerta, a differenza di quanto previsto dall’art. 49 del d.lgs. 12 aprile 2006, nr. 163 per l’impresa ausiliaria, ma soltanto l’onere di dichiarare preventivamente le lavorazioni che il concorrente intenda subappaltare, qualora privo della necessaria qualificazione (…)>>. A parere di questo secondo indirizzo, pertanto, l’esclusione dalla gara per mancata indicazione del subappaltatore comporterebbe una violazione del principio di tassatività delle clausole di esclusione.

Inoltre, come osservato in sede di ricorso, l’offerta era stata presentata in un momento in cui era il contrasto di indirizzi sopra descritto era ancora molto acceso, pertanto, <<in diretta applicazione del principio di diritto comunitario che preclude l’esclusione del concorrente da una procedura selettiva per la violazione di una regola non connotata da chiarezza, precisione e univocità al momento in cui sono stati posti in essere i relativi adempimenti, la stazione appaltante avrebbe dovuto ammettere l’impresa interessata al c.d. soccorso istruttorio, consentendole di integrare la dichiarazione carente>>. VA

 



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Inserito in data 04/06/2015
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 1 giugno 2015, n. 843

Sulla sospensione licenza di un bar per esigenze di tutela dell’ordine pubblico

Il Tribunale amministrativo, rigettando il ricorso, ha dichiarato legittimo il provvedimento amministrativo con il quale era stata disposta la sospensione delle licenze di un bar ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S.

Il suddetto provvedimento, infatti, era stato emanato a seguito di vari esposti e segnalazioni che avevano messo in luce numerose problematiche di ordine e sicurezza pubblica causati dall’attività del predetto esercizio.

Secondo il Tribunale di merito, infatti, a dispetto delle censure mosse dalla parte ricorrente, secondo cui <<  il Questore, con i decreti impugnati, avrebbe inteso tutelare l’incolumità personale, la quiete pubblica, la sicurezza stradale e il transito veicolare facendo un’applicazione distorta dell’ipotesi residuale contemplata dall’art. 100 T.U.L.P.S.>> (beni già oggetto di tutela da parte di specifiche normative), la norma in commento rappresenta una clausola di chiusura, potenzialmente applicabile anche in assenza di gravi disordini o dalla frequentazione dei locati da parte di pregiudicati.

Ai sensi del comma 1 della norma sopra citata, infatti, <<oltre i casi indicati dalla legge, il questore può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini>>.

Ne consegue che la sospensione della licenza, purché adeguatamente motivata (sì come avvenuto nel caso sottoposto all’attenzione del Tar Torino), può essere legittimamente disposta, a prescindere dalla presenza di profili di colpa a carico del titolare dell’esercizio, laddove ricorrano <<situazioni tali da configurare una fonte di pericolo concreto ed attuale per la collettività>>, trattandosi di un provvedimento cautelare, manifestazione di un potere ampiamente discrezionale della pubblica amministrazione. VA

 



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Inserito in data 03/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 28 maggio 2015, n. 11035

Disposizioni in materia di condominio non estensibili al consorzio

Gli Ermellini, con la pronuncia de qua, intervengono in merito ai rapporti esistenti tra comunione e condominio.

I Giudici di Piazza Cavour chiariscono, invero, che le disposizioni in materia di condominio, non sono estensibili al consorzio costituito tra proprietari d'immobili per la gestione delle parti e dei servizi comuni di una zona residenziale, nonostante i due istituti giuridici, anche se vi sono numerose analogie, presentano tuttavia caratteristiche diverse che non ne permettono, dunque, una completa parificazione concettuale.

Viene sottolineato che il condominio di edifici è una forma di proprietà plurima, derivante dalla struttura stessa del fabbricato e regolata interamente da norme che rimangono nel campo dei diritti reali, con la conseguenza che il carattere di immobile condominiale è una “qualitas fundi”, che inerisce al bene e lo segue, con i relativi oneri, presso qualsiasi acquirente.

Il consorzio, che presenta un livello di organizzazione più elevato, appartiene, invece, alla categoria delle associazioni, con la conseguente rilevanza della volontà del singolo di partecipare o meno all'ente sociale, pur potendo tale volontà essere ricavata (se non esiste una contraria norma di statuto o di legge) da presunzioni o da fatti concludenti, quali la consapevolezza di acquistare un immobile compreso in un consorzio, oppure l'utilizzazione concreta dei servizi messi a disposizione dei partecipanti.
In tema di consorzi volontari, costituiti fra proprietari d'immobili per la gestione di parti e servizi comuni, la partecipazione o l'adesione ad esso da parte dell'acquirente di un immobile compreso nel consorzio deve risultare altresì da una valida manifestazione di volontà. GMC

 




Inserito in data 03/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 maggio 2015, n. 2682

Notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo

Con la pronuncia in questione, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla validità della notifica a mezzo PEC nel processo amministrativo.

Viene chiarito che la mancata autorizzazione presidenziale, ex art. 52, comma 2, del Codice del Processo Amministrativo (c.p.a.), non può considerarsi ostativa alla validità e alla efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC poiché, nel processo amministrativo, trova applicazione immediata la Legge n. 53 del 1994 (e, in particolare, per quanto qui più interessa, gli articoli 1 e 3 bis della legge stessa), nel testo modificato dall’art. 25 comma, 3, lett. a) della Legge 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale […] a mezzo della posta elettronica certificata”.

Nel processo amministrativo telematico (PAT) – previsto dall’art. 13 delle norme di attuazione di cui all’Allegato 2 al cod. proc. amm. – è ammessa la notifica del ricorso a mezzo PEC anche in mancanza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. , disposizione che concerne le “forme speciali” di notifica. GMC

 



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Inserito in data 01/06/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 28 maggio 2015, n. 22471

Aumento di pena a titolo di continuazione per reati satellite relativi a droghe leggere

La sentenza affronta la seguente questione: se l’aumento di pena irrogato a titolo di continuazione per i delitti previsti dall’art. 73 DPR 309/1990 in relazione a droghe leggere, quando gli stessi costituiscono reati satellite, debba essere oggetto di specifica rivalutazione, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, che ha fatto rivivere una più favorevole cornice edittale per i reati relativi a droghe leggere.

La sentenza respinge l’orientamento negativo, secondo il quale la reviviscenza di un trattamento meno afflittivo non comporta la riformulazione del trattamento sanzionatorio, quando i delitti di cui all’art. 73 DPR 309/1990 rivestano il ruolo di reati satellite, dato che all’interno del reato continuato i reati “minori” perdono la loro autonomia sanzionatoria.

Piuttosto, si aderisce all’orientamento opposto, in base al quale l’aumento di pena applicato a titolo di continuazione per i reati satellite deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte del giudice di merito.

È vero, infatti, che nella determinazione della pena complessiva i reati meno gravi perdono la loro autonomia sanzionatoria, dato che il relativo trattamento sanzionatorio confluisce nella pena unica irrogata per tutti i reati concorrenti. Tuttavia, nella determinazione in concreto del quantum di pena da apportare per i singoli reati satellite, deve comunque procedersi ad una valutazione della loro gravità ex art. 133 cp.

Infatti, il momento sanzionatorio segue quello valutativo, e dunque lo presuppone. In tal senso depone l’art. 533, comma 2, cpp, che impone al giudice una procedura bifasica: dapprima si stabilisce la pena per ciascun reato e poi si determina la pena da applicare per il reato unitariamente considerato.

Ed ancora, se lo scopo dell’istituto della continuazione è la mitigazione del trattamento sanzionatorio, tale mitigazione non può che avere come termine di paragone la pena astrattamente prevista per i singoli reati. CDC

 




Inserito in data 01/06/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 maggio 2015, n. 2694

Sulla sindacabilità della discrezionalità amministrativa da parte del G.A.

La sentenza in esame concerne i limiti alla sindacabilità della discrezionalità amministrativa da parte del Giudice Amministrativo.
Com’è noto, l’amministrazione deve agire per il soddisfacimento di interessi pubblici primari, tenuto conto, altresì, degli interessi pubblici secondari e degli interessi collettivi e privati presenti nella fattispecie concreta che, di volta in volta, le si prospetta dinanzi.
L’esercizio del potere discrezionale rappresenta, pertanto, la scelta circa la soluzione più opportuna che consenta ai pubblici poteri di contemperare i diversi interessi che vengono in rilievo nel caso concreto.

Dunque, mentre l’assetto sostanziale degli interessi rientra nell’alveo del merito amministrativo che non può essere oggetto di sindacato ad opera del Giudice Amministrativo, le modalità tramite cui la PA procede nell’esercitare il proprio potere può formare l’oggetto di un controllo di legittimità da parte del giudice, unicamente nell’ipotesi di macroscopici vizi logici, o travisamento dei fatti. In sostanza, il giudice deve limitarsi a verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione. CDC



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Inserito in data 29/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 26 maggio 2015, n. 10798

Sull’ingiustificato arricchimento della P.A.

Con la pronuncia in esame, gli Ermellini sciolgono il contrasto sorto in merito all’ingiusto arricchimento della Pubblica Amministrazione.

Viene chiarito, infatti, che il riconoscimento della utilità dell’opera, non rappresenta un requisito per l’azione di indebito arricchimento, bensì è affidato al giudice il compito di valutare la prova fornita dal privato sull’incremento patrimoniale.

La Pubblica Amministrazione, inoltre, dal canto proprio, non può limitarsi a non riconoscerlo, ma dovrà dimostrare che questo non fu voluto o tuttavia avvenne ma inconsapevolmente.

È da chiarire che la regola di carattere generale, secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati, né spostamenti patrimoniali ingiustificabili, trova una applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e, poiché, il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c. nei confronti della Pubblica Amministrazione, deve provare il “fatto oggettivo” dell’arricchimento, senza che l’Amministrazione – come sopra anticipato – possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo, quest’ultima, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu tuttavia consapevole. GMC

 




Inserito in data 29/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 maggio 2015, n. 2595

Sull’omessa dichiarazione di alcune condanne penali

Una s.r.l. partecipava ad una gara di forniture di stampati di varie tipologie indetta da una s.p.a. ed articolata per lotti, aggiudicandosene provvisoriamente uno.

Tuttavia, veniva, in seguito, esclusa dalla gara poiché erano state rese dichiarazioni omissive in ordine a due precedenti penali a carico dell’Amministrazione.

La prima decide di impugnare l’esclusione de qua davanti al TAR Lazio, deducendo, essenzialmente, che il modello di dichiarazione predisposto dalla stazione appaltante precedeva la dichiarazione – così come si legge dalla pronuncia – “delle sole condanne ostative e non già di qualsivoglia ininfluente condanna”.

Specificamente, nel caso de quo, le condanne erano una risalente agli inizi degli anni Novanta, per omesso versamento di ritenute operate come sostituto di imposta (reato in seguito depenalizzato), ed una risalente ai primi anni del Duemila, per pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale.

I Giudici del Supremo Consesso amministrativo, con la pronuncia in esame, chiariscono che l’omessa dichiarazione di alcune condanne penali, può essere sanzionata con l’esclusione dalla gara solo in presenza di un obbligo stringente imposto dal bando, mentre, in caso contrario, il concorrente può ritenersi esonerato dal dichiarare l’esistenza di condanne per infrazioni penalmente rilevanti, ma di lieve entità.

Oltre a ciò, qualora la dichiarazione sia resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante, ed il concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi l’esclusione dalla gara per l’incompletezza della dichiarazione resa. GMC

 



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Inserito in data 28/05/2015

Arrecato vulnus al diritto soggettivo di elettorato passivo: giurisdizione ordinaria

Con l’ordinanza emessa in data odierna, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione civile intervengono nella nota vicenda relativa alla cessazione dalla carica di sindaco del primo cittadino partenopeo – Luigi De Magistris.

Il massimo Collegio, esprimendosi in merito ai confini della giurisdizione, attribuisce alla potenziale lesione – lamentata dal ricorrente – natura e rango di diritto soggettivo, poiché consistente in un vulnus alla capacità di elettorato passivo e, proprio perché tale, tutelabile dinanzi al Giudice Ordinario.

Di conseguenza, tracciata la giurisdizione, le parti sono tenute a rimettere il giudizio dinanzi alla giusta sede, nel rispetto dei termini di legge. CC 

 




Inserito in data 28/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 maggio 2015, n. 2637

Prove selettive ed annullamento quesiti: autotutela e conservazione atti

Il Collegio della Sesta Sezione accoglie l’appello dell’Amministrazione competente che, ritenendo insussistente l’affidamento presuntivamente vantato da parte appellata, chiede la riforma della pronuncia emessa dal Giudice di prime cure.

Questi, infatti, aveva riconosciuto all’originario ricorrente il diritto ad ottenere l’annullamento della prova selettiva e la ripetizione della stessa – sostenuta per l’accesso al corso di laurea in Medicina e Chirurgia, ritenendola viziata a causa dell’avvenuta correzione sulla base della decurtazione di due quesiti che l’Amministrazione aveva ravvisato come erronei.

I Giudici, conformandosi ad un orientamento già saldo, evidenziano come l'annullamento in questione, operato in via di autotutela, debba essere vagliato sulla base dei canoni dell'interesse pubblico concreto e attuale, del ragionevole lasso di tempo per l'esercizio della autotutela e della valutazione dei contrapposti interessi.

Infatti, recita il Collegio, dinanzi ad un quesito illegittimo, accertato mentre la procedura era in corso, l'Amministrazione nella sua discrezionalità che non può essere oggetto di sindacato giurisdizionale, ha ritenuto sussistere l'interesse pubblico a rimuovere l'illegittimità e, con immediatezza, ha valutato, legittimamente e ragionevolmente, di annullare il quesito inesatto e di evitare di procedere similmente riguardo al l'intera prova concorsuale.

Tutto ciò, evidentemente, risulta coerente con il principio di conservazione degli atti, di buon andamento dell'Amministrazione e di tutela dell'affidamento dei candidati che hanno superato le prove, affidamento – sottolineano i Giudici - su cui non può contare l'attuale appellato ed originario ricorrente. CC 


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Inserito in data 27/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 maggio 2015, n. 2615

Non contraddizione delle prescrizioni della P.A. e modifiche migliorative

La controversia sottoposta all’attenzione del consiglio di stato concerne l’aggiudicazione di un appalto di esecuzione di lavori, da valutarsi con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la cui lex specialis di gara specificava la necessaria non contraddittorietà delle eventuali proposte migliorative con le prescrizioni rilasciate in sede di conferenza di servizi dai soggetti interferenti con le opere di progetto.

Il Collegio, dopo aver preliminarmente ricordato che l’insindacabilità delle valutazioni della pubblica amministrazione attiene solo a quelle operazioni caratterizzate da discrezionalità amministrativa, salve le ipotesi in cui sussistano illogicità macroscopiche o le suddette valutazioni siano manifestamente irragionevoli, irrazionali, arbitrarie o travisino i fatti, potendo, pertanto, formare oggetto di accertamento giudiziale il dato fattuale sul quale è stato esercitato il potere discrezionale e che ne costituisce il presupposto, ha ritenuto fondato il motivo di appello promosso avverso la sentenza che aveva annullato il provvedimento di aggiudicazione (concernente il mancato rispetto delle suddette prescrizioni).

Il Supremo Consesso, infatti, ha rilevato che <<le prescrizioni formulate dalle amministrazioni intervenute nella conferenza dei servizi, benché non fossero delle mere raccomandazioni (…), non davano vita neppure a necessarie modifiche al progetto esecutivo dei lavori posto a base di gara (ciò non essendo imposto ai concorrenti), costituendo piuttosto delle direttive operative, stringenti e vincolanti, in ordine alle modalità di esecuzione dei lavori, che non dovevano incidere negativamente sulle interferenze, danneggiando le infrastrutture esistenti ovvero impedire o ritardare o comunque incidere negativamente sui servizi resi dagli enti proprietari delle infrastrutture interferite>>.

La possibilità di apportare modifiche (migliorative), infatti, era prevista dallo stesso bando di gara costituendo, anzi, un criterio di valutazione dell’offerta stessa. VA

 



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Inserito in data 27/05/2015
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 26 maggio 2015, n. 92

Irrilevanza del difetto di motivazione nel giudizio pensionistico

La Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della l. 241/90 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), per violazione degli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione.

Più precisamente viene  contestata la legittima costituzionale della norma sopra citata nella parte in cui si consente, in corso di un giudizio, l’integrazione delle motivazioni del provvedimento amministrativo anche nel caso in cui sia intercorso un considerevole lasso di tempo, <<costituendo,  l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, un corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione, in quanto consente al destinatario del provvedimento che ritenga lesa una propria situazione giuridica di far valere la relativa tutela giurisdizionale, senza che assuma alcuna rilevanza al riguardo la natura discrezionale o vincolata dell’atto>>.

Tuttavia, attesa la particolarità della materia del contendere, i giudici di legittimità hanno affermato che, avendo il giudizio pensionistico (all’interno del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale) natura meramente ricognitiva, come più volte affermato dalla stessa giurisprudenza, la violazione di norme meramente procedurali, comprese quelle dettate dalla L. 241/90, o dei precetti di buona fede e correttezza non inciderebbe in alcun modo sul rapporto obbligatorio.

Il Collegio, inoltre, ricorda quella giurisprudenza contabile che <<sul presupposto che il giudizio pensionistico, ancorché promosso formalmente con ricorso contro un atto della pubblica amministrazione, ha per oggetto il completo riesame del rapporto obbligatorio di quiescenza nella sua globalità (…), ha affermato che non sono dirimenti le censure formali, includendo in esse anche quelle relative alla illegittimità del provvedimento per violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 (Corte dei conti – 167/08) rilevando come il giudice rimettente non abbia adeguatamente motivato come superare questo orientamento giurisprudenziale, né abbia esperito il tentativo di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata, comportando così l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata. VA

 



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Inserito in data 26/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 maggio 2015, n. 2660

Nozione di ente pubblico, rapporto in house e partecipazione di capitali privati

Con la sentenza in esame è stato escluso che il consorzio Cineca possa essere qualificato come soggetto in house.

L’argomento centrale consiste nel fatto che manca uno dei requisiti necessari dell’in house, cioè la partecipazione pubblica totalitaria. Infatti, al consorzio Cineca partecipano anche Università private e, secondo la pronuncia, le Università private non possono essere qualificate come enti pubblici nel caso in esame.

Sul punto, si premette che la nozione di ente pubblico non può ritenersi fissa ed immutevole; dunque, il fatto che alle Università private sia stata riconosciuta natura pubblicistica a certi fini non implica automaticamente ed in modo immutevole l’integrale sottoposizione alla disciplina pubblicistica. Al contrario, l’ordinamento si è orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico, per cui uno stesso soggetto può avere la natura di ente pubblico a certi fini e rispetto a certi istituti, e può, invece, non averla ad altri fini.

Il criterio da utilizzare per tracciare il perimetro del concetto di ente pubblico non è dunque sempre uguale a se stesso, ma muta a seconda dell’istituto o del regime normativo che deve essere applicato e della ratio ad esso sottesa. Occorre allora di volta in volta domandarsi quale sia la funzione di un certo istituto, quale sia la ratio di un determinato regime “amministrativo” previsto dal legislatore, per poi verificare, tenendo conto delle caratteristiche sostanziali del soggetto della cui natura si controverte, se quella funzione o quella ratio richiedono l’inclusione di quell’ente nel campo di applicazione della disciplina pubblicistica.

Nel caso, deve evidenziarsi che alla base dell’istituto dell’in house c’è la considerazione che il soggetto in house ha un rapporto di immedesimazione con la PA affidante, essendo equiparabile ad un suo organo interno. Questo non si realizza nell’ipotesi della partecipazione, anche minima di privati: infatti, qualsiasi investimento di capitale privato obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e l’attribuzione diretta di un appalto pubblico ad un soggetto partecipato da privati pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera. Per tale ragione, la giurisprudenza comunitaria richiede la partecipazione pubblica totalitaria.

Ed allora, la nozione di ente pubblico nell’in house deve essere ricostruita in modo particolarmente rigoroso e restrittivo, con esclusione del rapporto in house in presenza della partecipazione di soggetti formalmente privati, come le Università private.

Tale conclusione non è smentita dalle nuove direttive in materia di in house (direttive n. 23, 24 e 25 del 2014), che consentono, a certe condizioni, forme di partecipazione di capitali privati nei soggetti in house.

Infatti, queste direttive non sono self executing, non essendo ancora scaduto il termine per la loro attuazione da parte dello Stato. E non rileva l’obbligo per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva. Infatti, le regole sull’in house che potrebbero contrastare con le nuove regole provengono proprio dall’ordinamento europeo. Non può quindi ritenersi che la mera pubblicazione della direttiva determini il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria, univoca nell’escludere la compatibilità dell’in house con la partecipazione di privati.

Ma soprattutto, l’in house rappresenta una deroga alle regole della concorrenza, cioè un istituto eccezionale, del quale il legislatore può, ma non deve, avvalersi, essendo legittimo configurare sul piano del diritto interno una possibilità di ricorso all’in house in termini più restrittivi. In altre parole, l’in house aperto ai privati rappresenta non un obbligo, ma una facoltà della quale il legislatore italiano potrebbe decidere di non avvalersi, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza più elevato rispetto a quello prescritto a livello comunitario. CDC 



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Inserito in data 26/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 maggio 2015, n. 10202

Quietanza tipica e superamento della vincolatività della dichiarazione

Con la sentenza in esame sono stati confermati i principi di diritto espressi dalle Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 19888 del 2014, in tema di quietanza tipica, quietanza di favore e quietanza atipica.

In particolare, si ribadisce che, con riferimento alla quietanza tipica, non è sufficiente, per superare la vincolatività della dichiarazione, provare di non avere ricevuto il pagamento. Piuttosto, il creditore è ammesso ad impugnare la quietanza non veridica soltanto attraverso la dimostrazione - con ogni mezzo - che il divario esistente tra realtà e dichiarato è conseguenza di errore di fatto o di violenza. Al di fuori di questi casi, vale il principio di autoresponsabilità, che vincola il quietanzante alla contra se pronuntiatio asseverativa del fatto dell'intervenuto pagamento, seppure non corrispondente al vero. CDC

 




Inserito in data 25/05/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 20 maggio 2015, n. 7314

Gare d’appalto e congruità delle offerte economiche presentate

Con la sentenza in esame, il Collegio afferma che, “in sede di valutazione di anomalia delle offerte presentate nelle gare di appalto, non è possibile fissare una quota rigida di utile al di sotto della quale l’offerta deve considerarsi per definizione incongrua, dovendosi invece avere riguardo alla serietà della proposta contrattuale, atteso che anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio importante, in termini, per esempio, di maturazione di requisiti di capacità tecnica ed economica per la partecipazione a successive gare; solo un utile pari a zero o l’offerta in perdita rendono ex se inattendibile l’offerta economica” (cfr.: Cons. St. - sez. IV, 26.2.2015, n. 963; sez. III, 9.7.2014, n. 3492; T.a.r. Sicilia – Catania, 10.4.2014, n. 1059). EF

 



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Inserito in data 25/05/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS, 21 maggio 2015, n. 7322

Sul trasferimento di studenti universitari in altro Paese dell’U.E.

Con la pronuncia in epigrafe, il Tar Lazio rammenta che “i contrasti giurisprudenziali sulla vicenda dei trasferimenti da Università di Paesi appartenenti all’Unione Europea ed in particolare sulla tematica relativa alla precisa individuazione dei presupposti richiesti nell’ordinamento vigente per il trasferimento di studenti iscritti in università straniere a corsi di laurea dell’area medico-chirurgica (v. ord. 454/2014 C.G.A.R.S. di remissione della questione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato), sono stati appianati dalla sentenza resa dall’Adunanza Plenaria il 28.01.2015 n. 1, che ha confermato quanto già divisato da questa Sezione con le sentenze nn. 255 e 256 del 2013”.

Invero, “sebbene l’indirizzo rigoroso prescelto dal Ministero trovi certamente una giustificazione di opportunità nell’esigenza di evitare da parte di taluni studenti i veri e propri aggiramenti dell’obbligo preselettivo, mediante l’iscrizione al primo anno e il superamento di pochi e a volte più semplici esami in altre università straniere, è lo stesso ordinamento interno a non prevedere, almeno allo stato attuale, disposizioni tali da precludere agli studenti comunitari il trasferimento ad anni successivi al primo presso Atenei italiani, seppur a “numero chiuso” senza necessità di espletare un test preselettivo, neppur quando nelle università di provenienza sia previsto un test iniziale di accesso”.

Infatti, la legge 2 agosto 1999, n. 264 recante “Norme in materia di accessi ai corsi universitari” nel disciplinare il cd. accesso mediante numero programmato ad alcuni corsi di laurea ha riguardo soltanto alle iscrizioni al primo anno di corso. Lo stesso art. 4, nel prevedere il contenuto degli esami “di ammissione ai corsi”, peraltro, non può essere interpretato se non con riferimento all’accesso iniziale, sia in quanto conforme alla ratio complessiva della normativa (espressamente rivolta a disciplinare “l’accesso” e non la “frequenza” per gli anni successivi al primo), sia in virtù dell’espresso riferimento contenuto nel comma 2, ai sensi del quale: “I requisiti di ammissione alle tipologie di corsi e titoli universitari, da istituire con le procedure di cui all'articolo 17, comma 95, della L. 15 maggio 1997, n. 127, e successive modificazioni, in aggiunta o in sostituzione a quelli previsti dagli articoli 1, 2, 3, comma 1, e 4, comma 1, della L. 19 novembre 1990, n. 341, sono determinati dai decreti di cui al citato articolo 17, comma 95, della legge n. 127 del 1997, i quali comunque non possono introdurre fattispecie di corsi ad accesso programmato ulteriori rispetto a quanto previsto dalla presente legge”.

Tale impostazione, oltre che pienamente rispettosa della normativa nazionale, ad avviso del Collegio “appare inoltre la più conforme al rispetto dell’apicale principio di libertà di circolazione e soggiorno nel territorio degli Stati comunitari, suscettibile di applicazione non irrilevante nel settore dell’istruzione e trova nelle norme del Trattato una tutela e una rilevanza applicativa autonoma, anche rispetto al principio espresso dall’art. 149, n. 1, CE - divenuto art. 165 della Convenzione di Lisbona che, per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione dei rispettivi sistemi di istruzione, esclude qualunque forma di (necessaria) armonizzazione delle disposizioni nazionali in tema di "percorsi formativi", demandando alla Comunità il limitato compito di promuovere azioni di incentivazione e raccomandazioni”. EF

 



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Inserito in data 24/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE - SENTENZA 21 maggio 2015, n. 21044

Responsabilità penale del rappresentante fiscale

Gli Ermellini, con la pronuncia de qua, pubblicata dalla Terza Sezione Penale, chiariscono che il rappresentante fiscale per l’Italia della società estera, può rispondere dei reati di cui agli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 74/2000, a titolo di concorso, senza che rilevi la predisposizione da parte di terzi delle dichiarazioni da lui firmate. 

Invero, i Giudici di Piazza Cavour, hanno confermato il sequestro preventivo dei beni di un quarantenne campano, accusato dei reati di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, dichiarazione infedele e truffa ai danni dello Stato, con l’aggravante della transnazionalità. 
In breve, il Tribunale di Napoli, ha ritenuto sussistente il presupposto del fumus commissi delicti, e ciò, nonostante la tesi contraria prospettata dal difensore, secondo cui la qualità dell’indagato di rappresentante fiscale della società coinvolta nella frode non integra, automaticamente, la responsabilità concorsuale del medesimo nei pretesi reati fiscali, “anche perché il prevenuto si è limitato a sottoscrivere e inoltrare ai competenti uffici le dichiarazioni fiscali redatte e predisposte da altri professionisti”. 
Ebbene, la Corte di Cassazione, non ha nutrito alcun dubbio circa la correttezza dell’operato del giudice di merito, poiché, quest’ultimo, ha ipotizzato, in modo certamente plausibile, il concorso dell’indagato nelle attività illecite ascrittegli. 
In particolare, il Tribunale, ha evidenziato come il prevenuto fosse il firmatario della dichiarazione dei redditi in contestazione e come fosse, tra l’altro, assolutamente consapevole della sua irregolarità. 
“Sul punto”, affermano gli Ermellini, “va richiamato il principio, affermato da questa Corte (sent. 26356/2014), secondo il quale sul rappresentante fiscale incombe l'obbligo, ex art. 17, d.P.R. 633/1972, di assolvere a tutti gli adempimenti previsti dalle norme Iva. 
È indubitabile, peraltro, che il reato è configurabile anche nei confronti del rappresentante fiscale per l'Italia di società estere, in quanto questi rappresenta l'unico interlocutore, sia pure in solido, per le obbligazioni fiscali e doganali
”. GMC

 




Inserito in data 24/05/2015
TAR LIGURIA - GENOVA, SEZ. I, 15 maggio 2015, n. 492

Ordinanza contingibile, autotutela e cessazione materia del contendere

Il Collegio ligure interviene, con la pronuncia in esame, in tema di obbligo per il Giudice amministrativo di dichiarare la cessazione della materia del contendere – ex art. 34 – 5’ co. C.p.A.

Si tratta, infatti, di un ricorso giurisdizionale incoato avverso un’ordinanza sindacale, originariamente emessa per lo smaltimento di rifiuti, ma poi oggetto di revoca in autotutela – da parte dell’Amministrazione competente – stante la pendenza di un procedimento penale in capo al medesimo ricorrente per gli stessi fatti contestati dall’Amministrazione.

Il Comune, infatti, uniformandosi alla Difesa di controparte, ha ritenuto che fosse stato raggiunto il risultato pratico perseguito attraverso il ricorso giurisdizionale.

Di conseguenza il Giudice è chiamato a dichiarare l’avvenuta cessazione della materia del contendere, ai sensi dell’art. 34, comma 5, c.p.a.

Nel provvedere in tal senso, il Collegio sottolinea che l’avvenuta rimozione in autotutela del provvedimento sindacale ha fatto venir meno la lesione sulla quale si era innestato l’interesse a ricorrere, cosicché risulta pienamente soddisfatta, come riconosciuto dalla stessa parte ricorrente, la pretesa sostanziale azionata in giudizio. CC

 



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Inserito in data 21/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 maggio 2015, n. 20606

Appropriazione indebita e mancata consegna delle spese legali

Il Supremo Consesso ha affermato che <<non commette il reato di appropriazione indebita la parte vincitrice di una causa civile – a cui favore il giudice abbia liquidato una somma a titolo di spese legali – che si rifiuti di consegnarla al proprio avvocato che reclami come propria la suddetta somma>>.

La condotta, infatti, non presenterebbe gli elementi oggettivi e soggettivi richiesti dalla norma incriminatrice.

L’art. 646 c.p. richiede, ai fini della configurabilità del reato di appropriazione indebita: a) l’altruità della cosa; b) la legittima detenzione; c) l’interversione nel possesso; d) l’ingiusto profitto.

Tuttavia, nel caso in cui il giudice liquidi le somme per le spese giudiziarie direttamente al cliente, queste non possono dirsi di proprietà dell’avvocato. Il rapporto intercorrente tra avvocato e cliente, infatti, deve essere ricondotto all’interno della categoria delle obbligazioni. Ne consegue che, stante l’esistenza di un diritto alla percezione di quanto dovuto a titolo di parcella, l’avvocato non vanta un diritto reale sulla somma assegnata. Alla luce di quanto detto, attesa la carenza del presupposto dell’appropriazione indebita (la proprietà del terzo sul bene detenuto), deve escludersi che il rifiuto opposto dal cliente alla consegna della suddetta somma possa integrare il reato di cui all’art. 646 c.p. VA

 




Inserito in data 21/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 maggio 2015, n. 2539

Sulla indicazione dei requisiti dell’impresa ausiliaria

Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso presentato avverso la sentenza di primo grado, con la quale era stata dichiarata l’illegittimità del provvedimento di aggiudicazione di una gara per l’affidamento del servizio di pulizia e sanificazione di un ente ospedaliero, per mancanza dei requisiti richiesti dal bando di gara.

Con la decisione in commento il Consiglio di Stato, infatti, dopo un excursus della normativa di settore, ha escluso la genericità dell’indicazione delle risorse messe a disposizione dall’impresa ausiliaria.

Il Collegio, richiamando l’articolo 49 del d.lgs. n. 163 del 2006, ha ricordato come l’impresa ausiliaria deve impegnarsi a mettere a disposizione il requisito del quale l’impresa aggiudicataria è priva non «quale mero valore astratto» ma <<indicando chiaramente con quali proprie risorse può far fronte alle esigenze per le quali si è impegnata a sopperire ai requisiti dei quali l’impresa ausiliata è carente, a seconda dei casi, con mezzi, personale o risorse economiche>>.

L’esigenza di tale puntualizzazione trova la propria giustificazione funzionale nella necessità di evitare aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche (C.d.S. 412/14 e  3310/13).

Ne consegue che <<la pratica della mera riproduzione, nel testo dei contratti di avvalimento, della formula legislativa della messa a disposizione delle risorse necessarie di cui è carente il concorrente (o di simili espressioni) è stata ritenuta tautologica e, come tale, indeterminata e quindi inidonea a permettere un sindacato, da parte della Stazione appaltante, sull’effettiva messa a disposizione dei requisiti>>.

I principi sopra esposti sono stati, infine, trasfusi anche nell’art. 88 comma 1 lett. a), del d.p.r. 207/10 con il quale si stabilisce che <<il contratto di avvalimento deve riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico>>.

I Giudici di Palazzo Spada, inoltre, hanno affermato che la suddetta normativa, com’è avvenuto nel caso di specie, dev’essere applicata anche nel cd. avvalimento di garanzia (volto a garantire la solidità patrimoniale dell’impresa aggiudicataria e, conseguentemente, l’attuazione dell’appalto).

Ciò posto, come già detto, il Collegio ritenute esaustive le indicazioni dell’impresa ausiliaria, ha accolto il ricorso in parte qua. VA

 



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Inserito in data 20/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA CIVILE - 2 - SENTENZA 19 maggio 2015, n. 10233

Procedura fallimentare complessa e diritto ad un equo indennizzo

La pronuncia in esame è degna di nota poiché con essa si inquadra un ulteriore tassello in seno all’operatività delle Legge Pinto – nelle ipotesi, cioè, di irragionevole durata del processo.

La Suprema Corte, infatti, afferma che la durata di una procedura fallimentare particolarmente complessa possa oscillare tra i 5/7 anni di durata, ma non oltre i limiti di questi.

Ove, quindi, fosse superato tale margine temporale, i Giudici ritengono sia congruo far scattare, in favore dei soggetti interessati da una Procedura così gravosa, l’equa riparazione di cui alla legge Pinto – n. 89/01. CC

 




Inserito in data 20/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 maggio 2015, n. 2531

Esclusione dalle elezioni, ufficio competente, autenticazione e territorialità

Il Collegio della quinta Sezione interviene in riforma della pronuncia di primo grado, a seguito della esclusione dalla competizione elettorale, deliberata ed autenticata da Funzionari appartenenti ad altra circoscrizione territoriale, parzialmente diversa da quella entro la quale avrebbe dovuto concorrere l’odierno appellante.

Più nel dettaglio, i Giudici di secondo grado specificano che il requisito della territorialità debba essere inteso non soltanto con riguardo al luogo in cui l’attività certificativa viene svolta, ma anche in relazione agli effetti che essa produce.

Pertanto, a dispetto di quanto addotto dai Giudici di prime cure, i funzionari incaricati dal sindaco non possono svolgere funzioni i cui effetti si producano al di fuori dell’Ente nel quale essi stessi sono incardinati.

In questo modo, infatti, ritiene il Giudice del gravame, si verificherebbe una sostanziale delocalizzazione del procedimento elettorale rispetto all’ambito territoriale da esso interessato.

Tanto sarebbe avvenuto se si fosse dato seguito alla pronuncia oggi, invece, oggetto di censura e di susseguente riforma. CC 


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Inserito in data 19/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 12 maggio 2015, n. 9636

Responsabilità precontrattuale della PA ex art. 1338 cc e ignorantia legis non excusat

1) La responsabilità precontrattuale della PA, anche nell'ambito della procedura pubblicistica di scelta del contraente, non è responsabilità da provvedimento, ma da comportamento e presuppone la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Pertanto, non rileva la legittimità dell'esercizio della funzione pubblica espressa nel provvedimento amministrativo di aggiudicazione e in altri provvedimenti successivi (anche emessi in autotutela), ma la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dalla PA durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, poiché tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica si pongono quale strumento di formazione progressiva del consenso contrattuale.

 

2) Nel caso in cui, all'esito della procedura di evidenza pubblica, sia stipulato il contratto la cui efficacia sia condizionata all'approvazione da parte dell'autorità di controllo, la PA committente ha l'obbligo di comportarsi secondo buona fede e correttezza, cioè di tenere informato l'altro contraente delle vicende attinenti al procedimento di controllo e di fare in modo che non subisca i pregiudizi connessi agli sviluppi e all'esito del medesimo procedimento. La PA è quindi responsabile qualora, avendo preteso l'anticipata esecuzione della prestazione, abbia accettato il rischio del successivo mancato avveramento della condizione di efficacia del contratto a causa della mancata registrazione del decreto di approvazione, in tal modo frustrando il legittimo e ragionevole affidamento del privato nella eseguibilità del contratto.

 

3) L’art. 1338 cc tutela l’affidamento di una delle parti non nella conclusione del contratto, ma nella sua validità. Pertanto, di solito si afferma che non è configurabile una responsabilità precontrattuale della PA ove l’invalidità del contratto derivi da norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati e quindi tali da escludere l’affidamento incolpevole della controparte.

Occorre però comprendere cosa si intenda per norme generali, da presumersi note alla generalità dei consociati. Infatti, estendendo eccessivamente il dovere di diligenza a carico della parte che dovrebbe ricevere l’informazione circa la causa di invalidità o inefficacia del contratto, sarebbe compromessa l’utilità dell’art. 1338 cc.

Deve allora ritenersi che il principio ignorantia legis non excusat non ha, in materia contrattuale, un valroe generale e assoluto, dovendosi piuttosto indagare caso per caso sulla diligenza e, quindi, sulla scusabilità dell’affidamento del contraente.

In sintesi, il giudice di merito deve verificare in concreto se la norma di relazione violata dalla PA sia conosciuta o facilmente conoscibile da qualunque cittadino mediamente avveduto, tenuto conto della univocità dell'interpretazione della norma e della conoscenza e conoscibilità delle circostanze di fatto cui la legge ricollega l'invalidità.

Invece, in presenza di norme di azione che la PA è tenuta istituzionalmente a conoscere ed applicare in modo professionale (es: quelle che disciplinano il procedimento di scelta del contraente), essa ha l'obbligo di informare il privato delle circostanze che potrebbero determinare la invalidità o inefficacia e, comunque, incidere negativamente sulla eseguibilità del contratto, pena la propria responsabilità per culpa in contraendo, salva la possibilità di dimostrare in concreto che l'affidamento del contraente sia irragionevole, in presenza di fatti e circostanze specifiche. CDC

 




Inserito in data 19/05/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 18 maggio 2015, n. 2495

Principio di precauzione e obblighi di prevenzione

Il principio di precauzione fa obbligo alle Autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire i rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l'ambiente, ponendo una tutela anticipata rispetto alla fase dell'applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione.

L'applicazione del principio di precauzione comporta che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un'attività potenzialmente pericolosa, l'azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche, anche nei casi in cui i danni siano poco conosciuti o solo potenziali. CDC

 



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Inserito in data 18/05/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 15 maggio 2015, n. 83

Q.l.c. dell’imposta di consumo sulla commercializzazione delle sigarette elettroniche

Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-quater del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative), nel testo originario, antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 15 dicembre 2014, n. 188 (Disposizioni in materia di tassazione dei tabacchi lavorati, dei loro succedanei, nonché di fiammiferi, a norma dell’articolo 13 della legge 11 marzo 2014, n. 23), nella parte in cui sottopone ad imposta di consumo, nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico, la commercializzazione dei prodotti non contenenti nicotina, idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché i dispositivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo”.

In particolare, l’art. 11, comma 22, del decreto- legge 28 giugno 2013, n. 76, come emerge dall’esame dei lavori preparatori, “trova primaria giustificazione nell’esigenza fiscale, di recupero di un’entrata erariale − l’accisa sui tabacchi, con particolare riguardo alle sigarette − la quale ha subito una rilevante erosione, per effetto dell’affermazione sul mercato delle sigarette elettroniche”.

Ciò premesso, il Giudice delle Leggi osserva che “anche in materia tributaria, il principio della discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative incontra il limite della manifesta irragionevolezza, che nel caso in esame risulta varcato dalla indiscriminata sottoposizione ad imposta di qualsiasi prodotto contenente «altre sostanze», diverse dalla nicotina, purché idoneo a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio, che ne consentono il consumo, e in definitiva di prodotti che non hanno nulla in comune con i tabacchi lavorati”.

Ne consegue, pertanto, la violazione del parametro di cui all’art. 3 Cost., “attesa nell’intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo”.

Infatti, “mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento al mercato dei tabacchi, trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo”.

Appare, quindi, “del tutto irragionevole l’estensione, operata dalla disposizione censurata, del regime amministrativo e tributario proprio dei tabacchi anche al commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo, i quali non possono essere considerati succedanei del tabacco”.

D’altronde, la sola indicazione dell’idoneità a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati − riferita ai prodotti non contenenti nicotina, e ai dispositivi che ne consentono il consumo – evidenzia “l’indeterminatezza della base imponibile e la mancata indicazione di specifici e vincolanti criteri direttivi, idonei ad indirizzare la discrezionalità amministrativa nella fase di attuazione della normativa primaria. Discende da ciò il contrasto della disposizione in esame con la riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte, di cui all’art. 23 Cost.”.

Ed invero, se è indubbio che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, abbia carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, va rilevato – in conformità al consolidato orientamento di questa Corte − che ciò «non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini» (sentenza n. 115 del 2011).

Questa Corte ha inoltre ritenuto, sin dalle sue prime pronunce, che «l’espressione “in base alla legge”, contenuta nell’art. 23 della Costituzione», si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di «sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa» (sentenze n. 350 del 2007 e n. 105 del 2003), richiedendo in particolare che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenze n. 190 del 2007 e n. 115 del 2011).

Viceversa, “la norma dell’art. 62-quater del d.lgs n. 504 del 1995, affida ad una valutazione soggettiva ed empirica − la idoneità di prodotti non contenenti nicotina alla sostituzione dei tabacchi lavorati – l’individuazione della base imponibile e nemmeno offre elementi dai quali ricavare, anche in via indiretta, i criteri e i limiti volti a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nella definizione del tributo. Né l’elasticità delle indicazioni legislative è accompagnata da forme procedurali partecipative, già indicate da questa Corte come possibile correttivo” (sentenze n. 180 e n. 157 del 1996; n. 182 del 1994; n. 507 del 1988).

La disposizione in esame costituisce, quindi, “violazione della riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., che impone al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente i criteri direttivi e le linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa”. EF



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Inserito in data 18/05/2015
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. I, 13 maggio 2015, n. 1302

Il privato può impugnare il silenzio della P.A. in materia di pianificazione urbanistica

Con la sentenza in esame, il Collegio etneo, nel confermare i propri numerosi precedenti, ricorda che “in Sicilia trova applicazione la disciplina del termine quinquennale di durata dei vincoli preordinati all'esproprio e che alla scadenza di tale termine sorge l'obbligo dell'amministrazione a provvedere in merito alla nuova destinazione, ferma restando, nelle more l’applicazione della disciplina delle c.d. “zone bianche” (in tal senso, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, n. 4366/2010 e, più recentemente, idem, n. 3282/2014).

Del resto, è altrettanto incontroverso che “la configurazione di tale obbligo trovi la sua radice nel fatto che l'esercizio del potere di pianificazione urbanistica del Comune sia obbligatorio nell’“an” (restando, ovviamente, largamente discrezionale nel “quomodo”, sia pure nei limiti posti dalle regole urbanistiche contenute nel D.M. n. 1444 del 1968 e, più in generale, nella legislazione di settore) e che, in caso di suo inadempimento, il privato maturi il diritto ad agire, ai sensi degli artt. 31 e 117 cod. proc. amm., avverso il silenzio serbato dall’amministrazione” (ex multis, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. I, n. 984/2007). EF

 



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Inserito in data 13/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 maggio 2015, n. 2211

Proprietario incolpevole delle violazioni edilizie commesse dall'inquilino

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe, interviene in materia di abusivismo, trattando, specificamente, del caso in cui il proprietario sia incolpevole delle violazioni edilizie commesse dal proprio inquilino.

Il Supremo Consesso amministrativo, partendo dalla considerazione secondo la quale sia possibile che il proprietario di un bene immobile nulla sappia circa la commissione dell’abuso de quo, si domanda in che modo possa evitarsi che l’immobile venga acquisito al patrimonio comunale ai sensi di legge.

Occorre premettere, anzitutto, che in materia di repressione di abusi edilizi, l’ordine di demolizione è – in tutti i casi di locazione – legittimamente notificato anche al proprietario, il quale, fino a prova contraria, è corresponsabile dell’abuso, almeno dal momento in cui ne sia venuto a conoscenza (si consideri, a tal proposito, CdS, sez. V, 31 marzo 2010, n. 1878).

Invero, se, da parte di costui, può ammettersi la completa estraneità e ignoranza, nel momento della realizzazione dell’abuso e anche nel momento iniziale del primo procedimento di accertamento dell’abuso, non può, invece, negarsi la conoscenza da un dato momento e, quindi, la sussistenza di doveri del proprietario, i quali rinascono nel momento in cui vi è la conoscenza “certa” dell’abuso compiuto.

Occorre precisare, a tal proposito, che non vale ad escludere l’incombenza dei doveri di gestione dominicale, la circostanza della stipulazione del contratto di locazione: orbene, tale contratto, se è pur vero che comporti il trasferimento, al conduttore, della “disponibilità materiale” nonché del godimento dell’immobile, non fa venir meno, in capo al proprietario, tutti i poteri e doveri di controllo, cura e vigilanza che spettano al proprietario locatore.

Anche la Suprema Corte, sotto tale profilo, ha rilevato che il proprietario conserva un effettivo potere “fisico” sulla entità immobiliare concessa in locazione, avendo altresì un obbligo di vigilanza sul medesimo immobile (Cass. , sez. III, 27 luglio 2011, n. 16422).

Alla luce di quanto chiarito dai Giudici di Palazzo Spada, il proprietario incolpevole di abuso edilizio commesso da altri, che voglia sfuggire all’effetto sanzionatorio di cui all’art. 31 del T.U. dell’edilizia e della demolizione o dell’acquisizione – come effetto della inottemperanza all’ordine di demolizione – deve provare la intrapresa di iniziative che, oltre a rendere palese la sua estraneità, siano però anche “idonee” a costringere il responsabile dell’attività illecita a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'Autorità amministrativa. GMC 

 

 



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Inserito in data 13/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 4 maggio 2015, n. 9328

Rappresentanza apparente: presupposti di applicabilità

In tema di rappresentanza, possono essere invocati i principi dell'apparenza del diritto e dell'affidamento incolpevole quando, non solo vi sia la buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, bensì ricorra anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare, nello stesso terzo, la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente.

Deve chiarirsi, inoltre, che in tema di rappresentanza apparente, il terzo contraente ha soltanto la facoltà, e non anche l'obbligo, di controllare, alla luce dell'art. 1393 c.c., se colui che si qualifichi rappresentante sia in realtà tale, poiché non basta il semplice comportamento omissivo del medesimo terzo per costituirlo in colpa nel caso di abuso della procura (o di mancanza della stessa), occorrendo, invece – ai fini dell'affermazione che egli abbia agito senza la dovuta diligenza – il concorso di altri elementi. GMC




Inserito in data 12/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI - SENTENZA 6 maggio 2015, n. 9100

Mancata tenuta delle scritture contabili e risarcimento del danno

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.

Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.

Questa sentenza è, invero, frutto dell’evoluzione giurisprudenziale occorsa sul tema.

La giurisprudenza più risalente, infatti, identificava il danno risarcibile “nella differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare” (Cass. n. 1281 del 1977, Cass. n. 2671 del 1977, Cass. n. 6493 dei 1985).

A seguito dei rilievi dottrinali, tale orientamento è stato rivisitato da alcune pronunce, secondo cui “il danno non dev'essere liquidato alla stregua del suddetto criterio differenziale, ma va invece determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate” (cfr. Cass. n. 1375 del 2000).

Altra giurisprudenza precisava, altresì, che il danno non potesse essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: “sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l'esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l'ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l'impossibilità di ricostruire i dati con l'analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonché, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all'apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto” (cfr., in tal senso, Cass. n. 16211 del 2007, n. 17033 del 2008 e n. 16050 del 2009).

Da ultimo, cioè prima dell’intervento delle SS.UU., i Giudici di Legittimità, pur muovendo “dalla premessa secondo cui nell'azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all'attore dare la prova dell'esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un'inversione dell'onere della prova quando l'assoluta mancanza o l'irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso - si è aggiunto - la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sé idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011)”. EF

 




Inserito in data 12/05/2015
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 11 maggio 2015, n. 1495

Sulla legittimazione ad impugnare il titolo edilizio

Con la sentenza in esame, il Collegio, in linea con la giurisprudenza pressoché consolidata, afferma “il principio secondo cui l’impugnazione dei titoli edilizi è consentita in capo a chiunque si trovi in una situazione di stabile collegamento con la zona interessata dalla costruzione assentita, a prescindere da ogni indagine sulla sussistenza di uno specifico interesse, essendo sufficiente la “vicinitas” quale elemento che distingue la posizione giuridica di un soggetto da quella della generalità dei consociati” (Cons. St. IV sez. 18/4/2014 n. 1995; Cons. St. V sez. 21/5/2013 n. 2757; T.A.R. Molise 26/5/2014 n. 346; T.A.R. Campania – Salerno I sez. 1/10/2012 n. 1750).

Pertanto, un interesse commerciale declinato in termini di vicinitas determina “un’ipotesi allargata ed eccezionale di legittimazione che supera i tradizionali confini della vicinitas per ampliarla a tutela dell’interesse commerciale” (T.A.R. Liguria I sez. 26/11/2012 n. 1507). EF



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Inserito in data 11/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 4 maggio 2015, n. 8867

Sulla configurabilità della presupposizione 

La dottrina e la giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. n. 19144 del 23/09/2004) sono concordi nel ritenere che la “presupposizione” sia configurabile “quando, da un lato, un'obiettiva situazione di fatto o di diritto (passata, presente o futura) possa ritenersi che sia stata tenuta presente dai contraenti nella formazione del loro consenso - pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali – come presupposto condizionante la validità e l'efficacia del negozio e, dall'altro, il venir meno o il verificarsi della situazione stessa sia del tutto indipendente dall'attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all'oggetto di una specifica obbligazione dell'uno o dell'altro”. EF

 




Inserito in data 11/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 maggio 2015, n. 2316

Il piano di zonizzazione acustica non ammette controinteressati in senso formale

La giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV, 22-6-2000, n. 3489; sez. IV, 18-5-1998, n. 827; sez. IV, 8-7-2002, n. 3805; Ad. plen., 8-5-1996, n. 2 ) , sia pur con riferimento allo strumento urbanistico, ma comunque giustificando il proprio convincimento sulla base della natura di atto amministrativo generale dello stesso, ha escluso “la configurabilità di soggetti controinteressati, evidenziando che la funzione esclusiva del piano urbanistico è quella di predisporre un ordinato assetto del territorio comunale, prescindendo dal considerare le posizioni dei titolari di diritti reali, anche se nominativamente indicati, ed i vantaggi e gli svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione”.

Si è, invero, affermato che “l’interesse qualificato, che costituisce la premessa per la posizione di controinteressato, deve essere espressamente tutelato dal provvedimento e percepibile come un vantaggio individualmente attribuito”.

E’ stato pure chiarito ( Cons. stato, sez. VI, 15-12-2014, n. 6153) che “la figura di controinteressato in senso formale , peculiare del processo amministrativo, ricorre soltanto nel caso in cui l’atto sul quale è richiesto il controllo giurisdizionale si riferisca direttamente ed immediatamente a soggetti singolarmente individuabili, i quali per effetto di detto atto abbiano già acquistato una posizione giuridica di vantaggio, vicenda questa per definizione non configurabile nell’atto generale”.

Orbene, ritiene la Sezione che “tali principi siano applicabili anche al Piano di zonizzazione acustica, in considerazione della omologa natura di atto di pianificazione, diretto a classificare, in relazione allo specifico interesse pubblico tutelato, il territorio comunale in zone, senza prendere in considerazione e, dunque, riconoscere una immediata posizione differenziata di vantaggio in capo ad alcuno”. EF

 



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Inserito in data 07/05/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 7 maggio 2015, n. 2291

Acquisizione di beni strumentali deve avvenire mediante procedure concorrenziali

Il Collegio ha accolto il ricorso avverso la pronuncia del tribunale di merito che aveva confermato la legittimità dell’affidamento in house effettuato da un’azienda sanitaria per i relativi servizi di pulizia e sanificazione.

Il Supremo Consesso, infatti, richiamando l’art. 4 del d.l. 95/2012 (convertito in l. 135/2012), e più precisamente il disposto contenuto al comma 7 della norma citata, evidenziandone l’univocità di lettura, rileva come il fine della norma vada al di là del mero interesse economico, avendo come scopo precipuo la tutela della liberà concorrenza. Pertanto, al dichiarato fine di evitare distorsioni di quest’ultima e del mercato, la norma in questione ha disposto che <<a decorrere dal 1° gennaio 2014, le pubbliche amministrazioni, nel rispetto dell’articolo 2 , comma 1 del citato decreto acquisiscono sul mercato i beni e servizi strumentali alla propria attività mediante le procedure concorrenziali previste dal citato decreto legislativo>>.

Il Collegio, inoltre, rileva come <<la circostanza che un affidamento in house non contrasti con le direttive comunitarie non vuol dire che sia contraria all’ordinamento UE una norma nazionale che limiti ulteriormente il ricorso all’affidamento diretto>>.

Il precetto comunitario, infatti, rappresenta un’eccezione alla regole generali, che richiedono l’espletamento di una gara per poter procedere all’affidamento degli appalti in quanto sottrae, comunque, dei contratti pubblici al libero mercato (si veda sul punto Ad. Pl. 1/08).

Tantomeno il Supremo Consesso ritiene che il successivo comma 8, con il quale si afferma che <<l’affidamento diretto può avvenire solo a favore di società a capitale interamente pubblico, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in house>>, possa avere carattere derogatorio rispetto al precedente comma. Quest’ultimo, infatti, deve essere interpretato come facente riferimento ai commi 1, 2 e 3 (ora abrogati) e, dunque, applicabile esclusivamente a quelle società cui era consentito continuare ad operare le quali venivano elencate dalla stessa norma. Ne consegue che <<la volontà del legislatore era quella di limitare il ricorso alle società pubbliche, tra l’altro escludendolo nel settore dell’acquisizione di beni e servizi strumentali, che non veniva tipologicamente considerato tra le eccezioni>>.

A sostegno di quanto appena affermato si rileva, inoltre, come <<il comma 7 è l’unica disposizione vigente, tra quelle dell’art. 4 volte a limitare la possibilità di ricorso all’utilizzazione delle società controllate ed aventi portata generale (…), e si tratta di disposizione avente una propria ratio, complementare a quelle sulla cessazione delle società controllate e suscettibile di essere applicata a prescindere dall’avvenuta caducazione di queste ultime>>. VA 

 



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Inserito in data 07/05/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 30 aprile 2015, n. 70

Prestazioni previdenziali, adeguatezza e proporzionalità: questione di legittimità costituzionale

La Consulta ha dichiarato la parziale illegittimità del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 per violazione degli art. 3, 36 comma 1 e 38 comma 2 della Costituzione.

I giudici rimettenti avevano dubitato della costituzionalità delle norme suddette in quanto, a seguito della mancata rivalutazione, sarebbero stati violati i principi di proporzionalità e adeguatezza delle prestazioni previdenziali, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati.

La norma censurata, inoltre, avendo ad oggetto una prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, avrebbe configurato una violazione del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, essendo posta a carico di una sola categoria di contribuenti.

Venivano, infine, evocati i principi sanciti nella CEDU quali: il principio della certezza del diritto, il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)».

La Corte di legittimità, dopo aver dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost. escludendo natura tributaria della misura in esame in quanto <<l’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura (…) non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario>>, ha accolto il ricorso limitatamente alla violazione degli  artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma della Costituzione.

La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, disciplinata dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), infatti, si prefigge la tutela dei trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, anche in assenza di inflazione.

Tale perequazione automatica, tuttavia, non spetta per intero a tutti i destinatari del sistema pensionistico, ma ne viene graduato l’ammontare a seconda delle fasce di importo degli trattamenti pensionistici.

Sebbene questo sistema, nel corso degli anni, sia già stato oggetto di interventi legislativi (anche a carattere sospensivo), la Corte Costituzionale ne aveva escluso l’illegittimità in quanto erano stati rispettati i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Non può dirsi altrettanto con riferimento alla norma in esame.

L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 (manovra denominata “salva Italia”), infatti, stabilendo che <<in considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento>> ha discriminato i trattamenti pensionistici complessivamente intesi, non distinguendo tra fasce di importo ed incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.

Infine, sebbene si comprenda l’esistenza di valori costituzionali ed esigenze sociali contrastanti con il sistema di tutela sopra descritto, consentendo al legislatore di operare un bilanciamento tra questi valori, viene riaffermato il limite ineludibile della ragionevolezza (C.Cost. 226/93).

Sulla base delle considerazioni sopra esposte la Consulta ha affermato che <<la censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività (C.Cost. 349 del 1985)>> incidendo anche su fasce pensionistiche molto basse e <<si limita a richiamare genericamente la contingente situazione finanziaria, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi>>. VA



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Inserito in data 06/05/2015
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 28 aprile 2015, n. 451

Sul risarcimento del danno in tema di appalti: la colpa della PA

Il Tar Veneto, con la pronuncia in epigrafe, interviene al fine di dichiarare l’irrilevanza, ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici, del carattere colpevole della condotta della Pubblica Amministrazione.

Invero, ai fini del risarcimento del danno in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, dopo la sentenza 30 settembre 2010, C 314/09 della Corte di Giusta dell'UE, non riveste più alcun rilievo il “carattere colpevole” della condotta della Pubblica Amministrazione.

A tal proposito, pare essere costante l'orientamento espresso dal giudice amministrativo, il quale ha sottolineato che “la vigente normativa europea relativa alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente che la pretesa ad ottenere il risarcimento del danno da un'amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione. Il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 2, n. 1, lett. c), dell'originaria direttiva 89/665/CEE può costituire, se del caso, un'alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività della tutela soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata, così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso previsti dal citato art. 2, n. 1, alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'Amministrazione aggiudicatrice”.

Più specificamente, poco importa, per il giudice comunitario, che un ordinamento nazionale non faccia gravare sul ricorrente l'onere della prova dell'esistenza di una colpa dell'Amministrazione aggiudicatrice, ma la presuma a carico della stessa; infatti, dal momento in cui si consente a quest'ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, si genera ugualmente il rischio che il ricorrente leso da un atto illegittimo di un'Amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato della spettanza del risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l'Amministrazione riesca a superare la suddetta eventuale presunzione di colpa. GMC



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Inserito in data 06/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2194

Il Comune non deve motivare l’adesione ad una Convenzione Consip

Nel caso trattato dai Giudici di Palazzo Spada, una società operante nel settore della illuminazione pubblica, adiva il giudice amministrativo impugnando il provvedimento con cui un Comune aveva aderito alla convenzione della Consip per l’affidamento del proprio servizio di illuminazione pubblica.

La decisione, del dirigente comunale, di aderire alla convenzione Consip per il servizio della pubblica illuminazione, veniva contestata poiché considerata in contrasto con una precedente deliberazione della Giunta comunale, con la quale era stato iniziato il procedimento per l’esternalizzazione di tale servizio mediante gara.

La scelta comunale, volta, come chiarito, alla adesione alla convenzione della Consip, non sarebbe stata affatto motivata con riferimento alla convenienza del servizio di illuminazione pubblica proposto da quest’ultima.

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in oggetto, è intervenuto sulla questione riguardante la possibilità che da parte di un Comune occorra una preventiva, specifica istruttoria circa la possibilità di ottenere condizioni migliori ricorrendo al mercato.

A tal proposito, i Giudici di Palazzo Spada, hanno precisato che le norme vigenti esprimono, per convenzioni della Consip, un sicuro “favor”, desumibile anche dalla considerazione secondo la quale queste ultime, pur in difetto di adesione, rilevano tuttavia come parametri di prezzo – qualità fungenti da limiti massimi per la stipulazione dei contratti.

L’adesione de qua – certamente privilegiata dal Legislatore – corrisponde, infatti, per le Amministrazioni, ad una regola di azione.

A sostegno di quanto da ultimo chiarito, la V sez. del Consiglio di Stato, aveva già avuto modo di chiarito che “la scelta di aderire alla convenzione Consip, (…), proprio perché l’individuazione del miglior contraente avviene nel rispetto dei principi comunitari, non richiede da parte della amministrazione che se ne avvale una specifica motivazione dell’interesse pubblico che la sottende. Ed infatti per amministrazioni non statali vi è una facoltà implicitamente desumibile dalla norma senza che per questo incomba sulle stesse un obbligo di motivazione sul perché della scelta di avvalersi o di non avvalersi della convenzione”. Ed ancora, “è l’ente che, nell’ambito della sua autonomia e nell’esercizio di una attività non imposta ma consentita dalla norma, assume la decisione di aderire alla convenzione e tale adesione non necessita del supporto di una specifica delibera” (si consideri, infatti, CdS, sez. V, 1° ottobre 2010, n. 7261). GMC 


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Inserito in data 05/05/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 30 aprile 2015, n. 71

L’art. 42-bis t.u. espr. non è costituzionalmente illegittimo

Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha ritenuto infondate o inammissibili tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 42-bis d.p.r. 327/2001, che ha reintrodotto, con alcune modifiche, l’istituto dell’acquisizione sanante. Quest’ultimo era stato previsto dall’art. 43 d.p.r. 327/2001 ed era stato dichiarato incostituzionale, per eccesso di delega, dalla sentenza n. 293 del 2010 della Corte Costituzionale.

La parte più rilevante della pronuncia è quella che esclude il contrasto dell’art. 42-bis con l’art. 42 Cost.
Il dubbio di incostituzionalità derivava dal fatto che, secondo i giudici rimettenti, l’art. 42 Cost, disciplinando la potestà espropriativa come eccezionale, esercitabile solo nei casi previsti dalla legge e caratterizzati dalla presenza di motivi di interesse generale, impone che questi ultimi siano predeterminati dalla PA ed emergano da un apposito procedimento, anteriormente al sacrificio del diritto di proprietà; e ciò non è previsto dall’art. 42-bis.
Secondo la Corte Costituzionale, invece, la norma censurata delinea pur sempre una procedura espropriativa, ma avente carattere “eccezionale”, che deve necessariamente confrontarsi con la situazione fattuale chiamata a risolvere. La norma, infatti, presuppone una già avvenuta modifica dell’immobile, utilizzato per scopi di pubblica utilità: da questo punto di vista, non è congrua la pretesa che l’adozione del provvedimento di acquisizione consegua all’esito di un procedimento scandito in fasi logicamente e temporalmente distinte, esattamente come nella procedura espropriativa condotta nelle forme ordinarie.
Si tratta, piuttosto, di una procedura espropriativa che, sebbene necessariamente “semplificata” nelle forme, si presenta “complessa” negli esiti, prevedendosi l’adozione di un provvedimento “specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione”.
Occorre, dunque, una valutazione comparata degli interessi in conflitto, qualitativamente diversa da quella tipicamente effettuata nel normale procedimento espropriativo. E l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico, da considerare in comparazione con gli interessi del privato proprietario. Ne deriva che l’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico”. CDC

 



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Inserito in data 05/05/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 4 maggio 2015, n. 18265

La messa alla prova non è applicabile retroattivamente

La sentenza in esame conferma la tesi (già sostenuta da Cass. 35717/2014) secondo la quale ai giudizi di legittimità in corso non è applicabile il nuovo istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge n. 67 del 2014.

Per la Cassazione, è decisivo il fatto che la disposizione di cui all'art. 464-bis, co. 2, cpp, preveda uno sbarramento che individua espressamente un termine finale di presentazione della richiesta, con diversificazioni collegate ai differenti procedimenti, ma comunque ristretta al giudizio di primo grado. Dunque, oltre il giudizio di primo grado il beneficio non è più applicabile: ciò risponde ad una scelta discrezionale del legislatore. 

Inoltre, la possibilità di presentare la richiesta alla prima udienza successiva all'entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 significherebbe collegare l'esercizio della facoltà ad un termine in realtà mobile, posto che detta udienza potrebbe avere luogo ad istruttoria dibattimentale sia in corso che conclusa, durante la discussione finale o addirittura coincidere con quella fissata unicamente per la lettura del dispositivo, con grave compromissione delle ragioni di economia processuale e della ragionevole durata del processo. CDC

 




Inserito in data 04/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 aprile 2015, n. 2188

Verifica delle anomalie e richiesta di chiarimenti da parte della P.A.

 In relazione alla questione posta al suo esame, il Consiglio di Stato ritiene che “l’Amministrazione, in sede di verifica dei requisiti e dell’anomalia, ha correttamente richiesto chiarimenti e giustificazioni, nel contesto di un contraddittorio necessariamente ampio e a tutto campo (cfr., fra le altre, VI, n. 4676/2013), per cui non si è concretata alcuna modifica dell’offerta presentata dall’aggiudicataria e la stessa è risultata, nel suo complesso e nell’importo indicato, congrua e attendibile, quindi affidabile e complessivamente la migliore nell’ambito di una valutazione di tutti gli elementi di discrezionalità tecnica scevra da vizi di travisamento dei fatti, illogicità o irrazionalità della motivazione (cfr., fra le altre, V, n. 1369/2012; III, n. 4487/2014”.

Del resto, “anche l’asserito soccorso istruttorio in occasione delle ridette dichiarazioni ex art. 38 si è limitato a chiarimenti richiesti a scrupolo esaustivo istruttorio a conferma di dichiarazione già di per sé effettuata” (cfr., Ad. Plen. n. 9/2014; III, n. 1735/2015).

Sovvengono, in tal senso, anche le Ad. Plen. n. 21/2012 e n. 16/2014, “che fanno riferimento all’esclusione dalla gara solo se vi sia la prova della sussistenza di pregiudizi penali”, circostanza che, però, non ricorre nella fattispecie posta al vaglio dei Giudici di Palazzo Spada.

D’altra parte, “la verifica delle offerte anomale, ex art. 55 direttiva CE n. 18/2004 e artt. 87 e 88 Codice dei contratti, offre alle Amministrazioni uno strumento di controllo finale delle offerte a garanzia in primis del risultato e dell’aggiudicazione con un apprezzamento discrezionale della convenienza complessiva dell’offerta ritenuta migliore e del conseguente importo complessivo, nel presupposto che l’eventuale incongruità di talune voci di costo non comporta di necessità l’anomalia dell’offerta nel suo complesso, con conseguente stravolgimento e vanificazione, tramite il giudizio di anomalia, dell’esito della gara (cfr. citata III, n. 1487/2014 e n. 1744/2014)”. EF



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Inserito in data 04/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2015, n. 2195

Sull’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche in seduta non pubblica

Con l'art. 12 del d.l. 7 maggio 2012, n. 52, convertito nella legge 6 luglio 2012, n. 94 il legislatore “ha inteso contenere gli oneri amministrativi ed economici che sarebbero scaturiti dalla caducazione, altrimenti inevitabile, di molteplici gare destinate all’annullamento, in forza del pronunciamento dell’Adunanza Plenaria (n. 13 del 2011), per il mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, pur in assenza di indizi circa la manomissione o l’occultamento degli stessi da parte dell’Amministrazione”.

In sostanza, la “riforma legislativa ha tenuto conto della natura meramente formale del vizio e della assenza di una esplicita e chiarificativa disciplina della fase procedimentale in questione ed ha perseguito, quindi, la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure già concluse, o anche solo pendenti, alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si fosse proceduto all'apertura dei plichi in seduta riservata, operando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria delle procedure medesime (così C.d.S., Ad. Pl., n. 8 del 22 aprile 2013 e n. 16 del 27 giugno 2013)”.

Ne consegue che nel caso di un procedimento di gara conclusosi “ampiamente prima dell'entrata in vigore dell'art. 12 d.l. n. 52 del 2012, quest’ultima previsione impone di reputare legittima(ta) l'apertura delle buste delle offerte tecniche anche se effettuata in seduta non pubblica“ (cfr., C.d.S., III, 31 luglio 2013, n. 4037; V, 5 luglio 2013, n. 3586; IV, 26 agosto 2014, n. 4305; VI, 14 novembre 2014, n. 5608). EF

 



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Inserito in data 02/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2015, n. 2097

Sui chiarimenti della stazione appaltante

Una stazione appaltante può chiarire nel corso del procedimento le previsioni della lex specialis, quando queste siano equivoche o comunque si prestino ad alcune incertezze interpretative.
I Giudici di Palazzo Spada precisano che i chiarimenti dell'Amministrazione, in una situazione di obiettiva incertezza, non rappresentano un'indebita modifica delle regole di gara, bensì una sorta di “interpretazione autentica”.

Applicando tale orientamento al caso ivi in questione, ne consegue l'infondatezza della censura, attesa l'obiettiva incertezza derivante dagli errori ortografici presenti nella originaria formulazione della disposizione.

Pertanto – alla luce di quanto chiarito – una stazione appaltante, può chiarire, nel corso del procedimento, le previsioni della lex specialis, qualora queste siano equivoche o comunque si prestino a creare delle incertezze interpretative. GMC



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Inserito in data 02/05/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 aprile 2015, n. 2154

In merito alla legittimità dell’affidamento in house del servizio

Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla legittimità dell’affidamento in house, chiarendo che essa vada valutata con riferimento allo “stato di fatto e di diritto” esistente al momento della adozione del provvedimento.

Il Supremo Consesso amministrativo puntualizza che, nel caso de quo, all’epoca dell’affidamento, dovevano sussistere tutti i requisiti e presupposti legittimanti l’affidamento diretto.

La modifica dello statuto, intervenuta successivamente, anche quando effettivamente dovesse configurare una integrazione della forma di controllo consentita agli enti, non sarebbe, in ogni caso, valutabile al fine di ritenere integrato il requisito mancante e superato il provvedimento originario, con conseguente venir meno dell’interesse al ricorso da parte della società ricorrente in primo grado.

Tuttavia, a parte ogni considerazione sulla applicazione al giudizio di legittimità degli atti amministrativi della regola “tempus regit actum”, attribuire rilevanza “sanante” all’atto sopravvenuto e, quindi, valutare la legittimità dell’affidamento in house del servizio sulla base della “sopravvenienza in fatto”, violerebbe non solamente la regola sopracitata, bensì i principi che presiedono al corretto affidamento degli appalti.

Invero, i Giudici puntualizzano che vero è che l’affidamento in house non rappresenti l’eccezione, rispetto alla regola della gara pubblica nel settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, nel caso in cui sussistano i presupposti legittimanti la scelta discrezionale della Amministrazione.

Tuttavia, mancando quei presupposti, la gara diviene l’ordinario metodo di affidamento.

La concorrenza, la quale trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 41 della Carta costituzionale, presuppone infatti la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore, nel rispetto dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi.

I Giudici di Palazzo Spada precisano, altresì, che la “procedimentalizzazione” dell’attività di scelta del contraente, non è soltanto dettata nell’esclusivo interesse dell’amministrazione, bensì anche nell’interesse primario rappresentato dalla tutela degli operatori, nonché dal loro interesse ad accedere al mercato e a concorrere per lo stesso.

La III Sezione del Consiglio di Stato, interviene, altresì, in merito al c.d. in house pluripartecipato, chiarendo che le Amministrazioni pubbliche, in possesso di partecipazioni di minoranza, possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte alcune condizioni, ossia: “a) gli organi decisionali dell’organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipati, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipati; b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell’organismo controllato; c) l’organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipati”.

Tali principi, ad oggi, sono codificati, inoltre, dall’art. 12 della Direttiva Appalti (2014/24/UE), che, nonostante non sia stata ancora recepita, presenta un carattere dettagliato che non lascia dubbi in merito ad una sua concreta attuazione.

Riguardo tale ultima questione, secondo la giurisprudenza comunitaria, è necessario – in tutti i casi di pluripartecipazione – che il singolo socio possa vantare una posizione “più che simbolica”, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una effettiva possibilità di partecipazione alla gestione dell’organismo del quale è parte. GMC



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Inserito in data 30/04/2015
CONSIGLIO DI STATO - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA, 29 aprile 2015, n. 2189

Esegesi della normativa transitoria sulle attestazioni di qualificazione SOA

Il Collegio, chiamato a giudicare sulla legittimità dell’aggiudicazione di un appalto a seguito dell’omessa verifica delle attestazioni di qualificazione SOA, relative alle categorie OG1 e OG11, ha ritenuto necessario rimettere all’Adunanza Plenaria l’esegesi della normativa transitoria di riferimento.

Il problema nasce a seguito dell’entrata in vigore del d.P.R. n.207 del 2010, che ha introdotto un nuovo sistema di qualificazione SOA, dettando contestualmente le regole del regime transitorio di validità delle attestazioni rilasciate sotto la vigenza del vecchio regolamento.

Più precisamente si pone il problema della corretta interpretazione dell’art. 357, commi 12 e 16, del d.P.R. sopra citato.

Le due disposizioni, infatti, stabiliscono, rispettivamente, che le attestazioni rilasciate sotto la vigenza della vecchia normativa (d.P.R. n.34 del 2000) ,  che si riferiscano a categorie che non hanno subito variazioni (es. la OG1), conservano validità “fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse”, mentre le altre (compresa la OG11) “cessano di avere validità a decorrere dal 546° giorno dalla data di entrata in vigore del presente regolamento” ; che <<per 365 giorni successivi alla data di entrata in vigore del regolamento (…) la dimostrazione del requisito relativo al possesso delle categorie ivi indicate (tra le quali la OG11) avviene mediante presentazione delle attestazioni di qualificazione rilasciate dalle SOA in vigenza del d.P.R. 34 del 2000, purchè in corso di validità alla data di entrata in vigore del regolamento.

Si tratta, quindi, di verificare se le predette disposizioni (…) vadano lette nel senso (preferito dal T.A.R.) che il regime di validità ivi stabilito non resta subordinato all’obbligo della verifica triennale, ovvero in quello (preferito dalla sesta sezione del Consiglio di Stato…) secondo cui il predetto adempimento rimane operativo e condiziona la validità e l’efficacia delle attestazioni SOA rilasciate sotto la vigenza del d.P.R. n.34 del 2000>>.

Inoltre, nel caso in cui venga accolta la seconda soluzione, occorre anche stabilire quali siano le conseguenze derivanti dalla interruzione, anche temporanea, nel corso della procedura, del possesso continuativo dei requisiti di qualificazione: se, cioè, quest’ipotesi comporti necessariamente l’esclusione dell’impresa che l’ha temporaneamente perduta, anche se la possedeva nei momenti della presentazione della domanda, del controllo dei requisiti e dell’aggiudicazione, o meno.

Entrambe le interpretazioni, infatti, sembrano plausibili.

Invero il silenzio normativo, consistente nell’omesso richiamo dell’obbligo di verifica triennale sancito dall’art. 15-bis d.P.R. n .34 del 2000, può essere inteso come espressione della volontà del legislatore di escludere tale adempimento, ma anche come assenza di un intento abrogativo della suddetta norma e, dunque,  come perdurante necessità del predetto adempimento.

Numerose le argomentazioni a sostegno delle due tesi.

La teoria che riconosce la necessità della verifica triennale fa leva sul rilievo che, in mancanza di un’abrogazione espressa, <<sia la conferma della scadenza naturale (…), sia la proroga legale, nel periodo transitorio, dell’efficacia delle attestazioni rilasciate sotto il regime del vecchio regolamento devono essere necessariamente intese come condizionate alla persistente validità di queste ultime, in ossequio alle regole generali (e, quindi, subordinate alla positiva verifica triennale) che continuano a produrre i loro effetti>>.

Questa interpretazione appare conforme anche alla ratio dell’adempimento in questione, il quale risponde all’esigenza di accertare che i requisiti originariamente attestati siano stati mantenuti.

Infine questa soluzione risponde anche al principio del tempus regit actum.

L’esegesi opposta, invece, si basa sia su una lettura testuale delle disposizioni di riferimento, sia su una loro esegesi finalistica, ponendo l’accento sulle differenze che sussistono tra le categorie non variate e quelle variate.

Invero, con riguardo alle prime, l’art. 357, comma 12, del d.P.R. n.207/10 stabilisce che le attestazioni rilasciate nella vigenza del d.P.R. n.34 del 2000 “hanno validità fino alla naturale scadenza prevista per ciascuna di esse” e che, quindi, prevede, chiaramente ed univocamente, la conferma dell’efficacia delle attestazioni fino alla fisiologica scadenza quinquennale mentre, quanto alle categorie variate, ne proroga la scadenza naturale.

La soluzione appena esposta, infatti, appare più ragionevole atteso il carattere più stringente dei requisiti richiesti dalla nuova normativa ai fini del conseguimento della qualificazione nella categoria OG11.

<<In altri termini, il significato più ragionevole e logico da assegnare alla disposizione in esame è proprio quello di permettere alle imprese che avevano delle attestazioni in scadenza di beneficiare di un congruo periodo di validità supplementare delle stesse (…), in vista dell’entrata in vigore delle nuove regole di qualificazione, e di evitare alle stesse il duplice onere della rinnovazione delle certificazioni con il vecchio regime e del conseguimento (in tempi stretti) delle nuove attestazioni.

Inoltre, la lettura da ultimo illustrata risulta corroborata dall’esigenza di rispettare il principio di affidamento degli operatori economici (…) e quello del favor partecipationis>>.

Un sostegno ulteriore all’interpretazione esegetica appena esposta deriverebbe dall’autonomia del regime transitorio, il quale non si presta ad essere integrato da norme che, come quella oggetto di contestazione, non siano state espressamente richiamate dalla stessa.

Anche con riguardo al problema relativo alle conseguenze della mancata verifica triennale si contendono il campo due diverse soluzioni.

Quella più rigorosa, che ne fa conseguire l’esclusione dalla gara, fa leva sull’interesse pubblico alla corretta esecuzione dell’appalto insito nella norma in esame e che richiede che la procedura competitiva si svolga tra i soli candidati che possiedano continuativamente le qualificazioni richieste. La tesi contrapposta, invece,  rinviene la ratio dell’istituto del requisito di qualificazione, dimostrato dalle attestazioni SOA, nell’interesse pubblico alla verifica della idoneità tecnica e organizzativa dell’impresa candidata. Ne consegue che tale esigenza assume rilevanza solo nella fase esecutiva dell’appalto o, comunque, sono in alcune fasi del procedimento (presentazione della domanda, della verifica dei requisiti e dell’aggiudicazione).

<<Ne consegue che il temporaneo deficit di uno o più requisiti in un segmento temporale della procedura intermedio tra i predetti momenti e, ovviamente, fermo restando il loro possesso nelle fasi indicate come (esclusivamente) rilevanti (…), dovrebbe essere giudicato del tutto ininfluente sulla regolarità del procedimento e sulla legittimità dell’aggiudicazione>>. Interpretazione, peraltro, coerente con quella della Corte di Giustizia Europea, garantendo una più ampia apertura alla concorrenza negli appalti pubblici. VA



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Inserito in data 29/04/2015
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 27 aprile 2015, n. 407

Ludopatia: distanza da luoghi cd. sensibili e problemi di competenza

Il Collegio bolognese interviene con una pronuncia, oggi in epigrafe, densa di spunti significativi in tema di “lotta al fenomeno della ludopatia”.

Da un lato, infatti, i Giudici contestano le doglianze prospettate dal ricorrente, tese ad ottenere l’annullamento del provvedimento con cui la Questura di Bologna non aveva concesso la licenza – ex art. 88 TULPS – in ragione di una ritenuta carente distanza minima che, invero, è ormai richiesta tra l’apertura di eventuali sale scommesse e determinati luoghi – quali scuole, asili – comunemente indicati ormai come “sensibili”.

Il Tribunale risponde alle censure ritenendo che la distanza volutamente fissata rispetto ai suddetti luoghi può annoverarsi tra le cause ostative, ricomprendendole tra quelle che, ormai, la giurisprudenza costantemente inquadra  tra le ragioni finalizzate a contrastare il dilagante fenomeno della ludopatia. Infatti, richiamando giurisprudenza anche molto recente, il Giudice emiliano evidenzia come “la licenza può essere rifiutata o revocata per ragioni di igiene …” (Cfr. TAR Toscana, Sez. II, 19 febbraio 2015 n. 284). Ed ancora, in termini più ampi, si è altresì rilevato che “…l’autorità di p.s., in sede di rilascio delle licenze per scommesse e giochi con vincita di danaro, deve tener conto dei diversi interessi sul territorio che sono coinvolti dal provvedimento autorizzatorio …” (Cfr. Cons. Stato, Sez. III, ord. 19 febbraio 2015 n. 798).

Sotto questo aspetto, quindi, era stato ritenuto legittimo il provvedimento di diniego emesso dall’Amministrazione competente.

Tuttavia,  il TAR è tenuto a ravvisarne l’illegittimità derivata e, per l’effetto, ad accogliere le doglianze dell’odierno ricorrente, in ragione della carenza di presupposto sulla base del quale il provvedimento questorile impugnato era stato emesso.

Si tratta, infatti, di una norma regolamentare propria del Corpo di Polizia municipale della città di Bologna. In quanto tale, essa non è sufficiente a regolare questioni che, rientranti nella tutela della salute, spettano alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni.

Di conseguenza, come già accaduto in fattispecie analoghe, il medesimo Tribunale rileva come l’adozione di norme in materia da parte dei singoli Comuni sia priva del necessario presupposto (Cfr. Sez. II, 20 ottobre 2014 n. 976).

I Giudici, infatti, ricordano come gli strumenti di contrasto della ludopatia devono trovare la loro disciplina di base a livello centrale ed essere inseriti nel sistema della pianificazione nazionale, entro i cui limiti poi opereranno gli enti locali, fermo restando il potere dei sindaci di adottare ordinanze contingibili e urgenti in caso di situazioni di effettiva emergenza (Cfr. TAR Veneto, Sez. III, 16 aprile 2013 n. 578). In ragione di ciò, il Collegio emiliano non può che accogliere il ricorso. CC

 



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Inserito in data 29/04/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - QUINTA SEZIONE, SENTENZA 23 aprile 2015, C - 260/13

Inibita la circolazione, diritto ad una misura equa e proporzionata

I Giudici dell’Unione intervengono su una delicata questione, proveniente dal Tribunale teutonico, in tema di circolazione stradale dei cittadini comunitari in seno al territorio europeo.

La Corte, infatti, condivide – da un lato – la rigorosa posizione dei Giudici tedeschi che, tempo addietro, avevano sanzionato un cittadino austriaco per guida - nell’ambito del territorio tedesco - sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.  Tale misura, infatti, è conforme alla direttiva 2006/126 sulle patenti di guida.

Tuttavia ricordano, al tempo stesso, la necessità di inibire al trasgressore la possibilità di circolare sul territorio straniero solo per un determinato periodo. Infatti, l’autista europeo che commette gravi infrazioni in un altro Stato membro può essere appiedato senza comunque agire sulla sua patente di guida. 

Pertanto, in un caso come quello in esame, specifica la Corte, la possibilità di rimettersi alla guida sul territorio teutonico è condizionata alla presentazione di una perizia medico–psicologica attestante la prova dell’astinenza prolungata dal consumo di sostanze stupefacenti dell’interessato. Oppure dal semplice decorso di un quinquennio dalla data dell’accertamento. CC

 




Inserito in data 28/04/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 27 aprile 2015, n. 5

Principio della domanda, graduazione dei vizi e assorbimento dei motivi

Il processo amministrativo è un processo di parte governato, in linea generale, dal principio della domanda, con conseguente impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo.

L’obbligo del giudice amministrativo di pronunciare su tutti i vizi–motivi e le domande di annullamento non è però incondizionato. Infatti, costituisce un limite a tale obbligo la graduazione dei motivi o delle domande. Essa consiste in un ordine dato dalla parte ai vizi-motivi o alle domande di annullamento, in funzione dell’interesse di parte; serve dunque a segnalare che l’esame e l’accoglimento di alcuni motivi ha, per la parte, importanza prioritaria. Pertanto, essa impedisce al giudice di passare all’esame dei vizi-motivi subordinati una volta accolta una o più delle preminenti doglianze.

La graduazione dei vizi-motivi, consistendo in un’eccezione all’obbligo del giudice di esaminare tendenzialmente tutti i vizi, richiede una puntuale ed esplicita esternazione, cioè espressa e non desumibile implicitamente dalla semplice enumerazione delle censure o dal mero ordine di prospettazione delle stesse.

Un limite al potere di graduare i vizi-motivi è previsto dall’art. 34, comma 2, cpa, il quale dispone che in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. La norma fa riferimento ai poteri non esercitati dall’autorità competente, chiamata a esplicare la propria volontà provvedimentale in base al micro ordinamento di settore. Anche in tal caso, se così non fosse, sarebbe leso il principio del contraddittorio rispetto all’autorità amministrativa competente e ciò si ricollega al principio costituzionale fondamentale di separazione dei poteri (e di riserva di amministrazione).

Si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato in tutte le situazioni di incompetenza, carenza di proposta o parere obbligatorio, sicché in tali casi il giudice non può fare altro che rilevare, se assodato, il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo dettare le regole dell’azione amministrativa nei confronti di un organo che non ha ancora esercitato il suo munus.

Ciò produce effetti deflattivi sul contenzioso, perché dissuade il ricorrente dalla proposizione di impugnative di procedimenti attinti da una pletora di motivi formali e lo stimola a concentrarsi solo sull’interesse sostanziale effettivamente perseguibile; si evitano, per tale via, gli eccessi di tutela spesso forieri di veri abusi del processo.

 

In mancanza, invece, di una espressa graduazione, si riespande nella sua pienezza l’obbligo del giudice di primo grado di pronunciare, salvo precise deroghe, su tutti i motivi e le domande.

Deve infatti rigettarsi la tesi per cui il giudice deve tener conto solo dell’esigenza di assicurare la maggiore soddisfazione dell’interesse del privato. Il processo amministrativo di legittimità, infatti, è concentrato sul controllo della legalità dell’azione amministrativa necessariamente esercitata in funzione dell’interesse pubblico. Rileva, dunque, l’interesse generale dell’intera collettività ad una corretta gestione della cosa pubblica e ad una corretta gestione del processo, anche per le ripercussioni finanziarie che ricadono sulla collettività; il processo in cui sia parte una PA deve consentire l’accertamento di una verità processuale vicina se non coincidente con quella storica perché è interesse della collettività la legittimità dell’azione amministrativa.

Dunque, in assenza della graduazione operata dalla parte, in ragione del particolare oggetto del giudizio impugnatorio legato al controllo sull’esercizio della funzione pubblica, il giudice stabilisce l’ordine di trattazione dei motivi sulla base della loro consistenza oggettiva (radicalità del vizio) nonché del rapporto corrente fra gli stessi sul piano logico-giuridico e diacronico procedimentale.

 

È possibile, però, che l’esame dei motivi da parte del giudice si arresti prima di aver esaurito l’intero compendio delle censure, in base al c.d. assorbimento dei motivi.

In passato, in base a tale prassi, ci consentiva al giudice di scegliere un motivo fondato di ricorso e, sulla base di questo solo motivo, accolto, di annullare il provvedimento, omettendo di esaminare le altre censure, ritenute assorbite. Da ciò derivava che la pretesa del ricorrente, apparentemente soddisfatta dalla sentenza di accoglimento, poteva non esserlo nella sostanza, se la PA reiterava l’atto riproducendo i vizi dedotti dal ricorrente con i motivi assorbiti; inoltre, anche la PA rimaneva nell’incertezza circa la fondatezza delle censure sostanziali e dunque sulle modalità di un eventuale riesercizio della funzione pubblica. Così si riducevano l’effetto conformativo della sentenza e l’effettività del giudizio di ottemperanza; inoltre, mancava del tutto l’economia dei mezzi processuali, perché si accresceva il rischio di ulteriori giudizi di annullamento successivi al riesercizio del potere.

Per questo, nello schema originario del cpa, si era stabilito che “quando accoglie il ricorso, il giudice deve comunque esaminare tutti i motivi, ad eccezione di quelli dal cui esame non possa con evidenza derivare alcuna ulteriore utilità al ricorrente”. Anche se tale previsione è stata espunta nel testo finale, essa costituisce comunque un principio tendenziale, come si ricava anche dal nuovo testo dell’art. 120, comma 6, cpa (“il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti”). Ne segue che l’assorbimento dei motivi è da ritenersi, in linea di principio, vietato, salve le seguenti deroghe.

 

Anzitutto, l’assorbimento è consentito nei casi espressamente previsti dalla legge. Il cpa prevede tre ipotesi di assorbimento legale: 1) il già citato caso di cui all’art. 34, comma 2; 2) l’ipotesi in cui, definendo il giudizio con sentenza in forma semplificata, il giudice può motivare con riferimento al punto ritenuto risolutivo (art. 74); 3) l’ipotesi di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità e infondatezza, che consente di assorbire la questione della mancata integrità del contraddittorio (art. 49, comma 2).

Deve poi ritenersi consentito l’assorbimento c.d. logico o necessario, che si profila quando evidenti ragioni di ordine logico comportano che l’accoglimento o il rigetto di un dato motivo implica l’assorbimento necessario di altre questioni. Si tratta dei seguenti casi: 1) la reiezione per motivi di rito, che comporta il necessario assorbimento delle questioni di merito; 2) l’accoglimento di una censura prospettata alternativamente o in via prioritaria rispetto ad un’altra, la quale comporta l’assorbimento della censura alternativa o subordinata; 3) il rigetto del ricorso principale, il quale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale (espressamente o implicitamente) subordinato o condizionato all’accoglimento di quello principale.

Infine, è consentito l’ assorbimento per ragioni di economia processuale, nelle seguenti ipotesi: 1) reiezione della domanda in forza della c.d. ragione più liquida; 2) assorbimento dei motivi meramente ripetitivi di altri già esaminati e respinti; 3) nel caso in cui il provvedimento impugnato si fondi su una pluralità di ragioni autonome, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell’atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento.

Invece, non si dà luogo ad assorbimento per ragioni di economia processuale: 1) in caso di accoglimento di censure relative alla rituale formazione del contraddittorio e alla comunicazione di avvio del procedimento, che non può consentire di non esaminare censure “sostanziali”, riferite ad altri aspetti contenutistici della determinazione impugnata; 2) se il motivo accolto riguardi uno soltanto degli atti impugnati, non esaurendosi l’intera materia del contendere. CDC

 



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Inserito in data 28/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 aprile 2015, n. 8097

Rettificazione di sesso: non si scioglie il matrimonio, finché non si emana nuova legge

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 170 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della legge n. 164 del 1982, artt. 2 e 4, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell'attribuzione di sesso che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente i diritti e gli obblighi della coppia, con le modalità da statuirsi dal legislatore.

Secondo la Cassazione, l’adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale impone la “rimozione degli effetti della caducazione automatica del vincolo matrimoniale sul regime giuridico di protezione dell'unione fino a che il legislatore non intervenga a riempire il vuoto normativo, ritenuto costituzionalmente intollerabile, costituito dalla mancanza di un modello di relazione tra persone dello stesso sesso all'interno del quale far confluire le unioni matrimoniali contratte originariamente da persone di sesso diverso e divenute, mediante la rettificazione del sesso di uno dei componenti, del medesimo sesso”.

Ciò non determina l'estensione del modello di unione matrimoniale alle unioni omosessuali, ma svolge solo la funzione temporalmente definita e non eludibile di non creare la condizione di massima indeterminatezza stigmatizzata dalla Corte Costituzionale in relazione ad un nucleo affettivo e familiare che, avendo goduto legittimamente dello statuto matrimoniale, si trova invece in una condizione di assenza radicale di tutela.

In conclusione, dunque, occorre conservare alle coppie che si trovano nella situazione in esame il “riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al vincolo matrimoniale legittimamente contratto fino a quando il legislatore non consenta ad esse di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi”. In altre parole, la conservazione dello statuto dei diritti e dei doveri propri del matrimonio è sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione indicata dalla sentenza della Corte Costituzionale. CDC

 




Inserito in data 27/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 aprile 2015, n. 8098

Accertamento dello stato di abbandono e difetto di autonomia genitoriale

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte ritiene che la pronuncia del Giudice di seconde cure fosse coerente con la giurisprudenza di Legittimità, “secondo cui l'art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (nel testo novellato dalla legge 28 marzo 2001, n. 149) attribuisce al diritto del minore di crescere nell'ambito della propria famiglia d'origine un carattere prioritario - considerandola l'ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico - e mira a garantire tale diritto attraverso la predisposizione di interventi diretti a rimuovere situazioni di difficoltà e di disagio familiare. Pertanto, è immune da vizi l'accertamento dello stato di abbandono, nel caso in cui non sia sopravvenuta l'autonomia genitoriale necessaria - pur dopo i necessari e reiterati interventi dei servizi sociali e nonostante la collaborazione e l'affetto dimostrati per il minore dal genitore - e risulti impossibile prevedere il recupero delle capacità genitoriali entro tempi compatibili con la necessità del minore di uno stabile contesto familiare, con conseguente legittimo rigetto della domanda di affidamento etero-familiare, il quale ha per legge carattere solo temporaneo (cfr. Cass. civ. sezione i n. 1837 del 26 gennaio 2011)”. EF

 




Inserito in data 27/04/2015
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 24 aprile 2015, n. 2362

Principio di strumentalità delle forme e annullamento delle operazioni elettorali

In via preliminare, il Collegio campano osserva che - come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa a partire da Cons. Stato, Ad. plen., 23 febbraio 1979, n. 7 – “l'unica parte pubblica necessaria nel giudizio elettorale è l'ente locale che si appropria del risultato elettorale (…), sul quale si riverberano gli effetti di un eventuale annullamento ovvero della conferma della proclamazione degli eletti”. Pertanto, “gli organi temporanei, abilitati a dichiarare i risultati finali del procedimento elettorale, come l'Ufficio elettorale centrale e gli uffici circoscrizionali, non sono portatori di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento dei loro atti, per cui il ricorso contro le operazioni elettorali non deve essere ad essi notificato e, qualora sia stato notificato ad uno dei predetti uffici, essi devono essere estromessi dal giudizio elettorale per difetto di legittimazione passiva” (C.d.S., Sez. V, 17/03/2015, n. 1376).

In via ulteriormente preliminare, il Tar conferma quanto sostenuto dalla giurisprudenza civile (con petizione di principio valevole anche per il processo amministrativo, in forza dell’espresso richiamo in tema di sospensione del giudizio contenuto nell’art. 79 c.p.a. alle norme del codice di procedura civile ed in particolare all’art. 295 c.p.c.), secondo cui <<la sospensione necessaria del processo civile per pregiudizialità penale, ex art. 295 c.p.c., è subordinata, a norma dell'art. 211 disp. att. c.p.p., alla condizione che l'azione penale sia stata effettivamente esercitata, nelle forme previste dall'art. 405 c.p.p. mediante la formulazione o la richiesta di rinvio a giudizio. Ciò significa che la sospensione richiede, quale primo e irrinunciabile presupposto, la contemporanea pendenza dei due processi, civile e penale, sicché la sospensione stessa non può essere disposta sul presupposto della mera presentazione di una denuncia o di una querela e della conseguente apertura di indagini preliminari>> (cfr. Cassazione civile, sez. VI, 23/07/2014, n. 16700).

La semplice presentazione di denuncia/querela “non configura, quindi, alcuna ipotesi di sospensione necessaria del giudizio elettorale amministrativo, la quale è ricollegata, in base alla legge (cfr. art. 77, comma 4°, c.p.a.), alla sola fattispecie in cui sia presentata in sede civile querela di falso (e sempre che la questione di falso, secondo la valutazione del giudice, abbia carattere di effettiva pregiudizialità e non appaia manifestamente infondata o dilatoria: cfr. TAR Lazio, Latina, 10/10/2012, n. 736, secondo cui <<la sospensione del giudizio per effetto della proposizione in sede civile della querela di falso non è una conseguenza automatica ed indefettibile prevista dalla legge, bensì presuppone una valutazione della rilevanza dei documenti ai fini del giudizio>>; cfr. altresì, TAR Sicilia, Catania, sez. II, 31/05/2004, n. 1526, secondo cui <<l'art. 295 c.p.c. impone la sospensione del processo in ogni caso in cui il giudice debba risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa. La risoluzione della rilevanza penale dell'agire del seggio elettorale e il connesso procedimento seguito non impedisce l'autonomo accertamento della validità delle schede elettorali e dei verbali da parte del g.a., che, quindi, può non sospendere il giudizio incardinato presso il suo ufficio>>)”.

Infine, sempre in via preliminare, i Giudici richiamano l'orientamento di recente ribadito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui <<nel giudizio elettorale qualora si sottoponga al giudice amministrativo, non la veridicità di un atto pubblico, bensì il vaglio della legittimità delle decisioni assunte dal seggio elettorale, giudizio che non potrebbe essere condotto senza l’esame di quella documentazione di cui il ricorrente non dispone e di cui occorre ordinare l’acquisizione mediante l’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice anche d’ufficio, va riconosciuto rilievo probatorio alle dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio>> (C.d.S., Ad. Plen., 20 novembre 2014, n. 32, che ha altresì specificato che <<nel giudizio elettorale la dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, prodotta a sostegno di un ricorso elettorale, può considerarsi principio di prova idoneo a legittimare la richiesta al giudice di disporre acquisizioni istruttorie>>).

Ciò premesso, il Consesso riprende il principio della strumentalità delle forme vigente in materia elettorale, secondo il quale, “in mancanza di espressa comminatoria di nullità, sono rilevanti, tra tutte le possibili irregolarità, solo quelle sostanziali, tali cioè da influire sulla sincerità e sulla libertà di voto, atteso che la nullità delle operazioni può essere ravvisata solo quando manchino elementi o requisiti che impediscano il raggiungimento dello scopo al quale l'atto è prefigurato; pertanto, non possono comportare l'annullamento delle operazioni stesse le mere irregolarità, cioè vizi da cui non deriva alcun pregiudizio di livello garantistico o compressione alla libera espressione del voto, che sono pertanto irrilevanti” (C.d.S., sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 31/07/2012, n. 3670; cfr. altresì, C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829).

Rileva, altresì, che “le regole minime da osservare per pervenire alla conservazione delle operazioni elettorali - pur a fronte di incongruenze o carenze di verbalizzazione - sono costituite, in applicazione del principio della strumentalità delle forme (e sulla base del dato normativo costituito dagli articoli 53, 63 e 68 D.P.R. n. 570/1960), dalla esatta corrispondenza tra il numero delle schede autenticate e la somma delle schede adoperate effettivamente dagli elettori con quelle non utilizzate (cfr. C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 15/03/2012, n. 2550; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 10/04/2014, n. 1097), nonché dalla esatta corrispondenza tra il numero totale delle schede scrutinate ed il numero degli elettori che hanno votato (TAR Campania, Napoli, sez. II, 19/12/2014, n. 6840)”.

Invero, “l'esatta coincidenza in concreto di questi dati numerici (espressamente prevista dalle richiamate disposizioni normative), da un lato garantisce l'esatto svolgimento delle operazioni di voto, in quanto dimostra che non vi sono state alterazioni nelle modalità di espletamento del procedimento elettorale, e dall’altro esclude che le (apparenti) irregolarità emergenti dai verbali abbiano realmente influito sulla libera espressione del voto del corpo elettorale”.

In applicazione di tali principi, “la giurisprudenza ha così ritenuto che l’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate ma non utilizzate possa comportare l'annullamento delle operazioni elettorali, ma solo a condizione che non risulti possibile ricostruire, comunque, il dato mancante e quindi l'esatto svolgimento delle operazioni di voto (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; C.d.S., Sez. V, 18 febbraio 1992 n. 133)”.

Analogamente, quanto all’irregolarità consistente nella mancata verbalizzazione del numero delle schede autenticate, il Collegio richiama quella giurisprudenza secondo cui “da tale vizio non deriva, per le medesime considerazioni in precedenza espresse, alcun pregiudizio di livello garantistico o alcuna compressione della libera espressione del voto e che la irregolarità è irrilevante, non essendo idonea a compromettere l'accertamento della reale volontà del corpo elettorale (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit ., nonché C.d.S, sez. V, 20 maggio 2008, n. 2390)”.

Per quanto riguarda la censura con la quale è stata lamentata l'autenticazione di un numero di schede maggiore di quello degli elettori ammessi al voto, ritiene la Sezione che “non costituisca di per sé ragione d'illegittimità delle operazioni elettorali la circostanza, in quanto la legge non vieta che i componenti dell'ufficio elettorale di sezione autentichino anche tutte le schede a disposizione, all'uopo importando, ai fini della regolarità di siffatte operazioni, non già o non tanto la corrispondenza tra il numero degli elettori ammessi al voto e quello delle schede autenticate, quanto, piuttosto, l'esatta corrispondenza di tali schede alla somma delle schede adoperate effettivamente dagli elettori e di quelle non utilizzate e indicate nel verbale, ai sensi dell'art. 53 d.P.R. 16 maggio 1960 n. 570“ (C.d.S., sez. V, 27/06/2011, n. 3829 cit.; cfr., altresì, C.d.S., sez. V, 13 aprile 1999, n. 421).

In conclusione, in relazione al voto assistito vengono richiamati i pacifici principi giurisprudenziali formatisi sul punto, di cui alle massime che seguono: <<L'attitudine dell'infermità ad impedire l'autonoma manifestazione del voto da parte dell'elettore può essere apprezzata, in via di principio, unicamente dal funzionario medico appositamente designato, che dell'attestazione dell'esistenza dell'impedimento si assume la piena responsabilità giuridica. Il presidente del seggio elettorale, pertanto, non è tenuto di regola ad effettuare alcuna “prova empirica”, in quanto siffatta valutazione è stata affidata dalla legge ad altro organo pubblico, indubbiamente provvisto di adeguate competenze tecniche, la cui certificazione è vincolante per il seggio elettorale anche sulla portata pratica della malattia quale concreto impedimento all'espressione materiale del voto>> (C.d.S., Sez. V, 16/09/2011, n. 5169); <<In tema di voto assistito il certificato redatto dal medico dell'Azienda sanitaria locale costituisce un atto di certezza privilegiata non solo per quanto attiene alla natura dell'infermità ma anche quanto alla sua specifica capacità invalidante>> (TAR Campania, Napoli, Sez. II, 12/3/2012, n. 1253); << In base alla novella introdotta dalla legge n. 17 del 2003, l'indicazione AVD è sufficiente ai fini dell'ammissione al voto assistito, senza alcun obbligo di verifiche o particolari verbalizzazioni da parte del Seggio>> (C.d.S., Sez. V, 19 giugno 2012, n. 3557; C.d.S., Sez. V, 08/08/2014, n. 4246). EF

 



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Inserito in data 24/04/2015
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO - SEZ. UNICA, 15 aprile 2015, n. 149

Sulla responsabilità informatica della P.A.

Nel caso in cui uno strumento informatico, utilizzato dalla P.A., determini delle situazioni “anomale”, oltre alla responsabilità di chi ne ha predisposto il funzionamento senza considerare tali conseguenze, sussiste la responsabilità, quantomeno omissiva, del dipendente che, tempestivamente informato, non si è adoperato per svolgere, secondi i principi di legalità e imparzialità, tutte quelle attività che potessero soddisfare le legittime pretese dell'istante, nel rispetto, comunque recessivo, delle procedure informatiche.

Con la pronuncia de qua, il Collegio osserva “come l’informatica costituisca sicuramente, per la pubblica Amministrazione, uno strumento ormai doveroso e imprescindibile, puntualmente disciplinato dall’ordinamento (d. lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e relative norme attuative) al fine di raggiungere crescenti obiettivi di efficienza e efficacia dell’azione amministrativa”, nonché che “sarebbe nondimeno gravemente errato vedere nel procedimento informatico una sorta di amministrazione parallela, che opera in piena indipendenza dai mezzi e dagli uomini, e che i dipendenti si devono limitare a osservare con passiva rassegnazione (se non con il sollievo che può derivare dal discarico di responsabilità e decisioni): le risposte del sistema informatico sono invece oggettivamente imputabili all’Amministrazione, come plesso, e dunque alle persone che ne hanno la responsabilità”.

Nel caso in esame, una volta accertato, che la domanda del ricorrente non era stata respinta per violazioni formali della procedura, il responsabile del procedimento, d’intesa con il dirigente competente, avrebbe dovuto appurare se il rifiuto del sistema era legittimo, secondo la normativa concorsuale applicabile.

I Giudici chiariscono, a tal proposito, che “il rifiuto della piattaforma informatica è invero imputabile alla Provincia autonoma di Trento – la partecipazione tecnica del Ministero estende ma non sostituisce la responsabilità – ed essa era dunque tenuta a valutarne la legittimità, procedendo eventualmente in autotutela, per cui se avesse riconosciuto che il programma informatico contrastava con la disciplina legale”.

Viene chiarito che il bando di concorso non costituiva ostacolo solo perché imponeva la presentazione informatica della domanda, giacché ciò significa, secondo ragionevolezza, che l’interessato era tenuto a svolgere tempestivamente tutti i prescritti incombenti formali.

Nel caso in cui il sistema non accetti la domanda, il candidato – come ben si legge dalla pronuncia del TAR –  “non ha per questo disatteso la previsione legale, come non l’avrebbe violata lo stesso candidato, la cui domanda cartacea fosse stata respinta da un impiegato che avesse illegittimamente ritenuto di non poterla accettare (situazione di certo oggi più semplice da risolvere: ma l’Amministrazione deve adeguarsi ai nuovi modelli relazionali).”

Insomma, “il thema decidendum nella presente controversia, non è se il mezzo informatico permettesse alla Provincia di ricevere la domanda – ciò che è un problema della Provincia - ma se il ricorrente avesse titolo a presentarla”, secondo le norme applicabili, nella sua particolare situazione, e cioè quella di averne già presentate altre due: e, per quanto si è detto, la risposta è favorevole. Alla luce di tutto quanto chiarito dai Giudici del TAR, il ricorso va dunque accolto, per quanto di ragione, e conseguentemente annullato il diniego di ammissione alla procedura concorsuale de qua del candidato, nei limiti della motivazione addotta, e cioè per la precedente partecipazione a due analoghe procedure concorsuali. GMC

 



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Inserito in data 24/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 aprile 2015, n. 8001

In merito alla sostituzione esecutiva - ex art. 511 cpc

Gli Ermellini intervengono in merito alla domanda di sostituzione esecutiva.

Ai sensi dell'art. 511 c.p.c., essa realizza il subingresso di uno o più creditori del creditore dell'esecutato nella sua posizione processuale e nel diritto al riparto della somma ricavata dall'esecuzione, non essendo assimilabile all'intervento del creditore nel processo esecutivo perché il creditore istante non fa valere una pretesa nei confronti dell'esecutato, bensì nei riguardi di altro creditore, pignorante o intervenuto.

Ne segue, dunque, che presupposto per la presentazione della domanda di sostituzione esecutiva è l'affermazione di un diritto di credito nei confronti del creditore presente nel processo esecutivo (come pignorante o come intervenuto), a prescindere dal fatto che il credito del “creditor creditoris” sia o meno fondato su un titolo esecutivo. GMC

 




Inserito in data 23/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV - ORDINANZA 22 aprile 2015, n. 1694

Mediazione: ripristinata l’obbligatorietà delle spese di avvio

I Giudici di Palazzo Spada, ribaltando quanto stabilito dal Collegio laziale nei mesi scorsi, intervengono riguardo alla suddivisione delle spese in sede di mediazione obbligatoria – ex art. 5 – co. 1’ D. Lgs. 28/10 – norma poi modificata dalla L. n. 98/13.

In particolare, ravvedendo il giusto fumus in seno alle doglianze del Ministero appellante, il Collegio manifesta di non condividere la posizione del Giudice di prime cure – il quale ha ritenuto non rientrassero nella nozione di compenso  dovuto – di cui al comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2010, nr. 28 (come introdotto dalla “novella” del 2013) - anche le spese vive necessarie ad avviare il procedimento in esame.

Secondo i Giudici del gravame, invece, l’uso del termine compenso – come richiamato dalla suddetta norma - è manifestamente generico ed improprio.

Senza dubbio alcuno,  ritengono i Giudici di Palazzo Spada, quando il Legislatore ha voluto esonerare le parti dal pagamento del compenso della mediazione (in caso di esito negativo) intendeva riferirsi solo all’ ”onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione”.

In questo modo, invece, restano da pagare le spese di avvio che comprendono da un lato le “spese vive documentate” e dall’altro le spese generali sostenute da ciascun Organismo di mediazione.

Così statuito e sospendendo parzialmente l'esecutività della sentenza del TAR Lazio n. 1351/2015, i Giudici d'appello ripristinano l’obbligatorietà delle spese previste per il primo incontro di mediazione. CC



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Inserito in data 22/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, 15 aprile 2015, n. 15696

Infortuni sul lavoro: responsabilità del committente e del datore di lavoro

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso presentato avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 589 c.p., commesso in violazione delle norme antinfortunistiche, ricordando come, ai sensi dell’art. 26 del d.lgs. 81/2008, la responsabilità del committente non escluda quella del datore di lavoro.

Il medesimo principio, inoltre, può trovare applicazione anche nelle ipotesi di distacco di un lavoratore da un’impresa.

Invero, <<per effetto della modifica normativa introdotta dall'art. 3, comma 6, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore di lavoro distaccante>>.

Più precisamente, qualora l’evento derivi anche da un comportamento colposamente omissivo del datore di lavoro questi non può andare esente da responsabilità né può, a tal fine, ragionevolmente invocare il principio di  c.d. “legittimo affidamento” in tema di infortuni sul lavoro, essendo stato più volte ribadito che <<detto principio="" non="" opera="" allorché="" il="" mancato="" rispetto="" da="" parte="" di="" terzi="" delle="" norme="" precauzionali="" prudenza="" abbia="" la="" sua="" prima="" causa="" nell'inosservanza="" tali="" colui="" che="" invoca="" suddetto="" principio,="" come="" nel="" caso="" in="" esame="">>.

Ne consegue la sussistenza della responsabilità del datore di lavoro nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo stesso abbia omesso la valutazione del rischio specifico connesso alla prestazione che il lavoratore era chiamato ad effettuare e la formazione sulle corrette modalità di esecuzione delle operazioni. VA

 




Inserito in data 22/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 aprile 2015, n. 1861

Requisiti di partecipazione alla gara e interpretazione sostanzialistica per i soci

Il Consiglio di Stato, rigettando l’appello promosso avverso la decisione di primo grado che aveva confermato il provvedimento in autotutela emanato dall’amministrazione appaltante, ha rievocato l’interpretazione sostanzialistica dell’art. 38 comma 1 lett. c) del codice dei contratti pubblici fornita dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 16 del 2014.

Con la pronuncia in commento, dunque, il Supremo Consesso ha avallato la decisione del tribunale di merito che ha riconosciuto la legittimità del suddetto provvedimento con il quale era stata revocata l’esclusione  delle società costituende da una gara di appalto promossa per l’affidamento dei servizi di trasporto riservato scolastico e per l’affidamento del servizio di trasporto disabili a chiamata, aggiudicando provvisoriamente la gara a quest’ultime.

L’esclusione della società controinteressata, infatti, era stata determinata dall’omessa allegazione, al momento della partecipazione alla gara, delle dichiarazioni richieste dall’art. 38 sopra citato, con riferimento alle socie dell’odierna costituenda.

Tuttavia il Collegio ha ritenuto che con riferimento alla censura prevista dall’art. 38 <<sulla scia dell’impostazione “sostanzialistica” relativa ai requisiti di partecipazione alla gara, autorevolmente adottata dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 16-2014, e in linea con la ratio di cui all’art. 39 del D.L. n. 90-2014 (…), si deve ritenere che vi sia una chiara volontà del legislatore di evitare nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate, esclusioni dalla procedura per mere carenze formali>> (si veda sul punto C.d.S. 5890/14).

Più precisamente si ritiene che la dichiarazione sostitutiva, relativa alla sussistenza delle qualità morali dei partecipanti alla gara, non debba contenere necessariamente la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell'impresa,fatta eccezione per il titolare e/o il rappresentante legale dell’impresa, quando ne sia possibile un’agevole identificazione anche mediante l'accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici.

Il Supremo Consesso, pertanto, ritenendo sussistente l’identità di ratio, ha affermato che la medesima regola debba essere applicata anche con riferimento ai soci. Laddove si pervenisse ad una diversa soluzione, infatti, si configurerebbe un’ingiustificata ed inammissibile disparità di trattamento.

Ne consegue che <<in relazione ai soggetti diversi dal titolare e/o dal legale rappresentante dell’impresa, si può procedere all’esclusione unicamente nel caso di riscontro dell’effettiva assenza del requisito di moralità richiesto>>, non essendo sufficiente la sussistenza, come nel caso di specie, di una mera irregolarità formale atteso che, in sede di verifica del possesso dei requisiti di partecipazione ex art. 48, comma 2, del Codice dei contratti pubblici, è stata dimostrata l’incensuratezza delle socie. VA

 



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Inserito in data 21/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 15 aprile 2015, n. 15449

La causa di non punibilità per tenuità del fatto è applicabile anche in Cassazione

La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cp (introdotto dal d.lgs. 28/2015), è applicabile anche ai procedimenti in corso al momento della sua entrata in vigore. Tale istituto, infatti, ha natura sostanziale, con conseguente retroattività della legge più favorevole, ex art. 2, comma 4, cp.

La questione della particolare tenuità del fatto è proponibile anche nel giudizio di legittimità, trattandosi di questione che non sarebbe stato possibile dedurre in appello, secondo quanto disposto dall’art. 609, comma 2, cpp.

Occorre però verificare la sussistenza delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto. Solo in caso di valutazione positiva, il giudice procede all’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al giudice del merito, affinché valuti se dichiarare il fatto non punibile.

In particolare, bisogna valutare se il giudice del merito, nella motivazione del provvedimento impugnato, abbia espresso giudizi che abbiano pacificamente escluso la particolare tenuità del fatto.

Infine, la particolare tenuità del fatto deve essere accertata secondo gli indici-criteri previsti dall’art. 131-bis cp, e dunque alla luce della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’art. 133 cp. CDC

 

 




Inserito in data 21/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 aprile 2015, n. 2008

La disciplina dei settori speciali non si applica agli appalti “estranei”

Come precisato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 16 del 2011, la disciplina dei settori speciali non si applica agli appalti che gli enti aggiudicatori aggiudicano per scopi diversi dall’esercizio delle loro attività. Infatti, l’assoggettabilità dell’affidamento di un servizio alla disciplina dei settori speciali non può essere desunta sulla base del solo criterio soggettivo, relativo cioè al fatto che l’appalto sia affidato da un ente operante nei settori speciali, ma anche in applicazione di un parametro di tipo oggettivo, relativo alla riferibilità del servizio all’attività speciale.

Ciò si fonda, anzitutto, sul fatto che l’art. 207 d. lgs. 163/2006 deve essere interpretato in senso restrittivo, con superamento della c.d. “teoria del contagio”, secondo cui a tutti gli appalti di un organismo di diritto pubblico è applicabile lo stesso regime. Inoltre, vi sono appalti non già semplicemente “esclusi” dall’applicazione delle norme ordinarie del settore (e regolati perciò dalla disciplina dei settori speciali), ma anche del tutto “estranei” all’ambito di applicazione delle medesime norme.

La linea di demarcazione tra settori “esclusi” e settori “estranei” è costituita dalla strumentalità dell’oggetto dell’appalto rispetto al compimento dell’attività speciale, strumentalità che del tutto ragionevolmente deve essere accertata caso per caso. CDC

 



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Inserito in data 20/04/2015
TAR PIEMONTE-TORINO, SEZ. I, 17 aprile 2015, n. 663

Giudice di Legittimità e sindacato sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici

Con la pronuncia in esame, il Collegio si pronuncia sulla sindacabilità delle valutazioni di merito espresse dagli organi tecnici dell’amministrazione.

In particolare, i Giudici ricordano “che nelle controversie aventi ad oggetto il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle infermità sofferte da pubblici dipendenti, anche ai fini della liquidazione dell'equo indennizzo, il sindacato che il giudice della legittimità è autorizzato a compiere sulle determinazioni assunte dagli organi tecnici, ai quali la normativa vigente attribuisce la competenza in materia, deve necessariamente intendersi limitato ai soli casi di travisamento dei fatti e di macroscopica illogicità, nonché alla verifica della regolarità del procedimento (cfr. Cons. St. sez. IV, 08 gennaio 2013, n. 31 e 8 giugno 2009 n. 3500; Id., Sez. III, 18 aprile 2013, n. 2195)”.

Ciò in ragione del fatto che tali “limiti sono determinati dalla natura discrezionale delle valutazioni espresse dagli organi tecnici, in relazione alle conoscenze specialistiche richieste”.

Pertanto, “in sede di liquidazione dell'equo indennizzo l'amministrazione è tenuta tendenzialmente a recepire e a far proprio il parere espresso dal Comitato di verifica per le cause di servizio. Per la particolare competenza tecnica dei suoi componenti, tale organo esprime, infatti, un giudizio conclusivo sulla vicenda sottoposta al suo esame, con una valutazione che assorbe anche i giudizi espressi sulla questione da altri organi precedentemente intervenuti, quale la Commissione medica ospedaliera, e fornisce ogni auspicabile garanzia circa l'attendibilità della determinazione assunta. Pertanto, il parere del Comitato di verifica è (normalmente) vincolante per l'amministrazione che è tenuta a farlo proprio e ad assumerlo come motivazione unica della determinazione finale (Cons. St. Sez. III, 27 gennaio 2012, n. 404; sez. VI, 19 marzo 2009, n. 1679)”. EF

 



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Inserito in data 20/04/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 17 aprile 2015, n. 64

Prorogatio ed eventuali limiti all’attività degli organi regionali

La questione posta al vaglio del Giudice delle Leggi riguarda la legittimità costituzionale della L. reg. Abruzzo n. 26 del 2014 approvata e promulgata dal Consiglio regionale abruzzese “nel periodo di prorogatio successivo allo scioglimento dell’assemblea regionale per fine legislatura (ed antecedente alla data fissata per lo svolgimento delle nuove elezioni)”.

A tal proposito, la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 68 del 2010, ha avuto modo di sottolineare “come il quadro normativo ed applicativo sia notevolmente mutato a seguito della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni). Questa ha attribuito allo statuto ordinario la definizione della forma di governo e l’enunciazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione, in armonia con la Costituzione (art. 123, primo comma, Cost.); e ha demandato, nel contempo, la disciplina del sistema elettorale e dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità allo stesso legislatore regionale, sia pure nel rispetto dei princìpi fondamentali fissati con legge della Repubblica, «che stabilisce anche la durata degli organi elettivi» (art. 122, primo comma, Cost.). Cosicché – anche sulla base di quanto successivamente previsto nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione) – questa Corte ha affermato che «una interpretazione sistematica delle citate nuove norme costituzionali conduce a ritenere che la disciplina della eventuale prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati, sia oggi fondamentalmente di competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte della disciplina della forma di governo regionale»; e che, nel disciplinare questo profilo, gli statuti «dovranno essere in armonia con i precetti e con i principi tutti ricavabili dalla Costituzione, ai sensi dell’art. 123, primo comma, della Costituzione» (sentenza n. 196 del 2003; anche sentenza n. 304 del 2002)”.

In altri termini, l’istituto della prorogatio riguarda fattispecie in cui «coloro che sono nominati a tempo a coprire uffici rimangono in carica, ancorché scaduti, fino all’insediamento dei successori» (sentenza n. 208 del 1992); che, con specifico riferimento agli organi elettivi, e segnatamente ai Consigli regionali, esso attiene solo all’«esercizio dei poteri nell’intervallo fra la scadenza, naturale o anticipata, di tale mandato, e l’entrata in carica del nuovo organo eletto» (sentenza n. 196 del 2003); e che “l’istituto in esame presuppone la scadenza, naturale o anticipata, del mandato dell’organo, non potendovi logicamente esservi prorogatio prima di tale scadenza (sentenze n. 181 del 2014 e n. 68 del 2010). Detto esercizio va inteso come necessariamente limitato alle esigenze di rispondere a speciali contingenze, quale ragionevole soluzione di bilanciamento tra il principio di rappresentatività e il principio di continuità funzionale (sentenze n. 55 e n. 44 del 2015)”.

Ciò premesso, in merito alla censura dell’assenza dei caratteri di indifferibilità ed urgenza nel provvedimento legislativo de quo, la Consulta osserva che “l’art. 86, comma 3, lettera a), dello statuto (in ordine al quale da questa Corte è stato affermato che non sono stati superati i limiti imposti dall’art. 123 Cost. e sul cui contenuto non è stata mossa alcuna censura, neppure ai sensi e nei termini di cui al secondo comma dell’art. 123 Cost.) si riferisce agli interventi «che, comunque, presentano il carattere dell’urgenza e necessità», come ad una ipotesi autonoma ed aggiuntiva rispetto «agli interventi che si rendono dovuti in base agli impegni derivanti dall’appartenenza all’Unione Europea, a disposizioni costituzionali o legislative statali». Questi interventi dunque (secondo il senso inequivoco desumibile dalla lettera della norma e dalla sua ratio) non devono essere necessariamente connotati nei fatti dalla configurabilità dei presupposti della necessità e urgenza, che, viceversa, giustificano la legittimità di interventi diversi da quelli tipizzati”.

Pertanto, “l’enfatizzazione del requisito della necessità ed urgenza, quale unico e generale presupposto per l’esercizio dei poteri in periodo di prorogatio, è frutto di un erroneo presupposto interpretativo in cui è incorso il ricorrente, fermo restando che la prorogatio comporta che non possa essere invaso il campo delle scelte normative connaturate al pieno esercizio del mandato elettorale (sentenze n. 55 e n. 44 del 2015)”.

Del resto, l’adozione L. reg. Abruzzo n. 26 del 2014 nasce dalla «esigenza di rimuovere la situazione di incertezza, sul piano normativo, in ordine alla procedura da seguire per assicurare il coordinamento della pianificazione paesaggistica con gli altri strumenti di pianificazione». Trattasi, invero, di situazione che «trae origine dal vuoto normativo creatosi con la pronuncia della Corte costituzionale n. 211 del 3-18 luglio 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della L.R. 28 agosto 2012, n. 46 […], il cui testo aveva sostituito l’art. 2-bis della L.R. 2/2003, recante la disciplina del coordinamento delle previsioni fissate nella pianificazione paesaggistica regionale con quelle contenute negli strumenti pianificatori sottordinati».

Orbene, “va rilevato come proprio nella sentenza n. 211 del 2013 (dal cui decisum è derivato il vuoto normativo conseguente alla integrale caducazione della disposizione censurata a seguito della declaratoria di incostituzionalità), questa Corte, da un lato, abbia sottolineato espressamente la necessità che la Regione (nell’ottica della salvaguardia del territorio mediante pianificazione paesaggistica ad opera congiunta dello Stato e delle Regioni, ex art. 135, comma 1, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) predisponga una disciplina del «procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica, assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo» (ai sensi dell’art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004). E, dall’altro lato, abbia affermato che la circostanza (…) che «non risulti ancora adottato un piano paesaggistico regionale adeguato alle disposizioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio finisce per rendere ancor più acuta la vulnerazione delle prerogative statali, considerato che, in relazione a quelle che saranno le concrete previsioni dello stesso piano, dovranno poi essere verosimilmente ridisciplinate, dalla legge regionale, le procedure di adeguamento degli “altri strumenti di pianificazione”»”.

In conclusione, la Corte Costituzionale ribadisce “che la mancata (o non adeguata) partecipazione degli organi ministeriali al procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica determina l’evidente contrasto con la normativa statale, che – in linea con le prerogative riservate allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (tra le molte, sentenza n. 235 del 2011) – specificamente impone che la Regione adotti la propria disciplina di conformazione «assicurando la partecipazione degli organi ministeriali al procedimento medesimo» (sentenze n. 211 del 2013 e n. 235 del 2011). Costituisce, infatti, affermazione costante – su cui si fonda il principio della gerarchia degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, dettato dall’evocato art. 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 (sentenze n. 197 del 2014, n. 193 del 2010 e n. 272 del 2009) – quella secondo cui l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale» . Al contrario, la generale esclusione o la previsione di una mera partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, viene a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica”. EF

 



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Inserito in data 17/04/2015
CORTE COSTITUZIONALE - ORDINANZA 16 aprile 2015, n. 61

Giustizia amministrativa, maggiorazione contributo unificato e legittimità

Le Province autonome di Bolzano e di Trento, con due ricorsi distinti e successivamente riuniti, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale  del dell’art. 1, comma 25, lettera b), numero 4), e 28, della legge n. 228 del 2012 che, modificando l’articolo 37 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, aveva aumentato l’importo del contributo unificato dovuto per determinate tipologie di controversie dinanzi alla giustizia amministrativa.

L’impugnazione, invero poi oggetto di rinuncia da parte delle Province ricorrenti, è degna di nota, poiché le censure sollevate riguardano la sorte del contributo unificato – sulla cui legittimità si attende, a breve, persino la pronuncia da parte della Corte del Lussemburgo.

Le Province ricorrenti, in sostanza, lamentavano l’iniqua destinazione degli incassi – eventualmente recuperati a seguito della maggiorazione delle spese di avvio dinanzi ai Collegi amministrativi.

In sede di ricorso, infatti, si evidenziava come la maggiorazione del contributo unificato concerna un’entrata che, rientrando nell’àmbito residuale di tutte le entrate tributarie non specificamente individuate e non attribuite ad altri Enti, spetta alle Province autonome –  secondo quanto previsto dallo Statuto - ex artt. 75 e 79 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige).

Invece, a seguito della modifica normativa in esame, gli introiti maggiorati confluivano nel bilancio dello Stato, poiché destinati alla realizzazione di interventi urgenti in materia di giustizia amministrativa.

Ad avviso delle Ricorrenti, pertanto, oltre al vulnus arrecato alle disposizioni statutarie, era violato il principio – costituzionalmente rilevante - di leale collaborazione tra Enti e quello di certezza del diritto.

Tale maggiorazione sopravvenuta non possedeva, infatti, quella delimitazione temporale che la norma introduttiva, invero, aveva prospettato.

Come detto, il rilievo di tali censure, venuto meno a seguito della rinuncia delle Ricorrenti, in ottemperanza ad un accordo intervenuto il 15 ottobre 2014 con il Governo – in cui le prime si sono impegnate ritirare i ricorsi promossi contro lo Stato innanzi alle diverse giurisdizioni relativi alle impugnative di leggi o di atti consequenziali in materia di finanza pubblica, è transitato all’attenzione della Corte Europea, dinanzi alla quale si attendono prossimamente le conclusioni dell’Avvocato Generale. CC



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Inserito in data 17/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2015, n. 1796

Scorrimento graduatorie e motivi di diritto per eventuale deroga: identità profili professionali

Il Collegio della Sesta Sezione, intervenendo sulla nota questione circa le modalità di reclutamento del personale da parte delle Pubbliche Amministrazioni, delimita il perimetro applicativo del principio di scorrimento di graduatorie già esistenti.

Infatti, fermo restando l’atteggiamento di favore che sia il Legislatore che la giurisprudenza manifestano da anni riguardo a tale criterio, è corretto comunque delimitarne l’operatività.

Come nel caso di specie, infatti, i Giudici considerano valida la scelta dell’Amministrazione appellante che, in riforma della sentenza di primo grado, insiste sulla sostanziale diversità di profili richiesti dalla prima graduatoria – il cui scorrimento è richiesto dall’appellato, e la nuova - derivante, invece, dalla indizione del nuovo concorso – oggetto di contestazione.

Né, prosegue il Collegio, tale difformità è smussata dalla precedente esperienza lavorativa che l’originario ricorrente paventava di aver svolto presso la medesima Amministrazione.

E’ evidente, infatti, che la rilevante diversità formale e sostanziale tra i profili professionali richiesti rispecchia le diverse esigenze dell’Amministrazione.

Diversamente, si finirebbe con l’indurre le Amministrazioni a dover – quasi coattivamente – modificare le proprie piante organiche per assumere candidati già inseriti in graduatoria.

Pertanto, sulla base di tale principio che il Collegio definisce logico ancor prima che giuridico ed applicabile, quindi, a tutte le Amministrazioni, la Sesta Sezione accoglie le doglianze dell’Amministrazione appellante e, per l’effetto, dispone la riforma della sentenza censurata. CC



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Inserito in data 16/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 aprile 2015, n. 1927

Sulla natura e sui presupposti dell’acquisizione gratuita di opere abusive

Con la sentenza in esame il Supremo Consesso ha accolto il ricorso volto a far annullare l’ordinanza dirigenziale ed i relativi provvedimenti con la quale un comune aveva disposto l’acquisizione a titolo gratuito di due edifici abusivi.

Il motivo di censura sollevato dalle ricorrenti si fondava sull’asserita natura soggettiva della sanzione prevista, in relazione agli abusi edilizi, dall’art. 31 d.p.r. 380/01 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia),  la quale potrebbe desumersi dal combinato disposto degli artt. 29 (Responsabilità del titolare della concessione, del committente, del costruttore e del direttore dei lavori, nonché anche del progettista per le opere subordinate a denuncia di inizio attività) e 31 (Interventi eseguiti in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali) del Testo Unico dell’Edilizia e degli artt. 3 e 7 l.689/81.

Secondo le norme citate, infatti, <<l'acquisizione gratuita del bene non può operare nei confronti del terzo proprietario estraneo all'abuso ed al pedissequo ordine demolitorio, con la conseguenza che la funzione ripristinatoria dell'interesse pubblico violato dovrebbe ritenersi limitata alla sola misura demolitoria>>.

Il Collegio, tuttavia, ha argomentato diversamente la propria decisione.

Quest’ultimo, infatti, ha rilevato che <<le sanzioni per illeciti amministrativi […] si estinguono con la morte del trasgressore e non sono trasmissibili agli eredi>> (art 7 l. 689/81), mentre la misura dell’ordine di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, prevista in materia edilizia, ha carattere reale essendo volta a ripristinare l’ordine materiale, alterato con la costruzione abusiva, più che a sanzionare il comportamento illecito in sé considerato (sanzionato penalmente ex art. 44 d.p.r. 380/01). A  ben vedere, dunque, non può correttamente parlarsi di sanzione e, conseguentemente, risulta del tutto irrilevante discutere sulla natura reale o soggettiva della stessa.

Inoltre, una volta riconosciuta la finalità ripristinatoria dell’ordine di demolizione cui, in caso di inottemperanza, risulta strumentale l’acquisizione gratuita, ben può affermarsi l’opponibilità del primo anche a soggetti che, come nel caso di specie, risultino estranei al comportamento illecito, ad esempio gli eredi o aventi causa dell’autore dell’abuso (ex multis C.d.S. 3392/14 e 708/15).

L’art. 31 sopra citato, tuttavia, struttura l’acquisizione dell’area come conseguenza dell’inottemperanza volontaria all’ordine demolitorio. Ne consegue che, al fine di poter configurare un comportamento esigibile, occorre che il soggetto obbligato sia stato formalmente destinatario dell’ordine stesso ed abbia avuto a sua disposizione un termine per eseguirlo. In caso di rinnovazione del procedimento, dunque, l’ordine di demolizione dovrà essere comunicato nei confronti dei successori mortis causa.

Più precisamente, a prescindere dalle possibili conseguenze, il Collegio rileva l’illegittimità dell’acquisizione gratuita  in danno di chi non è responsabile dell’abuso e nei cui confronti sia mancata la notifica dell’ordine di demolizione in quanto <<essendo l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale - ovvero la demolizione in danno - una misura prevista per l’ipotesi di inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essa postula comunque un’inottemperanza da parte di chi va a patirne le pur giuste conseguenze>>, inoltre <<la legittimità dell'atto di acquisizione va esaminata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua emanazione>> (C.d.S. 4913/133). VA

 

 

 



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Inserito in data 15/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 aprile 2015, n. 1898

Sì ai chiarimenti della stazione appaltante se di “interpretazione autentica” 

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato interviene, con la pronuncia in epigrafe, in merito alla valenza dei chiarimenti forniti dalla stazione appaltante prima della scadenza del termine di presentazione delle offerte.

Con la sentenza de qua, viene evidenziato che la giurisprudenza ritiene che tali chiarimenti non possano valere a modificare la disciplina dettata per lo svolgimento della gara, così come scolpita nella lex specialis.

Solamente nelle ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore delle clausole chiarite, le relative precisazioni rappresentano una sorta di “interpretazione autentica”, con la quale l’Amministrazione aggiudicatrice chiarisce la propria volontà provvedimentale, così come già rilevato dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 4305 del 2014. GMC



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Inserito in data 15/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2015, n. 1486

Sul diritto a procreare a spese della Regione 

Con la pronuncia in esame del Consiglio di Stato, si chiarisce che la Pubblica Amministrazione non può discriminare un tipo di fecondazione rispetto all’altra richiedendo il pagamento del ticket soltanto per la fecondazione eterologa.

Specificamente, i Giudici di Palazzo Spada hanno sospeso in via cautelare la delibera della Lombardia che – quale unica Regione – prevede che il cittadino debba pagare interamente il trattamento di fecondazione eterologa, e non già solamente il ticket.

I Giudici del Supremo consesso amministrativo, hanno ritenuto valida la posizione dei ricorrenti, i quali hanno evidenziato la disparità di trattamento tra cittadini.

Viene evidenziato, invero, che “sembra condivisibile la censura di disparità di trattamento sotto il profilo economico tra la procreazione medicalmente assistita omologa e quella eterologa, stante l’incontestata assunzione a carico del servizio sanitario regionale lombardo salvo il pagamento di ticket della prima”.

Oltre a ciò, la scelta del Consiglio di Stato, di concedere la sospensiva, è legata anche al fatto che – come si legge dalla pronuncia de qua – “il pregiudizio lamentato non può essere ragionevolmente limitato ad aspetti puramente patrimoniali in sé risarcibili”, e deve “ritenersi dotato dei prescritti caratteri di gravità e irreparabilità poiché l'esecuzione dei provvedimenti impugnati è suscettibile di produrre l'effetto della perdita, da parte di coloro che non sono in grado di sostenere l'onere economico ivi previsto, della possibilità di accedere alle tecniche in parola dovuta al superamento dell'età potenzialmente fertile durante il tempo occorrente per la definizione del giudizio nel merito”. GMC



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Inserito in data 14/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 13 aprile 2015, n. 4

Non si può condannare ex officio la PA al risarcimento se è stato chiesto l’annullamento

Il giudice amministrativo, ritenuta la fondatezza del ricorso, non può ex officio limitarsi a condannare la PA al risarcimento dei danni conseguenti agli atti illegittimi impugnati anziché procedere al loro annullamento, che abbia formato oggetto della domanda dell’istante ed in ordine al quale persista il suo interesse, ancorché la pronuncia possa recare gravi pregiudizi ai controinteressati, anche per il lungo tempo trascorso dall’adozione degli atti, e ad essa debba seguire il mero rinnovo, in tutto o in parte, della procedura esperita.

In tal senso depone, anzitutto, il fatto che la giurisdizione amministrativa costituisce una giurisdizione di tipo soggettivo, sia pure con aperture parziali alla giurisdizione di tipo oggettivo, ma che si manifestano in precisi, limitati ambiti.

Ma soprattutto, in base al principio della domanda, non può ammettersi che, in presenza di un atto illegittimo (causa petendi) per il quale sia stata proposta una domanda demolitoria (petitum), possa non conseguirne l’effetto distruttivo dell’atto per valutazione o iniziativa ex officio del giudice. L’azione di annullamento e la domanda di risarcimento sono infatti radicalmente diverse: nella prima la causa petendi è l’illegittimità, mentre nella seconda è l’illiceità del fatto; il petitum nella prima azione è l’annullamento degli atti o provvedimenti impugnati, mentre nella seconda è la condanna al risarcimento in forma generica o specifica.

Infine, non appaiono pertinenti gli argomenti e i precedenti richiamati dall’ordinanza di rimessione.

Non rileva, infatti, il tempo trascorso dall’adozione degli atti, dato che la durata occorrente per il giudizio, a maggior ragione quando essa sia prolungata e inaccettabile nelle sue dimensioni, non può andare a danno del ricorrente che ha ragione e pregiudicargli la sua pretesa,

Non appare utile, poi, il richiamo alle disposizioni in materia di appalti (artt. 121 e 122 cpa), in cui viene riconosciuta la possibilità al giudice di disporre un rimedio piuttosto che un altro, sulla base dell’inefficacia del contratto e dell’esercizio di un potere valutativo. Trattasi, infatti, di fattispecie esclusive la cui disciplina non è estensibile in via analogica né tanto meno può essere assunta come espressiva di principi generali.

Non è pertinente neppure il richiamo alla sentenza del Consiglio di Stato n. 2755 del 2011, che ha riconosciuto la potestà del giudice amministrativo di fissare una determinata posteriore decorrenza degli effetti della pronuncia di annullamento. Si tratta, infatti, di una questione ben diversa rispetto al caso in esame, relativo alla possibilità per il giudice di sostituire integralmente ex officio la domanda proposta in giudizio.

Ugualmente non convincente è il richiamo alle sentenze che fanno riferimento alla possibilità che il giudice, di ufficio, ritenga che sussista un interesse al mero accertamento. Anche queste pronunce riguardano una fattispecie ben diversa dalla invocata possibilità del giudice di modificare la domanda. Esse, infatti, ritengono che ope iudicis si possa accertare l’illegittimità di un atto impugnato anche quando la parte, che non ha più interesse all’annullamento, non lo chieda espressamente.

Infine, la modificazione degli effetti della domanda di annullamento non può essere giustificata con il richiamo alla disciplina del processo dinanzi alla Corte di Giustizia (art. 264 del Trattato). Infatti, se è vero che l’art. 1 cpa afferma che la “giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo”, ciò avviene sulla base della specifica disciplina del processo amministrativo, non necessariamente dandosi applicazione alle regole processuali comunitarie. Non si tratterebbe qui di recepire principi del diritto comunitario sostanziale o processuale (la proporzionalità, l’affidamento, il mutuo riconoscimento, il giusto processo, il contraddittorio etc.), ma di applicare una disposizione dettata per il giudizio europeo al giudizio (di tutt’altra natura) nazionale. CDC



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Inserito in data 14/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 aprile 2015, n. 6904

Il diritto di prelazione e di riscatto del confinante non spettano al nudo proprietario

Le norme sul diritto di prelazione e di riscatto sono norme di stretta interpretazione, che prevedono un numero chiuso di ipotesi e non consentono estensioni al di fuori dei casi tassativamente previsti. Esse, infatti, apportano una significativa limitazione del diritto di proprietà, perché una delle prerogative fondamentali del proprietario è quella di alienare il proprio diritto ad un soggetto liberamente scelto; e tale facoltà è diminuita significativamente dalle norme sul diritto di prelazione.

Ne segue che il diritto di prelazione (e, conseguentemente, anche il diritto di riscatto) non può essere riconosciuto anche al nudo proprietario. È evidente, del resto, che una simile estensione sarebbe arbitraria, considerando che il nudo proprietario non ha poteri di godimento del bene, che spettano all’usufruttuario, e non è neppure detto che diventi mai proprietario. CDC




Inserito in data 13/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2015 n. 1798

In sede d’offerta non sussiste l’obbligo di indicare i costi ‘specifici’ o ‘aziendali

Con la sentenza in esame, il Consesso esamina l’esatta portata dispositiva del secondo periodo del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice dei contratti’, secondo cui “nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

Invero, per un primo orientamento, “in relazione agli appalti di forniture e di servizi intellettuali (nel cui ambito il rischio c.d. ‘specifico’ o ‘aziendale’ ha minore possibilità di incidenza), il combinato disposto del comma 3-bis dell’articolo 86 e del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice’ non impone alle imprese partecipanti l’obbligo, a pena di esclusione, di indicare già in sede di offerta gli oneri per la sicurezza in questione, trattandosi di elementi che vanno viceversa specificati e verificati ai soli fini del giudizio di anomalia” (sul punto –ex multis -: Cons. Stato, V, 17 giugno 2014, n. 3056).

Per altra ricostruzione, invece, “quanto meno nell’ambito degli appalti di servizi e di forniture (espressamente richiamati dal comma 4 dell’articolo 87, cit.), sussiste in capo all’impresa partecipante – e a pena di esclusione - l’indefettibile obbligo di indicare già in sede di offerta gli oneri di sicurezza cc.dd. ‘specifici’ o ‘aziendali’ e che tale obbligo, laddove inadempiuto, determinerebbe comunque l’effetto espulsivo a prescindere da un’espressa previsione in tal senso nell’ambito della lex specialis di gara (tanto, alla luce del principio di eterointegrazione della normativa speciale di gara, che opererebbe in considerazione dell’alto valore sistemico dei valori tutelati)”.

Orbene, la prima tesi è stata da ultimo condivisa nei suoi assunti di fondo dalla recente decisione dell’Adunanza plenaria 20 marzo 2015, n. 3.

Secondo il Supremo Consesso, infatti, “le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze”; mentre “i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata (ivi, punto 2.9.)”.

A questo punto, la Plenaria afferma che “la ratio del puntuale richiamo, nell’art. 87, comma 4, secondo periodo del Codice, della specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture appare individuabile in relazione alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per questi appalti rispetto a quelli per lavori e alla rilevanza di ciò nella fase della valutazione dell’anomalia (cui la norma è espressamente riferita). Ed infatti il contenuto delle prestazioni di servizi e forniture può essere tale da non comportare necessariamente livelli di rischio pari a quelli dei lavori, rilevando l’esigenza sottesa alla norma in esame, pur ferma la tutela della sicurezza del lavoro, di particolarmente correlare alla entità e caratteristiche di tali prestazioni la giustificazione dei relativi, specifici costi in sede di offerta e di verifica dell’anomalia (ivi, punto 2.9)”.

Pertanto, la ricostruzione costituzionalmente orientata operata dall’Adunanza Plenaria comporta il sostanziale ribaltamento dell’orientamento giurisprudenziale “secondo cui il combinato disposto del comma 3-bis dell’articolo 86 e del comma 4 dell’articolo 87 del ‘Codice dei contratti’ avrebbe imposto oneri dichiarativi più pregnanti (e conseguenza escludenti più stringenti) a carico delle imprese partecipanti ad appalti di servizi e di forniture rispetto a quelle partecipanti ad appalti di lavori (nonostante la maggiore rischiosità che tipicamente caratterizza la seconda tipologia di appalti rispetto alla prima)”.

Deve, quindi, avallarsi il “condiviso orientamento secondo cui nelle procedure ad evidenza pubblica la regola di specificazione (o separata indicazione) dei costi di sicurezza, ai sensi degli articoli 86 e 87 del decreto legislativo n. 163 del 2006 opera in via primaria nei confronti delle amministrazioni aggiudicatrici in sede di predisposizione delle gare di appalto e di valutazione dell’anomalia, con la conseguenza che l'assenza di scorporo nel quantum fin dalla fase di presentazione dell'offerta non può risolversi in causa di esclusione dalla gara, anche alla luce dei criteri di tassatività della cause espulsive previsti dall'art. 46, comma 1-bis, del medesimo Codice (in tal senso: Cons. Stato, V, 2 ottobre 2014, n. 4907 – ipotesi di appalto di servizi -; id., III, 4 marzo 2014, n. 1030 – ipotesi di appalto di servizi -)”. EF



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Inserito in data 13/04/2015
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 10 aprile 2015, n. 176

Sul “non condizionato diritto” di accesso dei consiglieri comunali

Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale» (così, T.A.R. Sicilia – Palermo, Sez. I^, sentenza n. 77/2015; nello stesso senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V^, sentenza n. 4525/2014).

Del resto, “il diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso” (cfr., T.A.R. Lazio – Roma, Sez. I^, ordinanza n. 1140/2015; T.A.R. Puglia – Bari, Sez. II^, sentenza n. 1664/2012).

Ne discende che “la richiesta del Comune di motivare le ragioni della richiesta di copia dei documenti visionati, se pur formalmente non è atto di diniego, costituisce comunque atto lesivo delle prerogative dei consiglieri”.

Si rammenti, infine, che “il diritto di accesso è individuale, sicché non può essere negato per il solo fatto di essere già stato accordato ad altro soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo” (cfr., T.A.R. Lombardia – Milano, Sez. I^, sentenza n. 2834/2014). EF



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Inserito in data 11/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE, 7 aprile 2015, n. 6921

Appropriazione indebita del professionista 

Con la sentenza de qua, la Suprema Corte chiarisce che il termine di prescrizione del diritto ad ottenere il risarcimento del danno nei confronti di un professionista colpevole di appropriazione indebita, inizia a decorrere dal momento in cui è cessato l’incarico, e non già da quando è stato commesso l’illecito.

Ciò chiarito, gli Ermellini hanno in tal modo dato ragione al cliente di un commercialista che si era visto sottrarre alcune somme di denaro di cui il professionista aveva disponibilità in virtù del suo mandato.

I Giudici di Piazza Cavour, precisando che, nei riguardi di un professionista, il cliente possa agire sia per i danni da responsabilità contrattuale – il cui termine di prescrizione sarà di dieci anni – sia per i danni derivanti da responsabilità extracontrattuale, rilevano che, nel caso de quo, il termine di prescrizione sarà di cinque anni, trattandosi, invero, di un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, facendo dunque riferimento all’art. 2947 del c.c.

I Giudici di secondo grado, tuttavia, hanno commesso un errore poiché hanno individuato, come data di inizio della decorrenza del termine di prescrizione, quella dell’illecito, anziché quella della cessazione dell’incarico.

Gli Ermellini puntualizzano a tal proposito che il termine di prescrizione non può iniziare a decorrere prima che sia cessato il rapporto professionale, o, comunque, da quando il professionista abbia assolto l’obbligo di rendere il conto al cliente, poiché la prescrizione può decorrere solo da quando il diritto può esser fatto valere.

Alla luce di tutto quanto chiarito ed esposto, i termini di prescrizione non decorrono da quando il fatto illecito ha leso l’altrui diritto, bensì dal momento in cui il danno diventa “oggettivamente riconoscibile”. GMC




Inserito in data 11/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2015, n. 1825

Sulla domanda di revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c.: i presupposti 

Con la pronuncia in epigrafe, il Supremo Consesso amministrativo interviene in merito ad un caso di revocazione ex art. 395 n. 4 del c.p.c., evidenziando i presupposti per la proposizione della domanda de qua.

Nello specifico, il ricorso in questione è stato proposto da una Regione al fine di ottenere la revocazione di una sentenza del Consiglio di Stato con la quale sono stati respinti gli appelli proposti avverso la sentenza del TAR che in accoglimento del ricorso aveva disposto l’annullamento della deliberazione della Giunta regionale con cui la Regione – in relazione alla costruzione di un Sistema Informativo dell’Ambiente – aveva deciso di affidare alcune attività ad una S.p.a.

La Regione, in seguito, denunciava la presenza di un vizio revocatorio che insisterebbe sulla sentenza precedentemente emanata.

I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano – con la pronuncia in questione – quanto è già stato chiarito, in modo costante, dalla giurisprudenza, nonché, da ultimo, dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2014, secondo cui “L’errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., deve essere caratterizzato: a) dal derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l’organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere un fatto documentalmente escluso ovvero inesistente un fatto documentalmente provato; b) dall’attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) dall’essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia stessa; l’errore deve inoltre apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche.

Specificamente, in materia di errore di fatto revocatorio, l’articolo 395, n. 4, c.p.c. prevede che sussiste errore di fatto se “il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”, dunque, alla luce di quanto chiarito “E’ pertanto inammissibile un ricorso di revocazione nel caso in cui il fatto sul quale si pretende di fondare l’errore revocatorio sia stato proprio il punto decisivo sul quale il Collegio ha fondato la propria decisione”.

Oltre a ciò, la rilevanza dell’interesse – secondo quando chiarito dai Giudici di Palazzo Spada -  doveva essere necessariamente apprezzata non solo “a fini caducatori”, ma anche a fini risarcitori, considerato che sia in primo che in secondo grado la S.r.l. aveva proposto domanda di risarcimento del danno. Invero, non sussiste alcun rapporto di causalità tra l’erronea presupposizione e la pronuncia.

Ancora, non può parlarsi di alcuna “omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio”, dal momento che “le delibere indicate nel ricorso per revocazione non sono mai state prodotte nel giudizio concluso con la sentenza di cui si invoca la revocazione, né può invocarsi in senso contrario il regime di pubblicità al quale sono sottoposte, dal momento che non si è presenza di fonti del diritto, rispetto alle quali vale il principio iura novit curia”.

Alla luce di tutto quanto chiarito, in difetto dei presupposti indicati dall’art. 395, n. 4 c.p.a., il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. GMC



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Inserito in data 10/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 aprile 2015, n. 6855

La formazione della famiglia di fatto comporta definitiva perdita dell’assegno divorzile

La formazione di una famiglia di fatto, caratterizzata da connotati di stabilità e continuità, nonché dall’elaborazione di un progetto di vita in comune, fa venir meno il diritto all’assegno divorzile. In tal caso, infatti, si rescinde ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale.

Ciò non determina, però, una sorta di quiescenza del diritto all’assegno, che potrebbe essere chiesto nuovamente, in caso di rottura della convivenza di fatto. Infatti, la formazione della famiglia di fatto è espressione di una scelta esistenziale libera e consapevole ed è necessariamente caratterizzata dall’assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive. Deve anche considerarsi, peraltro, la posizione dell’ex coniuge, che si troverebbe nuovamente obbligato e che, invece, di fronte alla costituzione stabile e duratura di una famiglia di fatto tra il proprio ex coniuge e un altro partner, confiderebbe nell’esonero definitivo da ogni obbligo. CDC

 




Inserito in data 10/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2015, n. 1819

Sui confini della giurisdizione esclusiva in materia di gestione del ciclo dei rifiuti

Come affermato da Cass. S.U. n. 14126 del 2010, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di controversie attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti presuppone che gli atti o i comportamenti della PA o dei soggetti alla stessa equiparati costituiscano espressione dell’esercizio di un potere autoritativo.

Sono invece escluse le controversie nelle quali sia dedotto in giudizio un rapporto obbligatorio avente la propria fonte in una pattuizione di tipo negoziale, intesa a regolare gli aspetti meramente patrimoniali della gestione, che continuano a rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario.

Nello stesso senso si è pronunciata anche Cass. S.U. n. 19253 del 2010, evidenziando che l’espresso riferimento normativo ai comportamenti della PA deve essere inteso nel senso che rilevano soltanto i comportamenti costituenti espressione di un potere amministrativo, e non anche quelli meramente materiali, posti in essere dall'amministrazione al di fuori dell'esercizio di un'attività autoritativa. Pertanto, quando vengono in rilievo questioni meramente patrimoniali, connesse al mancato adempimento da parte dell'amministrazione di una prestazione pecuniaria nascente da un rapporto obbligatorio, i comportamenti posti in essere dall'amministrazione rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario.

Sulla base di tali precedenti, il Consiglio di Stato ha negato la giurisdizione del giudice amministrativo, dato che, pur invocandosi nel caso di specie l’annullamento di un atto di mancata autorizzazione allo svincolo di una cauzione, in realtà si chiedeva l’accertamento della cessazione dell’obbligo derivante da una garanzia fideiussoria e la condanna al risarcimento dei danni subiti. Si contestava, cioè, il cattivo esercizio di una facoltà di natura privatistica da parte della PA. CDC



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Inserito in data 09/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 aprile 2015, n. 1770

Demolizione accidentale di un edificio e concessione di ristrutturazione

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato riprende l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale pur essendo “vero che qualora un edificio pervenga ad una integrale demolizione (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) dopo che per esso è stata rilasciata una concessione edilizia di ristrutturazione, questa concessione perde la propria efficacia perché non esiste più l'edificio da ristrutturare, e per cui occorre, per la costruzione del nuovo edificio, un diverso e regolare titolo abilitativo (così Consiglio di Stato, sez. V, 23 marzo 2000, n. 1610), è peraltro vero che qualora la demolizione avvenga accidentalmente per l'imprevedibile grado di fatiscenza di strutture preesistenti e mentre una ristrutturazione edilizia è già in atto (e cioè durante un intervento inteso a conservare il fabbricato), essa non preclude il rilascio di una successiva concessione di ristrutturazione, che consenta il ripristino della sagoma e dei volumi preesistenti (Consiglio di Stato, sez. V, 18 agosto 1997, n. 917)”.

In particolare, la situazione di fatto creatasi a seguito del crollo di un edificio, che, di fatto, stravolge i presupposti su cui si era precedentemente regolato il Comune, va “valutata in concreto dall’amministrazione e posta come elemento fondante della sua decisione”. EF

 



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Inserito in data 09/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 aprile 2015, n. 6820

La contestazione dei giusti motivi di recesso introduce un’azione di accertamento 

Con la sentenza in esame, la Suprema Corte afferma che il “recesso dal contratto è l'atto col quale uno dei contraenti si scioglie unilateralmente dal vincolo negoziale”.

Invero, esso “non costituisce un istituto dai caratteri unitari”. Infatti, “talora è previsto dalla legge quale mera facoltà (ad esempio, negli artt. 24, 768 septies, 1671, 1750 c.c.); talaltra è concepito come una misura di reazione ad errori di fatto (ad esempio, negli artt. 1538, 1539, 1893 c.c.); in altri casi ancora è concepito come uno strumento di salvaguardia del sinallagma contrattuale contro il rischio di vizi sopravvenuti (è il caso degli artt. 1613, 1614 comma 2, 1897 c.c.)”.

In quest'ultima categoria rientra “l'Istituto previsto dall'art. 27 l. 392/78, il cui scopo è evitare il rischio che il conduttore si trovi costretto ad onorare un contratto che, senza propria colpa, sia divenuto per lui inutile”.

Del resto, “in quanto finalizzato a rimediare ad un vizio sopravvenuto del sinallagma contrattuale, il recesso ha effetto immediato e provoca lo scioglimento del contratto alla scadenza del semestre di legge: al pari, ad esempio, della scadenza del termine essenziale, dell'avverarsi della clausola risolutiva espressa o dell'inutile spirare del termine fissato con la diffida ad adempiere”.

Ciò premesso, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che “l'eventuale contestazione del locatore circa l'esistenza o la rilevanza dei 'giusti motivi' invocati dal conduttore a fondamento del diritto di recesso non introduce una azione costitutiva finalizzata ad una sentenza che dichiari sciolto il recedente dal contratto, ma introduce una mera azione di accertamento, il cui scopo è stabilire se esistessero al momento del recesso i giusti motivi invocati dal conduttore” (così come già ritenuto, tra le altre, da Sez. 3, Sentenza n. 16110 del 09/07/2009, Rv. 608801, e da Sez. 3, Sentenza n. 2070 del 20/02/1993, Rv. 481012, in motivazione).

Pertanto, il contratto di locazione “si scioglierà ope legis una volta decorso il semestre previsto dalla legge, per il solo fatto che la dichiarazione di recesso sia pervenuta al domicilio del locatore, secondo la regola generale di cui all'art. 1334 c.c.”.

La Corte osserva, altresì, che “la domanda di pagamento del canone di locazione dovuto per effetto d'un contratto valido ed efficace ha presupposti e contenuto diversi da quella di pagamento dell'indennità di occupazione prevista dal'art. 1591 c.c.”.

La prima si fonda “sull'esistenza d'un contratto produttivo di effetti, la seconda presuppone per contro che il contratto di locazione abbia cessato di produrre i propri effetti, e che il conduttore sia in mora nell'adempimento dell'obbligazione restitutoria”.

Ne consegue che, “proposta una domanda di adempimento dell'obbligo di pagamento del canone di locazione, costituisce inammissibile mutamento della domanda la richiesta di condanna del convenuto al pagamento dell'indennità di occupazione, di cui all'art. 1591 c.c.” (come già ritenuto, sia pure in fattispecie diversa, da Sez. 3, Sentenza n. 6468 del 19/03/2007, Rv. 596822). EF




Inserito in data 08/04/2015
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 31 marzo 2015, n. 57

Il termine di cui all’art. 30 c. 5 CPA viola gli artt. 3, 24, 103, 113 e 117 Cost?

Con la decisione in esame, il Giudice delle leggi ha dichiarato la “manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, comma 5, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nonché all’art.117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)”.

Ad avviso del giudice rimettente, la non manifesta infondatezza della questione traspariva dal fatto che l’art. 30, comma 5, comporta un’irragionevole compressione del diritto di difesa in giudizio della parte danneggiata, con violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, atteso che “la decadenza ha per oggetto un “atto” (che per effetto di esso non può più essere compiuto), mentre ove si tratti, come nella specie, di “un rapporto”, la correlativa estinzione per inerzia del titolare del diritto non sarebbe altrimenti riconducibile che all’istituto della prescrizione”.

Per il rimettente, l‘art. 30, comma 5, CPA doveva ritenersi irragionevole anche perché fissa il  dies a quo del termine di decadenza dalla domanda risarcitoria non già in corrispondenza dell’impugnazione del provvedimento lesivo, bensì in relazione al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento.

Da ultimo, ad avviso del rimettente, l’art. 30, comma 5, CPA, violerebbe l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, in tema di “giusto processo”, “in quanto il legislatore nazionale, fissando il suddetto ristretto termine decadenziale, ha interferito nell’amministrazione della giustizia, attribuendo alla pubblica amministrazione una posizione di vantaggio in assenza di “motivi imperativi di interesse generale”, come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”.

La Corte costituzionale ha respinto la predetta questione di costituzionalità sulla base della sua irrilevanza per il giudizio a quo, senza entrare nel merito della fondatezza delle censure sollevate.

Invero, il convincimento in ordine alla rilevanza della questione muoveva dall’erroneo presupposto secondo cui il termine decadenziale introdotto dall’art. 30, comma 5, CPA, doveva applicarsi non solo alle controversie verificatesi prima dell’entrata in vigore del Codice, bensì anche alle cause la cui domanda fosse stata proposta prima di quel momento. A tale conclusione si perveniva facendo leva sulla natura processuale dell’art. 30, comma 5, CPA, che, perciò, avrebbe dovuto operare secondo il criterio del tempus regit actum.

In senso contrario, la Corte costituzionale ha posto l’accento sull’art. 2 del Titolo II dell’Allegato 3 del d.lgs. n. 104/10, a mente del quale «Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice [del processo amministrativo] continuano a trovare applicazione le norme previgenti». Secondo la Corte costituzionale, detta norma “non è altrimenti interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche (e a maggior ragione) all’ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali «in corso») innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva”.

Pertanto, poiché al momento della proposizione dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice a quo vigeva il regime di prescrizione quinquennale di diritto comune (art. 2947 cod. civ.), la tempestività del ricorso doveva valutarsi alla luce dell’art. 2947 c.c. (anziché dell’art. 30, comma 5, CPA), con la conseguente irrilevanza della questione di costituzionalità sollevata. TM

 



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Inserito in data 08/04/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 27 marzo 2015, n. 1601

Offerta di gara: varianti migliorative, ammissibilità ed esclusione 

Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio della Quinta Sezione conferma taluni spunti interessanti, già elaborati dalla giurisprudenza amministrativa riguardo allo svolgimento delle gare pubbliche.

Peraltro in via pregiudiziale, ricordando il divieto dei nova – ex art. 104 C.p.A. ed il valore puramente illustrativo delle comparse conclusionali (Cfr. ex plurimis, Cons. St., sez. V, 13 maggio 2014, n. 2444; sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640; Ad. plen., 19 dicembre 1983, n. 26), viene esclusa la rilevanza delle censure inserite per la prima volta dalla ditta – odierna appellante.

Proseguendo, poi, nel merito, i Giudici evidenziano il principio di tassatività delle cause di esclusione sancito dall’art. 46, co. 1-bis, del Codice dei contratti pubblici e, di conseguenza, il potenziale motivo di estromissione dalla gara solo in presenza di carenze tali da ingenerare una situazione di «incertezza assoluta sul contenuto …. dell’offerta».

Tanto non ricorre nel caso in esame, in cui il Collegio può motivatamente escludere le doglianze prospettate dalla ditta ricorrente, considerato che l’offerta proposta dall’altra candidata – odierna ricorrente in via incidentale – non presenta carenze strutturali tali da rientrare nel novero del suddetto articolo 46 – 1’ co. Cod. De Lise.

Peraltro, insiste la quinta Sezione, il giudizio elaborato dalla Commissione di gara – quale organo tecnico – è insindacabile, se non nei limiti dell’abnormità. Circostanza che non si ravvede nell’ipotesi in esame e che, pertanto, porta ad escludere la possibilità di un sindacato del G.A. – quale quello richiesto in appello sull’offerta ammessa – perché sostitutorio e quindi al di fuori dei tassativi casi di giurisdizione di merito - fissati dall’art. 134 C.p.A.   

La pronuncia si conclude, infine, con un intervento del Collegio riguardo alle varianti migliorative – presuntivamente lamentate dall’appellante riguardo all’offerta presentata dalla ditta avversaria.

Nell’escludere le censure e nel ricordare la giurisprudenza ormai salda sul punto, i Giudici ammettono quelle variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche, purché non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio.

Tanto si ravvisa nel caso in esame, in cui il progetto esecutivo dell’aggiudicataria non stravolge le linee fondamentali poste a base di quello preliminare e non presenta mende reali in tema di sicurezza, stabilità e conformità rispetto agli strumenti di tutela del territorio ed ai valori estetici – come sottolineato dalla Commissione di gara.

In ragione di ciò e confermando, peraltro, la discrezionalità tecnica manifestata nel giudizio e la conseguente insindacabilità di quest’ultimo Organo, i Giudici escludono la fondatezza delle censure proposte dall’appellante principale e, per l’effetto, sono esentati dall’esaminare il ricorso incidentale – notoriamente sottoposto all’eventuale accoglimento del primo. CC



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Inserito in data 03/04/2015
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZ. II, caso A. M. contro Italia, 24.03.15

Italia condannata: viola il diritto alla libertà

La pronuncia in esame è, inevitabilmente, una decisione che ha fatto discutere – considerato il merito del relativo contenuto.

I Giudici della Corte Edu hanno condannato l’Italia per aver concesso – in ritardo rispetto ai tempi proceduralmente previsti, una misura premiale ad un noto boss - detenuto per reati di associazione mafiosa – ex artt. 416 bis e ter c.p.

Invero, il quadro interno appare piuttosto nebuloso – sotto il profilo sia normativo che giurisprudenziale. Infatti, se da un lato la misura premiale era stata inizialmente concessa, fu poi negata dalla Cassazione penale nel 2007 in considerazione della natura particolarmente e notoriamente grave dei reati suddetti, addebitati all’odierno ricorrente. E’ seguita, poi, la contestazione proveniente dal Ministero della Giustizia – in ragione dell’erronea composizione del Collegio che, inizialmente, aveva riconosciuto la misura premiale e la successiva, relativa conferma – ad opera del Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente.

Tale atteggiamento ondivago è stato duramente contestato dal boss che, in ragione di ciò, ha censurato la condotta dello stato italiano dinanzi alla Corte di Strasburgo.

I Giudici francesi, condividendo le doglianze prospettate in ricorso, ritengono si sia evidentemente profilata un’ipotesi di ingiusta detenzione.

Si tratta, in particolare, di una violazione dell’art. 5 §§. 1 e 5, posto che l’Italia – con tale condotta incerta – avrebbe causato un indebito prolungamento della pena.

Ricorda la Corte Edu che, invero, lo Stato avrebbe dovuto indicare con sufficiente chiarezza all’interessato tutti i possibili rimedi interni per ottenere la misura premiale. Proprio da questa sua lacuna è scaturita la condanna per la violazione dell’art 5 §.5, posto che non sono state soddisfatte le condizioni per la concessione di un simile beneficio.

A dispetto di qualunque dubbio, infatti, la Corte evidenzia come i Giudici interni non possano disporre di una discrezionalità tale da escludere il riconoscimento di una misura premiale, specie ove sussistano i sintomi di una volontà di reinserimento sociale (Cfr. Cass. Pen. 29779/12).

Tuttavia, al di là della dubbia prassi giurisprudenziale interna e delle incertezze palesate anche dagli Organi amministrativi, il ricorso dinanzi alla CEDU è stato, comunque, già avviato. CC




Inserito in data 03/04/2015
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 24 marzo 2015, n. 305

Dibattito su oneri di sicurezza e clausole del bando

La sentenza in epigrafe è importante, poiché evidenzia la contraddittorietà degli apporti giurisprudenziali in tema di sussistenza dell’obbligo di indicare i costi della sicurezza “aziendale” o “interna” negli appalti di lavori pubblici, pur ove non previsti da apposita clausola in bando.

La questione affrontata dai Giudici siciliani, invero, segue di qualche giorno il deposito della pronuncia dell’Adunanza Plenaria che, con la Decisione n. 3, ha chiarito la necessaria indicazione dei costi interni, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara.

L’approdo cui è giunto il massimo Collegio di Palazzo Spada si spiega in vista della necessità di garantire una maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro e, pertanto, una lettura costituzionalmente orientata del Codice De Lise in combinato con il Testo Unico del 2008 – in tema di salute dei lavoratori.

E’ singolare notare come, in un caso analogo e a distanza brevissima di giorni, la pronuncia dei Giudici siciliani sia, invece, di opposto avviso. Questi, infatti, aderendo al filone prevalentemente accolto tra le Sezioni del Consesso palermitano, sottolineano l’iniquità dell’esclusione disposta a carico di un candidato che abbia omesso l’indicazione dei costi per la sicurezza interni.

La giurisprudenza sicula, infatti, ritiene che la violazione di adempimenti non espressamente previsti (né specificamente sanzionati con l’esclusione) dal bando di gara, né dalla legge, non sia “legittimamente sanzionabile con l’esclusione, … dovendosi accordare prevalenza, rispetto al meccanismo di eterointegrazione, al principio di affidamento (sulla recente, ampia valorizzazione di tale principio, in uno con quello della massima partecipazione, v. Cons. Stato, ad. plen., 30 luglio 2014, n. 16, con riferimento anche alla ratio che sorregge la sopravvenienza normativa di cui all’art. 38 [rectius: art. 39] del D.L. n. 90/2014)”.

I Giudici palermitani, peraltro, confermano tale assunto in ragione della lettura degli articoli 86 e 87 Cod. appalti, nessuno dei quali parrebbe disporre alcun obbligo di indicazione dei costi della sicurezza “aziendale” o “interna” negli appalti di lavori pubblici – come, peraltro, avallato da costante giurisprudenza (Cfr. C.d.S. 2343/2014, 3056/2014, 4964/2013, 638/2014 e 3195/2014).

Come è evidente, la lettura resa dal Collegio palermitano collide con quello della Plenaria. E’ quest’ultima, però, quella cui dare prevalenza – sia in forza della funzione nomofilattica ormai conferitale – ex art. 99 CpA, sia in ragione dei valori di spessore costituzionale che la medesima è riuscita ad involgere. CC



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Inserito in data 01/04/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2015, n. 1673

Ampio sindacato del G.A. con riferimento alle varianti semplificate

Le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale e censurabili unicamente per i profili di abnormità, illogicità e travisamento dei fatti.

Ciò vale, in particolare, in presenza dell’adozione di determinazioni in tema di pianificazione che investono rilevanti parti del territorio comunale, come le varianti ordinarie, in quanto dirette ad avere effetti innovativi sul governo del territorio quanto ai fini, alle destinazioni e dimensionamento degli standard. Riesce allora difficile negare all’ente locale un incisivo potere politico-discrezionale, che si rivela suscettibile di essere censurato solo entro ristretti ambiti di profili di illegittimità.

La verifica della legittimità delle scelte urbanistiche si atteggia però diversamente in relazione all’ipotesi di una variante semplificata avente ad oggetto la localizzazione di un’opera su una porzione specifica e limitata del territorio. Essa, per la natura ed entità della variazione proposta, non implica scelte di politica urbanistica di carattere generale, per cui le determinazioni della PA possono essere assoggettate ad un più ampio e stringente sindacato giurisdizionale, senza che si possa in ciò configurare una non consentita funzione sostitutiva del giudice amministrativo. CDC



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Inserito in data 01/04/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 31 marzo 2015, n. 13799

Possibile responsabilità civile della PA per fatti dolosi dei propri dipendenti

Sussiste la potenziale responsabilità civile della PA per le condotte dei propri dipendenti che, sfruttando l’adempimento di funzioni pubbliche ad essi espressamente attribuite, ed in esclusiva ragione di un tale adempimento che quindi costituisce occasione necessaria e strutturale del contatto, tengano condotte, anche di rilevanza penale e pur volte a perseguire finalità esclusivamente personali, che cagionino danni a terzi, quando le condotte risultino non imprevedibile ed eterogeneo sviluppo di un non corretto esercizio di tali funzioni.

Ciò si impone per l’assenza di ragioni di ordine costituzionale che escludano la responsabilità della PA; anzi, dall’art. 28 Cost sembra evincersi il principio opposto. In tal senso milita, inoltre, l’art. 2049 cc, da ritenersi applicabile anche alla PA. CDC




Inserito in data 31/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 17 marzo 2015, n. 5218

Sul contratto a favore del terzo in ambito assicurativo

Gli Ermellini, con la pronuncia in epigrafe, intervengono in tema di contratto a favore del terzo in ambito assicurativo.

La Terza Sezione della Suprema Corte, invero, ha ritenuto condivisibile il percorso motivazionale seguito dalla pronuncia di secondo grado, resa dal Tribunale, che aveva rigettato la domanda proposta dal danneggiato contro il proprio assicuratore, ritenendo che l'accordo tra assicuratori non fosse invocabile dal danneggiato, il quale era “terzo” rispetto a quel negozio.

Invero, i Giudici di Piazza Cavour, precisano che l’accordo tra compagnie assicurative che preveda che, nel caso di maxitamponamenti, ogni assicuratore indennizzi il proprio assicurato, non può affatto qualificarsi come “contratto a favore di terzo”.

Muovendo dalla considerazione secondo la quale, in tale tipo di contratto, il vantaggio che stipulante e promittente convengono di attribuire al terzo beneficiario, sia un vantaggio diretto e giuridico – diretto perché rappresenta l'oggetto “immediato” della pattuizione e giuridico perché costituisce l'effetto voluto del negozio giuridico – si tende ad escludere che l’ “Accordo tra compagnie” abbia l'effetto di attribuire, al terzo danneggiato, un vantaggio “diretto e giuridico”.

Invero, alla luce di quanto chiarito dai Giudici della Suprema Corte, se, per effetto dell'“accordo”, ogni danneggiato da un sinistro stradale “catastrofale” acquistasse un diritto di credito immediatamente azionabile nei confronti del proprio assicuratore, si giungerebbe sino a trasformare l'assicurazione della responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, con conseguente mutamento del rischio assicurato ed al di fuori di ogni previsione normativa.

È bene infatti sottolineare che nell'assicurazione della r.c.a., il rischio assicurato è la deminutio patrimonii del responsabile, mentre, per effetto dell’Accordo de quo, ciascuna delle compagnie aderenti si è obbligata a versare al proprio assicurato quanto avrebbe dovuto versargli l'assicuratore del terzo responsabile, salvo rivalsa.

L'“Accordo”, dunque, era un patto in virtù del quale ogni società aderente si impegnava a liquidare e pagare il debito delle consorelle salva rivalsa, ma non era affatto un patto che attribuiva al danneggiato un credito e, dunque, un’azione diretta nei confronti del proprio assicuratore. GMC




Inserito in data 31/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1565

Sull’incompatibilità dei componenti la commissione di gara

I Giudici di Palazzo Spada intervengono, con la pronuncia de qua, in merito alle ipotesi di incompatibilità dei componenti la commissione di gara, chiarendo che tali ultime – previste, com’è noto, dall’art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006 – debbano essere interpretate in maniera restrittiva.

Questo, è il principio confermato dal Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, resa con riferimento a una gara per l’affidamento della gestione e lo smaltimento di rifiuti solidi urbani.

Nel caso in questione, l’operatore economico secondo classificato, aveva proposto ricorso contro l’aggiudicazione perché, tra gli altri motivi, asseriva che uno dei componenti della commissione di gara, fosse incompatibile con quella posizione, per aver reso delle precedenti attività connesse a quell’appalto nell’ambito della amministrazione aggiudicatrice.

Invero, con il quinto motivo, è stato dedotto “Error in iudicando: Violazione dell’art. 84 del d. lgs. 163/2006, violazione della lex specialis di gara; violazione dei principi di funzionamento degli organi collegiali, violazione del principio del giusto procedimento, sviamento”, poiché, un ingegnere, componente sia della commissione per la valutazione tecnica, che di quella per la valutazione dell’anomalia delle offerte, si sarebbe trovato in una “macroscopica situazione di incompatibilità”, avendo – come chiarisce il Supremo consesso amministrativo – “egli contributo in maniera decisiva alla predisposizione degli atti di gara, come emergeva dalla delibera di indizione della gara, rivestendo il ruolo di responsabile del procedimento e gestendo il contratto stipulato a valle della gara stessa, erronee, inconferenti e non condivisibili essendo al riguardo le motivazioni addotte dai primi giudici”.

I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano, quanto alla presunta incompatibilità dell’ingegnere a far parte della commissione di gara, che se non è revocabile in dubbio che la disposizione dell’art. 84 del D. lgs. n. 163 del 2006, dettata a garanzia della trasparenza e dell’imparzialità dei procedimenti di gara, impedisca la presenza nelle commissioni di gara di coloro che abbiano svolto un’attività idonea ad interferire con il giudizio di merito sull’appalto, in grado cioè di incidere sul processo formativo della volontà che conduce alla valutazione delle offerte potendo condizionarne l’esito, d’altra parte, deve “sottolinearsi, per un verso, che tale incompatibilità deve riguardare effettivamente il contratto del cui affidamento si tratta e non può riferirsi genericamente ad incarichi amministrativi o tecnici genericamente riferiti ad altri appalti (Cons. St., sez. V, 25 luglio 2011, n. 4450; sez, III, 28 febbraio 2014, n. 942) e, per altro verso, che di tale situazione di incompatibilità deve essere fornita adeguata e ragionevole prova, non essendo sufficiente in tal senso il mero sospetto di una possibile situazione di incompatibilità (dovendo la disposizione in questione, in quanto limitativa delle funzioni proprie dei funzionari dell’amministrazione, essere interpretata in senso restrittivo)”.

Ancora, nel caso in esame, non è stato in alcun modo provato che il predetto ingegnere abbia effettivamente predisposto la lex specialis di gara e/o il capitolato tecnico della gara né, tantomeno, può essere decisiva la circostanza che egli sia il funzionario responsabile dell’ufficio competente e che sia stato nominato responsabile del procedimento, qualifica che, di per sé, non determina alcuna possibilità di alterazione della gara. GMC



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Inserito in data 30/03/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 marzo 2015, n. 50

Bocciati ricorsi Regioni: Legge Delrio supera il vaglio di costituzionalità

Con sentenza n. 50, depositata il 26 marzo scorso, la Corte Costituzionale ha rigettato i ricorsi promossi dalle Regioni Lombardia, Veneto, Campania e Puglia coi quali sono stati impugnati, complessivamente, cinquantotto commi dell’art. 1, della Legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni).

La Corte Costituzionale, nel rigettare le articolate censure sollevate dalle Regioni, ha sottolineato che il novellato art. 114 della Costituzione, nel far riferimento, per la prima volta, all’ente territoriale “Città metropolitana”, ha imposto, alla Repubblica, il dovere della sua “concreta” istituzione.

Tale esigenza costituzionale, ad avviso della Consulta, fonda la competenza legislativa statale relativa alla istituzione del nuovo ente, che non potrebbe avere modalità di disciplina (nonché di struttura) diversificate da Regione a Regione, senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che prevede dei livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, quantomeno con riferimento agli aspetti essenziali.

Le Città metropolitane – istituite dalla Legge n. 56 del 2014 – sono destinate a subentrare integralmente alle omonime Province esistenti, la cui istituzione è di competenza statale.

Con la Legge de qua – secondo quanto puntualizzato dalla Consulta – il Legislatore persegue l’obiettivo di realizzare una importante riforma di sistema della geografia istituzionale della Repubblica, alla luce di una semplificazione dell’ordinamento degli enti territoriali, senza, tuttavia, giungere alla soppressione di quelli previsti dalla Carta costituzionale.

Secondo la Corte, la complessità dell’intervento, giustificherebbe la mancata applicazione delle regole procedurali previste dall’art. 133 della Carta costituzionale, le quali sembrano doversi riferire solo ad interventi “singolari”, nel rispetto del principio del necessario coinvolgimento delle popolazioni locali interessate.

Invero, è bene chiarire che l’art. 6 dell’art. 1, Legge n. 56 del 2014, prevede espressamente “l’iniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe”, ai fini della adesione alla Città metropolitana, ciò comportando la conseguente facoltà di uscirne, da parte dei Comuni della Provincia omonima.

Occorre aggiungere che – secondo quanto specificato dalla Consulta – anche il modello di governo di secondo grado, adottato con la Legge in parola, per le neocostituite Città metropolitane, ha superato il vaglio di costituzionalità, così come le ulteriori censurate disposizioni disciplinatorie della Città metropolitana, quali, ad esempio, quella relativa alla figura del sindaco metropolitano.

Quanto al personale della Città metropolitana, la Corte Costituzionale chiarisce come l’applicazione del trattamento vigente per il personale delle Province, riguardi soltanto la prima fase del procedimento di riallocazione del personale a seguito del riordino delle funzioni attribuite agli enti coinvolti. Oltre a ciò, nella pronuncia, la Corte, successivamente all’aver ricostruito il quadro normativo de quo, ha, altresì, chiarito come nel complesso procedimento sia stata tuttavia assicurata la posizione paritaria del ruolo delle Regioni partecipanti all’accordo in Conferenza Unificata, in tal modo riuscendo ad assicurare l’osservanza del principio – certamente fondamentale – di leale collaborazione.

Dunque, alla luce di quanto chiarito dalla Corte Costituzionale, le differenti censure di legittimità, sono state tutte rigettate, tra le quali anche la illegittimità della previsione dell’esercizio del potere sostitutivo straordinario dello Stato per la eventualità della mancata realizzazione della potestà statutaria delle Province e delle Città metropolitane. Sul punto, secondo quanto chiarito dalla Corte, le norme censurate, mirano ad assicurare il fondamentale principio dell’unità giuridica su tutto il territorio nazionale, con l’attuazione del nuovo assetto ordinamentale rivisto dalla stessa Legge n. 56 del 2014.  Oltre a quanto specificato, la Corte chiarisce che non v’è stata alcuna violazione della competenza regionale con riferimento alle nuove disposizioni disciplinatrici delle Unioni di Comuni, poiché, tali ultime, rientrano nell’area di competenza statuale, così come, allo stesso modo, la disposizione concernente la fusione di Comuni di competenza regionale, non ha ad oggetto l’istituzione di un nuovo ente territoriale – che sarebbe tuttavia di competenza regionale – bensì l’incorporazione in un Comune esistente di un altro Comune.

La Corte Costituzionale, in conclusione, si occupa anche del procedimento di fusione per incorporazione di più Comuni: secondo la Consulta, viene demandata la disciplina del referendum consultivo comunale delle popolazioni interessate proprio alle specifiche legislazioni regionali, rimettendo alle singole Regioni l’adeguamento delle stesse rispettive legislazioni. GMC



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Inserito in data 28/03/2015
TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 25 marzo 2015, n. 304

Efficacia della sentenza di non luogo a procedere nel giudizio amministrativo

In seno alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, esiste un contrasto giurisprudenziale in merito al tipo di sentenza penale dibattimentale irrevocabile che, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., sarebbe “idonea a costituire giudicato anche nel procedimento civile o amministrativo sui fatti accertati e rilevanti ai fini della decisione penale”.

Secondo un primo orientamento, risalente alla sentenza n. 342 del 17 gennaio 1996 (nello stesso senso anche: sent. n. 1319 del 20 febbraio 1996, n. 9798 del 9 novembre 1996, n. 3084 del 9 aprile 1997, n. 10551 del 23 ottobre 1998), “producono effetto di giudicato nei procedimenti civili o amministrativi le sentenze dibattimentali di condanna o di assoluzione, a norma dell'art. 530 c. 1, c.p.p., con esclusione quindi delle sentenze di non luogo a procedere (art. 529 e 531 c.p.p.) stante la lettera della norma, in quanto dette sentenze, pur rientrando nel genus delle sentenze di proscioglimento, costituiscono una species diversa da quelle di assoluzione”.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale, risalente alla sentenza n. 6906 del 22 giugno 1993, afferma che “la sentenza penale, pronunziata a seguito di dibattimento, di proscioglimento per amnistia o per prescrizione, in conseguenza della concessione di attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, può spiegare effetti nel giudizio civile, in ordine alla sussistenza dei fatti materiali in concreto accertati dal giudice penale, quando da questi fatti dipende il riconoscimento del diritto fatto valere in sede civile”.

Il principio è stato ribadito da sentenze successive (con riferimento all'ipotesi di cui all’art. 654 c.p.p.: Cass. 8.5.2003, n. 6985; Cass. 18.4.1998 n. 3937; Cass. 13.12.1999, n. 13939 ed esteso al giudizio civile di danno da Cass. n. 3002 del 28 marzo 1994, n. 810 del 24 gennaio 1995; n. 14328 del 2 novembre 2000, ed altre), le quali affermano che “la sentenza penale, anche se formalmente di non luogo a procedere e non di assoluzione, può fare stato nel giudizio civile o amministrativo tra le stesse parti relativamente ai fatti enunciati (anche solo in motivazione), come rilevanti ai fini della decisione, poiché entrambe appartengono al genus delle sentenze di proscioglimento e poiché vi è la possibilità di coesistenza di una formula terminativa specifica espressa in termini di improcedibilità e di un accertamento di elementi di fatto i quali, in quanto essenziali per la configurazione in concreto del reato, nell'iter argomentativo del giudice penale si pongono quale indefettibile premessa per giungere alla statuizione di non doversi procedere.” (così, Cass. civ. Sez. III, 02-08-2004, n. 14770).

Orbene, con la pronuncia in esame, il Tar Calabria, ritenendo di aderire a quest’ultimo orientamento, dà atto dell’efficacia di giudicato ai sensi dell’art. 654 c.p.p. di una sentenza di non luogo a procedere. EF



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Inserito in data 28/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 marzo 2015 n. 1619

Va motivato il provvedimento di esclusione dalla gara ex art. 38 lett. f) D.Lgs. 163/06

La giurisprudenza (Cons. St., sez. VI, 14 agosto 2013, n. 4174) ritiene che la disposizione contenuta nell’art. 38, lett., f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, prevedendo che sono esclusi dalla partecipazione alla gara gli operatori economici che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso grave negligenza o malafede nell'esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara, contempli in realtà “…un fatto complesso che impone la distinzione tra il giudizio afferente alla fase negoziale del pregresso rapporto e il giudizio relativo all'esercizio di poteri amministrativi. Il primo giudizio è riservato all'amministrazione che, quale parte di un pregresso rapporto, può ritenere che l'altra parte abbia posto in essere, nell'esecuzione delle prestazioni, un comportamento connotato da grave negligenza o malafede. L'amministrazione potrebbe decidere di risolvere il contratto stipulato. In questo caso, qualora insorgano contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al g.o., che esercita un controllo pieno sulle cause interne che hanno condotto alla interruzione del rapporto negoziale. Il secondo giudizio spetta anch'esso all'amministrazione che, considerati nel modo anzidetto i pregressi rapporti negoziali, adotta, nell'esercizio di un potere pubblico, la determinazione con la quale esclude una impresa da una gara ovvero annulla una aggiudicazione già disposta. Si tratta di un potere discrezionale che deve valutare se il fatto pregresso abbia concretamente reso inaffidabile l'operatore economico con possibile pregiudizio dell'interesse pubblico connesso alla realizzazione, nella specie, di determinati servizi. In questo caso, se insorgono contestazioni, la competenza a dirimerle spetta al giudice amministrativo, che esercita un controllo sulle cause esterne che hanno determinato la rottura del rapporto fiduciario al fine di accertare se esiste una figura sintomatica dell'eccesso di potere idonea a comportare l'illegittimità degli atti amministrativi. In tale prospettiva, l'interruzione della relazione fiduciaria relativa al pregresso rapporto costituisce un presupposto per l'esercizio del potere pubblico, con la conseguenza che il sindacato, come rilevato dalla Cassazione, deve limitarsi a valutare l'eventuale inesistenza o dissimulazione del presupposto stesso”.

Pertanto, “se è vero che l'esclusione dalla gara pubblica, disposta ai sensi del ricordato art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, si fonda sulla necessità di garantire l'elemento fiduciario nei rapporti contrattuali della Pubblica Amministrazione fin dal momento genetico e che a tal fine non è necessario un accertamento della responsabilità del contraente per l'inadempimento in relazione ad un precedente rapporto contrattuale, quale sarebbe richiesto per l'esercizio di un potere sanzionatorio, il provvedimento di esclusione, per un verso, non può che provenire dall’amministrazione appaltante, quale necessaria conseguenza della motivata valutazione svolta da quest’ultima in ordine alla grave negligenza o malafede nell'esercizio di prestazioni oggetto di precedenti affidamenti che abbiano fatto venir meno la fiducia nell'impresa, e per altro verso costituisce espressione di un ampio potere discrezionale, soggetto al sindacato del giudice amministrativo nei soli limiti della manifesta illogicità, irrazionalità o errore sui fatti” (Cons. St., sez. V, 21 giugno 2012, n. 3666; 22 febbraio 2011, n. 1107; 21 gennaio 2011, n. 409; sez. III, 19 aprile 2011, n. 2403).

Alla luce di consolidati principi, quindi, il Consesso, con la pronuncia in epigrafe, confuta una sentenza che ha dichiarato l’illegittimità dell’ammissione alla gara di una società per violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d. lgs. n. 163 del 2006, “benché l’amministrazione appaltante non abbia mai adottato nei suoi confronti un motivato provvedimento di esclusione dalla gara fondato sulla grave negligenza o malafede nell’espletamento delle prestazioni del precedente affidamento dello stesso servizio di raccolta rifiuti”.

Deve, altresì, rilevarsi che “le cause di esclusione dalla gara, anche con riferimento al possesso dei requisiti di cui all’art, 38, comma 1, lett. c), in quanto idonee a impedire e/o limitare l’esercizio della libera attività economica ed in quanto potenzialmente idonee anche ad incidere sul principio della libera concorrenza, sono tassative e non possono essere oggetto di interpretazione estensiva o analogica”. EF



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Inserito in data 27/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, SENTENZA 24 marzo 2015, n. 5891

Procedimento monitorio e provvedimenti sommari

I Giudici della Suprema Corte, con la pronuncia de qua, chiariscono che nei giudizi di opposizione ad ordinanza - ingiunzione, introdotti nella vigenza dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, così come modificato dall'art. 26 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, l'appello deve essere proposto nella forma della citazione e non con ricorso, trovando applicazione, infatti, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui agli artt. 339 e seguenti del codice di procedura civile.
Alla luce di tale constatazione, l'appello avverso sentenze in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, pronunciate, ai sensi dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689, in giudizi iniziati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, nel caso in cui erroneamente introdotto con ricorso, anziché con citazione, sarà suscettibile di sanatoria, a condizione, tuttavia, che nel termine previsto dalla legge l'atto sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice, bensì anche notificato alla controparte.

Inoltre, è da rilevare che nello scenario appena tracciato, non trova applicazione il diverso principio, non suscettibile di applicazione al di fuori dell’ambito determinato, affermato con riguardo alla sanatoria delle impugnazioni delle deliberazioni di assemblea di condominio, spiegate mediante ricorso e senza che sia possibile rimettere in termini l'appellante. GMC




Inserito in data 26/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 23 marzo 2015, n. 5804

Sulla sospensione del processo civile per pregiudizialità penale

In materia di rapporto tra giudizio civile e processo penale, il processo civile può essere sospeso ove alla commissione del reato oggetto d’imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile. Pertanto, a rendere dipendente la decisione civile dalla definizione del giudizio penale non basta che nei due processi rilevino gli stessi fatti, ma occorre che l'effetto giuridico dedotto nel processo civile sia collegato normativamente alla commissione del reato, che è oggetto di imputazione nel giudizio penale.

Ciò non accade nel caso della reintegrazione nel possesso, richiesta dal possessore nel processo civile a seguito del subito spoglio, che non è normativamente collegata alla commissione del reato di invasione di edificio, di cui si discute nel processo penale. A ciò consegue l’annullamento dell’ordinanza di sospensione del processo civile. CDC




Inserito in data 26/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 25 marzo 2015, n. 1583

Omessa comunicazione di avvio del procedimento: non c’è vizio se manchi sua utilità

La sentenza ribadisce che l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, previsto dall’art. 7 l. 241/1990 non opera in maniera formalistica, essendo volto non solo ad assolvere ad una funzione difensiva a favore del destinatario dell'atto conclusivo, ma anche a consentire alla PA di avere elementi di valutazione adeguati per la formazione di una volontà completa e meditata. Il vizio dell'omissione, pertanto, non sussiste quando in realtà manchi una qualche possibile utilità della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo: sia perché il provvedimento adottato non poteva avere altro contenuto, trattandosi di atto completamente vincolato; sia perché il soggetto inciso sfavorevolmente dal provvedimento non ha in giudizio fornito alcuna prova che, ove allora fosse stato reso edotto dell'avvio del procedimento, l'esito dello stesso avrebbe potuto essere anche in parte diverso. CDC



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Inserito in data 25/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1567

Valutazione del comportamento tenuto dal concorrente in altri rapporti contrattuali

Con riferimento alla causa di esclusione prevista dalla lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163/2006, il Consiglio di Stato ha già avuto modo di osservare che, pur essendo indiscutibile che “il sistema normativo non presuppone il necessario accertamento in sede giurisdizionale del comportamento di grave negligenza o malafede tenuto dall’aspirante partecipante, deve però reputarsi indeclinabile la valutazione che la stessa amministrazione abbia fatto, in sede per l’appunto amministrativa, del comportamento tenuto in altri e precedenti rapporti contrattuali dal soggetto che chiede di partecipare alla nuova procedura selettiva”. E’, pertanto, necessario che, in sede amministrativa, siano già state definitivamente accertate le condotte integranti la “grave negligenza o malafede” del contraente (cfr. le decisioni nn. 1716 del 14 aprile 2008, 296 del 27 gennaio 2010, e 1154 del 28 febbraio 2012).

In sostanza, affinché la causa di esclusione in discussione possa dirsi integrata, occorre che anche il “grave errore” nell’esercizio dell’attività professionale “sia stato preventivamente accertato in sede amministrativa, non essendo sufficiente, al riguardo, la mera pendenza di un procedimento amministrativo che in un simile accertamento potrebbe sfociare nel futuro”.

Del resto, con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada riprendono l’orientamento (decisione 22 gennaio 2015, n. 257) secondo cui costituisce “jus receptum che le valutazioni operate dalle Commissioni di gara sulle offerte tecniche presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del Giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (Sez. V, 26 marzo 2014, n. 1468; 23 giugno 2014, n. 3132; III, 13 marzo 2012, n. 1409), o vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (III, 19 gennaio 2012, n. 249)”. EF



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Inserito in data 25/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1569

Autotutela e il contratto stipulato dalla P.A. nell’esercizio dell’attività privatistica

Viene in rilievo un’attività meramente privatistica nel caso in cui una pubblica amministrazione disponga di immobili non direttamente connessi all'espletamento dei fini istituzionali e decida di cederli a terzi in locazione allo scopo di trarne il conseguente frutto.

In quest’ipotesi, dunque, non essendo la P.A. tenuta predisporre e rispettare particolari procedure pubblicistico-concorsuali, “la giurisdizione apparterrebbe al giudice ordinario”.

Ne consegue che “ogni eventuale modifica dell'accordo consensualmente raggiunto e cristallizzato nel contratto, non può di certo essere unilateralmente disposta dall'Amministrazione, attraverso un uso improprio dell'autotutela che, come è noto, costituisce un procedimento di secondo grado spendibile in presenza di poteri autoritativi”.

Del resto, come costantemente precisato in via ancor più generale dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che il Consiglio di Stato condivide, “l'amministrazione una volta concluso il contratto, è del tutto carente del potere di sottrarsi unilateralmente al vincolo che dal contratto medesimo deriva: ipotizzare che essa abbia la possibilità di far valere unilateralmente eventuali vizi del contratto semplicemente imputando quei medesimi vizi agli atti prodromici da essa posti in essere in vista dell'assunzione del predetto vincolo negoziale, equivarrebbe a consentire una sorta di revoca del consenso contrattuale (sia pure motivato con l'esercizio del potere di annullamento in via di autotutela) che la pariteticità delle parti negoziali esclude per il contraente pubblico non meno che per il contraente privato: non può dunque ammettersi che, pretendendo di adoperare il proprio potere discrezionale di autotutela per eliminare vizi in realtà afferenti (non già alle determinazioni prodromiche, in sé sole considerate, ed alle modalità procedimentali ad esse solo proprie, bensì) al contratto ormai stipulato, l'amministrazione possa spostare l'asse della giurisdizione riconducendo nell'alveo di quella amministrativa una controversia sulla validità di un contratto di diritto privato, come tale rientrante nell'alveo della giurisdizione ordinaria” ( cfr. da ultimo e per tutte Sez. Un. Ordinanza n. 22554 del 23.10.2014) . EF



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Inserito in data 24/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA - 16 marzo 2015, n. 1351

Il termine ex art 30 CPA si applica a controversie risarcitorie anteriori?  Rinvio all’Adunanza Plenaria

Rilevato che sull’applicabilità del termine decadenziale introdotto dall’art. 30 c.p.a. alle azioni di condanna al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo relative a fatti anteriori sussiste un contrasto giurisprudenziale, la quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso tale questione all’Adunanza plenaria.

Più specificamente, in generale non si dubita affatto che, costituendo detto termine una novità assoluta del Codice di rito […], lo stesso non possa applicarsi sic et simpliciter retroattivamente; tuttavia, con particolare riferimento al regime delle controversie introdotte con atto successivo all’entrata in vigore del Codice medesimo è possibile individuare, nella giurisprudenza sia di primo che di secondo grado, due difformi orientamenti”.

Secondo un primo indirizzo, la novità della previsione di un termine decadenziale in precedenza sconosciuto al sistema processuale, unitamente al già richiamato principio di irretroattività della legge, dovrebbe comportare che ai fatti illeciti anteriori al 16 dicembre 2010 si applichi in toto il regime normativo anteriore, e quindi che la relativa azione risarcitoria soggiaccia unicamente al termine di prescrizione di cui all’art. 2947 cod. civ.”. Nel senso dell’ultrattività della previgente disciplina processuale deporrebbe anche il disposto dell’art. 2 dell’Allegato 3 al c.p.a. (“Per i termini che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le norme previgenti”); invero, tale norma si riferisce alla successione tra diversi termini processuali e, perciò, a fortiori, si applicherebbe alla successione tra un termine sostanziale-prescrizionale e uno processuale-decadenziale.

Altro avviso, minoritario ma rintracciabile anche nella recente giurisprudenza di questa Sezione, assume invece che, in virtù della natura processuale della nuova previsione e in applicazione del principio tempus regit actum, sia ragionevole ritenere che, per i fatti storicamente antecedenti all’entrata in vigore del Codice, l’azione risarcitoria andasse comunque proposta nel termine di 120 giorni dalla data in cui l’innovativa disposizione è entrata in vigore”. A sostegno di quest’ultimo indirizzo, si osserva che la decadenza così introdotta è espressione della stessa ratio che giustifica il termine di decadenza riferito all’impugnabilità degli atti amministrativi (ossia l’esigenza di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici). Inoltre, tale ricostruzione impedisce irragionevoli disparità di trattamento con controversie analoghe, ma riferite a fatti illeciti avvenuti in un momento successivo. Infine, si esclude che l’art. 2 dell’Allegato 3 al c.p.a. sia utile a risolvere tale disputa, dovendosi applicare tale norma solamente alla successione tra termini processuali (e, prima del c.p.a., l’azione risarcitoria per danno da lesione di interessi legittimi non soggiaceva ad alcun termine processuale). TM



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Inserito in data 24/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 marzo 2015, n. 1556

La posizione di “difesa attiva” propria del ricorso incidentale

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato chiarisce, tra l’altro, i casi in cui il controinteressato è onerato a proporre ricorso incidentale, così distinguendoli da quelli in cui il controinteressato può limitarsi a delle mere difese.

Ai sensi dell’art. 42 CPA, l’onere del controinteressato di proporre ricorso incidentale è circoscritto al caso in cui questa parte intenda proporre «domande il cui interesse sorge in dipendenza della domanda proposta in via principale».

Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 7 aprile 2011, n. 4), la posizione di “difesa attiva” propria del ricorso incidentale ricomprende i casi in cui il controinteressato: «a) formula un’eccezione, eventualmente a carattere riconvenzionale; b) propone una vera e propria domanda riconvenzionale, diretta all’annullamento di un atto; c) articola una domanda di accertamento pregiudiziale, volta, comunque, ad ottenere una pronuncia che precluda l’esame del merito del ricorso principale».

Ciò premesso, secondo la Quinta sezione del Consiglio di Stato, il ricorso incidentale è lo strumento processuale, tipico del giudizio impugnatorio, che consente di proporre eccezioni in senso proprio, ossia di introdurre nel giudizio fatti nuovi al fine di precludere l’accertamento di illegittimità dell’atto impugnato in via principale. “Più precisamente, una simile condotta difensiva si traduce nella contrapposta domanda di accertamento dell’illegittimità di atti amministrativi facenti parte della medesima sequenza procedimentale o comunque funzionalmente connessi a quello impugnato, che abbiano attribuito una posizione di vantaggio al ricorrente principale, legittimante quest’ultimo alla proposizione di tale impugnativa. L’onere di proporre ricorso incidentale è dunque speculare a quello di allegare i fatti costitutivi della domanda introdotta con il ricorso principale, concernendo atti la cui lesività è solo potenziale, in considerazione dell’esito finale dell’attività amministrativa, comunque favorevole, ma che si sia poi attualizzata per effetto della proposizione del ricorso principale, facendo conseguentemente sorgere l’interesse a proporre la contro impugnazione prevista dal citato art. 42 del codice del processo”.

Ne consegue che il controinteressato ben può sostenere il carattere non vincolante del parere a lui sfavorevole e, perciò, la legittimità dell’operato dell’amministrazione che lo ha disatteso, senza necessità di impugnare detto parere con ricorso incidentale. TM



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Inserito in data 23/03/2015
TAR CALABRIA - REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 10 marzo 2015, n. 215

Obbligo di provvedere, silenzio P.A. e necessità di un provvedimento espresso

I Giudici calabresi forniscono un ulteriore appiglio in tema di silenzio illegittimamente serbato dalla P.A. e riguardo all’accertamento  sul relativo obbligo di provvedere.

In particolare, il Collegio è chiamato ad intervenire su un’istanza  prospettata da un ricercatore - candidato il quale, dopo aver preso parte ad una valutazione comparativa indetta dall’Università, lamentava la chiusura dei lavori di referaggio - da parte della Commissione giudicatrice - in modo non del tutto rituale, ossia in mancanza di un provvedimento espresso – sub specie di atto rettoriale – come previsto dal relativo Bando.

I Giudici, accogliendo tale doglianza, sottolineano in primo luogo la natura qualificata dell’interesse di parte ricorrente – giacchè partecipante alla selezione censurata.

Sottolineano, poi, l’irritualità della chiusura del procedimento in esame, poiché conclusosi con un verbale, nel quale la Commissione aveva dato atto, sostanzialmente, di non poter scegliere nessuno dei candidati e di non potere dare seguito alla individuazione finale.

E’ evidente, quindi, ad avviso del Collegio calabrese, come il suddetto procedimento selettivo avrebbe dovuto concludersi nelle forme di legge e in quelle di cui al bando; proprio quel bando con cui l’Amministrazione ha, peraltro, autovincolato la propria azione.

In ragione di ciò, valorizzando anche l’interesse morale di parte istante a conoscere esattamente la determinazione, motivata ed espressa, con la quale è esitato il procedimento de quo, il Collegio ne accoglie l’istanza.

Per l’effetto, i Giudici dichiarano l’illegittimità del silenzio serbato dall’Università e dispongono la chiusura de i lavori di tale procedura di valutazione comparativa, mediante adozione di provvedimento espresso. CC



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Inserito in data 22/03/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 marzo 2015, n. 3

Va esclusa l'impresa che non indica gli oneri di sicurezza

Il Supremo Consesso amministrativo risolve, con la pronuncia in esame, la diatriba sorta in seno ai Giudici di Palazzo Spada riguardo alla possibilità che la mancata indicazione degli oneri aziendali in tema di sicurezza interna – ex art. 87 – co. 4’ - DLgs. 163/06 - Cod. De Lise e ss. mm. -  possa o meno costituire causa di esclusione dalla gara anche con riguardo ai contratti pubblici relativi a lavori - come contestato da parte dell’odierna appellante.

Il dibattito, sfociato nell’ordinanza di rimessione n. 88 emessa dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato in data 16 gennaio 2015 (Cfr. www.ildirittoamministrativo.it - Ultimissime del 21.01.15), nasce dalla dubbia lettura della suddetta norma, se in senso estensivo – e quindi applicabile a tutti i tipi di contratti pubblici, o se non ampliabile limitatamente ai contratti pubblici avente ad oggetto lavori – quale quello intercorso tra le parti dell’odierno giudizio. Si finirebbe, in tal guisa, con l’avallare la posizione della ditta appellante.

La Plenaria provvede a ricostruire il confronto sorto, in seno alla giurisprudenza amministrativa, da un diverso modo di intendere i costi aziendali interni, distintamente inquadrati come propri di ciascuna impresa e concernenti i rischi legati alla realizzazione dello specifico appalto (documento di valutazione dei rischi); o, diversamente, come destinati ad attenuare i cc.dd. rischi da interferenza e, pertanto, prescrivibili a monte dalla stazione appaltante.

Ad avviso di una lettura giurisprudenziale più estensiva, evidentemente aderente alla prima chiave di lettura, la ratio della norma oggi censurata - imponendo ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, finirebbe con il rispondere ad evidenti finalità di tutela della sicurezza dei lavoratori e con il salvaguardare principi la cui rilevanza costituzionale conferma il rilievo e la necessaria, maggiore copertura paventata da tali Giudici.

Di contro, recentemente è emerso un filone giurisprudenziale altrettanto significativo (Cfr. C.d.S 2343/14; 4964/13) che, condividendo la seconda chiave di lettura dei costi aziendali, ha ritenuto la necessaria applicabilità dell’art. 87 – 4’ co. DLgs. 163/06 esclusivamente agli appalti di servizi o di forniture <>.

Per i lavori, dunque, ritiene tale ultimo orientamento, la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. Contratti pubblici, pur rimanendo in essere l’obbligo di valutazione dell’offerta, anche rispetto al costo della sicurezza, in virtù dell’art. 86 comma 3 bis del Codice dei contratti pubblici.

Così ricostruito il contrasto, la questione è stata prospettata in modo tale che il Massimo Collegio verifichi se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di gara.

L’Adunanza Plenaria risolve il quesito propendendo per il primo orientamento, di matrice estensiva.

Ritiene, infatti, che nelle procedure di affidamento relative ai contratti pubblici di lavori i concorrenti debbano indicare nell’offerta economica i costi per la sicurezza interni o aziendali.

Il Collegio ravvisa, a fondamento di un simile assunto, sia l’assenza di elementi preclusivi riguardo all’indicazione dei costi interni nelle offerte per l’affidamento di lavori; sia, ed è certamente l’aspetto più pregnante, l’opportunità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme regolatrici della materia date dagli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008  - in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro - e 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice dei Contratti pubblici.

Infatti, laddove si procedesse diversamente, i Giudici finirebbero con l’avallare una normativa contraddittoria che, incidendo negativamente sulla completezza della previsione dei costi per la sicurezza per le attività più rischiose, risulterebbe incoerente con la prioritaria finalità della tutela della sicurezza del lavoro, che ha fondamento costituzionale negli articoli 1, 2 e 4 e, specificamente, negli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione e che, prosegue il Collegio <<trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro>> (Cfr. Sez. V, n. 3056 del 2014).

Pertanto, prosegue il Massimo Consesso, al fine di evitare una soluzione ermeneutica irragionevole ed incompatibile con le coordinate costituzionali, si deve allora accedere ad una interpretazione degli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, del Codice, nel senso che l’obbligo di indicazione specifica dei costi di sicurezza aziendali non possa che essere assolto dal concorrente, unico in grado di valutare gli elementi necessari in base alle caratteristiche della realtà organizzativa e operativa della singola impresa, venendo altrimenti addossato un onere di impossibile assolvimento alla stazione appaltante, stante la sua non conoscenza degli interna corporis dei concorrenti.

In considerazione di ciò, deriva che, ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice, l’omessa specificazione nelle offerte per lavori dei costi di sicurezza interni configura un’ipotesi di <<mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice>> idoneo a determinare <<incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta>>” per difetto di un suo elemento essenziale, e comporta perciò, anche se non prevista nella lex specialis, causa di esclusione del candidato che non l’abbia specificata.

Sulla base di quanto detto, l’Adunanza Plenaria desume il seguente principio di diritto: “Nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”. CC

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Inserito in data 20/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA TER, SENTENZA 17 marzo 2015, n. 5230

Medici specializzandi: omessa attuazione disciplina comunitaria

La Suprema Corte, con la pronuncia de qua, interviene per affermare che laddove manchi, o ritardi, l'attuazione della disciplina comunitaria, sorge una responsabilità dello Stato Italiano, di cui può rispondere il Ministero ove convenuto anche se erroneamente, quale articolazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, “quale organo di direzione della politica generale del Governo”, nel rispetto dell’art. 95 della Carta costituzionale.

Specificamente, considerando il caso in questione, gli Ermellini hanno confermato la condanna dello Stato al risarcimento dei danni derivanti dalla mancata o ritardata attuazione della disciplina comunitaria in tema di organizzazione dei corsi di specializzazione medica.

Dunque, è stato respinto il ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri ed i Ministeri dell'Istruzione Università e Ricerca e della Salute avverso la sentenza della Corte d'Appello di Catania che, in parziale accoglimento dell'appello dei medici, ha condannato "il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica ed il Ministero della salute, in persona dei rispettivi ministri pro tempore, quali articolazione del Governo della Repubblica e, per essi, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, al pagamento, in favore dei medici della somma, per ciascuno, di Euro 30.000,00 a titolo di risarcimento dei danni per la frequenza di corsi di specializzazione presso l'Università degli Studi di Catania, nella situazione di inattuazione da parte dello Stato Italiano delle direttive CEE in merito all'organizzazione de corsi di specializzazione medica”.

È da sottolineare, in particolare, che con un unico motivo di ricorso, i ricorrenti hanno sostenuto la nullità della sentenza impugnata per aver condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri, sebbene mai evocata in giudizio, e per aver prima escluso la legittimazione dei Ministeri convenuti e poi considerati legittimati quali articolazioni della Presidenza del Consiglio dei ministri, così rendendo una decisione illogica e contraddittoria, oltre che priva di riferimento normativo.

Nonostante ciò, la Corte di legittimità ha tuttavia confermato il decisum della Corte d'appello la quale ha scrutinato il motivo di appello dei medici resistenti, con cui essi contestavano che il Tribunale di Catania, dopo avere rigettato la domanda relativa alla rivendicazione dell'efficacia autoapplicativa delle direttive comunitarie sul tema, avesse rigettato altresì la domanda risarcitoria, sulla base della considerazione secondo la quale il soggetto legittimato passivo non erano i Ministeri e l'Università degli Studi di Catania, anch’essa evocata in giudizio, bensì la Presidenza del Consiglio “quale organo di direzione della politica generale del Governo ex art. 95 Cost.”. La Corte di Catania, dunque, dopo avere condiviso l'esclusione della legittimazione dell'Università e ritenuto, altresì, che il Tribunale avesse correttamente escluso quella dei Ministeri, ha, tuttavia, ritenuto che i Ministeri fossero ormai legittimati passivi all'azione, quali articolazioni del Governo della Repubblica, non avendo, l'Avvocatura dello Stato, chiesto l'applicazione dell'art. 4 della l. n. 260 del 1958.

In conclusione, i Giudici della Suprema Corte hanno, quindi, confermato l’orientamento de quo, condividendone il dispositivo di condanna; invero, l’evocazione della Presidenza del Consiglio risulta possibile in quanto i Ministeri, dei quali è stata esclusa la legittimazione come articolazioni dell'istituzione Governo, sono rimasti in giudizio come articolazioni della Presidenza del Consiglio e non avendo, l'Avvocatura Distrettuale dello Stato, ritenuto di chiedere l'applicazione dell'art. 4 della legge sopra citata. GMC




Inserito in data 20/03/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 9 marzo 2015, n. 3912

Stato civile: poteri del Sindaco e del Prefetto e limiti dell’Autorità giudiziaria

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici del Tar Lazio ricostruiscono la disciplina in materia di trascrizione degli atti di matrimonio, giungendo a dichiarare l’illegittimità dei provvedimenti con i quali il Prefetto di Roma ha disposto la cancellazione delle trascrizioni, nel registro dello Stato civile di Roma, degli atti dei matrimoni contratti tra persone dello stesso sesso e celebrati all’estero.

È bene chiarire che le disposizioni del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, avente ad oggetto il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, non prevedono competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, bensì esclusivamente la possibilità di disporre l'annotazione di “rettificazioni” operate dall’Autorità giudiziaria.
Una trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio, dunque, può essere espunta e/o rettificata soltanto in forza di un provvedimento dell'Autorità giudiziaria, e non adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’Amministrazione centrale, e ciò neanche nel caso in cui venga esercitato il potere di sovraordinazione che il Ministro dell'Interno vanta sul Sindaco in materia di stato civile.
Invero, ed è bene precisarlo, il potere sostitutivo può essere esercitato solo “nel caso di inerzia del Sindaco” e, altresì, il Prefetto, sostituendosi al Sindaco, solamente  in caso di inerzia, non potrebbe esercitare poteri maggiori rispetto a quelli vantati da questo ultimo, il quale non può annullare le trascrizioni.

Si consideri, infatti, che atti di tal tipo non possono essere assunti neanche dal Prefetto.

Tale facoltà è, dunque, inibita, dovendo il Sindaco ricorrere al giudice in tutti i casi in cui dovessero presentarsi fattispecie analoghe, fatta salva, tuttavia, l'ipotesi della rettifica di meri errori materiali.

Solo questo, infatti, rappresenta oggetto di un potere di intervento successivo pacificamente concesso ed attribuito all'Ufficiale dello stato civile.
Alla luce di quanto evidenziato, spetterà, dunque, solo al giudice disporre la cancellazione di un atto indebitamente registrato nel Registro degli atti di matrimonio. GMC



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Inserito in data 19/03/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SECONDA SEZIONE, SENTENZA 11 marzo 2015 - causa C-628/13

Sull’abuso di mercato e la nozione di informazione privilegiata

I Giudici europei, intervenendo in tema di intermediari finanziari, manipolazioni ed abusi del mercato, delimitano la nozione di informazione privilegiata.

Più nel dettaglio, il Collegio chiarisce che “per prevenire qualsiasi abuso, le società che emettono strumenti finanziari devono comunicare al pubblico ogni informazione che sia in grado di incidere sui corsi azionari”.

In guisa di ciò e considerando, altresì, che una divulgazione tempestiva e corretta delle informazioni al pubblico rafforza l’integrità del mercato e che, al contrario, la divulgazione selettiva da parte degli emittenti può solo determinare il venir meno della fiducia degli investitori nell’integrità dei mercati finanziari, la Corte di Lussemburgo tende ad evidenziare l’importanza della comunicabilità e della ostensibilità di informazioni afferenti a tali mercati, al fine di renderle il più possibile conoscibili.

Un simile orientamento, peraltro, non può non risentire – proseguono i Giudici – dell’accresciuta complessità dei mezzi finanziari e di come in seno agli stessi occorra estendere, necessariamente, la portata ed il novero delle informazioni suscettibili di essere divulgate, in vista – come alcuni Autori hanno già acutamente osservato - di una maggiore efficienza e di una maggiore democraticità del sistema.

Pertanto, sulla base di tali ponderazioni, la Corte europea enuncia il seguente principio di diritto:  L’articolo 1, punto 1, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato), e l’articolo 1, paragrafo 1, della direttiva 2003/124/CE della Commissione, del 22 dicembre 2003, recante modalità di esecuzione della direttiva 2003/6 per quanto riguarda la definizione e la comunicazione al pubblico delle informazioni privilegiate e la definizione di manipolazione del mercato, devono essere interpretati nel senso che non esigono, affinché determinate informazioni possano essere considerate come informazioni aventi carattere preciso ai sensi delle citate disposizioni, che sia possibile dedurre, con un grado di probabilità sufficiente, che l’influenza potenziale di tali informazioni sui prezzi degli strumenti finanziari in questione si eserciterà in un senso determinato, una volta che esse saranno rese pubbliche. CC



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Inserito in data 18/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 marzo 2015, n. 5160

Sul dies a quo per l’esercizio dell’azione di regresso nei confronti del datore di lavoro

Con la pronuncia indicata in epigrafe, la Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto: “in tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l'azione di regresso dell'INAIL nei confronti del datore di lavoro può essere esercitata nel termine triennale di prescrizione, che, ove non sia stato iniziato alcun procedimento penale, decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato, ovvero, in caso di rendita, dalla data di costituzione della stessa”.

In particolare, i Giudici della nomofilachia mostrano di “condividere la soluzione da ultimo affermata da questa Corte con le sentenze n.ri 5134 e 5879 del 2011, che, nell'ipotesi in cui non sia stato iniziato alcun procedimento penale, hanno stabilito che il termine triennale decorre dal momento di liquidazione dell'indennizzo al danneggiato”.

Al riguardo, infatti, va rilevato che l'INAIL, con l'azione di regresso prevista dal D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 ed 11, agendo contro il datore di lavoro dell'assicurato infortunato, “fa valere in giudizio un diritto proprio, nascente direttamente dal rapporto assicurativo (v., fra le altre, Cass. 2-4-1992 n. 4015, Cass. 18-10-1994 n. 8467, Cass. S.O. 16-4-1997 n. 3288, Cass. 21-1-2004 n. 970, Cass. 18-8-2004 n. 16141, Cass. 7-3-2008 n. 6212, Cass. 28-3-2008 n. 8136), spiegando un'azione nei confronti del datore di lavoro, che ha violato la normativa sulla sicurezza sul lavoro, in qualche misura assimilabile ad un'azione di risarcimento danni promossa dall'infortunato, tanto che il diritto viene esercitato entro i limiti del complessivo danno civilistico ed è funzionalizzato a sanzionare il datore di lavoro, consentendo contestualmente all'Istituto assicuratore di recuperare quanto corrisposto al danneggiato” (v. fra le altre Cass. 20-8-1996 n. 7669, Cass. 16-6-2000 n. 8196, Cass. 9-8-2006 n. 17960).

Pertanto, “il diritto dell'INAIL al recupero di quanto erogato al danneggiato deve agganciarsi, per la certezza dei rapporti giuridici, alla liquidazione dell'indennizzo assicurativo che costituisce il fatto certo e costitutivo del diritto a svolgere, nel termine previsto, l'azione di regresso”.

Il Collegio, quindi, ritiene che non possa darsi seguito all'indirizzo (v. Cass. n. 10950/2000) “secondo cui, in caso di mancato inizio del procedimento penale, il termine triennale decorra dal giorno in cui l'Istituto ha richiesto il risarcimento all'assicurato o ha promosso contro di questo l'azione” EF




Inserito in data 18/03/2015
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 17 marzo 2015, n. 1601

La deroga evocata nell'art. 35, co. 20, L. 47/85 riguarda solo le norme regolamentari

Il punto di diritto sul quale si fonda la presente controversia riguarda l'esatta interpretazione dell'art. 35, comma 20 (tale essendo divenuto, per successive interpolazioni, l'originario comma 14) della legge n. 47/1985, secondo cui: "A seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità di cui alla lettera b) del terzo comma e di prevenzione degli incendi e degli infortuni".

A tal uopo, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che “il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, ai sensi del citato art. 35 comma 20 l. n. 47 del 1985, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale” (Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140; 13 aprile 1999 n. 414).

Tale orientamento risulta, peraltro, del tutto coerente con quello espresso dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza 18 luglio 1996 n. 256, ha affermato che la deroga introdotta dall'art. 35, comma 20, “non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità... a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.p.r. 425/94), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica.... Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.

Orbene, alla luce della giurisprudenza riportata e della lettura costituzionalmente orientata della norma, resa dalla Corte Costituzionale, appare evidente che “non è possibile ritenere che l'art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 contenga una deroga generale ed indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, e ciò proprio perché - come chiarito sempre dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata (e già prima con sentenza n. 427/1995) - la detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e dall'altro il diritto all'abitazione e al lavoro”.

Un’interpretazione che validi una deroga "generale" alla normativa a tutela della salute, con particolare riguardo al luogo di abitazione, “si porrebbe, dunque, in contrasto non solo con l'art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, proprie della legge n. 47/1995”.

Pertanto, deve ritenersi che, “mentre possono essere derogate norme regolamentari, non possono esserlo norme di legge, in quanto rispetto ad esse la deroga non è evocata nell'art. 35, comma 20”.

Del resto, “l'art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso evitare che singole, specifiche disposizioni regolamentari - espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate - possano costituire, ex post, mediante il diniego del certificato di abitabilità, ostacolo al condono, e quindi alla regolarizzazione, delle costruzioni abusive, frustrando l'esigenza di "rientro nella legalità", che, per il tramite della detta legge, si è inteso attuare”. EF



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Inserito in data 17/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 10 marzo 2015, n. 10124

L’appropriazione di somme di denaro in attività di bancoposta non integra peculato

L’attività di bancoposta svolta da Poste spa è di tipo privatistico, non diversamente da quella svolta dalle banche. Ne consegue che l’appropriazione di somme di risparmiatori commessa dal dipendente di Poste spa integra il reato di appropriazione indebita e non di peculato.

Com’è noto, infatti, la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio deriva dall'effettivo esercizio di funzioni nell'ambito di un pubblico ufficio o servizio e l’attività bancaria delle Poste è attività di diritto privato, al pari di quella svolta delle banche. Non vi è, del resto, alcuna disposizione che preveda o lasci intendere che l'ente Poste abbia condizioni di esercizio diverse da quelle ordinarie delle banche nello svolgimento di attività di tipo bancario. Al contrario, è accuratamente disciplinato dal dpr 144/2001 il profilo del pieno distacco contabile tra le attività bancarie e le altre (non solo postali), così limitandosi qualsiasi commistione nella gestione delle provviste dell'una e dell'altra attività.

Né rileva che Poste spa operi per conto della Cassa Depositi e Prestiti, essendo quest'ultima equiparabile ad un comune titolare di azioni e non operando personalmente nei rapporti con la clientela, che ha rapporti, regolati esclusivamente dal diritto civile, con Poste spa. CDC




Inserito in data 17/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 marzo 2015, n. 1375

Indicazione degli oneri di sicurezza aziendale ed eterointegrazione del bando

Gli artt. 86, comma 3-bis e 87, comma 4 del d.lgs. 163/2006, in combinato disposto con l’art. 26, comma 6 del d.lgs. 81/2008 non impongono alle imprese l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale.

Poiché le disposizioni in esame regolano la verifica dell'anomalia dell'offerta, è in questa sede che l'obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa debba indicare i costi in questione già nella propria offerta.

Pertanto, non può parlarsi di eterointegrazione del bando di gara ad opera delle sopra citate disposizioni. Com’è stato affermato in giurisprudenza (Consiglio di Stato, sentenza n. 4364/2013), l’eterointegrazione può aver luogo con cautela, poiché l'inserzione automatica di clausole in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti. In base a questa considerazione, è assai dubbia l’operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta.

Inoltre, come affermato dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5069/2013, l'eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non nei casi in cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi.

Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto un uso prudente è confermato anche dall’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nell’interpretazione delle clausole del bando di gara deve attribuirsi valore preminente all'interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza ex art. 1 l. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al principio della prevedibilità. In particolare, non sono consentite interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado di ledere l'affidamento dei terzi e il principio della massima partecipazione alla gara. CDC



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Inserito in data 16/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 marzo 2015, n. 1349

Sulla motivazione del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno

Al fine di ottenere il rilascio (o il rinnovo) del permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, lo straniero deve allegare l’esistenza di effettivi vincoli familiari. In mancanza di tale allegazione, la condanna, ancorché non definitiva, per il reato in materia di stupefacenti di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 390 del 1990 integra automatica causa di legge ostativa all’ingresso nel territorio nazionale, al rilascio di permesso di soggiorno ed al suo rinnovo. Ne consegue che, ove lo straniero non abbia legami familiari nel territorio dello Stato, il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno è motivato in modo adeguato semplicemente facendo riferimento alla predetta sentenza di condanna senza che sia necessaria una più approfondita motivazione in ordine ad elementi quali la condotta successiva, le circostanze del reato, la durata del soggiorno, l’inserimento sociale e la stabilità del rapporto lavorativo. TM



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Inserito in data 16/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 marzo 2015, n. 1358

Caratteri dell’errore di fatto revocatorio: percettivo (anziché valutativo) e decisivo

La Terza Sezione del Consiglio di Stato ci ricorda che “l’errore di fatto idoneo a sorreggere il gravame per revocazione è quello che consiste in una errata percezione del contenuto degli atti del giudizio, derivante da svista o da abbaglio dei sensi che abbia indotto il giudicante a supporre l’esistenza di un fatto che non esiste oppure a considerare inesistente un fatto che risulta, invece, positivamente accertato e sempreché tale percezione sia determinante sulla pronuncia, nel senso che l’errore si riveli decisivo nella dimostrazione di un rapporto di causalità tra l’erronea supposizione e la pronuncia stessa”.

Sempre sul punto vale ricordare quanto significativamente statuito dall’Adunanza Plenaria di questo Consesso con la decisione n. 2 del 17 maggio 2010, secondo cui “l’errore di fatto che consente di rimettere in discussione il decisum del giudice con il rimedio della revocazione è quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende invece ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una omessa percezione e sempreché il fatto oggetto di asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato, dovendosi escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado del giudizio””. TM



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Inserito in data 13/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA 11 marzo 2015, n. 1236

Rimessione alla CgUE: DURC e conformità tra normativa italiana e comunitaria

Con ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in merito alla conformità, in materia di appalti, della normativa italiana in tema di DURC (Documento unico regolarità contributiva) a quella comunitaria.

Specificamente, ai fini della decisione del ricorso indicato in epigrafe, si ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex art. 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria: “se l’art. 45 della direttiva 18/2004, letto anche alla luce del principio di ragionevolezza, nonché gli artt. 49, 56 del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in particolare sussistente al momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta dall’operatore economico - il quale ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità - e comunque non più sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio”.

Nel caso de quo, con bando pubblicato nell’anno 2012, è stata indetta una gara per l’affidamento dei servizi di pulizia e altri servizi tesi al mantenimento del decoro e della funzionalità per gli immobili, per gli istituti scolastici di ogni ordine e grado e per i centri di formazione della Pubblica Amministrazione. In seguito, un consorzio tra soc. coop. di produzione e lavoro, presentava un’offerta con riferimento, nello specifico, a due lotti determinati; è da rilevare, che il bando imponesse, espressamente, a ciascun concorrente, e ciò a pena di esclusione, di dichiarare il possesso dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alla gara, stabiliti dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 (Codice Appalti), sotto la rubrica “Requisiti di ordine generale”. Il consorzio indicava, in sede di offerta, le cooperative esecutrici per il caso di aggiudicazione del servizio e, tra queste, ne indicava una, la quale, rendendo le dichiarazioni ex art. 38, asseriva, altresì di “non avere commesso violazioni gravi ovvero ostative al rilascio del DURC, ai sensi dell’art. 2 comma 2 della l. 266/2002, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali”.

Successivamente, il consorzio in questione, si classificava al primo posto della graduatoria per un lotto ed al secondo posto per l’altro lotto; tuttavia, a seguito dei controlli di rito, veniva escluso, essendo risultato che alla data del 10/9/2012, una cooperativa “non risultava in regola con il versamento dei premi assicurativi avendo omesso di versare la terza rata in regime di autoliquidazione alla scadenza del 16/8/2012 […]”. Avverso il provvedimento de quo, il consorzio proponeva impugnazione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, facendo presente che “sebbene fosse stato omesso il versamento della terza rata del premio assicurativo per l’anno 2012, con scadenza 16 agosto 2012, il pagamento era stato poi effettuato in data 5 dicembre 2012; che inoltre non era stata attivata da parte di INAIL o di Consip la procedura per la regolarizzazione del mancato versamento; che l’irregolarità contributiva non era stata definitivamente accertata; che inoltre, in base alle retribuzioni in concreto erogate nel 2012 e sino al 10 settembre, risultavano versate somme a titolo di premio in regime di autoliquidazione, addirittura superiori rispetto a quanto dovuto; che dunque non era stata rilasciata alcuna dichiarazione non veritiera e che mancavano i presupposti per l’esclusione dalla gara e per l’escussione delle garanzie”. Il TAR respingeva, tuttavia, il ricorso, osservando che nessun obbligo incombeva su Consip, in ordine all’attivazione della procedura per la regolarizzazione del mancato versamento, nonché, evidenziava che “il requisito della regolarità contributiva avrebbe dovuto essere posseduto anche da singole consorziate esecutrici al momento di presentazione dell’offerta”.

Nonostante tali osservazioni, il consorzio, nel proporre appello, puntualizzava, censurando, dunque, la diversa argomentazione utilizzata dal giudice di prime cure, che “il DURC negativo si basa sul mero riscontro del mancato pagamento nei termini della rata di un premio auto liquidato, ritardo che non potrebbe mai ritenersi violazione grave e definitivamente accertata”. Come anticipato, il Collegio, così come richiesto dalle parti, provvede, con separata ordinanza, a sollevare questione di legittimità comunitaria dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Specificando, nei motivi, quanto prevede il diritto dell’Unione e, specificamente, la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, in merito ai criteri di selezione “qualitativa” relativi alla situazione personale del candidato o dell’offerente, nonché quanto stabilisce il diritto italiano e, nello specifico, come premesso, il d.lgs. n.163 del 2006, istitutivo del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, il Consiglio di Stato chiarisce le infrazioni ostative al rilascio del DURC, così come definite dal Decreto del ministero del lavoro e della previdenza sociale che disciplina il DURC, del 24 ottobre 2007.

Alla luce dell’art. 8, paragrafo 3, di tale ultimo decreto citato, si legge che “ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile”, nonché, si precisa, che “non si considera grave lo scostamento inferiore o parti al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o contribuzione”. Alla luce di quanto emerge dall’ordinamento italiano, e di quanto accuratamente evidenziato dai Giudici di Palazzo Spada con l’ordinanza de qua, è, ad oggi, ammesso che una impresa, semplicemente “in ritardo” nel pagamento di un modesto debito contributivo al tempo della scadenza del termine per la presentazione della domanda, sia automaticamente ed inderogabilmente esclusa dalla procedura medesima, sebbene la irregolarità sia stata subito dopo sanata e risulti, dunque, insussistente al momento della aggiudicazione. La stazione appaltante, quindi, “deve limitarsi a fotografare la situazione in un dato momento storico, in particolare coincidente con il momento di scadenza del termine per l’offerta”. Oltre a ciò, e come chiarito, dunque, dai Giudici di Palazzo Spada, “la fotografia scattata dall’istituto previdenziale al tempo della partecipazione, vincola la stazione appaltante ad escludere l’offerente se da esse emerge una irregolarità, persino ove quest’ultima non sia più attuale, e  non sia oggettivamente idonea ad inficiare o compromettere l’affidabilità e la correttezza dell’impresa”.

Il Collegio, valutando un possibile contrasto con l’art. 45 della direttiva 18/2004, specifica che ove ricorrano cause di obbligatoria esclusione è “consentita la verifica d’ufficio, e per le imprese straniere non è ammessa alcuna dichiarazione giurata; ove ricorrano cause di facoltativa esclusione, non è consentita la verifica d’ufficio, dovendo le stazioni appaltanti limitarsi ad “accertare” le certificazioni prodotte dai partecipanti”. Nel caso de quo, non è per nulla in discussione il termine, bensì le modalità di prova della regolarità contributiva, nonché la certezza e la ragionevolezza del sistema di verifica, poiché da un lato il DURC positivo è ritenuto “dirimente ai fini della valida partecipazione, ma dall’altro l’ordinamento non si accontenta dei contenuti del DURC in possesso dell’impresa ed ancora in corso di validità, e pretende il riscontro storico in ordine ad eventuali inadempienze alla data della partecipazione, senza possibilità di regolarizzazione”. Quindi, l’ordinamento italiano, avendo dato rilievo all’inadempimento “storico”, e non già attuale, potrebbe avere il senso di valutare l’affidabilità e la serietà dell’operatore economico alla luce del comportamento anche passato. Se è quest’ultima la ratio delle norme italiane, allora non v’è dubbio che si tratti di disposizioni che, incrementando le possibilità di esclusione, hanno come effetto quello di ridurre la possibilità di “utile partecipazione”.

Il Collegio, oltre a ciò, fa leva sul recente orientamento della Corte, alla luce del quale l’interesse fiscale e contributivo può giustificare restrizione del principio di concorrenza, ai sensi degli artt. 49 TFUE e 56 TFUE, sempre che venga comunque rispettato il principio di proporzionalità. Se è pur vero che, nel caso de quo, l’ordinamento italiano, punti ad assicurare il principio di concorrenza mediante l’applicazione del principio di “pari trattamento endoconcorsuale”, il primo non dovrebbe comunque limitarsi alla meccanica parità di trattamento procedimentale, bensì dovrebbe permettere un’ampia partecipazione delle imprese interessate, consentendo alle stesse di dimostrare la serietà e l’affidabilità che ha caratterizzato il proprio comportamento fiscale, fin dall’atto della presentazione della propria candidatura.

In conclusione, alla luce di quanto chiarito dal Collegio con la pronuncia in epigrafe, l’attuale normativa italiana impone all’amministrazione di rinunciare alla migliore offerta e, correlativamente, impedisce al migliore offerente di accedere alla aggiudicazione, anche ove oggettivamente non possa mettersi in dubbio, avuto “riguardo alla storia dell’imprenditore ed ai suoi comportamenti passati”, mentre, consente pacificamente l’aggiudicazione ad un imprenditore che ha sempre manifestato irregolarità ed inadempienze, purché, tuttavia, al momento dell’offerta si sia “messo in regola” coi requisiti stabiliti dal DM 24 ottobre 2007. GMC



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Inserito in data 13/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE - 5 marzo 2015, n. 4447

Sul principio della compensatio lucri cum damno: rimessione alle Sezioni Unite

La Terza Sezione Civile della Suprema Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione, su cui v’è un profondo contrasto, riguardante la portata del principio della c.d. compensatio lucri cum damno nell’ambito delle conseguenze risarcitorie da fatto illecito e, specificamente, in relazione alla limitazione del diritto al risarcimento del danno della vittima, o dei suoi aventi causa, in funzione del quale diritto l’assicuratore sociale o ente previdenziale può esercitare l’azione di surrogazione ad esso spettante nei confronti del responsabile civile.

Nello specifico, il ricorso de quo, pone la questione dei “limiti” dell’azione di surrogazione esercitabile da un ente previdenziale di uno Stato membro, differente dallo Stato nel cui territorio si è verificato il danno, per le prestazioni previdenziali erogate alla vittima o ai suoi aventi causa.

Come chiarito dagli Ermellini, trattasi di un ente tedesco di assicurazione pensionistica che ha versato agli aventi causa del proprio assicurato, un cittadino tedesco vittima di un incidente sciistico morale avvenuto in Italia, una somma a titolo di pensione di reversibilità in favore del coniuge e di rendita orfani in favore dei figli minori. Nonostante la quaestio iuris fu risolta, dal giudice del merito, in modo negativo per l’ente ricorrente, escludendo in capo a quest’ultimo il diritto di surroga, ha assunto, nella vicenda processuale, carattere assorbente rispetto alla stessa verifica della responsabilità per il sinistro mortale avvenuto nel nostro Paese. Come chiarito dai Giudici di Piazza Cavour “dovranno intendersi soltanto come virtuali i riferimenti ai concetti di fatto illecito, danno e responsabilità imposti dal preliminare scrutinio della questione in diritto”.

A tal proposito, si rileva che l’art. 93 del Regolamento CEE n. 1408/1971 del Consiglio del 14 giugno del 1971, disposizione sostituita, in seguito, da quella dettata dall’art. 85 del Regolamento (CE) n. 883/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio, dispone che “se, in virtù della legislazione di uno Stato membro, una persona beneficia di prestazioni per un danno risultante da fatti verificatisi nel territorio di un altro Stato membro, gli eventuali diritti dell’istituzione debitrice nei confronti del terzo tenuto a risarcire il danno sono disciplinati nel modo seguente: a) quando l’istituzione debitrice è surrogata, in virtù della legislazione che essa applica, nei diritti che il beneficiario ha nei confronti del terzo, tale surrogazione è riconosciuta da ogni Stato membro”. Secondo quanto stabilito dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione, la norma europea applicabile ratione temporis dovrebbe essere quella in vigore al momento del “pagamento” della prestazione da parte dell’ente previdenziale, ossia istituzione debitrice, momento che, tuttavia, nel caso de quo, non risulta precisato dalla sentenza impugnata o tuttavia indicato dal ricorrente.

L’art. 93 richiamato, deve, dunque, essere interpretato nel senso che la surrogazione di un ente di previdenza sociale, appartenente al diritto di uno Stato membro, nei diritti che la vittima o i suoi aventi diritto hanno nei confronti dell’autore di un danno verificatosi sul territorio di un altro Stato membro e che ha comportato il versamento di prestazioni di previdenza sociale da parte di detto ente, nonché la portata dei diritti nei quali detto ente si è surrogato, sono determinate in conformità al diritto dello Stato membro cui appartiene detto ente, a condizione, tuttavia, che l’esercizio della surrogazione prevista da “tale diritto non acceda i diritti che la vittima o i suoi eventi diritto hanno nei confronti dell’autore del danno in forza del diritto dello Stato membro sul cui territorio il danno si è verificato”.

Sarà, dunque, compito del giudice adito determinare e applicare le “pertinenti disposizioni della normativa dello Stato membro cui appartiene l’ente debitore, anche se tali disposizioni escludono o limitano la surrogazione di siffatto ente nei diritti che ha il beneficiario delle prestazioni nei confronti dell’autore del danno o l’esercizio di tali diritti da parte dell’ente che si è in essi surrogato”.

In conclusione, in virtù di quanto evidenziato dagli Ermellini, il diritto al risarcimento del danno spettante alla vittima di un sinistro o ai suoi aventi causa, è individuato dalle norme del diritto italiano, invece, i presupposti ed i limiti dell’azione di surrogazione esercitabile dall’ente previdenziale, sono dettati dalle norme tedesche.

Sarà, dunque, necessario stabilire se, in base all’ordinamento italiano, all’ambito del danno patrimoniale risarcibile a seguito di fatto illecito appartenga o meno la prestazione previdenziale indennitaria erogata a seguito dell’evento dannoso ed in funzione di sostentamento della vittima del sinistro o dei suoi aventi causa. GMC




Inserito in data 12/03/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 9 marzo 2015, n. 377

Sul dies a quo per instaurare un procedimento disciplinare

L’art. 9, comma 6, del D.P.R. n. 737/81 prevede che “Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l’appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di 120 giorni dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all’Amministrazione”.

A tal proposito, gli interpreti hanno chiarito che “il termine di 120 giorni per intraprendere il procedimento disciplinare decorre solo dal momento della conoscenza piena e certa del testo integrale, dunque, comprensivo della motivazione, evidenziandosi che solo la piena conoscenza della sentenza penale, e di tutti gli elementi di giudizio ivi esposti, consente all’Amministrazione sia di supportare adeguatamente l’esercizio della discrezionalità, connessa al potere sanzionatorio, sia di effettuare una adeguata e ponderata valutazione di tutti i profili rilevanti ai fini disciplinari” ( cfr. TAR Trento, I, 22-7-2014, n. 292; Cons. Stato, I, 7-3-2014, n. 3278).

Invero, “la concreta individuazione del dies a quo non può non tenere conto del valore della decisione giurisdizionale ed, in particolare, della sua portata non definitiva ovvero irrevocabile”.

Di conseguenza, deve ritenersi che “la decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza operi per quella che ha “definito” il giudizio penale, con valore di giudicato, verificandosi tale evenienza direttamente al momento della pubblicazione ove trattasi di pronunzia di ultimo grado, mentre, nel caso in cui si tratti di sentenza di primo o di secondo grado, la suddetta condizione si verifica solo quando non siano stati esperiti i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento e, dunque, la stessa sia divenuta irrevocabile.

In conclusione, deve rammentarsi che, per costante giurisprudenza, l’avvio del procedimento disciplinare si configura con la contestazione degli addebiti ( cfr. Cons. Stato, IV, 5-7-2012, n. 3948; sez.VI, 19-12-2005, n. 7172), “essendo questo il primo atto che viene portato a conoscenza del dipendente, che in tal modo viene messo in condizione di approntare le relative difese, mentre la nomina del funzionario istruttore costituisce mero atto interno che attiene ad un momento anteriore all’apertura del procedimento disciplinare”. EF



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Inserito in data 12/03/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 9 marzo 2015, n. 3907

Nozze gay: solo il Tribunale civile può espungere le relative trascrizioni

Le trascrizioni di matrimoni omosessuali celebrati all’estero possono essere espunte solo dall’Autorità giudiziaria ordinaria e non dal Prefetto in base ad una circolare del Ministero dell'Interno.

L’art. 453 c.c., infatti, prescrive che "Nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall'autorità giudiziaria".

In particolare, il DPR n. 396/2000 (recante il Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) prevede che "Gli atti dello stato civile sono redatti secondo le formule e le modalità stabilite con decreto del Ministro dell'interno" (art. 12, comma 1); "L'ufficiale dello stato civile non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto" (art. 11, comma 3); “Le annotazioni disposte per legge od ordinate dall'autorità giudiziaria si eseguono per l'atto al quale si riferiscono, registrato negli archivi di cui all'articolo 10, direttamente e senza altra formalità dall'ufficiale dello stato civile di ufficio o su istanza di parte” (art. 102, comma 1); "Gli atti dello stato civile sono chiusi con la firma dell'ufficiale dello stato civile competente. Successivamente alla chiusura gli atti non possono subire variazioni" (art. 12, comma 6).

Al più, l'art. 98, del D.P.R. n. 396/2000 attribuisce all’ufficiale dello stato civile il potere di correggere, d'ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, "gli errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli atti mediante annotazione dandone contestualmente avviso al prefetto, al procuratore della Repubblica del luogo dove è stato registrato l'atto nonché agli interessati.".

Ed invero, l'art. 95, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000, stabilisce che "Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l'ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l'atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l'adempimento"; mentre l'art. 109, del D.P.R. n. 396/2000, specifica che "I tribunali della Repubblica sono competenti a disporre le rettificazioni e le correzioni di cui ai precedenti articoli anche per gli atti dello stato civile ricevuti da autorità straniere, trascritti in Italia, ed a provvedere per la cancellazione di quelli indebitamente trascritti".

In definitiva, dunque, “tali disposizioni non prevedono competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, ma solo la possibilità di disporre l'annotazione di rettificazioni operate dall’Autorità giudiziaria (ex art. 69, comma 1, lett. i, del DPR n. 396/2000), come si evince dal D.M. 5 aprile 2002”, che prescrive le forme tassative di annotazione (cfr. artt. 11, comma 3, e 102, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000)

Quindi, “una trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio può essere espunta e/o rettificata solo in forza di un provvedimento dell'Autorità giudiziaria e non anche adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’Amministrazione centrale, neanche esercitando il potere di sovraordinazione che, effettivamente, il Ministro dell'Interno vanta sul Sindaco in tema di stato civile.

Alla luce di quanto suddetto, dunque, “solo all'Autorità giudiziaria disporre la cancellazione di un atto indebitamente registrato nel Registro degli atti di matrimonio, posto che: le registrazioni dello stato civile non possono subire variazioni se non nei limitati casi descritti e normativamente previsti in modo espresso; l'ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i registri e di correggere gli errori materiali; ogni rettificazione o cancellazione è attribuita alla competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria; fra le annotazioni possibili nel registro dei matrimoni non è previsto alcun atto di annullamento o di autotutela ma, solo l'annotazione della rettificazione giudiziaria.

Peraltro, tali conclusioni non mutano neanche applicando l’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, mancando una norma di rango primario che, espressamente, “conferisca all’Amministrazione centrale il potere di adottare, in casi del genere, un atto di annullamento d’ufficio. EF



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Inserito in data 11/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 marzo 2015, n. 4628

Validità del preliminare di preliminare caratterizzato da differenziazione dei contenuti

Con la sentenza in esame le Sezioni Unite della Cassazione hanno risolto la questione concernente la validità del c.d. contratto preliminare di preliminare.

Secondo le Sezioni Unite, deve ritenersi valido e produttivo di effetti l’accordo, denominato come preliminare, con cui i contraenti si obbligano alla successiva stipula di un altro preliminare, solo qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti ad una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, dà luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi come contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale.

Ciò si giustifica, anzitutto, con il fatto che, secondo la teoria della causa concreta, anche il preliminare di preliminare può avere un’utilità o razionalità ed idoneità a svolgere una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti. Ciò avviene in una serie di casi nei quali si può avere una differenziazione tra i due contratti di cui si discute (preliminare di preliminare e preliminare vero e proprio). La sentenza cita, come esempi, il caso in cui nell’accordo raggiunto è esclusa l’applicabilità dell’art. 2932 cc, nonché quello in cui la pattuizione della doppia fase risponde all’esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, ed infine quello in cui le parti potrebbero aver raggiunto un’intesa completa, subordinandola però ad una condizione.

Se è vero che tali ipotesi possono presentare significative differenze, è comune a tutte che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l’assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio, per cui l’obbligazione assunta ha ad oggetto il contrattare, e non il contrarre. Ne segue che il rifiuto di contrattare opposto nella fase successiva, se immotivato e contrario a buona fede, dà luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un’obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile agli “altri atti o fatti” idonei a costituire fonti di obbligazioni ex art. 1173 cc. CDC

 




Inserito in data 11/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 marzo 2015, n. 1228

Sulle condizioni di risarcibilità del danno da perdita di chance

Il danno da perdita di chance costituisce un danno attuale, che non si identifica con la perdita di un risultato utile, ma con quella della possibilità di conseguirlo. Esso dunque postula la sussistenza di una situazione presupposta, concreta ed idonea a consentire la realizzazione del vantaggio sperato, da valutarsi sulla base di un giudizio prognostico e statistico, fondato sugli elementi di fatto allegati dal danneggiato.

Al fine di ottenere il risarcimento per perdita di chance è necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto e provi, conseguentemente, la sussistenza, in concreto, dei presupposti e delle condizioni del raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve configurarsi come conseguenza immediata e diretta. CDC



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Inserito in data 09/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 marzo 2015, n. 1192

Non abusa del processo l’attore che contesta la giurisdizione se vi è un dubbio oggettivo

Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada esaminano la posizione del ricorrente che contesta la giurisdizione del giudice amministrativo da lui stesso adita.

Al riguardo, secondo il prevalente orientamento di questo Consiglio di Stato un simile contegno integra una violazione del divieto di abuso del processo, sanzionato con l’inammissibilità dell’eccezione di difetto di giurisdizione”.

Le Sezioni unite della Cassazione affermano invece principi parzialmente diversi. Infatti, pur avendo ripetutamente statuito che lo strumento tipico per risolvere la questione di giurisdizione prima che sia definito anche solo in parte il merito della controversia è il regolamento preventivo di giurisdizione, rispetto alla cui proposizione è pertanto legittimata anche la parte attrice o ricorrente […], nondimeno, in una recente pronuncia le stesse Sezioni unite hanno escluso che il divieto di abuso del processo sia violato dalla parte che abbia contestato la giurisdizione amministrativa da lui stesso adita, mediante motivo d’appello ai sensi dell’art. 9 del codice del processo di cui al d.lgs. n. 104/2010, in una controversia in cui il dubbio obiettivamente si poneva ed in relazione alla quale scaturiva quindi una «necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione» (sentenza 19 giugno 2014, n. 13940)”.

Il Consiglio di Stato ritiene di dover accogliere quest’ultimo orientamento. Pertanto, reputando che il ragionevole dubbio sulla giurisdizione nel caso in esame vi sia, esclude che l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione integri un abuso del processo e la dichiara ammissibile. Anzi, esaminata la questione di giurisdizione, i Giudici di Palazzo Spada indicano il giudice ordinario quale giudice munito di giurisdizione nella presente controversia (relativa a una procedura selettiva per l’affidamento in subconcessione). TM



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Inserito in data 09/03/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 4 marzo 2015, n. 2

È incostituzionale la non revocabilità delle sentenze del GA in contrasto con la CEDU?

Con l’ordinanza in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. in relazione agli artt. 117 comma primo, 111 e 24 Cost “nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46 par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo”.

Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, tale questione di costituzionalità non è manifestamente infondata. Infatti, per un verso, non contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo, gli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. appaiono in contrasto con l'art 46 CEDU (che, invece, sancisce tale obbligo per gli Stati aderenti), nonché con gli artt. 24 e 111 Cost. (che garantiscono l’ azionabilità delle posizioni soggettive e l’equo processo).

Per altro verso, le norme interne incompatibili con la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo non sono autonomamente disapplicare. “Alla CEDU è riconosciuta un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, volta ad integrare il parametro di cui all'art. 117 co.1 Cost. che vincola i legislatori nazionali, statale e regionali, a conformarsi agli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Tale posizione non muta anche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona che all'art. 6 prevede una adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU”.

Infine, nel caso di specie, il contrasto tra le norme processali interne e quelle convenzionali non può essere risolto tramite un'”interpretazione adeguatrice”. “Basti dire che i casi di revocazione delle sentenze amministrative ammessi dal nostro ordinamento sono tassativamente elencati dal combinato disposto degli artt. 106 c.p.a. e 395 e 396 c.p.c. Un’interpretazione volta ad ammettere un ulteriore caso di revocazione quale quello di cui qui si discute non è configurabile alla stregua di alcun canone ermeneutico e comporterebbe un intervento oltremodo creativo del giudice tale da usurpare il ruolo spettante al Legislatore o al Giudice delle leggi”. TM



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Inserito in data 06/03/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 3 marzo 2015, n. 3670

Sul conferimento degli incarichi dirigenziali

Il Tar Lazio, con la pronuncia in epigrafe, stabilisce che al giudice amministrativo compete di conoscere le controversie aventi ad oggetto gli avvisi pubblici finalizzati al reperimento di “professionalità esterne”, ma non anche i provvedimenti di attribuzione di incarichi dirigenziali, i quali hanno natura privatistica.

Spetta al giudice amministrativo, dunque, decidere le controversie aventi ad oggetto la scelta dell’Amministrazione di rivolgersi all’esterno per la copertura degli incarichi dirigenziali, nonostante, nel caso di specie, fossero rinvenibili, all’interno dell’Amministrazione medesima, professionalità idonee allo svolgimento di tali compiti.

Ciò in quanto, in casi del genere, è contestata la scelta discrezionale di non conferire a personale interno all’Amministrazione regionale gli incarichi in questione, affidandoli a personale esterno con “atti di macro organizzazione”, dinnanzi ai quali i ricorrenti vantano una posizione di interesse legittimo alla correttezza della procedura di adozione dello stesso. Nel caso di specie, quindi, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo, come premesso, in quanto i ricorrenti hanno impugnato, in via principale, gli atti di c.d. macro – organizzazione coi quali la Regione Lazio ha deciso di rivolgersi all’esterno per il conferimento di incarichi dirigenziali.

Si precisa, altresì, che ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali, l’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001, stabilisce che gli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione possono essere conferiti: - fornendone esplicita motivazione; - rendendo conoscibili al personale interno il numero, la tipologia e i criteri per l’affidamento degli incarichi; - dopo aver accertato che la professionalità richiesta non sia rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione.

L’impossibilità di rinvenire professionalità nei ruoli dell’Amministrazione, deve intendersi nel senso che la ricerca all’esterno deve seguire l’accertamento del possesso dei requisiti richiesti in capo a soggetti già appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione e, dunque, anche tra i funzionari direttivi di categoria D, in caso di vacanza in organico di personale dirigenziale. GMC



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Inserito in data 06/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 3 marzo 2015, n. 4230

Sulla risoluzione del contratto di mutuo

Con la pronuncia de qua, i Giudici di legittimità chiariscono che la risoluzione dei contratti di mutuo, nella specie conseguente alla notifica dell’atto di precetto, obbliga il mutuatario all’integrale pagamento delle rate già scadute, nonché alla immediata restituzione della quota di capitale ancora dovuta, ma non al pagamento degli interessi conglobati nelle semestralità a scadere, dovendosi invece calcolare, sul credito così determinato, gli interessi di mora ad un tasso corrispondente a quello contrattualmente pattuito, se superiore al tasso legale, secondo quanto stabilito dall’art. 1224, primo comma, del codice civile.

In passato, gli Ermellini, hanno affermato che con l’entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.) (secondo il quale qualsiasi ente bancario può esercitare operazioni di credito fondiario la cui provvista non è più fornita attraverso il sistema delle cartelle fondiarie), la struttura di tale forma di finanziamento, ha perso quelle peculiarità nelle quali risiedevano le ragioni della sottrazione al divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 cod. civ., rinvenibili nel carattere pubblicistico dell’attività svolta dai soggetti finanziatori (essenzialmente istituti di diritto pubblico) e nella stretta connessione tra operazioni di impiego e operazioni di provvista”.

Dunque, a ciò ne consegue, secondo quanto puntualizzato dai Giudici di Piazza Cavour, “che l’avvenuta trasformazione del credito fondiario in un contratto di finanziamento a medio e lungo termine garantito da ipoteca di primo grado su immobili, comporta l’applicazione delle limitazioni di cui al citato art. 1283 cod. civ. e che il mancato pagamento di una rata di mutuo non determina più l’obbligo (prima normativamente previsto) di corrispondere gli interessi di mora sull’intera rata, inclusa la parte rappresentata dagli interessi corrispettivi, dovendosi altresì escludere la vigenza di un uso normativo contrario”. GMC




Inserito in data 05/03/2015
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA, 11 febbraio 2015, n. 49

Concessioni di un bene pubblico demaniale e profili di giurisdizione

Il Collegio amministrativo trentino esamina, con la pronuncia in epigrafe, la delicata questione del riparto di giurisdizione in tema di concessioni amministrative di beni demaniali.

Nella specie, i Giudici intervengono su una vicenda avente ad oggetto la risoluzione di un contratto di concessione riguardante una cava, gravata da uso civico, e le conseguenze patrimoniali e risarcitorie inevitabilmente scaturite dall’avvenuta sospensione di tale vincolo.

A fronte dell’eccepito difetto di giurisdizione amministrativa, sollevato dal concessionario ricorrente, il Collegio punta l’attenzione sulle situazioni giuridiche soggettive discese da un simile rapporto e, segnatamente, compie un’attenta ricostruzione riguardo al Giudice di fatto competente.

Pertanto, prendendo spunto dal noto insegnamento della Suprema Corte, il Tribunale trentino ricorda come la giurisdizione si determini non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione che si chiede al Giudice, ma anche, e soprattutto, in ragione della causa petendi, ossia della oggettiva natura della situazione soggettiva giuridicamente tutelata dedotta in giudizio, e individuata con riguardo ai fatti allegati e al rapporto giuridico di cui essi sono rappresentazione (Cfr., ord. 20.11.2013, n. 26032; 27.2.2012, n. 2926).

Quindi, partendo da tale affermazione basilare ed applicandola al caso specifico, il Giudice trentino distingue l’ipotesi in cui le controversie prospettate dal ricorrente abbiano ad oggetto asseriti inadempimenti di obblighi nascenti dalla concessione in esame.

In questo caso, allorché si ponga in discussione il rapporto sia nel suo momento genetico, che in quello funzionale (cfr., in termini, Cass.Civ., SS.UU., 9.1.2013, n. 306; 24.5.2007, n. 12065) e, quindi, la doglianza riguardi l’attività svolta dall’Amministrazione concedente anche in via mediata, la cognizione non può che spettare all’Autorità giurisdizionale amministrativa.

Invece, limitatamente alle altre istanze, aventi ad oggetto l’accertamento della congruità del canone concessorio o la relativa quantificazione, è necessario rimettere la questione dinanzi al Giudice Ordinario.

Il Collegio trentino, pertanto, interviene ex art. 11 del c.p.a., disponendo che, limitatamente a tali ultime pretese, aventi un’indole negoziale e quindi paritetica, il processo debba essere riassunto davanti al Giudice Ordinario, restando salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda avanzata nella presente sede, ove la stessa sia riproposta entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza. CC



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Inserito in data 05/03/2015
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 4 marzo 2015, Causa C - 534/13

Precauzione, responsabilità limitata e normativa compatibile  con il diritto UE

Per i Giudici di Lussemburgo è compatibile con i principi del "chi inquina paga", di precauzione e dell'azione preventiva e della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente – ex articolo 191, paragrafo 2 - primo comma - TFUE, la normativa italiana che, nella specie, esonera da responsabilità i proprietari di siti inquinati che non siano però fautori della contaminazione.

In particolare, ad avviso della Corte UE, è legittima la previsione secondo cui ad essi non può essere chiesta l'esecuzione delle «misure di prevenzione e di riparazione», essendo tenuti soltanto al rimborso delle spese di bonifica nel limite massimo del valore di mercato del sito (determinato dopo l'esecuzione degli interventi).

Infatti, ferma restando l’indole spiccatamente preventiva, propria del diritto europeo in tema di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, è altrettanto indubbio che non si possa adoperare lo schermo della responsabilità civile per ogni tipo di danno.

Ricorda il Giudice europeo che, in ipotesi simili – quali quelle in cui il proprietario del suolo non sia al contempo l’autore della contaminazione, è carente il nesso di causalità tra la condotta e il danno e, pertanto, risulta insufficiente la ricostruzione dell’illecito civile e delle relative conseguenze in sede risarcitoria.

La responsabilità di tale soggetto, in sostanza, sarebbe fondata unicamente sulla sua qualità di proprietario, non potendo essergli attribuita la contaminazione né in via soggettiva, né in via oggettiva.

 Di conseguenza, la Corte di Lussemburgo ha escluso la possibilità che le Amministrazioni possano imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, potendo chiedergli solo il rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dalle Autorità competenti. CC




Inserito in data 04/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 marzo 2015 n. 1017

Sulla mancanza di un atto formale di conferimento della funzione di Direttore Generale

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato riprende il principio secondo cui “il rapporto di pubblico impiego non è assimilabile a quello di lavoro privato; l’attribuzione delle mansioni e del corrispondente trattamento devono avere il loro presupposto indefettibile nel provvedimento di nomina o di inquadramento, non potendo detti elementi essere oggetto di libere o arbitrarie determinazioni dei funzionari amministrativi” (Cons. Stato, V, 30.10.1997, n. 1219).

In particolare, “nel pubblico impiego, è la qualifica e non le mansioni il parametro al quale la retribuzione è inderogabilmente riferita, essendo la pubblica amministrazione sottoposta a rigide regole di tipo organizzativo, funzionali alla regola costituzionale del buon andamento e collegate ad esigenze primarie di bilancio pubblico”.

Ne discende che, almeno fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 387 del 1998, deve applicarsi “il principio della irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento di mansioni superiori nell’ambito del pubblico impiego” (v., in tal senso, A.P. n. 3/2006).

Pertanto, per le fattispecie anteriori al 1998 e in assenza di un atto formale di conferimento, il dipendente con qualifica dirigenziale non ha titolo per esigere che il suo stato giuridico sia equiparato alla posizione funzionale superiore che temporaneamente riveste, quella di Direttore Generale.

Del resto, la L. 20.3.1975, n. 70 distingue la dirigenza (artt. 18 e 19) rispetto alla funzione del Direttore generale (art. 20) e così anche i relativi procedimenti di nomina.

In conclusione, quindi, l’attribuzione temporanea delle funzioni di Direttore Generale, “siccome espressione di un dovere istituzionale gravante in capo al sostituto, è compresa tra quelle astrattamente esigibili rispetto alla qualifica di appartenenza del titolare della posizione funzionale inferiore e, per risalente giurisprudenza, non dà titolo alla variazione del trattamento economico” ( C.d.S. Ad. Pl., 4 settembre 1997, n.20 e 16 maggio 1991, n.2). EMF



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Inserito in data 04/03/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 2 marzo 2015, n. 4169

Sul contratto per persona da nominare

Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte precisa che “nel contratto per persona da nominare la riserva della nomina del terzo determina una parziale indeterminatezza soggettiva del contratto, ovvero una fattispecie di contratto a soggetto alternativo.

In particolare, a “seguito dell'esercizio del potere di nomina, il terzo subentra poi nel contratto e, prendendo il posto della parte originaria, acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l'altro contraente, con effetto retroattivo, con la conseguenza che deve essere considerato fin dall'origine unica parte contraente contrapposta al promittente ed a questo legata dal rapporto costituito dallo stipulante”.

Invero, il tratto peculiare del contratto per persona da nominare è dato proprio “dal subentrare nel contratto di un terzo - per effetto della nomina e della sua contestuale accettazione - che, prendendo il posto del contraente originario (lo stipulante), acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l'altro contraente (promittente) determinando, inoltre, la contemporanea fuoriuscita dal contratto dello stipulante, con effetto retroattivo, per cui il terzo si considera fin dall'origine unica parte contraente contrapposta al promittente e a questa legata dal rapporto costituito dall'originario stipulante (Cass. 1995 n. 3115). Ma il tutto avviene a condizione che vi sia stata una tempestiva e valida electio amici, restando altrimenti applicabile il chiaro disposto dell'art. 1405 cod. civ. ”.

Pertanto, “la mancata, tardiva (o invalida) indicazione del terzo non può che determinare, ai sensi dell'art. 1405 cod. civ., l'effetto di consolidare il contratto in capo all'originario contraente, salvo che non siano intervenute altre diverse vicende contrattuali”. EMF




Inserito in data 03/03/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 2 marzo 2015, n. 3461

Sul diritto di accesso agli atti endoprocedimentali dell’informativa antimafia

Il Tribunale di merito ha ritenuto illegittima la decisione con la quale l’Amministrazione ha accolto solo parzialmente la richiesta di accesso agli atti di un’informativa antimafia, negandola per tutti quegli atti endoprocedimentali che, contenendo informazioni fornite dagli Organi di Polizia, vengono ricondotti nella categoria dei documenti inaccessibili ai sensi dell'art. 3 del D.M 415/94, regolamento attuativo dell'art. 24 comma 2 della legge n. 241/1990.

Secondo il Tribunale di primo grado, infatti, la legge n. 241/1990 <<garantisce il diritto di accesso - a coloro che sono legittimati in tal senso ed hanno interesse ad ottenere gli atti richiesti - anche in caso di limiti all'ostensione, posto che l'art. 24 della citata legge del 1990, oltre ad individuare i limiti all'accesso, prevede che lo stesso "... deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici ...">>.

Inoltre, anche a voler ritenere sussistenti delle esigenze di segretezza, peraltro non specificate nel provvedimento amministrativo, si ritiene che gli interessi contrapposti, quello della segretezza e quello del diritto di difesa, avrebbero potuto trovare un temperamento, ad esempio, attraverso tecniche di mascheramento, senza arrivare sino al punto di negare l’accesso a documenti necessari per la difesa di un interesse attuale, effettivo e concreto. VA



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Inserito in data 02/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 marzo 2015, n. 992

Affidamento diretto di un servizio a società mista: gara a doppio oggetto

L’affidamento diretto di un servizio a una società mista non è incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato sia espletata nel rispetto dei principi del diritto europeo (in particolare, dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza) e che i criteri di scelta del socio privato si riferiscano non solo al capitale da quest'ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire (c.d. gara a doppio oggetto). CDC



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Inserito in data 02/03/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 marzo 2015, n. 994

Sulle condizioni per l’esercizio dell’azione di annullamento

L’azione di annullamento proposta innanzi al giudice amministrativo è subordinata alla sussistenza di tre condizioni: a) la titolarità di una posizione giuridica, in astratto configurabile come interesse legittimo, inteso come posizione qualificata – di tipo oppositivo o pretensivo – che distingue il soggetto dal “quisque de populo” in rapporto all’esercizio dell’azione amministrativa; b) l’interesse ad agire, ovvero la concreta possibilità di perseguire un bene della vita, anche di natura morale o residuale, attraverso il processo, in corrispondenza ad una lesione diretta ed attuale dell’interesse protetto, a norma dell’art. 100 cpc; c) la legittimazione attiva o passiva di chi agisce o resiste in giudizio, in quanto titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo.

Dunque, la mera titolarità di un interesse protetto (di tipo sia oppositivo che pretensivo) non giustifica l’azione giudiziale, quando tale interesse non sia concretamente leso dall’atto, di cui si chiede la rimozione dal mondo giuridico, a fini di reale perseguimento di un bene della vita.

Per questo, è esclusa l’impugnabilità di atti regolamentari o di provvedimenti amministrativi a carattere generale, quando la lesione possa scaturire non direttamente dagli stessi, ma solo da atti esecutivi non già preordinati e vincolati. CDC



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Inserito in data 28/02/2015
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I TER, 23 febbraio 2015, n. 3136

Insussistenza giurisdizione G.A. per atti di assunzione di personale

Alla luce del dettato dell’art. 7, comma 1, c.p.a., la giurisdizione generale di legittimità del g.a. sussiste di fronte ad un atto che sia adottato: a) da una Pubblica Amministrazione; b) nell’esercizio di un potere amministrativo.

Non v’è dubbio che, nel caso de quo, la S.p.A. in questione non rientri nell’elenco delle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.

Essa, invero, è una società per azioni di diritto privato, non rilevando in contrario la circostanza di essere partecipata con capitali pubblici e di essere soggetta a varie forme di controllo ed indirizzi pubblici. Proprio per tale sua natura, la Società suddetta non esercita potere amministrativo.

Rispetto alla Società, infatti, non può assumere alcuna rilevanza la previsione di cui all’art.7, comma 2, c.p.a., che estende la portata della giurisdizione amministrativa nei confronti dei soggetti che siano comunque “equiparati” alle Pubbliche Amministrazioni, stante la sua natura di S.p.A, così come più volte ribadito dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite.

Oltre a ciò, non varrebbe a far attrarre la giurisdizione dinnanzi al g.a. la circostanza che, nel caso de quo, si ricadrebbe nella materia del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni.

A tal proposito, l’art. 63, comma 4, del d.lgs. 165 del 2001, attribuisce al g.a. la giurisdizione per “le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.

Anche in questo caso, verrebbe a mancare il “requisito soggettivo” della qualificazione come Pubblica Amministrazione del soggetto i cui atti vengono censurati, senza contare che ivi  si contesta la mancata assunzione del ricorrente come dirigente e, dunque, il mancato conferimento di incarico dirigenziale. Inoltre, proprio rispetto a tali atti, la giurisdizione del g.a. recede comunque di fronte a quella del giudice ordinario.

Dunque, il ricorso, nel caso de quo, è inammissibile per difetto di giurisdizione. GMC



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Inserito in data 28/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2015, n. 3340

Sul “plagio parziale”: diritto di utilizzazione di un’opera intellettuale

I Giudici della Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, intervengono al fine di chiarire la portata del c.d. “plagio parziale”.

Nel caso de quo, i titolari del diritto di utilizzazione di un’opera intellettuale, trattasi, nella fattispecie in esame, del testo di una canzone, hanno adito il giudice di merito per ottenere l’interdizione dell’uso di parte della canzone da parte dell’interessato e sentir pronunciare verdetto di plagio.

La Suprema Corte, nonostante il ricorso sia stato respinto, ha comunque chiarito la questione in esame, soffermandosi, come anticipato, sul c.d. plagio parziale, il quale si verifica in tutti i casi in cui, ad esser colpita da plagio, sia soltanto una parte dell’opera, e non già necessariamente l’opera nel suo complesso.

Specificamente, secondo gli Ermellini, al fine di integrare il plagio, non è necessario che esso si rivolga all’opera nella sua “totalità”, bensì potrebbe anche limitarsi al c.d. “cuore dell’opera”, purché essa assuma, nella nuova opera artistica, un ruolo non diverso o comunque simile a quello dell’opera che si assume plagiata.

La Suprema Corte enuncia, dunque, il principio di diritto, sottolineando che “in tema di plagio di un'opera musicale, un frammento poetico-letterario di una canzone che venga ripreso in un'altra non costituisce di per sé plagio, dovendosi accertare, da parte del giudice di merito, se il frammento innestato nel nuovo testo poetico-letterario abbia o meno conservato una identità di significato poetico-letterario ovvero abbia evidenziato, in modo chiaro e netto, uno scarto semantico rispetto a quello che ha avuto nell'opera anteriore”. GMC




Inserito in data 26/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 20 febbraio 2015, n.3384

Fauna selvatica e responsabilità della Regione – ex art. 2043 cod. civ.

Il Collegio di piazza Cavour chiarisce e delimita la competenza  e la conseguente ripartizione del regime di responsabilità, tra Regioni e Province, in tema di fauna selvatica.

Quest’ultima, infatti, pur rientrando nel patrimonio indisponibile dello Stato, è attribuita – limitatamente ai poteri di gestione, tutela e controllo, alle Regioni che, a propria volta, possono demandare relative competenze – a livello amministrativo - alle Province.

Una simile suddivisione, operata dalla L. 11 febbraio 1992, n. 157, è stata “fuorviata” nel caso in esame in cui la Corte d’Appello, riformando la pronuncia del Giudice di primo grado, aveva sancito il difetto di legittimazione passiva della Regione appellante ed aveva condannato l’Amministrazione provinciale  a risarcire il danno causato ad un veicolo, a seguito  del passaggio – lungo la carreggiata – di un animale selvatico.

I Giudici di legittimità, con la pronuncia in esame, ripercorrono quanto già statuito in altri precedenti relativi a casi simili e, ribaltando la decisione espressa in secondo grado, statuiscono il seguente principio di diritto: 'Sebbene la fauna selvatica rientri nel patrimonio indisponibile dello Stato, la legge 11 febbraio 1992, n. 157 attribuisce alle Regioni a statuto ordinario il potere di emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica (art. 1, comma 3) ed affida alle medesime i poteri di gestione, tutela e controllo, riservando invece alle Province le relative funzioni amministrative ad esse delegate ai sensi della legge 8 giugno 1990, n. 142 (art. 9, comma 1).

Ne consegue che la Regione, anche in caso di delega di funzioni alle Province, è responsabile, ai sensi dell'art. 2043 c. c., dei danni provocati da animali selvatici a persone o a cose, il cui risarcimento non sia previsto da specifiche norme, a meno che la delega non attribuisca alle Province un'autonomia decisionale ed operativa sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni'. CC




Inserito in data 26/02/2015
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 3 febbraio 2015, n. 208

Sinistro stradale e idoneità tecnica della patente di guida: non vi è automatismo

I Giudici fiorentini non condividono il provvedimento con cui gli Uffici della Motorizzazione civile, a seguito di un grave sinistro occorso all’odierna ricorrente, ne disponevano automaticamente la revisione della patente di guida mediante nuovo esame di idoneità tecnica.

Infatti, ad avviso del Collegio, peraltro conformatosi a numerosi precedenti in merito,  non si ritiene che il mero fatto inerente l'accadimento del sinistro possa essere considerato un presupposto sufficiente ex se a giustificare un ragionevole dubbio in ordine alla permanenza dei necessari requisiti di idoneità, ove tale conclusione non sia sorretta da un'idonea motivazione, fondata su elementi soggettivi e definitivamente accertati che caratterizzino la singola fattispecie. (Cfr. T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II 29 ottobre 2013 n. 988; T.A.R. Puglia Lecce, sez. I, 9 settembre 2013 n. 1848; T.A.R. Marche 11 luglio 2013 n. 566).

Pertanto, in forza di tale, negato automatismo, i Giudici accolgono la domanda annullatoria del provvedimento censurato dalla ricorrente, ritenendolo carente in punto di motivazione ed espressione di eccesso di potere da parte dell’Amministrazione.

Il Collegio si ritrova, tuttavia, a dover respingere la domanda risarcitoria avanzata dall’istante, data la mancata prova in giudizio del danno sofferto. CC



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Inserito in data 25/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2015, n. 883

Sul potere legislativo in materia di competenze professionali dei geometri

Il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso presentato dall’Ordine degli Ingegneri, ha annullato la delibera comunale con la quale veniva ricondotta nell’ambito della competenza professionale dei geometri la progettazione e la direzione dei lavori di modeste costruzione da realizzarsi con l’impiego di cemento armato.

La Suprema Corte, infatti, dichiarata la legittimazione ad agire da parte degli ordini professionali per la tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività rappresentata, dopo aver ricordato che ai sensi dell’art. 117 comma 3 della Costituzione la materia delle professioni rientra nella legislazione concorrente tra Stato e Regioni, ha richiamato il principio di diritto, più volte enunciato dalla Corte Costituzionale, secondo il quale  <<la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni (…) è riservata allo Stato, potendo la potestà legislativa regionale disciplinare quei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale>> (Corte Cost. 178/14), mentre <essun potere normativo in materia, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai comuni>>(ex multis C.d.S. 7058/05 e 3137/14).

Con particolare riferimento alla disciplina dell’attività dei geometri e degli ingegneri, oggetto della controversia sottoposta all’esame del Consiglio di Stato, viene, inoltre, richiamata quella giurisprudenza che, in applicazione della disciplina di settore (più precisamente l’art. 16 lett. m) del r.d. 274/29; l. 1086/71; l. 64/74 e l. 144/49), ne delimita le competenze. Il Collegio, infatti, con precedenti pronunce, ha affermato che << esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.

Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto>> (C.d.S. 2537/11).

La normativa citata, inoltre, rispondendo a ragioni di pubblico interesse, non sembra possa essere interpretata estensivamente né, trattandosi di norma eccezionale, può essere suscettibile di applicazione analogica.

Pertanto la competenza dei geometri per le costruzioni in cemento armato deve limitarsi a quelle opere che, in quanto aventi destinazione agricola, non possono mettere a repentaglio l’incolumità delle persone, rimanendo riservata agli ingegneri e degli architetti iscritti all’albo la competenza per le costruzioni civili nelle quali si utilizzi cemento armato, a prescindere dalle dimensioni delle stesse.

Dall’applicazione della normativa citata, dunque, consegue la nullità del contratto d’opera professionale concluso con un geometra ed avente ad oggetto la costruzione per civile abitazione, il cui progetto abbia richiesto l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato (Cass. 12193/07), a nulla rilevando l’esistenza di una delibera della giunta comunale autorizzativa, attesa l’esistenza di un vizio di incompetenza degli enti locali i quali non hanno alcun potere normativo, neppure a livello regolamentare, nella materia disciplinare. VA

 



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Inserito in data 25/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE - 23 febbraio 2015, n. 3569

Sul danno da nascita indesiderata e sul diritto a non nascere se non sano

La Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto sulla risarcibilità sia del danno da nascita indesiderata, in favore dei genitori che non abbiano potuto esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza, anche oltre il novantesimo giorno, a causa dell’omessa diagnosi della patologia da cui risulta affetto il figlio nato, sia del danno subito da quest’ultimo quale lesione del diritto a non nascere o, per meglio dire, a non nascere se non sani.

Il Collegio, invero, ha preso atto del contrasto giurisprudenziale che investe le due questioni: la prima sotto il profilo probatorio, la seconda sul piano sostanziale.

Sul primo punto, infatti, si scontrano coloro i quali ritengono che la prova debba limitarsi all’individuazione del nesso causale tra gli inadempimenti dei sanitari ed il mancato ricorso all’aborto, ritenendo <<corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza de informata di gravi malformazioni al feto>> (ex multis Cass. 6735/02 e Cass. 15386/11) e, conseguentemente, sufficiente la mera allegazione della volontà di esercitare tale diritto, con quanti, di contro, reputano necessario che venga provata anche l’esistenza di quel grave pregiudizio psico-fisico per la madre, cui viene subordinata la suddetta possibilità di abortire, nonché l’effettiva volontà di avvalersene.

Ancor più problematico risulta essere il riconoscimento di un diritto a non nascere (o a non nascere se non sani).

Sebbene, infatti, l’orientamento prevalente sembra essere quello di interpretare le norme a tutela del concepito solo in senso positivo, quale diritto a nascere sani e a non subire lesioni da parte di terzi, escludendosi, pertanto, la sussistenza di un diritto a non nascere se non sani, il Supremo Consesso non ha potuto ignorare quella giurisprudenza che, superando la necessarietà di una soggettività giuridica del concepito al fine di poter affermare la titolarità di un diritto, riformula il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo come risarcimento del danno derivante dal proprio stato di infermità.

Attesa l’importanza delle tematiche in oggetto, dunque, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno richiedere alle Sezioni Unite di porre fine all’annoso dibattito. VA




Inserito in data 24/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 febbraio 2015, n. 908

La mancata previsione dell’indennizzo non invalida il provvedimento di revoca

La mancata previsione nel provvedimento di revoca dell’indennizzo previsto dall’art. 21 quinquies della legge n. 241 del 1990 non esplica di per sé effetto viziante dell’atto, mentre il privato resta legittimato ad azionare la pretesa indennitaria con onere di provare estremi e presupposti della lamentata perdita patrimoniale.

Resta fermo che l’indennizzo previsto dal richiamato art. 21 quinquies presuppone la sopravvenienza di motivi di interesse pubblico o il mutamento della situazione di fatto che giustifichino il ritiro nell’atto. CDC



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Inserito in data 24/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2015, n. 882

Valutazione delle offerte tecniche, punteggio numerico e sindacato estrinseco

Il punteggio numerico è sufficiente ex se ad esternare e sostenere il giudizio della commissione sui singoli elementi tecnici, allorquando la lex specialis della gara abbia predeterminato in modo adeguato i parametri di misurazione degli stessi, consentendo la ricostruzione dell'iter logico seguito dall'organo tecnico.

Inoltre, le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte tecniche, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti ovvero ancora salvo che non vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione. Non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire - in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri - proprie valutazioni a quelle effettuate dall'autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte. CDC



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Inserito in data 23/02/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 20 febbraio 2015, n. 389

Sul rapporto tra ricorso principale ed incidentale; sull’avvalimento valido ed efficace

Sul rapporto intercorrente “tra ricorso principale e ricorso incidentale nel processo amministrativo, con particolare riguardo ai giudizi inerenti le procedure ad evidenza pubblica, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 9/2014) ha fissato i seguenti principi di diritto (sul tema, cfr. altresì, da ultimo, in relazione ai profili inerenti la sostanza della tutela giurisdizionale, Cass.., SS.UU., 6 febbraio 2015, n. 2242):

a) il giudice ha il dovere di decidere la controversia, ai sensi del combinato disposto degli art. 76, 4° comma, cod. proc. amm. e 276, 2° comma, c.p.c., secondo l’ordine logico che, di regola, pone la priorità della definizione delle questioni di rito rispetto alle questioni di merito e, fra le prime, la priorità dell’accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell’azione;

b) nel giudizio di primo grado, avente ad oggetto procedure di gara, deve essere esaminato prioritariamente rispetto al ricorso principale il ricorso incidentale escludente che sollevi un’eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale non aggiudicatario, in quanto soggetto che non ha mai partecipato alla gara, o che vi ha partecipato ma è stato correttamente escluso ovvero che avrebbe dovuto essere escluso ma non lo è stato per un errore dell’amministrazione; tuttavia, l’esame prioritario del ricorso principale è ammesso, per ragioni di economia processuale, qualora risulti manifestamente infondato, inammissibile, irricevibile o improcedibile;

c) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, il ricorso incidentale non va esaminato prima del ricorso principale allorquando non presenti carattere escludente; tale evenienza si verifica se il ricorso incidentale censuri valutazioni ed operazioni di gara svolte dall’amministrazione nel presupposto della regolare partecipazione alla procedura del ricorrente principale;

d) nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, sussiste la legittimazione del ricorrente in via principale — estromesso per atto dell’amministrazione ovvero nel corso del giudizio, a seguito dell’accoglimento del ricorso incidentale — ad impugnare l’aggiudicazione disposta a favore del solo concorrente rimasto in gara, esclusivamente quando le due offerte siano affette da vizio afferente la medesima fase procedimentale”.

Ciò premesso, il Collegio campano afferma di condividere l’assunto per cui “nelle gare pubbliche non possa ritenersi valido ed efficace il contratto di avvalimento che si limiti ad indicare genericamente che l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, di cui essa è mancante, per tutta la durata dell’appalto, senza però in alcun modo precisare in che cosa tali risorse materialmente consistano e senza che tale carenza possa reputarsi colmata dal semplice riferimento contrattuale all’attestazione SOA per le categorie in questione; e ciò in quanto le parti, principale e ausiliaria, non possono limitarsi, nella formalizzazione del loro impegno negoziale, a mettere a disposizione il solo requisito soggettivo quale mero valore astratto, ma devono necessariamente e chiaramente puntualizzare le concrete modalità con cui l’ausiliaria presti le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, a seconda dei casi: mezzi, personale e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti” (in termini, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2014, n. 2675). EMF



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Inserito in data 23/02/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 20 febbraio 2015, n. 519

Sul contratto misto ex art. 14 D. Lgs. 163/2006

Nel contratto misto “la fusione delle cause fa sì che gli elementi distintivi di ciascun negozio vengono assunti quali elementi di un negozio unico, a mezzo del quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, il che comporta che l’entità, le modalità e le conseguenze del collegamento negoziale debbano essere considerate in relazione all’interesse perseguito dal soggetto appaltante” (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 12.09.2011, n. 2204).

Invero, posto che “la disciplina da applicare alle fattispecie di contratti pubblici misti è quella riferita al contratto con causa prevalente, la qualificazione del contratto è correttamente operata dall’amministrazione con riferimento alla prestazione principale”.

Trattati, d’altronde, di un orientamento ormai consolidato tra gli interpreti, i quali ritengono che “nel caso di contratto misto l’operazione di cui trattasi deve essere esaminata nel suo insieme, in modo unitario, ai fini della sua qualifica giuridica, e dev’essere valutata sulla base delle regole che disciplinano la parte che costituisce l’oggetto principale, o l’elemento preponderante del contratto” (CG, sez. IV, 06.05.2010, n. 149. Nello stesso senso, CG 05.12.1989, causa C-3/88, Commissione c. Italia; 19.04.1994, causa C- 331/92, Gestion Hotelera Internacional, 18.01.2007, causa C-220/05, Auroux e a.; 21.02.2008, causa C-412/2004 Commissione c. Italia).

In conclusione, la natura del contratto non può desumersi nemmeno dal nomen iuris ad esso dato dall’Amministrazione (cfr., ex multis, Trga Trento, 09.02.2010, n. 50; Cons. St., sez. IV, 30.05.2001, n. 2953, e sez. V, 15.10.2003, n. 6316), “con la conseguenza che la conformità del contenuto dell’aggiudicazione alla legge di gara va fatta con esclusivo riferimento alla disciplina di gara e non al nomen iuris attribuito al contratto dall’amministrazione”. EMF



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Inserito in data 20/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 febbraio 2014 n. 821

Sull’indicazione di un valore nullo per talune voci dell’offerta

Alla luce dei generali principi (e in assenza di disposizioni preclusive nell’ambito della lex specialis) “non sembra potersi legittimamente impedire all’impresa concorrente di modulare l’offerta nel modo da essa ritenuto economicamente più congruo (anche presentando offerte nel cui ambito singole componenti potrebbero apparire contrastanti con generali principi di economicità)”.

Pertanto, salvo che il bando statuisca diversamente, il concorrente può “indicare un valore nullo per talune voci dell’offerta (anche attraverso l’apposizione di un segno grafico equivalente)”.

Del resto, la giurisprudenza ritiene che la serietà ed attendibilità dell’offerta formulata dal singolo concorrente debbano essere valutate “in modo complessivo e non anche in un’ottica (per così dire) ‘monadologica’, volta – cioè – a riguardare in modo atomistico le singole componenti dell’offerta”. EMF



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Inserito in data 20/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 febbraio 2014 n. 839

Le associazioni ambientaliste possono impugnare anche gli atti di valenza urbanistica

Con la sentenza indicata in epigrafe, il Consiglio di Stato, confermando la decisione del Giudice di prime cure, afferma che “la legittimazione delle associazioni ambientaliste di livello nazionale ad impugnare atti amministrativi in materia ambientale, che deriva direttamente dalla legge come si evince dal combinato disposto degli artt. 18, comma 5 e 13 della L. 8 luglio 1986, n. 349, previa iscrizione nell'apposito elenco ministeriale, è stata progressivamente considerata valevole anche in relazioni ad atti non solo espressamente inerenti alla materia ambientale, quanto pure per quelli che incidono più in generale sulla qualità della vita in un dato territorio”.

Le disposizioni appena evocate, infatti, da un lato, consentono alle associazioni di protezione ambientale la “legittimazione attiva nei giudizi dinanzi al giudice ordinario e a quello amministrativo, per tutelare finalità di protezione dell’ambiente che sono proprie dell’amministrazione dello Stato”, e, dall’altro, “rappresentano una delle modalità di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale recepito dall’art. 118, ultimo comma, Cost., e quindi impongono una lettura dinamica delle attribuzioni delle associazioni, coordinata al concreto evolversi della sensibilità sociale in tema di tutela degli interessi diffusi e, finora, adespoti”.

Viceversa, la lettura restrittiva del tema della legittimazione ambientalista, secondo cui le attribuzioni di queste sarebbero limitate unicamente alla tutela paesistica, “non può essere sostenuta ed è sconfessata da una lettura della giurisprudenza in tema, che traccia una evidente parabola interpretativa, tesa al riconoscimento di una nozione di protezione ambientale ampiamente articolata” (v. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 27 settembre 2012 n. 811; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14 aprile 2011, n.2329; id, sez. VI 15 giugno 2010 n. 3744; id., sez. IV, 12 maggio 2009 n. 2908; id., sez. IV 31 maggio 2007 n.2849).

In tempi ancora più recenti, i Giudici di Palazzo Spada (sez. IV, 9 gennaio 2014 n. 36) hanno affermato che “il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”.

L'ambiente, dunque, costituisce “inevitabilmente l'oggetto (anche) dell'esercizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l'esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tenere conto del "valore ambiente", al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi. Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni”.

Pertanto, è del tutto evidente che “la tutela degli interessi ambientali possa anche procedere attraverso l'impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria qualora incidenti negativamente su profili ambientali; come è del pari evidente che, stante la non necessaria correlazione dimensionale tra interessi urbanistici e interessi ambientali, permane sempre la necessità di una valutazione in concreto dell’incidenza del possibile danno all’ambiente”.

Trattasi, invero, di valutazione che discende dall’impossibilità di “poter correlare a priori una determinata tipologia pianificatoria con la sua eventuale rilevanza ambientale, atteso che le discipline regionali impiegano una vasta congerie di strumenti, diversamente connotati e denominati, e con ciò impediscono un pur utile raccordo, quanto meno relativo alla partecipazione procedimentale, con gli enti e le associazioni di tutela. Il che determina, in via di necessità, l’intervento successivo del giudice, come ultimo strumento per consentire la ponderazione delle posizioni dei soggetti ordinamentali pretermessi dalle scelte amministrative”. EMF



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Inserito in data 19/02/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 febbraio 2015, n. 15

Conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato e previa autorizzazione

Il Collegio della Consulta interviene in un giudizio promosso da una Regione in relazione alla deliberazione della Corte dei conti, sezione regionale di controllo, con cui è stata accertata l’irregolarità dei rendiconti presentati dai gruppi consiliari regionali relativamente all’esercizio finanziario 2013, nonché la loro decadenza dal diritto all’erogazione di risorse pubbliche per l’anno 2014, e disposta la trasmissione degli atti alla Procura regionale della Corte dei conti.

I Giudici costituzionali, superando le doglianze mosse nel merito dalla Regione ricorrente, statuiscono l’inammissibilità del relativo mezzo di impugnativa, in considerazione della mancata, previa deliberazione autorizzatoria da parte dell’Organo collegiale, competente a proporla.

Il Collegio, infatti, non esita a ricordare che: “ai sensi dell’art. 39, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il ricorso per conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni è proposto per lo Stato dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato e per la Regione dal Presidente della Giunta regionale in seguito a deliberazione della Giunta stessa».

Tanto non si è verificato nel caso in esame, in cui la delibera di Giunta di autorizzazione alla proposizione del conflitto segue di ben sei giorni l’introduzione del presente giudizio.

La Corte costituzionale ribadisce, infatti, di aver costantemente affermato «l’esigenza della previa deliberazione da parte dell’organo collegiale ai fini della presentazione del ricorso o della costituzione in giudizio» (Cfr. ordinanza del 26 febbraio 2013, allegata alla sentenza n. 60 del 2013; nello stesso senso, sentenze n. 61 del 2011, n. 51 del 2007 e n. 54 del 1990), precisando che si tratta di «“esigenza non soltanto formale, ma sostanziale per l’importanza dell’atto e per gli effetti costituzionali ed amministrativi che l’atto stesso può produrre” (sentenza n. 33 del 1962; analogamente le sentenze n. 8 del 1967; n. 119 del 1966; n. 36 del 1962)» (sentenza n. 202 del 2012; nello stesso senso, sentenza n. 142 del 2012).

Sulla base di tali valutazioni, evidentemente ormai radicate, il Collegio della Consulta statuisce l’inammissibilità dell’odierno ricorso. CC



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Inserito in data 18/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA 18 febbraio 2015, n. 735

Sulla sospensione del regolamento elettorale forense

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada hanno accolto il ricorso dell’Associazione nazionale avvocati italiani (ANAI), prevedendo la sospensione del regolamento per le elezioni dei Consigli degli Ordini degli Avvocati d’Italia.

Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ribalta l’ordinanza emessa dal Tar Lazio, del 15 gennaio scorso, che aveva respinto la domanda di sospensione delle consultazioni elettorali, ritrasmettendo, dunque, gli atti al Tar del Lazio, che dovrà decidere sul merito della controversia, fissando l’udienza di discussione.

Specificamente, i ricorrenti contestano la modalità di voto prescelta che, secondo gli stessi, sarebbe lesiva dei diritti delle minoranze. Invero, il regolamento impugnato, prevede che gli avvocati elettori abbiano la possibilità di votare in blocco tutti i candidati della lista per la quale si esprime la preferenza.

Nella motivazione del provvedimento de quo, il Consiglio di Stato dichiara che il limite di voti, di due terzi, previsto all’art. 28, comma 3, della Legge n. 247 del 2012, sia da considerarsi invalicabile, fermo restando, tuttavia, la possibilità di prevedere, entro lo stesso confine, dei modi di espressione delle preferenze ulteriori, tese a salvaguardare la maggioranza di genere.

I Giudici di Palazzo Spada chiariscono che, pur nei limiti della sommaria cognizione cautelare, “appaiono condivisibili le censure che evidenziano il contrasto tra la disciplina dettata dalla legge n. 247 del 31 dicembre 2012 e il regolamento impugnato in merito alla tutela delle minoranze che, in un ente pubblico di carattere associativo, ben rifluiscono sui temi dell’imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97 comma 2 della Costituzione”.

Alla luce della sopracitata ordinanza, inoltre, “pare praticabile un’interpretazione in cui il limite di voti di cui all’art. 28 comma 3 della citata legge sia da considerarsi insuperabile, ferma restando la possibilità di prevedere, entro l’evocato confine, modi di espressione delle preferenze ulteriori tese a salvaguardare le differenze di genere, come nel sistema già vagliato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 14 gennaio 2010”.

Secondo tutto quanto argomentato dai Giudici della Quarta sezione del Consiglio di Stato, infine, “le esigenze cautelari ben possono essere tutelate, anche in considerazione del diverso sviluppo delle fasi procedimentali nelle diverse sedi e delle già avvenute elezioni, sollecitando la decisione nel merito, a norma dell’art. 55 comma 10 del C.p.a.”. GMC



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Inserito in data 18/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 febbraio 2015, n. 2942

Ostacolo alla delibazione di una sentenza per contrarietà all’ordine pubblico

Una coppia di coniugi chiese alla Corte d’appello di Napoli, con ricorso congiunto del settembre 2011, la dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana della sentenza con la quale il Tribunale Ecclesiastico Regionale Campano aveva dichiarato nullo il loro matrimonio concordatario, celebrato nell’anno 2003, per “esclusione dell’indissolubilità del vincolo da parte della moglie”, sentenza poi confermata dal Tribunale Ecclesiastico di Appello del Vicariato di Roma e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
La Corte adita, nel caso de quo, ha riconosciuto la delibabilità della sentenza ecclesiastica sotto tutti i profili rilevanti, salvo quello evidenziato da Cass. 1343/2011, secondo cui “la prolungata convivenza successiva alla celebrazione matrimonio costituisce ostacolo di ordine pubblico alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio stesso”.

Ha, pertanto, respinto la domanda, avendo accertato che nella specie la convivenza dei coniugi dopo la celebrazione del matrimonio si era “protratta per oltre 4 anni, com’è dato evincere dalla data della presentazione del libello introduttivo dinanzi al Tribunale Ecclesiastico” ed era stata arricchita dalla nascita di un figlio fortemente voluto, tanto che la madre si era sottoposta, per realizzare il concepimento, a cure e ad un intervento chirurgico.

La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, stabilisce che non può essere delibata, per contrarietà all’ordine pubblico, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio tutte le volte in cui la convivenza “come coniugi” si sia protratta per almeno tre anni, così come ha altresì precedentemente chiarito la sentenza 17 luglio 2014, n. 16380.

È da chiarire, inoltre, che l’ostacolo alla delibazione, rappresenta materia di eccezione in senso stretto, dunque non è rilevabile d’ufficio allorquando la delibazione sia stata chiesta congiuntamente dai coniugi, tanto più che i caratteri stessi della convivenza ostativa alla delibazione sono tali da assegnare un ruolo prevalente alla “consapevole e concorde manifestazione di volontà delle parti”. GMC




Inserito in data 17/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 2 febbraio 2015, n. 4880

Sulla natura giuridica della confisca di prevenzione

La sentenza in esame risolve il contrasto che si era creato nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura giuridica della confisca di prevenzione, oggi regolata dal d.lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia).

L’orientamento tradizionale (in tal senso, fra le tante, Cass. S.U. 18/3.7.1996, Cass. 39204/2013 e 16729/2014) riteneva che la confisca di prevenzione avesse natura assimilabile a quella delle misure di sicurezza ex art. 240.2 cp. Da ciò conseguiva la possibilità di una applicazione retroattiva ex art. 200 cp.

Ciò si fondava sul fatto che la confisca di prevenzione era prevista nell’ambito del procedimento di prevenzione personale e ne seguiva le regole, fra le quali quella che richiedeva la pericolosità del soggetto destinatario, analogo al presupposto delle misure di sicurezza.

In senso opposto si è però pronunciata Cass. 14044/2013, che ha sostenuto la natura oggettivamente sanzionatoria della confisca di prevenzione. Da ciò conseguiva l’impossibilità di un’applicazione retroattiva, alla stregua dell’art. 25, comma 2, Cost.

Tale soluzione si è giustificata alla luce delle modifiche normative del 2008-2009, che hanno consentito l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali anche ove non vi sia spazio per una misura personale, quindi anche in mancanza di attuale pericolosità sociale del destinatario.

Le Sezioni Unite hanno confermato la tesi tradizionale, negando che le modifiche introdotte nel 2008-2009 abbiano modificato la natura preventiva della confisca di prevenzione, ancora assimilabile alle misure di sicurezza, con applicabilità, in caso di successione di leggi, dell’art. 200 cp.

Secondo la pronuncia, la nuova normativa non ha inteso rendere la confisca di prevenzione avulsa dal presupposto della pericolosità, ma ha stabilito soltanto che la sua applicazione può prescindere dalla verifica, in concreto, della pericolosità al momento della richiesta; in altre parole, può prescindersi solo dall’attualità della pericolosità.

Più in dettaglio, occorre comprendere la differenza tra la confisca e la misura di prevenzione personale.

Nel caso della misura di prevenzione personale, bisogna guardare alla qualità della persona in quanto tale, come socialmente pericolosa, cioè capace di porre in essere reati. Ne segue che una misura di prevenzione personale non può che essere giustificata dalla persistente, attuale, condizione di pericolosità del soggetto proposto.

Nelle misure di prevenzione patrimoniali, invece, occorre guardare alla res. Ma i beni sono in sé neutri; dunque, la loro pericolosità si riconnette alla qualità soggettiva di chi li acquista. La pericolosità sociale dell’acquirente, a quel punto, si riverbera sul bene acquistato e si oggettivizza, traducendosi in attributo obiettivo del bene.

Permane, dunque, la finalità preventiva della confisca in esame, volta a dissuadere il soggetto inciso dalla commissione di ulteriori reati. CDC




Inserito in data 17/02/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 febbraio 2015, n. 11

Sui criteri di quantificazione dell’assegno divorzile

La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 6 della legge 898/70 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sì come modificato dall’art. 10 della legge 74/87 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio) per violazione degli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione.

A parere della Suprema Corte, infatti, il Tribunale di merito avrebbe commesso un errore interpretativo di quel diritto vivente secondo cui, a suo dire, in presenza di una disparità economica tra coniugi, «l’assegno divorzile […] deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio».

Il Tribunale rimettente, infatti, ritiene che questa interpretazione normativa si ponga in contrasto con gli art. 3, 2 e 29 della Costituzione. L’assegno di divorzio, infatti, ha una finalità meramente assistenziale, ne consegue l’ultroneità di un’interpretazione sì fatta che, di contro, finirebbe con il garantire per tutta la vita un tenore di vita agiato in favore del coniuge ritenuto economicamente più debole. Né una soluzione di questo tipo potrebbe trovare riscontro e giustificazione nel dovere di solidarietà (non sembra, infatti, ragionevole pensare che tale dovere possa assumere così ampi contorni anche dopo la cessazione degli effetti del matrimonio).

Il Collegio, tuttavia, rileva come l’esistenza del diritto vivente esposto dal rimettente non trovi effettivo riscontro nella giurisprudenza nomofilattica la quale, di contro, ha sempre chiarito che <<il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile. […]il parametro del «tenore di vita goduto in costanza di matrimonio» rileva, bensì, per determinare «in astratto […] il tetto massimo della misura dell’assegno» (…) ma, «in concreto», quel parametro concorre, e va poi bilanciato, caso per caso, con tutti gli altri criteri indicati nello stesso denunciato art. 5>>  che consentono di moderare e diminuire la somma astrattamente individuata, sino anche ad azzerarla (ex multis Cass. 2546/14; 24252/13). VA



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Inserito in data 16/02/2015
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 gennaio 2015, n. 1

Sul trasferimento da università estere senza previo superamento dei test di ingresso

L’Adunanza Plenaria, pronunciando sul rinvio operato dal C.G.A.R.S. sull’esatta individuazione dei presupposti richiesti dall’ordinamento vigente per il trasferimento di studenti iscritti in università straniere a corsi di laurea che, nel nostro ordinamento, prevedono il superamento di test di ingresso ai fini dell’accesso ai corsi, ha rigettato l’appello proposto dalla pubblica amministrazione.

Il Supremo Consesso, infatti, ha avvallato la decisione del tribunale di merito secondo cui <<né l’art. 4 della L. 264/99 né il bando prevedono disposizioni in ordine all’ipotesi del trasferimento di studenti universitari da un Ateneo straniero ad uno nazionale>> .

Invero, sebbene il Consiglio di Stato, in varie pronunce , abbia più volte affermato la legittimità dell’esclusione dai corsi di studenti di università estere che non abbiano superato la prove selettiva di primo accesso, eludendo in tal modo la previsione normativa nazionale  ( si veda, ad esempio, C.d.S. 2028/14; 2829/14), senza operare alcuna distinzione fra il primo anno di corso e gli anni successivi ( art. 1 comma 1 e 4 della legge 264/99, in rapporto alle previsioni del d.m. 22 ottobre 2004, n. 270, recante il regolamento sull'autonomia didattica degli atenei ), il Collegio ritiene che tale conclusione debba essere rimeditata.

A ben vedere, infatti, la disciplina dei trasferimenti è contenuta nei commi 8 e 9 dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2007 in materia di “Determinazione delle classi di laurea magistrale”. Le norme in questione, tuttavia, si limitano a disciplinare il riconoscimento dei crediti formativi già maturati, senza fare alcun riferimento ai requisiti per l’ammissione.

L’art. 4 della legge 2 agosto 1999, n. 264, invece, ove è presente la previsione di test di idoneità, subordina al superamento dei suddetti test <<l’ammissione ai corsi i cui accessi sono programmati a livello nazionale ( art. 1 ) o dalle singole università ( art. 2 ) >>. Ne consegue che, sebbene la norma non riferisca espressamente la locuzione “ammissione” al solo “primo accoglimento dell’aspirante nel sistema universitario” , laddove si volga lo sguardo all’art. 6 del D.M. 22 ottobre 2004, n. 270, che fa riferimento, ai fini della ammissione ad un corso di laurea, al “possesso del diploma di scuola secondaria superiore” quale titolo imprescindibile previsto per l’ingresso nel mondo universitario, appare evidente come il legislatore, con la locuzione “ammissione ai corsi di laurea”, abbia voluto riferirsi <<allo studente che chieda di entrare e sia accolto per la prima volta nel sistema>>. La medesima conclusione può trarsi dall’analisi letterale del manifesto degli studi dell’università ricorrente che, nel testo, fa indifferentemente riferimento all’ammissione e/o all’immatricolazione.

A parere dell’Adunanza Plenaria, inoltre, questa conclusione appare preferibile anche sul piano logico-razionale. Invero, <<se la prova stessa è volta ad accertare la “predisposizione per le discipline oggetto dei corsi”, è vieppiù chiaro che tale accertamento ha senso solo in relazione ai soggetti che si candidano ad entrare da discenti nel sistema universitario, mentre per quelli già inseriti nel sistema ( e cioè già iscritti ad università italiane o straniere ) non si tratta più di accertare, ad un livello di per sé presuntivo, l’esistenza di una “predisposizione” di tal fatta, quanto piuttosto, semmai, di valutarne l’impegno complessivo di apprendimento ( v. art. 5 del D.M. n. 270/2004 ) dimostrato dallo studente con l’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute>>.

Inoltre, laddove la normativa in esame venga messa a raffronto con i principi comunitari, un’interpretazione siffatta appare ben più aderente al principio di libertà di circolazione e soggiorno sancita dall’art. 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Pertanto, <<ferma, dunque, la non equipollenza delle competenze e degli standards formativi richiesti per l’accesso all’istruzione universitaria nazionale (sì che non sarebbe predicabile l’equivalenza del superamento della prova di ammissione ad un’università straniera con quella prevista dall’ordinamento nazionale), una limitazione, da parte degli Stati membri, all’accesso degli studenti provenienti da università straniere per gli anni di corso successivi al primo (…), si pone in contrasto con il predetto principio di libertà di circolazione>> (si veda in riferimento la sentenza CgEC-73/08).

Ne consegue che eventuali limitazioni al diritto di accesso potranno essere ritenute legittime solo nei limiti di quanto strettamente necessario per il raggiungimento dello scopo prefisso dall’ordinamento nazionale.

In conclusione, essendo i test di ingressi volti a valutare l’idoneità e la meritevolezza dei candidati, il Supremo Consesso ritiene superflua la previsione di tale requisito per le ipotesi di trasferimento per anni successivi al primo posto che, in queste ipotesi, la capacità dei candidati potrà essere valutata con riferimento ai risultati accademici ottenuti. L’Adunanza Plenaria, inoltre, ritiene che l’esiguo numero di posti disponibili per i trasferimenti (dato, per lo più dalla mancata iscrizione dei soggetti risultati idonei) sia già un elemento sufficiente ad evitare comportamenti elusivi. VA



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Inserito in data 14/02/2015
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZIONE SECONDA, ric. n. 25358/12 del 27 gennaio 2015

Utero in affitto: la CEDU condanna l’Italia

La Corte di Strasburgo, intervenendo in una delicatissima vicenda relativa ad un minore nato a seguito di una maternità surrogata gestazionale (cd. utero in affitto), condanna l’Italia per la carente e lacunosa disciplina in materia.

Infatti, successivamente al ricorso presentato dinanzi alla Corte EDU da una coppia di coniugi italiani, i quali lamentavano l’impossibilità di registrare – agli effetti civili – lo stato di filiazione e le conseguenti azioni– ad opera delle competenti Autorità italiane, sfociate nella sottrazione del minore e nella conseguente dichiarazione dello stato di adottabilità, intervengono i Giudici francesi.

Essi, ricordando la primaria importanza del diritto del minore all’identità – siglato anche dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, contestano la prassi seguita – nel caso in esame – dalle Autorità italiane. Queste, adducendo ragioni di ordine pubblico (presumendo che i coniugi avessero voluto aggirare la normativa interna in tema di adozione), hanno sottratto il minore ad un ambiente familiare in cui era stato accolto e provveduto a dichiararlo in stato di adottabilità.

Ritiene la Corte di Strasburgo che le Autorità italiane abbiano violato l’art. 8 non avendo trovato il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. Proseguono i Giudici, l’allontanamento di un bambino dall’ambiente familiare deve essere una misura estrema adottabile solo in caso di immediato pericolo. CC




Inserito in data 14/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA 12 febbraio 2015, n. 690

Diritto a riunirsi, ad associarsi e manifestare e compromissione con la pericolosità sociale

Il Collegio della Terza Sezione, intervenendo in sede cautelare, ricorda taluni principi essenziali in tema di libertà di associazione e di manifestazione del pensiero.

Infatti, dichiarando di attendere il completamento della produzione documentale nella successiva fase del merito, i Giudici comunque definiscono da subito come, nel caso in esame, non vi sia stata alcuna illegittima compressione nell’esercizio di libertà garantite, non trattandosi di forme di legittima protesta nell’ambito della libera partecipazione democratica, bensì di concreti comportamenti partitamente individuati per ciascuno dei ricorrenti, messi in essere in occasione di manifestazioni di protesta e puniti a vario titolo dalla legge penale.

Pertanto, a dispetto di quanto lamentato nell’impugnativa, i ricorrenti non hanno subito alcuna inibizione, bensì solo il divieto di condotte penalmente rilevanti, con riguardo alle quali la durata triennale di efficacia del divieto non è apparsa irragionevole né al Giudice di primo grado né al Collegio del presente gravame. CC



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Inserito in data 13/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 febbraio 2015, n. 715

Natura degli atti del Comune e relativa impugnazione

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato interviene in merito alla natura degli atti con cui un Comune liquida unilateralmente i diritti di credito, di cui si assume titolare, intimandone il pagamento.

Specificamente, nel caso de quo, con ricorso al TAR per la Campania, un privato impugnava alcuni atti riguardanti la pretesa di un Comune campano del pagamento di alcune demolizioni effettuate in danno dello stesso, per essersi reso inadempiente a precedenti e reiterati ordini di demolizione, effettuate, tali ultime, nell’anno 2011.

In tale occasione, i Giudici di Palazzo Spada, chiariscono che i suddetti atti, ossia quelli coi quali il Comune ha liquidato i diritti di credito, non hanno affatto natura provvedimentale, bensì rilevano quali “meri atti di esercizio di un diritto soggettivo”, così come già sottolineato con pronuncia del Consiglio di Stato medesimo (CdS, sez. IV, 25 gennaio 2003, n. 361).

Dunque, alla luce di quanto prospettato, diretta conseguenza di ciò sarà che i destinatari non avranno l’onere di impugnarli dinnanzi al Giudice amministrativo in giurisdizione esclusiva, qual è, invero, la materia edilizia alla luce dell’art. 133, comma 1, lett. F), del Codice del Processo Amministrativo, rispettando il termine di decadenza stabilito per il ricorso avverso i provvedimenti amministrativi. GMC



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Inserito in data 13/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 febbraio 2015, n. 605

Rischio per la salute: applicazione del principio di precauzione

Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada ritengono corretto il provvedimento del Ministero della Salute, unitamente con quelli delle Politiche Agricole e dell’Ambiente, con il quale è stata vietata la coltivazione di una specifica varietà di mais, ossia OGM MON 810, sulla base della considerazione secondo cui, non prevedendo l’autorizzazione 98/294/CE alcuna misura di gestione e non avendo altresì la Commissione ritenuto di intervenire per imporne l’attuazione, alla luce dell’art. 53 del Regolamento n. 178/2002, il mantenimento della coltura di tal tipo di mais transgenico, senza adeguate e specifiche misure, non tutelasse sufficientemente l’ambiente.

Nella vicenda de qua, si sottolinea che l’applicazione del principio di precauzione, prevede soltanto l’esistenza di un “rischio potenziale” per la salute, nonché per l’ambiente, e non la già la sussistenza di prove scientifiche sul collegamento tra la causa, oggetto di divieto, e gli effetti, negativi, che si vogliono eliminare o quantomeno ridurre.

Il medesimo principio, altresì, comporta che allorquando non siano conosciuti, con assoluta certezza, i rischi connessi ad una attività pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba configurarsi sotto forma di una prevenzione “anticipata”, rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche medesime, e ciò anche nel caso in cui i danni non siano ben conosciuti o soltanto potenziali.

Da ultimo, a tal proposito, si consideri, altresì, Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2014, n. 5525. GMC



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Inserito in data 12/02/2015
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 10 febbraio 2015, n. 365

Giudizio di verifica della congruità dell'offerta e sindacato esterno del G.A.

Con la pronuncia in esame i Giudici campani affermano che “nelle gare pubbliche il giudizio di verifica della congruità di un'offerta potenzialmente anomala ha natura globale e sintetica, vertendo sulla serietà o non dell'offerta nel suo insieme”.

In particolare, essi ritengono che l'attendibilità della offerta vada “valutata nel suo complesso, e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue, avulse dall'incidenza che potrebbero avere sull'offerta economica nel suo insieme, ma questo ferma restando la possibile rilevanza del giudizio di inattendibilità che dovesse investire voci che, per la loro importanza ed incidenza complessiva, rendano l'intera operazione economica implausibile e, per l'effetto, insuscettibile di accettazione da parte dell'Amministrazione, in quanto insidiata da indici strutturali di carente affidabilità” (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 16/01/2015, n. 89).

Inoltre, “l'esame delle giustificazioni presentate dal soggetto tenuto a dimostrare la non anomalia della propria offerta è vicenda che rientra nella discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illogicità, vale a dire di errori di valutazione evidenti e gravi, oppure di valutazioni abnormi o affette da errori di fatto, il giudice della legittimità può intervenire, restando per il resto la capacità di giudizio confinata entro i limiti dell'apprezzamento tecnico proprio di tale tipo di discrezionalità”.

In sostanza, “nel caso di ricorso proposto avverso il giudizio di anomalia dell'offerta presentata in una pubblica gara, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dall'Amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell'istruttoria, ma non può effettuare autonomamente la verifica della congruità dell'offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall'organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto giacché, così facendo, il giudice amministrativo invaderebbe una sfera propria della stazione appaltante” (cfr., Consiglio di Stato, cit.).

Nello stesso senso si era, peraltro, collocata l’Ad. Pl., con sentenza 3/2/2014, n. 8, la quale aveva evidenziato che “è consentito il sindacato esterno del giudice amministrativo sull’operato dell’organo deputato all’esame delle offerte, in presenza di elementi che il ricorrente elevi a vizio di eccesso di potere in cui la stazione appaltante si assume sia incorsa per una non corretta disamina di elementi contenutistici tali da evidenziare una palese incongruità dell’offerta”. EMF



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Inserito in data 12/02/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 10 febbraio 2015, n. 427

Sul rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato

Ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno, “il possesso di un reddito minimo idoneo al sostentamento dello straniero e del suo nucleo familiare costituisce un requisito soggettivo non eludibile”, perché “attiene alla sostenibilità dell'ingresso dello straniero nella comunità nazionale per ragioni di lavoro subordinato, atteso che lo straniero deve essere stabilmente inserito nel contesto lavorativo e contribuire con il proprio impegno allo sviluppo economico e sociale del paese ospitante” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 agosto 2010 n. 5994).

Del resto, “la determinazione della soglia sotto la quale il reddito percepito dal cittadino extracomunitario non può considerarsi sufficiente al fine della sua permanenza sul territorio italiano può trarsi dal parametro fissato in varie disposizioni (art. 29, terzo comma lett. b, T.U.; art. 39 comma 3, D.P.R. n. 394 del 1999) le quali richiedono la necessaria disponibilità da parte del richiedente, di una somma non inferiore alla capitalizzazione, su base annua, di un importo mensile pari all’assegno sociale”. EMF



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Inserito in data 11/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 9 febbraio 2015, n. 2400

Sul diniego di procedere alle pubblicazioni di un matrimonio omosessuale

La sentenza afferma la legittimità del diniego di procedere alle pubblicazioni matrimoniali relative ad un’unione tra due persone dello stesso sesso.

Riprendendo la nota pronuncia della Corte costituzionale n. 138 del 2010, si esclude, anzitutto, che la mancata estensione del modello matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso determini una lesione della dignità umana e dell’uguaglianza. Spetta, piuttosto, al legislatore, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali.

Alle coppie omosessuali deve essere riconosciuto un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà, data la riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana.

Ciò non risulta modificato dai principi elaborati nelle più recenti pronunce della Corte EDU e nella sentenza n. 170 del 2014 della Corte Costituzionale.

Secondo la Corte EDU, infatti, l’art. 12 Cedu non esclude che gli Stati membri estendano il modello matrimoniale anche alle persone dello stesso sesso, ma nello stesso tempo non contiene alcun obbligo al riguardo.

L’insussistenza dell’obbligo costituzionale o convenzionale di estendere il vincolo coniugale alle unioni omosessuali è stata ribadita anche dalla sentenza n. 170 del 2014 della Corte Costituzionale, nella quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della disciplina normativa che fa conseguire in via automatica alla rettificazione del sesso lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio preesistente senza preoccuparsi di prevedere per l’unione divenuta omoaffettiva, un riconoscimento e uno statuto di diritti e doveri che ne consenta la conservazione in una condizione coerente con l’art. 2 Cost. (e 8 Cedu). CDC




Inserito in data 11/02/2015
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 10 febbraio 2015, n. 675

Risarcimento del danno da ritardo e indennizzo ex art. 2bis, comma 1bis, l. 241/1990

L’art. 2 bis, comma 1, l. 241/1990 è sussumibile nello schema fondamentale dell’illecito extracontrattuale e rafforza la tutela risarcitoria nei confronti dei ritardi della PA, stabilendo che esse siano tenute al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa e colposa del termine di conclusione del procedimento.

Ciò si fonda sull’idea che il tempo è un bene della vita per il cittadino e che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a progetti imprenditoriali.

Le conseguenze economiche derivanti dalla semplice inosservanza dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi sono state invece autonomamente disciplinate dall’art. 2 bis, comma 1 bis, l. 241/1990, con la previsione di misure patrimoniali (d’indole sanzionatoria e struttura indennitaria predeterminata) alternative al risarcimento del danno, in quanto agganciate a presupposti e a condizioni applicative completamente autonomi e diversi. CDC



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Inserito in data 10/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, SENTENZA 4 febbraio 2015, n. 2040

Nullità contrattuale sollevata per la prima volta in sede di legittimità

Il Supremo Consesso, chiamato a valutare la sussistenza di una responsabilità contrattuale da inadempimento, ai sensi dell’art. 1418 c.c., derivante dalla difforme realizzazione di un fabbricato rispetto al progetto originario, ha trattato preliminarmente la questione attinente l’esistenza di una causa di nullità del contratto (fonte della suddetta responsabilità).

Il caso appare degno di nota in quanto affronta il problema relativo alla possibilità di sollevare in sede di legittimità, per la prima volta, la questioni di nullità del contratto oggetto della controversia.

Il Collegio, sul punto, ha affermato che << è consentito sollevare per la prima volta in sede di legittimità la questione di nullità di un contratto, a condizione che ciò non comporti nuovi accertamenti di fatto (v. Cass. n. 14621/12; 11188/12) e che non si sia verificato un giudicato implicito sulla validità dello stesso, per aver, il giudice di merito, accolto o respinto la domanda sul presupposto della validità del titolo su cui essa si fondava e la questione della validità del negozio non sia stata sollevata in appello (Cass.  n. 18540/09)>>.

Nel caso di specie il contratto di prestazione d’opera avrebbe dovuto essere dichiarato nullo in quanto la costruzione oggetto dello stesso presentava dei requisiti strutturali che esulavano da quelli propri delle piccole costruzioni accessorie, di cui all'art. 16 lett. 1) ed m) del R.d. 1929 n. 274), non rientrando, pertanto, nelle competenze tecniche del geometra. VA




Inserito in data 10/02/2015
TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 6 febbraio 2015, n. 308

Sul diritto di accesso del contribuente alle cartelle esattoriali

Il Tar Salerno ha dichiarato (in parte) fondato il ricorso presentato avverso una nota di Equitalia Sud s.p.a. che limitava e differiva l’accesso alla documentazione amministrativa richiesta.

Il Giudice di merito, infatti, ha ritenuto non pertinente il riferimento normativo all’art. art. 26 comma 4 d.p.r. 602/73 fatto da Equitalia. Invero, sebbene la norma citata limiti l’obbligo di conservazione e di ostensione delle matrici e delle copie delle cartelle con la relazione dell’avvenuta notifica o di avviso di ricevimento a soli cinque anni, questa <<non individua una modalità di accesso ai documenti, ma disciplina il rapporto giuridico corrente tra l’agente della riscossione e il debitore con specifico riferimento all’onere probatorio della pretesa di pagamento. Il che comporta che l’accesso ai ripetuti atti non può essere negato, avuto conto che è solo sulla scorta degli stessi che può essere comprovata, con onere a carico dell’agente di riscossione, l’idoneità del titolo esecutivo e non opposto nei termini di legge a sorreggere validamente le pretese di cui trattasi ovvero a sorreggere validamente dinieghi di rilascio di certificazioni di regolarità fiscale” (Tar Napoli, 2078/2010,; Tar Reggio Calabria 767/2011; Tar Bari, 1034/09).

A ben vedere, infatti, la cartella esattoriale costituisce il presupposto indefettibile del procedimento esecutivo la cui ostensione, pertanto, è funzionale e strumentale alla tutela dei diritti del contribuente. Peraltro, anche alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali, non sembra che il mero deposito in semplice copia degli estratti di ruolo possa ritenersi satisfattivo dell’interesse all’estrazione degli atti, invero, al fine di consentire la piena conoscenza della pretesa contributiva, occorre che gli atti vengano esibiti in copia integrale e conforme all’originale.

Ne consegue che l’agente della riscossione, quand’anche siano decorsi i cinque anni di cui all’art. 26 comma 4 del d.p.r. 602/73, avrà comunque l’obbligo di ricercare le cartelle esattoriali nei propri archivi in modo da consentirne l’accesso al ricorrente, fatta eccezione per il caso in cui lo stesso agente della riscossione non dichiari e provi di non essere più in possesso dell’originale o di eventuali copie.

In tal caso, tuttavia, il mancato accesso non troverà la sua giustificazione nella norma sopra citata, ma nell’impossibilità dell’adempimento. VA



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Inserito in data 06/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 30 gennaio 2015, n. 1747

Sulla misura interdittiva dell’incandidabilità temporanea

La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, interviene in merito alla misura interdittiva della incandidabilità temporanea dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del Consiglio comunale, conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso o similare a quest’ultimo.

Nel caso de quo, a seguito della proclamazione come sindaco di un Comune, avvenuta con le consultazioni elettorali del 2007, un politico è rimasto in carica sino alla sospensione e al successivo scioglimento del Consiglio comunale, scioglimento disposto, alla luce dell’art. 143 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, con decreto del Presidente della Repubblica del febbraio 2012, su proposta del Ministro dell’interno. In seguito al ricevimento della nota ministeriale, il Presidente del Tribunale ne ha disposto la trasmissione al Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale per le determinazioni di competenza.

Ai sensi dell’art. 143, comma 11, del testo unico suddetto, il Procuratore della Repubblica ha chiesto al Tribunale medesimo di dichiarare l’incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali destinate a svolgersi nella Regione, limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento del Consiglio comunale, “di coloro che possono individuarsi quali passati amministratori della disciolta amministrazione che risultano essere stati, direttamente o indirettamente, vicini ad ambienti della criminalità organizzata […]”.

I Giudici di Piazza Cavour, in merito al caso suesposto, chiariscono che la misura interdittiva della incandidabilità suddetta, dell’amministratore responsabile delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento del Consiglio comunale conseguente a fenomeni di infiltrazione di tipo mafioso, di cui all’art. 43, comma 11, del d.lgs. n. 267 del 2000, privando temporaneamente il soggetto della possibilità di candidarsi nell’ambito di elezioni elettorali che si svolgono nel medesimo territorio, rappresenta certamente un rimedio, seppur di extrema ratio, diretto ad evitare il ricrearsi delle situazioni che la misura dissolutoria ha inteso ovviare e a salvaguardare, in tal modo, dei beni primari della intera collettività nazionale, unitamente alla sicurezza pubblica, la trasparenza e il buon andamento delle amministrazioni comunali.

Gli ermellini sottolineano che ciò che deve tutelarsi è certamente il regolare funzionamento dei servizi affidati, i quali risultano essere capaci di alimentare la “credibilità” delle amministrazioni locali presso il pubblico, nonché quel rapporto che lega i cittadini alle istituzioni.

Oltre a ciò, chiarisce la Corte, il procedimento giurisdizionale volto alla dichiarazione di incandidabilità, è autonomo rispetto a quello penale, motivo per cui non è affatto rilevante che il sindaco sia stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa. GMC




Inserito in data 06/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZIONE SECONDA - ADUNANZA DI SEZIONE, PARERE 30 gennaio 2015, n. 298

Sull’affidamento in via diretta al CINECA di servizi informatici

Il Consiglio di Stato da il via libera agli appalti in house senza gara anche a società pubbliche partecipate da privati, applicando, per la prima volta, i principi stabiliti dalla direttiva europea sugli appalti n. 24/2014, ancora non recepita in Italia, che allarga gli orizzonti sugli affidamenti diretti tra società pubbliche.

Specificamente, con il parere in questione, i Giudici di Palazzo Spada intervengono in materia di affidamento, in via diretta, al CINECA, organismo senza scopo di lucro, da parte del MIUR, di servizi informatici riguardanti il sistema universitario, della ricerca e scolastico.

Dunque, il quesito cui i Giudici del Consiglio di Stato sono stati sottoposti, riguarda la possibilità di affidamento “in house” di prestazioni di servizio nel campo dell’informatica per il sistema universitario, della ricerca e scolastico, da parte del Ministero dell’istruzione in via diretta al CINECA Consorzio Interuniversitario.

Si chiarisce che il CINECA, in cui sono consorziati non solo il Ministero richiedente, ma anche sessantanove università e due Enti pubblici di ricerca, realizza, sostanzialmente, dei sistemi gestionali e servizi che fungono da sostegno alle università nonché al Ministero suddetto.

Al fine di perseguire l’obiettivo de quo, l’Amministrazione deve osservare che l’organismo in house di una Pubblica Amministrazione corrisponda ad una figura che, seppur in parte distinta da un punto di vista soggettivo, presenti caratteristiche in grado di poterla qualificare come “derivazione”, ossia si tratta, nello specifico, di una figura incaricata di una gestione in qualche modo riconducibile allo stesso ente affidante o a sue articolazione, seguendo un sistema di organizzazione “meramente interno, qualificabile in termini di delegazione interorganica” (si consideri, a tal proposito, CdS, Ad. Plen., 3 marzo 2008, n. 1).

Inoltre, prima della verifica delle due note condizioni di ammissibilità degli affidamenti diretti “in house”, trattasi, com’è noto, del controllo analogo e dello svolgimento della parte più consistente dell’attività, la sussistenza di una relazione c.d. in house tra una P.A. e un organismo partecipato deve essere affermata solo quando il secondo sia stabilmente investito della capacità di svolgere le prestazioni che la prima intenda affidargli, dovendosi trattare di un organismo istituzionalmente qualificato come forma organizzativa “interna per lo svolgimento delle attività che la p.a. si proponga di attuare per il suo tramite”.

Nel caso analizzato, l’Amministrazione richiedente ritiene che il CINECA, partecipato dal MIUR, sebbene svolga la propria attività di servizio principalmente nel settore della istruzione superiore e della ricerca scientifica, possa essere comunque considerato istituzionalmente titolare della capacità di operare su incarico dello stesso Ministero anche nell’interesse del settore scolastico, e ciò in virtù del nuovo Statuto consortile del CINECA, approvato con D.M. 19 giugno 2012.

Alla luce di alcune valutazioni, i Giudici di Palazzo Spada, confermano che gli avvisi delle Autorità indipendenti, nonché del Ministero dell’Economia, riconoscono tutti la sussistenza dei due requisiti sopracitati al fine di ammettere l’affidamento diretto in house al Consorzio CINECA.

Nel caso de quo, infatti, sussiste il requisito del controllo analogo, esercitato sul Consorzio da parte del Ministero dell’istruzione, sia per effetto della partecipazione di quest’ultimo al capitale e agli organi direttivi dell’ente, sia per l’attribuzione di alcune specifiche prerogative, tra cui quella di approvare delle eventuali modifiche allo stato del CINECA medesimo, nonché il diritto di veto sulle più importanti deliberazioni del Consiglio consortile. 

In virtù di tutto quanto chiarito dal Consiglio di Stato, si puntualizza altresì che il modello accolto sia, sostanzialmente, quello, oggi codificato, della cooperazione pubblico/pubblico istituzionalizzata di tipo verticale, creato nella giurisprudenza comunitaria, con alcuni caratteri di quello della cooperazione pubblico/pubblico non istituzionalizzata di tipo orizzontale. GMC



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Inserito in data 05/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 febbraio 2015, n. 549

Sugli elementi costitutivi dell’azione di mobbing

La presente pronuncia, avente ad oggetto un ricorso presentato non verso specifici provvedimenti, ma genericamente contro un atteggiamento ostile dell’Amministrazione che, a parere del ricorrente, a causa sella sua protrazione, avrebbe comportato una sostanziale emarginazione da parte dell’Amministrazione di pubblica sicurezza o in un suo ingiustificato demansionamento.

Il Supremo Consesso, valutati gli atti di causa, ha ritenuto opportuno avallare la decisione espressa dal giudice di primo grado.

Più precisamente, dopo aver ricordato quali debbano essere considerati, secondo la giurisprudenza ormai consolidata, gli elementi dell’azione di mobbing, ne ha escluso la sussistenza nel caso de quo, attesa la mancanza di prove in tal senso (prove che, eventualmente, il ricorrente avrebbe potuto fornire con la contestazione dei vari provvedimenti aventi ad oggetto i suoi trasferimenti).

E’ stato, innanzitutto, rilevato che <<per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica e con l’ulteriore conseguenza che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo e, cioè, dell'intento persecutorio (Cons. St., sez. IV, 6 agosto 2013, n.4135; sez. VI, 12 marzo 2012, n.1388).

A ben vedere, tuttavia, i trasferimenti a carico del ricorrente sarebbero stati giustificati, sulla base delle risultanze probatorie fornite dalla Pubblica Amministrazione, sia dalla necessità di fornire un’organizzazione efficiente del servizio pubblico, sia di andare incontro alle problematiche di salute che hanno afflitto il ricorrente.

Non sembra, dunque, provato quell’intento soggettivo persecutorio e/o discriminatorio richiesto dalla norma incriminatrice risultando, di contro, un comportamento dell’amministrazione volto ad una corretta gestione del rapporto di lavoro, anche in considerazione delle varie problematiche di salute insorte negli anni. VA



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Inserito in data 04/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 febbraio 2015, n. 461

Sul principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare

L’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 163/2006, aggiunto dal d.l. 70/2011, introducendo nel sistema dei contratti pubblici il principio di tassatività della cause di esclusione, autorizza l’esclusione dalle procedura di gara soltanto in presenza: i) di una “causa normativa”, contemplata dalle singole disposizioni del decreto mediante la previsione espressa della esclusione o la loro formulazione in termine di divieto o di imposizione di adempimenti doverosi; ii) di una “causa amministrativa”, che rientri nell’ambito della fattispecie generali tassativamente indicate dallo stesso art. 46.

La sua ratio è di impedire, tra l’altro, l’adozione di atti basati su eccessi di formalismo in contrasto con il divieto di aggravamento degli oneri burocratici e con l’esigenza, nella prospettiva di tutelare la concorrenza, “di ridurre il peso degli oneri formali gravanti sui cittadini e sulle imprese”, riconoscendo giuridico rilievo “all’inosservanza di regole procedurali o formali solo in quanto questa impedisce il conseguimento del risultato verso cui l’azione amministrativa è diretta, atteso che la gara deve guardare alla qualità della dichiarazione piuttosto che all’esclusiva correttezza della sua esternazione” (Cons. Stato, ordinanza 2681/2013). CDC



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Inserito in data 03/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 febbraio 2015, n. 474

“Nuova costruzione” e repressione degli abusi edilizi

Con la sentenza in epigrafe, stante il disposto dell’art. 3, lett. E/5) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il Consiglio di Stato afferma che, “ai fini del rilascio del permesso di costruire, debba parlarsi di “nuova costruzione” in presenza di opere che comunque implichino una stabile -ancorché non irreversibile- trasformazione urbanistico -edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze del privato non precarie, ma destinate a prolungarsi nel tempo, sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile” (v., in tal senso, Cons. St. , sez. IV, n. 4214 del 2012, sez. VI, n. 986 del 2011 e sez. IV, n. 6615 del 2007).

Va, pertanto, demolita l’opera eseguita in assenza di titolo, a nulla rilevando che l'amministrazione abbia inizialmente avvantaggiato il privato ed abbia adottato “solamente a notevole distanza di tempo i provvedimenti repressivi dell'abuso non sanabile” (v. “ex plurimis”, Cons. St. , IV, 3182/2013, VI, 6072/2012 e IV, 4403 /2011, 79/2011, 5509/2009 e 2529/2004).

La repressione degli abusi edilizi, infatti, “è espressione di attività strettamente vincolata e non soggetta a termini di decadenza o di prescrizione”.

Né, d’altra parte, può ritenersi che la P.A. abbia ingenerato nel privato un affidamento, atteso che “la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem”.

In conclusione, i Giudici ritengono che “l’interesse del privato al mantenimento dell’opera abusiva è necessariamente recessivo rispetto all’interesse pubblico all’osservanza della normativa urbanistico –edilizia e al corretto governo del territorio”. EMF



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Inserito in data 03/02/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 29 gennaio 2015, n. 1674

E’ solidale la responsabilità dei condomini in materia di responsabilità per fatto illecito

La natura delle obbligazioni dei singoli condomini verso i terzi è stata oggetto, nel vigore della disciplina anteriore alla legge n. 220/12 (in vigore dal 18.6.2013), di un intervento delle Sezioni Unite, le quali con sentenza n. 9148/08, hanno affermato, “in rapporto a obbligazioni assunte dall'amministratore in rappresentanza del condominio nei confronti di terzi, che in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 c.c.”.

Ciò posto, deve rammentarsi che “in materia di responsabilità per fatto illecito l'espressa previsione della solidarietà passiva è contenuta nell'art. 2055, primo comma c.c., in base al quale se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”.

In tal senso, infatti, già il codice civile del 1865, ispirato al favor debitoris, impediva che il beneficio della parziarietà dell’obbligazione “potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno”.

Dal punto di vista sistematico, inoltre, solo i condomini “possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 c.c. (sui requisiti in generale della custodia ai fini dell'applicazione dell'art. 2051 c.c., cfr. Cass. S.U. n. 12019/91)”; di guisa che ciascuno di essi è ritenuto solidalmente responsabile (ex art. 2055, comma 1, c.c.) del risarcimento del danno da cosa in custodia di proprietà condominiale.

Peraltro, trattasi di ricostruzione avallata anche da precedenti pronunce della Suprema Corte (v., ex multis, Cass. n. 6665/09, Cass. n. 4797/01, Cass. n. 6405/90). EMF




Inserito in data 02/02/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 gennaio 2015, n. 319

Realizzazione di una tettoia abusiva: sanzione di competenza del Comune

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, con la sentenza in epigrafe, interviene in merito a un caso di realizzazione di una tettoia abusiva, respingendo l’appello indicato e confermando la sentenza impugnata.

Specificamente, nel caso de quo, un privato chiede la riforma della sentenza con la quale il TAR Lombardia ha respinto il ricorso proposto avverso una ordinanza del responsabile del servizio tecnico di un Comune, recante ingiunzione di demolizione della tettoia posta su di un lato di un edificio vincolato come bene culturale con decreto ministeriale del 16 giugno 1980 ai sensi della Legge 1 giugno 1939, n. 1089.

L’appellante dichiara che tale manufatto, costruito in materiale metallico e risalente ad un periodo anteriore al 1960, quindi senza che ne fosse necessario il previo assenso da parte del Comune, è da considerarsi compreso nel suddetto vincolo. Nel 2011, il Comune ha, tuttavia, comunicato a tutti i comproprietari del suddetto immobile, l’avvio del procedimento volto ad accertarne l’abusività, poiché costruito in assenza e/o difformità dai permessi rilasciati.

Successivamente, il Comune ha infatti riscontrato l’abusività dell’opera, ordinandone, posteriormente, la sospensione dei lavori, alla luce dell’art. 27, comma 3, d.P.R. 380 del 2001 e la demolizione ai sensi del successivo art. 31. La Soprintendenza, tenuta a fornire dei chiarimenti richiesti dal Comune medesimo, ha esposto che la tettoia de qua era “compresa nel perimetro del vincolo istituito con d.m. del 16 ottobre 1980”.

L’interessata, assumendo l’illegittimità della ordinanza di demolizione, ne ha chiesto l’annullamento al TAR Lombardia, il quale, tuttavia, ha respinto il ricorso “rilevando che l’epoca di realizzazione del manufatto non può essere fatta risalire a date anteriore al 1960, dato che le planimetrie allegate al decreto di vincolo non ne evidenziano l’esistenza, e che pertanto si rende applicabile ratione temporis l’art. 31, comma 1, della Legge n. 1150 del 1942”, secondo cui le nuove costruzioni devono essere assentite da previa licenza comunale.

Specificano i giudici di Palazzo Spada che “deve escludersi che il vincolo comprenda anche la tettoria, la cui realizzazione avrebbe presupposto il rilascio di apposita concessione edilizia: la mancanza del titolo autorizzatorio è stato, quindi, correttamente sanzionata dal Comune con l’applicazione dell’art. 31 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, applicabile a prescindere dal lasso di tempo trascorso dalla realizzazione del manufatto”.

Inoltre, “l’opera di cui trattasi deve essere qualificata quale nuova costruzione: questo Consiglio di Stato ha già osservato che, contrariamente a quanto pretende l’appellante, la realizzazione di una tettoia, anche se in aderenza ad un muro preesistente, non può essere considerata un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera b) del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto non consiste nella rinnovazione o nella sostituzione di un elemento architettonico, ma nell’aggiunta di un elemento strutturale dell'edificio, con modifica del prospetto (per tutte, sez. VI, 5 agosto 2013, n. 4086)”. Oltre a ciò, viene puntualizzato che “la sua costruzione, pertanto, necessita del previo rilascio di permesso di costruire, e non è assentibile mediante semplice denuncia di inizio di attività, anche attesa la perdurante modifica dello stato dei luoghi che produce sul tessuto urbano: la mancanza del previo assenso legittima, quindi, l’applicazione della sanzione demolitoria, che costituisce atto dovuto per l’Amministrazione comunale, a prescindere dal lasso di tempo intercorso dalla realizzazione abusiva (per tutte, Consiglio di Stato, sez. VI, 2 giugno 2000, n. 3184), soprattutto quando, come nel caso di specie, l’abuso incide su un immobile sottoposto a vincolo”.

Infine, quanto al potere di vigilanza, di cui all’art. 27 comma 1 del citato d.P.R. n. 380 del 2001, esso deve intendersi come potere di carattere generale, appartenente, come premesso, al Comune e riguardante l'intera attività edilizia sul territorio: “di conseguenza, non è fondata la pretesa esclusione della competenza comunale per effetto del comma 2 del medesimo art. 27, in favore di quella del Soprintendente laddove trattasi di abusi realizzati su immobili vincolati”. GMC



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Inserito in data 31/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE all’ADUNANZA PLENARIA 22 gennaio 2015, n. 284

Illegittimità del concorso: il GA può disporre solo il risarcimento? Rimessione all’AP

L’ordinanza ha rimesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la seguente questione: “se il giudice amministrativo – in base ai principi fondanti la giustizia amministrativa ovvero in applicazione dell’art. 34, comma 3, del c.p.a. - possa non disporre l’annullamento della graduatoria di un concorso, risultata illegittima per un vizio non imputabile ad alcun candidato, e disporre che al ricorrente spetti un risarcimento del danno (malgrado questi abbia chiesto soltanto l’annullamento degli atti risultati illegittimi), quando la pronuncia giurisdizionale – in materia di concorsi per l’instaurazione di rapporti di lavoro dipendente - sopraggiunga a distanza di moltissimi anni dalla approvazione della graduatoria e dalla nomina dei vincitori, e cioè quando questi abbiano consolidato le scelte di vita e l’annullamento comporti un impatto devastante sulla vita loro e delle loro famiglie”.

Ciò si fonda sul fatto che la giurisprudenza amministrativa più recente (in particolare, CdS 2755/2011) ha evidenziato che il giudice amministrativo potrebbe non disporre l’annullamento dell’atto illegittimo quando esso non comporta alcun beneficio per gli interessi pubblici né per il ricorrente.

Nello stesso senso depongono, inoltre, i principi di proporzionalità, equità e giustizia, dato che l’annullamento, in ipotesi come quella in esame, non comporterebbe l’attribuzione del bene della vita al ricorrente, ma la privazione del bene della vita ai controinteressati, con radicale e gravissimo sconvolgimento delle loro vite e delle loro famiglie.

Infine, si rileva che l’art. 34, comma 3, cpa non sembra ostacolare una pronuncia del giudice amministrativo che si limiti ad affermare l’illegittimità dell’atto, senza disporne l’annullamento, anche se non sia stata proposta domanda risarcitoria, quando il giudice ritenga che l’annullamento non sia altro che fonte di danno. CDC



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Inserito in data 29/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 27 gennaio 2015, n. 1451

Sul principio dell’apparenza del diritto

L’espressione “apparenza del diritto” tende a caratterizzare l’esistenza di un rapporto tra un fenomeno costituito da una situazione fattuale, presente con immediatezza, che segnala una determinata situazione giuridica facendola apparire come veritiera e reale ed una effettività giuridica di segno diverso e non corrispondente affatto al primo.

L’apparenza, differentemente dall’errore, da intendersi quale falsa rappresentazione della realtà che si crea in un soggetto, rappresenta una falsa segnalazione della realtà esteriore, idonea a far nascere un possibile errore “collettivo”.

In generale, l’apparenza di diritto costituisce, dunque, un elemento “elastico” di fattispecie poste a tutela e salvaguardia dei terzi; in tali casi, viene, dunque, rimesso all’autorità giudiziaria l’apprezzamento della sussistenza, in concreto, degli elementi in base ai quali la situazione di fatto, chiaramente ed oggettivamente ingannevole, può anche considerarsi fonte dell’errore scusabile in cui sia incorso un determinato soggetto.

È bene precisare, altresì, che se la situazione giuridica reale può dirsi riconoscibile, secondo un criterio di normalità, tale ultimo, importa l’esclusione della situazione di apparenza del diritto e, quindi, l’inescusabilità dell’errore in cui sia caduto un soggetto. Ciò vale, altresì, anche ad escludere la buona fede di quest’ultimo.

La Suprema Corte, con la pronuncia de qua, interviene in merito all’apparenza colpevole, chiarendo che trova applicazione anche nei confronti delle associazioni non riconosciute. Specificamente, i Giudici di Piazza Cavour chiariscono, alla luce dell’art. 38, primo comma, del codice civile, che il principio dell’apparenza del diritto, nella sua declinazione di apparenza colpevole, operante in materia di rappresentanza negoziale nei riguardi del rappresentato apparente nel concorso, necessario, “dell’esistenza di una situazione di fatto difforme da quella di diritto, della sussistenza della buona fede del terzo che abbia stipulato con il falso rappresentante, nonché della sussistenza di un comportamento colposo del rappresentato (oggettivamente idoneo ad ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente), trova applicazione anche nei confronti delle associazioni non riconosciute al fine di rendere le stesse obbligate in via principale, ai sensi dell'art. 38 cod. civ., per l'attività posta in essere da soggetto privo dei poteri rappresentativi dell'associazione stessa”.

Come anticipato, si precisa, altresì, che “il riscontro in concreto delle condizioni atte a dar luogo al fenomeno dell’ “apparenza colpevole” è accertamento di fatto riservato al giudice del merito, insindacabile in questa se non nei limiti del vizio denunciabile ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo applicabile ratione temporis)”. GMC




Inserito in data 28/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA INTERLOCUTORIA 22 gennaio 2015, n. 1184

Sulla nozione di “professionista” ai sensi dell’art. 2956 n. 2 c.c

La Seconda Sezione ha rinviato gli atti al Presidente della Corte di Cassazione affinché valuti l’opportunità di rimettere alle Sezioni Unite l’esatta individuazione dell’estensione del termine “professionista” ai fini dell’applicazione dell’art. 2956 n. 2 c.c.

La controversia esaminata, infatti, verteva sulla debenza di onorari dovuti a titolo di prestazione professionale. Più precisamente, trattandosi di attività volta alla tenuta della contabilità di alcune imprese (la quale, tuttavia, era stata esercitata in forma societaria e, dunque, asserendone la natura di contratto d’opera), si controverteva sull’applicabilità o meno dell’art. 2956 n. 2 e, dunque, sul decorso del termine prescrizionale abbreviato.

Gli Ermellini, infatti, ritengono che, venuti meno i limiti alla possibilità di esercizio delle professioni intellettuali anche in forma societaria, ivi incluse le professioni “protette”, occorra ridefinire l’ambito applicativo della norma in questione e, conseguentemente, valutare se la prescrizione presuntiva triennale possa essere invocata anche laddove l’attività prestata, pur se effettuata sotto la veste societaria, presenti i requisiti propri delle prestazioni intellettuali posto che <<la medesima disposizione non pone alcuna restrizione nell'interpretazione del termine professionista né, ovviamente, ne specifica il significato>> .

La Suprema Corte, pertanto, ritiene che <<alla luce del nuovo quadro normativo, infatti,che le sezioni unite riflettano sul se e sui margini in cui la nuova figura di professionista […] si riverberi sulla nozione di professionista di cui all'art. 2956, n. 2), c.c., […]se, dunque, nella categoria dei professionisti, i cui diritti per il compenso dell'opera prestata e per il rimborso delle spese correlative sono assoggettati a prescrizione presuntiva triennale dall'art. 2956, n. 2, c.c., vanno ricompresi soltanto coloro che esercitano una professione intellettuale di antica o di recente tradizione, nei cui confronti è ravvisabile il presupposto della prassi del pagamento senza dilazione per l'agevole determinabilità del credito ai sensi dell'art. 2233 c.c., sicché detta prescrizione non è applicabile al credito per il compenso nascente da un mero contratto d'opera; ovvero se, addirittura, si possa estendere la prescrizione presuntiva triennale di cui all'art. 2956, n. 2), c.c. anche ai crediti di qualsivoglia soggetto, pur costituito in forma societaria, esercente attività professionale "non protetta". VA




Inserito in data 28/01/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 27 gennaio 2015, n. 5

Inammissibilità del referendum abrogativo ed impossibilità di raggiungere lo scopo

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la richiesta di referendum abrogativo avente ad oggetto le norme che disciplinano, anche attraverso la soppressione di alcuni tribunali ordinari delle corrispondenti procure della Repubblica, nonché di sezioni distaccate di tribunali ordinari, il nuovo assetto organizzativo degli stessi e degli uffici del pubblico ministero previste dai decreti legislativi 155/ 2012 e 14/2014.

La decisione della Corte di legittimità è stata argomentata con riguardo all’effettivo scopo cui il referendum abrogativo tendeva (che può essere facilmente desunto, anche laddove non palesato in modo espresso, dai quesiti proposti).

A ben vedere, infatti, le tre richieste di referendum sono erano volte a far rivivere, in tutto o in parte, le disposizioni che prevedevano gli uffici giudiziari soppressi ed i relativi circondari.

La sentenza in commento, tuttavia, ricorda come lo strumento referendario non sia idoneo al perseguimento di tale scopo. Invero, come già precedentemente affermato dalla stessa Corte con la precedente sentenza n. 12 del 2014 del 2014 «l’abrogazione, a séguito dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria, di una disposizione abrogativa è […] inidonea a rendere nuovamente operanti norme che, in virtù di quest’ultima, sono già state espunte dall’ordinamento (…), La volontà di far “rivivere” norme precedentemente abrogate […] non può essere attribuita, nemmeno in via presuntiva, al referendum, che ha carattere esclusivamente abrogativo […] e non può “direttamente costruire” una (nuova o vecchia) normativa (C.Cost. 34 e 33/2000)>>, assumendo, altrimenti, carattere deliberativo.

Ne consegue che, stante l’impossibilità di conseguire lo scopo proprio del referendum sì come proposto, l’eventuale ammissione dello stesso comporterebbe un’espressione del voto viziata dalla prospettazione di una soluzione errata ed impossibile da raggiungere attraverso l’esperimento di tale via. VA



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Inserito in data 26/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE, QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 21 gennaio 2015, n. 2768

Sulla nozione di “privata dimora” nella fattispecie di furto in abitazione

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di Legittimità, “la nozione di "privata dimora" nella fattispecie di furto in abitazione è più ampia di quella di "abitazione", in quanto va riferita al luogo nel quale la persona compia, anche in modo transitorio e contingente, atti della vita privata” (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010 - dep. 03/08/2010, Cirlincione, Rv. 247765).

Infatti, la Suprema Corte ha affermato che «l'ipotesi di reato delineata dall'art. 624 bis c.p. (introdotto dalla L. n. 128 del 2001, art. 2), in tema di furto in abitazione, esplicitamente ha ampliato la portata della previsione, così da comprendere in essa tutti quei luoghi nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata: studi professionali, stabilimenti industriali, esercizi commerciali (Cass. 17-9-2003 n. 43671; Cass. 26-2-2003 n 18810; Cass. 18-9-2007 n. 43089). In particolare, tra gli elementi innovativi della fattispecie figura l'indicazione del locus nel quale è necessario che l'agente s'introduca al fine della commissione del reato: la formulazione previgente incentrata sul luogo destinato ad abitazione è stata sostituita dal riferimento all'edificio o ad altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora ed alle pertinenze di esso. Il dettato normativo, confermando l'orientamento giurisprudenziale incline ad una interpretazione estensiva dei concetto di abitazione, ha esteso l'ambito di operatività della figura criminosa allineandola, sotto questo profilo, al delitto di violazione di domicilio di cui all'art. 614 c.p.» (Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009 - dep. 25/09/2009, Apprezzo, Rv. 244980). EMF




Inserito in data 26/01/2015
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 gennaio 2015, n. 1

Processo minorile e composizione dell’organo Giudicante

Con la pronuncia in esame, la Consulta “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 458 del codice di procedura penale e dell’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988,    n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), nella parte in cui prevedono che, nel processo minorile, nel caso di giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato, la composizione dell’organo giudicante sia quella monocratica del giudice per le indagini preliminari e non quella collegiale prevista dall’art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario)”.

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare, infatti, come il principio costituzionale espresso dall’art. 31, secondo comma, Cost., “richieda l’adozione di un sistema di giustizia minorile caratterizzato dalla specializzazione del giudice, dalla prevalente esigenza rieducativa, nonché dalla necessità di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante (v. sentenza n. 222 del 1983)» (sentenza n. 143 del 1996).

Invero, il Tribunale per i minorenni “fu istituito proprio perché si ritenne che il minore, spesso portato al delitto da complesse carenze di personalità dovute a fattori familiari, ambientali e sociali, dovesse essere valutato da giudici specializzati che avessero strumenti tecnici e capacità personali particolari per vagliare adeguatamente la personalità del minore al fine di individuare il trattamento rieducativo più appropriato" (sentenza n. 222 del 1983); di guisa che l’interesse del minore «trova adeguata tutela proprio nella particolare composizione del giudice specializzato (magistrati ed esperti)» (sentenza n. 310 del 2008).

La suddetta composizione è stata opportunamente prevista anche per il Giudice dell’udienza preliminare, formato «da un magistrato e da due giudici onorari, un uomo e una donna» (art. 50-bis, comma 2, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 – Ordinamento giudiziario).

Alla luce di quanto suddetto, fondatamente “il giudice rimettente ha dedotto la violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., per la struttura monocratica, anziché collegiale, del giudice del giudizio abbreviato richiesto dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato. La sua funzione è uguale a quella svolta dal giudice collegiale dell’udienza preliminare, sicché la diversa composizione dell’organo giudicante è priva di ragioni che possano giustificare il sacrificio dell’interesse del minore, la cui tutela è affidata di norma alla struttura collegiale di tale organo. Questa composizione dipende infatti da mere evenienze processuali e soprattutto dalla determinazione discrezionale del pubblico ministero di esercitare l’azione penale con la richiesta di giudizio immediato, anziché con la richiesta di rinvio a giudizio”.

Del resto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sostenuto che «Nel processo penale a carico di imputati minorenni la competenza per il giudizio abbreviato, sia esso instaurato nell’ambito dell’udienza preliminare o a seguito di decreto di giudizio immediato, spetta al giudice nella composizione collegiale prevista dall’art.  50-bis, comma 2, dell’ordinamento giudiziario» (Cassazione, sezioni unite penali, 27 febbraio 2014, n. 18292). EMF



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Inserito in data 24/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 19 gennaio 2015, n. 735

Occupazione acquisitiva: illecito spossessamento del privato da parte della P.A.

Ripercorrendo gli orientamenti succeduti nel tempo e, specificamente, nella giurisprudenza di legittimità degli anni Ottanta e Novanta, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la pronuncia de qua, interviene in merito ad un caso di occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa), chiarendo che l’illecito spossessamento del privato, da parte della Pubblica Amministrazione, e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, sebbene vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione ed il privato ha diritto a chiederne la restituzione, tranne nel caso in cui non decida di abdicare al suo diritto, chiedendo il risarcimento del danno.

I Giudici di Piazza Cavour sottolineano, anzitutto, che l’occupazione acquisitiva rappresenta un istituto di “creazione giurisprudenziale”, risalente, come premesso, alla sentenza della Corte di legittimità, a Sezioni Unite, n. 1464 del 1983, nonché n. 3243 del 1979, tracciandone, in tal modo, il profilo storico.

La sentenza del 1983, chiariscono i Giudici della Suprema Corte, affronta il caso, non previsto dalla legge, di un’occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità. Essa ha, dunque, così come viene precisato nella pronuncia de qua, rappresentato “il frutto della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino all’entrata in vigore del comma 7 bis dell’art. 5 bis del d.l. n. 333/1992, del valore venale del bene)”. Merito di tale sentenza è, inoltre, quello d’aver segnato, definitivamente, il superamento del precedente orientamento vigente, in base al quale il privato restava proprietario del bene occupato, avendo diritto esclusivamente al risarcimento del danno determinato dalla perdita di utilità ricavabile dalla cosa, restando soggetto alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione, idoneo a porre la fattispecie su un piano di legittimità, mediante l’attribuzione di un indennizzo.

La giurisprudenza successiva agli anni Ottanta, s’è dovuta occupare, inoltre, del problema del contrasto dell’istituto della occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, orientandosi, in seguito, non già verso il completo abbandono dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, bensì verso la ricerca del superamento dei punti di criticità della disciplina dell’istituto rispetto ai principi affermati dalla CEDU.

Specificamente, la Corte EDU ha censurato le forme di “espropriazione indiretta”, così come elaborate nell’ordinamento italiano in sede giurisprudenziale, configurandole come “illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo”, garantito dall’art. 1 sopracitato. In tale contesto, nessuna rilevanza assume in contrario, altresì, il dato fattuale della intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermandosi che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire ad un illecito (si consideri, in proposito, la sentenza Scordino c. Italia, 15 e 29 luglio 2004).

A detta dei Giudici di Piazza Cavour, il contrasto dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, è sufficiente ad escluderne la sopravvivenza nel nostro ordinamento giuridico, precisandosi che la sussistenza del contrasto in parola è stata già riconosciuto con le ordinanze nn. 441 e 442 del 13 gennaio 2014, con le quali è stata ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 42 bis del d.p.r. n. 327/2001, in relazione agli artt. 3, 25, 42, 97 111 e 117 della Carta costituzionale, anche alla luce dell’art. 6 e dell’art. 1 del protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Dunque, secondo la Corte di legittimità, in virtù di quanto esposto, “occorre stabilire, da un lato, se l'interpretazione della giurisprudenza sulle conseguenze dell'illecita utilizzazione sia o meno la sola consentita dal sistema e, dall'altro, se le norme che hanno dato 'copertura' all'istituto possano o meno essere 'sganciate' da questo ed essere oggetto di una diversa interpretazione”. Orbene, al primo interrogativo deve darsi risposta positiva poiché la c.d. accessione invertita rappresenta “una eccezione rispetto alla normale disciplina degli effetti di una occupazione illegittima cui consegue ordinariamente il diritto del soggetto spossessato di richiedere la restituzione”. Tale eccezione, inoltre, si fondava sulla esistenza, affermata in via interpretativa, di un principio generale, del quale sarebbero stati espressione gli artt. 936 ss. cod. civ. Con specifico riferimento al secondo interrogativo, devono prendersi in considerazione le disposizioni di cui all’art. 3, comma 1, legge n. 458 del 1988, il quale, escludendo la retrocessione e, dunque, la restituzione, presuppone che alla trasformazione irreversibile dell’area consegua necessariamente l’acquisto della stessa da parte di chi ha realizzato le opere, sebbene la disposizione non abbia carattere generale poiché è limitata alla utilizzazione dei suoli per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, l’art. 11, commi 5 e 7 della legge n. 413 del 1991, art. 5 bis, comma 7 bis, del d.l. n. 333/1992 nonché art. 55, comma 1, del d.p.r. n. 327 del 2001.

Tutto ciò chiarito, la costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, chiarisce che quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l'occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato, da parte dell'Amministrazione, si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, “che determina non il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni”. In particolare, la Corte chiarisce che “con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell'occupazione acquisitiva, viene meno la configurabilità dell'illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente”. Alla luce di ciò, deve escludersi che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell'immobile rimasto nella sua titolarità, infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l'opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato.

Concludendo, il privato, avrà diritto, dunque, al risarcimento dei danni per il periodo, non coperto dall'eventuale occupazione legittima, durante il quale ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal terreno e ciò sino al momento della restituzione, ovvero sino al momento in cui ha chiesto il risarcimento del danno per equivalente, a ciò conseguendone che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente. GMC

 

 

 




Inserito in data 24/01/2015
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, 19 gennaio 2015, n. 163

Competenza del Consiglio comunale in tema di farmacie

Il TAR Catania, con la pronuncia de qua, interviene in merito alla competenza del Consiglio comunale in tema di attività di programmazione e pianificazione rivolta all’individuazione e localizzazione di nuove sedi farmaceutiche in città.

Nel caso de quo, viene chiarito che è illegittima la proposta di istituzione della nuova sede farmaceutica proveniente dal Sindaco e non dall’organo a ciò deputato alla luce dell’art. 32 della legge n. 142 del 1990, come recepita in Sicilia, ossia il Consiglio comunale, quale unico organo titolare della potestà di programmazione e pianificazione in tema di pubblici servizi.

La censura de qua, precisa altresì il Tribunale, riveste carattere assorbente rispetto alle restanti doglianze, precisandosi che “è principio generale del processo amministrativo che l’accoglimento di un vizio motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è, intrinsecamente e necessariamente, assorbente di ogni altro vizio motivo dedotto nel ricorso; giacché tale vizio accolto inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (o, se si tratti di un collegio, da quello correttamente costituito), e ciò, ovviamente, senza che la successiva attività, cognitiva e valutativa, di quest’ultimo possa in alcun modo risultare pregiudicata da quella in precedenza svolta dall’organo incompetente”.

Tale principio, inoltre, così come i Giudici di merito puntualizzano, ha trovato un espresso riconoscimento nell’art. 34, comma 2, I periodo, c.p.a., secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. GMC



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Inserito in data 22/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 gennaio 2015, n. 277

Legittimità dell’avvalimento frazionato anche in caso di appalti di servizi

La pronuncia conferma la legittimità del c.d. avvalimento frazionato ai sensi dell’art. 49 d.lgs. 163/2006, già ammesso dalla sentenza della Corte di Giustizia del 10 ottobre 2013, secondo la quale

“la direttiva 2004/18 consente il cumulo delle capacità di più operatori economici per soddisfare i requisiti minimi di capacità imposti dall’amministrazione aggiudicatrice, purché alla stessa si dimostri che il candidato o l’offerente che si avvale delle capacità di uno o di svariati altri soggetti disporrà effettivamente dei mezzi di questi ultimi che sono necessari all’esecuzione dell’appalto”.

Tale principio, benché espresso in relazione ad un appalto di lavori, ha efficacia, secondo la sentenza del Consiglio di Stato in esame, anche in caso di appalti di servizi. Si tratta, infatti, di un principio di carattere generale, espresso da una direttiva destinata a disciplinare non solo gli appalti di lavori, ma anche quelli di servizi e forniture. CDC



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Inserito in data 22/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 gennaio 2015, n. 285

Principi generali in tema di danno da mancata aggiudicazione di una gara

In tema di danno da mancata aggiudicazione di una gara d’appalto, spetta all'impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cpa).

Ne segue che il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cc, è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità - o di estrema difficoltà - di una precisa prova sull'ammontare del danno. Inoltre, le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente in caso di consulenza tecnica d'ufficio "percipiente", giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti.

Tuttavia, la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit, purché gli indizi prescelti siano dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza.

Infine, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione. In assenza di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum. CDC



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Inserito in data 21/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 16 gennaio 2015, n. 88

Sulla mancata indicazione degli oneri di sicurezza interni o aziendali

Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità dell’atto di esclusione da una gara di appalto per mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali all’interno dell’offerta economica, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla corretta interpretazione dell’art. 87 comma 4 del codice dei contratti pubblici, ha ritenuto opportuno rimettere all’Adunanza Plenaria la definizione della suddetta questione pregiudiziale.

Il Consiglio di Stato ha preso atto dell’esistenza di due tipologie di costi relativi alla sicurezza: i costi c.d. da interferenze e quelli interni o aziendali.

I primi attengono ai rischi che possano derivare dal contatto tra il personale del committente e dell’appaltatore o tra imprese diverse che, pur legate da contratti differenti, operano nella medesima sede aziendale, sono quantificati a monte dalla stazione appaltante e non sono soggetti a ribasso. Gli oneri di sicurezza interni o aziendali, invece, sono propri di ciascuna impresa e concernono i rischi legato alla realizzazione dello specifico appalto (documento di valutazione dei rischi).

Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che gli oneri di sicurezza da valutare ai fini della valutazione di congruità delle offerte da parte della stazione appaltante non possono che essere gli oneri di sicurezza aziendale, trattandosi di costi che dipendono da valutazioni soggettive e che possono variare a seconda dell’impresa.

L’art. 87 comma 4 del Codice degli Appalti, peraltro, presenta una formulazione ambigua: nel primo periodo, riferendolo a tutti gli appalti indistintamente, ribadisce la loro intangibilità al ribasso, ancorandoli al piano di sicurezza e coordinamento; nel secondo periodo, invece, prescrive l’indicazione specifica dei costi di sicurezza ed il requisito della congruità, ma facendo riferimento ai soli appalti di servizi e forniture.

L’incertezza del dato normativo ha dato vita a due diversi filoni interpretativi. Secondo la lettura più estensiva della norma la ratio a questa sottesa, che <<impone ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, risponde a finalità di tutela della sicurezza dei i lavoratori e, quindi, a valori sociali e di rilievo costituzionale che assumono rilievo anche nel settore dei lavori pubblici>>. Ne conseguirebbe la necessaria applicazione all’intero settore degli appalti pubblici. Questa interpretazione, secondo questo primo indirizzo giurisprudenziale, sarebbe sorretta anche dalla collocazione sistematica della norma che è stata inserita nella parte del Codice dedicata ai “Contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (C.d.S 5421/11; 3929/13). Al suddetto obbligo di indicazione, inoltre, viene attribuita la natura di obbligo legale risultando, peraltro, irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non lo richieda espressamente.

Questo orientamento giurisprudenziale è stato messo in dubbio dalla più recente giurisprudenza amministrativa (si veda C.d.S 2343/14; 4964/13).

Secondo questa nuova interpretazione la norma dovrebbe applicarsi esclusivamente agli appalti di servizi o di forniture <<in ragione della “speciale disciplina normativa riservata agli appalti di lavori, che appunto si connota per l’analisi preventiva dei costi della sicurezza aziendale, che sua vota si spiega alla luce della maggiore rischiosità insita nella predisposizione di cantieri>>. Per i lavori, dunque, la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici, pur rimanendo in essere l’obbligo di valutazione dell’offerta, anche rispetto al costo della sicurezza, in virtù dell’art. 86 comma 3 bis del Codice dei contratti pubblici.

Rilevato il suddetto contrasto interpretativo il Supremo Consesso ha ragionevolmente rimesso all’Adunanza Plenaria la soluzione della questione relativa alla possibile estensione dell’articolo 87, comma 4, del codice dei contratti pubblici anche ai contratti relativi a lavori pubblici ed alla necessaria previsione delle sanzione di esclusione, in caso di violazione dell’obbligo di specificazione dei suddetti oneri da parte della legge di gara. VA



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Inserito in data 21/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 gennaio 2015, n. 118

Sulle misure interdittive antimafia

Il Supremo Consesso, tornato a pronunciarsi sulle informative antimafia, ha accolto l’appello proposto avverso alcune informative aventi carattere interdittivo, risultando sproporzionato il mezzo di tutela dell’interesse pubblico, tenuto conto dell’elevazione della soglia di prevenzione, in mancanza di elementi significativi da cui possa ricavarsi l’esistenza dei presupposti.

Con questa pronuncia il Collegio, infatti, ha ricordato che il pericolo di infiltrazione mafiosa non può desumersi automaticamente dall’esistenza di un rapporto di parentela con soggetti appartenenti alla criminalità organizzata, ma deve essere supportato da elementi ulteriori che facciano presagire un condizionamento ed una contiguità con interessi malavitosi.

Invero <<è stato affermato in giurisprudenza che l'eventuale attività pregiudizievole posta in essere da un genitore o da un figlio non può riverberarsi automaticamente sull'attività imprenditoriale di soggetti legati da rapporto di parentela che, senza loro colpa, verrebbero relegati nell'impossibilità di svolgere attività lecite e costituzionalmente tutelate>>.

Per considerare esistente un pericolo di condizionamento mafioso, inoltre, non può considerarsi sufficiente l’esistenza di rapporti di vicinanza con soggetti pregiudicati, dovendosi trattare più specificatamente di precedenti afferenti reati di criminalità organizzata,  e deve presentare il carattere dell’attualità. VA



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Inserito in data 20/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 gennaio 2015, n. 166

Principi generali in tema di accesso agli atti amministrativi

La forma privatistica dell’ente pubblico non è di ostacolo al riconoscimento della legittimazione passiva in capo a quest’ultimo. Ne segue che ricade nell’ambito soggettivo della nozione di PA di cui all’art. 22, l. 241/90, anche una società per azioni interamente partecipata dal Comune, che gestisce un servizio pubblico locale nelle forme del fenomeno dell’in house.

Per documento amministrativo deve intendersi, ex art. 22, comma 1, lett. d), l. 241/90, non solo l’atto prodotto dalla PA, ma anche quello semplicemente detenuto da quest’ultima, purché faccia riferimento ad un’attività di pubblico interesse.

L'istanza di accesso deve essere sorretta da un interesse giuridicamente rilevante, cioè serio, effettivo, autonomo, non emulativo, non riducibile a mera curiosità e ricollegabile all'istante da uno specifico nesso. Tale è, sicuramente, l’interesse alla tutela giurisdizionale, che prevale su quello alla riservatezza dei terzi.

La PA (o il soggetto ad essa equiparato), in sede di esame di una domanda d’accesso, è tenuta solo a valutare l’inerenza del documento richiesto con l’interesse palesato dall’istante, e non anche l’utilità del documento al fine del soddisfacimento della pretesa correlata. Dunque, non può essere essere operato alcun apprezzamento in ordine alla fondatezza o ammissibilità della domanda giudiziale che gli interessati potrebbero eventualmente proporre sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso. CDC



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Inserito in data 20/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 gennaio 2015, n. 2334

Confisca e tutela dei terzi in buona fede ex art. 52 codice antimafia

Secondo l’art. 52 d.lgs. 152/2011 (c.d. codice antimafia), la confisca non pregiudica i diritti reali di garanzia dei terzi, costituiti in epoca anteriore, purché sussistano alcune condizioni, tra cui quella che il credito non risulti strumentale all’attività illecita.

È comunque possibile che il creditore sia ammesso a dimostrare di avere ignorato in buona fede il nesso di strumentalità. La buona fede del terzo sussiste non solo quando risulti la sua estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa, ma anche laddove emerga una credibile inconsapevolezza delle attività svolte dal prevenuto. La buona fede deve comunque essere immune da colpa: tale indagine deve compiersi caso per caso, con riferimento alla ragionevolezza dell’affidamento, che non può essere invocato da chi versi in una situazione di negligenza, per aver notevolmente trascurato obblighi di legge o per non aver osservato comuni norme di prudenza attraverso cui accertarsi della realtà delle cose. CDC




Inserito in data 19/01/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I, 12 gennaio 2015, n. 94

Sul danno da ritardo della Pubblica Amministrazione

Con la sentenza in esame, i Giudici di Milano precisano che “il danno da ritardo (riferito cioè alla tardiva adozione del provvedimento ampliativo spettante) consegue all’inadempimento dell’obbligo (legale) preesistente di concludere il procedimento amministrativo nei termini prefissati. L’interesse giuridicamente protetto è qui l’aspettativa della utilità incrementali attese per via della positiva conclusione del procedimento, e non la generica reintegrazione “del tempo”, il quale non costituisce (sul versate civilistico) un autonomo “bene della vita” (come ritiene la giurisprudenza che riconduce la fattispecie nell’alveo dell’art. 2043 c.c.: cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 4 settembre 2013 n. 4452; Consiglio di Stato, sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271), bensì rappresenta il presupposto (empirico) per lo sfruttamento delle possibilità acquisitive conseguibili con il proprio agire lecito”.

Invero, “l’istituto intende porre l’amministrato (tramite la compensazione economica della aspettativa non realizzata) nella stessa situazione in cui questi si sarebbe trovato se la l’azione amministrativa fosse stata tempestivamente portata a compimento, distinguendosi dall’illecito aquiliano che si muove invece nell’orbita della salvaguardia dello status quo ante (ripristino dell’integrità patrimoniale e riparazione del danno alla persona)”.

Il rimedio, in definitiva, “per affinità funzionale, appare classificabile nell’alveo della responsabilità contrattuale (sia pure connotata da una disciplina meno favorevole per l’avente diritto, dettandosi un termine prescrizionale più breve)”.

Ne consegue che “l’antigiuridicità della condotta è di per sé qualificata dalla violazione del termine legale, laddove il riferimento alla “ingiustizia” (pure contenuto nell’art. 2 bis della legge 241/1990) è una mera superfetazione, in quanto non costituisce un ulteriore elemento esplicativo della fattispecie risarcitoria”.

Tale conclusione “non è contraddetta dalla considerazione per cui non sarebbe sufficiente, ai fini della risarcimento, il mero superamento del termine di conclusione del procedimento, occorrendo provare l’effettivo nocumento patito; ciò, infatti, attiene alla selezione del danno risarcibile e non alla ingiustizia della lesione”.

Peraltro, il danno da ritardo “non è cumulabile con il danno da mera ”incertezza” (derivante cioè dalla semplice attesa di conoscere l’esito dell’istanza), integrando essi fattispecie del tutto alternative. Il primo è, come si è visto, connesso alla aspettativa di utilità conseguibile tramite l’ottenimento dell’autorizzazione (interesse positivo); il secondo è riferito al pregiudizio derivante dalla lesione dell’affidamento qualificato del cittadino a non essere coinvolto nelle ingiustificate lungaggini procedimentali della pubblica amministrazione (interesse negativo)”. EMF



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Inserito in data 19/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 gennaio 2015, n. 60

Sulla concessione della cittadinanza italiana

Per i Giudici di Palazzo Spada “è opinione comunemente condivisa, anche in base a giurisprudenza consolidata, che la concessione della cittadinanza italiana sia un atto connotato da una discrezionalità quanto mai estesa”, con l’eccezione di alcune ipotesi particolari.

Ciò vale, in particolare, “per l’ipotesi di cui alla legge n. 91/1992, articolo 9, comma 1, lettera (f), ossia quella dello straniero che risiede legalmente in Italia da almeno dieci anni”.

E’ pacifico, infatti, che “la lunga durata della residenza, prevista dalla norma in esame, sia solo il requisito di base, ossia una condicio sine qua non, che non esonera dall’accertamento di ulteriori condizioni valutabili discrezionalmente, fra le quali l’effettivo e proficuo inserimento del soggetto nella comunità nazionale e l’autosufficienza economica”. EMF



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Inserito in data 16/01/2015
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 5 gennaio 2015, n. 8

Principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare

Con la pronuncia in epigrafe, il Tar Lecce ha chiarito che il principio di tassatività delle cause di esclusione, di cui all’art. 46, comma 1bis del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), si applica anche alle concessioni di servizi.

Invero, l’unico parametro utilizzabile al fine di valutare la legittimità delle ammissioni e delle esclusioni dalle procedure selettive pubbliche è dato dall’articolo suddetto.

Specificamente, il principio di tassatività delle cause di esclusione, come anticipato, deve essere applicato anche alle concessioni di servizi di cui all’art. 30 del Codice Appalti.

Esso, infatti, rappresenta un principio fondamentale generale relativo ai contratti pubblici e costituisce, inoltre, specificazione dei principi di massima partecipazione e di proporzionalità.

L’applicabilità dello stesso, alla materia delle concessioni, è garantito dal comma 3 dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici e se così non fosse potrebbe giungersi ad un’ingiustificata diversità di regimi da rispettare nelle gare per l’affidamento di appalti e in quelle per l’affidamento di concessioni di servizi.

Occorre sottolineare altresì che la giurisprudenza ha sottolineato che l’art. 46 in questione “ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione”.

Oltre a ciò, si chiarisce che “le norme che disciplinano i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare pubbliche vanno interpretate nel rispetto dei principi di tipicità e tassatività delle ipotesi di esclusione. Questo orientamento ha recentemente trovato una puntuale traduzione normativa con il nuovo c. 1bis dell’art. 46 d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, introdotto dall’art. 4 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70”.

Alla luce di quanto evidenziato, l’esclusione sarà assolutamente legittima in quanto trovi copertura nell’art. 46 sopracitato, sarà, invece, illegittima tutte le volte in cui non trovi fondamento nella norma esposta ed anche quando illegittimamente prevista nella lex specilis sia affetta da nullità testuale e parziale. GMC



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Inserito in data 16/01/2015
TAR CAMPANIA – SALERNO, SEZ. I, 9 gennaio 2015, n. 54

Gestori del servizio pubblico: sussiste giurisdizione del G.O.

Il TAR Salerno, con la pronuncia de qua, chiarisce che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario per la controversia proposta contro il soggetto gestore del servizio pubblico di trasporto pubblico per violazione degli obblighi di prestazione connessi con il servizio medesimo.

Viene chiarito che la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se in essa la Pubblica Amministrazione agisca esercitando il suo potere autoritativo, ovvero se si avvale della facoltà, ad essa dalla legge riconosciuta, di adottare strumenti negoziali in luogo del potere autoritativo.

Invero, nei rapporti tra l’utente e l’Amministrazione tenuta alla vigilanza “non sono neppure astrattamente configurabili situazioni di interesse legittimo e manca, quindi, il presupposto perché le controversie ad essi relative possano essere devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.

La vigilanza, a cui l’Amministrazione pubblica è tenuta, si esplica mediante l’esercizio di una serie di poteri nei confronti dei soggetti gestori, diretti ad assicurare che i loro comportamenti siano ispirati a correttezza, trasparenza ed imparzialità.

Specificamente, la posizione assunta da tali soggetti rispetto all’Amministrazione, talora si concreta in situazioni di interesse legittimo, correlate all’esercizio dei poteri di vigilanza, altre volte, invece, si manifesta in diritti soggettivi inerenti allo svolgimento del rapporto derivante dalla convenzione di servizio stipulata.

Quanto, invece, alla posizione rivestita dagli utenti del servizio su cui l’Amministrazione non esercita alcun potere (essendo, tuttavia, tenuta essa stessa alla loro tutela), essa assume la consistenza di un diritto soggettivo, il quale dovrà essere,  nei casi di violazione, tutelato innanzi al giudice ordinario e non già al giudice amministrativo.

Alla luce di quanto chiarito dal TAR, sarà, dunque, devoluta al giudice ordinario la controversia proposta contro il soggetto gestore del servizio pubblico di trasporto pubblico in tutti i casi di violazione degli obblighi di prestazione connessi con il servizio e derivanti dall’acquisto di un abbonamento (o di un biglietto) da parte degli utenti medesimi. GMC



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Inserito in data 15/01/2015
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I, 14 gennaio 2015, n. 55

Sulla liberalizzazione del servizio taxi da e per gli aeroporti

L’attenzione del Collegio bresciano si concentra sull’art. 14 del d. lgs. 422/1997, che “liberalizza, se pure in modo non assoluto, il servizio taxi da e per gli aeroporti, eliminando la rendita di posizione di cui sino a quel momento fruivano gli operatori autorizzati dal Comune in cui l’aeroporto si trova”.

In particolare, la logica della norma de qua si spiega “ricordando che gli aeroporti vengono localizzati in base a ragioni più spesso tecniche, ma talora anche storiche, le quali nulla hanno a che vedere con l’importanza del Comune che li ospita. Poteva quindi accadere, ed accadeva, che la competenza ad assicurare il servizio taxi fosse determinata in modo del tutto casuale, e non coerente con le necessarie ragioni di efficienza”.

Ciò posto, i Giudici ritengono che essa abbia efficacia immediata (e non subordinata al futuro ed eventuale perfezionamento dell’intesa), atteso che, “fra due interpretazioni ugualmente possibili, si debba preferire quella che consente una maggior liberalizzazione dell’attività economica”.

Il recente “decreto liberalizzazioni”, ovvero il d.l. 24 gennaio 2012 n°1 convertito nella l. 24 marzo 2012 n°27, in dichiarata attuazione di principi europei e costituzionali, dispone, infatti, all’art. 1 comma 2 che “Le disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri o condizioni all'accesso ed all'esercizio delle attività economiche sono in ogni caso interpretate ed applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato alle perseguite finalità di interesse pubblico generale, alla stregua dei principi costituzionali per i quali l'iniziativa economica privata è libera secondo condizioni di piena concorrenza e pari opportunità tra tutti i soggetti, presenti e futuri, ed ammette solo i limiti, i programmi e i controlli necessari ad evitare possibili danni alla salute, all'ambiente, al paesaggio, al patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla liberta', alla dignita' umana e possibili contrasti con l'utilità sociale, con l'ordine pubblico, con il sistema tributario e con gli obblighi comunitari ed internazionali della Repubblica”. EMF



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Inserito in data 15/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 14 gennaio 2015, n. 467

Sulla prova della speciale nocività dell’ambiente di lavoro

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte sostiene che “in tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità” (v. anche Cass. 8 maggio 2013, n. 10818). EMF




Inserito in data 14/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 gennaio 2015, n. 52

Natura degli atti del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e poteri della PA

La sentenza affronta le due questioni, fra loro collegate, della natura giuridica degli atti adottati dal commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e della possibilità per la PA commissariata di modificare detti atti.

Quanto al primo tema, è ormai pacifico in giurisprudenza che il commissario ad acta sia un ausiliario del giudice. Ne segue che i suoi provvedimenti sono adottati esclusivamente in funzione dell’esecuzione del giudicato, sono immediatamente esecutivi e non sono soggetti al regime dei controlli degli atti della PA, ma sono sottoposti solo al controllo del giudice dell’ottemperanza.

Ciò è confermato dall’art. 114, comma 6, cpa (come modificato dal d.lgs. 195/2011), il quale dispone che le parti propongono reclamo avverso gli atti del commissario ad acta dinanzi al giudice dell’ottemperanza. Tale norma fa eccezione solo per i terzi estranei al giudicato, i quali possono impugnare gli atti emanati dal giudice dell’ottemperanza o dal commissario ad acta ai sensi dell’art. 29 cpa, con il rito ordinario.

Da ciò consegue che, per la PA commissariata, non è più possibile modificare gli atti del commissario ad acta, per tre ordini di ragioni. Anzitutto, il commissario ad acta, come si è detto, non è organo della PA commissariata, ma longa manus del giudice. Inoltre, nel giudizio di ottemperanza viene in rilievo una giurisdizione di merito, nella quale il giudice si sostituisce alla PA, tenuta a conformarsi in tutto e per tutto alle determinazioni del giudice e, conseguentemente, del commissario ad acta. Infine, dall’art. 117, comma 4, cpa (secondo il quale il giudice conosce di tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto, comprese quelle inerenti agli atti del commissario) consegue che la PA non ha alcuna discrezionalità nel dare attuazione a quanto stabilito dal commissario ad acta; piuttosto, essa conserva solo la facoltà di sollecitare l’intervento del giudice qualora sorgano dubbi interpretativi sulla portata applicativa del provvedimento. CDC



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Inserito in data 14/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 5 gennaio 2015, n. 5

Permanente rilevanza penale del reato di immigrazione clandestina

Il reato di immigrazione clandestina di cui all’art. 10-bis, d.lgs. 286/98 non è venuto meno a seguito dell’art. 2, comma 3, lettera b, l. 67/14, che delega il Governo ad “abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il  reato previsto dall'articolo 10-bis  del  testo  unico  delle  disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla  condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo  25  luglio  1998,  n. 286, conservando rilievo  penale  alle  condotte  di  violazione  dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”, dal momento che il Governo non ha ancora provveduto. CDC




Inserito in data 13/01/2015
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 9 gennaio 2015, n. 13

Divieto di transito navi passeggeri e mancanza di vie di navigazione alternative

La sentenza in commento ha ad oggetto il ricorso avverso le ordinanze che, in attuazione del decreto interministeriale 79/2012 sulle misure di sicurezza per la protezione di aree particolarmente vulnerabili, hanno disposto il divieto di transito di navi passeggeri superiori alle 40.000 tonnellate per l’anno 2014 ed alle 96.000 tonnellate per l’anno 2015.

Il Tribunale di merito, con la decisione de qua, ha accolto il ricorso sulla base del dettato normativo del decreto sopra citato.

Invero, posto che l’articolo 2, lett. b), punto 1), del suddetto decreto dispone che “nella laguna di Venezia: è vietato il transito nel Canale di San Marco e nel Canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto merci e passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda; (…)” , nel successivo articolo 3, rubricato Disposizioni transitorie, precisa che “Il divieto di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), punto 1) si applica a partire dalla disponibilità di vie di navigazioni praticabili alternative a quelle vietate, come individuate dall’Autorità marittima, con proprio provvedimento. Nelle more di tale disponibilità l’Autorità Marittima, d’intesa con il Magistrato alle acque di Venezia e l’Autorità portuale, adotta misure finalizzate a mitigare i rischi connessi al regime transitorio perseguendo il massimo livello di tutela dell’ambiente lagunare”.

Pertanto il Tribunale di primo grado, rilevata l’assenza dell’individuazione di vie di navigazione alternative, sì come richiesto dalla lettera della norma, ha dichiarato l’illegittimità dell’ordinanza impugnata per assenza dei presupposti di legge richiesti ed per violazione dell’art. 3 del decreto interministeriale di cui sopra.

Parimenti meritevoli di accoglimento sono state considerate le doglianze sulle carenze istruttorie e sul difetto di motivazione in quanto le ordinanze impugnate sarebbero state assunte <<senza la previa individuazione e la successiva valutazione di quei rischi ambientali che i divieti di transito, ivi contemplati, avrebbero dovuto contenere>>. VA



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Inserito in data 13/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 gennaio 2015, n. 35

Interpretazione estensiva dell’art. 38 del D. lgs. 163/06

Il ricorso presentato è volto alla riforma della sentenza di primo grado che ha confermato la legittimità della mancata esclusione da una gara per la fornitura di servizi del soggetto risultato poi aggiudicatario. Il tribunale di merito, infatti, aveva giustamente negato l’assenza dei requisiti di moralità richiesti a pena di esclusione dall’art. 38 del d.lgs. 163/06 in quanto riferiti ad un soggetto, avente la qualifica di direttore tecnico, che operava in un settore diverso e del tutto marginale rispetto a quello costituente oggetto di gara.

Il Supremo Consesso, dunque, è stato chiamato a pronunciarsi sull’esatta individuazione dell’ambito di applicazione della norma in questione.

Con la decisione in commento il Consiglio di Stato ha rigettato i motivi di appello proposti.

Più precisamente il Collegio ha ritenuto non pertinente il richiamo effettuato dal ricorrente alla sentenza dell’Adunanza Plenaria 23 del 2013, la quale avrebbe prospettato un’interpretazione estensiva degli obblighi dichiarativi concernenti i requisiti di moralità dei soggetti che abbiano effettivi poteri gestori nelle imprese partecipanti alle pubbliche gare.

Al contrario ha ritenuto meritevole di pregio l’orientamento seguito dal Tribunale di primo grado secondo il quale <<il riferimento dell'art. 38 del d. lgs. n. 163 del 2006 al direttore tecnico non dovrebbe intendersi in un'accezione tecnica univoca e fissa, ma in una dimensione semantica generica e variabile, da calibrarsi di volta in volta in base all'oggetto dell'appalto da assegnare>>.

Invero, secondo quanto ripetutamente affermato in precedenti pronunce giurisprudenziali, <<i direttori tecnici tenuti a rilasciare la dichiarazione sostitutiva prevista dall'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006 sono quelli che rivestono tale posizione rispetto al settore operativo nel quale la commessa si iscrive e non anche tutti i preposti tecnici a settori di attività in qualsiasi modo implicate nell'attività esecutiva dell'appalto>> (si veda C.d.S, 4372/14  e 6136/11).

Né risulta avere alcuna rilevanza il fatto che la gara vertesse sull’aggiudicazione di un servizio ovvero di lavori pubblici posto che, come già chiarito da tempo, la posizione del direttore tecnico può trovare applicazione in entrambi gli ambiti (C.d.S. 3364/10 e C.d.S. 1790/11).

A parere del Supremo Consesso, diversamente opinando si verificherebbe un’applicazione analogica dell’art. 38 citato, attraverso la sua estensione anche a soggetti ivi non previsti, in violazione del principio di tassatività di cui all’art. 46, comma 1, del d. lgs. n. 163 del 2006.

Invero la ratio della norma è quella di <<impedire interferenze nella gestione delle imprese partecipanti ad appalti di soggetti aventi un effettivo potere giuridico di condizionare la sua attività (…) deve escludersi la possibilità di condizionamento da parte del preposto tecnico a settori di attività implicate solo marginalmente nell’attività esecutiva dell’appalto. (Ad. Pl. 24/14).

Per questi motivi il Supremo Consesso ha ritenuto di dover conferma la decisione espressa in primo grado sulla legittimità e correttezza della mancata esclusione dell’impresa aggiudicataria dalla procedura di gara. VA



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Inserito in data 12/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE- PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 dicembre 2014, n. 26062

Aggiunta del patronimico al cognome materno: diritto e interesse del minore

I Giudici di legittimità, risentendo dell’esperienza sovranazionale e dei traguardi ormai raggiunti in merito dalla giurisprudenza, intervengono ancora una volta in tema di secondo riconoscimento del figlio minore da parte del padre e conseguente assegnazione del patronimico, in aggiunta al cognome materno.

Il Collegio, alla luce dei superiori insegnamenti, valuta come prioritario l’interesse del figlio, ovvero la necessità, essenzialmente, di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua personalità sociale.

I Giudici di legittimità hanno ancora precisato che la questione dell'attribuzione del cognome nell'ipotesi di secondo riconoscimento ad opera del padre non ha subito, nell'evoluzione del quadro normativo, una sostanziale modifica, in quanto con il D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219) è stato previsto, in conformità ad una linea interpretativa già proposta in relazione alla precedente formulazione della norma, che il figlio "può assumere il cognome del padre, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre".

Ciò comporta che, al di là della nota intenzione del Legislatore del 2013 – di assimilare il figlio naturale a quello legittimo,  è pur sempre prioritario tutelare il diritto al nome quale segno identificativo del singolo e, per questo, ormai costituzionalmente siglato.

Anche per l’Organo giurisdizionale, pertanto,  diventa prioritario tutelare il diritto del singolo a mantenere il cognome originariamente attribuitogli, ove questo concorra ad individuarlo nella trama dei propri rapporti sociali ormai dallo stesso costituiti.

Ricorda la Corte, dunque, che l'attribuzione congiunta del cognome paterno e di quello materno può essere legittimamente disposta quando il giudice del merito, da un lato, escluda la configurabilità di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione accrescitiva del cognome (stante l'assenza di una cattiva reputazione del padre e l'esistenza, anche in fatto, di una relazione interpersonale tra padre e figlio), e, dall'altro lato, consideri che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore, tuttora bambino, non abbia ancora acquisito con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità, in ipotesi suscettibile di sconsigliare l'aggiunta del patronimico.

In ultimo, il Collegio specifica che l'ampia valutazione attribuita al giudice del merito comporti l’incensurabilità di tale decisione in Cassazione, se adeguatamente valutata. CC




Inserito in data 12/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 gennaio 2015, n. 18

Rito Appalti pubblici: dispositivo, motivazione e diritto al contraddittorio e alla difesa

La Sesta Sezione interviene chiarendo, in più passaggi, alcuni aspetti significativi in materia di appalti pubblici.
In particolare i Giudici illustrano il rinvio operato dall'articolo 76 C.p.A. all'art. 276 c.p.c., nella parte in cui quest'ultima norma specifica la composizione della sentenza, distinguendovi il dispositivo rispetto alla motivazione.
Ricorda il Collegio, infatti, che in materia di appalti è possibile che il dispositivo venga pubblicato a distanza di due giorni dalla camera di consiglio e che, secondo quanto previsto dall'art. 120, comma 9, c.p.a., il successivo deposito della motivazione abbia luogo entro trenta giorni dalla medesima udienza di discussione.

Occorre precisare, evidenzia la Sesta Sezione, che la motivazione sia soltanto un'estensione di quanto già previsto succintamente in dispositivo. Quest'ultimo rappresenta, dicono i Giudici, il principio di diritto cui viene data, poi, un'estrinsecazione logica e maggiormente diffusa nella “parte motiva” della sentenza.
In considerazione di ciò, incorre in errore il Giudice di primo grado qualora frazioni la decisione, adottando il dispositivo in una camera di consiglio e ridiscutendo la motivazione in altra e successiva camera di consiglio.
Tuttavia, come accaduto nel caso di specie, a fronte della conformità della motivazione con il dispositivo già pronunciato, dicono i Giudici, si è verificata al più un’irregolarità del procedimento decisionale, incapace come tale di determinare la nullità della sentenza. La Sezione, pertanto, esclude l’operatività del rinvio ex art. 105 c.p.a., come prospettato in ricorso, sotto il profilo della lesione del contraddittorio e della difesa.
La decisione finale, infatti, desumibile dalla motivazione, non si basa su argomenti "nuovi", non trattati dalle parti nel corso dello svolgimento del giudizio di primo grado e, pertanto, potenzialmente lesivi del diritto di difesa e del contraddittorio.

Si deve ritenere, piuttosto, che l'approfondimento ulteriore effettuato dal Collegio nella seconda camera di consiglio sia finalizzato solo ad arricchire la motivazione resa al termine del giudizio.
I Giudici della Sesta sezione, pertanto, mostrano di non condividere il sollevato motivo di censura. CC

 



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Inserito in data 08/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 gennaio 2015, n. 25

Sul dies a quo per la proposizione del ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva

Gli artt. 120, comma 5, cpa e 79, comma 5-bis, d.lgs. 163/2006, annettono rilievo, ai fini dell'individuazione del dies a quo per la proposizione del ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva, alla comunicazione di cui all'art. 79 d.lgs. 163/2006. Pertanto, in caso di comunicazione incompleta, bisogna aver riguardo, ai fini della decorrenza del citato termine, alla conoscenza, comunque acquisita, degli elementi oggetto della comunicazione dell'art. 79.

Detta conoscenza non può ritenersi raggiunta in forza della presenza di un delegato della ricorrente alle operazioni di gara di apertura delle offerte tecniche e di quelle economiche, nonché di aggiudicazione provvisoria. Infatti, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 31 del 2012, solo l’aggiudicazione definitiva produce, nei confronti dei partecipanti alla gara diversi dall’aggiudicatario, un effetto lesivo, consistente nella privazione definitiva del "bene della vita" rappresentato dall'aggiudicazione della gara. Ne segue che solo dalla piena conoscenza della aggiudicazione definitiva decorrono i termini per l’impugnazione. CDC



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Inserito in data 08/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 23 dicembre 2014, n. 27341

Principi fondamentali in tema di eccesso di potere giurisdizionale

L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore sussiste quando il giudice applica non la norma esistente, ma una norma all’uopo creata, cioè quando realizza un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto. Al contrario, non c’è eccesso di potere giurisdizionale quando il giudice individui una regula iuris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso la consueta attività di interpretazione anche analogica del quadro delle norme.

L’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera del merito si ha quando l’indagine svolta non sia rimasta nei limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, ma sia stata strumentale a una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero esprima una volontà dell’organo giudicante che si sostituisce a quella dell’amministrazione, nel senso che si estrinsechi in una pronuncia autoesecutiva. Non c’è, invece, eccesso di potere giurisdizionale, ma esercizio della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, quando questi si limiti a prendere in considerazione la congruità e la logicità dell’atto amministrativo impugnato, in relazione agli interessi perseguiti.

In ogni caso, le Sezioni Unite della Cassazione, in sede di ricorso per motivi di giurisdizione, non possono mai sindacare il modo in cui la giurisdizione è stata esercitata, in rapporto a quanto denunciato dalle parti, come nel caso di pretesa ultrapetizione, che concreta un error in procedendo. CDC




Inserito in data 07/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 gennaio 2015, n. 5

Valore meramente indiziario dei dati catastali

La sentenza in commento ha ad oggetto la riforma della sentenza del tribunale di primo grado che, a seguito dell’accertamento della pubblicità di una determinata area, aveva disposto la rimozione di un cancello che ne impediva l’accesso al pubblico transito.

Il Supremo Consesso, accogliendo le doglianze della ricorrente, ha posto l’accento sulle carenze istruttorie che avevano caratterizzato il procedimento.

L’emanazione del provvedimento, infatti, si fondava essenzialmente sulla difformità dei luoghi rispetto alle risultanze catastali.

Tuttavia il Consiglio di Stato, citando la precedente giurisprudenza, ha ricordato che <<ai fini della determinazione dell’effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi in quanto contenenti utili indicazioni in ordine all’estensione dei fondi confinanti>> (Cass. Civ., II, 23 dicembre 2004, n. 23933).

Ne consegue che, per la legittimità del provvedimento, si sarebbe dovuto consentire la partecipazione del destinatario dello stesso alla fase istruttoria. Attraverso il proprio intervento, infatti, la parte avrebbe potuto fornire un contributo rilevante ai fini del corretto accertamento della proprietà dell’area (nel merito, inoltre, è stato dimostrato il contrasto tra la realtà dei fatti e le relazioni presentate dal Comune interessato). VA



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Inserito in data 07/01/2015
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 5 gennaio 2015, n. 13

Il decorso del tempo non affievolisce il potere sanzionatorio della P.A.

Il Tribunale di merito, disattendendo le doglianze avanzate dal ricorrente, ha affermato che il decorso del tempo non incide in alcun modo sul potere sanzionatorio della Pubblica Amministrazione.

Nel caso di specie, infatti, era stata eccepita la violazione del principio del legittimo affidamento e l’eccesso di potere sulla base di una presunta carenza motivazionale.

Il Giudice amministrativo, tuttavia, ha affermato che <<non può ritenersi che il potere sanzionatorio dell’Amministrazione venga meno o possa essere esercitato solo in presenza di un rafforzato corredo motivazionale quando sia decorso un notevole lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso, come sostengono i ricorrenti nel primo motivo di ricorso>>.

Anche in questo caso, infatti, l’abusività della costruzione sarebbe di per sé sufficiente a giustificare l’ordine di demolizione dell’opera costruita in violazione delle norme di legge.

Invero, <<nonostante il decorso del tempo l’amministrazione deve senza indugio emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di avere riscontrato opere abusive e che il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l’affermazione dell’accertata abusività dell’opera, essendo “in re ipsa” l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (c.d.s. 39557/2010, 4892/2014, n. 3568/2014, n. 3281/2014).

Parimenti prive di ogni fondamento sono state ritenute le doglianze in merito alla mancata indicazione della norma violata e dell’individuazione dell’area che il Comune potrebbe acquisire in caso di mancata demolizione: invero, lo stesso articolo 27 del del d.p.r. 380/2001  (che attribuisce il potere di vigilanza dell’UTC non individua una norma specifica) el’individuazione dell’area può avvenire anche successivamente. VA



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Inserito in data 03/01/2015
CORTE DI CASSAZIONE- SEZIONE LAVORO, SENTENZA 29 dicembre 2014, n. 27424

Mezzi istruttori: quando è lecito registrare un colloquio telefonico

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Piazza Cavour intervengono in merito alla liceità delle registrazioni di colloqui telefonici in ambito lavorativo, statuendo che il lavoratore può lecitamente registrare la conversazione, con il datore di lavoro, al fine di utilizzarla in un eventuale procedimento civile. 

I Giudici di legittimità chiariscono che ha il carattere di prova, sia in sede penale che civile, la registrazione tra persone presenti effettuata da un soggetto che partecipa ai colloqui, sottolineando che “la registrazione fonografica di un colloquio tra persone presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 cc, quindi di prove ammissibili nel processo civile e nel processo penale, atteso che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi in ogni caso di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo”.

Nel caso de quo, specificamente, si trattava di registrazione effettuata da persona presente o partecipante al colloquio, dunque, secondo quanto stabilito, “se la registrazione della conversazione de qua costituiva potenziale prova spendibile nel processo civile, in nessun caso la sua effettuazione poteva integrare condotta illecita, neppure da un punto di vista disciplinare. Nè poteva in alcun  modo ledere il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro: il rapporto fiduciario in questione concerne l’affidamento del datore di lavoro sulle capacità del dipendente di adempiere l’obbligazione lavorativa e non già sulla sua capacità di condividere segreti non funzionali alle esigenze produttive e/o commerciali dell’impresa; ad ogni modo essendo finalizzata alla acquisizione di una prova a discolpa, tale condotta sarebbe scriminata ex art 51 cp in quanto esercizio del diritto di difesa”.

La Corte puntualizza, inoltre, che “nel codice di procedura penale il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione, sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex art. 391 bis e segg., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell’instaurarsi di un  procedimento penale ex art 391 nonies cpp, oppure ai poteri processuali della persona offesa, che, ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile, ha il diritto, nei termini di cui agli art.li 408 e segg. cpp, di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione, e in tal caso di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell’udienza camerale”. GMC




Inserito in data 03/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 dicembre 2014, n. 6388

Mancato accoglimento di un’istanza per fatti non imputabili all’interessato

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato interviene in merito alla richiesta di annullamento di una determinazione dirigenziale della regione Molise avanzata da una Cooperativa edilizia non ammessa a finanziamento.

Nello specifico, con ricorso, proposto al TAR per il Molise, la Cooperativa in questione, invocava l’annullamento della determinazione dirigenziale del Settore “Politiche del Territorio” della Regione de qua, con la quale non veniva ammessa a finanziamento, chiedendo, altresì, il risarcimento del danno provocato dal suo ritardo, da quantificarsi in una somma pari al contributo che la Regione avrebbe dovuto riconoscere alla ricorrente.

Orbene, il primo giudice, accoglieva la domanda principale, ritenendo illegittimo il provvedimento impugnato. Invero, l’amministrazione regionale doveva rilevare come il ritardo nel deposito della documentazione richiesta all’originaria era imputabile soltanto all’amministrazione comunale.

Tuttavia, avverso la sentenza de qua, propone appello l’amministrazione regionale, invocando la riforma della stessa.

Secondo l’amministrazione, infatti, “non potrebbe definirsi diligente il comportamento dell’originaria ricorrente che si sarebbe attivata solo dopo 18 giorni dall’inizio del decorso del termine dei 60 giorni assegnateli per l’invio della documentazione e la diffida all’amministrazione comunale sarebbe stata presentata solo dopo un mese dalla richiesta”.

Costituitasi in giudizio, l’originaria ricorrente sostiene, da un lato, l’inammissibilità dell’appello, atteso che la Regione avrebbe prestato acquiescenza rispetto alla sentenza di primo grado e, dall’altro, la sua infondatezza.

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, l’appello in questione risulta palesemente infondato, chiarendone le motivazioni a sostegno.

Invero, si specifica che deve trovare conferma la statuizione del TAR, dal momento che “a fronte di un’attivazione tempestiva da parte dell’originaria ricorrente ed a fronte della tipologia di documentazione richiesta dall’amministrazione regionale, che poteva essere rilasciata solo dall’amministrazione comunale, non risulta legittimo il provvedimento dell’amministrazione che faccia discendere il mancato accoglimento dell’istanza in esame per fatti non imputabili all’interessato, ma ad un’altra amministrazione, che non può dirsi essere estranea al procedimento, quando sia l’unica in grado di offrire la documentazione istruttoria necessaria, affinché lo stesso possa concludersi”.

Né, tantomeno, precisa, altresì, la Corte, risulta “fondata la doglianza svolta contro il capo della sentenza nel quale il TAR ha ritenuto di non doversi pronunciare sulla richiesta di risarcimento del danno proposta dall’originaria ricorrente”. Infatti, da un lato, chiariscono i Giudici di Palazzo Spada, quest’ultima era stata presentata solo in via subordinata e, inoltre, l’amministrazione regionale appellante non ha alcun interesse a dolersene, poiché non risulta abbia avanzato, in primo grado, una propria domanda risarcitoria contro l’amministrazione. GMC



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Inserito in data 02/01/2015
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 29 dicembre 2014, n. 3212

Sulla sostituzione, in corso di gara, dell’ausiliaria fallita

L’art. 37, comma 19, del D. Lgs. n. 163 del 2006 permette “all'impresa mandataria di sostituire uno dei mandanti con altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti e al fine di portare a termine il contratto”.

A tal proposito, una parte della giurisprudenza (TAR Campania-Napoli, Sez. III, 11.11.2013 n. 5042) ammette che “tale disposizione possa essere applicata anche al caso del fallimento dell’impresa ausiliaria in caso di avvalimento”. Invero, i Giudici partenopei hanno negato che la sostituzione “potesse violare il principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare pubbliche, dal momento che il fallimento dell'ausiliaria era intervenuto dopo l'aggiudicazione e non poteva in alcun modo alterare la par condicio tra i concorrenti”.

Per contro, la legge prevede l’immodificabilità soggettiva del partecipante in corso di gara. Infatti, il capo II del D. lgs. 163/06 stabilisce che “la scelta del contraente nelle procedure di gara non ha per oggetto esclusivamente l’offerta ma anche i requisiti oggettivi e soggettivi del contraente, attribuendo così alla procedura il carattere di strumento di scelta non solo dell’offerta migliore ma anche del contraente più affidabile”.

Analogamente, l’art. 37, comma 9, del Codice degli appalti prevede il divieto di modificazioni soggettive dopo la presentazione dell’offerta: “(…) è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari dei concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”.

Le eccezioni previste dai commi 18 e 19 dell’art. 37, infatti, riguardano “esclusivamente la fase di esecuzione del contratto, nella quale prevale evidentemente l’interesse pubblico alla realizzazione delle opere e dei servizi”. Tale interpretazione è confermata oltre che dalla lettera della norma dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2010, secondo la quale “il richiamo all’art. 94 del d.P.R. nr. 554 del 1999 – oggi commi 18 e 19 dell’art. 37 del D. Lgs. 163/06 -, … attiene alle modifiche soggettive del raggruppamento ed alla possibilità che questo porti avanti i lavori previo accertamento da parte della stazione appaltante sulla sua idoneità nella nuova (e, in ipotesi, più ristretta) composizione: tale norma … si riferisce palesemente a una valutazione in ordine alla persistenza in capo al r.t.i. aggiudicatario dei requisiti di capacità tecnica ed economica richiesti dal bando di gara, che presiedono, garantendola, all’esecuzione della prestazione, sicchè deve escludersene l’applicabilità ad un’area del tutto diversa nella struttura e nella finalità quale è quella sottesa al possesso di requisiti soggettivi prescritti dalla legge per la partecipazione alle gare”.

In sostanza, la sostituzione di un’impresa partecipante in corso di gara incide sulla trasparenza delle operazioni e sulla par condicio dei partecipanti; con la conseguenza che “la mancanza o la perdita dei requisiti di gara in questa fase costituisce causa di esclusione dalle gare e non semplice motivo di sanatoria”.

Tali principi si estendono anche all’impresa ausiliaria, in quanto “il contratto di avvalimento costituisce elemento che integra i requisiti di partecipazione alla gara, talvolta addirittura permettendo ad un soggetto privo dei requisiti di partecipare ad una gara alla quale altrimenti non avrebbe diritto di partecipare”. Questa lettura è confermata anche dalla giurisprudenza, la quale ha chiarito che “i presupposti ed i contenuti dell’avvalimento debbono essere verificati in concreto, mediante il deposito e l’analisi dei relativi contratti”.

Non di rado, inoltre, “l’avvalimento incide anche sul contenuto dell’offerta in quanto la capacità tecnica ed economica dell’impresa ausiliaria ne costituiscono un elemento imprescindibile”.

Del resto, in caso di fallimento dell’impresa ausiliaria occorre rammentare che” tra i requisiti di partecipazione, applicabili anche all’ausiliaria, sussiste non solo quello della mancanza di fallimento, ma anche quello che non sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni (art. 38 c. 1 lett. a D. Lgs. 163/06), con la conseguenza che la richiesta di sostituzione dell’ausiliaria fallita in fase di gara è incompatibile con il divieto di partecipazione alla gara di imprese che hanno in corso una procedura per la dichiarazione di fallimento o comunque si presta ad un facile aggiramento del divieto medesimo”. EMF



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Inserito in data 02/01/2015
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 dicembre 2014, n. 6387

Sulla disciplina delle prove orali del concorso per uditore giudiziario

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada confermano il loro precedente orientamento (Sez. IV, 10-06-2011, n. 3528, ma anche T.A.R. Lazio, Sez. I, n. 8144/2009 T.A.R. Lazio sentenza n. 32367/2010) secondo cui “la disciplina delle prove (anche di quelle orali) del concorso per uditore giudiziario deve ritenersi a carattere speciale rispetto alla normativa generale applicabile ai concorsi pubblici, onde deve ritenersi non vincolante la procedura di predeterminazione e sorteggio delle domande prevista all'art. 12 del D.P.R. n. 487/1994 in materia di concorsi pubblici. La prova orale nel concorso in magistratura non si presta alla definizione di parametri di valutazione particolarmente determinati e puntuali”.

Ciò posto, deve rammentarsi che per costante giurisprudenza (ex aliis T.A.R. Emilia-Romagna Bologna Sez. I, 12-01-2011, n. 9) “le valutazioni espresse da una Commissione di concorso nelle prove scritte e orali dei candidati costituiscono espressione di un'ampia discrezionalità tecnica e, come tali, sfuggono al sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, salvo che non siano inficiate "ictu oculi" da eccesso di potere, sub specie delle figure sintomatiche dell'arbitrarietà, irragionevolezza, irrazionalità e travisamento dei fatti”. EMF



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Inserito in data 30/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 dicembre 2014, n. 6417

Sull’applicazione dell’art. 38 d.lgs. 163/06 così come interpretato dall’Ad.Pl. 21/12

Il Consiglio di Stato, pronunciandosi sul ricorso incidentale volto all’esclusione di un’impresa da una gara per l’affidamento di un appalto di servizi, motivato sulla base della presunta violazione degli obblighi dichiarativi relativi ai requisiti di ordine generale, ha disatteso le doglianze mosse dal ricorrente ed ha negato l’esistenza di un qualsiasi intento elusivo.

L’art. 38 lett. b) e c) del d.lgs. 163/2006 prescrive l’obbligo di dichiarazione del possesso dei requisiti morali richiesti da parte di determinati soggetti (specificamente individuati dalla norma o, comunque, avente poteri rappresentativi). Tale obbligo dichiarativo, secondo il dettato normativo, investe anche i soggetti cessati dalla carica nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara.

Secondo la tesi avanzata dal ricorrente l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 21 del 2012, precisando che <<la locuzione normativa di cui all’art.38 comma 1 lettera c) deve interpretarsi [..] nel senso che la dichiarazione de qua è obbligatoria anche per i soggetti cessati delle imprese incorporate, a pena di esclusione>> avrebbe inteso evitare l’elusione delle regole concorsuali  da parte di concorrenti le cui vicende societarie sono caratterizzate da elementi soggettivi di continuità.

La sussistenza del suddetto obbligo, inoltre, non si cristallizzerebbe e non rimarrebbe circoscritta al momento della presentazione della domanda di partecipazione, ma permarrebbe per tutta la durata della procedura, dovendosi procedere alla comunicazione di tutte le variazioni intervenute medio tempore. Ne conseguirebbe che, un’eventuale fusione di due società, non seguita dall’adempimento degli obblighi dichiarativi prescritti, costituirebbe una legittima causa di esclusione dalla gara.

Il Supremo Consesso, pur non considerando del tutto peregrine le argomentazioni esposte, ha posto l’accento sulla cronologia dei fatti, dando atto del regime transitorio fornito dalla stessa pronuncia della Plenaria.

Invero l’Adunanza Plenaria sopra citata, dopo aver chiarito che <<l’obbligo dichiarativo, a pena di esclusione, di cui all’art.38 lett. c) si riferisce anche alle ipotesi di incorporazione e di fusione, al fine di scongiurare l’intento elusivo della previsione di un onere di attestazione del possesso di requisiti morali in ipotesi di sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale (…) ha avuto altresì cura espressamente di precisare che “nel contesto di oscillazioni della giurisprudenza e di conseguente incertezza delle stazioni appaltanti, fino alla plenaria n.10/12 e alla plenaria odierna, i concorrenti che omettono la dichiarazione di cui all’art.38 comma 1 lett. c) d.lgs. n.163/2006, relativamente agli amministratori delle società partecipate al procedimento di fusione o incorporazione, possono essere esclusi dalla gare in relazione alla dichiarazioni rese ai sensi dell’art.38 comma 1 lett.c) fino alla data di pubblicazione della presente decisione solo se il bando espliciti tale onere di dichiarazione e la conseguente causa di esclusione; in caso contrario, l’esclusione può essere disposta solo ove vi sia la prova che gli amministratori per i quali è stata omessa la dichiarazione hanno pregiudizi penali”>>.

Pertanto, essendo la pubblicazione del bando di gara antecedente alla pronuncia in questione e mancando una previsione espressa di tale obbligo all’interno della lex specialis, l’interpretazione estensiva dell’obbligo dichiarativo non potrebbe trovare applicazione nel caso di specie.

Per questi motivi il Supremo Consesso ha ritenuto di dover rigettare il ricorso incidentale avente ad oggetto la mancata esclusione dell’impresa partecipante. VA



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Inserito in data 30/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 dicembre 2014, n. 6399

Mancata accettazione di clausole abnormi ed illegittimità dell’esclusione dalla gara

Con la sentenza in commento il Supremo Consesso, attesa l’abnormità delle clausole previste dal capitolato di gara, ha dichiarato illegittima l’esclusione dalla gara di appalto per il servizio di brokeraggio conseguente la mancata integrale accettazione delle stesse.

Più precisamente la clausola censurata prevedeva l’impegno del Broker al pagamento anticipato del premio assicurativo, da rimborsarsi entro 30 gg, nel caso in cui l’Amministrazione, pur avendo emesso il mandato, si trovasse nell’impossibilità di farvi fronte. La stessa, inoltre, prevedeva la responsabilità del Broker per le conseguenze derivanti dal ritardato pagamento e dall’eventuale sospensione della garanzia assicurativa.

Secondo il Consiglio di Stato una clausola siffatta altererebbe la fisionomia propria del contratto di brokeraggio, il cui fine sarebbe quello di consigliare ed assistere il cliente, non già di finanziarlo.

Il mandato di pagamento, inoltre, dovrebbe essere preceduto dallo stanziamento dei fondi necessari a farvi fronte, nel rispetto delle regole in materia di contabilità pubblica.

La clausola censurata, dunque, prevede un onere finanziario in capo al broker che esorbita dai contenuti delle sue prestazioni, non potendo ritenersi che si tratti di prestazioni meramente accessorie, e si pone in contrasto con le norme in materia di contabilità pubblica.

Il Collegio sottolinea, inoltre, come l’illogicità della clausola investa anche le conseguenze ad essa relative: <<mentre il mancato pagamento del premio da parte del broker conduce all’assunzione diretta della responsabilità per il ritardo e la relativa sospensione della copertura assicurativa, nessun effetto produce, neppure sul piano del pagamento di eventuali interessi di mora, l’inosservanza, da parte del comune, del termine di trenta giorni previsto per il rimborso>>.

Alla luce di quanto sopra esposto il Consiglio di Stato ha dichiarato fondati i motivi di ricorso ed ha accolto l’appello. VA



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Inserito in data 24/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 dicembre 2014, n. 6639

G.A. e validità del negozio di cessione volontaria

Con la sentenza in esame, i Giudici di Piazza Cavour ritengono che il G.A. possa procedere ad un accertamento (incidentale e senza efficacia di giudicato) sulla validità – o meno- del negozio di cessione, trattandosi di questione pregiudiziale rispetto al ricorso principale volto ad ottenere la restituzione del fondo od il risarcimento del danno.

Ritengono, invero, in via di principio, che: “laddove venga fondatamente contestata la stessa esistenza di un negozio di cessione, non v’è dubbio che la giurisdizione sul petitum proposto spetti al Giudice amministrativo”; viceversa, allorquando i vizi siano tali da ritenere il negozio di cessione invalido (nullo od annullabile), “la domanda dovrebbe essere proposta innanzi al Giudice ordinario (unico soggetto competente a pronunciarsi sui vizi che attengono al negozio di cessione)”.

Ne discende che, nell’ipotesi in cui l’“esistenza storica” della cessione non sia contestata, ma sia avversata la validità del negozio predetto, “il petitum dovrebbe essere proposto innanzi al giudice ordinario” (Cass. civ. Sez. Unite, 06-12-2010, n. 24687).

Tuttavia, il Collegio si rende conto che tale simile opzione ermeneutica “parrebbe onerare la parte alla proposizione di due azioni; ciò in quanto, soltanto laddove il giudice competente abbia dichiarato la nullità dell’atto di cessione, questi poi potrebbe fondatamente proporre la domanda risarcitoria innanzi al giudice competente” (ex aliis App. Potenza Sent., 27-01-2010 ).

La necessaria proposizione di due azioni è, però, “evenienza da ridurre al minimo essenziale, per evitare la proliferazione delle domande e dei processi, eccessivi oneri in capo alle parti, ed in quanto non appare in linea con il precetto costituzionale di cui all’art. 111 nella parte in cui si prescrive che il processo debba avere durata ragionevole”.

Pertanto, in una simile ipotesi “può trovare applicazione l’art. 8 del cpa, ed il giudice può procedere ad un accertamento (incidentale e senza efficacia di giudicato) sulla validità – o meno- del negozio di cessione, prodromico alla decisione sul petitum principale”.

Alla luce del disposto di cui all’art. 8 cpa, quindi, la statuizione conclusiva della causa “non potrebbe essere quella della declinatoria di giurisdizione ma reiettiva od accoglitiva del petitum (a seconda di come sia stata decisa la questione pregiudiziale sulla validità o meno del negozio di cessione, che appare possedere per le già chiarite ragioni, portata pregiudicante)”. EMF



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Inserito in data 24/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 22 dicembre 2014, n. 27167

Sui limiti d’uso del lastrico solare condominiale (art. 1102, co. 2, c.c.)

Con la pronuncia in epigrafe, la Suprema Corte conferma quanto sostenuto dal Giudice di seconde cure, secondo cui la sostituzione di un’antenna trasmittente con un’altra più alta, in considerazione della sua consistenza e delle sue dimensioni, “si risolve in una sottrazione alla possibilità di uso comune di una parte considerevole della superficie del lastrico solare, e quindi in una compromissione apprezzabile dell’uso paritetico del bene”.

In particolare, il precedente atteggiamento di tolleranza tenuto dal Condominio non fa sorgere in capo al proprietario “alcun diritto a perpetuare, in presenza del chiaro dissenso dei condomini, una situazione che si pone in violazione dell’art. 1102 cod. civ.”. EMF




Inserito in data 23/12/2014
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. II, 10 dicembre 2014, n. 6507

Grave errore dell’appaltatore: cause di esclusione

Il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale, in cui sia incorso l'appaltatore, rappresenta una causa di esclusione dalla partecipazione alla gara, alla luce di quanto ribadito dai Giudici di Palazzo Spada con la pronuncia in epigrafe.
Invero, l'art. 38 del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), nell'enucleare i requisiti, di ordine generale, dei partecipanti alle procedure di affidamento, stabilisce, alla lett. f), che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti e non possono stipulare i relativi contratti “i soggetti che hanno commesso un errore grave nell'esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.

Con quanto suesposto, si richiama, altresì, un principio generale espresso dall'art. 68 del RD 23.5.1924 n. 827, in materia di amministrazione del patrimonio e di contabilità generale dello Stato.

Alla luce di ciò, il grave errore nell'esercizio dell'attività professionale in cui sia incorso l'appaltatore rappresenta, quindi, causa di esclusione dalla partecipazione alla gara, poiché, in tale ipotesi, si manifesta l’interesse pubblico volto certamente ad evitare di intrattenere rapporti contrattuali con un soggetto inadempiente.

L’esclusione de qua, inoltre, non presenta carattere sanzionatorio, poiché è prevista al fine di garantire l'elemento fiduciario destinato a identificare, sin dal momento genetico, i rapporti contrattuali dei pubblici appalti.

Dunque, secondo quanto chiarito, l'art. 38, c. 1, lett. f) del Codice dei contratti pubblici già richiamato, impone al concorrente, a pena di esclusione, la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali, sebbene relative ad affidamenti effettuati da altre stazioni, spettando in ogni caso, altresì, all'Amministrazione la valutazione della gravità, nonché la pertinenza dell'errore professionale, con esclusione di qualsiasi intermediazione del concorrente medesimo. GMC



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Inserito in data 23/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 16 dicembre 2014, n. 26369

Sulla responsabilità del notaio in materia fiscale

La Suprema Corte, con la pronuncia in epigrafe, considera la figura del notaio come quella di un vero e proprio consulente delle parti, dotato, dunque, di una diligenza qualificata che “include la consulenza, anche fiscale, nei limiti delle conoscenze che devono far parte del normale bagaglio di un professionista che svolge la sua attività principale nel campo della contrattazione immobiliare”.

I Giudici di legittimità accolgono il ricorso proposto in tale sede, facendo ricadere sul professionista le conseguenze dell’erronea compilazione delle dichiarazioni INVIM relative ad atti di compravendita.

Stante l’elevata diligenza professionale, la Suprema Corte afferma che l’attività del notaio non potrà limitarsi alla mera registrazione delle dichiarazioni delle parti, dovendo realizzare un’attività di consulenza ed assistenza estesa anche agli aspetti fiscali accessori alla stipula dell’atto “trattandosi di questioni tecniche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire e per le quali può fare affidamento sulla professionalità del notaio, anche in considerazione del ruolo pubblicistico della sua attività.

Nel caso de quo, nonostante la dichiarazione ai fini INVIM sia una attività riservata alla parte, secondo gli Ermellini, il professionista ha “l’obbligo di informare il cliente delle conseguenze nel caso di dichiarazioni non veritiere, almeno quando le stesse appaiono ragionevolmente non verosimili”. Inoltre, simile obbligo “trova fondamento nell’incarico professionale ricevuto di redigere l’atto pubblico di trasferimento immobiliare”.

Alla luce della considerazione secondo la quale il complesso incarico affidato al notaio ricomprenda sia attività preparatorie che successive alla stesura dell’atto, emerge un grave inadempimento del professionista che, redigendo e presentando dichiarazioni INVIM sulla base di valutazioni palesemente erronee di parte venditrice, abbia omesso di far rilevare alla parte l’incongruenza presente impedendo il conseguimento di un regime fiscale maggiormente favorevole.

Oltre a ciò, sul notaio grava, altresì, il c.d. “dovere di consiglio”, riguardante questioni tecniche che una persona prova di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, quindi, secondo la Corte, l’attività del professionista dovrà essere finalizzata “non solo al raggiungimento dello scopo privatistico e pubblicistico […], ma anche a conseguire gli effetti vantaggiosi eventualmente previsti dalla normativa fiscale e a rispettare gli obblighi imposti da tale normativa”.

La Suprema Corte, alla luce delle considerazioni effettuate, stabilisce la responsabilità del notaio, il quale sarà tenuto a rispondere dei danni originati dal proprio comportamento, anche nella ipotesi di colpa lieve. GMC




Inserito in data 22/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 dicembre 2014, n. 6636

La PA non viola l’art. 46 c.1-bis se si conforma ad un orientamento giurisprudenziale

La disposizione di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 163/2006, prescrive la tassatività e la tipicità delle cause di esclusione. Essa deve essere interpretata in maniera rigorosa e senza possibilità di estensione analogica, in quanto la sua ratio è ispirata ai principi di massima partecipazione alle gare e al divieto di aggravio del procedimento, mirando ad evitare esclusioni anche per violazioni puramente formali. Pertanto, la prescrizione di cui all’art. 46, comma 1-bis, vulnera anche clausole di bando che estendano l’ambito di applicazione di disposizioni di legge.

Nel caso in esame, tuttavia, non vi era stata violazione dell’art. 46, comma 1-bis, da parte dell’Amministrazione, la quale non aveva esteso analogicamente l’ambito di applicazione di previsioni di legge tassative, ma si era conformata ad una delle possibili interpretazioni della norma, nella compresenza di due orientamenti collidenti.

La soluzione diversa, infatti, comporterebbe conseguenze del tutto contrarie alla ratio della normativa. Anzitutto, a fronte di un contrasto giurisprudenziale, si produrrebbe l’effetto di paralizzare le amministrazioni, nell’incertezza di essere in futuro giudicate autrici di una clausola nulla. Ma questo varrebbe anche laddove il bando contempli una clausola che è conforme trasposizione di consolidate certezze giurisprudenziali. In ipotesi di revirement interpretativo, infatti, si condannerebbero le PA che in passato si conformarono ad una certa tesi a vedersi giudicare nulla la clausola introdotta sulla scorta di un orientamento granitico. E da ciò deriverebbero conseguenze negative per la PA anche sotto il profilo risarcitorio.

Ne segue che, in conclusione, non è possibile affermare la nullità di una clausola del bando laddove essa non integri un’ulteriore causa di esclusione, ma si conformi ad un’interpretazione possibile di una norma di legge. CDC



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Inserito in data 22/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 19 dicembre 2014, n. 53019

Illegittimità costituzionale di norma non incriminatrice e rideterminazione della pena

La sentenza in esame dà attuazione ai principi già espressi dalle Sezioni Unite della stessa Corte con sentenza n. 42858 del 2014, in un caso relativo ai reati previsti dal d.p.r. 309/1990, in tema di sostanze stupefacenti.

Secondo la pronuncia, a seguito di dichiarazione di incostituzionalità di norma, diversa da quella incriminatrice, ma comunque incidente sul trattamento sanzionatorio, il giudice dell’esecuzione è tenuto a compiere le seguenti valutazioni:

1) verifica dell’incidenza concreta della decisione irrevocabile sulla libertà personale, per essere in effettiva esecuzione la pena;

2) in caso positivo, ricostruzione del contenuto della decisione irrevocabile, per verificare la concreta incidenza sul trattamento sanzionatorio della norma dichiarata incostituzionale (nel caso, l’art. 69, comma 4, cp, dichiarato parzialmente incostituzionale dalla sentenza n. 251 del 2012 della Corte costituzionale);

3) in caso positivo, rideterminazione del trattamento sanzionatorio, tenendo conto della compiuta ricostruzione del fatto, nonché delle norme applicabili al momento della decisione, in punto di commisurazione della sanzione; le stesse norme incriminatrici, infatti, possono essere interessate da ulteriore pronuncia di illegittimità costituzionale (nel caso, la dichiarazione di incostituzionalità, effettuata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014, degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 272/2005).

In sintesi, il mutamento anche della cornice edittale rende necessaria una rivalutazione piena della condanna, da compiersi tenendo conto del fatto come accertato in sede di cognizione, ma non anche dei termini matematici espressi in quella sede. CDC




Inserito in data 18/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 dicembre 2014, n. 6162

Inottemperanza al giudicato ed eventuali oneri di attivazione

Il Consiglio di Stato, pronunciandosi in materia di responsabilità della Pubblica Amministrazione per i casi di mancata ottemperanza al giudicato, ha accolto l’appello esclusivamente con riferimento alla quantificazione del danno (più precisamente relativamente all’eccezione sulla mancata prova dello stesso).

Il Supremo Consesso, di contro, ha rigettato le eccezioni che miravano ad escludere, o quanto meno ad attenuare, la responsabilità della P.A. per la mancata ottemperanza al giudicato sul presupposto di un comportamento inerte del ricorrente (il quale non aveva azionato gli strumenti di tutela volti all’annullamento dei provvedimento contrastanti con il decisum).

Rileva il Collegio che <<al veduto carattere di violazione ed elusione del giudicato proprio del citato Parere della Conferenza Permanente, nonché alla non applicabilità alla dovuta ulteriore attività amministrativa dei provvedimenti commissariali sopravvenuti consegue invero, con tutta evidenza, l’assenza di qualsivoglia onere di impugnazione degli stessi in capo alla ricorrente, se non quello di attivazione della “azione di ottemperanza”, volta a dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale tutelato dall’art. 24 Cost., di cui costituisce parte integrante il diritto al risarcimento del danno da inadempimento derivante da responsabilità ( omissiva e/o elusivamente commissiva ) dell’Amministrazione>>.

Il Consiglio di Stato, infatti, ritiene che l’obbligo di esecuzione dei provvedimenti del giudice sussista in capo a tutte le parti, compresa la Pubblica Amministrazione. Con riferimento a quest’ultima, inoltre, l’ottemperanza al giudicato costituirebbe un’attuazione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost.e della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

La pubblica amministrazione <<in ogni sede è tenuta ad attivare una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale, anche e soprattutto alla luce del fatto che nell'attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa, di cui quella risarcitoria per equivalente è parte integrante e sostanziale, pena, come s’è detto sopra, la sostanziale ineffettività della tutela e l’indebito apprestamento di alibi alla illecita condotta dell’Amministrazione, che si sottragga al doveroso rispetto del giudicato ( Cons. St., ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2 )>>. VA



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Inserito in data 18/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 dicembre 2014, n. 26545

Responsabilità dell'ANAS per i danni da alluvioni

La Suprema Corte, avallando l’orientamento già espresso in passato secondo cui <<è certamente vero che una pioggia di eccezionale  intensità può anche costituire caso fortuito in relazione ad eventi di danno (…); ma non è affatto vero che una siffatta pioggia costituisca sempre e comunque un caso fortuito>>, (Cass. 5658/2010).

Più precisamente il Supremo Consesso ha affermato che l’evento alluvionale non è sufficiente ad escludere la responsabilità del soggetto tenuto alla custodia ed alla manutenzione del tratto stradale ove sia dimostrata con sicurezza un comportamento omissivo dello stesso, a meno che non le piogge non abbiano carattere tale da essere di per sé sufficienti a provocare il disastro e ad interrompere il nesso causale rispetto al suddetto comportamento omissivo.

Con questa pronuncia la Corte di Cassazione ha invitato ad un più rigoroso accertamento della responsabilità, anche in considerazione della grave situazione di rischio idrogeologico del nostro Paese, precisando che la discrezionalità amministrativa sui criteri ed i mezzi di manutenzione delle opere pubbliche deve, comunque, essere rispettosa delle norme di legge e dei regolamenti che disciplinano detta attività e che sono volti alla tutela dei cittadini e delle loro proprietà, nonché alle regole di prudenza e diligenza prescritte dal nostro ordinamento. VA

 

 

 




Inserito in data 17/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 dicembre 2014, n. 6157

Le note documentali dell’Agenzia delle Entrate vincolano la PA appaltante

Le note documentali emesse dall’Agenzia delle Entrate relativamente alla posizione delle ditte concorrenti alle pubbliche gare (ai fini della verifica del possesso dei requisiti generali di cui all’art.38 d.lgs. 163/2006) in materia di pagamento di imposte e tasse e contributi previdenziali e assistenziali, si qualificano come atti di certificazione e/o attestazione assistiti da pubblica fede ex art.2700 cc, facenti prova fino a querela di falso.

Esse vincolano la PA appaltante, in ragione della loro natura di dichiarazione di scienza. Infatti, come sottolineato dalla giurisprudenza amministrativa, è rimesso al giudizio tecnico dell’Agenzia delle Entrate la valutazione sulla regolarità fiscale delle concorrenti alla gara, senza che la stazione appaltante possa formulare, relativamente al contenuto delle risultanze rese dell’ufficio finanziario, autonomo apprezzamento. CDC



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Inserito in data 16/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 dicembre 2014, n. 6146

Le Autorità Portuali sono organismi di diritto pubblico, con giurisdizione del G.A.

L’Autorità Portuale è una particolare tipologia di ente pubblico, introdotta nell’ordinamento dalla legge n. 84 del 1994, che espressamente (art. 6, comma 2) attribuisce alla stessa “personalità giuridica di diritto pubblico” e “autonomia amministrativa”, con regolamento di contabilità approvato dal Ministro dei Trasporti e della Navigazione, di concerto con il Ministro del Tesoro; il rendiconto della gestione finanziaria, inoltre, è soggetto al controllo della Corte dei Conti.

Secondo la sentenza, si tratta non di enti pubblici economici, ma di organismi di diritto pubblico, ai sensi dell’art. 3, comma 26, d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto dotate di personalità giuridica, istituite per soddisfare esigenze di interesse generale, a carattere non industriale o commerciale, e soggette al controllo dello Stato.

Ne segue che la formazione delle tariffe, per le prestazioni delle compagnie e gruppi portuali, nonché l’emanazione di norme regolamentari per la relativa applicazione corrispondono ad attribuzioni pubblicistiche di disciplina e sorveglianza, per lo svolgimento in sicurezza delle operazioni portuali. Pertanto, esse sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo individuabili nei decreti impositivi di dette tariffe delle norme di azione, a fronte delle quali le posizioni dei privati hanno natura e consistenza di interessi legittimi. CDC



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Inserito in data 15/12/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, causa C- 440/13

La revoca del bando di gara non soggiace a specifici requisiti di sostanza e di forma

Con la decisione in esame, innanzitutto, la Corte di Giustizia dell’Unione europea si pronuncia su una questione pregiudiziale sollevata dal giudice italiano così sintetizzabile: è legittima la scelta della stazione appaltante di non aggiudicare la gara e di revocare la procedura, sulla base della mera pendenza di un’indagine penale nei confronti del legale rappresentante della società provvisoriamente aggiudicataria?

Secondo la Corte di Lussemburgo, la “decisione di revoca di un bando di gara per un appalto pubblico […] deve rispettare gli articoli 41, paragrafo 1, e 43 della direttiva 2004/18.  L’articolo 41, paragrafo 1, della direttiva 2004/18 prevede l’obbligo di informare di una siffatta decisione, quanto prima possibile, i candidati e gli offerenti nonché di indicarne i motivi, e l’articolo 43 di tale direttiva impone l’obbligo di menzionare tali motivi nel verbale che deve essere redatto per ogni appalto pubblico. Orbene, la direttiva 2004/18 non contiene alcuna disposizione relativa alle condizioni di sostanza o di forma di una simile decisione”.

Di conseguenza, il diritto dell’Unione non osta a che gli Stati membri prevedano, nella loro legislazione, la possibilità di adottare una decisione di revoca di un bando di gara. I motivi di una siffatta decisione di revoca possono dunque essere fondati su ragioni correlate in particolare alla valutazione dell’opportunità, dal punto di vista dell’interesse pubblico, di condurre a termine una procedura di aggiudicazione, tenuto conto, fra l’altro, dell’eventuale modifica del contesto economico o delle circostanze di fatto o, ancora, delle esigenze dell’amministrazione aggiudicatrice interessata. Una simile decisione può altresì essere motivata dal livello insufficiente di concorrenza, a motivo del fatto che, all’esito della procedura di aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi, un solo offerente resta idoneo a dare esecuzione a tale appalto”.

In considerazione di quanto precede, alle questioni prima, seconda e terza occorre rispondere dichiarando che gli articoli 41, paragrafo 1, 43 e 45 della direttiva 2004/18 devono essere interpretati nel senso che, qualora i presupposti per l’applicazione delle cause di esclusione previste dal medesimo articolo 45 non siano soddisfatti, detto articolo non osta a che l’amministrazione aggiudicatrice decida di rinunciare ad aggiudicare un appalto pubblico per il quale si sia tenuta una gara e di non procedere all’aggiudicazione definitiva di tale appalto al solo concorrente che sia rimasto in gara e sia stato dichiarato aggiudicatario in via provvisoria”. TM



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Inserito in data 15/12/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, causa C- 440/13

Il diritto UE non impone il sindacato di merito sugli atti delle stazioni appaltanti

Secondariamente, alla Corte di Giustizia è stato chiesto se sia conforme al diritto comunitario che il giudice nazionale competente possa esercitare un controllo esteso al merito sui provvedimenti dell’amministrazione aggiudicatrice, ossia nel caso di specie se il giudice possa sindacare l’opportunità di revocare il bando di gara.

A tal proposito, il Giudice comunitario ha risposto che: “il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e, in particolare, l’articolo 1, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 89/665, devono essere interpretati nel senso che il controllo previsto da tale disposizione costituisce un controllo di legittimità delle decisioni adottate dalle amministrazioni aggiudicatrici, volto a garantire il rispetto delle norme pertinenti del diritto dell’Unione oppure delle disposizioni nazionali che recepiscono dette norme, senza che tale controllo possa essere limitato al solo carattere arbitrario delle decisioni dell’amministrazione aggiudicatrice. Tuttavia, ciò non esclude la facoltà, per il legislatore nazionale, di attribuire ai giudici nazionali competenti il potere di esercitare un controllo in materia di opportunità”. TM



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Inserito in data 13/12/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 dicembre 2014, n. 273

Parziale illegittimità dell’art. 516 c.p.p.  

La Corte Costituzionale è stata chiamata a vagliare la legittimità dell’art. 516 c.p.p., per violazione degli art. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non consente all’imputato di richiedere in dibattimento il giudizio abbreviato quando il fatto contestato in questa fase di giudizio risulti diverso dalla contestazione originaria, in particolare nell’ipotesi in cui la diversità si fondi su fatti che non risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

La Consulta, seguendo il medesimo iter logico-giuridico della precedente pronuncia emessa con riferimento all’art. 517 c.p.p. disciplinate il giudizio abbreviato (sentenza 237/12) ha dichiarato fondato il ricorso, sancendo la parziale illegittimità dell’art. 517  c.p.p.

A parere della corte costituzionale, infatti, le considerazioni effettuate possono essere estese anche all’ipotesi in esame. Osserva la Suprema Corte che <<le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. sono già state, del resto, accomunate da questa Corte nelle analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette “tardive” o “patologiche” (…) Altrettanto è avvenuto – a prescindere da ogni distinzione fra contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” – con riguardo alla mancata previsione della facoltà dell’imputato di presentare domanda di oblazione in rapporto al reato oggetto della nuova contestazione (sentenza n. 530 del 1995)>>.

Nel pervenire alla soluzione esposta la Corte Costituzionale ha ritenuto che le differenze esistenti tra la contestazione del reato concorrente e quella del fatto diverso non siano sufficienti a differenziarle sotto il profilo delle disciplina sottoposta al vaglio di legittimità.

Invero, <<in entrambi i casi, la contestazione interviene quando il termine procedimentale perentorio per la richiesta di giudizio abbreviato è già scaduto (…). Anche in rapporto alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso vale, quindi, il rilievo di fondo, per cui l’imputato che subisce la nuova contestazione «viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio». Infatti, «condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti […]. Di conseguenza, non solo quando all’accusa originaria ne venga aggiunta una connessa, ma anche quando l’accusa stessa sia modificata nei suoi termini essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237 del 2012)>>.

La Consulta ha infine precisato che, essendo la garanzia del pieno esercizio del diritto di difesa alla base della propria decisione, non ogni variazione marginale dell’accusa sarà idonea ad incidere sullo stesso, ma solo quella che comporti una trasformazione dei tratti essenziali dell’addebito (che potrebbe avere riflessi anche sul piano della pena e degli eventuali strumenti premiali).

In conclusione <<le ragioni della deflazione processuale debbono cedere di fronte alla necessità del rispetto degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.  […], l’art. 516 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione>>. VA



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Inserito in data 13/12/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 11 dicembre 2014, cause C-113/13

Sull’ammissibilità dell’affidamento in house del servizio di trasporto sanitario

La Corte di Giustizia europea è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità o meno della normativa italiana, che consente l’affidamento diretto ed in via preferenziale del servizio di trasporto sanitario ad enti no profit.

Più precisamente ci si è chiesti se le disposizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e le regole di concorrenza del Trattato ostino ad una normativa nazionale che prevede che le amministrazioni locali debbano affidare la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza in via prioritaria e di affidamento diretto, in mancanza di qualsiasi forma di pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, le quali, per la fornitura di detti servizi, ricevono unicamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute a tal fine nonché di una frazione dei costi fissi e durevoli nel tempo.

Il giudice del rinvio, infatti, aveva ipotizzato che nei casi in questione si verificasse una violazione del principio di libertà di concorrenza e di stabilimento.

Invero, richiamando le sentenze Commissione/Italia (C-119/06 e  C-305/08) 27, aveva messo in luce la posizione di favore in cui si venivano a trovare le  associazioni non lucrative (le quali potevano partecipare sia alle forniture di servizi loro riservate che alle gare di appalto pubbliche), essendo state ricomprese nella nozione di operatore economico. 

La Corte di Giustizia Europea, dopo aver esaminato la natura dell’appalto ai fini del suo esatto inquadramento, ed aver evidenziato che la normativo comunitaria applicabile varia a seconda della prevalenza economica delle prestazioni mediche ovvero di trasporto ha, tuttavia, affermato che, <<sebbene il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici è diretto a garantire la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza all’interno di tutti gli stati membri, l’affidamento, in mancanza di qualsiasi trasparenza, di un appalto ad un’impresa con sede nello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice di detto appalto costituisce una disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate a tale appalto salvo che sia giustificata da circostanze obiettive>> (v., in tal senso, sentenze Commissione/Irlanda).

<<Nel caso in esame si è ritenuto che, non solo un rischio di grave pregiudizio per l’equilibrio economico del sistema previdenziale può costituire, di per sé, una ragione imperativa di pubblico interesse in grado di giustificare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, ma, inoltre, l’obiettivo di mantenere, per ragioni di sanità pubblica, un servizio medico ed ospedaliero equilibrato ed accessibile a tutti può rientrare parimenti in una delle deroghe giustificate da motivi di sanità pubblica, se un siffatto obiettivo contribuisce al conseguimento di un livello elevato di tutela della salute>>.

A quanto sopra esposto si aggiunge che l’organizzazione del sevizio di trasporto sanitario risponde anche ai principi di efficienza economica ed di adeguatezza in quanto il ricorso ad associazioni di volontariato convenzionate consente anche una forte riduzione della spesa pubblica e, conseguentemente, il rispetto del bilancio.

Per tutti questi motivi i giudici europei, con la sentenza in esame, hanno stabilito che <<Gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale che, come quella in discussione nel procedimento principale, prevede che la fornitura dei servizi di trasporto sanitario di urgenza ed emergenza debba essere attribuita in via prioritaria e con affidamento diretto, in mancanza di qualsiasi pubblicità, alle associazioni di volontariato convenzionate, purché l’ambito normativo e convenzionale in cui si svolge l’attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente alla finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio su cui detta disciplina è basata>>. VA



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Inserito in data 11/12/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 10 dicembre 2014, n. 33

È rituale l’avviso di perenzione inviato alla PEC del difensore non dichiarata nel ricorso?

L’Adunanza Plenaria si è pronunciata, tra l’altro, in ordine al “problema della ritualità e, quindi, della validità della comunicazione dell’avviso di perenzione effettuata tramite PEC a un difensore che aveva omesso di indicare il proprio indirizzo di posta elettronica nel primo atto difensivo”.

Preliminarmente, il Supremo Consesso amministrativo osserva che per stabilire la ritualità di un atto processuale (come l’avviso di perenzione) occorre guardare alle norme vigente al momento della sua adozione (principio del tempus regit actum) e non a quelle vigenti al momento della notifica del ricorso introduttivo. Poiché negli ultimi anni la disciplina in tema di comunicazioni digitali tra pubbliche amministrazioni e professionisti è stata più volte modificata, ne consegue che la soluzione della questione varia in base al momento in cui è stata effettuata la comunicazione mediante PEC.

Secondo l’Adunanza Plenaria, fino al 2011, una comunicazione siffatta sarebbe stata irrituale. Solo dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 195/11 (che ha modificato l’art. 136 c.p.a. obbligando i difensori a indicare nel ricorso o nel primo atto difensivo un indirizzo PEC e prevedendo espressamente una presunzione di conoscenza delle comunicazioni trasmesse allo stesso), devono ritenersi valide le comunicazioni effettuate mediante PEC, a prescindere dall’avvenuta indicazione dell’indirizzo PEC nel primo atto processuale e purché  l’indirizzo sia corretto e il sistema di trasmissione abbia funzionato.

Infatti, “La prescrizione relativa all’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore dev’essere […] intesa come preordinata al solo fine di agevolare la segreteria, in attesa di un accesso diretto (ormai operativo) a un elenco pubblico, nella ricerca della casella di riferimento, ma non può essere decifrata come condizione di efficacia della norma”.

D’altra parte, il combinato disposto della disposizione, del 2008, che obbligava gli avvocati a dotarsi di un indirizzo PEC e a comunicarlo al loro consiglio dell’ordine, e dell’art.136 del c.p.a., che sanciva in via generale l’estensione al processo amministrativo di tale modalità informativa, non può che essere letto, in esito a un’esegesi sistematica e coordinata dei due precetti, come prescrittivo dell’introduzione a regime (dall’entrata in vigore della norma processuale) delle comunicazioni digitali nei giudizi amministrativi, restando così confermate l’assenza di qualsivoglia valenza condizionante […] dell’indicazione dell’indirizzo PEC del difensore nel primo atto difensivo e la sua mera funzione di ausilio ai (nuovi) compiti di segreteria”. TM



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Inserito in data 11/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE - QUARTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 1 dicembre 2014, n. 50055

Rimessione alle SU sulle tabelle che classificano le sostanze come stupefacenti

Al fine di prevenire eventuali contrasti nella giurisprudenza di legittimità, la Cassazione penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione della “rilevanza penale, o meno, di tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle allegate al D.P.R. n. 309 del 1990, dal 27 febbraio 2006 e commessi entro la data (21 marzo 2014) dell'entrata in vigore del D.L. 20 marzo 2014, n. 36”.

La questione si pone perché,  in primis, con sentenza n. 32/14, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi e affermato la reviviscenza della disciplina previgente con le connesse tabelle, che non contenevano le circa 500 sostanze che erano state qualificate dal legislatore come stupefacenti, solo dopo l'entrata in vigore della legge dichiarata incostituzionale; solo con d.l. 36/2014, il Governo ha ripristinato l'inclusione, tra le sostanze sottoposte al controllo del Ministero della salute, con il connesso regime giuridico, delle numerose sostanze classificate come stupefacenti dopo l’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi. Inoltre, secondo la pacifica giurisprudenza della Cassazione, "non trova applicazione la normativa in materia di stupefacenti ove le condotte abbiano ad oggetto sostanze droganti non incluse nel catalogo di legge, perchè la nozione di sostanza stupefacente ha natura legale, nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione solo le sostanze indicate nelle tabelle allegate al T.U. sugli stupefacenti".

Sulla questione non si è ancora pronunciata la Corte di Cassazione mentre sussiste un contrasto all’interno delle Procure della Repubblica.

Invero, per alcune Procure, “la sentenza della Corte Costituzionale ha prodotto, irrimediabilmente, una serie di abolitiones criminis rispetto a tutti i fatti concernenti sostanze introdotte per la prima volta nelle tabelle dal 2006. Con tutti i conseguenti effetti sui processi in corso, nonchè sulle sentenze già passate in giudicato, che andrebbero revocate in forza dell'applicazione dell'art. 673 c.p.p.”. In tal senso deporrebbe anche la circostanza che, in sede di conversione del d.l. n. 36/14, si è sostituita l’espressione “continuano” con quella “riprendono” a produrre effetti, come a voler fugare il dubbio che il legislatore volesse introdurre una disciplina con efficacia retroattiva.

Per altre Procure, invece, tali condotte sarebbero ancora penalmente rilevanti; ciò in quanto i decreti ministeriali mediante i quali erano state inserite nelle tabelle le ulteriori sostanze stupefacenti non sarebbero stati travolti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014, in quanto rientrerebbero tra le norme che non presuppongono le disposizioni dichiarate incostituzionali. TM




Inserito in data 10/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 5 dicembre 2014, n. 25811

Nullità del trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica

L’art. 40, secondo comma, legge 28 febbraio 1985, n. 47, prevede non solo la nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili da cui non risulta la regolarità urbanistica o la pendenza del procedimento di sanatoria, ma altresì la nullità (di carattere sostanziale) per gli atti di trasferimento di immobili comunque non in regola con la normativa urbanistica. CDC




Inserito in data 10/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 10 dicembre 2014, n. 34

Incameramento della cauzione provvisoria per carenza dei requisiti ex art. 38 cod. contr.

La sentenza afferma la legittimità della clausola che preveda l’incameramento della cauzione provvisoria nei confronti dei concorrenti non aggiudicatari, qualora sia accertata la carenza del possesso dei requisiti generali di cui all’art. 38 d.lgs. 163/2006.

In tal senso depongono, anzitutto, le norme di riferimento (artt. 48, comma 1, e 75, commi 1 e 6, d.lgs. 163/2006), dalle quali si evince che l’escussione della cauzione non presuppone in via esclusiva il fatto dell’aggiudicatario né si limita alle dichiarazioni sui requisiti speciali; essa, al contrario, trova spazio applicativo anche quando, per il concorrente (pur se non aggiudicatario), risulti non corrispondente al vero quanto dichiarato in occasione della rappresentazione di requisiti generali (in tal senso, si era già pronunciata Ad. Plen. n.8 del 2012).

Ciò risulta inoltre giustificato, se non imposto, sia dalla funzione della cauzione provvisoria e dalla previsione del suo incameramento, che dalla sua natura giuridica.

La sua funzione è quella di responsabilizzare i partecipanti in ordine alle dichiarazioni rese, di garantire la serietà e l’affidabilità dell’offerta, nonché di escludere da subito i soggetti privi delle richieste qualità volute dal bando. L’escussione costituisce allora conseguenza della violazione dell’obbligo di diligenza gravante sull’offerente, tenuto conto che gli operatori economici, con la domanda di partecipazione, sottoscrivono e si impegnano ad osservare le regole della relativa procedura delle quali hanno piena contezza.

Sotto il profilo della natura giuridica, si ritiene che l’istituto della cauzione provvisoria debba ricondursi alla caparra confirmatoria, sia perché è finalizzata a confermare la serietà di un impegno da assumere in futuro, sia perché tale qualificazione risulta la più coerente con l’esigenza, rilevante contabilmente, di non vulnerare l’amministrazione costringendola a pretendere il maggior danno (come accadrebbe qualora la cauzione provvisoria svolgesse la funzione di clausola penale). In definitiva e in sostanza, si tratta di una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio, che costituisce l’automatica conseguenza della violazione di regole e doveri contrattuali espressamente accettati.

Né appaiono convincenti le obiezioni sollevate dalla tesi più restrittiva. Anzitutto, l’invocato principio di legalità riguarda le sanzioni in senso proprio e non già le misure (quali la cauzione provvisoria) di indole patrimoniale liberamente contenute negli atti di indizione, accettate dai concorrenti, non irragionevoli né illogiche, rispondenti all’autonomia patrimoniale delle parti, non contrarie a norme imperative e anzi agganciate alla ratio rinvenibile nelle disposizioni del codice.

Anche il principio di tassatività è male invocato, essendo riferibile alle sole cause di esclusione dalla gara, e non già ad altre misure di tipo patrimoniale contenute in clausole degli atti di indizione e riferibili a doveri di correttezza contrattuale.

Infine, portano a concludere nel senso sostenuto anche altre due previsioni.

Si tratta dell’art. 49 d.lgs. 163/2006, che, sia pure nell’ambito della disciplina dell’avvalimento, ma con valenza sistematica dal punto di vista interpretativo, al comma 3 prevede che “nel caso di dichiarazioni mendaci, ferma restando l’applicazione dell’articolo 38, lettera h nei confronti dei sottoscrittori, la stazione appaltante esclude il concorrente(non già il solo aggiudicatario) e escute la garanzia”.

Vi è poi l’articolo 38, comma 2-bis, d.lgs. 163/2006 (inserito dall’art. 39, comma 1, d.l. 90/2014), il quale prevede che la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2 obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria stabilita dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 50.000 euro, il cui versamento è garantito dalla cauzione provvisoria (assegnando termine per regolarizzare e prevedendo altresì che le irregolarità non essenziali non rilevino). Al di là dell’irrilevanza di tale norma ratione temporis (in quanto applicabile solo alle procedure di affidamento indette successivamente al 24 giugno 2014), essa conferma la legittimità (della previsione nei bandi della “sanzione”) dell’incameramento della cauzione provvisoria in caso di mancanze relative ai requisiti generali di cui all’art. 38, riferibili a tutti i concorrenti e non al solo aggiudicatario. CDC



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Inserito in data 09/12/2014
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 4 dicembre 2014, n. 2083

Concessione demaniale e revoca da parte del Sindaco: vizio di incompetenza

I Giudici del Tribunale calabrese accolgono la censura mossa avverso il provvedimento di revoca, disposto da un Sindaco, riguardo a pregressi pareri favorevoli resi in merito ad una concessione demaniale.

Il Collegio, richiamando adeguati riferimenti normativi e giurisprudenziali, sottolinea come nel TUEL sia netta la distinzione esistente tra organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee generali cui attenersi e degli scopi da perseguire) e alla seconda quelli di gestione (amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva dell’adozione di tutti i relativi provvedimenti gestionali, anche discrezionali, e loro simmetrici atti negativi) (Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 7 aprile 2011, n.2154).

Pertanto, visto che nel caso in esame il provvedimento concessorio gravato, al pari di quelli autorizzatori ed in genere meramente organizzativi, era stato correttamente emesso dal dirigente competente, non è ammissibile – ad avviso dei Giudici, che la relativa rimozione venga disposta da un Organo diverso – quale il Sindaco, appunto.

Ne consegue, peraltro, che ai sensi dell’articolo 34 – 2’ comma c.p.A. - l’accoglimento del vizio di incompetenza comporta l’assorbimento di ogni ulteriore censura.

Il Collegio, infatti, aderisce sul punto all’impostazione ermeneutica secondo cui è principio generale del processo amministrativo che l’accoglimento di un vizio-motivo di incompetenza dell’organo che ha provveduto è intrinsecamente e necessariamente assorbente di ogni altro vizio-motivo dedotto nel ricorso: giacchè tale vizio accolto, per la sua stessa natura, inficia tutti gli atti successivi, che inevitabilmente dovranno essere reiterati dall’organo competente (Cfr. C.G.A., 6 marzo 2012, n.273; T.A.R. Sicilia 13 giugno 2013, n.1328). CC



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Inserito in data 09/12/2014
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. II, 4 dicembre 2014, n. 3177

Diritto dell’allieva all’assegnazione di un docente di sostegno per 24 ore settimanali

Il Collegio etneo richiama la necessità che l’amministrazione scolastica garantisca al discente affetto da gravi patologie – tra quelle contemplate ex lege n. 104/92 – gli strumenti adeguati al fine di assicurare l'effettività dell'inserimento nel percorso scolastico frequentato.

Nel caso di specie, invece, veniva circoscritto il monte ore assegnato al docente di sostegno, in considerazione delle limitate disponibilità finanziarie lamentate dall’Amministrazione centrale.

I Giudici, condividendo le doglianze del genitore ricorrente, ricordano l’incomprimibilità  del diritto fondamentale del soggetto affetto da disabilità grave a fruire di un percorso scolastico effettivo.

Pertanto, richiamando l’insegnamento della Corte Costituzionale n. 80/10, il Collegio sottolinea la necessità di delimitare la discrezionalità legislativa in un ambito, quale quello oggetto dell’odierna censura, che non può dirsi finanziariamente condizionato, proprio per il rango di diritto fondamentale che riveste.

In ragione di ciò, viene accolto il ricorso e, per l’effetto, viene disposto l’ampliamento delle ore settimanali da assegnare alla docente di sostegno, in favore dell’odierna ricorrente. CC



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Inserito in data 09/12/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA - SENTENZA 2 dicembre 2014, CAUSE RIUNITE da C 148/13 a C 150/13

Stranieri: richiesta di asilo e diritto alla sfera personale

La Corte del Lussemburgo interviene, ancora una volta, in tema di diritti fondamentali, libertà di stabilimento e delimitazione dei poteri di ingerenza dello Stato nella sfera privata di ciascun singolo.

Più nel dettaglio, i Giudici circoscrivono la portata dell’intervento delle Autorità nazionali che, al momento della richiesta di asilo da parte di stranieri perseguitati dai Paesi di origine in ragione della propria omosessualità, non possono ingerirsi al punto da procedere ad interrogatori sulle relative pratiche sessuali, né accettare prove video miranti a provare l'omosessualità, né tantomeno dedurre la non credibilità delle dichiarazioni eventualmente rese dai medesimi istanti in test all’uopo predisposti.

Si tratta, dice la Corte con riguardo a quanto accaduto in alcuni Stati membri, di pratiche lesive della dignità umana, il cui rispetto è siglato dalla Carta fondamentale dei diritti umani.

E’ innegabile, dice il Collegio, che si tratti di un ambito afferente alla sfera più intima del singolo, meritevole della più ampia protezione, oltrechè di una corretta inviolabilità anche da parte dell’Apparato statale. CC




Inserito in data 05/12/2014
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, 4 dicembre 2014, n. 629

Affidamento in house e partecipazione indiretta dei privati

Il giudice di merito triestino ha accolto il ricorso avverso la delibera consigliare che ha disposto l’affidamento in house ad una società consorziata partecipata, seppur in minima parte, da soggetti privati.

La sentenza in commento richiama i dettami enunciati dall’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008 che richiede, in termini assoluti, il requisito della totalità della proprietà pubblica.

L’affidamento in house, infatti, è ammesso solo ove sia possibile considerare la società affidataria quale “longa manus” della pubblica amministrazione, sì da non alterare le dinamiche del mercato falsando la concorrenza. Affinché sia possibile, in ragione del cd. controllo analogo, è richiesta la necessaria partecipazione pubblica totalitaria, con conseguente esclusione in caso di partecipazione di un'impresa privata al capitale di una società (anche laddove lo statuto consenta la possibile futura cessione delle quote) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell'ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile.

Il giudice di primo grado, inoltre, ha affermato che <<la nuova direttiva comunitaria sulle concessioni 2014/23/UE, che sul punto ammette in talune ipotesi la partecipazione indiretta dei privati alle società in house, non risulta ancora recepita dagli Stati membri, né essa si può considerare self executing, sia per la sua natura, che richiede un recepimento e adattamento a livello nazionale, sia perché non è ancora scaduto il termine per il recepimento stesso>>, pertanto non può trovare applicazione nel caso di specie. Ne consegue l’illegittimità dell’affidamento in house ad una società che, pur normativamente definita come ente pubblico economico, non può essere sostanzialmente considerata tale. VA



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Inserito in data 04/12/2014
TAR ABRUZZO - PESCARA, SEZ. I, 3 dicembre 2014, n. 486

Silenzio assenso e permesso di costruire

Il tribunale di merito ha dato esito negativo alla richiesta di accertamento dell’avvenuta formazione del silenzio assenso su di un’istanza presentata al fine di ottenere dal comune il permesso di costruire.

Il giudice di primo grado, infatti, ha rilevato la carenza della dichiarazione del progettista abilitato che attesti la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti vigenti, e alle altre normative di settore che incidano sull’attività edilizia.

L’art. 20 comma 9 del d.p.r. 380/01, stabilendo che  “Decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui al comma 9” rinvia implicitamente alla parte della norma che descrive i caratteri essenziali della “domanda per il rilascio del permesso di costruire” della quale la suddetta attestazione di conformità da parte del professionista abilitato costituisce elemento essenziale.

Ne consegue che, in carenza della stessa (mancando peraltro la conformità di fatto rispetto al piano regolatore che prevedeva un vincolo a “scuola elementare” nella zona interessata), non possono ritenersi sussistenti gli elementi essenziali per la formazione del silenzio assenso il quale trova la sua giustificazione nel principio di semplificazione: pertanto la dichiarazione di conformità << costituisce appunto la motivazione interna del provvedimento favorevole al privato e può giustificare, in un ottica di semplificazione, l’inerzia dell’Amministrazione e il conseguente assenso tacito su un progetto apparentemente conforme alla disciplina urbanistica >>. VA



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Inserito in data 03/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 dicembre 2014, n. 5955

Funzione cautelare e termine di efficacia dell’informativa antimafia

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ci ricorda che l’informativa antimafia, rilasciata dal prefetto in relazione alle imprese che hanno o mirano ad avere rapporti economici con pubbliche amministrazioni o con soggetti privati  che svolgono funzioni pubbliche, ha funzione spiccatamente cautelare, nel senso che serve a prevenire il pericolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni.

Proprio per questo essa si basa su elementi idonei a disvelare i tentativi di infiltrazione mafiosa, aventi un grado di significatività inferiore rispetto alle prove determinanti l'applicazione di sanzioni penali o di misure di sicurezza personali, ma, al contempo, non riducibili a semplici congetture prive di riscontro fattuale.

Ne consegue che, anche in base al principio tempus regit actum, è legittima l’interdittiva antimafia relativa ad un soggetto che successivamente venga assolto dal giudice penale, proprio perché essa avrò svolto la funzione cautelare che gli è propria.

Infine, i Giudici di Palazzo Spada ribadiscono che ”il disposto di cui all'art. 2, co. 1, del d.P.R. 3 giugno 1998 n. 252 ss.mm.ii., nella parte in cui afferma che la documentazione è utilizzabile solo per sei mesi dal rilascio, intende riferirsi ai soli casi di documentazioni negative, vale a dire attestanti che non risultano infiltrazioni della criminalità organizzata, e non già (come è nella specie) anche casi di documentazioni positive, le quali conservano pertanto la loro capacità interdittiva anche oltre quel termine”. TM



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Inserito in data 03/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 dicembre 2014, n. 5972

Il nuovo soccorso istruttorio si applica alle gare indette dopo la sua entrata in vigore

I Giudici di Palazzo Spada ritengono legittima l’esclusione dalla procedura di gara di un’impresa che, in violazione dell’art. 38, secondo comma, d.lgs. n. 163/06, non aveva dichiarato una condanna penale riportata.

Infatti, “la completezza e la veridicità (sotto il profilo della puntuale indicazione di tutte le condanne riportate) della dichiarazione sostitutiva di notorietà rappresentano lo strumento indispensabile, adeguato e ragionevole, per contemperare i contrapposti interessi in gioco, quello dei concorrenti alla semplificazione e all'economicità del procedimento di gara (a non essere, in particolare, assoggettati ad una serie di adempimenti gravosi, anche sotto il profilo strettamente economico, come la prova documentale di stati e qualità personali, che potrebbero risultare inutili o ininfluenti) e quello pubblico, delle amministrazioni appaltanti, di poter verificare con immediatezza e tempestività se ricorrono ipotesi di condanne per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, potendo così evitarsi ritardi e rallentamenti nello svolgimento della procedura ad evidenza pubblica di scelta del contraente, così realizzando quanto più celermente possibile l'interesse pubblico perseguito proprio con la gara di appalto […], così che la sola mancata dichiarazione dei precedenti penali o di anche solo taluno di essi, indipendentemente da ogni giudizio sulla loro gravità, rende legittima l'esclusione dalla gara”.

Inoltre, “il modello predisposto dall’amministrazione appaltante, che prevedeva l’obbligo per i concorrenti ovvero per i suoi legali rappresentanti di dichiarare che non fosse stata pronunciata condanna passata in giudicato o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta per reati gravi in danno dello Stato, non può considerarsi idoneo a indurre in errore il dichiarante circa l’effettivo ambito della dichiarazione da rendere, stante la puntuale disposizione normativa di riferimento e spettando solo all’amministrazione la valutazione della gravità dei reati”.

Infine, “secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 39 del d.l. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla l. n. 114 del 2014, le disposizioni di cui ai precedenti commi 1 e 2, sostanzialmente invocate dall’appellante a sostegno della asserita sanabilità dell’omissione contestata, si applicano alle procedure di affidamento indette successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legge e quindi non sono applicabili all’appalto de qua, la cui procedura è stata avviata nel 2013”. TM



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Inserito in data 02/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5917

Sulla non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento

La regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, sancita dall'art. 30, comma 3, cpa è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva dell'art. 1227, secondo comma, cc. Pertanto, pur non sussistendo una pregiudizialità di rito nel quadro normativo anteriore all'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la mancata impugnazione del provvedimento amministrativo costituiva già in passato un comportamento contrario a buona fede, qualora sia accertato che una tempestiva reazione avrebbe evitato o mitigato il danno.

L’applicazione di tale principio non comporta una preclusione di ordine processuale all'esame nel merito della domanda risarcitoria; piuttosto, determina un esito negativo nel merito dell'azione, perché la domanda di risarcimento del danno derivante da provvedimento non, o tardivamente, ovvero inammissibilmente, impugnato è ammissibile ma infondata nel merito, in quanto la mancata corretta impugnazione dell'atto fonte del danno consente a tale atto di operare in modo precettivo (dettando la regola del caso concreto, autorizzando la produzione dei relativi effetti e imponendone l'osservanza ai consociati), così impedendo che il danno possa essere considerato ingiusto o illecita la condotta tenuta dalla P.A. in esecuzione dell'atto in oppugnato.

Non deve essere quindi risarcito il danno che il ricorrente non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui era tenuto, secondo correttezza. Del resto, la giurisprudenza più recente ha adottato un'interpretazione estensiva ed evolutiva dell’art. 1227, secondo comma, cc, secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte ad evitare o ridurre il danno). CDC



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Inserito in data 02/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5915

Verifica di anomalia dell’offerta, sindacato estrinseco e applicazione alle concessioni

L’art. 86, terzo comma, d.lgs. 163/2006 rimette alle valutazioni delle stazioni appaltanti la verifica di congruità dell’offerta, al di fuori dei casi tassativi previsti dai precedenti commi 1 e 2 (rispettivamente, per le gare da aggiudicare con il criterio del massimo ribasso e dell’offerta economicamente più vantaggiosa). Secondo giurisprudenza costante, le valutazioni in questione costituiscono tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, ordinariamente sottratta al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, se non inficiata da evidente irragionevolezza o travisamento dei fatti emersi nell’istruttoria.

Ciò vale per le procedure di affidamento di appalti pubblici, ma anche per gli affidamenti di concessioni di servizi, in quanto l’art. 86, comma 3, d.lgs. 163/2006 rientra fra i principi generali applicabili, ex art. 30 d.lgs. 163/2006, anche alle concessioni di servizi.

Tale norma, infatti, rinvia ai generali principi dell’azione amministrativa di cui all’art. 2, d.lgs. 163/2006, dato che la verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzata alla corretta esecuzione del contratto e costituisce una cautela preventiva della stazione appaltante, attraverso la quale essa anticipa nella fase dell’evidenza pubblica un approfondimento delle caratteristiche dell’offerta, al fine di saggiarne la sostenibilità economica, in tal modo prevenendo possibili inadempimenti dell’impresa aggiudicataria in fase esecutiva, fonti di gravi ripercussioni per l’interesse pubblico sotteso alla regolare esecuzione dei contratti stipulati dall’amministrazione.

Dunque, emerge anche da questa angolazione la natura ampiamente discrezionale delle valutazioni che sottostanno alla decisione di sottoporre a verifica di anomalia le offerte presentate in sede di gara.

Peraltro, l’applicabilità alle concessioni di servizi delle disposizioni del d.lgs. 163/2006 può avvenire anche in conseguenza di un richiamo ad esse da parte della normativa di gara, e dunque in virtù di un autovincolo espresso dell’amministrazione aggiudicatrice. A tal fine è necessario un richiamo puntuale, doveroso alla luce della regola del clare loqui cui le amministrazioni sono tenute nella predisposizione dei bandi di gara. CDC



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Inserito in data 01/12/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 dicembre 2014, n. 5949

Organismi di diritto pubblico e profili di giurisdizione

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia de qua interviene in merito alla dibattuta questione della giurisdizione del giudice amministrativo, soffermandosi, in particolare, riguardo ai c.d. organismi di diritto pubblico.

Invero, il TAR Lazio aveva dichiarato inammissibili i due separati ricorsi con cui si era chiesto l'annullamento di un avviso pubblico indetto da una società a responsabilità limitata per la selezione di 34 operatori che avrebbero dovuto prestare servizio presso determinati sportelli del Comune di Roma.

Alla luce di quanto chiarito dal suddetto TAR, non essendo la società suddetta qualificabile come “organismo di diritto pubblico”, al caso de quo non è possibile applicare affatto il d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario.

Successivamente, con atto di appello, gli interessati hanno tuttavia chiesto la riforma di tale sentenza, insistendo, innanzitutto, per l'appartenenza della controversia in questione al giudice amministrativo, e non già al giudice ordinario.

Resiste, per contro, al gravame la società in questione, chiedendo il rigetto della impugnata sentenza e la inammissibilità ed infondatezza del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

I Giudici di Palazzo Spada – alla luce della vicenda descritta – asseriscono che la riserva di giurisdizione del giudice amministrativo, prevista dall'art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, non possa trovare applicazione nella fattispecie de qua, perché non sussiste alcuna ragione per discostarsi dalle rigorose conclusioni contenute nella sentenza n. 28329 della Suprema Corte.

La società, infatti, non è annoverabile tra le Pubbliche Amministrazioni, la giurisdizione del giudice amministrativo (ex art. 7, comma 2, c.p.a.) presuppone inoltre la riconducibilità dell'atto ovvero del provvedimento all'esercizio di un “potere pubblico”, non configurabile nel caso di specie.

I Giudici di Palazzo Spada, puntualizzano, altresì, che: “La giurisdizione del giudice amministrativo presuppone la finalità della instaurazione di un rapporto di lavoro pubblico, seppure contrattualizzato, alle dipendenze di una pubblica amministrazione e non può neppure ipotizzarsi in relazione all'insorgenza di un rapporto di lavoro privato alle dipendenze di una società privata”.

In conclusione, l'appello è stato, infatti, dichiarato improcedibile per un ricorrente ed è stato respinto con riferimento ad un altro interessato. GMC



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Inserito in data 01/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 25 novembre 2014, n. 24986

Sulla violazione delle norme del Codice della Privacy d.lgs. 196/2003

I Giudici di legittimità, con la sentenza in epigrafe, intervengono in merito ad un caso riguardante i genitori di una minore disabile, i quali lamentano la violazione di alcune norme del Codice della Privacy da parte di una testata giornalistica.

La madre e il padre della bambina, infatti, ricorrono avverso il responsabile di una rivista periodica, che, violando le disposizioni del d.lgs. 196 del 2003, ha pubblicato dei dati sensibili riguardanti la minore stessa, specificamente, la notizia di adozione di delibera comunale di assistenza alla stessa.

Essi, contestavano, sostanzialmente, l'illecito trattamento giornalistico dei dati personali della minore.

Il giornale, tuttavia, si difendeva eccependo che la pubblicazione si riferisse a dei dati già resi noti da un organo di informazione facente parte della Amministrazione comunale, atto che, tra l'altro, sarebbe stato affisso anche all'albo pretorio.

In primo e in secondo grado, i genitori hanno ottenuto l'accoglimento della propria domanda di risarcimento del danno, la testata giornalistica, tuttavia, ricorre in Cassazione.

Secondo gli Ermellini, valutando il caso de quo, non sarebbe ivi applicabile la disposizione contenuta nel Codice suddetto e concernente la possibilità di pubblicare notizie già rese note direttamente dall'interessato, anche mediante un proprio comportamento in pubblico.

Nello specifico, l'handicap della ragazza – secondo quanto chiarito dalla testata periodica – sarebbe stato tuttavia “evidente”.

La Suprema Corte, chiarisce che “la percepibilità icto oculi, da parte di terzi, della condizione di handicap di una persona non può, infatti, considerarsi circostanza o fatto reso noto direttamente dall'interessato o attraverso un comportamento di questi in pubblico e, conseguentemente, non è applicabile in siffatta ipotesi la richiamata norma”.

Nel caso de quo, risulta violata la riservatezza di una minore della quale sono stati divulgati gli elementi di identificazione e i dati sensibili concernenti la sua salute, senza che essi fossero di interesse pubblico ed essenziali alla informazione.

Il giudice di merito, nel caso di specie, ha dunque operato correttamente il bilanciamento tra i due interessi coinvolti, ossia interesse alla tutela della privacy della minore e interesse pubblico alla divulgazione della notizia, facendo prevalere il primo sull'altro. GMC




Inserito in data 01/12/2014
CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 novembre 2014, n. 48734

L'istituto scolastico è da considerarsi “privata dimora”

I Giudici della Suprema Corte, hanno chiarito, con la pronuncia de qua, che ai fini della integrazione del reato di furto in abitazione (espressamente previsto all'art. 624 – bis del c.p.) può considerarsi “privata dimora” anche l'istituto scolastico, da intendersi, in generale, quale luogo in cui le persone si trattengono al fine di compiere degli atti rientranti all'interno della sfera della loro vita privata.

Gli Ermellini, nel caso de quo, hanno infatti confermato la condanna di un soggetto per il delitto di furto in un istituto scolastico, condividendo quanto statuito dalla Corte d'Appello e considerando altresì infondate le doglianze dell'imputato riguardo l'integrazione della fattispecie in parola.

La Suprema Corte ha invero ribadito l'interpretazione affermata e chiarita dal costante orientamento giurisprudenziale (si consideri, ad esempio, Cass. n. 43089/2007), alla luce del quale devono considerarsi luoghi destinati a privata dimora, quelli in cui le persone “si trattengano per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata”.

Inoltre, è l'obiettivo perseguito dal Legislatore quello di ampliare – quanto più possibile – la portata della originaria previsione del furto in abitazione di cui all'art. 625 del c.p., n.1, ricomprendendo, infatti, anche dei luoghi in cui compiono attività lavorative ovvero studi professionali.

I Giudici di legittimità, hanno quindi affermato definitivamente che la scuola – e, più in generale, ogni forma di istituto scolastico – rientri tra i luoghi di privata dimora; è indubitabile, infatti, che all'interno di questa possano esservi dei locali in cui i soggetti che la frequentano si trattengano per svolgere la propria vita privata, si pensi, a titolo esemplificativo, agli spogliatoi o, ancora, ai cortili destinati all'area di ricreazione. GMC




Inserito in data 28/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 novembre 2014, n. 5884

Garanzia fideiussoria a prima richiesta e obblighi di buona fede della P.A.

Essendo stato rilasciato il permesso di costruire per la realizzazione di un complesso turistico –ricettivo, la società beneficiaria si impegnava al versamento, in tre rate, il contributo di concessione.

Più precisamente la questione sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato attiene alla possibilità o meno di configurare in capo alla p.a., in applicazione degli artt. 1227 e 1375 c.c., un onere di attivazione della garanzia preventivamente alla comminazione della sanzione pecuniaria per il mancato pagamento dei ratei relativi agli oneri di urbanizzazione primaria e seconda tira e per contributo sul costo di costruzione.

Con la pronuncia in commento il Supremo Consesso, pur dando atto di un indirizzo giurisprudenziale che, parimenti a quanto affermato dal giudice di primo grado, ritiene applicabile nei confronti della p.a. gli art. 1227 e 1375 c.c., ha disatteso quanto statuito dal Tar.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, ritengono che l’orientamento prospettato in primo grado, il quale fa rientrare tra i “comportamenti attivi” del creditore, richiesti al fine di evitare un aggravamento dei danni, anche l’attivazione della garanzia fideiussoria (sì da evitare l’applicazione della sanzione massima per il ritardo accumulato in relazione alla riscossione del credito), non posso trovare applicazione in tali ipotesi.

Invero, <<in tema di sanzioni per ritardato pagamento di singole quote del contributo per il rilascio della concessione edilizia (ex art. 81 della l. Reg. Veneto n. 61 del 1985), […] va condivisa la giurisprudenza –prevalente- di questo Consiglio  […], con la quale si è avuto modo di osservare e di ribadire – in relazione, in modo particolare alla segnalata “scorrettezza” della P. A. nel non avere “esercitato la facoltà di attivazione della garanzia alla scadenza della prima rata”, o per avere “omesso di escutere l’istituto bancario fideiussore”, che “ … in assenza di inadempimenti imputabili all'Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità "da contatto" oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all'art. 1227 c. c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria>>.

A ben vedere, infatti, la natura della garanzia fideiussoria è quella di tenere indenne la p.a. dal rischio del mancato pagamento degli oneri contributivi, non anche quella di sgravare il debitore principale dall’obbligo di pagamento. Pertanto l’adempimento del garante, anche a prima richiesta, scatterebbe solo a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale e soltanto laddove la p.a. decida di attivarsi senza attendere l’adempimento della prestazione dal debitore, non essendo ravvisabile alcun obbligo di escussione.

In conclusione il Consiglio di Stato ritiene che <<in materia di obbligazioni "portable" quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore […]non spetta al soggetto tenuto al pagamento – in assenza di specifici pattuizioni del beneficium ordinis o del beneficium excussionis - stabilire se e quando il Comune creditore debba esercitare la facoltà di attivazione della garanzia, né l’art. 81 citato prevede in capo all’amministrazione concedente alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore né, infine, la mancata escussione del garante comporta la liberazione del garantito>>.

Appare, dunque, legittima la comminazione della sanzione pecuniaria essendo il ritardo accumulato ne pagamento delle rate il risultato del comportamento della società costruttrice (che si basava sull’aspettativa, poi disattesa, di poter ottenere dei provvedimenti cautelari favorevoli da parte del giudice amministrativo, nell’attesa della risoluzione della controversia involvente altri aspetti del provvedimento amministrativo. VA



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Inserito in data 28/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 25 novembre 2014, n. 48981

Favoreggiamento alla prostituzione e annunci hot a mezzo stampa

L’art. 3 comma 5 della l. 75/1958 sanziona la condotta di “chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.

La ratio ispiratrice della norma deve individuarsi nella volontà del legislatore di sanzionare la condotta di quanti svolgano il ruolo di intermediari tra le prostitute ed i clienti al fine di procacciarne nuovi, a prescindere dal fine di lucro.

Ne consegue che la fattispecie incriminatrice, per l’integrazione del reato, richiede la sussistenza dell’elemento soggettivo dell’agente (rappresentato, come già detto, dalla volontà di procacciamento di nuovi clienti).

Pertanto, a pere della Corte di Cassazione <<il delitto di lenocinio a mezzo stampa non è integrato dalla mera raccolta e pubblicazione di inserzioni pubblicitarie che si offrono per incontri sessuali, trattandosi di attività del tutto scollegata dal meretricio da queste esercitato e la cui finalità è esclusivamente la prestazione del servizio e non anche l’intermediazione tra prostituta e cliente>>.

Infatti, il discrimine tra attività lecita ed illecita risiede proprio nella natura “ordinaria” o meno dei servizi offerti, dal fine perseguito, non essendo sufficiente la consapevolezza della natura degli annunci pubblicati da parte del direttore del mezzo stampa. VA




Inserito in data 27/11/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 novembre 2014, n. 265

Sulle dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare

La giurisprudenza della Consulta è costante nel ritenere che le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare “sono coperte dalla prerogativa dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost. a condizione che esse siano legate da un nesso funzionale con l’attività parlamentare in concreto esercitata”.

In questa prospettiva è stato ritenuto indefettibile “il concorso di due requisiti: a) un legame di ordine temporale fra l’attività parlamentare e l’attività esterna […], tale che questa venga ad assumere una finalità divulgativa della prima; b) una sostanziale corrispondenza di significato tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni e gli atti esterni, al di là delle formule letterali usate […], non essendo sufficiente né una semplice comunanza di argomenti né un mero “contesto politico” entro cui le dichiarazioni extra moenia possano collocarsi […], né il riferimento alla generica attività parlamentare o l’inerenza a temi di rilievo generale, seppur dibattuti in Parlamento […], né, infine, un generico collegamento tematico o una corrispondenza contenutistica parziale (da ultimo, sentenza n. 55 del 2014)” (sentenza n. 221 del 2014).

È da aggiungere che, come già chiarito da questa Corte, “L’esigenza di salvaguardia della autonomia e libertà delle assemblee parlamentari dalle possibili interferenze di altri poteri (in particolare, di quello giudiziario) – quale sottesa alla insindacabilità delle opinioni espresse da membri del parlamento, ex art. 68 Cost. – deve, infatti, bilanciarsi con l’esigenza, di pari rilievo costituzionale, di garanzia del diritto dei singoli alla tutela della loro dignità di persone, prescritta dall’art. 2 Cost. E l’individuazione del punto di equilibrio, tra i corrispondenti contrapposti valori, porta, appunto, ad escludere che l’insindacabilità copra la complessiva attività politica posta in essere dal membro del Parlamento – poiché ciò trasformerebbe la prerogativa dell’immunità funzionale in un privilegio personale (sentenze n. 313 del 2013, n. 329 del 1999 e n. 289 del 1998)  – ed a delimitare l’area di operatività della immunità in correlazione all’ambito di esercizio delle funzioni parlamentari” (sentenza 221 del 2014). EMF



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Inserito in data 27/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 24 novembre 2014, n. 48663

Art. 316-ter c.p. e conguaglio per somme non corrisposte al lavoratore

Con la pronuncia in epigrafe, gli Ermellini affermano che integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all’art. 316-ter cod. pen. “la condotta del datore di lavoro che, mediante la fittizia esposizione di somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità per malattia, maternità o assegni familiari, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute all’istituto previdenziale a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni”.

La giurisprudenza tradizionale (Cass. pen. n. 42937/2012; Cass. pen. n. 11184/2007), invece, collocava la fattispecie de qua nell’alveo del delitto di truffa; mentre una più recente decisione, ritenendo insussistente l’elemento del danno, ravvisava in astratto la configurabilità del reato di appropriazione indebita (Cass. pen. n. 18762/2013). EMF




Inserito in data 26/11/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 26 novembre 2014, Cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13

Normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato

E' contraria al diritto dell'Unione europea la normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola statale, è quello che ha stabilito la pronuncia de qua della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in data odierna.
I Giudici hanno asserito che la clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell'allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l'espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo.

Risulta, invero, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un'esigenza reale, sia idoneo a conseguire l'obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine, e, dall'altro, non prevede nessun'altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. GMC



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Inserito in data 25/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2014, n. 5830

Possibile incremento del termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione

Il termine per l’impugnativa del provvedimento di aggiudicazione non decorre sempre dal momento della comunicazione, ma può essere incrementato di un numero di giorni pari a quello necessario affinché il soggetto (che si ritenga) leso dall’aggiudicazione possa avere piena conoscenza del contenuto dell’atto e dei relativi profili di illegittimità, comunque entro il limite dei dieci giorni fissati per esperire la particolare forma di accesso - semplificato ed accelerato – disciplinata dall’art. 79.5quater.

Ciò consente il sostanziale rispetto delle esigenze acceleratorie, di cui è portatore l’art. 120 cpa e, nello stesso tempo, consente il rispetto del consolidato principio secondo il quale solo dalla piena conoscenza dell’atto censurato (o comunque dalla sua piena conoscibilità) inizia a decorrere il termine per la sua impugnazione. CDC



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Inserito in data 25/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 novembre 2014, n. 5831

Sindacato giurisdizionale sulle leggi provvedimento

La pronuncia ribadisce (con riferimento ad un “piano di rientro” sottoscritto da una Regione e recepito con legge regionale) i noti principi in tema di sindacato giurisdizionale nei confronti di atti formalmente legislativi che approvano un atto amministrativo (c.d. legge-provvedimento di approvazione).

In tal caso, poiché il sistema di tutela segue la natura giuridica dell’atto contestato, i diritti di difesa del cittadino si trasferiscono in tal caso dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale. In sintesi, la legge-provvedimento, ancorché approvativa di un atto amministrativo, può essere sindacata, previa intermediazione del giudice rimettente, solo dal suo giudice naturale, cioè dalla Corte costituzionale.

La violazione dei principi che normalmente presiedono all’attività amministrativa può essere invocata anche in caso di leggi-provvedimento, allorché emerga l’arbitrarietà e la manifesta irragionevolezza della disciplina denunciata, desumibili anche dalla carenza di ogni valutazione degli elementi in ordine alla situazione concreta sulla quale la legge è chiamata ad incidere o dall’evidente incoerenza del provvedimento legislativo in relazione all’interesse pubblico perseguito.

La protezione del privato, dunque, trova riconoscimento attraverso il sindacato costituzionale di ragionevolezza della legge, ancor più incisivo di quello giurisdizionale sull’eccesso di potere. CDC



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Inserito in data 24/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2014, n. 5734

L’art 1227 cc si applica alle sanzioni per il tardivo pagamento dei contributi concessori

Secondo la Quinta sezione del Consiglio di Stato, è contrario al dovere di correttezza (in diritto civile, fondato sull'art. 1175 c.c. e, in diritto pubblico, agganciato al principio onnicomprensivo di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.) il comportamento dell'Amministrazione comunale che irroga la sanzione per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori ex art. 3 l. n. 47/1985, pur potendo escutere la polizza fideiussoria prodotta dal titolare all'atto del rilascio della concessione edilizia.

Infatti, la scelta del Comune di non riscuotere la fideiussione tempestivamente si spiega solo con l’intento di massimizzare il profitto ottenibile: giustificazione che non si attaglia ad un soggetto come il Comune, che deve agire per realizzare nel modo migliore possibile l’interesse pubblico che la legge gli ha affidato (ossia, nel caso di specie, la celere realizzazione delle opere di urbanizzazione mediante la pronta disponibilità delle somme ad esse relative). Al contrario, non escutendo immediatamente la fideiussione, si ritarda il momento di acquisizione delle somme necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e, nel contempo, si aggrava ingiustificatamente la posizione del debitore.

Alla luce di quanto detto, per il Consiglio di Stato, al privato concessionario va applicata una sanzione ridotta, in considerazione del principio ricavabile dall’art. 1227 c.c., secondo il quale il quantum dovuto a titolo risarcitorio va ridotto in relazione ai danni che il creditore ha concorso a determinare.

Così statuendo la Quinta sezione del Consiglio di Stato si discosta dall’orientamento prevalente tra i Giudici di Palazzo Spada che, invece, nega che il Comune debba chiedere l’adempimento al fideiussore prima di irrogare le sanzioni, nonché l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. alle obbligazioni aventi natura sanzionatoria. TM



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Inserito in data 24/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2014, n. 5742

Se la pretesa è infondata, il giudice del silenzio non condanna la PA a provvedere

Con la pronuncia in epigrafe, il Consiglio di Stato porta alle estreme conseguenze il principio secondo cui il giudizio avverso il silenzio-rifiuto ha ad oggetto non solo la sussistenza dell’obbligo di provvedere bensì anche la fondatezza della pretesa azionata dal privato e su cui l’Amministrazione non si è pronunciata.

Segnatamente, per la Quinta sezione del Consiglio di Stato, laddove si accerti in modo inequivocabile l’infondatezza della pretesa azionata per carenza delle condizioni di legge (e non la sua inopportunità stante il divieto per il giudice di sostituirsi all’Amministrazione nella valutazione del merito amministrativo), il giudice non può condannare l’Amministrazione a provvedere all’emanazione di un provvedimento espresso: ciò in quanto una condanna siffatta contrasterebbe coi principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, atteso che il provvedimento adottato dall’Amministrazione potrebbe essere soltanto di rigetto. TM



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Inserito in data 23/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA 20 novenbre 2014, n. 5343

Conferma munus pubblico Sindaco De Magistris: rilievo della tutela cautelare

I Giudici di Palazzo Spada, avallando la pronuncia emessa dal TAR napoletano in merito alla nota vicenda del Sindaco Luigi De Magistris, ne confermano la sospensione del provvedimento prefettizio a suo carico e la conseguente prosecuzione del relativo mandato elettivo.

Difatti, richiamando giurisprudenza ormai unanime della Corte Costituzionale, della Corte di Giustizia europea oltrechè del medesimo Consiglio di Stato, la terza Sezione sottolinea il rilievo della misura cautelare adottata, poiché ancillare ad una tutela giurisdizionale integrale e piena.

Pertanto, ripristinando l’incarico del Sindaco partenopeo, il Collegio amministrativo mostra di non ravvedere alcun vulnus ordinamentale proveniente dalla sospensione medio tempore del provvedimento prefettizio. E, aspetto ancora di maggior rilievo, i Giudici danno risalto all’effettività della tutela cautelare che, se congruamente esercitata - come nel caso concreto, garantisce l’integrità delle situazioni soggettive azionate fino alla conclusione dell’incidente di costituzionalità ed è a sua volta espressione dei valori non declinabili dell’effettività della tutela giurisdizionale – ex articolo 24 della Costituzione. CC



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Inserito in data 22/11/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 20 novembre 2014, n. 259

Ristrutturazione edilizia: q.l.c. dell’art. 11, co. 1 e 2, L. Reg. Veneto n. 32/13

Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto n. 32 del 2013 in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s) e all’art. 117, terzo comma, Cost..

Deve preliminarmente chiarirsi che le predette disposizioni “modificano le lettere a) e b) dell’art. 10, comma 1, della legge reg. Veneto n. 14 del 2009, le quali regolano gli interventi di ristrutturazione edilizia previsti dall’art. 3 e dall’art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001; e la novità introdotta dalla legge regionale n. 32 del 2013 sta nell’aver eliminato il richiamo obbligatorio al rispetto della sagoma dell’edificio preesistente. In altre parole, può aversi ristrutturazione edilizia – senza ampliamento nel caso della lettera a) e con ampliamento nel caso della lettera b) – anche se la costruzione che ne risulta non rispetti più la sagoma dell’edificio preesistente, bensì soltanto il volume”.

Ciò premesso, non può sottacersi che “il recente intervento legislativo di cui all’art. 30 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nell’apportare una serie di modifiche al d.P.R. n. 380 del 2001, ha disposto la soppressione – sia all’interno dell’art. 3, comma 1, lettera d), che all’interno dell’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. stesso – del riferimento al rispetto della sagoma; in altri termini, la normativa statale non contiene più, in relazione alla definizione della ristrutturazione edilizia, l’obbligo di rispetto della sagoma precedente, ma solo quello di rispetto del volume”.

Pertanto, stante che “la disposizione regionale impugnata non si è discostata dal principio fondamentale contenuto nella norma statale così come di recente modificata”,  deve escludersi la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..

Tuttavia, la Corte osserva che la prospettata violazione della competenza concorrente assume un ruolo secondario in relazione al ricorso, “perché esso fissa prevalentemente la propria attenzione sulla presunta violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali”.

Infatti, il testo attuale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 – come risultante dalle modifiche apportate dal citato art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 – oltre ad aver eliminato il riferimento all’obbligo di rispetto della sagoma nella definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia, ha mantenuto fermo che, «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente».

A tal proposito, il silenzio della legge reg. Veneto n. 32 del 2013 sul punto non può che essere interpretato “nel senso della vigenza della disposizione statale di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001”.

Per contro, “ove la Regione Veneto, nel rimodellare il concetto di ristrutturazione edilizia, avesse esplicitamente aggiunto che l’obbligo di rispetto della sagoma permane per i beni culturali assoggettati a vincolo, la norma regionale sarebbe stata costituzionalmente illegittima, perché sarebbe andata ad interferire in un ambito di competenza esclusiva dello Stato, come tale sottratto alla potestà normativa delle Regioni”.

La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale, del resto, ha chiarito che “quando una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale – nella specie, la tutela dei beni culturali – le Regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella statale” (sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006). EMF

 

 



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Inserito in data 21/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 novembre 2014, n. 32

Onere di specificità dei motivi e indicazione dei mezzi di prova nel ricorso elettorale

Con la sentenza in esame, il Supremo Consesso si pronuncia sulle condizioni di ammissibilità di un ricorso diretto a conseguire “l’annullamento dell’esito di una consultazione elettorale comunale, con particolare riguardo a quanto prescritto dall’art. 40, comma 1, lett. c), del codice del processo amministrativo in tema di onere di specificità dei motivi di ricorso e di indicazione dei mezzi di prova”.

In particolare, il requisito della specificità dei motivi nel ricorso elettorale è stata largamente approfondita dalla giurisprudenza amministrativa, la quale costantemente riconosce che il relativo onere “deve essere valutato con rigore attenuato posto che l’interessato, non avendo la facoltà di esaminare direttamente il materiale in contestazione deve rimettersi alle indicazioni provenienti da terzi (che possono essere imprecise o non esaurienti)” (Sez. V, 28 aprile 2014, n. 2197). A tale riguardo deve ritenersi ormai consolidata “l’affermazione che l’onere in questione si intende osservato quando, come anche ricorda la Sezione remittente, l'atto introduttivo indichi la natura dei vizi denunziati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono le medesime” (Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4474; 22 marzo 2012 n. 1630).

Tuttavia, la giurisprudenza ha precisato, “per un verso, che l’osservanza dell’onere di specificità del motivo non assorbe l’onere della prova, posto che anche una denuncia estremamente circostanziata dell’irregolarità in cui sia incorsa la sezione elettorale, deve pur sempre essere sorretta da allegazioni ulteriori rispetto alle affermazioni del ricorrente; e, per altro verso, che un motivo anche strutturato in termini specifici può rendere inammissibile il ricorso allorché questo presenti caratteri tali da doversi qualificare come esplorativo” (v. C.G.A. 13 giugno 2013, n. 581).

Invero, viene così definito il ricorso che “punti a conseguire il risultato di un complessivo riesame del voto in sede contenziosa, fermo restando, peraltro, che la finalità strumentale del gravame deve essere stabilita sulla base di elementi oggettivi, quali la dimensione quantitativa delle schede contestate, il numero delle sezioni elettorali interessate in rapporto al numero degli elettori coinvolti nella tornata sottoposta al vaglio giurisdizionale, potendo darsi il caso che la contestazione, in giudizio, di alcune migliaia di schede non evidenzi finalità esplorativa di sorta (laddove, ad esempio, l’elezione abbia coinvolto un’ampia platea di elettori) e che, per contro, lo stesso ammontare di voti implichi, in altri contesti, una rinnovazione pressoché integrale di uno scrutinio (quanto il voto abbia riguardato un ente di modesta dimensione demografica)”.

Viceversa, il “contrasto di orientamenti giurisprudenziali denunciato dalla Sezione remittente, effettivamente è riscontrabile sul diverso tema delle modalità con le quali l’onere della prova, imposto dall’art. 40 comma 1, lett. c), c.p.a., deve ritenersi validamente assolto in sede di ricorso elettorale”.

Accade, infatti, frequentemente che “il soggetto interessato non disponga di elementi documentali idonei a provare le illegittimità in cui sia incorso il seggio elettorale, e che la prova della fondatezza della doglianza non possa essere raggiunta se non mediante l’esercizio dei poteri istruttori di cui dispone il giudice”. Peraltro, ove “l’onere della prova dovesse applicarsi con il rigore ordinariamente imposto dalle norme processuali generali, che sanzionano con l’inammissibilità il ricorso non sorretto dalla prova delle censure dedotte, l’indisponibilità degli atti da parte del ricorrente finirebbe per privarlo del diritto di difesa” (Sez. V, n. 2197 del 2014, cit., 9 settembre 2013, n. 4474). Proprio al fine di scongiurare la lesione dell’art. 24 Cost., la dottrina e la giurisprudenza hanno qualificato il modello processuale del giudizio amministrativo “come dispositivo con metodo acquisitivo (Cons. St., Sez. V, 22 dicembre 2005, n. 7343), generato dall’esigenza di correggere l’istituzionale disuguaglianza tra le parti al di fuori del processo: la pubblica amministrazione che possiede il provvedimento e gli atti del procedimento, il privato che potrebbe incontrare difficoltà e subire ritardi per venirne a conoscenza”.

Ne discende che, “secondo l’orientamento seguito dalla giurisprudenza prevalente, ricordato nella pronuncia di rimessione, l’onere gravante sul ricorrente debba considerarsi circoscritto alla allegazione di elementi indiziari, pur estranei agli atti del procedimento, ma dotati della attendibilità sufficiente a costituire un principio di prova plausibile ed idoneo a legittimare l’attività acquisitiva del giudice”.

Si considerano, così, sufficienti principi di prova “le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà rilasciate, ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000, da rappresentanti di lista, in epoca successiva alla proclamazione dell’esito della consultazione, anche se gli stessi soggetti non abbiano svolto contestazioni in sede di spoglio delle schede”.

Per altra corrente giurisprudenziale, invece, “le dichiarazioni di terzi non possono essere prese in considerazione quali principi di prova se non sorrette da un indizio documentale nei verbali delle operazioni elettorali, posto che i detti verbali sono atti pubblici fidefacenti e possono essere contrastati solo mediante querela di falso o sentenza penale che ne attesti la falsità”.

Al fine di dirimere il suddetto contrasto, dunque, “l’Adunanza Plenaria ritiene necessario tenere distinte: a) le doglianze con le quali si intenda contestare il contenuto del verbale sezionale, sostenendo che lo stesso non espone i fatti come realmente accaduti, dalle doglianze con le quali, b) fermo quanto emerge dal verbale, il ricorrente lamenti che le determinazioni assunte dal seggio siano il frutto di una errata e perciò illegittima applicazione della normativa che regola le operazioni in questione”.

Avuto riguardo al primo gruppo di contestazioni, merita condivisione “l’avviso secondo cui la forza fidefacente del verbale sezionale in quanto atto pubblico non possa essere validamente contrastata se non mediante l’esperimento della querela di falso, e che pertanto nessun rilievo probatorio può riconoscersi alle dichiarazioni sostitutive dell’atto notorio. In tali casi, anche la acquisizione officiosa degli atti del procedimento si rivelerebbe inutile, per l’evidente difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a desumerne la fondatezza della doglianza”.

All’opposto, in relazione alla seconda ipotesi, il Collegio “non condivide la tesi che la dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio, prodotta a sostegno di un ricorso elettorale, non possa considerarsi principio di prova idoneo a legittimare la richiesta al giudice di disporre acquisizioni istruttorie”.

Infatti, alla luce dell’ingresso della prova testimoniale nel processo amministrativo (ex art. 63, comma 3, c.p.a), nella più volte richiamata sentenza n. 581 del 2013,  il Consiglio di Giustizia Amministrativa ha sostenuto che: “Se, invero, chi abbia interesse a contestare in giudizio lo svolgimento e l’esito di uno scrutinio elettorale dispone attualmente della possibilità di corredare la propria impugnativa di un supporto probatorio costituito da una testimonianza scritta (nei limiti, ovviamente, in cui un mezzo di prova costituenda di questo tipo sia ammissibile - v., tra gli altri, gli artt. 2721 e ss. c.c. - e non confligga con la fede privilegiata che assiste i verbali delle sezioni elettorali: artt. 2700 c.c. e 63, comma 5, c.p.a.), allora effettivamente può escludersi che sia sopravvissuto (per i ricorsi relativi ad operazioni elettorali di tornate svoltesi dopo il 16 settembre 2010), in capo ai rappresentanti di lista presenti allo scrutinio, un onere di puntuale verbalizzazione delle singole decisioni del seggio, non essendo le risultanze dei verbali compilati dalle sezioni elettorali l’unico mezzo di prova per accertare quanto avvenuto nel corso dello scrutinio”.

Se, quindi, “al rappresentante di lista si riconosce una sorta di jus poenitendi rispetto al preteso assenso tacitamente manifestato, in vista di una postuma prova testimoniale, sarebbe illogico non ammettere la stessa facoltà quando il ricorrente si avvalga del diverso principio di prova costituito dalla dichiarazione sostituiva dell’atto di notorietà”.

Del resto, non va trascurato, incidentalmente, che “il rappresentante di lista, che avverta la erroneità di una determinata decisione del seggio in merito alla attribuzione di suffragi, può non percepire nell’immediatezza la rilevanza determinante dell’errore, che può invece manifestarsi solo alla conclusione delle operazioni. Deve pertanto essergli consentito, assumendo le responsabilità penali previste dall’art. 76, comma 1 e 3, d. P.R. n. 445 del 2000, fornire il proprio apporto probatorio anche in un momento successivo alla proclamazione degli eletti”. EMF



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Inserito in data 20/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 novembre 2014, n. 5657

Sul potere di autodichia del Presidente della Repubblica ed i suoi limiti

Chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità di una gara di appalto informale indetta dal Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica per l’affidamento del servizio di cassa ed annesso sportello interno al Segretariato e dell’aggiudicazione provvisoria della stessa, il Consiglio di Stato ha chiarito l’ambito di applicazione ed i conseguenti limiti del potere di autodichia del Presidente della Repubblica.

Il Supremo Consesso ha così confermato la decisione del tribunale di primo grado con la quale veniva rigettata l’eccezione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Infatti, se è vero che la Presidenza della Repubblica ha competenza “giustiziale” in materia di rapporto di lavoro e di impiego con il Segretariato Generale (ed ipotesi assimilate), a garanzia dell’indipendenza dagli altri organi, non si può affermare apoditticamente che tale potere si estenda anche a settori diversi da quelli espressamente contemplati, quale quello delle gare e dei contratti.

Invero “le prerogative costituzionali, e in concreto l’autodichia in questione, rappresentando deroghe a principi cardine del diritto comune, non possono essere interpretate estensivamente (cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 6617 del 2011, cit.)”.

Inoltre il potere di autodichia “esiste se e nella misura in cui l’organo, sul necessario fondamento costituzionale (esplicito o, come anche si sostiene, implicito), abbia deciso di farne uso.

Anche ad ammettere che il potere di auto-organizzazione della Presidenza possa spingersi sino a derogare alla normativa comune, […] anche al di là dell’ambito del rapporto di impiego, occorre anche rilevare che, in concreto, la Presidenza non ha comunque ritenuto di esercitare il potere in questione, diversamente da quanto hanno disposto, con specifici regolamenti, Camera e Senato, ampiamente ricordati negli atti di causa”, così che laddove si negasse la giurisdizione del giudice amministrativo il privato si troverebbe sprovvisto di alcuna tutela giuridica.

La soluzione adottata dal Supremo Consesso appare ancor più ragionevole ove si guardi alla disciplina prevista nello stesso bando di gara che ha attribuito le eventuali controversie alla cognizione esclusiva del Foro di Roma, disattendendo, dunque, quanto affermato dalla difesa erariale.

Risolta la questione pregiudiziale sul difetto di giurisdizione ha affrontato nel merito la controversia rigettando l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse sul rilievo che la posizione di seconda classificata contrasterebbe di fatto con l’assoluta antieconomicità dell’offerta ed ha giudicato non corretto il criterio applicato dalla commissione. VA



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Inserito in data 20/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 17 novembre 2014, n. 24400

Diritti autodeterminati e divieto di mutatio libelli

La sentenza in esame attiene i rapporti tra causa petendi e ius novorum. Più precisamente, nell’accertare l’esistenza di un diritto di servitù, il giudice di primo grado e il giudice di secondo grado avevano, rispettivamente, limitato l’analisi dei fatti a quanto risultante dagli atti prodotti e giudicato diversa da quella indicata in citazione la causa petendi dichiarata in appello.

Il Supremo Consesso ha ritenuto di dover cassare la sentenza appellata sulla base della consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità. La Corte di Cassazione, infatti, ricorda come “in materia di diritti reali non è precluso al giudice di merito, ove sia stata dedotta l'usucapione della servitù, di accertare l'esistenza del diritto in base ad un contratto, e ciò anche in grado d'appello”.

Ciò in quanto deve aversi riguardo al differente regime che investe i diritti autodeterminati (tra i quali vengono ricompresi i diritti reali), il cui accertamento prescinde dal titolo di acquisto allegato, ed i diritti eterodeterminati la cui individuazione, al contrario, è legata al fatto storico contrattualmente qualificato (si veda sul punto Cass. n. 7267/97).

Ne consegue che “nelle azioni relative ai diritti autodeterminati, quali la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la causa petendi della domanda si identifica, dunque, con i diritti stessi e con il bene che ne forma l'oggetto. Essendo vana ai fini dell'individuazione della domanda, l'allegazione dei fatti o degli atti da cui dipende il diritto vantato è necessaria soltanto per provarne l'acquisto. Il cui modo (sia esso un fatto o un atto) integra a livello processuale un fatto secondario che in quanto tale è dedotto unicamente in funzione probatoria del diritto vantato in giudizio  […], pertanto, “non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell'attore di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. 24702/06, 3192/03, 11521/99,9851/97,4460/97, 7033/95 e 2621/82)”. VA




Inserito in data 19/11/2014
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 7 novembre 2014, n. 252

Indennità di accompagnamento, pensione di inabilità e permesso di soggiorno

I Giudici costituzionali affrontano la questione di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001) e dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui subordinano la concessione della pensione di inabilità e dell’indennità di accompagnamento agli stranieri legalmente soggiornanti sul territorio dello Stato, al possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo e, dunque, anche al requisito della durata del soggiorno medesimo che sia attestata dal possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, oltre all’esigenza di superare il test di lingua italiana».

La questione, invero, era già stata in parte affrontata dall’ordinanza n. 40 del 2013 con cui la Corte aveva statuito l’illegittimità costituzionale della prima delle suddette norme, in ragione della evidente disparità di trattamento che, inevitabilmente ne sarebbe derivata, ove si fosse accolto  - in sede di erogazione della pensione di inabilità - un criterio di discrimen dettato dalla durata del soggiorno dello straniero istante.

Tale pronuncia, successiva all’ordinanza di rimessione dell’odierna questione, ne determina la manifesta inammissibilità.

Parimenti accade riguardo alla seconda censura, quella relativa all’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Questa, infatti, non appare dotata di specifica autonomia agli effetti del petitum perseguito dall’ordinanza di rimessione, essendo quest’ultimo evidentemente diretto a rimuovere la previsione di una preclusione generale per i cittadini extracomunitari.

Di conseguenza, la questione proposta in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 38 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU) è considerata priva di oggetto – data l’estrema genericità e va, così, dichiarata manifestamente inammissibile. CC



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Inserito in data 19/11/2014
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. III, 10 novembre 2014, n. 5781

Offerte anomali e divieto di motivazione postuma

I Giudici napoletani, sulla scorta di una copiosa giurisprudenza assestatasi in merito, ritengono illegittimo il provvedimento con cui sia stata sancita l’anomalia e quindi l’esclusione da una gara pubblica, in ragione di uno scostamento dell'offerta dalle voci costo del lavoro indicate nelle tabelle millesimali.

Il Collegio ricorda che si tratta di parametri richiesti ai fini di un mero raffronto e non postulati in vista di un giudizio di validità o meno dell’offerta presentata. Secondo l'orientamento prevalente della giurisprudenza amministrativa in materia di gare pubbliche, infatti, ai sensi dell'art. 86, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, i valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell'offerta sotto tale profilo, con la conseguenza che l'eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia (Cons. di Stato, Sez. V, 24 luglio 2014, n. 3937; Cons. di Stato, Sez. III, 9 luglio 2014, n. 3492; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 12 marzo 2014, n. 2783).

Non è possibile, peraltro, continua la decisione in esame, che la motivazione addotta a sostegno del provvedimento impugnato possa essere ritenersi integrata, in sede giudiziale, dai diversi e successivi rilievi formulati dalla Commissione per anomalia dell'offerta; verrebbe inciso, infatti, il divieto di motivazione postuma del provvedimento amministrativo.

Il Collegio partenopeo, infatti, intende ricordare come la motivazione del provvedimento non possa essere integrata nel corso del giudizio, dovendo essa precedere e non seguire ogni provvedimento amministrativo. E’ in questo, infatti, che si individua il fondamento dell'illegittimità della motivazione postuma, ovvero nella tutela del buon andamento amministrativo e nell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (ex multis, T.A.R. Basilicata, Potenza, Sez. I, 26 agosto 2014, n. 560). CC



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Inserito in data 19/11/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA - SENTENZA 13 novembre 2014, Causa C- 416/13

Contrari al diritto UE i limiti età nei concorsi pubblici

La Corte europea sancisce il seguente principio di diritto: “Gli articoli 2, paragrafo 2, 4, paragrafo 1, e 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale che fissi limiti di età per l’accesso a posti pubblici”.

In particolare, intervenendo su un rinvio pregiudiziale sollevato da un cittadino spagnolo avverso la clausola di una legge di una comunità iberica - delimitante al compimento del 30’ anno di età l’accesso nei ruoli della Polizia locale, il Collegio ne sancisce la contrarietà alla Direttiva del 2000.

Questa, infatti, era sorta proprio al fine di dare espressione ad un generale principio di non discriminazione e, pertanto, la limitazione qui lamentata in ragione dell’età avrebbe intaccato tale obiettivo di massima equità, specie limitatamente alla materia dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, come già detto da altre pronunce del passato (Cfr. sentenze Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 21, nonché Prigge e a., C-447/09, EU:C:2011:573, punto 38).

I Giudici, effettuando la dovuta comparazione tra i risultati presuntivamente perseguibili in ragione del previsto limite d’età ed il tenore della delimitazione realizzata dalla norma oggi censurata, reputano prevalente quest’ultimo aspetto.

Nel caso specifico, infatti, la disparità di trattamento derivante da una disposizione come l’articolo 32, lettera b), della legge 2/2007 non può essere giustificata ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78.

In sostanza,  non può essere considerata come necessaria al fine di garantire a detti agenti un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento – previsto dalle norme locali all’età di 67 anni. Si realizza, come è chiaro, un’arbitrarietà nell’accesso alla carica, talmente grande da superare le tutelate esigenze di natura previdenziale.

Diventa evidente, quindi, l’irragionevolezza della limitazione qui impugnata e la conseguente posizione assunta dalla Corte, espressa nel suddetto principio di diritto. CC




Inserito in data 18/11/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 novembre 2014, n. 255

Incostituzionalità del controllo preventivo sulle leggi della Regione siciliana

L’art. 31, comma 2, della L. n. 87/53 stabiliva che «Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana, il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere, ai sensi dell’articolo 127, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale della legge regionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione».

Così prevedendo, la disposizione censurata introduceva un sistema di controllo successivo per le leggi delle altre regioni, mentre manteneva fermo il sistema di controllo di tipo preventivo delle leggi siciliane, risultante dagli artt. 27, 28, 29 e 30 dello Statuto della Regione siciliana.

Di conseguenza, in forza di tale inciso (“Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”), la Sicilia godeva di un’autonomia inferiore rispetto a quella riconosciuta alle altre regioni dall’art. 127 Cost., quantunque fosse una regione a statuto speciale. Ciò contrastava con la cd. clausola di maggior favore prevista dall’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, che “impone di svolgere un confronto fra gli istituti previsti dagli statuti speciali e le analoghe previsioni contenute nel titolo V della parte seconda della Costituzione, al fine di compiere un giudizio di preferenza, nel momento della loro applicazione, privilegiando le norme costituzionali che prevedono forme di autonomia «più ampie» di quelle risultanti dalle disposizioni statutarie”.

Pertanto, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, in riferimento agli artt. 127 Cost. e 2 L. cost. n. 3/01, dell’art. 31, comma 2, della L. n. 87/53, limitatamente alle parole “Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della Regione siciliana”. Conseguentemente, deve essere esteso alla Regione siciliana il sistema di controllo successivo previsto dagli artt. 127 Cost. e 31 della legge n. 87 del 1953 per le Regioni a statuto ordinario, mentre gli artt. 27, 28, 29 e 30 dello statuto siciliano non troveranno più applicazione. TM



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Inserito in data 18/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 6 novembre 2014, n. 23676

L’art. 230bis cc non si applica all’impresa esercitata in forma societaria

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite civili hanno risolto il contrasto giurisprudenziale in merito all’applicabilità dell’art. 230bis c.c. (disciplina in tema di impresa familiare) al caso in cui il familiare svolga l’impresa in forma societaria.

Per un indirizzo giurisprudenziale, l’art. 230bis c.c. avrebbe potuto applicarsi all’impresa esercita in forma societaria, nel senso che i riflessi patrimoniali ivi previsti si sarebbero prodotti con riguardo alla quota di partecipazione del socio-familiare.

Per un altro orientamento, l’art. 230bis non avrebbe potuto applicarsi al caso dell’attività d’impresa esercitata in forma societaria. In tal senso si adduceva: in primis, la convinzione che il legislatore avesse volutamente fatto riferimento solo all’impresa e che perciò non ci fosse alcuna lacuna normativa suscettibile di essere colmata attraverso l’applicazione analogica; in secundis, l’impossibilità di ravvisare nel caso delle società il requisito richiesto dall’art. 230 bis c.c. della sussistenza di un rapporto di parentela o affinità con l’imprenditore, atteso che la qualifica di imprenditore avrebbe potuto riconoscersi solo alla società e non al socio.

Le Sezioni Unite accedono a quest’ultima tesi, statuendo che l’art. 230 bis c.c. non si applichi al caso in cui il familiare svolga l’impresa  in forma societaria. In tal senso adducono che l’art. 230 bis c.c. delinea una disciplina incompatibile con qualsiasi tipologia societaria, sotto due profili: nella parte in cui prevede la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, collide con le norme in tema di società che escludono un diritto del socio sui beni sociali finché dura la società e che, nel caso di società di capitali, escludono un diritto del socio alla distribuzione degli utili; nella parte in cui riconosce al familiare dell’imprenditore il diritto di partecipare alle decisioni concernenti l’impiego degli utili, gli incrementi e la cessazione dell’impresa, contrasta con la disciplina in tema di società che riserva tali decisioni agli amministratori o ai soci, giammai riconoscendo rilievo alla volontà di soggetti estranei alla compagine sociale.   TM




Inserito in data 17/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 novembre 2014, n. 5630

Principi fondamentali in tema di ottemperanza

L’oggetto del giudizio di ottemperanza è rappresentato dalla verifica dell’esatto adempimento dell’obbligo della PA di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita riconosciutogli in sede di cognizione.

Ne segue che in sede di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato, né possono essere proposte domande non contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire.

Tutto questo non implica un vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa e ai principi sanciti dagli artt. 24, 111 e 113 Cost. Piuttosto, ciò è frutto del contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi che vengono in gioco nel giudizio amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa e di quello della dinamicità dell’azione amministrazione (che non consente di ipotizzare una sorta di “congelamento” o di “fermo” della stessa).

In ottemperanza può peraltro dedursi come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della PA, cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta. In quest’ultimo caso, il nuovo atto emanato dalla PA può dirsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza.

In particolare, la violazione del giudicato è configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale o quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni della sentenza. Si ha invece elusione del giudicato quando la PA, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo.

Può peraltro ammettersi che nessuna specifica attività incomba sulla PA quando l’adeguamento alla sentenza costituisce un effetto automatico, diretto ed immediato dello stesso giudicato, senza necessità di alcuna ulteriore attività amministrativa, come nel caso dell’annullamento dell’atto negativo di controllo o di un atto di autotutela che ripristinano automaticamente l’efficacia dell’atto controllato o ritirato. CDC



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Inserito in data 17/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 novembre 2014, n. 5609

Annullamento in autotutela: congrua motivazione e termine ragionevole

L’annullamento in autotutela non deriva in via automatica dall'accertata originaria illegittimità dell'atto, essendo necessaria la sussistenza di un interesse pubblico attuale al ripristino della legalità, che risulti prevalente sugli interessi dei privati che militano in senso opposto. Ne segue che tale provvedimento presuppone una congrua motivazione tanto sull'interesse pubblico, attuale e concreto, quanto sull'interesse dei destinatari dell'atto al mantenimento delle posizione che su di esso si sono consolidate.

Inoltre, l’annullamento in autotutela deve intervenire in un termine ragionevole. Devono a tal fine considerarsi non solo la frazione temporale decorsa tra la data del provvedimento ampliativo della sfera giuridica del destinatario ed il suo ritiro in autotutela o il termine di durata complessivo dell’operatività del provvedimento, ma soprattutto gli effetti che medio tempore quel provvedimento ha prodotto. CDC



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Inserito in data 14/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 novembre 2014, n. 5470

Vicende azienda: cessione, affitto e dichiarazione ex art. 38 1’ c. - l. c) DLgs 163/06

La quinta Sezione del Consiglio di Stato, ripercorrendo passaggi già ampiamente esaminati dall’Adunanza Plenaria  (Cfr. Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 10 e 7 giugno 2012, n. 21), chiarisce ed estende la portata dell’articolo 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006.

Più nel dettaglio, prendendo spunto dalla ratio della norma, i Giudici amministrativi ne colgono e ne evidenziano l’applicabilità – in via analogica, con riguardo a talune vicende particolari della “vita” di un’azienda, quali la cessione o l’affitto della stessa.

Specie in merito a quest’ultima ipotesi, il Collegio sottolinea come l’obbligo di rendere dichiarazioni relative ai requisiti soggettivi dei “nuovi componenti” - di cui all'articolo 38 quì in esame - sia ancora più importante che negli altri casi.

Infatti, come già la giurisprudenza amministrativa afferma da tempo, le dichiarazioni degli amministratori dell'impresa dalla quale la concorrente ha ottenuto la disponibilità dell'azienda è ancora più sentita rispetto alle ipotesi di cessione dell'azienda, dal momento che l'influenza dell'impresa locatrice è destinata a restare intatta per tutto lo svolgimento del rapporto e ben potrebbe costituire un agevole mezzo per aggirare gli obblighi sanciti dal Codice degli appalti (Cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 18 luglio 2011, n. 4354; C.G.A.S., 5 gennaio 2011, n. 8 e 26 ottobre 2010, n. 1314).

Di conseguenza, confermando la pronuncia resa in primo grado, il Collegio estende analogicamente l’obbligo dichiarativo ex art. 38 1’ c. - l. c) DLgs 163/06 gravandolo sugli affittuari, in ragione della natura presuntivamente permanente del contratto di locazione e delle possibili, significative ricadute che questo potrà produrre in seno all’azienda. CC



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Inserito in data 13/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 novembre 2014, n. 5583

Sulla incompatibilità tra l'incarico dirigenziale ASL e la carica politica

Nel caso in esame il Consesso amministrativo è stato chiamato a pronunciarsi sull’esistenza o meno di una causa di incompatibilità tra la carica dirigenziale e quella di consigliere comunale alla luce delle novità introdotte dal d.lgs. 39/2013.

Nel merito il Consiglio di Stato ha ritenuto fondate le doglianze mosse dall’appellante ritenendo di dover interpretare in senso restrittivo le norme che impongono dei limiti al diritto di elettorato (attivo e passivo) dei cittadini.

Pertanto, sebbene il d. lgs. 39/2013 all’art. 12, prescriva l’incompatibilità degli «incarichi dirigenziali, interni e esterni, nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico» con determinate cariche elettive negli enti locali, non può sottacersi che, con specifico riferimento alle ASL, sussiste un’apposita e diversa disciplina che limita la suddetta incompatibilità solo agli incarichi di direttore generale, direttore amministrativo e direttore sanitario e che <<implicitamente ma inequivocamente esclude da quel regime il personale ad essi subordinato, pur se rivestito di funzioni denominate “dirigenziali”>> (art. 14).

A parere dei giudici di Palazzo Spada questa soluzione sarebbe avvalorata dalla stessa ratio legis in quanto i compiti dei medici “dirigenti” dei vari livelli presentano delle caratteristiche diverse da quelle proprie dei dirigenti generali ed amministrativi.

Invero <<nella misura in cui un dirigente medico (pur se preposto ad una struttura complessa) gode di autonomia, discrezionalità, etc., tutto ciò attiene essenzialmente, o comunque prevalentemente, alla sfera professionale tecnico-sanitaria; mancano, fra l’altro, competenze provvedimentali e gestionali, se non forse in misura del tutto marginale e limitata al momento organizzativo interno del reparto>>.  VA



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Inserito in data 13/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 11 novembre 2014, n. 24001

Stato di adottabilità per il minore nato da utero in affitto

La Corte di Cassazione ha dichiarato lo stato di adottabilità per il minore nato all’estero, nel caso di specie, in Ucraina, mediante la pratica dell’utero in affitto (vietata dalla legge 40/2004), negando validità al certificato di nascita estero.

Il minore, in questo caso, verserebbe in stato di abbandono dal momento che nessuno dei genitori indicati nel certificato di nascita risulta essere tale sotto il profilo biologico e che la legge ucraina non consente di attribuire la genitorialità alla donna che partorisce in sostituzione.

Nel caso specie l’impossibilità di attribuire un valore giuridico al certificato di nascita estero deriverebbe da duplici ragioni: questo sarebbe nullo per la legge italiana in quanto contrario all’ordine pubblico e, altresì, nullo secondo la legge ucraina in quanto questa consente il ricorso alla pratica dell’utero in affitto solo quando almeno il 50% del patrimonio genetico provenga dalla coppia committente.

Nel merito, dunque, la corte di legittimità ha chiarito che la convenzione sull’abolizione della legalizzazione degli atti stranieri concerne solo la loro veridicità, e non anche la loro efficacia, che rimane condizionata dal rispetto dell’ordine pubblico (comprendente anche principi e valori propri, purché fondamentali, tra i quali anche il divieto della surrogazione della maternità).

Invero in materia di maternità surrogata <<vengono in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale l’istituto della surrogazione si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto […] l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità privi di legami biologici con il nato>>.

A conferma di quanto detto si osserva che i precedenti giurisprudenziali che mostravano delle aperture nei confronti del riconoscimento della genitorialità della coppia committente, erroneamente invocati dai ricorrenti, si riferivano a casi in cui almeno un membro della coppia presentasse un legame genetico con il minore.

Parimenti privi di ogni fondamento sono apparsi anche i riferimento all’interesse del minore, da considerare preminente rispetto a quello del rispetto dell’ordine pubblico in quanto <<il legislatore italiano ha considerato non irragionevole, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e affidando all’istituto dell’adozione […] la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico. […] Si tratta di una valutazione operata a monte dalla legge, la quale non attribuisce al giudice, sul punto, alcuna discrezionalità.

Secondo il Supremo Consesso da quanto detto consegue che nel caso in esame non è mai stata assunta una potestà genitoriale pertanto, in assenza di altri parenti, deve essere accertato lo stato di abbandono e dichiarato lo stato di adottabilità da parte del tribunale dei minori. VA




Inserito in data 12/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 7 novembre 2014, n. 5506

I DPR emessi su parere non vincolante del Consiglio di Stato integrano giudicato?

La quarta sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria la questione rilevante, di massima importanza e oggetto di contrasti giurisprudenziali, così sintetizzata: ”se anche i decreti decisorii di ricorsi straordinarii resi allorchè il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva non era ex lege vincolante (ed ancorchè in concreto esso non sia stato disatteso dall’Autorità decidente) siano eseguibili con il rimedio dell’ottemperanza ed integrino “giudicato” sin dal momento della loro emissione ovvero se tale qualità sia da riconoscere esclusivamente ai decreti decisorii di ricorsi straordinarii che ( a prescindere dall’epoca di proposizione dei ricorsi medesimi) siano stati resi allorchè il parere obbligatorio del Consiglio di Stato in sede consultiva era stato licenziato in epoca successiva alla entrata in vigore della legge n. 69/2009, (e quindi rivestiva portata vincolante)”.

Infatti, come messo in luce nell’ordinanza in esame, esiste un contrasto giurisprudenziale sul punto.

Segnatamente, secondo un orientamento (così, Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 06-09-2013, n. 20569), il decreto del Presidente della Repubblica non aveva originariamente natura giurisdizionale; in tal senso deporrebbe, tra l’altro, la circostanza che, per giurisprudenza pacifica, tale rimedio poteva essere proposto nelle materie che rientravano nella giurisdizione del giudice ordinario in via concorrente e non già alternativa al ricorso giurisdizionale, ferma restando la possibilità per il GO di disapplicare l'eventuale decisione del Presidente della Repubblica. Solo a seguito delle riforme legislative intervenute negli anni 2009-2010 (l’art. 69 della L. 69/09 che ha attribuito al Consiglio di Stato in sede di procedimento per ricorso straordinario il potere di sollevare questione di costituzionalità e, soprattutto, ha reso vincolante il parere reso dal Consiglio di Stato in tale sede; l’art. 7 comma ottavo del d.lgs. n. 104/10 che ha circoscritto il ricorso straordinario alle controversie devolute alla giurisdizione amministrativa), il provvedimento del Capo dello Stato avrebbe acquisito natura giurisdizionale. Di conseguenza, i decreti emessi prima di tali riforme, su parere obbligatorio ma non vincolante del Consiglio di Stato, avrebbero natura amministrativa, non integrerebbero giudicato in senso tecnico e, quindi, non potrebbero essere attuati mediante l’ottemperanza, né potrebbero essere impugnati dinanzi alla Cassazione ex art. 111 Cost.

Diversamente, secondo un altro indirizzo (in tal senso, Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 18/2012; Cass. civ., Sez. Unite, Sent., n. 2065/11), anche i decreti emessi prima della riforma del 2009, ossia su parere non vincolante del Consiglio di Stato, sarebbero eseguibili coattivamente mediante l’ottemperanza: il che presuppone logicamente che, già prima della riforma del 2009, il decreto del Capo dello Stato avesse natura giurisdizionale e quindi idoneità a costituire giudicato in senso tecnico. TM



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Inserito in data 12/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5535

Lettura restrittiva dell’ambito di operatività dell’azione risarcitoria autonoma

La Quarta sezione del Consiglio di Stato riprende l’idea, che ormai sembrava superata, secondo cui la domanda di annullamento di un provvedimento illegittimo si porrebbe in rapporto di pregiudizialità rispetto alla domanda risarcitoria relativa ai danni prodotti da tale provvedimento; ciò in quanto, ad avviso dei Giudici della Quarta sezione, “La valutazione di illegittimità dell’atto amministrativo è elemento costitutivo della fattispecie risarcitoria e deve quindi essere oggetto di espressa valutazione in via principale”. Di conseguenza, la mancata proposizione della domanda caducatoria o la sua irricevibilità, dipendente dalla tardività del ricorso, determinerebbe il rigetto della domanda risarcitoria.

I Giudici di Palazzo Spada pervengono a tale conclusione attraverso una lettura restrittiva dell’ambito di operatività dell’azione risarcitoria autonoma, così come ricavabile dal codice del processo amministrativo. Segnatamente, si afferma che “la possibilità di una decisione autonoma sull’azione aquiliana può aver luogo unicamente nei casi in cui “l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta piu' utile per il ricorrente” (art. 34 comma 3 c.p.a.). In questo contesto “il giudice accerta l'illegittimita' dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori””. TM



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Inserito in data 11/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5531

Sul risarcimento del danno per equivalente in materia di appalti pubblici

La sentenza in esame critica l’orientamento secondo il quale il risarcimento del danno per equivalente in materia di appalti pubblici può essere quantificato in modo forfettario in misura pari al 10% dell'importo della base d'asta, decurtato dal ribasso offerto.

Tale parametro, infatti, è stato desunto dal dato normativo fornito dall’art. 345 della legge n. 2248 del 1865 All. F, che tuttavia riguarda differenti istituti. Inoltre, esso porterebbe, in molti casi, all’abnorme risultato che il risarcimento dei danni sarebbe, per l’imprenditore, più favorevole dell’impiego del capitale.

Piuttosto, come affermato dalla giurisprudenza più recente, l’impresa ha l’onere di una prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse stata aggiudicataria dell’appalto. Infatti, secondo l'art. 124 cpa, nel caso in cui il giudice non dichiari l'inefficacia del contratto, questi dispone il risarcimento del danno, a condizione che il medesimo sia effettivamente subito e provato in giudizio.

La giurisprudenza ha così statuito che il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi; in difetto di tale dimostrazione, si presume che l'impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori e deve quindi sottrarsi al danno subito per la mancata aggiudicazione l'aliunde perceptum, calcolato in genere forfettariamente nella misura del 50%.

Invece, in mancanza di prova circa l'effettivo danno emergente e di prova contraria rispetto alla presunzione dell'aliunde perceptum, il quantum del risarcimento può essere forfettariamente liquidato in via equitativa, sulla base del principio generale previsto dall'art. 1226 cc. Il criterio tendenzialmente utilizzato è quello del 5% dell'offerta economica effettiva dell'impresa. In alcuni casi, però, l'importo liquidato scende al 3% o sale al 6%. CDC



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Inserito in data 11/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 11 novembre 2014, n. 5525

Procedimento espropriativo, avviso di avvio del procedimento e art. 21-octies

Al privato proprietario di un'area destinata all'espropriazione deve essere garantita, mediante la formale comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, la possibilità di interloquire con l'amministrazione procedente sulla sua localizzazione e, quindi, sull'apposizione del vincolo, prima della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza e, quindi, dell'approvazione del progetto definitivo.

Del resto, la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo. Analoghe conclusioni si traggono, inoltre, dalla disciplina di cui all’art. 11 e 16, comma 4, dpr 327/2001.

In particolare, l’avviso di cui all'art. 16, comma 4, dpr 327/2001 realizza una garanzia partecipativa non meramente formale, rappresentando un necessario passaggio cognitivo-dialettico funzionale sia per la parte, che può opporre fatti e/o circostanze non considerati, sia per l'amministrazione che quelle osservazioni deve esaminare e valutare prima di approvare il progetto definitivo dell'opera. Ne segue che da tale omissione procedurale discende, di regola, l'illegittimità degli atti approvativi del progetto e della dichiarazione di pubblica utilità ed in via derivata di quello occupativo ed espropriativo.

Appare possibile il ricorso al rimedio di cui all’art. 21 octies, comma 2, l. 241/1990 solo nei casi in cui, venendo in rilievo un provvedimento non vincolato, la PA fornisca una dimostrazione di immodificabilità assoluta della scelta di allocazione dell’opera. CDC



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Inserito in data 10/11/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZE 7 novembre 2014, nn. 29 e 30

Art. 13 c.p.a.: competenza territoriale inderogabile del G.A.

Il Consiglio di Stato si pronuncia, in sede giurisdizionale, con l’ordinanza de qua, in merito al dibattuto tema della competenza territoriale inderogabile del giudice amministrativo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 13 del Codice del Processo Amministrativo, esplicando che non trova applicazione il comma 4 bis dell' art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento, tranne che si tratti di atti normativi o generali", dunque, pronunciando sul regolamento di competenza in epigrafe, dichiara competente, per il caso de quo, il T.A.R. per il Lazio.

Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “si realizza, quindi, una particolare forma di connessione per accessorietà in base alla quale, ai fini della determinazione del giudice competente, la causa principale (avente ad oggetto l' informativa prefettizia) attrae a sé quella accessoria (avente ad oggetto gli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante), senza che a ciò siano di ostacolo le norme sulla competenza funzionale”.

Trattando della fattispecie in oggetto, un Consorzio, alla cui compagine partecipano 44 aziende con titolarità di svariati contratti con la P.A., era destinatario di sedici note interdittive antimafia, emesse ai sensi dell’ art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011. Secondo quanto posto in luce, l'informativa prefettizia non può, considerarsi "atto presupposto", rispetto alle determinazioni della stazione appaltante o dell’ente che ha concesso benefici economici, stante la sua autonoma efficacia lesiva per gli immediati effetti negativi nei confronti dell'impresa.

Invero, alla luce di tutto quanto si dirà, il criterio principale per l’individuazione del T.A.R. territorialmente competente, così come i Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito, è quello della sede dell'autorità che ha adottato l'atto impugnato: tale criterio, è sostituito da quello inerente agli effetti "diretti" dell'atto, qualora essi si esplichino esclusivamente in luogo compreso nella circoscrizione territoriale di uno specifico tribunale amministrativo regionale.

Con distinti ricorsi, il Consorzio insorgeva in alcuni casi avverso la sola misura interdittiva, in altri con impugnazione congiunta degli atti applicativi emessi dalle stazioni appaltanti; per quattro informative, il T.A.R. Lazio riconosceva la propria competenza.

Per ciò che interessa la vicenda rimessa all’esame dell’Adunanza Plenaria, il Consorzio impugnava davanti al T.A.R. Lazio un lungo elenco di atti dei quali vengono in considerazione i più rilevanti di essi e cioè, ad esempio, l’informativa prefettizia interdittiva con la quale si afferma che nei confronti del suddetto Consorzio “sussiste la presenza di situazioni relative a tentativi d’infiltrazioni mafiose previste dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. Il T.A.R. adito, sul riscontro che il provvedimento prefettizio non ha efficacia sull’intero territorio nazionale, ma opera in seno al solo rapporto cui è riferito, in base al criterio degli effetti diretti del provvedimento, negava la competenza del T.A.R. Lazio e riconosceva il T.A.R. per la Valle d’ Aosta competente a dirimere la controversia. La portata generale e non territorialmente limitata dell’informativa è avvalorata dall’ art. 91, comma 7, del d.lgs. n. 159 del 2011, il quale prevede che, ai fini dell'adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, essa va tempestivamente comunicata, anche in via telematica, all' Osservatorio dei contratti pubblici istituito presso l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.

Secondo quanto chiarito dal Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, riconoscendo “l'efficacia generale dell'informativa prevista dall'art. 91 del d.lgs. n. 159 del 2011; la portata lesiva e il correlato interesse, morale e patrimoniale, del destinatario a ricorrere immediatamente avverso la stessa; la natura vincolata e meramente applicativa degli atti consequenziali emessi dalle varie amministrazioni (ente committente, Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, Camera di Commercio, Ministero delle Infrastrutture, etc.), deve trarsi la conclusione, in ossequio all'art. 13, comma 4 bis, c.p.a., che sussiste la competenza del T.A.R. chiamato a conoscere dell'atto generale presupposto e, quindi, di quello ove ha sede la Prefettura che ha emanato l'informativa”.

In favore di detta conclusione, devono annoverarsi i principi di prevenzione e di connessione oggettiva e soggettiva, nonché di economia dei giudizi e del simultaneus processus; “ciò alla luce del criterio residuale di attribuzione della competenza, recepito dall’art. 13, comma 3, c.p.a., ovvero di concentrazione delle nuove domande avanti al giudice originariamente adito (art. 43, comma 3 c.p.a.) nonché delle stesse regole che nel processo civile derogano, per ragioni di connessione, all’ordinario riparto delle competenze (artt. 31, 36, 40 c.p.c.), applicabili in virtù del rinvio esterno alle disposizioni del codice di procedura civile stabilito dall’art. 39, comma 1, c.p.a.”.

Trattando del caso in oggetto, in costanza del quadro normativo previgente all’ entrata in vigore del codice sulle leggi antimafia e sulle misure di prevenzione (d.lgs. n. 490 del 1994 e d.P.R. n. 252 del 1998), salvo il caso di impugnazione della sola interdittiva prefettizia in cui la competenza è del T.A.R. del luogo ove ha sede la Prefettura che ha adottato l'atto, l’Adunanza Plenaria e la giurisprudenza, si è orientata nel senso che, in caso di impugnazione congiunta dell'informativa e dei successivi atti applicativi adottati dalla stazione appaltante, la competenza territoriale appartiene al T.A.R. del luogo ove ha sede quest'ultima, prevalendo il criterio degli "effetti territoriali limitati" di cui al secondo periodo dell' art. 13, comma 1, c.p.a.

Tuttavia, l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 impone una rivisitazione della tesi sugli effetti territorialmente limitati dell’interdittiva al luogo in cui ha sede la stazione appaltante o l’ente che ha concesso i benefici economici, “ove si consideri che l’art. 91 del d.lgs. predetto collega alla misura di prevenzione una pluralità di effetti rimessi alla competenza ed all’ iniziativa dell’ autorità cui essa è comunicata, che travalicano il luogo in cui ha sede l’ente con cui intercorre il rapporto che ha dato origine all’acquisizione della certificazione antimafia”. Nel caso de quo, l’Adunanza Plenaria ha enunciato il principio di diritto in base al quale, esplicando l'informativa, alla stregua dello jus superveniens, effetti ultraregionali, competente a conoscere dell'impugnazione della stessa è il T.A.R. del luogo ove ha sede la prefettura che ha adottato l'atto; detto T.A.R. rimane competente anche in caso di contestuale impugnazione sia dell'informativa che degli atti applicativi adottati dalla stazione appaltante, non trovando, infatti, applicazione il comma 4 bis dell' art. 13 c.p.a. ove è stabilito che "la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l'interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti allo stesso provvedimento, tranne che si tratti di atti normativi o generali". L’atto prefettizio ha, quindi, effetti ultraregionali per cui, in caso di impugnazione della sola informativa, il T.A.R. territorialmente competente è quello ove ha sede l'autorità che lo ha emesso, ex art. 13, comma 1, primo periodo; essendo, inoltre, l'informativa atto immediatamente impugnabile, non può trovare applicazione, come anticipato, l'art. 13 comma 4 bis c.p.a. GMC



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Inserito in data 10/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 6 novembre 2014, n. 23633

Sulla condanna al risarcimento dei danni nel giudizio penale

Nel caso de quo, il ricorrente principale denuncia violazione degli artt. 578; 651 c.p.p. e 2909 c.c. (art. 360 n. 3 c.p. c.). La Suprema Corte, con la sentenza in epigrafe, chiarisce che il motivo è fondato, sottolineando che “la sentenza del giudice penale che, nel dichiarare estinto per amnistia il reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato che, pur prosciolto dal reato, non può più contestare la declaratoria iuris di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ma soltanto l'esistenza e l'entità in concreto di un pregiudizio risarcibile (si considerino, Cass. 29.1.2913 n. 2083; Cass. 21.6.2010 n. 14921; Cass.6.11.2002 n. 15557)”.

Il principio, va applicato nel caso in esame in cui gli imputati di diffamazione a mezzo stampa, sono stati condannati dalla Corte d'Appello in sede penale, ma la Corte di Cassazione ha dichiarato non doversi procedere per essere il reato estinto per amnistia, confermando le statuizioni civili in ordine al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile. Alla luce di quanto chiarito dagli ermellini, la sentenza del giudice penale, che ha pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo (e separato) giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato. Secondo i Giudici di legittimità, la Corte di merito, quindi, nel caso de quo, “ha errato nel procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dell'an della richiesta risarcitoria che le era preclusa,  dovendo limitarsi esclusivamente all'accertamento, alla valutazione ed all'eventuale liquidazione del danno risarcibile”. GMC




Inserito in data 08/11/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 novembre 2014, n. 249

Aiuti di Stato: questione di legittimità costituzionale dell'articolo 38 Legge Regione Abruzzo n. 55/13 e ss.mm.

Secondo la giurisprudenza della Consulta (sentenza n. 299 del 2013) i requisiti della nozione di aiuto di Stato, «individuati dalla legislazione e dalla giurisprudenza comunitaria, possono essere così sintetizzati: a) intervento da parte dello Stato o di una sua articolazione o comunque impiego di risorse pubbliche a favore di un operatore economico che agisce in libero mercato; b) idoneità di tale intervento ad incidere sugli scambi tra Stati membri; c) idoneità dello stesso a concedere un vantaggio al suo beneficiario in modo tale da falsare o minacciare di falsare la concorrenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 17 novembre 2009, C-169/08); d) dimensione dell’intervento superiore alla soglia economica che determina la sua configurabilità come aiuto “de minimis” ai sensi del regolamento della Commissione n. 1998/2006, del 15 dicembre 2006 (Regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore «de minimis»)».

Il giudice nazionale (e lo stesso Giudice delle Leggi), quindi, «ha una competenza limitata a verificare se la misura rientri nella nozione di aiuto (sentenza n. 185 del 2011) ed in particolare se i soggetti pubblici conferenti gli aiuti rispettino adempimenti e procedure finalizzate alle verifiche di competenza della Commissione europea» (sentenza n. 299 del 2013).

Ciò posto, la Corte Costituzionale, con la sentenza in esame, dichiara illegittimo, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., l’art. 38 (Promozione e pubblicizzazione dell’Aeroporto d’Abruzzo) della legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2013, n. 55 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Abruzzo derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Attuazione della direttiva 2009/128/CE e della direttiva 2007/60/CE e disposizioni per l’attuazione del principio della tutela della concorrenza, Aeroporto d’Abruzzo, e Disposizioni per l’organizzazione diretta di eventi e la concessione di contributi – Legge europea regionale 2013), che, prevedendo un consistente finanziamento a favore di una Società, pone “in essere un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) senza aver previamente notificato il relativo progetto alla Commissione europea, come richiesto dall’art. 108, par. 3, TFUE”.

Correlativamente, la questione di legittimità costituzionale involge anche l’art. 7 della legge della Regione Abruzzo 27 marzo 2014, n. 14, che ha sostituito l’originario contributo con due tipologie di intervento – la ricostituzione del capitale sociale ed il finanziamento del diritto di prelazione- , e  l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Abruzzo 30 luglio 2014, n. 34, che ne ha modificato la fonte di finanziamento.

Infatti, “quanto agli elementi soggettivo ed oggettivo dell’aiuto, è sufficiente rilevare che la Regione è un’articolazione dello Stato, la quale ha destinato con gli interventi in esame risorse pubbliche ad un operatore economico operante nel mercato del trasporto aereo”.

È, altresì, chiaro che, “al pari di quelli previsti dall’articolo abrogato, anche gli interventi disposti dalla norma sopravvenuta sono potenzialmente idonei ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri ed a concedere un vantaggio all’ente beneficiario, che vedrebbe incrementata la sua competitività non per effetto di una razionalizzazione dei costi e dei ricavi, bensì attraverso il conferimento pubblico di risorse destinate alla ricostituzione del capitale della società e all’esercizio del diritto di prelazione sulle quote degli altri soci rimaste non optate”.

Infine, “l’entità complessiva dei due nuovi interventi – oltre che maggiore di quella dell’abrogato contributo – è certamente superiore alla soglia economica minima fissata dal regolamento della Commissione (CE) n. 1998/06, aiuto «de minimis»”.

D’altra parte, l’intervento previsto dall’art. 38 della legge reg. Abruzzo n. 55 del 2013 risulta analogo a quello, consistente in un contributo per la «Valorizzazione ed internazionalizzazione dell’Aeroporto d'Abruzzo», già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla predetta sentenza n. 299 del 2013. EMF



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Inserito in data 08/11/2014
TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I, 7 novembre 2014, n. 424

Sulle deroghe al limite di età per l’ammissione ai concorsi pubblici

L’ art. 3, comma 6, L. n. 127/1997, nell’eliminare il limite di età per l’ammissione ai concorsi pubblici, ha previsto contestuali “deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità dell'amministrazione”.

Le deroghe de quibus, pertanto, da una parte, devono ritenersi “di stretta interpretazione” e, dall’altra, postulano “l’onere per l’amministrazione di esprimere le ragioni” giustificative delle stesse in termini di particolare natura del servizio ovvero di oggettive necessità dell’ente.

In particolare, “l’onere motivazionale deve considerarsi assai più stringente di quello che, in generale, si impone in sede di adozione di atti generali”; con la conseguenza che, in tali casi, l’art. 3, comma 2, L. 241/1990 non trova applicazione. EMF



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Inserito in data 07/11/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, DECIMA SEZIONE - SENTENZA 6 novembre 2014, Causa C-42/13

Sull’attestazione di procedimenti penali pendenti

La Corte di Giustizia Europea è stata chiamata a pronunciarsi, con rinvio pregiudiziale, sulla compatibilità della normativa nazionale, che impone l’esclusione delle imprese dall’aggiudicazione di una gara d’appalto in caso di mancata attestazione dell’assenza di procedimenti penali pendenti, laddove espressamente richiesto dalla lex specialis, con la normativa comunitaria.

Più precisamente il giudice del rinvio si è domandato se, prevedendo l’art. 45 della direttiva 2004/18 (Principi di aggiudicazione degli appalti) quale causa di esclusione la presenza di condanne penali in capo a determinati soggetti <<compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell’offerente>>, questa non osti all’applicazione dell’articolo 38, commi 1 e 2, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE quando sia dimostrato, anche successivamente, che la mancata attestazione dei requisiti concerna un soggetto non avente alcun potere rappresentativo.

Nel caso di specie, infatti, l’esclusione dalla gara era avvenuta a causa della mancata indicazione dei requisiti generali e speciali di un soggetto erroneamente individuato come direttore tecnico.

A ben vedere, dunque, <<il giudice del rinvio nutre dubbi circa la compatibilità con il diritto dell’Unione dell’impossibilità per tale offerente di rimediare, successivamente al deposito della propria offerta, al fatto di non aver allegato alla stessa una siffatta dichiarazione, o comunicandola all’amministrazione aggiudicatrice oppure dimostrando che la qualità di direttore tecnico è stata erroneamente attribuita all’interessato>>, ma <<a tale riguardo, è pacifico che dai documenti dell’appalto di cui al procedimento principale risulta che, da un lato, la «dichiarazione sostitutiva» contemplata all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006, […], doveva essere allegata all’offerta presentata da quest’ultimo sotto pena di esclusione dalla procedura di aggiudicazione e, dall’altro, che era possibile rimediare a posteriori unicamente a irregolarità meramente formali e non decisive per la valutazione dell’offerta.

Ne consegue che, incombendo sull’amministrazione l’onere di far rispettare i criteri di gara dalla stessa fissati, a garanzia del rispetto del principio di parità di trattamento e di trasparenza <<l’articolo 45 della direttiva 2004/18, letto in combinato disposto con l’articolo 2 della stessa, non osta all’esclusione di un offerente a causa del fatto che questi non ha allegato alla propria offerta una dichiarazione sostitutiva relativa alla persona indicata come direttore tecnico nella stessa. In particolare, nei limiti in cui l’amministrazione aggiudicatrice ritenga che tale omissione non costituisca un’irregolarità meramente formale, essa non può permettere a tale offerente di rimediare successivamente a tale omissione, in qualsivoglia modo, dopo la scadenza del termine stabilito per il deposito delle offerte>> e, pertanto, l’esclusione dell’offerente è avvenuta conformemente ai principi di parità di trattamento e trasparenza. VA



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Inserito in data 07/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 novembre 2014, n. 5499

Sulla giurisdizione in materia di maggiori oneri di acquisizione di aree

Il Consesso amministrativo ha confermato la statuizione del giudice di primo grado che ha declinato la propria giurisdizione in materia di maggiori oneri espropriativi per l’acquisizione di alloggi popolari assegnati con apposita concessione.

Il Consiglio di Stato ha, così, dato applicazione all’orientamento formatosi in seno alla Corte di Cassazione secondo cui <<rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo della concessione del diritto di superficie, ai sensi dell'art. 10, della legge 18 aprile 1962, n. 167, come sostituito dall'art. 35, della legge 22 ottobre 1971, n. 865, su aree comprese nei piani per l'edilizia economica e popolare e, in particolare, la quantificazione di tale corrispettivo nonché l'individuazione del soggetto debitore, allorché non siano in contestazione questioni relative al rapporto di concessione e in ordine alla determinazione del predetto corrispettivo non sussista alcun potere discrezionale della P.A. (Cass. SU 17142/11).

Pertanto, non essendo stato contestato l’uso del potere amministrativo a monte, ed escluso il carattere discrezionale delle operazioni di quantificazione degli oneri dovuti, appare corretta la soluzione che incardina la giurisdizione in materia in capo al giudice ordinario. VA



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Inserito in data 06/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 31 ottobre 2014, n. 23183

Sul criterio di liquidazione del danno terminale

La giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. n. 18163/2007 e Cass. n. 1877/2006) è orientata nel ritenere che la liquidazione del danno terminale non possa essere effettuata “attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso”.

Infatti, il danno in esame, nonostante sia intrinsecamente temporaneo, “è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte”; con la conseguenza che non si può non tener conto di “fattori di personalizzazione” rilevabili applicando “un criterio equitativo puro - ancorché sempre puntualmente correlato alle circostanze del caso - che sappia tener conto della enormità del pregiudizio”. EMF




Inserito in data 06/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5423

La definizione di mercato rilevante non connotata in senso meramente geografico

La delimitazione dei confini di “mercato rilevante”, come ampiamente rilevato dalla giurisprudenza, spetta all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, “essendo frutto di una valutazione non censurabile nel merito da parte del giudice amministrativo, se non per vizi di illogicità estrinseca”.

In particolare, l’ambito del concetto de quo “può essere desunto all’esito dell’esame della singola e specifica condotta della quale sia sospettata la portata anticoncorrenziale”; potendo, inoltre, il mercato rilevante “coincidere con la singola gara nella quale tale condotta venga ad incidere”.

Ne discende che la definizione di mercato rilevante non “connotata in senso meramente geografico o spaziale, ma è relativa anche e soprattutto all’ambito nel quale l’intento anticoncorrenziale ha, o avrebbe, capacità di incidere e attitudine allo stravolgimento della corretta dinamica concorrenziale, sicché, nelle ipotesi di intese restrittive della concorrenza, la definizione del mercato rilevante è direttamente correlata al contesto in cui si inquadra il comportamento collusivo tra le imprese coinvolte (per tutte, Cons. Stato, sez. VI; 3 giugno 2014, n. 2837). Come a più riprese è stato chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, in tali ipotesi l'individuazione e la definizione del mercato rilevante è successiva rispetto all'individuazione dell'intesa nei suoi elementi oggettivi, in quanto sono l'ampiezza e l'oggetto dell'intesa a circoscrivere il mercato su cui l'abuso è commesso”. EMF



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Inserito in data 05/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5419

Presupposti del risarcimento del danno da mobbing

Chiamati a pronunciarsi su una domanda di risarcimento danni da mobbing, i Giudici di Palazzo Spada si conformano al costante insegnamento giurisprudenziale sul punto, che così sintetizzano.

In effetti, in assenza di una definizione normativa, è stata la giurisprudenza a delineare la nozione di mobbing.

Sotto il profilo soggettivo, per “mobbing” s’intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, […] tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro”

Sotto il profilo oggettivo, la condotta mobbizzante si manifesta in “comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo”.  Viceversa, “non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche”.

Sotto il profilo dell’onere di allegazione, “la condotta di mobbing del datore di lavoro va esposta nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il Giudice Amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione”.

In particolare, “nel lavoro "pubblico", per configurarsi una condotta di mobbing, è necessario un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti”. Inoltre, si esclude la prova dell’esistenza di un disegno persecutorio laddove non sia stata accertata l’illegittimità dei provvedimenti, poiché il lavoratore che si assume offeso non li ha impugnati; ne discende che ”la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo”. TM



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Inserito in data 05/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5422

Sul principio di irretroattività delle sanzioni amministrative

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato conferma il principio dell’irretroattività delle sanzioni amministrative.

L’esistenza di tale principio è condivisa dall’intero universo giuridico, mentre si discute in merito al suo fondamento.

Certamente, il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative si ricava dall’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile (“La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo”) e, nello specifico, dall’art. 1 della legge n.689 del 1981 (“nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione”).

Inoltre, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, sostiene che il principio di legalità debba essere riferito a tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo; per cui, finisce con l’agganciare il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative alle predette disposizioni della CEDU.

Tuttavia, non è chiaro se tale principio riceva o meno copertura costituzionale nell’art. 25 c. 2 Cost. Generalmente, l’art. 25 Cost. è interpretato in modo restrittivo e riferito alle sole sanzioni penali. Per parte della giurisprudenza, invece, “l'assimilazione tra penale e sanzionatorio amministrativo è desumibile dall'art. 25 c. 2 Cost. Il quale data l'ampiezza della sua formulazione (“Nessuno può essere punito...”) può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale, è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato” (così Corte Cost. 196/10; nello stesso senso AP 23/13). TM



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Inserito in data 04/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 novembre 2014, n. 5440

Interessi e rivalutazione nel giudizio di ottemperanza

Il giudizio di ottemperanza ha ad oggetto la verifica dell'esatto adempimento da parte della PA dell'obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire all'interessato l'utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione. Detta verifica comporta una delicata attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando, sulla base della sequenza "petitum - causa petendi - motivi - decisum".

In sede di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche conseguente o collegato, non potendo essere neppure proposte domande che non siano contenute nel "decisum" della sentenza da eseguire.

Dunque, se il giudicato non contiene alcuna condanna alla corresponsione degli accessori sul credito, la PA, in sede di esecuzione della sentenza, non è tenuta a corrisponderli. Né è possibile desumere per implicito dal giudicato il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione atteso che, per il principio della domanda, il giudice non può attribuire accessori non richiesti; inoltre, “l'attribuzione di tali accessori implica la soluzione di svariate questioni in tema di criteri di computo e loro cumulo, che necessitano di statuizione espressa”.

Ne segue che la relativa domanda va articolata nel giudizio di cognizione e che, nel giudizio di ottemperanza, possono essere chiesti solo gli accessori maturati dopo la sentenza di cui si chiede l'esecuzione. CDC



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Inserito in data 04/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2014, n. 5431

Giurisdizione del g.a. su procedure selettive per stipula di contratti a termine

La sentenza in esame accoglie l’appello avverso una sentenza di primo grado che aveva negato la giurisdizione del giudice amministrativo con riferimento ad una procedura selettiva di reclutamento per la stipula di un contratto a termine.

Infatti, in tema di impiego pubblico, sono devolute alla giurisdizione del g.a. le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione a tempo determinato, posto che a dette procedure si applicano le norme generali che governano la gestione dei concorsi pubblici; esse non hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che l’assunzione sia stata effettuata con contratti a termine, in funzione dell’esecuzione di uno specifico progetto, ed il bando di concorso abbia considerato una selezione per soli titoli, senza prevedere lo svolgimento di prove d’esame. CDC



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Inserito in data 03/11/2014
TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. I, 31 ottobre 2014, n. 2636

Giurisdizione per gli incarichi professionali

Il TAR Palermo, da ultimo, interviene in merito alla dibattuta vicenda concernente l’ambito degli incarichi professionali conferiti dalla Pubblica Amministrazione, soffermandosi, in particolare, sul giudice competente a decidere l’impugnazione del diniego di inserimento del credito vantato da un professionista, a titolo di compenso professionale, nella massa passiva a seguito di dichiarazione di dissesto del Comune.

Nel caso del quo, il ricorrente espone di aver ricevuto l’incarico per la compilazione del progetto architettonico e direzione lavori relativi alla costruzione di una chiesa, che l’incarico professionale è stato regolarmente svolto, che la parcella per il pagamento del compenso, vistata dall’Ordine degli architetti è stata consegnata al Comune, nonché che, a seguito della dichiarazione di dissesto del Comune, è stato negato l’inserimento della massa passiva con il provvedimento impugnato.

Il ricorrente, lamenta, dunque, la violazione dei principi generali dell’ordinamento giuridico in materia contrattuale – validità del contratto d’opera professionale stipulato tra le parti, atteso che, contrariamente a quanto prospettato nella delibera impugnata, la pretesa del ricorrente si fonda su un valido titolo obbligatorio, la violazione dell’art. 11 disposizioni sulla legge in generale, la violazione degli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., nonché delle norme di cui agli artt. 1353 e 1183 del codice civile.

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, tuttavia, il ricorso è inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito.

Alla luce di quanto emerge dalla sentenza “invero, il ricorso ha ad oggetto la legittimità della delibera con la quale è stato negato il pagamento del corrispettivo per un incarico professionale che è stato conferito al ricorrente, professionista esterno all’ente comunale, al di fuori di alcuna procedura di gara, in base ad un rapporto fiduciario” ed inoltre “secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. sentt. 3 luglio 2006 n. 15199, 3 gennaio 2007 n. 4 e 19 novembre 2012, n. 20222), condiviso dal Consiglio di Stato (cfr. sent. V, 12 giugno 2009, n. 3737) e dal C.G.A. (cfr. sent. 6 maggio 2008, n. 390 e 31 maggio 2011, n. 402), “il conferimento da parte di un ente pubblico di incarico a un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo (e che mantenga, pertanto, la propria autonomia e l’iscrizione al relativo albo) costituisce espressione non di una potestà amministrativa, bensì di semplice autonomia privata, ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione – da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo…”.

I Giudici, chiariscono dunque che la domanda del professionista privato che reclami, nei confronti della p.a., il pagamento di quanto dovutogli per l'opera prestata a favore della stessa, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto intesa a far valere il diritto al compenso per l'attività svolta quale prestatore d'opera, “in base a rapporto iure privatorum, dovendosi la giurisdizione determinare in relazione al petitum sostanziale e alla causa petendi, ossia tenendo conto della natura della posizione giuridica dedotta” (si veda, sul punto, T.a.r. Sicilia – Catania, sez. III, 28 dicembre 2012, n. 3078).

Segue, da quanto emerso, l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito in favore del giudice ordinario, anche ai sensi dell’art. 11 c.p.a. GMC



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Inserito in data 03/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, ORDINANZA 29 ottobre 2014, n. 22883

Multe illegittime: quando scontrino e verbale hanno orari diversi

La Corte di Cassazione, interviene, con l’ordinanza de qua, sull’annosa questione delle multe registrate da metodi elettronici, quale il Telelaser, chiarendo che la multa per eccesso di velocità, è illegittima qualora l’indicazione oraria, dell’infrazione riportata sul verbale di accertamento, sia diversa rispetto a quella registrata dal Telelaser. Nella fattispecie oggetto di ordinanza, un motociclista si era opposto ad un verbale di contestazione della violazione dei limiti di velocità elevatogli dalla polizia municipale, sostenendo che non era stata affatto raggiunta la prova del superamento dei predetti limiti a causa di una netta discrepanza tra l’orario dell’infrazione riportato dal verbale e quello emergente dallo “scontrino” rilasciato dal rilevatore di velocità. Il Comune, soccombente in primo ed in secondo grado, promuoveva ricorso in Cassazione, denunziando che il giudice del merito avrebbe dovuto attribuire fede al verbale di accertamento, anziché dar rilievo allo scontrino del Telelaser, il quale riporta l'orario dell'orologio interno della stampante ad esso collegata ed appare, dunque, privo di qualunque forma attendibilità. Il Comune lamentava, altresì, che l’identificazione del veicolo doveva avvenire con esclusivo riguardo al numero di targa, e non già alla marca della moto, corrispondente, nella fattispecie, a quello di parte resistente. Tuttavia, nonostante tali argomentazioni, la Suprema Corte, ha considerato inammissibili e infondate le suddette considerazioni, respingendo il ricorso con condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite. GMC




Inserito in data 01/11/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA TER - SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 22863

Sul concetto di “contratto negoziato fuori dai locali commerciali”

La Suprema Corte di Cassazione, nel pronunciarsi sulla legittimità o meno della sentenza della Corte d’Appello con la quale è stata dichiarata l’inefficacia di un contratto di compravendita concluso in uno stand fieristico per violazione delle norme poste a tutela del consumatore dal d.lgs. 50/92 (più specificamente per la mancata indicazione del diritto di recedere entro 7 giorni dall’acquisto), ha circoscritto il concetto di “contratto negoziato fuori dai locali commerciali.

A parere dei giudici di Piazza Cavour, infatti, la locuzione utilizzata dal legislatore nel d.lgs. 50/92 deve essere interpretata facendo riferimento alla ratio sottesa alla Direttiva 85/577/CEE, cui ha dato attuazione.

Le maggiori tutele che la direttiva prevede nei confronti del consumatore trovano giustificazione nell’esigenza di preservare lo stesso da eventuali pratiche commerciali abusive (come quelle effettuate a domicilio) e di consentirgli una maggiore e più puntuale valutazione dell’offerta che si accinge ad accettare, mancante nei cosiddetti contratti a sorpresa.

“Essa è da intendere riferita, cioè, non a qualunque negoziazione avvenuta in luogo pubblico o aperto al pubblico - come ha ritenuto la sentenza impugnata - ma solo ai casi in cui siano prospettabili autentiche ed effettive esigenze di difesa del consumatore, a fronte di iniziative inattese, abusive, capziose o comunque 'sorprendenti', nel senso fatto palese dal terzo e dal quarto Considerando della Direttiva […] Tali non possono essere considerati i luoghi pubblici o aperti al pubblico che siano appositamente destinati all'esposizione ed alla vendita dei beni e servizi del 'professionista', ai quali il consumatore acceda perché tendenzialmente interessato al relativo acquisto, quale lo stand allestito all'interno di una fiera o di un salone di esposizione”.

Ne consegue che, nel caso di specie, non è possibile ravvisare le suddette esigenze di tutela: lo stand fieristico, infatti, non sembra poter rientrare nella definizione di luogo pubblico od aperto al pubblico, in quanto ne è evidente la destinazione alla promozione e alla negoziazione dei prodotti esposti ed, inoltre, si tratta di un’attività solo temporaneamente dislocata ad di fuori delle ordinarie sedi commerciali; né può sostenersi che il consumatore che si rechi ad un simile evento sia colto “di sorpresa” essendo, di contro, proprio l’intento informativo e valutativo a muoverlo in tal senso.

Mancando, dunque, proprio quegli elementi circostanziali che fanno sorgere particolari esigenze di tutela nei confronti del consumatore, nel caso in esame non può trovare applicazione l’art. 1 comma 1 lett. c) del d.lgs. 50/92, invero “non qualunque luogo pubblico od aperto al pubblico giustifica la peculiare tutela di cui alla normativa, bensì solo quei luoghi pubblici o aperti al pubblico che non siano di per sé destinati alle negoziazioni, ed ai quali il consumatore acceda per finalità estranee a quella di comprare, di vendere o di contrattare, si che l'eventuale iniziativa del professionista lo colga di sorpresa e impreparato alla difesa dei suoi interessi”. VA




Inserito in data 01/11/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 31 ottobre 2014, n. 5398

Detenzione di armi, condotta di vita ed affidabilità del soggetto

Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato ha avallato le censure mosse alla sentenza del Tar di Perugia che aveva annullato il provvedimento di sospensione del porto darmi ed il divieto di detenzione delle stesse in quanto fondati sulla pendenza di procedimenti penali aventi ad oggetto reati che con comportavano l’uso di armi.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, ricordano il carattere eccezionale che presenta l’autorizzazione al possesso ed alla detenzione di armi la quale non può mai prevalere rispetto alle esigenze di tutela della incolumità generale dei cittadini.

La suddetta autorizzazione, dunque, richiede una valutazione, peraltro ampiamente discrezionale, sull’affidabilità del soggetto destinatario della stessa, al fine di prevenire eventuali abusi.

Il Supremo Consesso, inoltre, richiamando gli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, ricorda come, oltre alle ipotesi tipiche di diniego vincolato, collegato alla condanna per alcuni reati, sia prevista anche la possibilità di negare le autorizzazioni di polizia anche in altri casi. Più precisamente: "la licenza può essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non può provare la sua buona condotta o non dà affidamento di non abusare delle armi".

È evidente, dunque, che i requisiti di buona condotta e di affidabilità sono del tutto carenti nel caso in esame, essendo di fronte ad un soggetto posto in stato di detenzione e soggetto a misure di sicurezza (fatti ontologicamente contrastano con un condotta di vita rispettosa dei principi di legalità, di ordine pubblico e del comune vivere civile).

Peraltro, l’ampiezza della discrezionalità valutativa garantita alla pubblica autorità fa sì che “il giudizio di "non affidabilità" è giustificabile anche in situazioni che non hanno dato luogo a condanne penali o misure di pubblica sicurezza, ma a situazioni genericamente non ascrivibili a "buona condotta" (CdS 4666/13). […] Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dal Tar, la licenza di porto d' armi può essere negata o revocata anche in assenza di pregiudizi e controindicazioni connessi al corretto uso delle armi, potendo l'Autorità amministrativa valorizzare, nella loro oggettività, sia fatti di reato, sia vicende e situazioni personali del soggetto che non assumano rilevanza penale, anche se non attinenti alla materia delle armi, da cui si possa comunque desumere la non completa "affidabilità" da parte del soggetto interessato all'uso delle stesse (CdS 3979/13). VA



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Inserito in data 31/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2014, n. 5281

Processo amministrativo ed improcedibilità del ricorso

Nel processo amministrativo l'improcedibilità del ricorso può verificarsi in presenza della sussistenza delle seguenti condizioni: “a) il rapporto giuridico sotteso all'impugnato provvedimento è stato oggetto di una nuova regolazione intervenuta in corso di causa e questo ha fatto venir meno gli effetti dell'originario provvedimento; b) l'atto del cui annullamento si discute ha di fatto consumato la sua efficacia, con sostanziale sopravvenuta carenza d'interesse a coltivare l'impugnativa nel caso in cui nessuna concreta utilitas possa derivare alla parte ricorrente dalla decisione di merito del rimedio giurisdizionale proposto (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 aprile 2014, n. 2209)”.

Pertanto, l’adozione di un nuovo atto, quando non sia meramente confermativo di un provvedimento precedente già oggetto di impugnazione giurisdizionale ma costituisce (nuova) espressione di una funzione amministrativa, comporta “la pronuncia d'improcedibilità del giudizio in corso per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l'interesse del ricorrente dall'annullamento dell'atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, all’annullamento di quest'ultimo. Va in proposito evidenziato che affinché possa escludersi che un atto sia meramente confermativo del precedente occorre che la sua formulazione sia preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto caratterizzanti la fattispecie considerata, può dar luogo ad un atto propriamente confermativo, in grado, come tale, di dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e, quindi, suscettibile di autonoma impugnazione”.

Non è, inoltre, “configurabile l'improcedibilità del ricorso proposto per l’annullamento di un provvedimento giurisdizionale se l'adozione del nuovo atto regolante la fattispecie da parte dell’Amministrazione non è spontanea, ma di mera esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, con rilevanza provvisoria, in attesa che una sentenza di merito definitiva accerti se il provvedimento impugnato sia o meno legittimo; invece, nel caso in cui il contenuto di detto provvedimento giurisdizionale sia tanto condiviso dall'Amministrazione da indurla a ritirare il precedente provvedimento, sostituendolo con un nuovo atto, senza attendere il giudicato sul suo prevedibile annullamento, può senz'altro ritenersi che l'autonoma valutazione dell'Amministrazione, adeguatamente motivata, determini la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione avverso l'atto originariamente impugnato (in caso simile: Consiglio di Stato, sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5781)”.

In conclusione, “ogni nuovo provvedimento innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario, anche di conferma propria (che si ha quando la pubblica amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una nuova motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente provvedimento) ed anche se frutto di un riesame non spontaneo, ma indotto da un provvedimento del giudice amministrativo, che tuttavia rifletta nuove valutazioni dell'Amministrazione e implichi il definitivo superamento di quelle poste a base di un provvedimento impugnato giurisdizionalmente, comporta sopravvenienza di carenza di interesse del ricorrente alla coltivazione del relativo gravame, non potendo esso conseguire alcuna utilità da un eventuale esito favorevole dello stesso (Consiglio di Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4358; sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3457)”. EMF



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Inserito in data 31/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 ottobre 2014, n. 239

E’ illegittimo l’art. 4-bis Ord. penit. in riferimento alle detenuti madri

Con la sentenza in esame, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge”.

Infatti, come rilevato tanto da questa Corte (sentenza n. 177 del 2009) quanto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione I, 7 marzo 2013-19 settembre 2013, n. 38731; Corte di cassazione, sezione I, 20 ottobre 2006-14 dicembre 2006, n. 40736), “la misura in questione partecipa, in realtà, anch’essa della finalità di reinserimento sociale del condannato, costituente l’obiettivo comune di tutte le misure alternative alla detenzione: il che è comprovato tanto dal requisito negativo di fruibilità, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, quanto dalla disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca (art. 47-quinquies, commi 3 e seguenti, e 47-sexies della legge n. 354 del 1975)”.

D’altra parte “è indubbio che nell’economia dell’istituto assuma un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo. Interesse che – oltre a chiamare in gioco l’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori parametri costituzionali richiamati dal rimettente (tutela della famiglia, diritto-dovere di educazione dei figli, protezione dell’infanzia: artt. 29, 30 e 31 Cost.)”.

Del resto deve rammentarsi che, seppur in riferimento ad una questione strutturalmente diversa, “questa Corte ha già avuto modo di porre in evidenza la speciale rilevanza dell’«interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione»: «interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale sia in quello interno» (sentenza n. 31 del 2012; in senso analogo, sentenza n. 7 del 2013). A fianco dei richiamati imperativi costituzionali – tra cui, anzitutto, quello che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31, secondo comma, Cost.) – vengono in particolare considerazione, sul piano internazionale, le previsioni dell’art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dell’art. 24, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo. Entrambe le disposizioni qualificano, infatti, come «superiore» l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ai minori, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, detto interesse deve essere considerato «preminente»: precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne”.

Pertanto, “assoggettando anche la detenzione domiciliare speciale al regime “di rigore” sancito dall’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 il legislatore ha, dunque, accomunato fattispecie tra loro profondamente diversificate”.

Tale omologazione di trattamento “appare senz’altro lesiva dei parametri costituzionali evocati ove si guardi alla ratio storica primaria del regime in questione, rappresentata dalla incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalità organizzata. Un conto, infatti, è che tale strategia venga perseguita tramite l’introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici penitenziari costruiti – com’è di norma – unicamente in chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento rimuovibile tramite la condotta collaborativa; altro conto è che la preclusione investa una misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell’interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera età a fruire delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico. In questo modo, il “costo” della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare”.

La conclusione resta invariata anche se si guarda all’altra e concorrente ratio del regime considerato, la funzione rieducativa della pena; atteso che “la subordinazione dell’accesso alle misure alternative ad un indice legale del “ravvedimento” del condannato – la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del “nesso” tra il soggetto e la criminalità organizzata (nesso, peraltro, a sua volta presuntivamente desunto dal tipo di reato che fonda il titolo detentivo) – può risultare giustificabile quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell’autore della condotta illecita. Cessa, invece, di esserlo quando al centro della tutela si collochi un interesse “esterno” ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene in rilievo”.

Tuttavia, “è ben vero che nemmeno l’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, malgrado il suo elevato rango, forma oggetto di protezione assoluta, tale da sottrarlo ad ogni possibile bilanciamento con esigenze contrapposte, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore in seguito alla commissione di un reato. Come già rilevato da questa Corte (sentenza n. 177 del 2009), proprio ad una simile logica di bilanciamento risponde, in effetti, la disciplina delle condizioni di accesso alla detenzione domiciliare speciale stabilite dall’art. 47-quinquies, comma 1, della legge n. 354 del 1975: condizioni tra le quali figura anche quella, più volte ricordata, della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata”.

Ciò posto, deve, altresì, ritenersi che “affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto – così come richiede la citata disposizione – e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni”.

Alla luce di quanto suddetto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 va estesa, in via consequenziale, “anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della legge n. 354 del 1975: ciò, per evitare che una misura avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua. In tale ipotesi, la concessione della misura rimane comunque subordinata alla verifica della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti: condizione, come detto, non enunciata in modo esplicito dal citato art. 47-ter, ma che deve comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza, stante l’evidenziata ratio comune delle misure alternative alla detenzione (sentenza n. 177 del 2009)”. EMF



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Inserito in data 30/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO, SENTENZA 20 ottobre 2014, n. 22154

Lavoratore ed infortunio in itinere: maggior rigore nel diritto ad essere risarcito

I Giudici della Sezione lavoro, specificando la portata di taluni principi già espressi in merito da pronunce pregresse, richiamano gli aspetti principali riguardo alla possibile indennizzabilità di infortuni verificatisi lungo il percorso tra l’abitazione privata del lavoratore ed il relativo luogo di occupazione.

In particolare, con riguardo all’utilizzo del mezzo proprio – come verificatosi nel caso in esame, la Corte ricorda la necessità di delimitarlo il più possibile, circoscrivendone l’uso alle sole ipotesi in cui sussista un’effettiva connessione tra il lavoro svolto, lo spostamento e le effettive esigenze professionali.

Solo nel caso in cui si dimostri inconfutabilmente che la locomozione del lavoratore sia eziologicamente connessa alla prestazione lavorativa, sarà possibile estendere la copertura assicurativa anche a sinistri occorsi fuori dal comune luogo di lavoro.

Ricorda il Collegio, infatti, che l'uso del mezzo proprio, con l'assunzione degli ingenti rischi connessi alla circolazione stradale, debba essere valutato con adeguato rigore, tenuto conto che il mezzo di trasporto pubblico costituisce lo strumento normale per la mobilità delle persone e comporta il grado minimo di esposizione al rischio di incidenti. CC

 

 




Inserito in data 30/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE CIVILE SESTA BIS, ORDINANZA 21 ottobre 2014, n. 22318

Art. 196 Codice della Strada: chiarimenti sulla responsabilità solidale

Gli Ermellini, specificando la posizione di gran parte della giurisprudenza in merito, chiariscono la portata dell'art. 196 del Codice della Strada. Tale norma, individuando una particolare forma di responsabilità solidale, estende al proprietario del veicolo l'obbligo al pagamento delle sanzioni pecuniarie per gli illeciti commessi da altri soggetti tramite quel mezzo.

I Giudici, ricordando che una simile forma di responsabilità deriva da una estensione al Codice della Strada degli illeciti aquiliani di cui al 3’ comma dell’articolo 2054 cod. civ., sottolineano la possibilità per il proprietario della vettura di esonerarsene.

Occorre, infatti, dare la prova  che la circolazione sia avvenuta senza il proprio consenso ("invito domino") e che la stessa abbia avuto luogo "contro la propria volontà" ("prohibente domino").

Il Collegio di piazza Cavour, riconoscendo la peculiarità sul piano probatorio, spiega che l’eventuale volontà contraria del proprietario avrebbe dovuto manifestarsi in un concreto e idoneo comportamento ostativo specificamente rivolto a vietare la circolazione ed estrinsecatosi in atti e fatti rilevatori della diligenza e delle cautele allo scopo adottate.

I Giudici concludono, infine, specificando che la valutazione della diligenza del proprietario e della sufficienza dei mezzi adottati per impedire la circolazione del veicolo debba essere compiuta secondo un criterio di normalità ed in relazione al caso concreto con accertamento rimesso al giudice di merito, il cui giudizio, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. CC




Inserito in data 30/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 ottobre 2014, n. 5151

Diniego adeguamento assegno di mantenimento erogato in qualità di testimone di giustizia

I Giudici d’appello, confermando – sia pure con diversa motivazione, la pronuncia resa in primo grado, intervengono in tema di adeguatezza e congruità delle misure economiche ed assistenziali adottate dalla Commissione Centrale prevista dall’art. 10 della legge n. 82 del 1991 nei confronti di un testimone di giustizia e dei suoi familiari, nel quadro dello speciale programma di protezione deliberato ai sensi della legge predetta.

In primo luogo, il Collegio ricorda la differente condizione del testimone di giustizia – come nel caso di specie - rispetto al collaboratore di giustizia.

Nei confronti del primo è previsto, infatti, un trattamento differenziato e più favorevole rispetto al collaboratore di giustizia, stante il concorso delle misure di assistenza concesse al mantenimento del precedente tenore di vita. In particolare, tutto ciò emerge in sede di quantificazione dell’assegno di mantenimento, la cui determinazione non trova applicazione nei confronti dei testimoni di giustizia, i quali godono della guarentigia del mantenimento del pregresso tenore di vita.

I Giudici sottolineano, quindi, che la rinnovazione del provvedimento annullato debba svolgersi in base a criteri di adeguatezza, logicità e proporzionalità dell’azione amministrativa, tenendo conto principalmente della primaria necessità di mantenere una simile guarentigia.

Pertanto, in vista di tale obiettivo - vera ratio del Legislatore del 1991, il Collegio puntualizza taluni aspetti relativi all’assegno da erogare, il cui ammontare è oggetto dell’odierna contesa.

In particolare, i Giudici sottolineano la detrazione, dal flusso reddituale disponibile, degli esborsi sostenuti dall’Amministrazione per spese scolastiche in favore dei figli del testimone di giustizia; sanitarie (diagnostiche e terapeutiche) per prestazioni non erogabili a carico del servizio sanitario nazionali; per vacanze annuali; per riscaldamento dell’ alloggio assegnato.

Invece, pare vadano escluse tutte le specie necessitate dalla qualità di testimone di giustizia quali, a titolo di esemplificazione, quelle inerenti a esigenze di viaggio per il ritorno al luogo di provenienza (ivi comprese le spese di vitto ed alloggio) e di assistenza legale nelle ipotesi previste al punto 5 della delibera 14 settembre 2009 di adozione del programma speciale di protezione. CC



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Inserito in data 30/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 ottobre 2014, n. 5048

Prove di concorso, discrezionalità tecnica e profili di giurisdizione

I massimi Giudici amministrativi, intervenendo ancora una volta in tema di giudizi resi da Commissioni esaminatrici, ne ricordano la natura tecnico – discrezionale e le conseguenti ricadute in sede di vaglio giurisdizionale.

In particolare il Consesso, richiamando la copiosa giurisprudenza in materia, sottolinea come il giudizio della Commissione sulle prove si sostanzi in una valutazione unitaria, che è condizionata in modo determinante dalla completezza, dalla profondità e dalla logica  interna dei singoli elaborati (Cons. di Stato, Sez. IV, 2 marzo 2011, n. 1350; Cons. di Stato, Sez. IV, 27 novembre 2008, n. 5862; Cons. di Stato, Sez. IV, 17 gennaio 2006, n. 172; Cons. di Stato, Sez. IV, 22 settembre 2005, n. 4989). Pertanto, l’eventuale errore macroscopico, ictu oculi percepibile e, come tale, sindacabile dai Giudici, deve essere delimitato alle ipotesi estreme di illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà o travisamento dei fatti (Cons. di Stato, Sez. IV 11 aprile 2007, n. 1643). Solo in questi ultimi casi, infatti, configurandosi un eccesso di potere della Commissione esaminatrice, sarebbe possibile uno scrutinio da parte del Collegio.

Occorre, però, circoscrivere l’eccesso di potere al caso specifico, onde comprendere il possibile raggio di intervento da parte dei Giudici.

Nella specie, trattandosi di una mancata ammissione alle prove orali previste per il concorso notarile, la valutazione dell'elaborato non è limitata alla mera considerazione della soluzione finale offerta dal candidato alla fattispecie proposta, ma è altresì ancorata alla critica del relativo percorso logico e delle argomentazioni che le sostengono. Né, proseguono i Giudici di Palazzo Spada, può ravvisarsi eccesso di potere per disparità di trattamento con riferimento all'ammissione all'orale di candidati che abbiano dato alla fattispecie teorica sottoposta al loro esame la stessa soluzione data dal candidato non ammesso.

Alla luce di ciò, il Collegio ha condiviso la posizione dei Giudici territoriali i quali, ribadendo l'ampia sfera di discrezionalità della Commissione di concorso e sottolineando il particolare tecnicismo proprio della procedura concorsuale in esame, avevano già sancito come legittima la mancata ammissione dell’odierno appellante alle prove orali del concorso per notaio. CC



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Inserito in data 29/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 243

L’ATP obbligatorio previsto dall’art. 445bis c.p.c. non viola il diritto di difesa

La Corte costituzionale respinge tutti i dubbi di incostituzionalità dell’art. 445bis c.p.c., disposizione che prevede l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio per le controversie in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità ex L. 222/84. Particolarmente interessante è la parte della pronuncia in cui si nega la violazione dell’art. 24  della Costituzione.

Invero, “la tutela garantita dall’art. 24 Cost. non comporta l’assoluta immediatezza dell’esperibilità del diritto di azione […]; detta tutela giurisdizionale non deve necessariamente porsi in relazione di immediatezza con il sorgere del diritto, ma la determinazione concreta di modalità e di oneri non deve rendere difficile o impossibile l’esercizio di esso”. Nella specie, l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio è previsto come condizione di procedibilità e non di proponibilità della domanda: per cui, non preclude ma posticipa la tutela giurisdizionale.

Più nello specifico, “si deve osservare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha collegato la legittimità di forme di accesso alla giurisdizione, subordinate al previo adempimento di oneri finalizzati al perseguimento di interessi generali, al triplice requisito che il legislatore non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa […], contenga l’onere nella misura meno gravosa possibile ed operi un congruo bilanciamento tra l’esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende perseguire”. Nel caso di cui ci si occupa, si può certamente affermare che: 1) l’accesso alla giurisdizione è condizionato all’espletamento di adempimenti non particolarmente onerosi (presentazione dell’istanza di accertamento tecnico preventivo prima della proposizione della domanda giudiziale o nel termine di quindici giorni assegnato dal giudice che abbia rilevato tale causa di improcedibilità alla prima udienza); 2) perciò, il legislatore ha ridotto al minimo l’aggravio per il richiedente giurisdizionale; 3) il legislatore ha operato un congruo bilanciamento tra l’interesse della parte a far valere il proprio diritto di assistenza e previdenza e gli interessi generali perseguiti attraverso l’art. 445 bis c.p.c., ossia ridurre il contenzioso previdenziale e assistenziale, contenere la durata dei relativi processi, conseguire certezza giuridica in relazione all’accertamento del requisito medico-sanitario. TM



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Inserito in data 29/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 28 ottobre 2014, n. 244

La legge può incidere sui giudizi in corso per attuare le pretese dei ricorrenti

La sentenza afferma la legittimità dell’art. 1, commi 98 e 99, della L. 228/12, che hanno, rispettivamente, ripristinato il precedente regime del TFS per i dipendenti pubblici e stabilito l’estinzione dei giudizi per la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5 % sulla base contributiva utile (contributo dovuto in regime di TFS ma non di TFR).

In particolare, secondo la Corte, l’art. 1, comma 98, non viola gli artt. 3 e 36 Cost., prevedendo il regime del TFS per i dipendenti pubblici assunti prima del 2001, mentre i dipendenti privati e quelli pubblici assunti successivamente restano sottoposti al regime del TFR. “Il trattamento di fine servizio è, infatti, diverso e […] normalmente “migliore” rispetto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’art. 2120 cod. civ., per cui il fatto che il dipendente […] partecipi al suo finanziamento, con il contributo del 2,50% (sull’80% della sua retribuzione), non integra un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto. Per altro verso, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi”.

Inoltre, per il Giudice delle Leggi, l’art. 1 comma 99 summenzionato non viola gli artt. 24, 101, 102, 104 e 113 Cost. “Non illegittima è, in primo luogo, infatti, la disposta estinzione dei giudizi in corso, atteso che l’interesse dei ricorrenti alla restituzione del contributo del 2,50% […] è venuto meno con il ripristino (ad opera della normativa impugnata) del previgente regime di TFS, nel cui contesto quel contributo concorre a finanziare il fondo erogatore dell’indennità di buonuscita. Come, infatti, da questa Corte già affermato, il legislatore, intervenendo a regolare una data materia, può anche incidere sui giudizi in corso, dichiarandoli estinti, senza ledere il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall’art. 24 Cost., ove la nuova disciplina, lungi dal tradursi in una sostanziale vanificazione dei diritti azionati, sia tale da realizzare, come nella specie, le pretese fatte valere dagli interessati, così eliminando le basi del preesistente contenzioso”.

Neppure può dirsi, poi, irragionevole la diversità di trattamento tra i dipendenti che, nelle more, abbiano ottenuto la restituzione del 2,50% con sentenza passata in giudicato (restituzione divenuta «indebita» a seguito dell’abrogazione dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010) e quelli che non l’abbiano ottenuta per il sopravvenuto ripristino dell’indennità di buonuscita. Ciò essendo inevitabilmente dovuto alla successione di diverse disposizioni normative ed al generale principio di intangibilità del giudicato”. TM



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Inserito in data 28/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 ottobre 2014, n. 5278

Sindacato intrinseco debole del g.a. sulla definizione di mercato rilevante

In relazione, tra l’altro, alla definizione del mercato rilevante da parte dell’AGCM, il giudice amministrativo può esercitare solo un sindacato di legittimità, che non si estende al merito, dovendo valutare i fatti, per accertare se la ricostruzione di essi risulti immune da travisamenti e vizi logici e se le disposizioni giuridiche siano state correttamente individuate, interpretate e applicate. Nel caso in cui residuino margini di opinabilità in relazione ai concetti indeterminati, il giudice amministrativo non può comunque sostituirsi all’AGCM nella definizione del mercato rilevante. In definitiva, il sindacato giurisdizionale è consentito nei limiti in cui la valutazione dell’AGCM contrasta con il principio di ragionevolezza tecnica.

In particolare, in presenza di accertamenti relativi ad intese anticoncorrenziali, l’individuazione dell’ambito merceologico e territoriale è logicamente successiva rispetto all’individuazione dell’intesa. Qualora, invece, l’AGCM contesti operazioni di concentrazione e comportamenti abusivi l’individuazione del mercato rilevante costituisce un’operazione logica del tutto preliminare, in quanto l’ambito del mercato rilevante costituisce uno dei presupposti dell’illecito, delimitando l’ambito nel quale l’intesa può restringere o falsare il meccanismo concorrenziale. CDC



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Inserito in data 28/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2014, n. 5279

Controinteressato pretermesso non può appellare, ma solo proporre opposizione di terzo

La sentenza affronta il tema della legittimazione all'appello da parte del controinteressato pretermesso che non abbia partecipato al giudizio di primo grado. Tale questione è sempre stata strettamente connessa a quella della latitudine attribuita al rimedio dell'opposizione di terzo in ambito processuale amministrativo.

In passato, la tutela del terzo che avesse subìto un apprezzabile pregiudizio dalla sentenza era assicurata attraverso vari rimedi, quali la nozione estesa della legittimazione ad appellare, 1'ampia possibilità di intervento nel giudizio di secondo grado e la possibilità di introdurre nel giudizio amministrativo la chiamata di terzo iussu iudicis.

Con la sentenza n. 177 del 1995, la Corte Costituzionale ha introdotto nell'ordinamento processuale amministrativo l’opposizione di terzo. Così si è posto il problema di chiarire se il terzo avesse ancora facoltà di esperire il rimedio dell'appello contro la sentenza resa in un giudizio cui fosse rimasto estraneo.

In materia, è da ultimo intervenuto il codice del processo amministrativo, il quale ha espressamente disciplinato la legittimazione a proporre appello ed ha altresì regolato il rimedio straordinario dell'opposizione di terzo. A seguito di tale codificazione non residua oggettivamente spazio per l'appello del terzo, per ragioni di ordine sia testuale che sistematico.

In particolare, l’art. 102, comma 1, cpa sancisce che “possono proporre appello le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado”. Così si preclude la possibilità per il litisconsorte pretermesso in primo grado di proporre autonomamente appello, superando il pregresso orientamento. Ne segue che il controinteressato non evocato in giudizio può impugnare la sentenza di primo grado soltanto - laddove ne sussistano le condizioni - con il rimedio straordinario dell'opposizione di terzo.

Del resto, la possibilità da parte del terzo di appellare la sentenza resa in un giudizio a cui sia rimasto estraneo è stata riconosciuta in via giurisprudenziale per assicurare a quest'ultimo una forma di tutela giurisdizionale, vista l'assenza nell'ordinamento processuale amministrativo del rimedio dell'opposizione di terzo. Una volta introdotto tale rimedio, la permanenza dell’appello del terzo risulterebbe non solo non conciliabile con i chiari disposti del codice, ma altresì foriera di complicazioni per l'attuale sistema delle impugnazioni nell'ambito del diritto processuale amministrativo. In tale ipotesi, infatti, il terzo disporrebbe di due rimedi giurisdizionali da azionare a suo piacimento, con un plus di tutela che mal si concilia con il principio della parità delle parti. CDC

 

 



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Inserito in data 27/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 ottobre 2014, n. 5174

Ricostruzione di immobili: occorre dimostrare l'esatta consistenza degli stessi

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si occupa del diniego opposto da un Comune in ordine alla richiesta di rilascio di un permesso di costruire per l’esecuzione di opere di ristrutturazione edilizia di un fabbricato rurale.

Nel caso de quo, il proprietario di un terreno, su cui insiste un fabbricato rurale con una superficie complessiva di 19 mq, afferma che l'originaria consistenza sarebbe venuta meno a seguito di un incendio avvenuto negli anni Ottanta. Per tale immobile venne presentata, nel 2006, una richiesta di autorizzazione per un intervento di “manutenzione straordinaria di accessorio agricolo” che veniva rigettata alla luce della mancata dimostrazione della preesistente consistenza.

Successivamente, nel luglio del 2008, veniva prodotta altra istanza per l’effettuazione di lavori sul predetto fabbricato, anch'essa respinta. Qualche anno più tardi, veniva presentata nuova istanza di rilascio di permesso di costruire per l’effettuazione di lavori di ristrutturazione cui faceva riscontro una determinazione dirigenziale, recante anch'essa diniego rilascio di p.d.c., opposto in ragione della non ammissibilità del chiesto intervento “in quanto il manufatto risulta nella situazione attuale alla data di adozione del PRG e, applicando, pertanto, la normativa di PRG vigente - categoria RO- non risultano consentiti ampliamenti”.

L’interessato impugnava tale provvedimento innanzi al Tar che rigettava il proposto ricorso, ritenendolo infondato.

Analizzando la questione oggetto di attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, essa concerne in primo luogo i mezzi di impugnazione; il Consiglio di Stato, infatti, espone l'esistenza, a tal proposito, di differenti tesi.

Ed invero, il privato che agisce giudizialmente rivendica la possibilità di eseguire il progettato intervento, “posto che si tratterebbe di ripristinare l’originaria consistenza edilizia del fabbricato venuta meno in parte per effetto di un incendio sviluppatosi nel 1984, sicchè, secondo tale prospettazione non vi sarebbe motivo alcuno per impedire la chiesta riqualificazione del preesistente manufatto”. L’Amministrazione comunale, a fronte della domanda di edificazione, oppone la circostanza ostativa data dal fatto che il progettato intervento non sarebbe ammissibile in quanto il manufatto risulterebbe alla data di adozione del PRG (1994) in una diversa situazione di stato, da non potersi assentire ampliamenti.

Il primo giudice, nel dirimere la controversia ha avallato la fondatezza delle ragioni poste a sostegno dell’opposto diniego: la ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato Sez. IV 15/9/2006 n.5375). La rilevazione della preesistenza ai fini dell’intervento ricostruttivo “non può non ancorarsi alla situazione di fatto esistente alla data di presentazione della domanda e, nella specie, al momento di produzione dell’istanza di edificazione, il fabbricato esistente aveva connotazioni tipologiche di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra”. Secondo il Consiglio di Stato, persino valutando la documentazione fotografica prodotta, è evincibile unicamente un “edificio avente una sagoma dalla quale non è possibile dedurre l’esistenza di un manufatto bipiano”.  Alla luce di quanto argomentato dai Giudici di Palazzo Spada, infatti, “non è sufficiente che si dimostri che un immobile in parte poi crollato o demolito è esistente, ma è necessario che si dimostri oltre all’an anche il quantum e cioè l’esatta consistenza dell’immobile preesistente del quale si chiede la ricostruzione”. GMC



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Inserito in data 27/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 ottobre 2014, n. 5178

Difetto dei presupposti di esperibilità per il rimedio dell'ottemperanza

I Giudici di Palazzo Spada, intervengono, con la sentenza de qua, in merito al difetto dei presupposti di esperibilità per il rimedio della ottemperanza.

Nel caso di specie, con ricorso del 2011 innanzi al T.A.R., una ditta partecipante ad una gara per l’affidamento, tra gli altri, del servizio omnicomprensivo per il mantenimento in efficienza delle opere in verde lungo le strade statali, chiedeva l’annullamento dei seguenti atti: a) verbale di seduta riservata della gara, recante la propria esclusione dalla gara medesima; b) ogni altro atto presupposto e conseguente, ivi compreso il provvedimento di aggiudicazione definitiva della gara stessa, ove adottato, e il silenzio-rigetto formatosi sull’informativa di ricorso trasmessa dalla ditta medesima, ai sensi dell’art. 243-bis del D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163.

Il Consiglio di Stato, ritiene che il ricorso in epigrafe difetti dei presupposti di esperibilità per il rimedio dell’ottemperanza e, in particolare, il preteso comportamento inadempiente dell’amministrazione.

A tal proposito, l’orientamento consolidato sia della Sezione (Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2003, n. 6334; Id., sez. IV, 26 giugno 1998, n.992) che della costante giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2008, n. 2626; Id, sez. V, 23 settembre 2007, n. 6018; Id, sez. VI, 10 febbraio 2004, n. 501) sottolinea che l’oggetto del giudizio di ottemperanza “consiste nel verificare se la P.A. abbia o meno adempiuto all’obbligo nascente dal giudicato, e cioè se abbia o meno attribuito all’interessato quell’utilità concreta che la sentenza ha riconosciuto come dovuta”.

Specificamente, la sentenza n. 2922/2012, della quale la ricorrente chiede l'esecuzione, sul punto, prevedeva: “Dall’annullamento degli atti impugnati in primo grado consegue l’aggiudicazione della gara di cui trattasi da parte dell’attuale appellante. Ove nel frattempo fosse stato stipulato un contratto per la medesima prestazione resa oggetto della gara per cui è causa, l’attuale appellante dovrà sostituirsi all’intestataria del contratto stesso per il tempo residuo della prestazione predetta, fermo – altresì – restando il suo diritto al risarcimento del danno costituito dal 10% della propria offerta in rapporto al lasso di tempo in cui il servizio non è stato da essa espletato”.

Da quanto chiarito, emerge che l’obbligazione contenuta dalla sentenza, sia stata correttamente adempiuta dalla P.A. attraverso l’adozione, da un lato, del provvedimento con il quale è stata disposta l’aggiudicazione definitiva della gara in oggetto in favore della odierna ricorrente e dall’altro, tramite l’affidamento di lavori aventi ad oggetto la medesima prestazione di cui alla gara in oggetto. GMC



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Inserito in data 24/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE - SENTENZA 23 ottobre 2014 n. 44106

Obblighi di formazione dei dipendenti e infortuni sul lavoro

Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha fornito una nuova e più stringente lettura degli obblighi di formazione sussistenti in capo al datore di lavoro attraverso un ampliamento del rischio specifico cui fa riferimento la normativa.

Più precisamente gli Ermellini hanno affermato che «l'attività di formazione del lavoratore prevista dall'art. 38 Dlgs n. 626/1994 - ed oggi dall'art. 73 Dlgs 81/2008 -, ove si tratti dell'utilizzo di macchine complesse, talune operazioni sulle quali siano riservate a personale con elevata specializzazione, non si esaurisce nell'informazione e nell'addestramento in merito ai rischi derivanti dall'utilizzo strettamente inteso ma deve tener conto anche dei rischi derivanti dalla diretta esecuzione delle operazioni ad altri riservate».

Nel caso di specie l’infortunio si era verificato nel tentativo di riparare un ingranaggio del macchinario, cui era addetto l’operaio vittima dell’infortunio stesso.

A parere del Supremo Consesso la suddetta attività, sebbene esulante dagli obblighi di cui era investito l’operaio, non può considerarsi fatto un “comportamento abnorme”, idoneo ad interrompere il nesso di causalità derivante dall’inveramento del rischio specifico che le norme infortunistiche mirano a prevenire. Rischio specifico che, come sottolineano i giudici della Suprema Corte, ricomprende tutti i rischi derivanti dall’utilizzo del macchinario complesso, anche quelli derivanti dal travalicamento dei limiti dell’attività che si è autorizzati a svolgere e che devono essere esattamente individuati e resi noti da parte del datore di lavoro. VA




Inserito in data 24/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 ottobre 2014, n. 5267

Acconti e potere di autotutela per illegittimo esborso di denaro pubblico

I giudici di Palazzo Spada hanno dichiarato illegittimo il ricorso presentato avverso la sentenza di primo grado che aveva condannato l’appellante alla restituzione degli acconti ricevuti a saldo della revisione dei pressi di un appalto avente ad oggetto costruzioni scolastiche.

A sostegno della propria decisione il Consiglio di Stato ha rilevato la natura provvisoria degli acconti rilasciati per mezzo di delibere successivamente annullate (rimanendo, dunque, possibile un successivo controllo sugli stessi).

Il Supremo Consesso osserva, inoltre, che l’art. 4 della l. 1481/63 prevede il divieto di revisione dei prezzi per i contratti di fornitura od opera in materia di edilizia scolastica prefabbricata (oggetto della controversia sottoposta alla sua attenzione), cui le parti non sono libere di derogare.

Gli acconti versati, dunque, sarebbero frutto di un accordo nullo. Per questi motivi la Pubblica Amministrazione ben poteva esperire il proprio potere di autotutela essendo evidente l’esistenza e l’avvenuta valutazione del pubblico interesse sussistente nel caso in esame, individuato nell’esigenza di evitare indebiti esborsi di denaro pubblico. Inoltre, <<l'esercizio del potere di autotutela su provvedimenti che comportino un illegittimo esborso di denaro pubblico non richiede una particolare motivazione, né quindi una più specifica valutazione sulla sussistenza e prevalenza dell'interesse pubblico, essendo questo rinvenibile in re ipsa nel fatto dell'indebita erogazione di benefici a danno della finanze collettive, senza che possa assumere rilievo in senso contrario il decorso del tempo (C.d.S. 5772/12; 2539/13). […] tale motivazione permette già di escludere che la misura in contestazione fosse dettata da un mero, generico interesse astratto al ripristino della legalità. VA

 

 



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Inserito in data 23/10/2014
TAR FRIULI VENEZIA GIULIA - TRIESTE, SEZ. I, ORDINANZA 15 ottobre 2014, n. 495

Il Tar solleva la q.l.c. dell’elezione indiretta degli organi della provincia

Con l’ordinanza in epigrafe, il Collegio triestino solleva la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1,2,3,4,5,12,16,33 e 35 della L.R. n. 2 del 2014 ed in genere delle norme che prevedono l’elezione indiretta degli organi della Provincia.

La Regione Friuli Venezia Giulia, infatti, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali e relative circoscrizioni in base allo Statuto di autonomia, “ha disposto, con il citato art. 1 della L.R. n. 2 febbraio 2014 n. 2, pubblicata sul BUR il 19.2.2014, un nuovo sistema di elezione degli organi della Provincia, che si sostanzia nell’introduzione di un meccanismo elettivo di secondo grado”.

In particolare, tale legge, prevedendo all’art. 5 che “Il Consiglio provinciale è eletto dai Sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni della Provincia dei comuni della provincia” i quali “si esprimono con voto libero e segreto su liste concorrenti in un unico collegio, e detto Consiglio, così eletto elegge a sua volta il Presidente della Provincia e la Giunta provinciale”, viola il principio principio di autonomia degli enti locali territoriali, di cui agli artt. 5, 114 e 118 Cost., vincolante anche per le Regioni a statuto speciale.

Verrebbe, altresì, “meno la pari ordinazione degli enti locali territoriali, affermata dal combinato disposto degli artt. 5 e 114 Cost. che presuppone la Provincia come organo a rappresentanza diretta della collettività di riferimento, con violazione del principio democratico e rappresentativo di cui all’art. 1 Cost.”.

Principio, peraltro, “eluso anche dall’art. 3 della citata legge regionale, che istituisce un nuovo organo, denominato Assemblea dei Sindaci, costituito dai sindaci dei comuni della provincia, che non garantisce rappresentatività ed è vincolato a interessi comunali”. 

Se così è, osservano i Giudici, “l’elezione indiretta degli organi provinciali e l’istituzione dell’Assemblea dei Sindaci, vincolata ad interessi comunali, non può non violare il principio per cui le Province sono enti autonomi, rappresentativi della propria popolazione e non espressione di un‘associazione di Comuni”.

D’altra parte, non pare compatibile con l’art. 5 Cost. “una legge regionale che demanda l’elezione della Provincia, elemento costitutivo dello Stato, ad una elezione di secondo grado, prescindendo dall’espressione della volontà popolare e sostituendola con quella di pochi “grandi elettori” espressione, per giunta, di interessi diversi e non omogenei ad essa, come sono quelli dei Sindaci e consiglieri dei Comuni”.

Detta conclusione è rafforzata dal fatto che la giurisprudenza della Consulta, fin da tempi risalenti (cfr. Corte costit. n. 107/76; 876 del 26.7.1988; 26.7.1988) “occupandosi “a contrariis” del problema qui in esame, cioè della legittimità di leggi regionali di Regioni a statuto speciale che prevedono la costituzione di organismi dipendenti dagli enti locali, eletti a suffragio universale diretto, ne ha negato la costituzionalità, rilevando che tale modalità di elezione è propria degli organismi previsti dall’art. 114 Cost., cioè dalle Regioni, Province e Comuni, essendo propria degli enti autonomi, cioè di quelli la cui autonomia è costituzionalmente garantita.

Uno di tali enti, in cui è obbligatorio il suffragio universale diretto, è la Provincia, onde sembra che non si possa decampare da detta regola costituzionale, prevedendone l’elezione in secondo grado, dato che, come notato, essi fanno parte della Repubblica democratica, come prescrive il combinato disposto degli artt. 1 e 114”.

Deve, dunque, ritenersi “nei limiti di una valutazione di non manifesta infondatezza, illogica e irragionevole la legislazione regionale che fa sì che il Presidente della Provincia e il Consiglio provinciale non rispondono nemmeno all’organo di primo grado, che li ha eletti”.

Ne discende che nessun soggetto “potrà far valere, né direttamente né indirettamente, un giudizio di responsabilità politica sulle modalità con cui gli organi citati esercitano le funzioni di rispettiva competenza”.

Inoltre, “il declassamento, attraverso le censurate norme regionali, delle Province ad enti di secondo grado, avrebbe pertanto comportato, con tesi che non appare manifestamente infondata, la modifica dello Statuto regionale, attraverso l’apposito procedimento di revisione costituzionale ex art. 138 Cost, al fine di ridisegnare l’assetto istituzionale di detto ente, del tutto diverso a quello previsto dallo Statuto”.

Alla luce di quanto suddetto, essendo determinate da altri enti, le funzioni proprie della Provincia verrebbero meno, e, di conseguenza, sarebbe inutile e superata la funzione dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza, sanciti dall’art. 118 Cost. in quanto le necessità della collettività provinciale non potrebbero trovare un riferimento né bisogni da ritenere propri, non potendosi identificare in un organo rappresentativo che se ne occupi”.

Del pari, “sfuggirebbe, con l’introduzione delle elezioni di secondo grado, il controllo democratico diretto delle popolazioni interessate sul governo delle funzioni provinciali e sull’utilizzo dei relativi tributi, non avendo i nuovi organi provinciali autonomia di spesa, in violazione dell’art. 119 Cost. perché detti tributi propri sarebbero stabiliti ed applicati da organi eletti da rappresentanti di altri enti”.

Del resto, l’intervento legislativo de qua non sarebbe manifestamente infondato nemmeno con riferimento all’irrazionale disparità di trattamento nel territorio regionale nell’elezione solo dei rappresentanti provinciali (ex art. 3 Cost.), stante che il taglio dei c.d. costi della politica “si sarebbe potuto raggiungere rimodulando la rappresentanza e la stessa forma di governo provinciale, senza negare alla collettività provinciale il diritto di concorrere direttamente all’elezione degli organi rappresentativi”.

In conclusione, “non è dato pertanto comprendere, se l’obiettivo è l’abolizione delle Province, perché per ora si continui a farle sopravvivere, ma, contemporaneamente, e a Costituzione invariata, le si faccia eleggere gli organi per via indiretta, in spregio ai principi di autonomia (art. 5 Cost.) sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (artt. 114, 118 e 119 Cost.)”.EMF



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Inserito in data 23/10/2014
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 17 ottobre 2014, n. 1080

Sulla violazione del principio di segretezza dell’offerta economica

Per costante orientamento giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Campania Napoli, sez. VIII – 18/6/2014 n. 3413 e la giurisprudenza ivi richiamata), oltre che ai sensi dell’art. 120 comma 2 del D.P.R. 207/2010, “nelle procedure di aggiudicazione col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, le regole di segretezza dell'offerta economica e di separazione del relativo esame rispetto a quello dell'offerta tecnica impongono tassativamente che, prima della conclusione di quest'ultimo, sia interdetta alla Commissione giudicatrice l'anticipata conoscenza degli elementi dell'offerta economica, affinché, in omaggio ai canoni di imparzialità e trasparenza, la preventiva valutazione dell'offerta tecnica non ne resti (effettivamente o anche solo potenzialmente) influenzata, così da inficiare l'obiettività nell'assegnazione dei punteggi e la regolarità della selezione”.

Si deve, infatti, rammentare che, “nelle gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, la ratio del divieto di conoscenza anticipata delle offerte economiche risiede nella necessità di evitare che la Commissione possa "premiare" già in sede di offerta tecnica il concorrente che ha formulato una più conveniente offerta economica o comunque di "aggiustare" i punteggi in modo che il vincitore sia già individuato nella fase di valutazione dei progetti tecnici (T.A.R. Marche – 23/5/2013 n. 380). Per questo, tutto ciò che è diverso dall'offerta economica deve esser esaminato in una fase anteriore (e distinta) rispetto a quella concernente l'apertura della relativa busta” (Consiglio di Stato, sez. IV – 27/1/2011 n. 606).

In concreto, dunque, “la conoscenza preventiva dell'offerta economica consente di modulare il giudizio sull'offerta tecnica in modo non conforme alla parità di trattamento dei concorrenti, e tale possibilità, ancorché remota ed eventuale, inficia la regolarità della procedura: ai fini dell'annullamento della gara, non è necessario che effettivamente la Commissione abbia tenuto conto della conoscenza anticipata dell’offerta economica – circostanza, questa, come il suo contrario, praticamente non dimostrabile – ma è sufficiente che le concrete modalità di svolgimento della gara non abbiano assicurato la garanzia di piena imparzialità dei giudizi e quindi il rischio di inquinamento dei medesimi” (T.A.R. Veneto, sez. I – 28/5/2014 n. 722, che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 25/5/2009 n. 3217). EMF



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Inserito in data 22/10/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 15 ottobre 2014, n. 28

Nel processo amministrativo trova ingresso la cd. sospensione impropria

Con la pronuncia in epigrafe l’Adunanza Plenaria ha confermato l’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui nel processo amministrativo “trova ingresso la c.d. sospensione impropria del giudizio principale per la pendenza della questione di legittimità costituzionale di una norma, applicabile in tale procedimento, ma sollevata in una diversa causa”.

Ad avviso del Supremo Consesso, “non si rinviene, infatti, nel sistema della giustizia amministrativa (arg. ex artt. 79 e 80, c.p.a.) una norma che vieti una tale ipotesi di sospensione […], né si profila una lesione del contraddittorio allorquando (come nel caso di specie), le parti, rese edotte della pendenza della questione di legittimità costituzionale, non facciano richiesta di poter interloquire davanti al giudice delle leggi sollecitando una formale rimessione della questione; tale esegesi, inoltre, è conforme sia al principio di economia dei mezzi processuali che a quello di ragionevole durata del processo (che assumono un particolare rilievo nel processo amministrativo in cui vengono in gioco interessi pubblici), in quanto, da un lato, si evitano agli uffici, alle parti ed alla medesima Corte costituzionale dispendiosi adempimenti correlati alla rimessione della questione di costituzionalità, dall’altro, si previene il rischio di prolungare la durata del giudizio di costituzionalità (e di riflesso di quelli a quo)”.

Da ultimo, l’Adunanza Plenaria ha precisato che la prosecuzione del giudizio sospeso soggiacerà al termine di 90 giorni, previsto in modo innovativo e generalizzato dall’art. 80, c. 1, c.p.a., e che tale termine decorrerà dal giorno di pubblicazione nella Gazzetta ufficiale del provvedimento della Corte costituzionale. TM



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Inserito in data 22/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 ottobre 2014, n. 5170

Precisazioni sull’ordine di esame dei ricorsi principale e incidentale

Nella pronuncia in commento, i Giudici della Sesta sezione del Consiglio di Stato ricostruiscono i rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale alla luce della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 9 del 2014.

 “La citata sentenza dell’Adunanza plenaria, […] richiamato che nel settore dei contratti pubblici l’essenziale condizione della legittimazione ad agire si dimostra, normalmente, mediante la legittima partecipazione alla gara, ha poi affermato in sintesi, sull’ordine di esame dei ricorsi principale e incidentale, che: a) il previo esame del ricorso incidentale con finalità escludente costituisce la regola generale; b) se, perciò, il ricorrente incidentale prova che quello principale avrebbe dovuto essere escluso dalla procedura, per difetto dei requisiti di partecipazione, la legittimazione ad agire del ricorrente principale viene meno; c) in eccezione alla detta regola l’esame dei motivi escludenti, proposti l’uno avverso l’altro da entrambi i ricorrenti, deve essere contestuale se i motivi sono riferiti ad un vizio identico in quanto relativo alla medesima fase del procedimento di gara”.

In questa eccezione rientra il caso di specie poiché entrambi i ricorrenti hanno dedotto vizi afferenti alle rispettive offerte con finalità escludente che, perciò, devono essere tutti esaminati”. TM



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Inserito in data 21/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 ottobre 2014, n. 235

Non incostituzionalità delle tabelle sul risarcimento del danno biologico

Con la pronuncia in esame sono state ritenute infondate alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 139 d.lgs. 209/05 (c.d. codice delle assicurazioni private). Esso prevede, tra l’altro, il sistema delle tabelle ministeriali per il risarcimento del danno biologico determinato dalle lesioni di lieve entità derivanti da sinistri stradali.

In particolare, non vi è violazione dell’art. 3 Cost, in quanto la prospettazione di una disparità di trattamento è smentita dal fatto che la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è semmai più incisiva e sicura rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi. Solo i primi, infatti, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante. Inoltre, il giudice può aumentare fino ad un quinto l’importo liquidabile con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato; ciò consente di tener conto della diversa incidenza che le varie lesioni possono avere nei confronti dei singoli soggetti.

Infine, non può ritenersi che la norma sia incostituzionale per la non prevista liquidabilità del danno morale. Come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione, infatti, “il danno morale rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”. Pertanto, in presenza dei concreti presupposti, il giudice può avvalersi della possibilità di incremento dell’ammontare del danno biologico. CDC



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Inserito in data 21/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 21426

L’attività di polizia può essere considerata attività pericolosa ex art. 2050 cc

Agli effetti dell’art. 2050 cc, è considerata pericolosa l’attività così qualificata dalla legge, nonché quella che, per sua stessa natura o per le caratteristiche dei mezzi adoperati o per la sua spiccata potenzialità offensiva, comporti la rilevante possibilità di un danno.

Deve escludersi che l’attività di polizia possa essere considerata di per sé pericolosa. Essa, infatti, costituisce compito indefettibile dello Stato, attività assolutamente doverosa, priva di intrinseca attitudine lesiva, in quanto svolta in difesa di beni e interessi dell’intera collettività.

Tuttavia, essa può in determinate ipotesi assumere il connotato di attività pericolosa, per la natura dei mezzi adoperati, ed in particolare nei casi di uso delle armi e di altri mezzi di coazione fisica con pari potenzialità offensiva. Ciò accade quando non opera la scriminante dell’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, per carenza dei presupposti oggettivi o per eccesso colposo (art. 55 cp); in particolare, questo si verifica nel caso di uso imperito o imprudente dell’arma o del mezzo di coazione, ma anche nell’ipotesi in cui le armi o i mezzi di esercizio della forza si palesino oggettivamente anormali od eccedenti, e dunque sproporzionati rispetto alla situazione contingente, alla stregua di un giudizio di fatto. Tale giudizio non implica un sindacato sulle scelte discrezionali della PA, ma la ponderazione dei limiti esterni ad essa, i quali risiedono non solo nel rispetto delle regole, anche tecniche, dettate da norme e regolamenti, ma pure in quelle di comune prudenza.

Spetta al danneggiato fornire la dimostrazione delle condizioni atte a connotare il fatto come illecito; incombe invece alla PA la prova di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno. CDC




Inserito in data 20/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 ottobre 2014, n. 5155

Sulla obbligatorietà dell’indennità del c.d. rischio radiologico

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, tratta dei casi in cui è obbligatorio corrispondere, nei confronti dei medici di un presidio ospedaliero, una indennità di c.d. rischio radiologico, di cui all’art. 1 della Legge 27 ottobre 1988 n. 460.

Nel caso de quo, taluni dipendenti medici di un presidio ospedaliero napoletano, nel febbraio del 2000 diffidarono a corrispondere ad una coppia di colleghi l’indennità di rischio radiologico, con interessi e rivalutazione, per il periodo dal 1° gennaio 1988 in poi.

Considerata l’inerzia della P.A. datrice di lavoro, costoro proposero un’azione a seguito del silenzio innanzi al TAR Napoli, deducendo in modo articolato la violazione dell’art. 36 Cost., nonché dell’art. 2041 c.c.

L’adito TAR, ne respinse la domanda azionata, non avendo i ricorrenti raggiunto, a fronte della valutazione all’uopo resa dalla Commissione ex art. 58, c. 4 del DPR 20 maggio 1987 n. 270, un livello di radiazioni ionizzanti continua e permanente.

Successivamente, i due medici appellano deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza, laddove “non considerò che detta Commissione svolse un’indagine solo a campione sui dati, fornitile dall’esperto, di natura esposimetrica e dosimetrica, anziché sulla scorta dei criteri indicati all’art. 54, c. 5 del DPR 28 novembre 1990 n. 384”.

Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “in base all’art. 54 del DPR 384/1990, sussiste un diverso trattamento ai fini della percezione della predetta indennità, a seconda che si tratti del personale (medico e tecnico) di radiologia, rispetto al personale di altre qualifiche. Nell’un caso, è necessaria e sufficiente la qualifica rivestita, alla quale l’art. 1, c. 1 della l. 460/1988 ricollega una presunzione assoluta d’esposizione al relativo rischio. Nell’altro, occorre invece che le situazioni lavorative concrete comportino un'esposizione a siffatto rischio in misura continua e permanente, per modalità, tempi, orari ed intensità dell'esposizione (cfr., così, Cons. St., III, 14 gennaio 2013 n. 141; id., 23 maggio 2013 n. 2811).

Si aggiunge, altresì, che “per individuare correttamente il personale non di radiologia avente titolo all’indennità de qua, occorre procedere con le modalità previste dall'art. 58, c. 4 del DPR 270/1987 e secondo i criteri di cui al citato art. 54, c. 5.”

A ciò si aggiunga che anche dopo l'emanazione dell'art. 5 della l. 23 dicembre 1994 n. 724 e del Dlg 17 marzo 1995 n. 230, i lavoratori soggetti a rischio radiologico sono individuati non in relazione alla qualifica rivestita, ma all'effettiva sottoposizione, per l'attività esercitata, a una determinata esposizione alle radiazioni ionizzanti, pur se resta ferma la testé evidenziata differenza fra i medici e i tecnici di radiologia e il restante personale sanitario, per il quale permane l’accertamento sulle singole situazioni concrete (modalità e orario di lavoro, intensità dell'esposizione.

Dunque, il Consiglio di Stato, rigetta l’assunto degli appellanti in ordine alla pretesa differenza di regime tra il Dlg 230/1995 e l’art. 58, c. 4 del DPR 270/1987, poiché “entrambe le fonti, pur con differenti modi, hanno l’obiettivo della reale tutela dei soli lavoratori effettivamente esposti al rischio da radiazioni ionizzanti, la quantità di quelle assorbite servendo a fornire l’esatta dimensione del rischio stesso. In concreto, quindi, la misurazione dell’esposizione e del dosaggio delle radiazione indica il grado di potenzialità che l'attività rischiosa porti al danno vero e proprio o, comunque, ad un evento nocivo ed indesiderabile per i lavoratori”. La Commissione in questione, si badi, ha possibilità di “esprimere il proprio oggettivo convincimento, sulla scorta dei dati lavorativi dei dipendenti per ciascun anno, pure grazie alla predetta rilevazione a campione effettuata da soggetto esperto in valutazioni dosimetriche.”

Alla luce di tali considerazioni, l’appello dev’essere respinto; invero, rappresenta, come dai Giudici affermato, “mera petizione di principio” asserire che il rischio de quo “sia altra cosa di tali valutazioni, giacché queste ultime escludono ogni (compiacente, o no, poco importa) empirismo nell’accertare il rischio e per prevenire il raggiungimento di quel valore-soglia, oltre il quale si ha l’indennità.” GMC



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Inserito in data 20/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 ottobre 2014, n. 5142

Sulla irricevibilità del ricorso tardivo

Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, una cittadina libanese, residente in Italia sin dal 1986 e medico di medicina generale, dichiara d’aver proposto istanza al Ministero dell’interno, in data 16 novembre 2004, per ottenere la concessione della cittadinanza ai dell’art. 9, c. 1, lett. f) della l. 5 febbraio 1992 n. 21. Il Ministero, tuttavia, respinse la richiesta della dottoressa perché «…dall’attività informativa esperita sono emersi elementi ostativi di pericolo per la sicurezza della Repubblica di cui all’articolo 6, comma 1, lettera c) della legge 91/1992…».

Adito il TAR Piemonte dalla stessa, ne è stato accolto il ricorso per insufficienza di tale motivazione e per l’erroneo riferimento alle cause di cui sopra. Successivamente il Ministero degli Interni appella, con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità della sentenza impugnata perché: “A) – la P.A. non può mettere a disposizione documenti riservati sulla sicurezza nazionale; B) – il riferimento, operato dall’impugnato provvedimento al ripetuto art. 6, si deve intendere al principio colà sotteso e sul quale si basò la valutazione discrezionale della vicenda inerente all’appellata; C) – il TAR non ha inteso seguire la procedura ex DPCM 11 aprile 2003 per le informazioni riservate UE. Resiste in giudizio la dottoressa, la quale eccepisce anzitutto la tardività dell’appello e, nel merito, l’infondatezza di questo”.

Il Consiglio di Stato afferma che il ricorso è irricevibile, poiché tardivo, spiegandone le motivazioni: invero, la sentenza appellata è stata depositata il 21 febbraio 2009, onde il relativo termine per la sua impugnazione resta completamente regolato dal sistema previgente al c.p.a. Sul punto, i Giudici di Palazzo Spada affermano che “è evidente che la P.A. appellante ha voluto adoperare il termine c.d. “lungo”, fermo restando che al riguardo, prima dell'entrata in vigore del codice stesso, le norme del c.p.c. s’applicavano, se compatibili e salvo che non fosse diversamente previsto, al giudizio amministrativo, tra cui l'art. 327 c.p.c. per i giudizi d’appello”, aggiungendo altresì che “il termine “lungo”, che l'art. 46, c. 17 della l. 18 giugno 2009 n. 69 ha ridotto da un anno a sei mesi, nel caso in esame resta sempre annuale. Chiarendo, dunque, che nell’appello in esame s’applica, tuttora, il vecchio termine “lungo” annuale, giova rammentare che esso va computato, quando il suo decorso sia iniziato prima della sospensione per il periodo feriale ex art. 1, I c. della l. 7 ottobre 1969 n. 742, prolungandolo di 46 giorni (da calcolarsi ex numeratione dierum) dal giorno di scadenza del termine stesso (da calcolarsi ex nominatione dierum). Dunque, il deposito della sentenza impugnata, come s’è detto, è avvenuta il 21 febbraio 2009, per cui il termine “lungo “ annuale scade non il 21 febbraio 2010, ma il 46° giorno successivo, cioè l’8 aprile 2010. Sebbene il ricorso in epigrafe risulta notificato il giorno prima, ossia il 7 aprile, per cui sarebbe tempestivo, la P.A. appellante non s’è avveduta che la sentenza le è stata notificata, pertanto, la P.A. ha, fin da quella data ,perso la possibilità di notificare il proprio ricorso entro il termine lungo, soggiacendo a quello, c.d. breve, di cui all’(allora applicabile) art. 28, II c. della l. 6 dicembre 1971 n. 1034, ossia sessanta giorni.

Da quanto emerso, la notificazione della sentenza da parte dell’appellata, vittoriosa in primo grado, è regolare e legittima. GMC



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Inserito in data 19/10/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE - SENTENZA 9 ottobre 2014, Causa C- 268/13

Cure all’estero: è un diritto di tutti

La Corte del Lussemburgo ribadisce l'importanza di garantire le cure mediche anche all'estero e la necessità, imprescindibile e prioritaria, che un simile diritto sia riconosciuto a tutti i cittadini europei.

I Giudici, intervenendo riguardo alla vicenda di una cittadina romena affetta da una grave patologia cardiovascolare e ricoveratasi in Germania, riconoscono la possibilità che la Nazione di appartenenza provveda a rimborsare le ingenti spese mediche sostenute all'estero dalla paziente.

Si è trattata, del resto, di una grave inadempienza dello Stato romeno, incapace di fronteggiare le gravi condizioni di salute della ricorrente in tempi ragionevoli e con farmaci di prima necessità, idonei ad offrirle una soluzione adeguata e tempestiva.

Nel chiarire la vicenda, i Giudici specificano che l'impossibilità, quale quella quì occorsa alla Romania, debba essere valutata, da un lato, rispetto al complesso degli istituti ospedalieri dello Stato membro idonei a prestare le cure di cui trattasi e, dall’altro, rispetto al lasso di tempo entro il quale queste ultime debbano essere erogate ed ottenute.

In guisa di ciò, la Corte, ricordando l'esperibilità della richiesta di rimborso, enuncia il seguente principio di diritto: "Secondo il diritto dell'Unione, un lavoratore subordinato o autonomo che soddisfa le condizioni richieste dalla legislazione dello Stato competente per aver diritto alle prestazioni, puo' essere autorizzato a recarsi in un altro Stato e "avere diritto a ricevere prestazioni in natura erogate, per conto dell’istituzione competente, dall’istituzione del luogo di dimora secondo le disposizioni della legislazione che essa applica, come se fosse ad essa iscritto" CC



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Inserito in data 17/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 ottobre 2014, n. 5126

Sui poteri del Giudice penale e dell'Autorità di pubblica sicurezza

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in epigrafe, si pronuncia in merito alla detenzione di armi e munizioni, nonché con riguardo ai poteri spettanti al Giudice penale ed alle Autorità di pubblica sicurezza volti al divieto della detenzione di cui sopra.

Riassumendo il caso in questione, nelle ore serali, l’interessato aveva notato che nel piazzale recintato di un fabbricato di sua proprietà, prossimo alla sua abitazione, erano entrate due persone non identificate. Presumendo che si trattasse di malintenzionati in procinto di commettere reati in suo danno, questi si era avvicinato ed esploso, contro gli intrusi, due colpi di pistola, usando un’arma legittimamente detenuta. Contemporaneamente a ciò, aveva chiamato i Carabinieri; all’arrivo di questi ultimi, riferiva che gli intrusi, dopo i colpi di pistola, si erano allontanati. Richiesto, dai Carabinieri, se avesse sparato in aria o ad altezza d’uomo, aveva risposto di avere sparato ad altezza d’uomo, ciò comportando il sequestro delle armi e le munizioni in suo possesso. L'interessato, tuttavia, ha fatto rapporto all’autorità giudiziaria penale, la quale aveva, successivamente, ordinato il dissequestro, non ravvisando, nel comportamento dell’interessato, alcun illecito.

L’appellato è stato, tuttavia, destinatario del provvedimento del Prefetto di Pavia con il quale, in applicazione dell’art. 39, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, gli è stato fatto divieto di detenere armi e munizioni. Egli, dopo aver chiesto, senza successo, al Prefetto di revocare l’atto in via di autotutela, ha impugnato il provvedimento davanti al T.A.R. Lombardia, sede di Milano. Quest'ultimo, ha adottato una ordinanza cautelare di sospensione “ai fini del riesame”. Successivamente, preso atto della conferma del provvedimento, da parte del Prefetto, ha deciso la causa nel merito, accogliendo il ricorso.

La sentenza del T.A.R., dopo aver dato atto dell’ampia discrezionalità concessa dalla legge per l’emanazione di provvedimenti come quello in esame, giunge ad accogliere il ricorso dell’interessato sulla base di un unico argomento, cioè che «la tempestiva rivalutazione del fatto operata dall’autorità giudiziaria, con conseguente provvedimento di dissequestro delle armi, esclude in radice, in assenza di ulteriori circostanziate valutazioni dell’amministrazione, che i fatti istruiti e citati nel provvedimento impugnato fossero suscettibili di incrinare l’immagine di affidabilità di colui che è stato autorizzato a detenere e portare armi; ciò considerando, altresì, l’incensuratezza del ricorrente e l’assenza di episodi pregressi di violazione delle normative relative a denuncia, custodia e utilizzo delle armi da fuoco (ciò sin dall’aprile 1982)».

I Giudici di Palazzo Spada, affermano che il fatto che l’autorità giudiziaria penale non abbia ravvisato, nel comportamento del ricorrente, gli estremi di un illecito penale, sia condizione sufficiente, per il T.A.R., per giudicare privo di valide ragioni il provvedimento del Prefetto, aggiungendo, tuttavia, che si debba ritenere, al contrario, che i presupposti e le finalità dei provvedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria penale e, rispettivamente, dell’autorità di pubblica sicurezza, siano ben distinti tra loro. Alla luce di ciò, è ben possibile che, le due autorità, giungano, nell’esercizio delle rispettive competenze, a decisioni apparentemente antitetiche. Secondo quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, “l’autorità giudiziaria penale deve punire i reati eventualmente commessi, e non può adottare alcun provvedimento repressivo se non in quanto ritenga che vi siano stati fatti di rilevanza penale. Invece l’autorità di pubblica sicurezza, in materia di armi, ha il compito di prevenire non solo la commissione di reati futuri (quindi, per definizione, allo stato non ancora consumati e neppure tentati) ma altresì di prevenire i sinistri, non necessariamente intenzionali, che si possono verificare per effetto di un uso sconsiderato di armi pur legittimamente detenute”, dunque, “se il Prefetto, nelle sue funzioni di prevenzione e nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto che la propensione – apertamente dichiarata e quasi vantata – del ricorrente ad un uso delle armi non semplicemente intimidatorio (“un colpo sparato in aria è un colpo sprecato”) renda costui poco affidabile dal punto di vista della pubblica sicurezza, non si può dire che tale giudizio sia viziato da manifesto travisamento dei fatti ovvero da grave ed evidente illogicità o violazione del principio dell’adeguatezza”.

Alla luce di quanto argomentato, l’appello del Ministero va accolto e, annullata la sentenza del T.A.R., dev'essere respinto il ricorso proposto in primo grado. GMC



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Inserito in data 17/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 ottobre 2014, n. 5125

Sulla irregolarità amministrativa sanabile

Con la sentenza in oggetto, i Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito ad un caso di “irregolarità amministrativa sanabile”, alla luce dell'art.  5 del t.u. n. 286/1998.

Nel caso di specie, l’appellato, cittadino cinese, ha fatto ingresso, in Italia, nel 2012, con regolare visto, ottenuto sulla base della formale richiesta di un cittadino italiano di assumerlo quale lavoratore dipendente. È stata, quindi, avviata la pratica per la il perfezionamento del contratto di lavoro ed il rilascio del permesso di soggiorno da parte del Questore di Lecce. Tuttavia, il cittadino italiano, datore di lavoro, ha interrotto il rapporto di lavoro e la circostanza de qua è stata fatta verbalmente presente dallo straniero alla Questura, insistendo  per il rilascio del permesso di soggiorno. Nonostante tale richiesta, è tuttavia intervenuto un decreto di “rigetto” dell’istanza di permesso di soggiorno, motivato unicamente con la considerazione che “nelle more del procedimento lo straniero aveva lasciato la residenza originariamente indicata senza comunicare un nuovo domicilio sicché egli risultava, di fatto, irreperibile”. Lo straniero interessato ha tuttavia fatto ricorso al T.A.R. Puglia, sezione di Lecce, deducendo che “mentre il procedimento era ancora pendente egli si era ripetutamente presentato presso gli uffici della Questura per sollecitare l’evasione della sua pratica [...]”.

Alla luce di quanto chiesto, il T.A.R. Lecce ha accolto il ricorso osservando, in sintesi, “che anche volendo ammettere che per un certo periodo si fosse verificata una oggettiva impossibilità di conoscere il nuovo recapito dell’interessato, questa situazione – dal momento che poi l’interessato si era presentato, se non altro, per ricevere personalmente la notifica del decreto di rigetto - rientrava nella previsione della “irregolarità amministrativa sanabile” che ai sensi dell’art. 5 del t.u. n. 286/1998 consente il rilascio del permesso di soggiorno”.  Il Collegio ritiene che la sentenza debba essere confermata, sottolineando altresì che “da parte dell’Amministrazione non è stato mai enunciato – neppure nelle difese giudiziali - altro motivo del diniego del permesso di soggiorno, che l’asserita irreperibilità dello straniero nel corso del relativo procedimento; irreperibilità peraltro non dichiarata con atti formali e almeno in via di fatto contrastante con la circostanza che l’interessato si è presentato personalmente negli uffici della Questura dove gli è stato notificato il decreto di rigetto.”

Alla luce di quanto esposto, il permesso deve essere dunque rilasciato in considerazione dei fatti sopravvenuti e quando si tratti di irregolarità amministrative sanabili. GMC



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Inserito in data 16/10/2014
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. II, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 1178

Regola dell’anonimato e segni di riconoscimento

Con la sentenza in epigrafe, i Giudici baresi, nel confermare quanto già statuito in sede di provvedimento cautelare, sostengono che “…non possa essere interpretato quale segno di riconoscimento la cd. scaletta appuntata dal candidato sul foglio recante la traccia della prova giacché risponde all’evidente esigenza di organizzare la stesura del compito scritto..”; atteso che “..la regola dell’anonimato non può essere interpretata nel senso che ogni astratta possibilità di diversità tra gli elaborati vada qualificata come segno di riconoscimento ma solo quando il segno oggetto di esame assuma un carattere anomalo rispetto alle ordinarie manifestazioni del pensiero”.

A tal proposito, infatti, già con la sentenza n. 2687 del 26 maggio 2014, il Consiglio di Stato ha espresso il principio secondo cui i “…contrassegni che si rinvengono nella minuta della prova… (elenco degli argomenti da sviluppare ed orario di inizio e termine delle prove) - relegati al segreto della busta - non assumono un carattere oggettivamente ed incontestabilmente anomalo, tale che ad essi possa ricondursi l'astratta idoneità a fungere da elemento identificativo delle generalità del concorrente”. EMF



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Inserito in data 16/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 21417

Sul collegamento negoziale tra un contratto nullo e gli altri contratti collegati non nulli

In tema di collegamento tra contratti, costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui, il collegamento negoziale - cui le parti, nell'esplicazione della loro autonomia possono dar vita con manifestazioni di volontà espresse in uno stesso contesto - non da luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, realizzato non per mezzo di un singolo contratto ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è finalizzato ad un unico regolamento dei reciproci interessi. Pertanto, anche quando il collegamento determini un vincolo di reciproca dipendenza tra i contratti, ciascuno di essi si caratterizza in funzione di una propria causa e conserva una distinta individualità giuridica (ex multis, Cass. 10 luglio 2008, n. 18884). La conseguenza che se ne trae è che, in caso di collegamento funzionale tra più contratti, gli stessi restano soggetti alla disciplina propria del rispettivo schema negoziale, mentre la loro interdipendenza produce una regolamentazione unitaria delle vicende relative alla permanenza del vincolo contrattuale, per cui essi "simul stabunt, simul cadent" (Cass. 22 marzo 2013, n. 7255). Ciò comporta che se un contratto è nullo, la nullità si riflette sulla permanenza del vincolo negoziale relativamente agli altri contratti.

Ma, non è vero l'inverso. Se un contratto è nullo il collegamento negoziale con altri contratti non nulli non comporta la validità dell'intero complesso dei contratti collegati.

Infatti, il riflesso della nullità di un contratto sulla permanenza del vincolo negoziale relativamente agli altri contratti collegati, ma con individualità autonoma, costituendo l'effetto dell'essenza del collegamento negoziale dato dalla naturale interdipendenza dei contratti collegati, non può essere impedito dalla circostanza che per ragioni estranee al fenomeno contrattuale alcuni di questi contratti siano non nulli.

Se si ammettesse che il collegamento negoziale tra un contratto nullo (nella specie promessa di vendita) e gli altri contratti collegati non nulli (nella specie affitto di ramo di azienda e vendita dei beni aziendali) comportasse la validità dell'intero complesso dei contratti collegati, il collegamento tra contratti finirebbe con l'operare come mezzo per eludere la nullità del singolo contratto. EMF




Inserito in data 15/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 14 ottobre 2014, n. 42858

Sentenza d’incostituzionalità e tangibilità in melius del giudicato penale

Le Sezioni Unite penali hanno statuito il seguente principio di diritto: “Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione”.

Invece, secondo l’orientamento più risalente, l’art. 30, ult. Comma, L. n. 87/53, consente di superare il giudicato solo quando la dichiarazione d’incostituzionalità colpisce la norma incriminatrice (che prevede il precetto e la sanzione) e non quando ha ad oggetto la norma che prevede un’aggravante o vieta la prevalenza di un’attenuante su un’aggravante.

Tale posizione giurisprudenziale è “fondata sull’erronea parificazione tra il fenomeno della successione di leggi nel tempo (con introduzione di norme più favorevoli: art. 2m terzo comma, cod. pen., divenuto quarto comma dopo l’inserimento operato dall’art. 14 legge 24 febbraio 2006, n. 85) e quello derivante dalla declaratoria di illegittimità costituzionale”.

Infatti, come è stato chiarito dalla Corte costituzionale sin dalla sua prima sentenza del 1956 (con giurisprudenza costantemente ripetuta), gli istituti giuridici dell’abrogazione e dell’illegittimità costituzionale delle leggi non sono identici fra loro, si muovono su piani diversi, con competenze diverse e con effetti diversi”.

Segnatamente, la dichiarazione d’incostituzionalità integra un momento di patologia normativa ed è tesa a ristabilire il rispetto della Costituzione; viceversa, l’abrogazione di una legge è un fenomeno fisiologico dell’ordinamento e risponde a valutazioni di opportunità politica e sociale operate dal legislatore.

Inoltre, sotto il profilo degli effetti, è stato evidenziato che mentre la declaratoria d’incostituzionalità determina la caducazione ab origine della disposizione impugnata,  l’abrogazione circoscrive l’ambito di applicazione della norma penale nel tempo, limitandone l’applicazione a fatti verificatisi fino ad un certo tempo.

Pertanto, il giudicato penale di condanna integra un limite all’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole, ma non preclude ai giudici di considerare gli effetti della declaratoria di incostituzionalità della norma penale sulla residua eseguibilità della pena. Invero, l’unico limite alla sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità di una norma penale è costituito dagli effetti irreversibili, ossia non rimuovibili perché consumati come nel caso di condannato che abbia già scontato la pena.

Ne discende che “Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui vietava di valutare la prevalente circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., il giudice dell’esecuzione […] potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito del giudice della cognizione, secondo quanto risulta dalla sentenza irrevocabile”. Inoltre, “Per effetto della medesima sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, è compito del pubblico ministero […] di richiedere al giudice dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta all’esito del giudizio di comparazione”. TM




Inserito in data 15/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 ottobre 2014, n. 5102

Tassatività dei criteri di valutazione dei c.v. degli aspiranti professori universitari

I Giudici di Palazzo Spada chiariscono che la procedura comparativa per il conferimento di un posto di professore universitario di prima fascia si svolge secondo criteri di valutazione delle pubblicazioni e dei curricula dei candidati, tassativamente individuati dall’art. 4, d.p.r. 117/00.

In particolare, in forza dell’art. 4, comma primo, le commissioni di concorso possono predeterminare i criteri di massima e le procedure di valutazione; alla stregua dell’art. 4, comma sesto, del d.p.r. 117/00, i criteri individuati dalla legge possono essere modificati e integrati con regolamenti emanati dalle università ai sensi dell’art. 1, comma 2, l. n. 210/88.

Ad avviso del Consiglio di Stato, tali norme s’interpretano nel senso che le commissioni di concorso possono semplicemente specificare i criteri e i titoli stabiliti dalla legge, mentre “è senz’altro precluso alle singoli commissioni la possibilità di introdurre, di volta in volta, criteri di valutazione diversi ed ulteriori rispetto a quelli previsti nel citato art. 4 (e da quelli eventualmente introdotti da disposizioni modificatrici ed integrative contenute in regolamenti adottati dall’università ai sensi del comma 6)”. TM



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Inserito in data 14/10/2014
TRIBUNALE DI MILANO, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 luglio 2014

La responsabilità del medico verso il paziente ha natura extracontrattuale

L’art. 3, comma 1, d.l. 158/2012, convertito con l. 189/2012 (c.d. legge Balduzzi) non incide sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d’opera professionale. In entrambi i casi, infatti, si ha responsabilità per inadempimento, regolata dall’art. 1218 cc.

Il tenore letterale dell’art. 3, comma 1 della legge Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono invece a ritenere che la responsabilità del medico per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d’opera sia stata ricondotta alla responsabilità aquiliana ex art. 2043 cc.

Per un verso, infatti, se in tal caso la responsabilità del medico costituisse pur sempre una responsabilità per inadempimento, risulterebbe errato oltre che superfluo il richiamo dell’art. 3, comma 1 all’art. 2043 cc. A ciò si aggiunge che la norma ha assunto l’attuale formulazione solo in sede di conversione del decreto legge; e le significative modifiche introdotte con la conversione contribuiscono a far escludere che la norma sia frutto di una mera svista.

Per altro verso, occorre considerare l’inequivoca volontà del legislatore di restringere e di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio al fenomeno della c.d. medicina difensiva.

Si segnala, infine, che il superamento della teoria del contatto sociale non sembra comportare un’apprezzabile compressione della possibilità per il danneggiato di ottenere il risarcimento del danno derivato dalla lesione del diritto alla salute. Il danneggiato sarà infatti portato a rivolgere in primo luogo la pretesa risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria. Ciò dovrebbe favorire l’alleanza terapeutica tra medico e paziente, senza che essa sia inquinata da uno strisciante obbligo di risultato al quale il medico non è tenuto normativamente e che spesso è alla base di scelte terapeutiche difensive, pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione del malato. CDC




Inserito in data 14/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 ottobre 2014, n. 5086

Sul riparto di giurisdizione in tema di concessione e revoca di contributi pubblici

Ribadendo quanto affermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la sentenza conferma che il riparto di giurisdizione tra Giudice Ordinario e Giudice Amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del criterio fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata.

Si ha giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione spetta soltanto verificare l’effettiva esistenza dei presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione.

Qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo per inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o per sviamento dei fondi rispetto al programma finanziato, la giurisdizione è del giudice ordinario. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione.

Viceversa, vi è una situazione d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo quando la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio o quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse. CDC



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Inserito in data 13/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 ottobre 2014, n. 231

Le leggi provvedimento non violano automaticamente il diritto di difesa

La Corte di legittimità ha dichiarato non fondate le censure mosse avverso l’art. 2 della l. regione Molise 14/2010 (Iniziative finalizzate alla razionalizzazione della spesa regionale) per violazione degli artt. 3, 24 comma 1, 111 comma 2, 113 comma 2 e 117 comma 7 Cost. con la quale, al fine di contenere la spesa pubblica, ha revocato l’incarico di Segretario generale del Consiglio affidandolo al Direttore generale della Direzione generale della Giunta regionale.

Osserva la Corte Costituzionale che la legge sottoposta alla sua valutazione presenterebbe i caratteri di una legge-provvedimento (essendo rivolta ad un unico destinatario e disciplinando un aspetto che, di regola, è affidato all’autorità amministrativa).

La Consulta, tuttavia, ricorda come già in passato sia stato ripetutamente affermato che «la natura di “norma-provvedimento” […], da sola, non incide sulla legittimità della disposizione» (C.Cost. 270/10)) e che la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento […] deve essere «valutata in relazione al loro specifico contenuto» (c.cost. 275/13; 154/13, 270/10), «essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore» (sentenza n. 288 del 2008).

Inoltre, a ben vedere, l’operare attraverso una legge, piuttosto che con atto amministrativo, non compromette il diritti alla tutela giurisdizionale comportando, di fatto, un mero spostamento di competenza in quanto «in assenza nell’ordinamento attuale di una ‘riserva di amministrazione’ opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 85 del 2013).

Pertanto nel caso di specie non vi  sarebbe stata alcuna lesione del diritto alla tutela giurisdizionale il quale risulta affidato alla Corte Costituzionale.

Parimenti priva di ogni fondamento, in fine, appare la censura di violazione del principio di parità delle parti nel processo, dovuta all’interferenza della legge provvedimento sulla funzione giurisdizionale, in quanto al momento di approvazione della legge non era ancora sorta alcuna controversia non potendo, dunque, trovare applicazione quella parte della giurisprudenza che afferma che «non può essere consentito al legislatore di “risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi” » (sentenza n. 85 del 2013). VA



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Inserito in data 13/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 9 ottobre 2014, n. 21356

Art. 1322 c.c. e potere di creazione di obblighi personali diversi dalle servitù

I giudici di Piazza Cavour, pur cassando la sentenza della Corte di Appello (per mancata valutazione di alcuni fatti di causa dedotti in giudizio), hanno riaffermato la facoltà delle parti private di sottrarsi alla regola della tipicità dei diritti reali su cose altrui attraverso la creazione di nuovi rapporti aventi natura meramente obbligatoria, essendogli espressamente riconosciuto tale potere dall’art. 1322 c.c. sull’autonomia contrattuale,

Alla luce di quanto detto, pertanto, sarebbe ben possibile, <<invece di prevedere l'imposizione di un peso su un fondo (servente) per l'utilità di un altro (dominante), in una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come una 'qualitas fundi',  (…) pattuire un obbligo personale, configurabile quando il diritto attribuito sia previsto per un vantaggio della persona o delle persone indicate nel relativo atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria (Cass. 3091/14). VA




Inserito in data 12/10/2014
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 9 ottobre 2014, n. 2452

Ordinanza per lo smaltimento rifiuti: limiti e confini dell’imputabilità

Il Collegio pugliese accoglie il ricorso di un cittadino, proprietario di un terreno in cui si era verificato lo sversamento di rifiuti, avverso l’ordinanza con cui l’Amministrazione comunale lo intimava di provvedere al ripristino dei luoghi.

I giudici d’appello riconoscono la lacunosità, sia sul piano motivazionale che probatorio, della pronuncia resa in primo grado. Il Tribunale locale, infatti, ha previsto, data la mancata possibilità di identificare il vero responsabile dell’accaduto, il duplice accertamento della titolarità dell’area e dell’imputabilità della violazione per dolo o colpa al proprietario o a colui che risulta titolare di diritti reali o personali di godimento sulla stessa. Una simile valutazione, però, tradisce una lettura non del tutto chiara dell’articolo 192 del D. Lgs. 152/06 (T.U. in materia ambientale), oltrechè dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza.

Gran parte di essa, infatti, ha chiarito che la responsabilità per colpa, di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, si ravvisa tutte le volte in cui vi sia un comportamento negligente (da verificare caso per caso) da parte del soggetto ritenuto responsabile, che può anche consistere in un fatto omissivo (T.A.R. Toscana Firenze, sez. II, 23 dicembre 2010, n. 6862; T.A.R. Campania Napoli, sez. V, 08 giugno 2010, n. 13059).

L’obbligo di diligenza, inoltre, deve essere valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va ascritta la responsabilità per colpa al proprietario non autore dello sversamento quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente proporzionato. Inoltre, l’idoneità delle cautele adottate dal soggetto proprietario o utilizzatore del bene va valutata in concreto, tenendosi conto di una serie di circostanze obiettive.

Tanto non è accaduto nella vicenda in esame in cui, come evidenzia il Collegio, non sono stati valutati con la dovuta proporzione e ragionevolezza gli adempimenti istruttori e formali (quali, rispettivamente, l’esibizione delle denunce svolte dall’odierno appellante ovvero la recinzione dei luoghi, dallo stesso curata) compiuti dal ricorrente, in cui favore, pertanto, si muove la decisione di secondo grado. CC



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Inserito in data 10/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 ottobre 2014, n. 5019

Sul collocamento in fuori ruolo dei docenti universitari

E' oggetto di controversia la durata del fuori ruolo (cioè, il periodo di cui potevano godere i docenti, che avevano raggiunto l’età pensionabile, per prolungare la propria attività lavorativa), di un docente universitario ordinario, nato il 2 maggio 1936, a termini della norma transitoria contenuta nell’art. 2, comma 434, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244.

La predetta disposizione, concernente la riduzione progressiva della durata del collocamento fuori ruolo dei professori universitari e abolizione del fuori ruolo dal 2010, recita infatti che “A decorrere dal 1° gennaio 2008, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a due anni accademici e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel terzo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2009, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a un anno accademico e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel secondo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico. A decorrere dal 1° gennaio 2010, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è definitivamente abolito e coloro che alla medesima data sono in servizio come professori nel primo anno accademico fuori ruolo sono posti in quiescenza al termine dell’anno accademico”.

Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sede di Milano, ha accolto il ricorso proposto dal docente universitario riguardante il proprio collocamento in fuori ruolo dall’1 novembre 2008 al 31 ottobre 2000, con conseguente accertamento del diritto dell’interessato a rimanere in fuori ruolo sino al 31 ottobre 2010. 

Viene affermato che, il professore, collocato in fuori ruolo a partire dal 1 novembre 2008, doveva vedersi assegnato “due anni accademici in tale posizione, poiché la norma sarebbe chiara nell’affermare che “a decorrere” dal 1 gennaio 2008 il periodo di fuori ruolo è ridotto a due anni e non a uno come invece disposto”.

La stessa espressione a decorrere di cui si è avvalso il legislatore chiarirebbe, infatti, che l’efficacia della norma deve ricondursi “al momento della disposizione del collocamento fuori ruolo” e non “all’anno accademico di fuori ruolo di riferimento”.

Con l’appello in esame, le amministrazioni ricorrenti (Università e Miur) hanno denunciato la sentenza con unica ed articolata censura per erroneità, falsa interpretazione ed applicazione della citata norma transitoria, facendo rilevare come la disciplina in questione, necessariamente da rapportarsi alla nozione del c.d. fuori ruolo, assumerebbe invece, a termine iniziale di decorrenza dei nuovi periodi di fuori ruolo, l’inizio dell’anno accademico.

Invero, a sostegno di ciò, “è ben vero che la norma individua la data dell’1 gennaio quale termine di decorrenza del regime transitorio, ma sarebbe altrettanto pacifico che la medesima norma, ad esempio, preveda che i docenti, i quali già si trovano in fuori ruolo, verranno posti in quiescenza al termine dell'anno accademico”.

Successivamente, il docente appellato, ha resistito ed ha, in particolare, opposto il sopravvenuto difetto d’interesse della parte appellante ad ulteriormente coltivare l’odierno gravame.

Ai fini della decisione in esame, i Giudici di Palazzo Spada, richiamano una rilevante giurisprudenza in materia (Sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6476), disattendendo anzitutto l’istanza dell’appellato volta a suffragare una pronuncia di sopravvenuto difetto di interesse alla decisione dell’odierno appello. Invero, alla luce dell’art. 35, lettera c) del Codice del processo amministrativo, così come rilevato dai Giudici di Palazzo Spada, “la dichiarazione di improcedibilità presuppone l'accertamento del sopravvenuto difetto di interesse alla pronuncia nel merito di una domanda e, conseguentemente, dell’inutilità della decisione stessa; d’altronde, l’attuale appellato non ha rinunciato alla vittoriosa impugnativa di primo grado e agli effetti della relativa sentenza, tanto è vero che ha formulato richieste conclusionali subordinate”.

Quanto al merito, l’appello è da respingere perché infondato, in relazione alla circostanza che la rettorale impugnata in primo grado, adottata nel 2008, ha limitato il collocamento fuori ruolo del ricorrente originario ad un solo anno accademico (dall’1.11.2008 al 31.10.2009), quando la disposizione in argomento prevede invece che “A decorrere dal 1° gennaio 2008, il periodo di fuori ruolo dei professori universitari precedente la quiescenza è ridotto a due anni accademici…”. GMC



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Inserito in data 10/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 ottobre 2014, n. 5031

SCIA per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso

Il Consiglio di Stato, con la sentenza de qua, torna ad occuparsi della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso.

Com’è noto, essa rappresenta una dichiarazione che permette alle imprese di iniziare, modificare ovvero cessare un’attività produttiva, senza attendere i tempi e l’esecuzione di controlli, nonché verifiche, preliminari da parte degli enti a ciò designati.

Nel caso di specie, la società ricorrente presentò, al Comune resistente, una SCIA, inibita con l’ordinanza n. 69 del 2011 (non opposta), per l’ampliamento con cambio di destinazione d’uso di un manufatto da “Coltivazioni in serre fisse” ad “Abitativo”, in applicazione del decreto legge 13 maggio 2011, n. 70.

Successivamente alla conversione del citato decreto in legge, che ha previsto talune norme transitorie, tale SCIA è stata rinnovata dalla citata società, ma nuovamente rigettata dall’amministrazione Comunale per “la valutazione di inammissibilità dell’intervento proposto in quanto contrastante con le previsioni del RUE…”. E ciò, alla luce delle istruzioni fornite da una sopraggiunta delibera di Giunta regionale (n. 1281/2011 del 12 settembre 2011), secondo la quale sono già presenti, nella legislazione emiliano-romagnole, “misure di incentivazione corrispondenti a quelle previste dalla suindicata disciplina statale, non trovassero applicazione in ambito regionale le disposizioni transitorie di cui all’art. 5, comma 11 e 14, del decreto-legge n. 70/2011”.

Con la sentenza n. 518 del 24 luglio 2012, il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna accoglieva il ricorso proposto dalla società interessata.

L’amministrazione comunale, ha ripreso il procedimento e, all’esito, ha disposto il ripristino delle opere trasformate da serre in appartamenti abusivi.

I Giudici di primo grado, puntualizzarono che “la realizzazione di unità abitative in luogo della serra assentita, andava in totale difformità dal titolo edilizio rilasciato e si poneva quale costruzione nuova in contrasto con le previsioni di PRG, dovendo avvenire l’auspicata sanzione pecuniaria alternativa ad iniziativa di parte.”

Tuttavia, la società appellante ha criticato la sentenza di primo grado, denunziando la violazione dell’asserito pregresso giudicato; l’omessa rimozione della SCIA già perfezionatasi e definitivamente consolidatasi; la natura di ristrutturazione edilizia rivestita dall’intervento di trasformazione ritenuto abusivo e l’assentibilità in base al decreto-legge n. 70 del 2011; la genericità e l’indeterminatezza dell’ordine di demolizione, nonché l’ingiusta condanna alle spese di lite.

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, l’appello è infondato.

Si rileva, invero, che “è appunto pacifico in atti che si discute di trasformazione abusiva di una preesistenza adibita a serre in unità abitative tramite SCIA, a parte la mancata impugnazione dell’inibizione comminata dal comune resistente sulla prima e le vicende processuali che ruotano intorno alla seconda. Né può essere richiesta, in virtù del principio di sinteticità, una motivazione che, in modo meccanico e pedissequo, assuma partitamente a riferimento ogni singolo profilo argomentativo delle parti” ed ancora “il cambio d’uso non riguarda solo il manufatto, ma investe anche il mutamento della destinazione d’uso della zona di PRG, che comporta variante urbanistica; in quanto la ristrutturazione può attenere al manufatto esistente destinato a serra e, quindi, i lavori devono consistere in interventi compatibili e complementari, mentre essa è estranea alla realizzazione di unità residenziali, che costituiscono opere nuove; posto che, in assenza di normativa regionale attuativa del decreto legge n. 70 del 2011, occorre applicare l’art. 14 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), che consente deroga esclusivamente per edifici ed impianti pubblici o d’interesse pubblico”.  

Dunque, alla luce di quanto esposto, non possono essere messi in discussione, né la pacifica soccombenza intervenuta, né i poteri discrezionali del giudice in materia di liquidazione delle spese processuali.  

L’appello è stato, dunque, conclusivamente respinto e la sentenza confermata, in virtù della totale difformità dei lavori eseguiti di trasformazione della serra in unità abitative. GMC



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Inserito in data 09/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 ottobre 2014, n. 229

Sulla conformità della norma delegata rispetto alla norma delegante

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 146, primo e secondo comma, della legge 16 febbraio 1913, n. 89 (Ordinamento del notariato e degli archivi notarili), come sostituito dall’art. 29 del decreto legislativo 1° agosto 2006, n. 249 (Norme in materia di procedimento disciplinare a carico dei notai, in attuazione dell’articolo 7, comma 1, lettera e, della legge 28 novembre 2005, n. 246), sollevate, in riferimento all’art. 76 della Costituzione”.

In particolare, devono ritenersi coerenti con gli indirizzi della delega e compatibili con la ratio della stessa le scelte con cui il legislatore delegato ha portato da quattro a cinque anni il termine di prescrizione dell’illecito disciplinare del notaio ed ha introdotto l’istituto dell’interruzione del corso della prescrizione.

Orbene, “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno relativo alla disposizione che determina l’oggetto, i princìpi e i criteri direttivi della delega; l’altro concernente la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (ex plurimis, sentenze n. 230 del 2010, n. 112 e n. 98 del 2008, n. 140 del 2007).

Relativamente al primo di essi, il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega ed i relativi princìpi e criteri direttivi, nonché delle finalità che lo ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (ex plurimis, sentenze n. 341 del 2007, n. 426 e n. 285 del 2006).

I principi posti dal legislatore delegante costituiscono, poi, non soltanto base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l’interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, finché sia possibile, nel significato compatibile con tali principi, i quali a loro volta vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2013, n. 119 del 2013, n. 272 del 2012 e n. 98 del 2008). Infatti, l’art. 76 Cost. non osta all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, nella specie, come in precedenza posto in rilievo, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo; dunque, nell’attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 98 del 2008 e n. 163 del 2000)”. EMF



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Inserito in data 09/10/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 ottobre 2014, n. 21107

Sul trattamento di dati riguardanti la vita sessuale del dipendente pubblico

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Piazza Cavour si esprimono in materia di trattamento di dati personali da parte dei soggetti pubblici, che disciplinato dall'art. 18 del d.lgs. n. 196 del 2003 (c.d. codice in materia di protezione dei dati personali) stabilisce, “al comma secondo, il principio generale secondo cui tale trattamento è consentito soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali dell'ente, precisando al comma terzo che nel trattare i dati il soggetto pubblico deve rispettare i presupposti e i limiti stabiliti dal medesimo codice, anche in relazione alla diversa natura dei dati, nonché dalla legge e dai regolamenti. Con particolare riferimento ai dati sensibili, comprendenti tra l'altro quelli idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dell'interessato (art. 4, comma primo, lett. e), i predetti limiti sono stabiliti dall'art. 20, il quale consente il trattamento solo se autorizzato da un'espressa disposizione di legge, in cui devono essere specificati i tipi di dati che possono essere trattati ed i tipi di operazioni eseguibili, nonché le finalità di rilevante interesse pubblico perseguite. Tra le predette finalità l'art. 112, comma primo, annovera specificamente quelle inerenti all'instaurazione ed alla gestione di rapporti di lavoro di qualunque tipo da parte di soggetti pubblici, in relazione alle quali il comma secondo della medesima disposizione elenca, a titolo meramente esemplificativo, i tipi di trattamenti consentiti, includendovi, tra l'altro, lo svolgimento di attività dirette all'accertamento della responsabilità civile, disciplinare e contabile e l'esame dei ricorsi amministrativi, in conformità alle norme che regolano le rispettive materie (lett. g). Poiché quest'ultima disposizione si limita ad indicare genericamente le finalità del trattamento, senza specificare i dati che possono essere trattati e le operazioni che possono essere eseguite, trova applicazione il comma secondo dell'art. 20, il quale stabilisce che in siffatti casi il trattamento è consentito solo in riferimento ai tipi di dati e di operazioni identificati e resi pubblici a cura dei soggetti che ne effettuano il trattamento, in relazione alle specifiche finalità perseguite nei singoli casi e nel rispetto dei principi di cui all'art. 22, con atto di natura regolamentare adottato in conformità al parere espresso dal Garante ai sensi dell'art. 154, comma primo, lett. g), anche su schemi tipo.

La predetta disciplina riproduce fedelmente quella dettata dall'abrogata legge 31 dicembre 1996, n. 675, come modificata dal d.lgs. 11 maggio 1999, n. 135, in relazione alla quale questa Corte ha affermato il principio secondo cui il trattamento dei dati sensibili, la cui legittimità è ancorata in linea generale alla contestuale presenza del consenso scritto dell'interessato ed all'autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali, è consentito, da parte dei soggetti pubblici, anche in difetto del predetto consenso e della predetta autorizzazione, a condizione che sussistano a) una rilevante finalità d'interesse pubblico, b) un'espressa disposizione di legge autorizzatoria e c) una specificazione legislativa dei tipi di dati trattabili e delle operazioni eseguibili. Con particolare riguardo al trattamento di dati effettuato nell'ambito di un rapporto di lavoro per l'accertamento della responsabilità disciplinare, si è quindi precisato che l'espressa inclusione di tale finalità tra quelle d'interesse pubblico non è di per sé sufficiente ad escludere la necessità del consenso e dell'autorizzazione, occorrendo a tal fine anche l'indicazione dei tipi di dati sensibili che possono essere trattati e delle operazioni eseguibili sugli stessi, da parte dello stesso soggetto pubblico o, su sua richiesta, della Autorità garante. Si è infatti osservato che la particolare natura dei dati sensibili, e segnatamente di quelli riguardanti la salute e la vita sessuale delle persone (che appartengono alla categoria dei dati c.d. supersensibili, i quali investono la parte più intima della persona, nella sua corporeità e nelle sue convinzioni psicologiche più riservate), esige, in ragione dei valori costituzionali posti a loro presidio (artt. 2 e 3 Cost.), una protezione rafforzata, la quale trova espressione anche nelle garanzie previste per il trattamento effettuato dai soggetti pubblici, che può quindi aver luogo soltanto nel rispetto del modulo procedimentale previsto dalla legge (cfr. Cass., Sez. I, 8 luglio 2005, n. 14390)”.

In particolare, gli Ermellini ritengono che l’acquisizione d'informazioni attinenti alla vita sessuale del dipendente configuri oggettivamente un trattamento di dati sensibili, a prescindere dalle motivazioni o dalle finalità della stessa, “che vengono in considerazione esclusivamente per l'individuazione delle modalità e dei limiti del trattamento”.

Deve, quindi, considerarsi illegittima l’acquisizione di documenti informatici posta in essere da una P.A. allorquando il regolamento in relazione alla gestione del rapporto di lavoro, cui è indiscutibilmente preordinata l'adozione di provvedimenti disciplinari, preveda che “il trattamento di dati relativi alla vita sessuale è consentito soltanto in caso di rettificazione di attribuzione di sesso”.

Peraltro, la Suprema Corte puntualizza “che la tutela apprestata dal d.lgs. n. 196 del 2003 si estende anche ai dati già pubblici o pubblicati, dal momento che colui che compie operazioni di trattamento di tali informazioni può ricavare dal loro accostamento, comparazione, esame, analisi, congiunzione, rapporto od incrocio ulteriori informazioni, e quindi un «valore aggiunto informativo», non estraibile dai dati isolatamente considerati, potenzialmente lesivo della dignità dell'interessato, valore sommo (tutelato dall'art. 3, primo comma, prima parte, e dell'art. 2 Cost.) a cui si ispira la legislazione in materia di trattamento dei dati personali (cfr. Cass., Sez. I, 8 agosto 2013, n. 18981; 25 giugno 2004, n. 11864)”. EMF

 

 




Inserito in data 08/10/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 ottobre 2014, n. 228

I prelievi bancari del lavoratore autonomo non sono destinati ad un investimento

Con la pronuncia in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. dell’art. 32, c. 1, n. 2, secondo periodo, del d.p.r. n. 600/73.

La norma dispone che i dati ed elementi trasmessi su richiesta […], rilevati direttamente […] ovvero nei controlli relativi alle imposte sulla produzione o consumo […] sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 del medesimo d.P.R. n. 600 del 1973, salvo che il contribuente dimostri che ne ha tenuto conto nella determinazione dei redditi o che essi non hanno rilevanza a tal fine. Prevede, poi, che i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito delle predette operazioni sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti (e sono quindi assoggettabili a tassazione), se il contribuente non ne indica i soggetti beneficiari e sempreché non risultino dalle scritture contabili”.

La presunzione disciplinata da tale ultima parte della norma nella sua originaria formulazione (limitata ai «ricavi») interessava unicamente gli imprenditori, l’art. 1 della legge n. 311 del 2004 (inserendo anche i «compensi») ne ha poi esteso l’ambito operativo ai lavoratori autonomi”.

La presunzione secondo cui a ciascun prelevamento dal conto bancario corrisponde un costo a sua volta produttivo di un ricavo è ragionevole per l’imprenditore, la cui attività si caratterizza per la necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi. Detta presunzione è stata irragionevolmente estesa dalla L. 311/04 ai lavoratori autonomi, la cui attività si connota per la prevalenza del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo.

Del resto, l’esigenza di combattere l’evasione e l’elusione fiscale dei lavoratori autonomi ha trovato già risposta nella recente normativa in tema di tracciabilità dei movimenti finanziari.

Pertanto nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”. TM



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Inserito in data 08/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4973

Non è affetta da errore di fatto, la decisione basata su un documento inutilizzabile

Il Consiglio di Stato ci ricorda che il giudizio di revocazione non è un ulteriore grado di giudizio di merito, ma un mezzo di impugnazione straordinario ammissibile solo al ricorrere dei casi di revocazione individuati dalla legge, tra i quali spicca l’errore di fatto.

L’errore di fatto revocatorio si sostanzia, in particolare, in una svista o abbaglio dei sensi, idonei a provocare l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio (ritualmente acquisiti agli atti di causa), determinando un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso, pertanto, non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice, costituendo il peculiare mezzo previsto dal legislatore per eliminare l’ostacolo materiale che si frappone tra la realtà del processo e la percezione che di essa ha avuto il giudicante, proprio a causa della svista o abbaglio dei sensi”.

Alla luce della pacifica ricostruzione dell’errore di fatto revocatorio come errore percettivo, i Giudici di Palazzo Spada concludono nel senso che è inammissibile il ricorso per revocazione in cui il ricorrente lamenta che la decisione del giudice di secondo grado si sia fondata su un documento prodotto tardivamente e, perciò, inutilizzabile: infatti, in questo modo, il ricorrente censura un errore di valutazione con riguardo all’utilizzabilità di un documento. TM



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Inserito in data 07/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4976

Il vincolo a verde privato ha carattere conformativo e non è indennizzabile

I vincoli urbanistici non indennizzabili sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici.

Invece, i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono essere invece indennizzati sono: a) quelli preordinati all’espropriazione o aventi carattere sostanzialmente espropriativo in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata all’esproprio con l’approvazione dei piani esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità secondo la concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost.

In altre parole, i vincoli sostanzialmente espropriativi e dunque indennizzabili sono quelli che svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone il suo valore di scambio.

Il vincolo a verde privato deve considerarsi conformativo poiché esso è prescritto in funzione della localizzazione di un’opera pubblica la cui realizzazione non è compatibile con la proprietà privata. Esso rientra tra quelle prescrizioni che regolano la proprietà privata alla realizzazione di obiettivi generali di pianificazione del territorio ai quali non può attribuirsi una natura ablatoria e/o sostanzialmente espropriativa. CDC



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Inserito in data 07/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4987

Giudicato annullatorio, riesercizio del potere e rivalutazione di fatti già considerati

A seguito dell’adozione di una sentenza di annullamento di un provvedimento amministrativo, nei casi di violazione di un interesse legittimo pretensivo, la potestà di provvedere viene restituita nuovamente alla PA perché essa si ridetermini, in base ai noti principi di continuità dell’azione amministrativa e di tendenziale “inesauribilità” del potere.

Nulla osterebbe, in teoria, ad una generale libertà della PA di porre a sostegno del proprio convincimento elementi nuovi, non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato, così riconfermando il provvedimento annullato. Tuttavia, se la PA ogni volta ponesse a sostegno del nuovo provvedimento fatti nuovi (non precedentemente esaminati) verrebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione. Ogni controversia sarebbe così destinata a non concludersi mai con un definitivo accertamento sulla spettanza o meno del bene della vita.

Per questo, il bilanciamento fra le opposte esigenze rappresentate dalla garanzia della inesauribilità del potere e dalla portata cogente del giudicato è stato realizzato dalla giurisprudenza imponendo alla PA - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati.

Affinché non si voglia ridurre a pura fictio la restituzione alla PA del potere di riesercitare le proprie valutazioni, è necessario ribadire che il vincolo discendente dal giudicato non può spingersi sino ad impedire la rivalutazione e l’approfondimento di elementi che, seppur già tenuti presenti, non erano stati adeguatamente posti in luce o valorizzati nella loro interezza. Infatti, salvi i casi di giudicato puntuale, che precluda la valutazione di un elemento (in quanto espressamente ritenuto neutro o inconferente), nei casi di difetto di motivazione ordinario impedire una simile opera rivalutativa comporterebbe la vanificazione dell’effetto “restitutorio”.

Sul punto, anche la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 2013 ha ritenuto che “non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice”. CDC



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Inserito in data 06/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2014, n. 4986

Favor partecipationis ed incertezza del contratto di avvalimento

Il Supremo Collegio ha disatteso il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva del servizio di affidamento delle operazioni invernali di sgombro neve.

Nel caso di specie, infatti, si verterebbe in una situazione di carenza di interesse essendo stata la società appellante legittimamente esclusa dalla procedura di gara e non avendo la stessa addotto alcuna censura sulla legittima partecipazione degli altri concorrenti.

L’esclusione dalla gara era avvenuta a causa dell’indeterminatezza del contratto di avvalimento.

L’istituto dell’avvalimento nasce al fine di consentire una maggiore partecipazione alle gare di appalto consentendo, anche a soggetti che non posseggano personalmente i requisiti tecnici e/o finanziari, di prendervi parte “avvalendosi” delle risorse messe a disposizione da parte di un’altra impresa (art. 49 del TU contratti pubblici).

Secondo l’opinione del Consiglio di Stato, però il favor partecipationis non può colmare eventuali lacune del contratto di avvalimento. Invero la ratio dell'istituto, diretta a favorire la più ampia partecipazione delle imprese alla gare, non potrebbe essere spinta sino a dequotare i principi generali del nostro ordinamento.

Invero l’art. 49 sopra citato prevede, attraverso una dettagliata normativa, degli oneri sia in capo all’impresa ausiliaria che all’impresa ausiliata, volti a consentire l’effettiva verifica del possesso dei requisiti morali, tecnici ed economici delle concorrenti.

Pertanto “la necessità della precisa indicazione delle attività assegnate a ciascun componente di un raggruppamento temporaneo di imprese sta proprio nell’esigenza di verificare se tale ripartizione è coerente con le qualificazioni di ciascuna e con il possesso dei requisiti per eseguire quella parte di attività”.

Il Supremo Consesso evidenzia inoltre come l’esigenza di una puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento discenda anche dalle norme generali in materia di contratto.

L’esclusione, dunque, sarebbe stata legittima anche ove fosse mancata una legge speciale mancando una disciplina che consenta di integrare in qualche modo le omissioni che viziano tali atti.

Tali principi, secondo la giurisprudenza di merito troverebbero applicazione anche in caso di avvalimento interno (v. tar. Napoli sez. II 28/06/2013 n.3349): “la normativa comunitaria e statale di riferimento non reca alcuna distinzione in tal senso -e non consente alcuna deroga al riguardo-, sia perché le esigenze di tutela della stazione appaltante e della par condicio dei partecipanti alla gara permangono appieno anche in tale riferita specifica fattispecie”. VA



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Inserito in data 06/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 ottobre 2014, n. 4967

Il silenzio-assenso generalizzato ex art. 20 d.lgs. 241/90 e norma comunitaria

Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso presentato dall’Agenzia delle dogane avverso la sentenza di primo grado per mezzo della quale era stato concesso il certificato A.E.O.F. (Authorized economic operator full), disciplinato dal regolamento CE n. 1875/2006 del 18 dicembre 2006, ad una società operante nel commercio degli alcolici.

La concessione era avvenuta in applicazione dell’istituto del silenzio-assenso generalizzato, disciplinato dall’art. 20 del d.lgs. 241/90, essendo decorso il termine prescritto dalla normativa comunitaria per il relativo procedimento.

Il Supremo Consesso, in accoglimento del ricorso presentato innanzi a sé,  tuttavia, ritiene che la norma in questione non possa trovare applicazione nel caso di specie.

Invero, “proprio la previsione del rilascio di un documento formale, quale il certificato, "...in conformità del modello di cui all'allegato 1 quinquies" (…), del suo rigetto mediante decisione motivata (…), di obblighi informativi nei confronti degli Stati membri sia in caso di rilascio che in caso di diniego (…) costituiscono indici testuali inequivoci e insuperabili in ordine all'esistenza dell'obbligo di adozione di un provvedimento formale” e “la fattispecie tacita abilitativa o autorizzativa di cui all'art. 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (…) non è applicabile, tra l'altro, "...ai casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali...”.

A sostegno della propria decisione, inoltre, rileva la natura non perentoria del termine fissato dalla normativa comunitaria per il rilascio del certificato (mancando un’espressa qualificazione in tal senso).

La materia controversa, poi, rientrerebbe  nelle ipotesi eccezionali previste dallo stesso art. 20 comma 4 ed attiene alla pubblica sicurezza e ambiente (materie per le quali risulta esclusa la formazione del silenzio).

Infine, a parere del Consiglio di Stato, l’istituto del silenzio assenso non potrebbe trovare applicazione ove il provvedimento sia disciplinato interamente dal diritto comunitario (art. 14-quater e ss CE 1875/2006). VA



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Inserito in data 05/10/2014
TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I, 30 settembre 2014, n. 364

Modelli di accettazione candidatura a cariche elettive e autenticazione

I Giudici emiliani respingono le doglianze mosse avverso la determinazione del Presidente dell'Ufficio Elettorale Provinciale della Provincia di Piacenza e del verbale relativo alle operazioni d'esame ed approvazione delle candidature per l'elezione del Presidente e del Consiglio Provinciale, tese all’annullamento delle stesse.

Più nel dettaglio, assumendo un atteggiamento restrittivo e richiamando parametri normativi e giurisprudenziali in tema, i Giudici ricordano come “le firme sui modelli di accettazione della candidatura a cariche elettive e di presentazione delle liste, devono essere autenticate nel rispetto, previsto a pena di nullità, di tutte le formalità stabilite dall'art. 21, T.U. n. 445 del 2000, sicché la mancata indicazione di tali modalità rende invalida la sottoscrizione”. Il Collegio precisa, poi, che “sono elementi essenziali costitutivi della procedura di autenticazione … l'indicazione del luogo … della sottoscrizione” (Cfr. Cons. stato, Sez. V, 22 gennaio 2014, n. 3017. Negli stessi sensi, Cons. Stato, Sez. V, 1 marzo 2011, n. 1272; TAR Molise, 24 giugno 2013, n. 432).

Si supera, in tal guisa, il dubbio riguardo alla possibilità che l’omessa indicazione del luogo di autenticazione possa procurare o meno irregolarità delle suddette operazioni elettorali.

Si tratta, come è chiaro, di formalità che il Collegio ritiene essenziali e doverose ad substantiam, né surrogabili con elementi ulteriori e indiretti, estranei allo schema legale quali l’apposizione di un determinato tipo di timbro – come paventato nel caso in esame.

Ne consegue la reiezione del ricorso presentato dal candidato, la cui vittoria elettorale – documentata in verbali evidentemente ritenuti irregolari viene, così, messa in discussione. CC



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Inserito in data 05/10/2014
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III, 3 ottobre 2014, n. 1515

Decadenza dal permesso di costruire: occorre inquadrare l’inizio dei lavori

Il Collegio toscano respinge le censure, mosse da parte ricorrente, avverso la dichiarazione di decadenza dal permesso di costruire, originariamente concesso per la realizzazione di un fabbricato.

I Giudici, avallando la posizione dell’Amministrazione comunale e richiamando l’evoluzione giurisprudenziale costante in merito, chiariscono che per aversi, “inizio dei lavori”, tale da escludere la pronuncia di decadenza nel termine annuale dal rilascio del permesso di costruire, occorre aver dato avvio ad opere che denotino un <serio intento costruttivo> (Cfr. TAR Torino, sez. 1^, 3 gennaio 2014, n. 2).

Di conseguenza, appaiono inidonei a configurare un effettivo “inizio dei lavori” il mero spianamento del terreno o meri scavi di sondaggio o anche la “mera picchettatura” del terreno interessato dalla costruzione ed il suo livellamento, come realizzati dall’odierna istante.

Del pari, ricorda il Collegio, le lamentate cause di forza maggiore, quali in questo caso le numerose asperità del terreno o le difficili condizioni metereologiche, non potrebbero mai fondare una sospensione legale del termine di avvio e conclusione dei lavori.

Semmai, avrebbero potuto giustificare la tempestiva richiesta di una proroga dei lavori che, nella vicenda concreta, non è stata compiuta.

Alla luce di tali valutazioni, pertanto, è inevitabilmente respinta la doglianza di parte ricorrente. CC



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Inserito in data 03/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 ottobre 2014, n. 4930

Sul diritto di percepire le differenze retributive

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato affronta la questione concernente il diritto di percepire le differenze retributive per prestazioni di lavoro effettuate e rientranti nello schema del contratto di lavoro subordinato.

Nel caso in questione, l’interessato ha chiesto la riforma della sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto le differenze stipendiali spettanti gli per l’attività effettivamente svolta, sulla base di un calcolo analitico e dettagliato allegato al ricorso, oltre ad oneri previdenziali, interessi e rivalutazione, “nell’assunto che essa sia lesiva della posizione dell’appellante nelle parti in cui non è stata riconosciuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, non sono state riconosciute le differenze retributive come determinate nel ricorso primo grado per l’effettiva prestazione lavorativa svolta alle dipendenze dell’Ente, ma solo la I.I.S. per un periodo limitato di tempo”. Ed invero, il ricorrente ha chiesto l’accertamento del diritto a percepire differenze retributive per prestazioni di lavoro “asseritamente instauratosi con il Comune di Manfredonia dall’1 gennaio 1993 al 29 novembre 1994, sulla base di atti deliberativi con i quali gli era stato affidato l’incarico di “pulizia degli Uffici Giudiziari – Pretura e Conciliazione di Manfredonia”, nonché la condanna di detto Ente al pagamento dei relativi emolumenti, degli oneri previdenziali e dell’indennità di fine rapporto, oltre ad interessi corrispettivi e rivalutazione monetaria.” Anzitutto, il T.A.R., ha, in primo luogo, “ritenuto prescritti tutti i crediti eventualmente maturati in epoca antecedente al 27 aprile 1994; poi, con riguardo ai crediti maturati dal 28 aprile 1994 al 29 novembre 1994, ha ritenuto non provata la natura subordinata del rapporto di lavoro fino alla data del 31 agosto 1994, con infondatezza, relativamente a tale periodo, delle pretese economiche azionate dal ricorrente, mentre, per il periodo dall’1 settembre 1994 al 29 novembre 1994, ha riconosciuto fondata solo la pretesa al riconoscimento dell’indennità integrativa speciale, oltre ad interessi e rivalutazione fino al 31 dicembre 1994 e soltanto interessi legali per il periodo successivo a questo e fino al definitivo soddisfo”. Il Consiglio di Stato, puntualizza che con il ricorso di primo grado, l’interessato ha sostanzialmente riproposto la medesima domanda formulata al giudice del lavoro, chiedendo l’accertamento del diritto a percepire differenze retributive per prestazioni di lavoro asseritamente instauratosi con il Comune dall’1 gennaio 1993 al 29 novembre 1994, nonché la condanna del Comune al pagamento delle relative somme, degli oneri previdenziali e delle indennità di fine rapporto, oltre ad interessi e rivalutazione, sicché, essendo stata interrotta la prescrizione con il citato ricorso al Pretore del lavoro in data 7 giugno 1995, dev’essere riformata la sentenza di primo grado laddove ha accolto l’eccezione di prescrizione formulata dal Comune. A tal proposito, si puntualizza, infatti, che “l'effetto interruttivo della prescrizione determinato dalla promozione di un'azione giudiziaria ha infatti carattere permanente, ai sensi del secondo comma dell'art. 2945 cod. civ., anche nel caso in cui il giudizio si concluda con una sentenza dichiarativa di difetto di giurisdizione, non essendo tale ipotesi assimilabile a quella di estinzione del processo, considerata dall'ultimo comma dello stesso articolo (Cassazione Civile, 12 giugno 1984, n. 3516; in senso conforme, Cassazione Civile, 14 novembre 2002, n. 16032), purché la domanda proposta dinanzi al giudice carente di giurisdizione sia la medesima poi introdotta dinnanzi al giudice dotato di giurisdizione sulla controversia (Cassazione civile, sez. I, 11 giugno 2007 n. 13662)”. Sul punto l’appello deve essere accolto e, “per l’effetto, va riformata la sentenza di primo grado, laddove riconosce l’avvenuta prescrizione del diritto dell’attuale appellante con riferimento a tutti i crediti eventualmente maturati in epoca antecedente al 27 aprile 1994”. Dunque, si specifica che in applicazione del principio devolutivo dell’appello, la fondatezza delle pretese azionate dal ricorrente va verificata non a far tempo dal 28 aprile 1994, come ritenuto dal primo giudice, bensì dall’1 gennaio 1993. Quanto alla erronea interpretazione, da parte del giudice di primo grado, della documentazione allegata, si specifica che “dalla documentazione prodotta non si evinceva con la necessaria certezza la sottoposizione del lavoratore per volontà dell’Ente al potere disciplinare di questo, almeno fino al 31 agosto 1994, e che non risultava esclusa la possibilità per il lavoratore di svolgere attività libero professionale o alle dipendenze pubbliche o private di altri Enti, sarebbero smentite dalla circostanza che dalla documentazione prodotta in primo grado si evinceva che il rapporto, così come disciplinato in convenzione, non aveva identica estrinsecazione su piano fattuale”. Il Consiglio di Stato sottolinea che il ricorrente “non ha dimostrato con la necessaria evidenza, con riguardo alla attività lavorativa da esso svolta nel periodo di interesse, la sussistenza di tutti gli indici rivelatori del pubblico impiego” nonché che tali indici “hanno la esclusiva funzione di determinare la disciplina economica e previdenziale delle prestazioni lavorative di fatto erogate (posto che il rapporto è comunque nullo ed improduttivo di effetti, in quanto instaurato al di fuori dei parametri legislativi che, nel rispetto dell'art. 97, comma 3, della Costituzione, regolano l'accesso al pubblico impiego tramite concorso), consistono, per pacifica e consolidata giurisprudenza, nella natura pubblica dell'Ente datore di lavoro, nella diretta correlazione dell'attività lavorativa prestata con i fini istituzionali perseguiti”. Inoltre, è stato “condivisibilmente non ritenuto sussistente dal primo giudice il carattere di esclusività del rapporto, non risultando esclusa da detti atti di incarico e dalla convenzione citata la possibilità, per il lavoratore di cui trattasi, di svolgere attività libero-professionale o dipendente oltre l’incarico di pulizia dei locali della Pretura”. Secondo i giudici di Palazzo Spada, altresì, il T.A.R. ha condivisibilmente asserito, oltre a quanto affermato, che, “anche se si aderisse alla prospettazione del ricorrente circa la sussistenza di un rapporto di fatto, comunque esso non avrebbe avuto alcun titolo a percepire differenze retributive in ragione del diverso trattamento economico spettante al personale di ruolo di pari qualifica stabilito dalle norme vigenti nel tempo”. Alla fattispecie è stato ritenuto che trovasse applicazione il primo comma dell’art. 2126, del c. c. che non dà titolo a percepire una retribuzione superiore a quella prevista nel titolo nullo o annullato né, tanto meno, ad un trattamento economico pari a quello spettante al pubblico dipendente che sia stato legittimamente investito del relativo “status”. GMC



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Inserito in data 03/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 ottobre 2014, n. 4931

Criteri di determinazione dei punteggi e annullamento dell’aggiudicazione 

I Giudici di Palazzo Spada hanno trattato, come di frequente, di un caso di annullamento dell’aggiudicazione, accogliendo l’appello e respingendo il ricorso proposto in primo grado da una società (Elettrocostruzioni s.r.l.).

Nel caso di specie, Il Comune di Lusia nel 2005 indiceva un appalto concorso per l’affidamento, per la durata massima di anni venti, dei servizi di gestione, esercizio, manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto di pubblica illuminazione, ivi comprese le attività di messa a norma dell’impianto, ammodernamento tecnologico e funzionale nonché delle attività finalizzate al conseguimento dal risparmio energetico, alle condizioni e modalità previste nel bando stesso, nel capitolato speciale di appalto e disciplinare di gara, per un importo complessivo di €. 996.564,09, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (ai sensi del combinato disposto degli artt. 6, comma primo, lett. c), e 23, comma prima, lett. b), del D. Lgs. n. 157 del 1995), sulla base degli elementi di cui all’art. 5 del disciplinare di gara. Tuttavia, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez I, con la sentenza n. 2720 del 5 agosto 2007, accogliendo il ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto dalla società Elettrocostruzioni Rovigo, terza classificata, annullava l’aggiudicazione, precisando come “(d)all’annullamento degli atti impugnati discende(sse) la vincita della gara da parte della terza graduata Elettrocostruzioni …”, la quale pertanto aveva … titolo a subentrare ad APS Sinergia nell’esecuzione del servizio e di svolgerlo per la sua durata naturale, decorrente … dalla data di stipulazione del relativo contratto in suo favore: stipulazione che, pertanto, è da reputarsi atto dovuto per il Comune di Lusia in esecuzione della presente sentenza, ferma, peraltro restando da parte della stazione appaltante la previa valutazione dell’eventuale anomalia dell’offerta della medesima ricorrente alla luce dell’art. 25 del D.L.vo 17 marzo 1995 n. 157.”. II Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1127 del 25 febbraio 2009, riuniti i separati appelli principali proposti dal Comune di Lusia e dalla Sinergie S.p.A. e decidendo sugli stessi, accoglieva in parte il ricorso di primo grado, limitatamente al quarto motivo di censura, relativo all'erronea applicazione della lex specialis circa la determinazione dei punteggi, dichiarando assorbito l’ulteriore motivo concernente il difetto di motivazione dei punteggi numerici, e riformava in parte la sentenza impugnata, “…dovendosi, da un lato, estendere l'annullamento, disposto in primo grado, anche agli atti di gara compiuti in violazione del corretto criterio di determinazione dei punteggi come sopra indicato e, dall'altro lato, dovendosi rimuovere dal mondo giuridico le statuizioni, recate nella pronuncia appellata, relative al preteso obbligo del Comune di Lusia di stipulare il contratto con la Elettrocostruzioni”, con la precisazione, quanto a quest’ultimo punto, che “…la parziale riforma non lambisce il profilo risarcitorio della controversia, giacché nemmeno in appello può trovare accoglimento la richiesta della Elettrocostruzioni; dovendosi rinnovare in tutto o in parte la gara (secondo modalità rimesse alla determinazione discrezionale della civica amministrazione) e non potendone prevedere l’esito, difetta, allo stato, in capo alla Elettrocostruzioni sia una pretesa all’aggiudicazione sia il titolo a richiedere il ristoro di un’aspettativa che non risulta ancora persa (considerata la durata ventennale dell’affidamento in questione)” ed aggiungendo altresì che “Sotto altro aspetto, occorre puntualizzare che la presente pronuncia travolge anche le prescrizioni conformative dettate dal Tribunale e, in particolare, non trova più fondamento l’enunciato obbligo del Comune di Lusia di stipulare il contratto di appalto con la Elettrocostruzioni…”. Tuttavia, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez. I, con la sentenza n. 1251 del 13 novembre 2013, nella resistenza dell’intimato Comune di Lusia e della controinteressata Sinergie S.p.A., nuovamente adito dalla Elettrocostruzioni Rovigo S.p.A. ha annullato anche questa aggiudicazione, oltre che all’esclusione dalla gara della ricorrente, negando in sintesi che sussista una discrasia tra l’offerta economica e quella tecnica.

In seguito, Sinergie S.p.A. ha chiesto la riforma di tale sentenza, denunciando l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di un unico articolato motivo di gravame, rubricato “Erroneità della sentenza sotto il profilo della non corretta interpretazione ed applicazione della lex specialis della procedura di gara. Erroneità della sentenza sotto il profilo della non corretta valutazione ed interpretazione dei documenti prodotti in giudizio. Erroneità della sentenza per difetto di istruttoria, erroneità dei presupposti, contraddittorietà interna, difetto di motivazione”. I Giudici di Palazzo Spada intervengono sul punto precisando che “La lex specialis (bando e disciplinare di gara) della procedura di appalto concorso indetta dal Comune di Lusia per l’affidamento del servizio integrato inerente la gestione, l’esercizio, la manutenzione ordinaria e straordinaria dell’impianto di pubblica illuminazione comunale, ivi compresa la fornitura di energia elettrica e delle attività (interventi) connessi alla riqualificazione globale, alla messa a norma, al collaudo e all’ammodernamento tecnologico e funzionale ed ampliamento dell’impianto di pubblica illuminazione) prevedeva che l’affidamento sarebbe avvenuto, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 6, comma primo, lett. c), e 23, comma prima, lett. b), del D. Lgs. n. 157/1995, a favore del concorrente che avrebbe ottenuto il miglior punteggio, ossia presentato l’offerta economicamente più vantaggiosa, valutata in base agli elementi riportati all’art. 5 dell’allegato disciplinare di gara” ed inoltre che “non sarebbero state ammesse offerte in aumento al prezzo a base di gara”. Occorre sottolineare, altresì, che “i criteri (fattori ponderali) di valutazione dell’offerta, previsti nel punto 5 del disciplinare di gara, erano: a) capacità economica finanziaria, fino a 3 punti; b) capacità tecnica (attrezzatura – organizzazione dell’impresa), fino a 4 punti; c) tempi e modalità del servizio di gestione, fino a 10 punti; d) progetto esecutivo dei lavori di manutenzione straordinaria, adeguamento normativo ed eventuale ampliamento degli impianti, fino a 29 punti; e) programma di miglioramento della rete ai fini del risparmio energetico e della qualità funzionale del servizio e tempi di attuazione, fino a 25 punti; f) prezzo dell’offerta economica, fino a 16 punti; g) maggior ribasso sull’elenco prezzi, fino a 3 punti” nonché che “per ognuno di essi, eccezion fatta per quelli di cui alle lettere f) ed g), venivano indicati anche ulteriori sub – criteri e sub – pesi; in particolare per quanto attiene al criterio d) - “progetto esecutivo dei lavori di manutenzione straordinaria, adeguamento normativo ed ampliamento degli impianti (massimo punti 29)” era stabilito che la valutazione sarebbe stata “…compiuta con riferimento alla descrizione ed esemplificazione delle attività e procedure previste, coerenza interna del progetto, validità delle soluzioni tecniche.

 Il ricordato disciplinare di gara, al successivo punto 6 (Offerte parziali e varianti), precisava altresì che non erano ammesse la facoltà di presentare offerte parziali e che, invece, erano ammesse variante aggiuntive a condizione che “non comportino ulteriori Oneri Finanziari per l’Amministrazione Comunale ed condizione che sia rispettato l’oggetto del presente bando di cui al precedente articolo”. GMC



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Inserito in data 02/10/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 28 agosto 2014, n. 27

Interpretazione ed applicazione dell’art. 37 comma 13 del Codice dei contratti

L’Adunanza Plenaria è stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla applicabilità o meno degli artt. 37, 41 e 42 del codice dei contratti anche agli appalti di servizi essendo stata appellata la decisione di primo grado che, facendo applicazione dell’orientamento interpretativo formatosi sotto la vigenza del vecchio art. 37 comma 13, aveva accolto il ricorso avverso il provvedimento di aggiudicazione di un appalto di servizi per violazione del principio di corrispondenza tra quote di qualificazione, quote di partecipazione e quote di esecuzione.

Invero il vecchio art. 37, comma 13, del codice dei contratti pubblici disponeva che "i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento".

Successivamente il testo era stato modificato dalla l. 135/2012 attraverso la precisazione l’ambito operativo della norma era limitato ai soli “appalti lavori” (modifica venuta meno ad opera dell’abrogazione ex art. 12 comma 8 d.l. 47/2014).

Con la decisione in commento il Supremo Consesso ha confermato il proprio indirizzo interpretativo espresso con sentenza n. 7 del 30 gennaio 2014 con la quale si era già affermato che, fino all’entrata in vigore del d.l. 47/201, che ha abrogato il comma 13 dell’art. 37 del codice dei contratti, l’obbligo di corrispondenza tra le quote di partecipazione e quelle di esecuzione rimane circoscritto ai soli appalti lavori.

Per gli appalti di servizi e fornitura, dunque, continuerà a trovare applicazione escludivamente il comma 4 del medesimo articolo, che impone alle parti il meno oneroso obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti caso a ciascuna di esse (senza necessità di corrispondenza tra quote di partecipazione e di esecuzione.

A sostegno di tale assunti si invocano sia il tenore letterale della disposizione, sia la finalità di semplificazione degli oneri di dichiarazione dei raggruppamenti di imprese.

Ne consegue che “Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), d.-l. 6 luglio 2012 n. 95, convertito nella legge 7 agosto 2012 n. 135, negli appalti di servizi da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara”. VA



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Inserito in data 02/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 1 ottobre 2014, n. 4868

Varianti introdotte dal P.R.G., condono edilizio ed eccesso di potere

Il Consesso ha avallato la decisione del giudice di merito ritenendo legittimo il provvedimento di diniego di condono edilizio emesso sulla base di una modifica del P.T.P. avvenuta con decreto della soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio, per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico del Lazio.

A tal fine ha ritenuto prive di ogni fondamento le doglianze mosse dall’appellante per violazione di legge, eccesso di potere e disparità di trattamento.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, asseriscono che, premessa la prevalenza dell’interesse alla tutela paesaggistica rispetto a quella urbanistica, come risultante dall’art. 9 della Costituzione, le varianti introdotte al p.r.g. da parte del Comune, volte ad un’azione di recupero di una zona fortemente caratterizzata dall’abusivismo edilizio, “non possono incidere in alcun modo sulla disciplina contenuta nel piano paesistico che deve esse applicato fino alla sua futura ed eventuale modifica”.

Né i precedenti provvedimenti di condono edilizio potrebbero essere invocati a proprio vantaggio, sotto il profilo della disparità di trattamento. Invero,“il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento (…), non può essere dedotto quando viene rivendicata l’applicazione in proprio favore di posizioni giuridiche riconosciute ad altri soggetti in modo illegittimo, in quanto, in applicazione del principio di legalità, la legittimità dell’operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall’eventuale illegittimità compiuta in altra situazione. Un’eventuale disparità non può essere risolta estendendo il trattamento illegittimamente più favorevole ad altri riservato a chi, pur versando in situazione analoga, sia stato legittimamente destinatario di un trattamento meno favorevole” (C.d.S. 2548/13).

Infine, altrettanto priva di fondamento appare la censura secondo la quale il decreto della sovrintendenza, modificativo del P.T.P. risalirebbe ad un periodo successivo a quello della domanda di concessione della sanatoria.

Invero l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 20 emessa il 22 luglio 1999, ha dichiarato che : “La pronuncia dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, in sede di annullamento del concesso nulla - osta in relazione a domanda di sanatoria, deve tener conto del momento in cui deve essere valutata detta domanda, a prescindere dall’epoca di introduzione del vincolo”.

Alla luce di queste considerazioni il Supremo Consesso ha ritenuto legittimo il provvedimento di concessione del condono edilizio a dispetto delle precedenti opere di sanatoria che avevano interessato la zona circostante. VA



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Inserito in data 01/10/2014
TAR EMILIA ROMAGNA – BOLOGNA, SEZ. II, 26 settembre 2014, n. 915

Sulla liberalizzazione delle attività commerciali

L’’art. 3lett. d), della normativa di liberalizzazione delle autorizzazioni di cui al D.L. n. 223 del 2006 prescrive l’abrogazione con effetto immediato delle precedenti disposizioni “…in cui erano previsti limiti alle autorizzazioni aventi ad oggetto quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale.”.

Posto che il sopra richiamato art. 3 del c.d. Decreto “Bersani” si applica a tutte le attività commerciali, il Collegio romagnolo dichiara illegittimo il diniego ad avviare un’attività di vendita di giornali e riviste motivato in base alla circostanza che il piano comunale delle relative rivendite non prevede il rilascio, per una determinata zona, di alcuna autorizzazione per l’apertura di punti vendita non esclusivi.

Il suddetto principio, invero, “è stato successivamente confermato, in ambito europeo, dall’art. 15 della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno, in attuazione del Trattato CE, (in particolare degli artt. 3 e 49 del Trattato), che ha vietato alle autorità nazionali e locali l'applicazione di qualsivoglia misura restrittiva delle nuove aperture di esercizi commerciali, fondata su restrizioni quantitative o territoriali sotto forma, in particolare, di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori. Gli stessi principi sono stati da ultimo confermati dal Decreto Legge n° 201 del 2011 convertito dalla legge n° 214 del 2011, il cui art. 31 stabilisce che, secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali od altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente e dei beni culturali (v. in termini: T.A.R. Veneto, sez. II, 7/2/2012 n. 184)”. EMF



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Inserito in data 01/10/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 settembre 2014, n. 4841

Sulla cessione totale o parziale del diritto di uso dei sepolcri

La giurisprudenza in tema di “ius sepulchri”, ossia il diritto, spettante al titolare di concessione cimiteriale, ad essere tumulato nel sepolcro, “garantisce al concessionario ampi poteri di godimento del bene e si atteggia come un diritto reale nei confronti dei terzi. Ciò significa che, nei rapporti interprivati, la protezione della situazione giuridica è piena, assumendo la fisionomia tipica dei diritti reali assoluti di godimento. Tuttavia, laddove tale facoltà concerna un manufatto costruito su terreno demaniale, lo ius sepulchri non preclude l’esercizio dei poteri autoritativi da parte della pubblica amministrazione concedente, sicché sono configurabili interessi legittimi quando sono emanati atti di autotutela. In questa prospettiva, infatti, dalla demanialità del bene discende l'intrinseca "cedevolezza" del diritto, che trae origine da una concessione amministrativa su bene pubblico (Consiglio Stato, sez. V, 14 giugno 2000 , n. 3313)”.

Peraltro, “come accade per ogni altro tipo di concessione amministrativa di beni o utilità, la posizione giuridica soggettiva del privato titolare della concessione tende a recedere dinnanzi ai poteri dell'amministrazione in ordine ad una diversa conformazione del rapporto”, trattandosi “…di una posizione soggettiva che trova fonte, se non esclusiva, quanto meno prevalente nel provvedimento di concessione”; di guisa che, a fronte di successive determinazioni del concedente, il concessionario può chiedere ogni tutela spettante alla sua posizione di interesse legittimo.

Lo ius sepulchri soggiace, altresì, all'applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Trattasi, invero, di disciplina che “si colloca ad un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico”.

I Giudici di Palazzo Spada hanno anche chiarito che, “una volta costituito il rapporto concessorio, questo può essere disciplinato da una normativa entrata in vigore successivamente, diretta a regolamentare le concrete modalità di esercizio del ius sepulchri, anche con riferimento alla determinazione dall'ambito soggettivo di utilizzazione del bene”. Ciò posto, deve ritenersi non pertinente il richiamo all’art. dell'articolo 11 delle preleggi, in materia di successione delle leggi nel tempo, allorquando “la nuova normativa comunale applicata dall'amministrazione non agisce, retroattivamente, su situazioni giuridiche già compiutamente definite e acquisite, intangibilmente, al patrimonio del titolare, ma detta regole destinate a disciplinare le future vicende dei rapporti concessori, ancorché già costituiti” (v. anche Cons. St., sez. V, 27 agosto 2012, n. 4608).

Alla luce di quanto suddetto, è valido il rapporto concessorio sottoposto alla disciplina regolamentare entrata in vigore successivamente alla costituzione dello stesso, tra cui è ricompresa anche la disposizione sulla “nullità degli atti di cessione totale o parziale del diritto di uso dei sepolcri”. EMF



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Inserito in data 30/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 29 settembre 2014, n. 20448

Crisi familiare: il comodante deve consentire continuazione del godimento dell’immobile

La sentenza in esame si occupa della disciplina applicabile al comodato concesso da un terzo su un proprio immobile perché sia destinato a casa familiare, a seguito di provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso in un giudizio di separazione o divorzio.

Le Sezioni Unite della Cassazione confermano l’orientamento già espresso dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 13603 del 2004, secondo la quale il rapporto resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l'uso previsto nel contratto, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell'art. 1809, comma 2, cc.

Secondo la pronuncia, infatti, le preoccupazioni dell’ordinanza di rimessione possono essere superata con un’attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004.

Anzitutto, essa non intendeva affermare che, una volta concesso un immobile in comodato con destinazione abitativa, si debba sempre riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario. Occorre infatti valutare la sussistenza dell’eventuale pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse quando è stato concesso il bene. Inoltre, si deve verificare l’intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti.

Né può prospettarsi l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. È comprensibile, infatti, che la novità derivante dalla crisi del nucleo familiare porti ad interrogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, ma la risposta non può che rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Occorre però escludere che trovino immeritata tutela i comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare.

Infine, le esigenze del comodante sono comunque soddisfatte dalla corretta ricostruzione della facoltà di recedere per bisogno impreveduto ed urgente. Infatti, la portata del bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, cioè sopravvenuto rispetto alla stipula, e urgente, cioè imminente, attuale, concreto, e non soltanto astrattamente ipotizzabile. Ed inoltre, non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica consente di porre fine al comodato. CDC




Inserito in data 30/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 settembre 2014, n. 4854

Esclusione dalla partecipazione alle gare d’appalto solo per gravi irregolarità fiscali

L’art. 38, comma 1, lett. g), d.lgs. 163/06, nel testo previgente e applicabile al caso esaminato, prevedeva l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi i soggetti “che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”.

La ratio della norma risponde all'esigenza di garantire la PA in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale contrae. Inoltre, essa mira a contemperare la tendenza dell'ordinamento ad ampliare la platea dei soggetti ammessi alle procedure di gara (canone del favor partecipationis), con la necessaria tutela dell'interesse pubblico ad evitare la stipulazione con soggetti gravati da debiti tributari che incidono in modo significativo sulla loro affidabilità.

Anche se solo il nuovo testo normativo richiede l’ulteriore elemento della “gravità” della irregolarità fiscale, la sentenza in esame afferma che, anche secondo il testo previgente, l’interpretazione più conforme alla ratio della norma sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del concorrente e attribuisca rilievo sia all’importo del debito tributario, che non deve essere irrisorio in relazione alla complessiva dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto ravvedimento operoso. CDC



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Inserito in data 29/09/2014
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. IV, 26 settembre 2014, n. 2401

Per la CGE è legittima la proroga automatica delle concessioni sul demanio marittimo?

La sentenza in esame solleva nuovamente la questione della compatibilità comunitaria della legge italiana sulle modalità di attribuzione delle concessioni sul demanio marittimo.

Com’è noto, nel 2008, la Commissione europea aveva aperto una procedura d’infrazione contro lo Stato italiano ritenendo che il diritto di preferenza riconosciuto al concessionario uscente nell’ambito della procedura di affidamento delle concessioni del demanio pubblico marittimo (cd. diritto d’insistenza ex art. 37 c.2 del codice della navigazione) contrastasse con l’art. 43 del Trattato CE, perché determinava una restrizione della libertà di stabilimento.

Conseguentemente, con d.l. n. 194/09, il legislatore italiano aveva disposto l’abrogazione dell’art. 37 c.2 cod. nav. Tuttavia, in sede di conversione era stata inserita una nuova norma, che produceva l’effetto di consentire il rinnovo automatico delle concessioni di sei anni in sei anni.

Con lettera di messa in mora del 2010, la Commissione europea aveva segnalato come la modifica intervenuta in sede di conversione ponesse nuovamente la legge italiana in contrasto col principio della libertà di stabilimento.

Di conseguenza, con L. 217/11, era stato soppresso tale meccanismo di proroga automatica.

Chiusa la procedura d’infrazione nei confronti dello Stato italiano, l’art. 34-duodecies d.l. 179/12 aveva previsto la proroga automatica della durata delle concessioni in cadenza su beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico - ricreative, fino al 31 dicembre 2020.

Nel frattempo, la Corte costituzionale aveva dichiarato l’incostituzionalità di varie leggi regionali che prevedevano il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni in tema di demanio marittimo, perché si ponevano in contrasto coi principi comunitari di libertà di stabilimento e concorrenza e, quindi, in via mediata con l’art. 117 Cost. (Corte cost. nn. 123/11, 171/2013 e 2/14).

Con la sentenza in esame, il Tribunale dubita che il regime di proroga automatica fino al 2020, introdotto dal d.l. 179/12, sia compatibile con i principi comunitari di tutela della concorrenza e, pertanto, solleva innanzi alla C.G.U.E. la seguente questione pregiudiziale d’interpretazione della normativa comunitaria: “I principi della libertà di stabilimento, di non discriminazione e di tutela della concorrenza, di cui agli articoli 49, 56, e 106 del TFUE, nonché il canone di ragionevolezza in essi racchiuso, ostano ad una normativa nazionale che, per effetto di successivi interventi legislativi, determina la reiterata proroga del termine di scadenza di concessioni di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale di rilevanza economica, la cui durata viene incrementata per legge per almeno undici anni, così conservando in via esclusiva il diritto allo sfruttamento a fini economici del bene in capo al medesimo concessionario, nonostante l’intervenuta scadenza del termine di efficacia previsto dalla concessione già rilasciatagli, con conseguente preclusione per gli operatori economici interessati di ogni possibilità di ottenere l’assegnazione del bene all’esito di procedure ad evidenza pubblica”. TM



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Inserito in data 29/09/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 26 settembre 2014, n. 227

Non viola l’art. 117 c.1 Cost la L. 296/2006 in tema di pensioni di reversibilità

La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117 Cost, dei commi 774 e 776 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006.

La disposizione censurata detta una regola interpretativa di una legge previgente, e segnatamente, stabilisce che “per le pensioni di reversibilità sorte a decorrere dall’entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, l’indennità integrativa speciale già in godimento da parte del dante causa, parte integrante del complessivo trattamento pensionistico percepito, è attribuita nella misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità”.

Per il Giudice rimettente, tali disposizioni violerebbero il principio di certezza del diritto e dell’equo processo ex art. 6 C.E.D.U., norme interposte ai sensi dell’art. 117, c. 1, Cost. Ciò in quanto tale disciplina favorirebbe lo Stato nelle controversie in corso, privando i ricorrenti della possibilità di conseguire il riconoscimento della più favorevole liquidazione della pensione di reversibilità, pur in assenza di motivi imperativi d’interesse generale.

Confermando una propria precedente sentenza (n. 1/2011), la Corte costituzionale rigetta la q.l.c., rilevando come tali interventi legislativi sono legittimi in due casi: 1) se imposti da ragioni storiche-epocali; 2) al fine di ristabilire l’interpretazione più coerente con l’intento legislativo. Quest’ultima situazione si è verificata nel caso in esame, posto che con la norma censurata il legislatore ha scelto uno dei possibili significati della norma interpretata, sebbene ascrivibile ad un indirizzo giurisprudenziale minoritario.

Seppure in modo non esplicito, si può ipotizzare che il Giudice delle Leggi abbia ravvisato i motivi imperativi d’interesse generale giustificativi della disciplina de qua nell’ obiettivo di armonizzare e perequare tutti i trattamenti pensionistici, pubblici e privati. TM



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Inserito in data 27/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 23 settembre 2014, n. 19977

Sulla decorrenza del termine di durata dell’equo processo per gli eredi di parte civile

Il processo penale presenta un significativo elemento di differenza rispetto al processo civile costituito dal fatto che alla morte della persona costituitasi parte civile - evento disciplinato dall'art. 111 cod. proc. civ. - in mancanza di specifica disciplina nel codice di rito penale non conseguono gli effetti interruttivi del rapporto processuale, previsti dall'art. 300 cod. proc. civ. ma inapplicabili al processo penale, che è ispirato all'impulso di ufficio. La costituzione resta valida 'ex tunc' e gli eredi del defunto titolare del diritto possono pertanto intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione, ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi. (Cass. pen. 23676/05; Cass. pen. 46200/03; Cass. pen. 460/98).

Né - in virtù del predetto principio dell'immanenza della parte civile - possono integrare comportamento equivalente a revoca tacita o presunta la mancata comparizione in appello e il mancato deposito di conclusioni del difensore che si limiti a depositare solo il certificato di morte della parte civile, in quanto l'art. 82, comma secondo, cod. proc. pen., limita i casi di revoca presunta o tacita della costituzione di parte civile alle sole ipotesi di omessa presentazione delle conclusioni nel corso della discussione in fase di dibattimento di primo grado. (Cass. pen. 15308/09).

In conseguenza di ciò deve ritenersi nel giudizio di equa riparazione il principio secondo cui gli eredi della parte deceduta acquistano la qualità di parte in giudizio al momento della loro costituzione e da tal momento può essere computata nei loro confronti l'eccessiva durata del processo possa applicarsi solo per i processi civili ma non anche per quelli penali posto che in questi gli effetti della costituzione di parte civile si estendono agli eredi senza necessità di una loro costituzione.

Ciò però non sta necessariamente a significare che i presupposti per l'inizio del termine di eccessiva durata del processo per gli eredi decorrano automaticamente dalla data del decesso del loro dante causa e quindi del loro subentro nella qualità di parti civili.

Costituisce principio basilare in tema di equa riparazione per l'eccessiva durata dei processi che il momento a partire dal quale si verifica il patema e lo stato di sofferenza psicologica per la parte deve individuarsi, ai sensi dell'art. 2, comma 2 bis della legge 89/01, nel momento in cui questa ha avuto conoscenza del processo. (ex plurimis Cass. 13803/11).

La giurisprudenza di questa Corte ha infatti costantemente affermato in relazione ai processi civili che, il 'dies a quo' in relazione al quale valutare la durata del processo deve essere normalmente individuato, con riguardo ai processi introdotti con atto di citazione, nel momento della notifica di tale atto, con la quale il processo stesso inizia. (Cass. 6323/11; Cass. 7389/05).

Analogo principio è stato riconosciuto anche riguardo ai processi penali.

Questa Corte ha infatti affermato che nella valutazione della durata di un procedimento penale, il tempo occorso per le indagini preliminari può essere computato esclusivamente a partire dal momento in cui l'indagato abbia avuto la concreta notizia della sua pendenza poiché solo da tale conoscenza sorge la fonte d'ansia e patema suscettibile di riparazione. Se poi detta notizia sia stata acquisita in un momento anteriore alla notificazione del decreto di citazione in giudizio, i ricorrenti sono gravati dall'onere di allegare specificamente quando abbiamo appreso di essere stati assoggettati ad indagine penale. (Cass. 17917/10; Cass. 27239/09)”.

Ne discende, pertanto, che “gli eredi, ancorché subentranti automaticamente nella posizione di parte civile costituita facente capo al de cuius, devono tuttavia allegare e documentare il momento in cui hanno avuto conoscenza dell'esistenza del processo perché è solo a partire da tale momento che per essi inizia il patema e l'interesse ad una rapida soluzione della controversia”.

La mancata osservanza di detto adempimento comporta la decorrenza del termine di durata dell'equo processo “dal momento in cui gli eredi sono intervenuti in giudizio”. EMF




Inserito in data 27/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 settembre 2014, n. 4780

Sulla rimozione della dichiarazione di inizio attività

L’art. 19 legge n. 241 del 1990, in presenza di una d.i.a. illegittima, “consente certamente all’Amministrazione di intervenire anche oltre il termine perentorio di cui all’art. 23, comma 6, d.P.r. n. 380 del 2001, ma solo alle condizioni (e seguendo il procedimento) cui la legge subordina il potere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi e, quindi, tenendo conto, oltre che degli eventuali profili di illegittimità dei lavori assentiti per effetto della d.i.a. ormai perfezionatasi, dell’affidamento ingeneratosi in capo al privato per effetto del decorso del tempo, e, comunque, esternando le ragioni di interesse pubblico a sostegno del provvedimento repressivo”.

Pertanto, deve considerarsi illegittima l’adozione, da parte di un’Amministrazione comunale, di un provvedimento repressivo-inibitorio della d.i.a. (già consolidatasi) oltre il termine perentorio di sessanta giorni dalla presentazione della d.i.a. e senza le garanzie e i presupposti previsti dall’ordinamento per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.

I Giudici di Palazzo Spada, infatti, osservano come la d.i.a. già perfezionatasi “costituisce un titolo abilitativo valido ed efficace (sotto tale profilo equiparabile quoad effectum al rilascio del provvedimento espresso), che può essere rimosso, per espressa previsione legislativa, solo attraverso l’esercizio del potere di autotutela decisoria”. EMF



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Inserito in data 26/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 19665

Datore di lavoro, omissione contributiva e diritto del lavoratore  effettivamente reintegrato

Il massimo Collegio di piazza Cavour dirime un contrasto sorto riguardo all’obbligo del datore di lavoro di provvedere alla ricomposizione della posizione contributiva del lavoratore, limitatamente al lasso di tempo intercorso fra il licenziamento e la effettiva reintegra dello stesso, a seguito della sentenza dichiarativa di illegittimità del recesso datoriale.

La pronuncia è significativa poiché, ricordando la dicotomia codicistica tra nullità ed annullabilità del licenziamento, specifica la differente natura delle pronunce con cui si provvede al riguardo.

Più nel dettaglio, i Giudici distinguono tra l’ipotesi di licenziamento poi dichiarato nullo od inefficace, rispetto al caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo e quindi annullabile.

Nel primo presupposto, come sottolineano i Giudici,  il datore di lavoro è tenuto in ogni caso a ricostruire la posizione contributiva del lavoratore, sì che essa non abbia soluzione di continuità, ed è soggetto alle sanzioni previste dall’articolo 116 – co. 8 – L. n. 388/00 per l'ipotesi dell'omissione contributiva maturata nelle more.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto che questo sia l’effetto conseguente alla natura dichiarativa della pronuncia di nullità/inefficacia del licenziamento - in forza dell'articolo 18 della legge 300/1970 nel testo precedente la Riforma Fornero (Legge 92/2012).

Nel caso, invece, di interruzione ingiustificata del rapporto di lavoro, i Giudici ricordano la natura costitutiva della relativa pronuncia di illegittimità/annullabilità.

In questo caso, all'obbligo datoriale di ricostituire ex tunc la posizione contributiva del lavoratore, non si aggiunge quello di sanzioni civili per l'ipotesi dell'omissione contributiva con riferimento al periodo ricompreso tra la data del licenziamento e l'ordine di reintegrazione.

Il rapporto, pertanto, si ricostituisce de iure anche sul piano previdenziale. CC




Inserito in data 26/09/2014
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 11 settembre 2014, n. 2345

Pareri congruità emessi dai Consigli degli Ordini degli Avvocati e giurisdizione

I Giudici lombardi, aderendo all’orientamento prevalente in materia, conferiscono alla giurisdizione amministrativa le controversie insorte riguardo ad eventuali pareri congruità emessi dai Consigli degli Ordini degli Avvocati.

La conclusione cui approda il Collegio milanese è supportata da due criteri significativi.

In primo luogo, la natura giuridica del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, quale Ente pubblico non economico, giustifica già la devoluzione del relativo contenzioso all’Autorità giurisdizionale amministrativa.

Parimenti, si riconosce natura pubblicistica al cd. parere di congruità rilasciato da tale Organo.

Si tratta, infatti, di un atto soggettivamente ed oggettivamente amministrativo, emesso nell'esercizio di poteri autoritativi.

Ricorda, infatti, il Tribunale lombardo, come già acclarato in altre sedi, che il parere non si esaurisce in una mera certificazione della rispondenza del credito alla tariffa professionale, ma implica, altresì, la valutazione di congruità del quantum.

In presenza, quindi, di un tale esercizio di discrezionalità, oltrechè di una soggettività di matrice pubblicistica, è corretto il radicarsi della giurisdizione amministrativa. CC



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Inserito in data 25/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4784

Sull’indennità di buonuscita dovuta dall’E.N.P.A.S.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei Giudici di Palazzo Spada, il ricorrente, unitamente ad altri appartenenti alle forze di polizia, adiva il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio per ottenere l’accertamento del diritto a vedersi computare, nel calcolo dell’indennità di buonuscita dovuta dall’E.N.P.A.S., anche l’indennità pensionabile prevista dagli art. 43, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121, 2 della legge 20 marzo 1984, n. 34 e 5 del d.P.R. 27 marzo 1984, n. 69.

L’I.N.P.D.A.P., tuttavia, aveva respinto la domanda sul rilievo che l’indennità in oggetto non era assoggettata a contribuzione previdenziale.

Il giudice di primo grado, ha respinto il ricorso richiamando la giurisprudenza formatasi a seguito dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 17 settembre 1996, n. 19, successivamente, è stato proposto ricorso in appello, lamentando sostanzialmente la violazione dell’art. 38, comma 2, del d.P.R. n. 1032 del 1973 e dell’art. 43, comma 3, della legge 1° aprile 1981 n. 121.

Occorre sottolineare che, nel caso in esame, il ricorso è infondato ed il Collegio ha richiamato principalmente quanto affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 17 settembre 1996, n. 19, alla luce della quale “Dal riconosciuto carattere retributivo dell’indennità di polizia, non discende implicitamente che questa debba essere computata ai fini dell’indennità di buonuscita. Di detta indennità è stabilita espressamente soltanto la pensionabilità, ma non sussiste una corrispondenza biunivoca necessaria tra la pensionabilità di un emolumento e la sua inclusione nell’indennità di buonuscita. In effetti, l’indennità di buonuscita corrisposta dall’E.N.P.A.S. agli ex dipendenti dello Stato (R.D. 26 febbraio 1928, n. 619; legge 25 novembre 1957, n. 1139; T.U. delle norme sulle prestazioni previdenziali in favore dei dipendenti civili e militari dello Stato, approvato con d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032; legge 29 aprile 1976, n. 177; legge 20 marzo 1980, n. 75; legge 29 gennaio 1994, n. 87) ha chiaramente una funzione previdenziale (Corte costituzionale, 19 giugno 1979, n. 82) e non costituisce una forma di retribuzione differita, come il trattamento di fine rapporto per i lavoratori privati di cui agli artt. 2120 e 2121 c.c. o come l’indennità di anzianità spettante ai dipendenti degli enti pubblici non economici in forza dell’art. 13 della legge 20 marzo 1975 n. 70. Il Fondo di previdenza che la eroga, infatti, è alimentato anche dai contributi degli stessi iscritti ed è gestito ed amministrato non già dal datore di lavoro (Stato), ma da un terzo soggetto (E.N.P.A.S.) del rapporto previdenziale trilatero. Ora, nell’ambito di un tale assetto giuridico, tipico dell’attuale sistema di previdenza obbligatoria (laddove l’esistenza di leggi speciali comporta la deroga al c.d. principio dell’“automatismo delle prestazioni” di cui all’art. 2116 c.c.) è imprescindibile il nesso sinallagmatico che intercorre tra la contribuzione obbligatoria e la prestazione previdenziale, nel senso che questa non può essere garantita senza quella”.

Ed ancora, “la tecnica impiegata per la determinazione di tali elementi è quella della tassativa enumerazione che viene effettuata, specificatamente e direttamente, dalla legge”.

Il Consiglio di Stato precisa, altresì, che “attualmente la base contributiva di calcolo dell’indennità di buonuscita è costituita dall’80% dello stipendio annuo, della tredicesima mensilità (art. 2 Legge n. 75/1980), dell’indennità integrativa speciale (art. 1 Legge n. 87/1994) e dei soli assegni ed indennità tassativamente indicati dall’art. 38 d.P.R. n. 1032 del 1973, fra le quali non è compresa la c.d. indennità di polizia di cui all’art. 43, terzo comma, della legge 1° aprile 1981, n. 121 ed agli artt. 2 della legge 20 marzo 1984, n. 34 e 5 del d.P.R. 27 marzo 1984, n. 69.

Infatti, sia lo stesso art. 38 che l’art. 2 della legge 20 marzo 1980 n. 75 (che ha espressamente riconosciuto la XIII mensilità come utile ai fini della liquidazione dell’indennità di buonuscita), precisano che possono concorrere a formare la citata base contributiva soltanto gli assegni e le indennità specificatamente indicati, nonché, come norma di chiusura, quelli previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale, mentre le citate disposizioni normative concernenti l’indennità di polizia non contemplano affatto l’utilizzabilità di tale emolumento ai fini previdenziali”.

Emerge, che il termine retribuzione, contenuto nell’art. 38 del testo unico in esame, non è ricomprensivo di “qualsiasi emolumento continuativamente erogato a corrispettivo dell’opera prestata” e che, d’altra parte, la locuzione <<stipendio>> nel pubblico impiego va, in linea di massima, intesa come paga tabellare e non come comprensiva di tutti gli emolumenti erogati con continuità ed a scadenza fissa. Dunque, al fine di “stabilire l’idoneità di un certo compenso a fare parte della base contributiva dell’indennità di buonuscita, ciò che rileva non è il carattere sostanziale di esso (natura retributiva o meno), ma il dato formale e cioè il regime impresso dalla legge a ciascun emolumento”, secondo quanto precisato dal Cons. St., Sez. VI, 3 aprile 1985, n. 121 e 5 novembre 1990, n. 946; Cons. St., Sez. IV, 9 ottobre 1991 n. 783.

A conclusione di quanto esposto, nel caso ivi in oggetto, nessuna disposizione di legge stabilisce la computabilità ai fini dell’indennità di buonuscita dell’indennità di polizia. GMC



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Inserito in data 25/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4785

Annullamento dell’autorizzazione paesaggistica

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada intervengono sullo spinoso argomento concernente le autorizzazioni paesaggistiche.

Ripercorrendo il caso in esame, con sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, è stato respinto un ricorso avverso il decreto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Napoli e Provincia 2007, di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, rilasciata dal Comune di Capri al fine di realizzare una piscina e l’ampliamento di un portico esistente.

Nella suddetta sentenza si riteneva corretta – nonché sufficiente per giustificare l’emanazione del provvedimento gravato – la motivazione riferita alle modalità di realizzazione dell’intervento, tramite “sbalzo in aggetto sul muro di contenimento in pietrame”, quale “elemento del tutto estraneo alle caratteristiche costruttive dell’isola di Capri”, con ulteriore costruzione di un portico chiuso su tre lati, in violazione dell’art. 11, punto 4, del P.T.P. vigente, preclusivo di qualsiasi incremento volumetrico.

L’Amministrazione statale appellata, costituitasi in giudizio, ribadiva la riferibilità dell’atto di annullamento impugnato non solo a difetto di motivazione del nulla osta comunale, ma a “palese violazione di legge”, essendo vietato dal Piano Territoriale Paesistico, nell’area interessata dagli interventi edilizi di cui trattasi, qualsiasi incremento dei volumi esistenti, con sostanziale imposizione di un vincolo di inedificabilità assoluta, preclusivo anche della realizzazione di una piscina, quale manufatto richiedente permesso di costruire, ai sensi degli articoli 3 e 10 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380.

Secondo quanto precisato dal Consiglio di Stato, “la valutazione di legittimità in questione deve ritenersi espressione di un potere non di controllo, ma di attiva co-gestione del vincolo, funzionale all’ “estrema difesa” dello stesso, con conseguente riferibilità di detto potere a qualsiasi vizio di legittimità riscontrabile nella concreta attività di gestione dell’ente territoriale, ivi compreso l’eccesso di potere in ogni figura sintomatica (sviamento, insufficiente motivazione, difetto di istruttoria, illogicità manifesta)”.

Nella situazione in esame, la Soprintendenza, ha espresso una valutazione tecnico-discrezionale in concreto per quanto riguarda la piscina, mentre per il portico ha censurato un incremento volumetrico, non consentito dalla normativa di zona.

Per quanto concerne la piscina, a detta dei Giudici di Palazzo Spada “non possono accogliersi le controdeduzioni comunali che, postulando l’esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta sull’area, vorrebbero introdurre una considerazione di legittimità estranea al provvedimento impugnato, la cui motivazione non può essere integrata in via difensiva. La Soprintendenza non ha infatti contestato l’intervento edilizio in sé, ma le relative modalità di realizzazione, in quanto la piscina, da realizzare su un terrazzamento circostante all’abitazione, comporterebbe – come in precedenza riportato – “uno sbalzo in aggetto sul muro di contenimento in pietrame” e sotto tale esclusivo profilo costituirebbe “elemento del tutto estraneo alle caratteristiche costruttive dell’isola di Capri”.

A diverse conclusioni, invece, il Collegio ritiene di dover pervenire per quanto concerne il porticato.

Invero, si precisa che “nell’area in questione, infatti, sono ammessi come già ricordato solo interventi di riqualificazione estetica degli immobili, ma senza “creazione di nuovi volumi”: la tipologia dei profondi portici già esistenti, come documentata in atti, appare tale da realizzare, almeno dal punto di vista della visibilità e dunque dell’impatto paesaggistico, un ampliamento volumetrico delle costruzioni, nella cui muratura gli stessi vengono ad inserirsi, fino a costituire integrazione in ampliamento della facciata, nonostante le aperture frontali e laterali”. Non avendo il Comune – né lo stesso appellante – segnalato normative, implicanti una specifica regolamentazione derogatoria per i porticati, non resta che applicarsi a questi ultimi la nozione base, utile anche ai fini paesaggistici, di volumetria edilizia.

Alla luce di quanto esposto, nel censurare l’ampliamento del porticato esistente, pertanto, deve ritenersi che la Soprintendenza abbia esercitato un puro e condivisibile controllo di legittimità, “in rapporto al quale non hanno rilievo le censure formali, contenute nel quarto motivo di gravame, ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, che inibisce l’annullamento per vizi di forma degli atti vincolati”.

Concludendo, secondo quanto evidenziato, il Consiglio di Stato ritiene che l’appello debba essere accolto per quanto riguarda la realizzazione della piscina e respinto, invece, con riguardo al porticato. GMC



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Inserito in data 24/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 settembre 2014, n. 19790

Applicabili ai giudizi in corso le norme su dichiarazione di maternità o paternità

L'art. 276 cc, nella versione previgente, stabiliva che la domanda per la dichiarazione di paternità o maternità potesse essere proposta esclusivamente nei confronti del presunto genitore e dei suoi eredi. Al contrario, nell'azione di disconoscimento della paternità o maternità, qualora il presunto padre o la madre o il figlio fossero morti, in mancanza di discendenti diretti, l'azione doveva essere proposta nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice.

La differenza di regime giuridico nelle due azioni, rivolte entrambe a stabilire la verità degli status genitoriali e filiali, aveva destato perplessità in dottrina e in giurisprudenza, anche sotto il profilo della compatibilità con gli artt. 3, 29 e 30 Cost. Si era però infine ritenuto che la limitazione della legittimazione passiva di cui all'art. 276 cc costituisse un'opzione rientrante nella discrezionalità del legislatore.

Nell’attuale formulazione, l'art. 276, primo comma, cc prevede che “la domanda per la dichiarazione di paternità e maternità deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in sua mancanza, nei confronti dei suoi eredi. In loro mancanza, la domanda deve essere proposta nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso”.

La sentenza in esame affronta la questione dell’applicabilità di tale norma ai giudizi in corso.

Essa è regolata dalla disciplina di diritto transitorio di cui all’art. 104 del successivo d.lgs 154/2013, il quale contiene anche regole di diritto intertemporale riguardanti le norme sostanziali della l. 219/2012. Il principio fondamentale è quello dell'applicabilità immediata delle nuove norme, salvo che i rapporti non siano stati definiti con sentenza passata in giudicato prima della data di entrata in vigore della l. 219/2012 (1/1/2013). Il legislatore ha voluto favorire, rispetto alla stabilità dei rapporti preesistenti, l'adeguamento immediato e più esteso possibile (con il solo baluardo del giudicato) della nuova configurazione del rapporto di filiazione.

In particolare, al caso di specie è applicabile il comma settimo del citato art. 104, secondo il quale “Fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell'entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012, n. 219, le disposizioni del codice civile relative al riconoscimento dei figli, come modificate dalla medesima legge, si applicano anche ai figli nati o concepiti anteriormente all'entrata in vigore della stessa”. Fra queste norme immediatamente applicabili, vi è anche l’art. 276 cc, il quale mira a rimuovere gli ostacoli, i limiti ed i pregressi divieti all'accertamento della filiazione, in ossequio all'opzione legislativa di dare preminenza all'interesse del figlio verso la propria discendenza biologica. Questa soluzione è l'unica costituzionalmente sostenibile, creandosi nell'ipotesi opposta una disparità di regime transitorio del tutto ingiustificata, in quanto relativa soltanto a tale norma. CDC




Inserito in data 24/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 settembre 2014, n. 4798

Atti del commissario nella liquidazione coatta amministrativa: giurisdizione del G.A.

La sentenza ribadisce l’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui, con riguardo alle imprese escluse dal fallimento perché soggette alla liquidazione coatta amministrativa (nonché dei soggetti coinvolti dalla procedura), la tutela spetta al giudice amministrativo, sia con riferimento al decreto ministeriale che ordina la liquidazione, sia ai successivi atti posti in essere dal commissario liquidatore. Infatti, gli uni e gli altri sono caratterizzati da un contenuto autoritativo e strumentali alla cura di interessi pubblici, così da fondare soltanto posizioni giuridiche soggettive qualificabili come di interesse legittimo.

Secondo la pronuncia, tali considerazioni sono estensibili anche all’ipotesi (ricorrente nel caso di specie) dell’impugnazione in sede giurisdizionale degli atti con cui i Commissari liquidatori operano ai fini della liquidazione dell’attivo. Ciò è confermato dall’ampiezza dei poteri – di carattere latamente discrezionale – di cui godono i commissari liquidatori in sede di liquidazione dell’attivo ai sensi dell’articolo 210 l.f. Infatti, ai fini della liquidazione dell’attivo, il Commissario non deve attendere la chiusura dello stato passivo per procedere, né resta vincolato ad autorizzazioni o pareri di sorta; eventuali limiti alla sua attività possono essere imposti solo dall'amministrazione centrale. Infine, quanto alle procedure di vendita, il Commissario risulta svincolato dalle forme del III libro del Codice di procedura civile., per cui può procedere sempre a trattativa privata, con la semplice osservanza delle norme in materia di contratti di cui al titolo secondo del IV libro del Codice civile.

Ne segue che gli atti posti in essere dai commissari liquidatori nell’ambito delle procedure di liquidazione coatta amministrativa sono caratterizzati dalla spendita di discrezionalità amministrativa e posti in essere nell’esercizio di poteri conferiti per la tutela di interessi pubblici, pe per cui l’impugnativa avverso tali atti deve essere proposta dinanzi al giudice amministrativo. CDC



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Inserito in data 23/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 settembre 2014, n. 4773

L’AGCM può accettare gli impegni, sebbene gli effetti dell’infrazione siano irreversibili

Secondo i Giudici di Palazzo Spada, gli impegni proposti dall’impresa che ha violato la normativa concorrenziale ex art. 14ter L. 287/90 possono essere accettati dall’AGCM pure a fronte di condotte che hanno consumato i loro effetti e sebbene l’impresa che s’impegna non sia in grado di rimuovere tali effetti retroattivamente.

Infatti, nell’ambito degli strumenti previsti dall’ordinamento a tutela della concorrenza e del mercato, non è possibile sovrapporre il public enforcement (esercitato dall’AGCM) e il private enforcement (esercitato dal giudice civile), trattandosi di strumenti autonomi e distinti, diversi per natura e finalità perseguita. Invero, mentre il public enforcement ha natura punitiva ed è finalizzato a garantire l’interesse pubblico ad un assetto concorrenziale dei mercati, il private enforcement ha natura risarcitoria ed è teso ad assicurare l’interesse del privato vittima di specifiche condotte anticoncorrenziali.

Ne consegue che il l’AGCM può esimersi, mediante l’atto di accettazione degli impegni, dall’accertare l’eventuale infrazione ormai verificatasi in modo irreversibile, quantunque i privati potranno poi far valere tale infrazione innanzi al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno.

D’altronde, altrimenti, si arriverebbe alla inaccettabile e paradossale conclusione di piegare l’esercizio dei poteri di public enforcement alle esigenze proprie del diverso sistema di private enforcement. TM



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Inserito in data 23/09/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, QUINTA SEZIONE - SENTENZA 11 settembre 2014, Causa C-19/13

Aggiudicazione dell’appalto senza pubblicazione del bando e sorte del contratto

Con la presente decisione, la Corte di Lussemburgo risolve due questioni pregiudiziali sollevate dal giudice italiano.

1) La norma interpretata con la prima questione pregiudiziale è l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, della direttiva 89/665, ove si prevede un’eccezione alla regola di cui al medesimo articolo, paragafo 1, lettera a).

Segnatamente, la regola è che l’organo responsabile delle procedure di ricorso dichiara il contratto privo di effetti se l’amministrazione aggiudicatrice ha aggiudicato un appalto senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea senza che ciò fosse consentito a norma della direttiva 2004/18.

L’eccezione consiste nel fatto che la regola suddetta non si applica:

- se l’amministrazione aggiudicatrice ritiene che l’aggiudicazione di un appalto senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea sia consentita a norma della direttiva 2004/18;

- se l’amministrazione aggiudicatrice abbia pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea un avviso del tipo descritto all’articolo 3 bis della direttiva 89/665 in cui ha manifestato l’intenzione di concludere il contratto;

- se il contratto non sia stato concluso prima dello scadere di un termine di almeno dieci giorni civili a decorrere dal giorno successivo alla data di pubblicazione di tale avviso.

Ad avviso della Corte di Giustizia, “l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che, qualora un appalto pubblico sia aggiudicato senza previa pubblicazione di un bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea quando ciò non era consentito a norma della direttiva 2004/18, tale disposizione esclude che il corrispondente contratto sia dichiarato privo di effetti laddove ricorrano le condizioni che essa stessa pone, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.

Pertanto, si rimette al giudice nazionale il compito di stabilire se nel caso concreto ricorrano i presupposti per l’aggiudicazione senza gara.

2) In secondo luogo, si esclude che la disciplina così ricostruita violi il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione) o il principio di non discriminazione.

Sotto il primo profilo, si evidenzia come il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva sia compatibile con la previsione di termini di decadenza, purché questi non siano tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti attribuiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.

Pertanto, il termine di dieci giorni previsto nell’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, terzo trattino è considerato adeguato, essendo teso a contemperare l’interesse dell’impresa lesa con l’interesse alla stabilità giuridica dell’amministrazione aggiudicatrice e dell’impresa stipulante e considerato che, decorso tale termine, l’impresa lesa può comunque proporre ricorso per risarcimento dei danni.

Si esclude anche la violazione del principio di non discriminazione, poiché “l’articolo 2 quinquies, paragrafo 4, secondo trattino, della direttiva 89/665 si propone di garantire che tutti i candidati potenzialmente interessati siano in condizione di venire a conoscenza della decisione dell’amministrazione aggiudicatrice di concludere il contratto senza previa pubblicazione di un bando di gara e, pertanto, di proporre ricorso avverso una decisione del genere perché ne sia verificata la legittimità”. TM



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Inserito in data 22/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 19633

Danno non patrimoniale: risarcimento ai condomini solo se parti nel processo

Le S.U., dopo aver ripercorso il dibattito giurisprudenziale formatosi in merito alla legittimazione o meno dei singoli condomini a richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall’ingiusta protrazione di un procedimento, hanno affermato che <<nel caso di giudizio intentato dal Condominio e del quale, pur trattandosi di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini al condominio, costoro non siano stati parti, spetta esclusivamente al Condominio,  in persona del suo amministratore, a ciò autorizzato da delibera assembleare, far valere il diritto alla equa riparazione per la durata irragionevole di detto giudizio>>.

Invero, l’art. 6 della Convenzione EDU, sì come richiamato dall’art. 2 l. 89/2001, riconosce il diritto alla trattazione delle cause entro un ragionevole lasso di tempo solo con riferimento alle cause “proprie”, ne consegue che requisito imprescindibile per la richiesta ad un equo indennizzo è la qualità di parte nella causa con riferimento alla quale si è verificata la violazione.

La ratio sottesa alla norma in questione risiede nell’esigenza di impedire la duplicazione dei risarcimenti dovuti.

La soluzione adottata dalla Suprema Corte ha evidenziato come, anche in assenza di un espresso riconoscimento della personalità giuridica in capo al condominio, molto spesso qualificato come “ente di gestione”, la riforma legislativa intervenuta in materia (l. 220/2012) abbia esaltato l’autonomia dello stesso e le sue capacità processuali (v. art. 1129 co. 12 n. 4 c.c. che impone una distinta tenuta della gestione del patrimonio del condominio e di quello dei singoli condomini), nonché il riconoscimento di una soggettività giuridica, seppur attenuata.

Rigettata, dunque, la tesi che esclude in modo assoluto il riconoscimento della personalità giuridica in capo al condominio e sulla quale si fonda l’automatismo della qualità di parte processuale dei singoli condomini (cass. 7119/2002) non è più possibile affermare che <<il diritto all’equo indennizzo per la irragionevole durata di un processo non spetti all’ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, in quanto l’eventuale patema d’animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento>> ma, di contro, il condominio appare l’unico legittimato alla presentazione della suddetta richiesta laddove non sia data prova che i singoli condomini abbiano effettivamente assunto la qualità di “parte” nel procedimento all’interno del quale si è verificata la violazione. VA




Inserito in data 22/09/2014
TAR SARDEGNA - CAGLIARI, SEZ. I, 19 settembre 2014, n. 725

Cause di esclusione dalla gara e legittimazione ad agire

Il tribunale di merito è stato chiamato a pronunciarsi in merito ad un ricorso presentato avverso un provvedimento di esclusione di diverse imprese dalla partecipazione ad una gara a procedura aperta, indetta con il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, per la mancata allegazione all’offerta economica del documento di identità.

In primis il Tribunale amministrativo si è pronunciato sulla censura di inammissibilità del ricorso per mancanza di un interesse all’azione sul rilievo che la «non rileva (…)che l’illegittima esclusione dalla gara di alcune imprese partecipanti vulneri innanzi tutto le imprese non ammesse, ben potendo le medesime non avere interesse a far valere giudizialmente tale vulnus ove il calcolo delle probabilità escluda che la riammissione in gara possa far loro conseguire una qualche utilitas. Al contrario, tale illegittimità,(…) è spendibile dagli altri partecipanti alla gara per finalità processuale propria, ove abbia condizionato e direzionato in maniera non corretta l’esito della gara con lesione dell’interesse all’aggiudicazione in proprio favore della gara.» (Cons. Stato, sez. V, 30 settembre 2013, n. 4833).

Sarebbe questa l’ipotesi del caso in esame, laddove l’esclusione delle altre ditte avrebbe impedito la

Corretta determinazione della soglia di rilevanza dell’anomalia, inficiando in tal modo l’esito della gara.

Risolte le questioni preliminari il giudice è entrato nel merito del processo avvallando le ragioni del ricorrente.

La soluzione del giudice di primo grado si fonda sia sul rilievo della mancanza di specificità della lex specilis, la quale non contemplerebbe espressamente la mancata allegazione del documento di identità tra le cause di esclusione; sia sul principio generale di tassatività delle cause di esclusione dalla gara: << l’art. 46 comma 1-bis del Codice dei contratti pubblici consente alle stazioni appaltanti di disporre l’esclusione, oltre che per violazione di prescrizioni normative, solo in ipotesi di incertezza assoluta del contenuto sulla provenienza dell’offerta >>, dovendosi in caso contrario fare ricorso al principio del raggiungimento dello scopo (si veda sul punto C.d.S. 2681/2013). VA



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Inserito in data 21/09/2014
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 17 settembre 2014, n. 893

Decadenza dall’espletamento prove orali: eccesso di potere della Commissione

Il Collegio bolognese si pronuncia a favore di un candidato all’espletamento della prova orale dell’esame di abilitazione alla professione forense, superando le censure mosse a suo carico dalla Commissione esaminatrice.

I componenti di quest’ultima, infatti, a seguito della ricezione del secondo certificato medico presentato dall’odierno ricorrente a sostegno della propria impossibilità a concludere la prova, ne dichiaravano la decadenza dalla stessa.

Il Collegio provvedeva a supportare un tale assunto sulla base della genericità del certificato e della mancata allegazione del referto specialistico da esso richiamato. Di contro, il candidato lamentava il vizio di eccesso di potere in cui sarebbe incorsa la Commissione, in ragione del difetto di istruttoria ex articolo 6 L. 241/90.

Il TAR emiliano, condividendo la posizione del ricorrente, richiama l’orientamento giurisprudenziale costante secondo il quale la Commissione può disattendere le risultanze della certificazione medica (con eventuale soccorso istruttorio ex art. 6 legge 241/90) soltanto previo puntuale controllo da parte di Organo sanitario pubblico, salvo che non risulti in modo inequivocabile la falsità del documento o di quanto ivi attestato.

Tanto non è accaduto nel caso di specie in cui la Commissione non ha svolto alcun accertamento riguardo all’integrità o veridicità del documento, limitandosi a rilevarne genericità ed incompletezza.

In sostanza, prima di pronunciare la decadenza dalle prove a carico del candidato, avrebbe dovuto acclarare la mancata allegazione della diagnosi specialistica e, di conseguenza, l’insufficienza del supporto probatorio prodotto. In difetto di ciò, invece, la Commissione è incorsa in eccesso di potere: è necessario, dunque, annullare l’odierno provvedimento impugnato e sciogliere ogni riserva sulla partecipazione del ricorrente alla prova orale. CC



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Inserito in data 20/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 18 settembre 2014, n. 38343

Dolo eventuale, colpa cosciente e responsabilità vertici aziendali ex D. Lgs 231/01

Le Sezioni Unite penali della Suprema Corte di Cassazione intervengono, con una pronuncia di indubbio rilievo, sulla triste vicenda occorsa, anni addietro, in una nota acciaieria torinese.

Il Massimo Collegio, discostandosi con fermezza dalla sentenza del secondo grado di giudizio, sancisce la responsabilità – ex D. Lgs. 231/01 – dei vertici dell’azienda piemontese, imputando a questi ultimi una pesante condanna per omicidio colposo con sanzioni pecuniarie, nonché la confisca del profitto per equivalente.

I supremi Giudici ricompongono la vicenda, partendo dalla ricostruzione del nesso di causalità e da una differente rilettura dell’elemento psicologico, al punto da approdare ad un esito diverso e di maggiore aggravio per i responsabili dell’azienda.

Con riguardo al primo punto, la Suprema Corte esclude qualsivoglia forma di responsabilità imputabile agli operai, come descritta dalla Corte d’Assise di Appello torinese sulla base di una ritenuta negligenza – da parte di costoro – nell’adozione delle dovute misure precauzionali e sulla conseguente, ritenuta possibilità che – altrimenti – il tremendo epilogo avrebbe potuto essere scongiurato.

Si desume, infatti, dall’odierna pronuncia che “sono infondate le diffuse censure difensive che pongono in luce condotte ritenute scorrette dei lavoratori quali fattori di interruzione del nesso causale o causa di imprevedibilità dell’evento”.

Scrivono ancora i Giudici delle Sezioni Unite della Suprema Corte che «Gli operai non avevano il compito di sorvegliare continuamente l’impianto in tutta la sua lunghezza e non può neppure parlarsi quindi di ritardo nell’intervento di emergenza. Eventuali condotte improprie degli operai erano agevolmente prevedibili in un contesto di forte scadimento dell’efficienza della produzione e della sicurezza delle lavorazioni».

Come si vede, sottolineando l’inefficienza dell’intero apparato aziendale, il sommo Collegio solleva gli operai da responsabilità ed inasprisce, invece, l’atteggiamento punitivo a carico dei responsabili dell’acciaieria.

Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto evitare l’incendio, avvalendosi di un modello organizzativo valido e adoperando, pertanto, le misure precauzionali più adeguate.

Tanto non è accaduto, al punto da spingere i Giudici delle Sezioni Unite a qualificare i vertici aziendali come “aderenti al tragico evento”. Se costoro, infatti, avessero predisposto un contesto aziendale di maggiore sicurezza, il rogo non si sarebbe verificato.

Pertanto, appare non più condivisibile l’idea di un omicidio colposo con colpa cosciente ma, nel ricostruire l’elemento psicologico, la Suprema Corte vi ravvisa un dolo eventuale.

I responsabili, infatti, trascurando la predisposizione dei doverosi meccanismi di sicurezza aziendale, avrebbero sostanzialmente aderito all’evento dannoso, con il conseguente aggravio di responsabilità cui andranno incontro nel c.d. giudizio di appello bis – cui le Sezioni Unite sono tenute a rinviare.

Si attende, pertanto, la riedizione di tale giudizio, nel corso del quale il Collegio d’Assise dovrà confermare il profilarsi di nuovi e più accesi margini di responsabilità ex D. Lgs. 231/01 ed il conseguente inasprimento in sede sanzionatoria, come chiarito dai Massimi Giudici i quali, frattanto, hanno  valorizzato nuovi e significativi profili afferenti all’elelemnto soggettivo del reato. CC




Inserito in data 19/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4702

Sul rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione

Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, l’appellante aveva impugnato dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, il provvedimento con il quale l’Amministrazione gli ha negato il rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione sul presupposto di una riportata condanna ad anni 3, mesi 2, e multa di 14.000,00 €, per cessione di sostanze stupefacenti continuata in concorso, deducendo la violazione dell’art. 5, comma 5, del d. lgs. n. 286/1998.

Il TAR ha respinto il ricorso affermando che “per il combinato disposto degli artt 4, comma 3, e 5, comma 5, del t.u. n. 286/1998, la condanna (anche non definitiva) per un qualsivoglia reato in materia di stupefacenti, non importa se più o meno grave, comporta automaticamente il divieto ope legis del rilascio. Sotto questo profilo, pertanto, il diniego del rinnovo era un atto vincolato”. (Cons. St., Sez. III, 25 settembre 2012, n. 5089).

Tuttavia, l’appellante contesta la sentenza che ha omesso di considerare che il reato commesso “era di lieve entità, riconosciuta dal giudice penale, che ha anche concesso le attenuanti generiche, segno evidnte di un giudizio sulla personalità dello straniero interessato confermato anche dalla ulteriore concessione degli arresti domiciliari per scontare la pena, dal percorso educativo e socio riabilitativo svolto e successivamente dal permesso di esercitare la professione di commerciante ambulante, che comporta continuo contatto con il pubblico. Tutto ciò attesta un giudizio di assoluta mancanza di pericolosità sociale”.

La sentenza, come il provvedimento impugnato, hanno anche ignorato il pregresso radicamento lavorativo e sociale dello straniero e anche gli importanti legami familiari in Italia che ha in Italia, egli ha dunque richiamato quindi l’ampia giurisprudenza che “non giudica legittimo l’automatismo conseguente a condanne per reati ostativi quando il reato è di minore entità e costituisce un episodio un unico e isolato in un contesto di regolarità e radicamento sociale e familiare”.

I giudici di Palazzo Spada, hanno respinto l’istanza cautelare, osservando che “il carattere ostativo al rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno delle condanne in materia di stupefacenti è stabilito dalle disposizioni di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286/1998 e non ravvisando elementi che possono attenuare l’automatismo di tali effetti ai sensi dell’art. 5, comma 5, secondo periodo, del medesimo decreto”.

Infine, l’appello è infondato, confermandosi l’orientamento già espresso e non essendo, nel frattempo, sopravvenuti fatti nuovi né mutamenti legislativi o derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, che possano influire sul carattere automaticamente ostativo della condanna riportata dall’appellante ai sensi delle disposizioni di legge richiamate nella ordinanza medesima. GMC



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Inserito in data 19/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 settembre 2014, n. 4724

Annullamento del bando di concorso

I Giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a pronunciarsi circa l’annullamento di un bando di concorso emanato con decreto del DG del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca.

Nel caso di specie, gli appellati hanno chiesto, al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, l’annullamento del bando suddetto, del 13 luglio 2011, avente ad oggetto, specificamente, l’indizione del concorso per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici, nella parte in cui, all’art. 3, comma 1 (requisiti di ammissione), prescrive (in applicazione dell’art. 1, comma 618, della L. 27 dicembre 2006, n. 296) che il requisito del servizio d’insegnamento effettivamente prestato di almeno cinque anni deve essere maturato dopo la nomina in ruolo, con esclusione, dunque, del complessivo servizio scolastico preruolo, riconosciuto pleno iure ai docenti assunti con contratto a tempo indeterminato in virtù del decreto di ricostruzione della carriera.

Essi – insegnanti di ruolo delle istituzioni scolastiche ed educative statali, in possesso di laurea, che hanno maturato un servizio effettivamente prestato di almeno cinque anni per effetto del decreto di ricostruzione giuridica della carriera e, dunque, cumulando il servizio di ruolo con il servizio preruolo prestato con i contratti a tempo determinato (annuali o fino al termine delle attività didattiche) – hanno fondato la loro domanda sulla interpretazione dell’art. 1, comma 618, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 che ritengono costituzionalmente esatta e aderente ad orientamenti di derivazione comunitaria poiché una diversa interpretazione della stessa norma primaria or ora citata, tale da negare ogni validità, ai fini della partecipazione al concorso per cui è causa, al servizio d’insegnamento preruolo nelle scuole statali, determinerebbe un’insanabile antinomia con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio dell’Unione europea 28 giugno 1999, n. 70.

Ripercorrendo la vicenda, il giudice di primo grado, ha evidenziato che “non basta a giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato il fatto che tale differenza è stata prevista da una norma nazionale generale e astratta quale una legge o un contratto collettivo”. Alla luce della sentenza impugnata, alla non ammissibilità del cumulo del rapporto temporaneo con quello indeterminato “può pervenirsi non già sulla base della mera rilevanza di una naturale diversità dei rapporti ma soltanto ove si configuri una emergente situazione che abbia imposto il ricorso a soluzioni di durata necessariamente temporanea e che deve trasparire da indicazioni rinvenibili nello stesso modulo di assunzione”.

Dunque, “la sentenza ha accolto il ricorso, senza esaminare individualmente le posizioni di ciascun ricorrente, nei confronti di coloro che versassero nelle seguenti condizioni:

a) avessero svolto insegnamenti in posizione non di ruolo a tempo determinato anche prima della assunzione con contratti a tempo indeterminato per periodi utili ai fini del raggiungimento dei complessivi cinque anni che si richiedono;

b) avessero superato le prove dello stesso concorso (preselettive e successive) cui abbiano comunque partecipato anche in virtù dei provvedimenti intervenuti nella fase del giudizio cautelare;

c) avessero presentato, in riferimento ad apposita censura formulata nel ricorso introduttivo, domanda di ammissione anche in forma cartacea, nei quali sensi il Collegio ritiene definibile la stessa censura che i ricorrenti hanno formulato sin dal ricorso introduttivo (secondo motivo). Ha proposto ricorso in appello il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza bis, del 4 settembre 2013, n. 8086.”

L’appello si fonda essenzialmente sulla considerazione secondo la quale “la carriera di dirigente scolastico nelle istituzioni scolastiche ed educative statali è una carriera dirigenziale (come si ricava dalle disposizioni dell’art. 28 del d.lgs. n. 165 del 2001, non per nulla inserite nella sezione dedicata all’accesso alla dirigenza), che non può essere considerata una progressione verticale rispetto alla carriera del personale scolastico ed educativo, trattandosi di un ruolo diverso cui si accede mediante un diverso concorso pubblico. Ne consegue che, nel caso di specie, non si pone affatto un problema di discriminazione tra lavoratori che, con identica professionalità, siano chiamati a svolgere le medesime mansioni nel settore pubblico, e che si distinguano solamente per il fatto di aver stipulato contratti di lavoro diversi con la p.a., poiché, in tal caso, non vi è alcun contratto di lavoro e, conseguentemente, non ricorre un diverso trattamento in costanza di rapporto di lavoro”, ed inoltre, “quel che rileva, nell’odierna vicenda, è esclusivamente la determinazione legislativa dei soggetti che possono accedere ad una certa carriera dirigenziale. (…)”.

Infine, ad accogliere la tesi sostenuta dal TAR Lazio, finiscono con l’essere discriminati i lavoratori a tempo indeterminato, con il riconoscimento di “una preferenza per i docenti non di ruolo”, ragion per cui il ricorso in appello non può trovare accoglimento. GMC



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Inserito in data 18/09/2014
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 16 settembre 2014, n. 1577

 Sul procedimento di cui all’art. 42 bis D.P.R. 327/01

Con la sentenza in epigrafe, i Giudici salernitani sono chiamati ad esprimersi in ordine alla “tutela del privato in presenza di occupazioni che, per quanto in origine legittime, siano divenute sine titulo per mancata adozione, nei termini di legge, di rituale misura ablatoria”.

A tal proposito, deve precisarsi che:

“la c.d. occupazione appropriativa per trasformazione irreversibile dell'immobile, come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, fondato sul principio della accessione c.d. invertita mutuato per analogia dall’art. 938 c.c. … è stata ormai inesorabilmente espunta dal nostro ordinamento, in virtù delle reiterate e decisive pronunzie della Corte di Strasburgo (v., in termini perspicui, Cons. Stato, ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2, cui giova complessivamente rinviare)”;

“di conseguenza, ricondotta la vicenda della occupazione illegittima ad una “ordinaria” ipotesi di illecita ingerenza nella sfera dominicale altrui, al proprietario leso spetteranno (ove si prescinda, per un momento, dalla già ventilata possibilità che l’ente espropriante eserciti il distinto potere di cui all’attuale art. 42 bis, di cui si dirà) tutte le ordinarie azioni a difesa della proprietà e del possesso, non potendo godere la pubblica amministrazione di uno status privilegiato se non in presenza di poteri esercitati in conformità del paradigma legale di riferimento”.

Peraltro, deve osservarsi che “il privato resta, a fronte della illecita ingerenza, proprietario del bene, con la conseguenza che può, anzitutto, attivare (a parte, ovviamente, il risarcimento del danno per il periodo di occupazione) la tutela restitutoria, previa ripristino dello status quo ante…” (v. Cass. sez. I, 23 agosto 2012, n. 14609).

Per tali ragioni, “al privato dovrebbe, in principio, ritenersi preclusa la tutela risarcitoria (naturalmente diversa da quella relativa alla mera occupazione, finché la stessa sia di fatto durata), difettando – ai fini del riconoscimento del diritto al rivendicato controvalore venale del bene – il presupposto della perdita della proprietà”.

Pertanto, può ritenersi sostanzialmente appagante l’eventualità “che l’Amministrazione adotti l’autonomo potere ablatorio codificato dall’art. 42 bis del t.u. n. 327/2001, in quanto: a) per un verso, la legalità dell’azione amministrativa viene, in certo modo, “recuperata” dalla creazione di un (nuovo ed autonomo) titulus adquirendi di natura provvedimentale, munito di idonea base legale e frutto di doverosa e rigorosa ponderazione comparativa degli interessi in gioco, complessivamente intesa alla salvaguardia di quello pubblico concretamente preminente (così superando la logica, stigmatizzata in sede CEDU, dell’occupazione acquisitiva, che consentiva l’acquisto in virtù di un mero comportamento di fatto, per di più concretante fattispecie di illecito); b) per altro verso, si garantisce al privato una tutela piena e satisfattiva (in prospettiva dichiaratamente “indennitaria” piuttosto che “risarcitoria”, non trattandosi, nell’auspicio “ricostruttivo”, per quanto valer possa l’intento qualificatorio trasfuso nella norma, dei conditores, di non più plausibile acquisto ex re illicita, come ancora autorizzava a ritenere la formulazione del previgente art. 43) al conseguimento dell’integrale valore del bene (per giunta maggiorato – a dire il vero, non senza una sottile contraddizione “sistematica” – del pregiudizio non patrimoniale forfetizzato, oltre che, naturalmente, del danno da occupazione), senza neppure precludergli (in tesi astratta) la possibilità di impugnare (se interessato soprattutto alla reintegra) il provvedimento”.

Ciò posto, la giurisprudenza:

“ha ritenuto (così TAR Lecce, sez. I, 24 novembre 2010, n. 2683) che l’irreversibile trasformazione del bene continui a rappresentare fatto idoneo a far acquistare la proprietà alla pubblica amministrazione (non già, peraltro, per il principio dell’accessione invertita, ma in virtù della c.d. specificazione ex art. 940 c.c., consistente nella utilizzazione della altrui “materia” per realizzare una “nuova cosa”)”. Invero, tale ricostruzione è rimasta isolata, stante che la specificazione, quale modo civilistico di acquisto della proprietà a titolo originario, si attaglia alle cose mobili e non a quelle immobili;

“ha ventilato l’applicazione della regola (ordinaria e tradizionale) della accessione ex art. 934 c.c., in forza della quale non solo (come è pacifico) il proprietario delle aree occupate non perde il proprio diritto in conseguenza dell’altrui ingerenza, ma diventa anche il proprietario degli immobili realizzati sul proprio suolo: con il che peraltro – del tutto paradossalmente – il privato sarebbe esposto anche ad un arricchimento “imposto” ed una consequenziale obbligazione indennitaria a suo danno”;

ha statuito (già nella vigenza dell'art. 43) che, “a fronte della domanda risarcitoria, la P.A. avrebbe potuto (alternativamente ma doverosamente) pervenire ad un accordo transattivo ovvero emettere un formale e motivato decreto, con cui disporre o la restituzione dell'area a suo tempo occupata, previa ripristino dello status quo ante, ovvero l'acquisizione coattiva: con il che, in caso di inerzia conseguente al giudicato “ad esito alternativo”, l'interessato avrebbe potuto chiedere, in sede di ottemperanza, l'esecuzione della decisione, per la adozione delle misure consequenziali (rientrando nei poteri del giudice, in tal caso estesi come è noto al merito, la nomina di un commissario ad acta per l’adozione della scelta più opportuna): così Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2007, n. 2582, seguito, tra le altre, da TAR Campania Napoli, sez. V, 28 maggio 2009)”. Trattasi di orientamento che ha ripreso vigore, specie nella giurisprudenza di prime cure, con l’introduzione dell'art. 42 bis D.P.R. 327/2001.

Deve, altresì, rammentarsi “come altra impostazione abbia inteso andare oltre il prospettato esito decisionale, escludendo ogni alternativa, anche quella della restituzione, rendendo non più nascosto ma esplicito e vincolante l'obiettivo di addivenire all'acquisizione: se il provvedimento di acquisizione è (o si vuole che sia) l'unico modo per sistemare la vicenda e la P.A. rimane inerte, vorrà dire che a tale provvedimento si dovrà ineludibilmente pervenire per ordine del giudice, con eventuale esercizio di poteri sostitutivi in sede di esecuzione: in tal caso l'accoglimento del ricorso si risolve, direttamente, in una condanna specifica ad adottare il provvedimento di acquisizione ai sensi dell'art. 42 bis”. Così operando, da un lato, si trasferisce la proprietà e si evita la restituzione e, d'altro lato, si concede indirettamente il risarcimento del danno per equivalente al privato (v., tra le altre, T.A.R. Campania Napoli, Sez. V, 13 gennaio 2012, n. 176; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. II, 23 febbraio 2012, n. 428; T.A.R. Lombardia Brescia, Sez. II, 26 gennaio 2012, n. 115).

E’ evidente come la prospettiva della condanna a provvedere ex art. 42 bis consente, a favore del privato, “di superare in radice ogni problematico rilievo del distinguo tra domanda restitutoria e domanda di risarcimento per equivalente, poiché, quale che sia l'esatto contenuto della domanda, soltanto nella suddetta condanna può risolversi il processo”.

In tale contesto, una recente pronuncia del Consiglio di Stato (la n. 1514 del 16 marzo 2012, resa dalla sez. IV), oltre ad escludere la tutela risarcitoria in assenza di adozione del provvedimento acquisitivo, ha negato che possa darsi luogo (quando, ovviamente, richiesta) a quella restitutoria, in quanto verrebbe eliso di per sé ed automaticamente “il potere (discrezionale e non conculcabile) di acquisizione sanante ex art. 42 bis (non esistendo più la c.d. acquisizione giudiziale consentita dal previgente art. 43, che autorizzava l’Amministrazione ad invocare ope exceptionis la limitazione della domanda alla erogazione del risarcimento del danno, nella prospettiva della futura e “preannunziata” determinazione acquisitiva)”; di guisa che  “la domanda (comunque formulata) è ritenuta accoglibile (avuto riguardo al c.d. principio di atipicità scolpito dall’art. 34 c.p.a.) nei (soli) sensi dalla condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis, restando impregiudicata la scelta discrezionale tra acquisizione sanante (unita al ristoro per la perdita della proprietà e per il periodo di occupazione illegittima) e restituzione (preceduta dalla restitutio in integrum e dal ristoro del solo periodo di occupazione illegittima)”.

Sarebbe, dunque, preferibile strutturare “la tutela del privato nei sensi della condanna (pura) a provvedere, nelle forme del rito avverso il silenzio (in tal senso, per esempio, TAR Campania Napoli, sez. V, 11 gennaio 2012, n. 86, confermata da Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 5207)”. EMF

 

 



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Inserito in data 18/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 16 settembre 2014, n. 19488

Sulla configurabilità dell’atto scritto richiesto “ad substantiam”

Con la pronuncia in esame, gli Ermellini affermano che “ai fini della configurabilità dell'atto scritto richiesto 'ad substantiam' per la validità di una compravendita immobiliare, occorre che in esso risulti inequivocabilmente la manifestazione specifica della volontà di concludere il suddetto contratto, con la conseguenza che non è possibile ricorrere ad elementi esterni all'atto scritto per accertare l'esistenza di tale volontà”.

A tal proposito, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che “la manifestazione scritta della volontà di uno dei contraenti non può essere sostituita da una dichiarazione confessoria dell'altra parte, non valendo tale dichiarazione né quale elemento integrante il contratto, né - quand'anche contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto - come prova del medesimo (Cass. 28-5-1997 n. 4709; Cass. 18-6-2003 n. 9687; Cass. 7-4-2005 n. 7274)”. EMF




Inserito in data 17/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 12 settembre 2014, n. 19319

Esclusa l’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione omologato

La sentenza ribadisce l’orientamento (già espresso da Cass 17607/2033) per cui, anche se non si può dubitare della natura negoziale dell'accordo di separazione consensuale tra coniugi, e pur non essendo ravvisabile, nell'atto di omologazione, una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti, è esclusa l’impugnabilità per simulazione dell'accordo di separazione una volta omologato.

Infatti, l'iniziativa processuale diretta ad acquisire l'omologazione si risolve in una iniziativa nel senso della efficacia della separazione, che vale a superare il precedente accordo simulatorio, ponendosi in antitesi con esso. È evidentemente insostenibile, del resto, che i coniugi possano "disvolere" con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso "volere" l'emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione. CDC




Inserito in data 17/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 settembre 2014, n. 4674

Iter evolutivo della responsabilità precontrattuale della PA; quantificazione del danno

La sentenza affronta, fra l’altro, il tema della responsabilità precontrattuale della PA, istituto che trova regolamentazione nell’art. 1337 cc e di cui è delineato l’iter evolutivo.

Fino alla fine degli anni ’50, si riteneva non configurabile una tale forma di responsabilità in capo alla PA, per due ragioni: la PA non poteva, nel corso della sua attività, compiere atti illeciti, essendo la sua attività preordinata al raggiungimento di un interesse pubblico; l’indagine del giudice ordinario si sarebbe trasformata in un inammissibile sindacato giudiziale sulle modalità di esercizio dei poteri discrezionali.

Con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1675/1961 è stata riconosciuta, per la prima volta, la configurabilità della responsabilità precontrattuale della PA. Ciò poteva valere con riferimento a due sole ipotesi: ingiustificato recesso da una trattativa privata (c.d. pura) e violazione del dovere di correttezza e buona fede, nel rapporto instauratosi successivamente all’aggiudicazione della gara (es.: omissione o ritardo nell’approvazione del contratto). Solo in queste ipotesi, infatti, si riteneva che la PA si spogliasse dei propri doveri pubblicistici ed operasse come un qualunque altro soggetto. Al contrario, la responsabilità precontrattuale della PA non poteva configurarsi nell’ipotesi di pubblico incanto e di licitazione privata.

Con la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 6/2005 è stata affermata la responsabilità precontrattuale anche nell’ipotesi di svolgimento di attività amministrativa legittima, la quale può essere lesiva del principio di affidamento e buona fede.

Da ultimo, la giurisprudenza amministrativa ha altresì affermato la possibilità della configurazione di responsabilità precontrattuale della PA anche in presenza di un provvedimento amministrativo illegittimo, ove il comportamento della PA sia anche contrario ai principi di correttezza e buona fede e il danneggiato non chieda il risarcimento per lesione del bene della vita. Ciò si ricollega alla distinzione tra regole “di validità” e “di condotta”, le quali operano su piani distinti: mentre la violazione delle prime comporta illegittimità e annullabilità del provvedimento, la violazione delle seconde dà luogo a responsabilità precontrattuale.

Quanto alla quantificazione del danno, esso deve ritenersi limitato all’interesse negativo, comprensivo, però, sia del danno emergente sia del lucro cessante. Quindi, in caso di responsabilità precontrattuale per mancata stipula di un contratto d’appalto o in relazione all’invalidità dello stesso, esso comprende le spese sostenute dall’impresa per aver partecipato alla gara (danno emergente), ma anche la perdita di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti altrettanto o maggiormente vantaggiosi (lucro cessante), con esclusione del mancato guadagno che sarebbe derivato dalla stipulazione ed esecuzione del contratto non concluso.

Per ottenere il risarcimento del lucro cessante, è necessario che il danneggiato dimostri, anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate, la sussistenza di un valido nesso causale tra la condotta lesiva e la ragionevole probabilità del conseguimento del vantaggio alternativo perduto (nella specie: aggiudicazione di altri appalti). Secondo la giurisprudenza amministrativa, si richiede a tal fine la produzione delle dichiarazioni formulate dalla ditta di rinuncia alla prosecuzione della partecipazione a gare nelle quali aveva presentato domanda, mentre non possono ritenersi sufficienti eventuali dichiarazioni con cui la parte ha rinunciato a partecipare a gare d’appalto “per impegni in precedenza assunti” in quanto in queste ultime manca l’elemento della concretezza delle opportunità contrattuali perdute. CDC



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Inserito in data 16/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4711

Penalità di mora in caso di giudicato di condanna al pagamento di una somma di denaro

Quanto alla domanda relativa alla c.d. penalità di mora (astreinte), ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., il Collegio deve tener conto che la prevalente giurisprudenza ha risolto in senso positivo la questione dell’esperibilità dell’istituto anche quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro (ciò, essenzialmente sulla base del rilievo secondo il quale l’istituto assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria, in quanto non è volto a riparare il pregiudizio cagionato dalla non esecuzione della sentenza ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento)”.

Per ciò che concerne i presupposti previsti dall’art. 114, comma 4, lettera e), nel caso in esame l’applicazione della penalità non sembra poter determinare un effetto “manifestamente iniquo”, considerato che l’inadempimento, dopo l’annullamento dell’interdittiva, si è protratto a lungo senza (che, come esposto, sia stata in questa sede prospettata, né risulti altrimenti) alcuna giustificazione e che i comportamenti imposti dalla sentenza non presentano particolare complessità, né riguardano interessi sensibili dell'Amministrazione debitrice; parimenti, non sono state rappresentate, né comunque si ravvisano “altre ragioni ostative” all’applicazione della sanzione pecuniaria”.

Poiché, peraltro, la misura compulsoria, strumento di coercizione indiretta dell’esecuzione del giudicato, viene richiesta dalla azienda ricorrente cumulativamente alla nomina del commissario ad acta, strumento di diretta esecuzione in via surrogatoria, il Collegio ritiene di accordare all’impresa ricorrente una penalità di mora, […] soltanto a decorrere dalla scadenza del termine di trenta giorni assegnato alla Regione per l’adempimento dell’obbligo suindicato e fino all’insediamento del commissario ad acta incaricato di provvedere in via sostitutiva […] o all’integrale effettivo pagamento di quanto dovuto da parte della Regione, se antecedente”. TM



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Inserito in data 16/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2014, n. 4713

Diritto alla maggiore retribuzione per l’esercizio di fatto delle mansioni superiori

Nel pubblico impiego, “per giurisprudenza consolidata l’esercizio di fatto delle mansioni superiori (quand’anche la prestazione sia incontroversa, come nella fattispecie) non comporta il diritto alla maggiore retribuzione, se non quando (e nei limiti in cui) vi sia stato un formale atto di incarico per la copertura di un posto vacante in organico. In questo contesto, per “atto formale” si intende un atto proveniente non semplicemente da un superiore gerarchico (come nel caso degli ordini di servizio) bensì dall’organo competente ad adottare i provvedimenti in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale. Ed invero, perché l’incarico possa produrre effetto anche in ordine al trattamento economico dell’impiegato, è necessario che l’organo che lo conferisce sia competente, appunto, ad emanare atti che incidono sul bilancio dell’ente e sulle previsioni di spesa; e possa assumersene la relativa responsabilità”. TM



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Inserito in data 15/09/2014
CORTE DEI CONTI - SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE PER IL LAZIO - SENTENZA 10 settembre 2014, n. 665

Sulla responsabilità per danno erariale dei dirigenti

La Corte dei Conti ha condannato due dirigenti alla rifusione del danno erariale causato all’INPDAP a seguito della condanna della stessa, ad opera del giudice del lavoro, al pagamento delle differenze retributive spettanti ai lavoratori per le superiori mansioni dirigenziali espletate in esecuzione del conferimento di incarichi di reggenza.

Dopo aver rigettato le eccezioni di prescrizione e di difetto di giurisdizione rispettivamente sul rilievo della decorrenza del dies a quo dalla sentenza di condanna, non già da quello del conferimento dell’incarico (momento in cui si è effettivamente verificato il danno), e che “l’indagine sulla giurisdizione ha per oggetto il petitum e la causa petendi, cioè le ragioni della pretesa, mentre ogni questione attinente l’effettiva sussistenza dei concreti elementi di imputazione della correlata responsabilità si riflette sul merito”, la Corte ha proceduto all’esame delle questioni di fatto.

Il Collegio ha osservato che la contestazione della procura attiene alle modalità con cui la P.A., nella persona dei propri dirigenti, ha esercitato le proprie funzioni, contravvenendo a quelli che sono i limiti di legge.

Nel caso di specie, infatti, i convenuti, al fine di rispondere alle esigenze di riorganizzazione dell’istituto a seguito di vari trasferimenti di personale e funzioni, avevano proceduto all’attribuzione di incarichi di reggenza senza procedere alla determinazione del periodo di durata degli stessi il quale, di fatto, si era protratto ben oltre il termine di 12 mesi tassativamente fissato dalla legge.

Il meccanismo previsto dalla legge ha carattere intrinsecamente temporaneo in quanto preordinato alla copertura di carenze di organico per il periodo strettamente necessario all’espletamento delle procedure ordinarie.

Invero, laddove la suddetta temporaneità non venisse rispettata si verrebbe a creare una consolidazione di fatto delle posizioni conferite in violazione delle leggi di attribuzione degli incarichi e con le generali regole sull’organizzazione amministrativa, quale quella relativa alla necessaria indizione di concorsi pubblici per assunzione di specifici profili professionali, a garanzia della quale è posto il divieto di cui all’art. 52 del D.lgs. n. 165/2001. “Di tale garanzia è fatto carico ai soggetti che, per le loro competenze, sono in grado di incidere sull’esistenza e sulla protrazione degli incarichi in questione, i quali devono porre in essere le condizioni affinché gli incarichi conferiti rimangano entro i limiti di legge”.

Invero, a parere della Corte dei Conti, il termine espressamente previsto dalla legge rileva solo ai fini della legittimità o meno del conferimento dell’incarico, non incidendo direttamente sulla validità dello stesso. Pertanto solo la fissazione del termine di durata del conferimento ad opera del dirigente è in grado di evitare il risultato contrario alla legge.

A ben vedere, dunque, ai dirigenti è assegnata una funzione di garanzia che nel caso di specie non è stata svolta, dando luogo ad una responsabilità quanto meno colposa degli stessi: di tipo commissivo per il dirigente che ha conferito l’incarico; omissiva per il suo successore che non ha provveduto alla rimozione dello stesso.

Inoltre a parere del Collegio “la circostanza che sulle determinazioni di incarico sia stata apposta da parte del D.G la sigla […] non costituisce una esimente, né per la conferente gli incarichi, né per il suo successore, in quanto entrambi erano i soggetti direttamente ed unicamente investiti delle funzioni e competenze in merito all’attribuzione degli incarichi di reggenza ed alla relativa gestione, avendo detti provvedimenti diretta efficacia solo per effetto della firma del dirigente Generale della D.C.S.I. all’interno della quale essi sono stati disposti”.

Parimenti priva di ogni fondamento è apparsa la tesi difensiva che escludeva la configurabilità del danno a seguito dell’erogazione della differenza retributiva in quanto relativa ad un’indennità contrattualmente prevista per il personale direttivo cui siano conferiti mansioni dirigenziali e non quale corrispettivo per le superiori mansioni.

Invero, ritiene il Collegio, “la circostanza che tale emolumento sia previsto contrattualmente, fatto questo che ha costituito titolo per il diritto dei dipendenti alla liquidazione delle somme in questione, non comporta necessariamente che sempre ed in ogni caso la sua corresponsione sia lecita, nel senso che essa non costituisca un danno erariale, come infatti accade nelle ipotesi in cui l’incarico sia stato conferito o sia proseguito in violazione dei termini di legge”. Inoltre nel caso di specie, in considerazione dei più stringenti requisiti richiesti per l’attribuzione delle funzioni dirigenziali, non sarebbe nemmeno possibile una valutazione dell’utilità derivante dall’effettiva prestazione dell’attività prestata dai dipendenti incaricati. Tale valutazione, infatti, è subordinata all’esistenza di una previsione legislativa che indichi i suddetti requisiti dovendosi, pertanto negare  rilevanza alle assegnazioni di mansioni superiori disposte oltre i casi previsti dalle citate disposizioni, al punto da sancirne la nullità. VA



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Inserito in data 15/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 settembre 2014, n. 37596

Molestie su social network e nozione di “luogo aperto al pubblico

La Suprema Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’applicabilità dell’art. 660 del codice penale ai casi di molestia perpetrati mediante l’uso dei social network.

Più precisamente ci si è interrogati sulla riconducibilità degli stessi all’interno del concetto di “luogo pubblico o aperto al pubblico” quale locus commissi delicti, siccome richiesto dalla norma in questione.

Il Collegio ha dichiarato che la possibilità di considerare un luogo privato,  pubblico (inteso quale “luogo di fatto continuamente libero a tutti o a un numero indeterminato di persone”) o aperto al pubblico (quale “luogo cui un numero indeterminato di persone o intere categorie possono accedere senza limiti”) è una questione di fatto da risolversi in considerazione delle concrete modalità che disciplinano quel determinato luogo.

La Suprema Corte, peraltro, ha ricordato che, nel rispetto del principio di legalità e tassatività, non è possibile estendere analogicamente l’applicazione della norma in commento equiparando l’uso del telefono ai mezzi telematici. Nel caso di specie, inoltre, i fatti contestati erano stati commessi mediante l’uso della chat-line (dunque mediante messaggi privati) e non attraverso la pubblicazione degli stessi nella c.d. bacheca, potenzialmente accessibile a tutti.

Tuttavia gli Ermellini, pur avallando il ricorso avverso la sentenza di condanna pronunciata in secondo grado, hanno dato vita ad un’importante intervento interpretativo che ha messo in debita considerazione la diffusione del fenomeno. La Suprema Corte ha così affermato che “la riconducibilità delle condotte alla fattispecie di cui all’art. 660 c.p. non dipenderebbe tanto dalla assimilabilità della comunicazione telematica alla comunicazione telefonica, quanto dalla natura stessa di “luogo” virtuale aperto a chiunque utilizzi la rete, di un social network o community quale facebook”, assimilato ad una “piazza virtuale”.

Il Collegio, infatti, ricorda che, se è vero che il nostro ordinamento esclude la possibilità di applicare in via analogica le norme penali, è altresì vero che ne è ammessa un’interpretazione evolutiva che riesca ad adattare le stesse alla realtà storica e culturale del tempo tenendo conto della ratio in esse sottesa.

Sulla base di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di condanna emessa in secondo grado al fine di procedere ad una più attenta disamina dei fatti alla luce dei principi sopra esposti. VA




Inserito in data 14/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 settembre 2014, n. 4662

Sulle modifiche introdotte dal Decreto Sviluppo alla norma sul soccorso istruttorio

La norma sul soccorso istruttorio (ex art. 46 D. Lgs. 163/2006, come modificato dal D. L. 70/2011) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato con la sentenza n. 9 del 2014 dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, “nel senso che occorre tenere separati i concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione documentale: la prima, consistendo nel «completare dichiarazioni o documenti già presentati» dall’operatore economico, è ammessa, per i soli requisiti generali, al fine assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della massima partecipazione; la seconda, consistendo nell’introdurre nel procedimento nuovi documenti, è vietata per garantire il principio della parità di trattamento. La distinzione è superabile, si afferma sempre nella citata sentenza, in presenza di «clausole ambigue» che autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante integrazione documentale”.

Pertanto, “le prescrizioni contenute nel bando di gara che contengono clausole contrarie alla suddetta norma imperativa, così come interpretata, devono ritenersi nulle. Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una causa di esclusione non consentita dalla legge”.

Ciò posto, il Supremo Consesso ha ritenuto che, “in ragione della valenza innovativa dell’art. 46 rispetto ai precedenti orientamenti della giurisprudenza, lo stesso non possa trovare applicazione in relazione: i) alle procedure disciplinate dal d.lgs. n. 163 del 2006 prima dell’entrata in vigore del decreto stesso (14 maggio 2011); ii) alle procedure selettive non disciplinate direttamente o indirettamente (per autovincolo dell’amministrazione procedente) dal d.lgs. n. 163 del 2006”. EMF



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Inserito in data 14/09/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - TERZA SEZIONE, SENTENZA 10 settembre 2014 Causa C-491/13

Cittadini di Paesi terzi: diritto a permessi per motivi di studio

La Corte del Lussemburgo, intervenendo riguardo alla vicenda di un cittadino tunisino intento a proseguire i propri studi in Germania, chiarisce il ruolo di ciascuno Stato membro della Comunità – come previsto dalla Direttiva 2004/114/CE del Consiglio Europeo del 13 dicembre 2004.

In primo luogo, il Collegio individua, nel potenziale pregiudizio all’ordine pubblico ed alla sicurezza e sanità della Nazione, il principale limite al rilascio incondizionato di permessi di soggiorno per motivi di studio a cittadini provenienti da Paesi esterni alla Comunità europea.

Specifica, al tempo stesso, che – al di fuori di ipotesi simili - è comunque necessario delimitare la discrezionalità di ciascuno Stato nel respingere le domande di visto proposte dagli studenti extracomunitari. Occorre effettuare, in sostanza,  una ponderazione tra il perseguimento dei legittimi obiettivi di ciascuna Nazione ed i rischi connessi ad un impiego abusivo della Direttiva.

Si creerebbe, altrimenti, un’area di valutazione insindacabile talmente vasta da deflazionare il valore della Fonte del 2004, il cui scopo ultimo è, per l’appunto, quello di fare dell’Europa un centro di grande eccellenza universitaria.

I Giudici, pertanto, circoscrivendo l’area di intervento di ciascuno Stato alla valutazione delle condizioni già siglate dalla Direttiva, non consentono l’inserimento di requisiti di ammissione ultronei che, altrimenti, inciderebbero sulla realizzazione di uno spazio universitario comune – cui la Direttiva è, da sempre, rivolta. CC

 




Inserito in data 13/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2014, n. 4578

In materia di appalti pubblici le soluzioni migliorative vanno distinte dalle varianti

“Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in materia di gare pubbliche da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggioso, le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti: infatti le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione, mentre le seconde si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla Pubblica amministrazione (Cons. St., sez. V, 20 febbraio 2014, n. 814; 24 ottobre 2013, n. 5160).

E’ stato anche puntualizzato che le varianti progettuali migliorative riguardanti le modalità esecutive dell'opera o del servizio sono ammesse, purché non si traducano in una diversa ideazione dell'oggetto del contratto (Cons. St., sez. V, 17 settembre 2012, n. 4916)”. EMF

 

 



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Inserito in data 12/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2014, n. 4618

Diritto a fruire dei riposi giornalieri ex art. 40 T.U. 151/2001

Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada esaminano la questione concernente l'assimilazione dell'attività lavorativa all'attività domestica, richiamando altresì alcune pronunce della Suprema Corte in materia.

Specificamente, con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, l'appellante ha chiesto il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, previo annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, del 12.12.2012, con il quale l’Amministrazione resistente ha respinto l’istanza volta al godimento dei riposi stessi, nonché il pagamento delle somme corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate per mancata fruizione di detti riposi.

In primo grado, il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga, laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente”.

I giudici di Palazzo Spada, facendo leva sul principio espresso con sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 – che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, palesava la piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente – osservano che l’opposto diniego si riveli illegittimo.

Specificamente, quella esaminata è “una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione”, dunque, non può che valorizzarsi la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato.

Infine, a sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione, dev'essere altresì richiamata la pronuncia della Suprema Corte n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Carta costituzionale. GMC

 

 



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Inserito in data 12/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2014, n. 4619

Sul provvedimento di espulsione di stranieri extracomunitari

Con la pronuncia in epigrafe, i giudici di Palazzo Spada si occupano del provvedimento di nuova reiezione della dichiarazione di emersione di lavoro irregolare resa, ai sensi dell'art. 1 del d.l. 9 settembre 2002 n. 195, in favore di un lavoratore subordinato cittadino nigeriano.

Secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato, “il diniego si basa, in fatto, sui seguenti elementi rappresentati nella nota 14 maggio 2005 della Questura di Ravenna:

a) oltre alla pendenza di procedimento penale presso il Tribunale di Ravenna (pendenza che aveva dato luogo al precedente diniego, contestualmente revocato per l’intervento della sentenza 10 febbraio 2005 n. 78 della Corte costituzionale, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1, co. 8, lett. c, del d.l. n. 195 del 2002 nella parte prevedente l’automatica causa ostativa dell’esistenza di denuncia per uno dei reati di cui agli artt. 380 e 381 cod. proc. pen.), la sentenza 11 marzo 2004 della Corte di appello di Torino, di condanna ad un anno di reclusione, pena sospesa, per il reato di abbandono di minori (art. 591 cod. pen.), nonché la sentenza 10 maggio 2005 del Tribunale di Ravenna, di condanna ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. a 15 giorni di reclusione, sostituita da multa, per i reati di false dichiarazioni a pubblico ufficiale e sostituzione di persona (artt. 495 e 494 cod. pen.);

b) due espulsioni emesse dal Prefetto di Viterbo il 9 novembre 1992 (con l’alias -OMISSIS-) e dal Prefetto di Ravenna il 20 giugno 2002, nonché rientro in Italia senza la prescritta autorizzazione dopo aver ottemperato all’intimazione, come riferito e documentato dallo stesso cittadino nigeriano”.

Il Prefetto di Campobasso, ha posto a base del diniego l’art. 1, co. 8, lett. a), del d.l. n. 195 del 2002, il quale dispone che “la legalizzazione del lavoro irregolare non si applica ai rapporti di lavoro riguardanti lavoratori extracomunitari “a) nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno, salvo che sussistano le condizioni per la revoca del provvedimento in presenza di circostanze obiettive riguardanti l'inserimento sociale”.

Ed ancora, la revoca, fermi restando i casi di esclusione di cui alle lettere b) e c), non può essere in disposta nell'ipotesi in cui il lavoratore extracomunitario sia o sia stato sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo che non si sia concluso con un provvedimento che abbia dichiarato che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l'interessato non lo ha commesso, ovvero risulti destinatario di un provvedimento di espulsione mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica, ovvero abbia lasciato il territorio nazionale e si trovi nelle condizioni di cui all'articolo 13, comma 13, del testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998, e successive modificazioni.

Nel caso di specie, s'è ritenuto che sussistessero tutti i presupposti richiesti: la presenza di espulsione (nella specie due) per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno e la impossibilità di revoca dell’espulsione per entrambe le ipotesi previste, cioè sia per la sottoposizione a procedimento penale per delitto non colposo che non sia concluso con la dichiarazione che il fatto non sussiste o non costituisce reato o l’interessato non lo ha commesso (nella specie le due citate condanne), sia perché a seguito dell’espulsione l’interessato ha lasciato l’Italia e poi vi è rientrato in assenza della prescritta autorizzazione.

Dunque, se è vero che è irrilevante che le sentenze di cui trattasi siano state emesse ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. (c.d. patteggiamento) perché pur sempre di condanna, vale a dire relative a procedimenti penali conclusi diversamente da quanto la norma prescrive, è peraltro vero che non sussiste il principale presupposto della esistenza di provvedimenti di espulsione per motivi diversi dal mancato rinnovo del permesso di soggiorno. GMC



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Inserito in data 11/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 settembre 2014, n. 4586

Responsabilità PA: irrilevanza dell’elemento soggettivo e risarcimento per equivalente

I Giudici della quinta Sezione, con la pronuncia in oggetto, riepilogano gli aspetti essenziali della responsabilità di un’Amministrazione in sede di appalti pubblici.

In primo luogo, confermando la doglianza della ditta appellante, il Collegio ricorda l’irrilevanza dell’elemento soggettivo posto che, in materia di appalti pubblici, la colpa dell’Amministrazione sarebbe rinvenibile in re ipsa, una volta accertata l’illegittimità degli atti da questa posti in essere.

Un simile traguardo, fortemente voluto dalla giurisprudenza comunitaria e, conseguentemente recepito da quella interna, si spiega alla luce dei principi di effettività e pienezza della tutela, nonché di equivalenza delle condizioni di partecipazione che, altrimenti, rischierebbero di essere vulnerate laddove ciascuno Stato perseguisse il rimedio risarcitorio e sanzionatorio secondo criteri propri.

Ricorda il Collegio, infatti, che “La disciplina della concorrenza è rivolta essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla Pubblica Amministrazione l’obbligo di tenere un comportamento verso i concorrenti nelle gare pubbliche; tale intento rischierebbe con ogni probabilità di essere frustrato da una disciplina nazionale che subordinasse l’ottenimento del risarcimento dei danni, da parte dell’offerente offeso, al previo positivo riscontro dell’elemento soggettivo della responsabilità della Pubblica Amministrazione”.

E, pertanto, si sottolinea ancora che “L’ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva è l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti dai principi caratterizzati da una più larga acquisizione, poiché il riavvicinamento e l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello della responsabilità piena della P.A. senza aree di franchigia.

D’altra parte, proseguono i Giudici della quinta Sezione, la mancata ricerca della colpa – in capo all’Amministrazione appaltante - si spiega, altresì, al fine di rendere più semplice l’eventuale pretesa risarcitoria vantata dal candidato estromesso.

La richiesta di una forfettizzazione monetaria, ove – come avviene di solito – la riedizione del potere amministrativo fosse difficilmente realizzabile, non potrebbe, infatti, essere ostacolata dalla prova circa la sussistenza o meno di un elemento soggettivo.

Si rischierebbe, infatti, di far diventare il risarcimento per equivalente, residuale rispetto a quello in forma specifica, ma di maggiore applicazione data la più frequente impraticabilità di quest’ultimo, una via impervia, con il serio pregiudizio, incombente sul privato, di rimanere sprovvisto di qualsivoglia forma di tutela. CC



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Inserito in data 11/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 settembre 2014, n. 4632

Delimitata la nozione di errore di fatto revocatorio ex artt. 106 CpA e 395 n. 4) cpc

La pronuncia è significativa perché, ripercorrendo la vicenda oggetto dell’odierna controversia, evidenzia gli aspetti essenziali riguardo al rimedio impugnatorio della revocazione di sentenza.

Più nel dettaglio, il Collegio ricorda che l’errore di fatto ex artt. 106 CpA e 395 n. 4) cpc, che consente di rimettere in discussione il decisum giudiziale con il rimedio straordinario della revocazione, è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende ad eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto.

Occorre, peraltro, che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito un punto controverso, sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato.

In questo modo, infatti, potrebbe verificarsi  il serio rischio che il giudizio revocatorio, da rimedio eccezionale – quale originariamente previsto, possa trasformarsi in un ulteriore grado di giudizio, incidendo, dunque, sul principio del doppio grado di tutela giurisdizionale.

In forza di tali principi, più volte richiamati dalla giurisprudenza amministrativa e poi definitivamente ricostruiti dall’Adunanza Plenaria del 17 maggio 2010, n. 2, i Giudici respingono l’odierna istanza revocatoria, stante la natura decisiva del punto controverso sul quale la sentenza, di cui si chiede la revocazione, si è pronunciata e la conseguente necessità di evitare un ulteriore esame giurisdizionale della vicenda. CC

 



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Inserito in data 10/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 8 settembre 2014, n. 18869

Le spese straordinarie non possono essere forfettizzate nell’assegno di mantenimento

Sono spese straordinarie quelle che, per la loro rilevanza, imprevedibilità ed imponderabilità esulano dall’ordinario regime di vita dei figli.

La loro inclusione in via forfettaria nell’ammontare dell’assegno, posto a carico di uno dei genitori, può rivelarsi in contrasto con il principio di proporzionalità e di adeguatezza de mantenimento, nonché recare grave nocumento alla prole, che potrebbe essere privata di cure necessarie o di altri indispensabili apporti. Pertanto, la soluzione di stabilire in via forfettaria ed aprioristica ciò che è imponderabile ed imprevedibile introduce un’alea incompatibile con i principi che regolano la materia. CDC




Inserito in data 10/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 settembre 2014, n. 4546

Il documento ritrovato che consente la revocazione deve essere antecedente all’atto impugnato

Ai fini dell'impugnazione per revocazione, ai sensi dell'art. 395 cpc, n. 3, è decisivo il documento (trovato dopo la sentenza, che la parte non abbia potuto produrre in giudizio per cause di forza maggiore o per fatto dell'avversario), quando, se acquisito agli atti, sarebbe stato in astratto idoneo a formare un diverso convincimento del giudice, e perciò a condurre ad una diversa decisione, attenendo a circostanze di fatto risolutive che il giudice non abbia potuto esaminare.

Proprio perché il documento deve essere decisivo, esso deve attenere a fatti o atti pienamente rientranti nel thema decidendum. Quindi, quando si tratti di giudizio impugnatorio di atti nell’ambito della generale giurisdizione di legittimità, il documento “decisivo” deve essere necessariamente antecedente al provvedimento impugnato in I grado, e tale da determinare una diversa articolazione dei motivi di impugnazione e, dunque, il conseguente convincimento del giudice, di segno diverso da quello espresso nella sentenza revocanda.

Tale ricostruzione risulta indirettamente confermata anche dall’art. 104, comma 3, cpa, il quale consente motivi aggiunti in appello solo qualora la parte venga a conoscenza di documenti “nuovi”, nel senso di non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, a condizione che da tali documenti “emergano vizi degli atti o provvedimenti amministrativi impugnati”. Ciò significa che il documento – che legittima i motivi aggiunti in appello e dunque la deroga alla non proponibilità di domande nuove in tale grado – deve essere necessariamente antecedente al provvedimento impugnato e tale da determinarne la illegittimità.

Poiché avverso le sentenze dei Tribunali amministrativi regionali il ricorso per revocazione è ammesso solo “se i motivi non possono essere dedotti con l’appello” (art. 106, comma 3, cpa), non è ammissibile un ricorso per revocazione fondato su documenti successivi al provvedimento impugnato in I grado, poiché ciò – contraddicendo la ratio dell’art. 395 cpc e dell’art. 106 cpa – consentirebbe la revocabilità della sentenza per ragioni diverse e “più ampie” di quelle stesse che – inerendo al thema decidendum – legittimano l’appello e la proposizione di motivi aggiunti contro la sentenza. CDC



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Inserito in data 09/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 3 settembre 2014, n. 36700

È reato pure il commercio di sostanze dopanti non ricomprese nelle tabelle

L’art. 9 L. n. 367/00 punisce il reato di commercio di sostanze dopanti. Trattasi di norma penale in bianco, in quanto rimette alla competenza di organi tecnici l’individuazione di un elemento essenziale della condotta illecita. Segnatamente, al fine di assicurare che le sostanze e i metodi in concreto vietati siano sempre al passo con l’evoluzione scientifica, essi sono individuati con decreto del Ministero della Sanità.

Risolvendo un conflitto giurisprudenziale sul punto, le Sezioni Unite (sentenza n. 3087 del 29.11.05) hanno chiarito che le tabelle ministeriali recanti la classificazione dei farmaci e delle pratiche vietate hanno valore ricognitivo ed esemplificativo (non costitutivo e tassativo), con la conseguenza che: da un lato, sono punibili le condotte di commercio di sostanze dopanti, sebbene antecedenti all’adozione del decreto attuativo (ma successive all’entrata in vigore della L. n. 367/00); per altro verso, la normativa antidoping può applicarsi anche a sostanze non esplicitate nel decreto.   

Con la pronuncia in commento, la terza sezione della Corte di Cassazione ha ribadito il carattere meramente ricognitivo del decreto ministeriale richiamato, deducendo da ciò che il reato ex art. 9, L. n. 367/00 si configura in presenza di sostanze produttive di effetti dopanti, a prescindere dalla circostanza che dette sostanze siano o meno incluse nelle tabelle predette (e addirittura non rilevando la mancata acquisizione delle tabelle suddette). TM




Inserito in data 08/09/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SESTA SEZIONE PENALE - SENTENZA 28 agosto 2014. n. 36382

L'art. 416-ter c.p. sì come modificato è legge più favorevole

La Suprema Corte di cassazione, accogliendo il ricorso presentato avverso una sentenza di condanna per scambio elettorale politico-mafioso ai sensi dell’art. 416-ter c.p. ha affermato che la norma in questione, siccome modificata dalla L. 62/2014 costituisce norma più favorevole.

La condanna, infatti, si fondava sulla semplice prova dell’avvenuto accordo tra il candidato ed alcuni esponenti di una nota associazione mafiosa al fine di ottenere voti in cambio di denaro.

Nel prendere la propria decisione, dunque, il giudice aveva ritenuto irrilevante la mancanza di prove in merito all’effettivo oggetto dell’accordo. Più precisamente non aveva ritenuto necessario che lo stesso comprendesse anche il metodo da utilizzare per il procacciamento dei voti: il ricorso all’intimidazione o alla prevaricazione da parte del sodalizio mafioso.

Ai sensi del nuovo dettato normativo, infatti, “il reato deve consumarsi mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416-bis c.p.”, modifica introdotta con la l. 32/2014, insieme all’estensione dell’ambito di applicazione della fattispecie attraverso il riferimento alle “altre utilità”, risolvendo espressamente l’annoso dibattito che aveva interessato la norma in commento.

È utile osservare che la modifica è intervenuta a dispetto di quanto affermato nella relazione al codice n. 204 nella quale si è sostenuto che la richiesta della prova dell’utilizzo del metodo mafioso costituisce una prova diabolica, non costituendo, tra l’altro, un elemento della struttura del reato. La stessa, dunque, avrebbe inciso sulla corretta individuazione dell’ambito di applicazione.

La locuzione definitivamente utilizzata, dunque, è frutto di un’attenta ponderazione degli interessi in gioco che ha visto prevalere l’esigenza di punire l’accordo avente ad oggetto l’uso del metodo mafioso e non il mero accordo volto al procacciamento dei voti.

Sulla base delle considerazioni sopra esposte il Supremo Consesso ha applicato retroattivamente la l’art. 416-ter c.p. che, nella nuova formulazione, introduce un ulteriore elemento costitutivo della fattispecie, rendendo complessivamente più favorevole la norma in esame. VA

 

 




Inserito in data 08/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 settembre 2014, n. 4525

Il consigliere comunale di minoranza ha un diritto non condizionato all’accesso

Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha rigettato il ricorso presentato avverso la decisione del giudice di primo grado con la quale il Tar Campania ha riconosciuto l’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di accesso presentata da un consigliere di minoranza asserendo che lo stesso costituisce un ostacolo all’effettivo esercizio della pubblica funzione.

In primo luogo i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per mancata notifica al revisore dei conti, qualificato come controinteressato.

Nell’ambito del processo amministrativo, infatti, il controinteressato è colui il qual risulta essere portatore di un interesse qualificato alla conservazione dell’assetto di interessi che si intende qualificare e che, nel caso di specie, dovrebbe essere individuato nell’ente nei cui confronti il revisore svolge una funzione di ausilio e di assistenza tecnico contabile sull’attività finanziaria e contabile dello stesso.

Passando al merito il Supremo Consenso ricorda, inoltre, come “secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è motivo di discostarsi (C.d.S. 6963/10; 5264/07), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare - con piena cognizione - la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.

Il diritto di accesso loro riconosciuto ha in realtà una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini [...]; quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all’esercizio delle loro funzioni […] e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 1994, n. 976)”.

Proprio in ragione delle peculiarità del diritto in questione si ritiene che non sussista in capo al consigliere comunale un onere di motivazione della richiesta di accesso a meno di non consentire un controllo del suo operato da parte dell’ente.

Gli unici limiti rinvenibili in capo agli stessi, dunque, attengono alla limitazione dell’aggravi dell’attività degli uffici comunali e non deve trattarsi di atti emulativi, caratteristiche, peraltro, assenti nel caso in esame.

Alla luce dei motivi sopra esposti i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la decisione assunta in primo grado e dichiarato illegittimo il silenzio serbato dalla Pubblica Amministrazione. VA

 



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Inserito in data 08/09/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA 4 settembre 2014, n. 4508

Rimessione alla CGUE dei dubbi ermeneutici sulla disciplina del programma di clemenza

Con la pronuncia de qua, i Giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a risolvere la disputa tra vari operatori economici che, in applicazione del programma di clemenza UE, avevano denunciato volontariamente la loro partecipazione ad un cartello al fine di andare esenti da sanzione. In forza del programma di clemenza UE, infatti, la prima impresa che coopera beneficia della piena immunità, mentre i benefici si riducono per i cooperanti successivi. Nel caso in esame, l’appellante aveva presentato per prima la domanda alla Commissione relativamente al trasporto aereo, via mare e su strada, mentre non aveva inizialmente fatto riferimento al trasporto su strada nella domanda in forma semplificata presentata all’AGCM; al punto che, l’AGCM l’aveva qualificata come terzo cooperante in relazione al settore del trasporto su strada.

Perciò, la soluzione della causa passa attraverso la definizione dei rapporti tra domanda principale rivolta all’AGCM e domanda in forma semplificata proposta alle singole Autorità nazionali di concorrenza (ANC).

A tal fine, il Consiglio di Stato ha ritenuto necessario sottoporre, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea le seguenti questioni pregiudiziali:

Se l’art. 101 TFUE, l’art. 4, n. 3 TUE, l’art. 11 del regolamento (CE) n. 1/2003, debbano interpretarsi nel senso che:

(i) le ANC non possono discostarsi nella propria prassi applicativa dagli strumenti definiti e adottati dalla Rete europea della concorrenza, in particolare dal programma modello di clemenza in un caso quale quello di cui alla causa principale, senza che ciò contrasti con quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Ue ai punti 21 e 22 della sentenza 14 giugno 2011, causa C-360/09;

ii) tra la domanda principale d’immunità che un’impresa abbia presentato o si appresti a presentare alla Commissione e la domanda semplificata d’immunità da essa presentata a un’ANC per lo stesso cartello esiste una connessione giuridica tale che l’ANC […] è tenuta […]: a) a valutare la domanda semplificata d’immunità alla luce della domanda principale e sempre che la domanda semplificata rispecchi fedelmente il contenuto della domanda principale; b) in subordine – qualora ritenga che la domanda semplificata ricevuta abbia un ambito materiale più ristretto di quello della domanda principale presentata dalla stessa impresa, per la quale la Commissione ha concesso l’immunità condizionale a detta impresa – a contattare la Commissione, ovvero la stessa impresa, al fine di accertare se successivamente alla presentazione della domanda semplificata essa abbia nel prosieguo delle sue indagini interne individuato esempi concreti e specifici di condotte nel segmento asseritamente coperto dalla domanda d’immunità principale ma non da quella semplificata;

III) […] un’ANC che all’epoca dei fatti di causa nel giudizio a quo applicava un programma di clemenza quale quello di cui alla causa principale poteva legittimamente ricevere, per un dato cartello segreto per il quale una prima impresa avesse presentato o si apprestasse a presentare alla Commissione domanda principale d’immunità: a) soltanto una domanda semplificata di immunità da parte di quella impresa, oppure b) anche domande semplificate d’immunità ulteriori presentate da imprese diverse, che alla Commissione avessero presentato, in via principale, una domanda d’immunità “non accettabile” ovvero una domanda di riduzione dell’ammenda, in particolare qualora le domande principali di queste ultime imprese fossero successive alla concessione dell’immunità condizionale alla prima impresa”. TM



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Inserito in data 07/09/2014
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, ORDINANZA 4 settembre 2014, n. 472

Calabria: indette nuove elezioni. Occorre ricostituire gli organi regionali

Il Collegio di Catanzaro, accogliendo le istanze presentate da un gruppo di associazioni di cittadini calabresi, ordina alla Presidente della Regione facente funzioni di indire e consentire l’espletamento delle operazioni elettorali nel più breve tempo possibile.

Il territorio calabrese, infatti, rimasto privo di guida ormai da mesi, a seguito delle dimissioni presentate dal soggetto allora in carica per aver subìto condanna penale, e della conseguente abdicazione della Giunta regionale e susseguente scioglimento dell’Organo consiliare, appariva destituito di ogni forma di rappresentanza popolare.

I Giudici della prima Sezione, accogliendo le doglianze dei cittadini ricorrenti, inevitabilmente danneggiati da una simile lacuna sul piano democratico - costituzionale, superano il vuoto della legislazione regionale e lo stato di impasse dell’Amministrazione locale ed impongono di adottare il provvedimento di indizione delle consultazioni elettorali regionali a dieci giorni successivi alla data della comunicazione in via amministrativa dell’odierna ordinanza, ovvero della sua notifica se anteriore.

A conferma dell’improcrastinabilità di tale adempimento, il TAR calabrese nomina, altresì, il Commissario ad acta nella persona del Prefetto di Catanzaro, affinchè, in caso di mancata adozione del decreto di indizione entro il predetto termine di dieci giorni, adempia entro i successivi cinque giorni, in luogo del Vice Presidente della Giunta Regionale, a questo deputato.

Come si vede, il Collegio catanzarese, interpretando l’espressione “indizione” nel senso che le elezioni abbiano luogo e non semplicemente siano indette entro un certo lasso temporale – alla stregua della giurisprudenza costituzionale (Cfr. Corte Costituzionale - sentenza 5 giugno 2013 n. 196), suggella le istanze dei cittadini e l’imprescindibile, relativa necessità di un’adeguata rappresentanza popolare. CC



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Inserito in data 06/09/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, NONA SEZIONE - SENTENZA 4 settembre 2014, Causa C-452/13

Ritardi aerei: il diritto UE fissa orario di arrivo effettivo ed univoco

La Corte del Lussemburgo, al fine di evitare il continuo contenzioso derivante dalla disparità di situazioni e di contingenze legate al trasporto aereo, precisa la nozione di orario di arrivo.

In particolare,  il Collegio europeo ha precisato che «gli articoli 2, 5 e 7 del regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91, devono essere interpretati nel senso che la nozione di «orario di arrivo», utilizzata per determinare l’entità del ritardo subito dai passeggeri di un volo, indica il momento in cui si apre almeno uno dei portelloni dell’aeromobile, posto che, in tale momento, i passeggeri sono autorizzati a lasciare il velivolo».

In tal guisa, dando una definizione univoca del termine “landed”, i Giudici consentono la corretta individuazione dei casi in cui le Compagnie aeree saranno o meno tenute alla compensazione pecuniaria. CC




Inserito in data 04/09/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUINTA, SENTENZA 4 settembre 2014, cause C-184/13 a 187/13 , C-194/13, C–195/13 e C-208/13

Diritto trasporti: costi minimi iniqui

Il Collegio avente sede a Lussemburgo interviene, finalmente, con una pronuncia attesa negli ultimi mesi in tema di determinazione dei costi minimi di esercizio dell’autotrasporto.

Più nel dettaglio, i Giudici sanciscono l’illegittimità di misure simili, stante la contrarietà rispetto alla tutela della concorrenza e alla realizzazione di un libero mercato, obiettivi propri della giurisprudenza comunitaria.

Spiega la Corte, infatti, che “la determinazione di costi minimi d'esercizio, resi obbligatori da una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, impedendo alle imprese di fissare tariffe inferiori a tali costi, equivale alla determinazione orizzontale di tariffe minime imposte".

Perciò, "occorre chiarire che la determinazione dei costi minimi d'esercizio per l'autotrasporto, è idonea a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno".

Peraltro, proseguendo su questo filone, la Corte rigetta anche il richiamo – effettuato dalla normativa nazionale censurata – riguardo ad una maggiore sicurezza stradale presuntivamente perseguibile ove fossero rispettati i parametri, oggetto dell’odierno contenzioso.

Spiega la Corte, infatti, che "anche se non si può negare che la tutela della sicurezza stradale possa costituire un obiettivo legittimo, la determinazione dei costi minimi d'esercizio non risulta tuttavia idonea né direttamente né indirettamente a garantirne il conseguimento".

A tale riguardo, infatti,  va rilevato che la normativa di cui trattasi nei procedimenti principali si limita a prendere in considerazione, in maniera generica, la tutela della sicurezza stradale, senza stabilire alcun nesso tra i costi minimi d'esercizio e il rafforzamento della sicurezza stradale.

Di conseguenza, precisa il Collegio, posto che "una normativa nazionale è idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo addotto solo se risponde realmente all'intento di raggiungerlo in modo coerente e sistematico", tanto non può dirsi accada con la predeterminazione delle tariffe, oggi censurate.

Ne consegue, quindi, la relativa declaratoria di illegittimità statuita dai Giudici del Lussemburgo. CC



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Inserito in data 31/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 luglio 2014, n. 4064

In merito ai finanziamenti erogati dalla Pubblica Amministrazione ai privati

I giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in epigrafe, intervengono in merito all'articolata questione concernente i finanziamenti erogati dalla Pubblica Amministrazione ai privati, soffermandosi prevalentemente sugli aspetti concernenti la giurisdizione, spettante, rispettivamente, al giudice amministrativo od al giudice ordinario.

Nel caso di specie, il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, con decreto, ha concesso, in via provvisoria, alla Carpenterie Campane s.r.l., il contributo in conto capitale di euro 415.644,51, erogando alla medesima società la metà di detto contributo pari ad euro 207.822,26.

Successivamente, il Ministero dello sviluppo economico, con decreto 4 ottobre 2013, n. 56677, ha revocato il contributo e disposto il recupero della somma corrisposta. Specificamente, nel decreto in questione, si afferma che le ragioni della sua adozione risiedono nel fatto che “l’impresa […] «non ha mai provveduto a trasmettere la documentazione necessaria per gli accertamenti finali»”.

La ricorrente ha proposto appello, rilevando come la giurisdizione sia del giudice amministrativo, in quanto, nella specie, l’attività posta in essere dal Ministero pare esser caratterizzata da discrezionalità.

Invero, “ciò sarebbe dimostrato dal fatto che l’amministrazione statale abbia: i) «più volte avviato il procedimento di revoca per poi arrestarlo»; ii) concesso nel tempo proroghe che sarebbero state incompatibili con «un’attività amministrativa assolutamente dovuta».

Recentemente, il Consiglio di Stato, con sentenza 29 luglio 2013, n. 17, ha affermato che in tema finanziamenti erogati dalla pubblica amministrazione a privati e, in particolare, di agevolazione di cui all’art. 1 del decreto-legge 22 ottobre 1992, n. 415, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 1992, n. 488, «il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato distinguendo le ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge (e alla p.a. è demandato esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla legge stessa) da quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell’erogazione».

Dunque, nel primo caso la giurisdizione spetta al giudice ordinario, nel secondo caso al giudice amministrativo.

I giudici di Palazzo Spada puntualizzano altresì che l' Adunanza plenaria, con sentenza 29 gennaio 2014, n. 6, ha stabilito, con affermazioni suscettibili di applicazione generalizzata a tutte le controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche, che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia «deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata».

Ne consegue, si aggiunge, che «qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall’acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull’inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo».

In tal caso, infatti, si sottolinea, «il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all’inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione». GMC



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Inserito in data 31/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 luglio 2014, n. 4054

Sul provvedimento di condono edilizio

La questione, posta all’esame del Collegio, attiene alla legittimità – contestata da un terzo leso – del provvedimento di condono edilizio, rilasciato dal Comune, avente ad oggetto un fabbricato di proprietà dell’appellante.

Ripercorrendo per ordine la vicenda ivi esaminata, con un primo motivo, si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato la tardività del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado; il Codice del processo amministrativo, prevede che l’azione di annullamento si propone nel termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla «notificazione, comunicazione o piena conoscenza» (alla luce dell'art. 41, secondo comma).

Nel caso di specie, nelle azioni proposte da terzi, i quali fanno valere un interesse legittimo oppositivo al rilascio di provvedimenti favorevoli per i destinatari dell’azione amministrativa, il requisito legale si realizza, normalmente, con la piena conoscenza «del titolo giuridico» ovvero «della realtà materiale».

Così come i giudici di Palazzo Spada puntualizzano, “la prima forma di conoscenza, che rileva in questa sede, si ha nel caso in cui l’interessato venga «informato dall’amministrazione degli estremi del provvedimento»”, alla luce della pronuncia del Cons. Stato, sez. VI, 18 aprile 2012, n. 2209.

Ed ancora, “la piena conoscenza, infatti, «non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l’autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità». La ragione sottesa a questo orientamento è quella di assicurare «il principio della certezza delle situazioni giuridiche», che impone di non lasciare l’interessato «nella perpetua incertezza sulla sorte del proprio titolo edilizio» (Cons. Stato, sez. IV, 13 giugno 2011, n. 3583)”.

Nella fattispecie in esame e da quanto risulta esposto in fatto, il terzo era già a conoscenza (verificando, da un punto di vista temporale, gli atti emanati) anche delle possibili ragioni di illegittimità del provvedimento adottato: nell’esposto del 2005 ha, infatti, chiaramente descritto la vicenda in tutti i suoi passaggi e ha indicato i motivi della non accoglibilità della domanda di condono. Secondo quanto sottolineato, “la parte, nella specie, non avrebbe, pertanto, neanche dovuto proporre un “ricorso al buio”, l’esito del procedimento di accesso avrebbe potuto fare emergere altri eventuali aspetti rilevanti della vicenda che comunque non potevano giustificare una protrazione temporale delle forme di tutela”. GMC



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Inserito in data 29/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 luglio 2014, n. 3949

Sulla certificazione di qualità

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada puntualizzano che la certificazione di qualità, riguardando anche la capacità tecnica dell'imprenditore, è del tutto coerente con l'istituto dell'avvalimento.

Invero, nelle gare pubbliche, la certificazione di qualità, caratterizzata dallo scopo di valorizzare gli elementi di eccellenza dell'organizzazione complessiva, è da considerarsi anch'essa requisito di idoneità tecnico organizzativa dell'impresa, da inserirsi tra quegli elementi idonei a dimostrare la capacità tecnico professionale di un'impresa. In tal modo, si assicura che l'impresa cui sarà affidato il servizio, o la fornitura, sarà in grado di effettuare la prestazione nel rispetto di un livello minimo di qualità accertato da un organismo a ciò predisposto. La certificazione in questione, è altresì coerente con l'istituto dell'avvalimento, così come disciplinato dall'art. 49 del d. lgs. n. 163 del 2006. GMC

 



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Inserito in data 29/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 luglio 2014, n. 3969

Vacanza del posto in organico e conferimento di mansioni

Nel caso in oggetto, l’appellante, nella qualità di dipendente USL, ha dedotto di avere svolto le mansioni superiori di collaboratore amministrativo, chiedendo l’accertamento del suo diritto di percepire le relative differenze stipendiali. Successivamente, il TAR ha respinto il ricorso, rilevando che non risulta alcun ordine di servizio che abbia attribuito all’interessata lo svolgimento delle mansioni superiori, né tanto meno è stata comprovata l’esistenza di un corrispondente posto vacante in pianta organica. Secondo l'appellante, la vacanza del posto in organico ed il conferimento delle mansioni superiori con un atto formale, sarebbero requisiti rilevanti unicamente per l’inquadramento nella qualifica superiore, ai sensi della legge n. 207 del 1985, ma non avrebbero alcun rilievo per la spettanza delle differenze retributive ed ha altresì contestato la rilevanza della copertura in organico dei due posti di collaboratore amministrativo.

Alla luce della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, salvo che la legge disponga altrimenti, “lo svolgimento da parte di un pubblico dipendente di mansioni superiori rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento non rileva ai fini sia giuridici che economici, sia perché il provvedimento di inquadramento è presupposto indefettibile delle mansioni e del correlativo trattamento economico, sia perché, ancor più in generale, il rapporto di pubblico impiego non è assimilabile al rapporto di lavoro privato, vista anche la natura indisponibile degli interessi coinvolti, non potendo essere il trattamento economico del dipendente liberamente determinabile da parte degli organi amministrativi”, si considerino, ad esempio, Cons. Stato, V, 28 dicembre 2011, n. 6966; Sez. V, 31 maggio 2011, n. 3251; Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2811; Sez. V, 28 aprile 2011, n. 2539; Sez.., 7 aprile 2011, n. 2166.

Oltre a ciò, non può poi essere richiamato l’art. 36 Cost., il quale afferma il principio di corrispondenza della retribuzione dei lavoratori alla quantità e qualità del lavoro prestato, infatti – alla luce di quanto disposto dai Giudici di Palazzo Spada – “tale norma non può trovare incondizionata applicazione del rapporto di pubblico impiego, dovendo concorrere in tale ambito con altri principi di pari rilevanza costituzionale, quali l’art. 97, per il quale l’esercizio delle mansioni superiori rispetto alla qualifica rivestita contrasta con i principi di buon andamento e di imparzialità dei pubblici uffici e quindi con la rigida determinazione delle sfere di competenza, funzioni e responsabilità dei funzionari, e l’art. 98, dal quale discende il divieto che la valutazione del rapporto di pubblico impiego sia ridotta alla mera logica del rapporto di scambio”, così come altresì statuito da Cons. Stato, VI, 19 settembre 2000, n. 4871; id., 11 luglio 2000, n. 3882.

Inoltre, è bene chiarire che le disposizioni della legge n. 207 del 1985, appaiono del tutto coerenti con il principio generale della “irrilevanza delle mansioni superiori”, invero “essa ha previsto in alcuni casi la ‘sanatoria’ in base ai relativi presupposti, ma non ha attribuito rilievo al loro svolgimento al di là dei casi ivi tassativamente previsti”.

Dunque, “se anche nel corso del giudizio fosse stata acquisita la prova della esistenza di un posto vacante in pianta organica, dell’emanazione di un atto formale di conferimento delle mansioni superiori nonché del loro effettivo svolgimento – comunque la domanda dell’appellante sarebbe risultata infondata”. GMC

 



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Inserito in data 24/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 21 luglio 2014, n. 32035

Ex art. 4 LAC, il giudice penale non può modificare la graduatoria concorsuale

La Corte di Cassazione ci ricorda che l’approvazione da parte dell’amministrazione competente della graduatoria di concorsi a pubblico impiego è provvedimento di amministrazione attiva, mediante il quale l’amministrazione fa proprio l’operato della commissione esaminatrice.

 “Spetta, pertanto, all’amministrazione competente il potere di modificare la graduatoria, qualora risulti che essa sia stata illegittimamente formata”.

Ne consegue che il giudice penale, ove pure accerti e dichiari, ai sensi dell’art. 537, c.p.p., la falsità di atti o di documenti che costituiscono presupposto per l’inserimento di un soggetto nella graduatoria di un pubblico concorso, non potrà autonomamente modificarla, depennando il soggetto dalla graduatoria stessa, trattandosi di un potere esercitabile esclusivamente dall’amministrazione competente nelle forme proprie dei provvedimenti amministrativi”.

Questa conclusione è logica conseguenza dei limiti interni della giurisdizione del giudice ordinario in ordine agli atti amministrativi, risultanti dall’art. 4, c. 2°, L. n. 2248/1865, all. e (Legge abolitrice del contenzioso, cd. LAC); in forza di tale disposizione, infatti, “L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. TM




Inserito in data 24/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 luglio 2014, n. 3917

È legittimo il DM 18.10.2012, che fissa le tariffe massime per prestazioni sanitarie

Intervenendo sulla vexata questio della determinazione delle tariffe per prestazioni sanitarie erogate da strutture accreditate, il Consiglio di Stato afferma la legittimità del D.M. 18.10.2012, adottato dal Ministero della Salute di concerto col Ministero dell’Economia e delle finanze, in attuazione dell’art. 15, c. 15, d.l. n. 95/12.

Infatti, ai sensi dell’art. 15 d.l. n. 95/12, si possono individuare due diverse procedure per la determinazione delle tariffe, la seconda attivabile a conclusione della prima: 1) “La prima procedura è disciplinata dal co.15 con un iter procedurale semplificato e derogatorio attraverso la utilizzazione dei “dati di costo disponibili”, la utilizzazione dei tariffari regionali ove ritenuti congrui e adeguati, l’acquisizione del parere della Conferenza Stato/Regioni”; 2) “La seconda procedura, di “aggiornamento delle tariffe determinate ai sensi del co.15”, disciplinata dal co. 17 bis, introdotta, nel decreto legge n.95/2012, dalla legge di conversione n.189/2012 di altro provvedimento di urgenza, il cd. decreto Balduzzi (n.158/2012) che, al contrario del precedente, opera solo in materia sanitaria, ha previsto il confronto con le associazioni di categoria, evidenziando chiaramente la volontà del legislatore di un approfondimento e rivalutazione delle tariffe rispetto a quelle già determinate in via di urgenza con procedura semplificata, con ripristino delle ordinarie forme di consultazione e confronto ex art.8 sexies co.5 del d.lgs. 502/1992”.

Risulta quindi evidente, da tale contesto normativo, che la procedura di determinazione tariffaria ex co.15 dell’articolo 15, sia una procedura drasticamente semplificata, con modalità istruttorie limitate ai dati esistenti e disponibili e, ove ritenuti congrui ed adeguati a quelli regionali, finalizzata alla adozione di un tariffario nazionale da prendere a riferimento immediato, da parte delle regioni, per recuperare margini di inappropriatezza esistenti a livello locale e nazionale. Del resto la procedura è inserita nell’ambito di decreto di “spending review” rivolto a realizzare consistenti e immediati livelli di risparmio in diversi settori, compreso quello sanitario”.

“Non sono quindi condivisibili le varie doglianze diffusamente e variamente articolate nell’ odierno appello, così come in altri appelli (tutti chiamati alla udienza del 5 giugno 2014) e dirette a stigmatizzare soprattutto la carenza di istruttoria e di certezza dei dati assunti dal Ministero per la determinazione tariffaria con conseguente mancata copertura, da parte delle nuove tariffe, dei costi di produzione e dell’utile di impresa”. TM



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Inserito in data 23/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, sentenza 18 luglio 2014, n. 31735

Presupposti del sequestro probatorio di materiale posseduto da un giornalista

Come affermato dalla Corte EDU, il diritto del giornalista di proteggere le proprie fonti rientra nella libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche, garantito dall’art. 10 Cedu. Quindi, il provvedimento giudiziario che dispone il sequestro di materiale posseduto da un giornalista, poiché rischia di condurre all’individuazione delle fonti, può costituire una violazione della libertà di espressione. Ne segue che tale forma di ingerenza nel diritto alla tutela delle fonti giornalistiche deve essere accompagnata da garanzie proporzionate, quale la garanzia del controllo da parte di un organo terzo ed imparziale, investito del potere di determinare se il requisito dell’interesse pubblico, prevalente sul principio della protezione delle fonti giornalistiche, possa ritenersi sussistente prima della consegna del materiale pertinente.

Pertanto, è compito del giudice procedere ad un cauto bilanciamento fra le contrapposte esigenze, rappresentate dal doveroso accertamento dei fatti e delle responsabilità in presenza di accadimenti che integrino un’ipotesi di reato e dalla necessità di preservare il diritto del giornalista a cautelare le proprie fonti, in vista dell’espletamento della funzione informativa.

Il giudice può ordinare al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni in presenza di due condizioni previste dall’art. 200, comma 3, cpp: a) che la rilevanza della fonte sia indispensabile per la prova del reato per il quale si procede; b) che le notizie non possano essere altrimenti accertate. Occorre, in altre parole, che l’ingerenza rispetto alle fonti rappresenti l’extrema ratio cui ricorrere per poter conseguire la prova necessaria per perseguire il reato. CDC




Inserito in data 23/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 luglio 2014, n. 3905

L’avvalimento si applica anche in presenza di una concessione di servizi

L’art. 49, primo comma, d.lgs. 163/2006 prevede che il concorrente, singolo o consorziato o raggruppato, in relazione ad una specifica gara di lavori, servizi, forniture può soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo, ovvero di attestazione della certificazione SOA avvalendosi dei requisiti di un altro soggetto o dell’attestazione SOA di altro soggetto (c.d. avvalimento).

A tal fine, come precisato in giurisprudenza, deve risultare con chiarezza che l’ausiliaria presti “le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in tutte le parti che giustificano l’attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti)” (Cons. Stato, 13 giugno 2013, n. 7755; 18 aprile 2011, n. 2344).

L’esigenza di una puntuale individuazione dell’oggetto del contratto di avvalimento trova la propria essenziale giustificazione funzionale nella necessità di non permettere agevoli aggiramenti del sistema dei requisiti di ingresso alle gare pubbliche. L’art. 88, comma 1, lett. a) del d.P.R 207/2001 ha recepito questi principi, stabilendo che il contratto di avvalimento deve riportare “in modo compiuto, esplicito ed esauriente (…) le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico”.

L’esigenza di determinazione dell’oggetto sussiste anche con riferimento alla dichiarazione unilaterale dell’impegno negoziale, in quanto “l’impresa ausiliaria non è semplicemente un soggetto terzo rispetto alla gara, dovendosi essa impegnare non soltanto verso l’impresa concorrente ausiliata ma anche verso la stazione appaltante a mettere a disposizione del concorrente le risorse di cui questi sia carente, sicché l’ausiliario è tenuto a riprodurre il contenuto del contratto di avvalimento in una dichiarazione resa nei confronti della stazione appaltante” (Cons. Stato, 13 maggio 2010, n. 2956).

La sentenza afferma che l’istituto dell’avvalimento può trovare applicazione anche in presenza di una concessione di servizi. Infatti, l’art. 30 d.lgs. 163/2006 prevede che, nella scelta del concessionario, devono applicarsi i principi generali contenuti nel decreto stesso e la giurisprudenza ha più volte affermato che l’istituto dell’avvalimento è espressione di principi generali a tutela della concorrenza, consentendo la partecipazione di soggetti che senza l’ausilio di altra impresa non avrebbero i requisiti richiesti per la partecipazione stessa.

È bene puntualizzare che non è possibile enucleare dall’art. 49 soltanto alcune regole, ritenendo solo esse espressione di principi generali. Una volta individuata la struttura e la ratio dell’avvalimento le regole che presiedono al suo funzionamento si applicano, nel settore in esame, in modo unitario e non parcellizzato. CDC



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Inserito in data 22/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 luglio 2014, n. 212

Sulla partecipazione degli ee.ll. al procedimento istitutivo di aree protette

Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 6, comma 1, e 28, commi 1 e 2, della legge della Regione siciliana 6 maggio 1981, n. 98 (Norme per l’istituzione nella Regione siciliana di parchi e riserve naturali), nella parte in cui  stabiliscono forme di partecipazione degli enti locali nel procedimento istitutivo delle aree naturali protette regionali diverse da quelle previste dall’art. 22 della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette)”.

Infatti, posto che la disciplina delle aree protette, contenuta nella legge n. 394 del 1991, “rientri nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente» prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (ex plurimis, sentenze n. 263 e n. 44 del 2011)”, non è controversa “la rilevanza che, nel contesto della normativa-quadro di cui si è detto, assume la specifica disciplina diretta a regolare le forme della partecipazione dei diversi soggetti al procedimento istitutivo delle aree protette”.

L’art. 22 della legge statale, infatti, “stabilisce – quali «princìpi fondamentali per la disciplina delle aree naturali protette regionali» – che, nel procedimento destinato all’istituzione delle aree medesime, sono chiamate a partecipare le Province, le comunità montane ed i Comuni, attraverso forme articolate e puntuali, quali «conferenze per la redazione di un documento di indirizzo relativo all’analisi territoriale dell’area da destinare a protezione, alla perimetrazione provvisoria, all’individuazione degli obiettivi da perseguire, alla valutazione degli effetti dell’istituzione dell’area protetta sul territorio». Enti locali chiamati, poi, alla gestione dell’area protetta.

Stabilisce, poi, il comma 2 dello stesso articolo – ad ulteriore contrassegno della importanza annessa al livello ed alle forme di partecipazione delle comunità locali –, che, fatte salve le rispettive competenze per le Regioni a statuto speciale e per le Province autonome di Trento e di Bolzano, «costituiscono princìpi fondamentali di riforma economico-sociale la partecipazione degli enti locali alla istituzione e alla gestione delle aree protette e la pubblicità degli atti relativi alla istituzione dell’area protetta e alla definizione del piano per il parco».

Il censurato art. 6 della legge regionale in discorso, invece, “si limita, al comma 1, a stabilire che, in attuazione del piano regionale dei parchi e delle riserve naturali, di cui all’art. 5 della legge medesima, si provvede alla istituzione dei parchi e delle riserve con decreto dell’Assessore regionale per il territorio e l’ambiente, previo parere del Consiglio regionale. I decreti istitutivi – puntualizza il successivo comma 3 – «conterranno la delimitazione definitiva delle singole riserve, l’individuazione dell’affidatario e la statuizione degli obblighi dello stesso, in rapporto alle indicazioni tecniche fissate dal Consiglio regionale per la realizzazione dei fini istituzionali delle riserve medesime. Detti decreti recheranno in allegato il regolamento con cui si stabiliscono le modalità d’uso e i divieti da osservarsi».

Alla interlocuzione di soggetti estranei alla amministrazione regionale è dedicato il solo art. 28, il quale stabilisce, al comma 2, che, entro trenta giorni dalla pubblicazione, fra l’altro, della proposta di piano regionale dei parchi e delle riserve naturali, predisposto dal Consiglio regionale per la protezione del patrimonio naturale, a norma dell’art. 4, comma 1, lettera a), «privati, enti, organizzazioni sindacali, cooperativistiche, sociali potranno presentare osservazioni su cui motivatamente dovrà dedurre l’ente o l’ufficio proponente e che dovranno formare oggetto di motivata deliberazione da parte dell’ente preposto all’approvazione degli strumenti suddetti contestualmente alla stessa approvazione»”.

Pertanto, tali previsioni omettono di “assicurare, in particolare ai Comuni, la possibilità di rappresentare sul piano procedimentale, secondo le opportune forme, i molteplici interessi delle relative comunità”. EMF



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Inserito in data 22/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 luglio 2014, n. 3874

Legittima la richiesta di informazioni antimafia anche per gli appalti sottosoglia

Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ribadisce la legittimità della “richiesta di informazioni antimafia da parte della stazione appaltante al Prefetto, anche per gli appalti cc.dd. sottosoglia, come del tutto legittimo è il rilascio di informazioni da parte del Prefetto circa il possibile rischio di infiltrazioni mafiose anche nelle imprese concorrenti a tali appalti”.

Di recente, infatti, la stessa Terza Sezione ha avuto modo di chiarire come l’obbligo di acquisire l’informazione esclusivamente nel caso di appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria “non vale a fondare la tesi contraria relativamente agli appalti sotto soglia, per i quali, pertanto, l’informazione deve ritenersi valida” (Cons. St., sez. III, 23.4.2014, n. 2040).

Trattasi, in sostanza, “di una legittima prerogativa della p.a., sebbene l’obbligo in argomento non sussista normativamente per gli appalti cc.dd. sottosoglia (Cons. Giust. Amm., 17.1.2011, n. 26), sicché legittimamente l’Amministrazione può richiedere anche per essi le opportune informazioni antimafia al Prefetto”. EMF



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Inserito in data 21/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 luglio 2014, n. 3850

Tassatività dell’art. 51 c.p.c e rapporti accademici

La vicenda sottoposta all’attenzione del Consiglio di Stato verte in merito alle cause di incompatibilità previste dall’art. 51 c.p.c. e alla relativa asserita irregolarità di svolgimento di una procedura concorsuale.

Dopo aver esaminato e risolto positivamente la questione relativa all’ammissibilità o meno del ricorso straordinario ricordando che  <<ciò che rileva ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario è (soprattutto e soltanto) che nel termine previsto avvenga la notifica ad almeno un controinteressato e che entro lo stesso termine avvenga la notifica o presentazione dell’atto all’autorità>> (c.cost. 148/1982) il Consiglio di Stato ha affrontato nel merito la questione confermando la decisione assunta in primo grado.

Ai fini della risoluzione della controversia è stata richiamata quella giurisprudenza secondo cui <<la semplice sussistenza di rapporti accademici o di ufficio tra commissario e candidato non è idonea di per sé ad integrare gli estremi delle cause di incompatibilità normativamente cristallizzate, salva la spontanea astensione di cui al capoverso dell’art. 51 c.p.c.. le cui fattispecie assumono carattere tassativo>> […] la conoscenza personale o la instaurazione di rapporti lavorativi od accademici non sono di per sé motivo di astensione, a meno che i rapporti personali o professionali siano di rilievo ed intensità tali da fare sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, ma in virtù delle conoscenze personali (Cons. Stato, VI, 13 marzo 2013, n.1512)>>.

Come precisato dallo stesso Consiglio, dunque, si deve trattare di rapporti che si concretino un autentico sodalizio professionale che presenti anche il carattere della stabilità e reciprocità di interessi.

I giudici di Palazzo Spada, dunque, osservata la consistenza quantitativa e qualitativa dei lavori scientifici coinvolgenti anche un membro della Commissione addetta alla valutazione dei candidati, ha dichiarato l’esistenza di un vizio nella procedura di gara, confermando in tal modo la decisione del tribunale di merito. VA

                       



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Inserito in data 21/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 luglio 2014, n. 216

E' legittima la restrizione della vendita di farmaci nelle parafarmacie

La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’illegittimità costituzionale  dell’art. 5, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 per contrasto con gli articoli 3 e 41 della Costituzione «nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi previsti (c.d. parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica».

In particolar modo il giudice a quo ha contestato l’irragionevolezza di un sistema che, con riferimento ad un’attività imprenditoriale, qual è quella farmaceutica, pone un divieto di vendita di farmaci il cui costo è posto interamente a carico del cittadino. Il giudice remittente, infatti, ha osservato come in questa ipotesi non possa essere invocata la tutela dell’utilità sociale e del contenimento della spesa pubblica destinata all’assistenza farmaceutica.

Tuttavia il Supremo Consesso nel merito ha rigettato le accuse mosse alla suddetta normativa ponendo l’attenzione sulla materia cui può essere ricondotta la disciplina in questione.

Più precisamente la Corte Costituzionale ha affermato che il regime delle farmacie deve essere ricondotto nell’ambito della “tutela della salute” «in quanto la complessa regolamentazione pubblicistica della attività economica di rivendita dei farmaci è preordinata al fine di assicurare e controllare l’accesso dei cittadini ai prodotti medicinali ed in tal senso a garantire la tutela del fondamentale diritto alla salute, restando solo marginale, sotto questo profilo, sia il carattere professionale sia l’indubbia natura commerciale dell’attività del farmacista» (sent. 87/2006).

Questo controllo viene effettuato sia attraverso una pianificazione territoriale, sia attraverso una disciplina particolareggiata dell’attività stessa (ad es. tenendo conto anche del rilievo terapeutico dei diversi farmaci e, conseguentemente, sottoponendoli ad una regolamentazione  differenziata; ponendo a carico dei farmacisti tutta una seri di obblighi e funzioni assistenziali).

Ne consegue che, con riferimento all’art. 3 Cost., non può essere sollevata alcuna accusa di irragionevolezza alla previsione che imponga la prescrizione medica per determinati medicinale (i quali vengono individuati periodicamente dal Ministero della saluta, sentita l’Agenzia Italiana del Farmaco) ed il conseguente divieto di vendita nelle parafarmacie proprio sulla scora delle differenze che permangono tra i due esercizi.

Ad analoga conclusione si perviene con riferimento all’art. 41 Cost. ed al principio di tutela della concorrenza.

A sostegno della compatibilità tra la disciplina sottoposta alla valutazione dei giudici costituzionali e la norma sopra citata soccorre anche la pronuncia della Corte di Giustizia Europea che con la sentenza Venturini del 5 dicembre 2013  ha affermato che <<l’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) deve essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa nazionale che non consente a un farmacista, abilitato e iscritto all’ordine professionale, ma non titolare di una farmacia compresa nella pianta organica, di distribuire al dettaglio, in una parafarmacia, anche quei farmaci soggetti a prescrizione medica che non sono a carico del Servizio sanitario nazionale, bensì vengono pagati interamente dall’acquirente. […],  la riserva della distribuzione di detti farmaci alle sole farmacie è atta a garantire la tutela della salute e che la normativa italiana al riguardo è proporzionata e necessaria. La salute e la vita delle persone occupano una posizione preminente tra i beni e gli interessi protetti dal Trattato e che spetta agli Stati membri stabilire il livello al quale essi intendono garantire la tutela della salute pubblica e il modo in cui tale livello debba essere raggiunto. Poiché quest’ultimo può variare da uno Stato membro all’altro, si deve riconoscere agli Stati membri un margine di discrezionalità>>. VA



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Inserito in data 18/07/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA – GRANDE SEZIONE, SENTENZA 17 luglio 2014, C- 58 e C - 59/13

Non abusa del diritto di stabilimento l’italiano che consegue l’abilitazione forense in Spagna

Al fine di “facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale”, la direttiva 98/5 “istituisce un meccanismo di mutuo riconoscimento dei titoli professionali degli avvocati migranti che desiderino esercitare con il titolo conseguito nello Stato membro di origine”.

Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di Giustizia ha chiarito che “L’articolo 3 della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998 […] dev’essere interpretato nel senso che non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita”.

Infatti, “L’accertamento dell’esistenza di una pratica abusiva richiede che ricorrano un elemento oggettivo e un elemento soggettivo”. “Per quanto riguarda l’elemento oggettivo, deve risultare da un insieme di circostanze oggettive che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto”. “Quanto all’elemento soggettivo, deve risultare che sussiste una volontà di ottenere un vantaggio indebito derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento”. Nel caso in esame, il cittadino italiano che consegue l’abilitazione forense in Spagna e torna in Italia per esercitare la professione di avvocato realizza l’obiettivo proprio della direttiva 98/5 e, perciò, non abusa del diritto di stabilimento. 

Da ultimo, si evidenzia che l’art. 3, direttiva 98/5, non viola l’art. 4, paragrafo 2, TUE, che impone all’Unione di rispettare l’identità nazionale degli Sati membri. Difatti, tale disposizione “riguarda unicamente il diritto di stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro di origine”, mentre non disciplina l’accesso alla professione di avvocato, che, conformemente all’art. 33, c. 5, Cost., resta subordinato al superamento di un esame di Stato. TM



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Inserito in data 18/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 17 luglio 2014, n. 16379

La convivenza osta alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio

Ai sensi dell’art. 8 dell’Accordo, dell’art. 4, lett.b del Protocollo addizionale del 1984, dell’art. 797 cpc (abrogato), della sentenza n. 18/82 della Corte costituzionale, il giudice italiano dichiara l’efficacia nel nostro ordinamento della sentenza ecclesiastica che accerta la nullità del matrimonio concordatario, purché tale sentenza non contrasti con l’ordine pubblico italiano (costituito dalle “regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società”). Tale limite all’efficacia interna delle sentenze ecclesiastiche è coerente con il supremo principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato (art. 7, c. 1, Cost.).

Nell’ambito della Prima Sezione della Corte di Cassazione, si è sviluppato un contrasto in merito alla possibilità di considerare in contrasto con l’ordine pubblico interno, la sentenza ecclesiastica che dichiara la nullità del matrimonio concordatario, a fronte di una convivenza tra i coniugi protrattasi per un certo periodo di tempo.

Secondo l’orientamento tradizionale (S.U., sentenze nn. 4700, 4701, 4702 e 4703 del 1988; Cass. civ., n. 8926/12), la convivenza tra i coniugi non osta alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, quantunque impedisca l’impugnazione del matrimonio civile ex art. 123, c.2, c.c.; quest’ultima norma, infatti, è norma imperativa ma non costituisce espressione dei principi o regole fondamentali con cui la Costituzione e le leggi italiane delineano l’istituto del matrimonio. Inoltre, nelle norme costituzionali, non si evince chiaramente il principio della prevalenza del matrimonio rapporto sul matrimonio atto.

Per l’indirizzo più recente (S.U. n. 19809/08, in un obiter dictum; sentenze nn. 1343 del 2011, 1780 e 9844), invece, l’ordine pubblico interno preclude la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, in caso di convivenza dei coniugi.

A giudizio delle Sezioni Unite, occorre premettere che sia la legge (cfr. art. 143 cc) che la Costituzione (cfr. art. 29 Cost.) conoscono la distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto: tali aspetti del matrimonio, proprio perché distinti, soggiacciono a principi e regole fondamentali diversi. La convivenza – che, alla luce della Costituzione (artt. 2, 3, 29, 30, 31), delle Carte europee dei diritti (art. 8, par. 1, CEDU; art. 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) come interpretate dalla Corte EDU, e del codice civile, deve essere intesa non come mera coabitazione ma come “consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile in corrispondenti fatti e comportamenti dei coniugi, e come fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza dei figli” - integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio rapporto, tale da potersi ricomprendere nella nozione di ordine pubblico interno. Ai fini della risoluzione del contrasto, le Sezioni Unite reputano indispensabile individuare “secondo diritto e ragionevolezza, il periodo di tempo dalla celebrazione del matrimonio, trascorso il quale dalla convivenza coniugale con dette caratteristiche può legittimamente inferirsi anche una piena ed effettiva “accettazione del rapporto matrimoniale”, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’”atto” di matrimonio, che si considerano perciò “sanati” dall’accettazione del rapporto”. Al riguardo, le Sezioni Unite ritengono di poter applicare analogicamente l’art. 6, l. n. 184/1983, poiché anch’esso distingue tra matrimonio-atto e matrimonio rapporto, connotando quest’ultimo come rapporto stabile e continuativo, caratterizzato da diritti, doveri e responsabilità: pertanto, “la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disciplinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di <>, secondo il disposto di cui all’art. 797, primo comma, n. 7, cod. proc. civ., osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario”.

Le Sezioni Unite aggiungono che tale limite alla delibazione non dipende dalla natura del vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dalla sentenza canonica, poiché si tratta di un “limite generale”.

Infine, si precisa che la convivenza coniugale integra un’eccezione in senso stretto, ossia può essere fatta valere solo dal coniuge, parte del rapporto matrimoniale; ciò in quanto inerisce alla sfera personalissima dello svolgimento del rapporto matrimoniale. TM

 




Inserito in data 17/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE PENALE, ORDINANZA 11 luglio 2014, n. 30559

Applicabilità della messa in prova ai processi pendenti: rimessione alle SU

La pronuncia affronta il tema dell’applicabilità dell’istituto della messa alla prova, introdotto dalla legge 28 aprile 2014, n. 67.

Attraverso tale istituto il legislatore ha previsto la messa alla prova sia quale causa di estinzione del reato, sia come possibilità di definizione alternativa della vicenda processuale. Ciò serve ad offrire un percorso di reinserimento alternativo ai soggetti processati per reati di minore allarme sociale, con finalità di ravvedimento e di recupero. Inoltre, l’istituto presenta finalità riparatorie e di tutela della vittima. Infatti, la messa in prova comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, nonché il risarcimento del danno. Occorre poi valutare l’idoneità del domicilio indicato nel programma di trattamento ad assicurare le esigenze di tutela della persona offesa.

La legge 67/2014 pone però la questione della sua applicabilità anche nel processo che abbia già superato la fase processuale indicata dal nuovo art. 464-bis cpp, secondo comma, entro la quale può essere formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.

Da un lato, gli effetti di carattere sostanziale dell’istituto sopra indicati potrebbero deporre per una interpretazione estensiva della norma anche ai fatti pregressi ed ai procedimenti pendenti, in base all’art. 2, comma 4, cp e all’evoluzione giurisprudenziale sulla retroattività della lex mitior.

Tuttavia, la stessa giurisprudenza non ha escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni. Inoltre, il novum normativo riguarda anche l’ambito processuale, per cui potrebbe essere applicabile il principio tempus regit actum, che escluderebbe l’applicazione dell’istituto ai fatti pregressi e per i procedimenti pendenti.

D’altra parte, però, ritenere l’inapplicabilità della messa alla prova nei processi in corso che si trovano in una fase processuale successiva a quella indicata rischierebbe di dar luogo ad una disparità di trattamento tra gli imputati.

Dunque, attesa la delicatezza della materia e la possibilità di soluzioni interpretative in radicale contrasto, la pronuncia ha rimesso la questione alle Sezioni Unite. CDC




Inserito in data 17/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 luglio 2014, n. 3759

Interdittiva prefettizia antimafia e sindacato del giudice amministrativo

La sentenza ribadisce la costante giurisprudenza secondo cui l'interdittiva prefettizia antimafia, prevista dall’art. 4 del d. lgs. 490/1994 e dall’art. 10 del D.P.R. 252/1998 (ed oggi dagli artt. 91 e ss. del d. lgs. 159/2011), costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la PA. Pertanto, essa prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la PA e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia.

Tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità, che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità, in relazione alla rilevanza dei fatti accertati.

La misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata.

Anche se occorre che siano individuati idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende di valore sintomatico e indiziario che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.

Il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione, dovendo l’informativa antimafia indicare anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti.

Gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente, dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento sull’impresa da parte della criminalità organizzata. CDC



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Inserito in data 16/07/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE SECONDA, SENTENZA 10 luglio 2014, causa C-138/13

Contrario al diritto UE conoscere la lingua nazionale: bocciata norma tedesca

La Corte del Lussemburgo, intervenendo in tema di ricongiungimenti familiari, boccia la normativa tedesca che aveva aggravato il relativo procedimento.

Più nel dettaglio, la doglianza proviene da una cittadina turca cui era stato opposto l’obbligo di possedere almeno una conoscenza elementare della lingua tedesca, per ottenere il visto di ingresso – in vista del ricongiungimento con il proprio coniuge, ivi residente.

I Giudici europei, analizzando la vicenda, condividono le censure e respingono la posizione del Legislatore tedesco. Questi, infatti, ha aggiunto la suddetta previsione in data successiva a quella del Protocollo addizionale del 1970 - con cui la Germania, unitamente agli altri Stati dell’allora Comunità europea, ha creato una convenzione in omaggio alla libertà di stabilimento.

E’ evidente, infatti, che la normativa tedesca, richiedendo ed imponendo una previa conoscenza della lingua nazionale, introduca una reformatio in peius a carico degli stranieri che richiedono asilo per il ricongiungimento familiare.

Come sottolinea il Collegio dell’UE, la norma censurata si pone in palese contrasto con la clausola di standtstill contenuta nel suddetto Protocollo di intesa e, come tale, va respinta e va accolta, per l’effetto, l’istanza della donna ricorrente. CC



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Inserito in data 16/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 10 luglio 2014, n.15861

Abbandono e stato di adottabilità: il diritto del minore ha sempre carattere prioritario

Il Collegio di piazza Cavour, intervenendo su una pronuncia proveniente dalla sezione per i minori di una Corte d’appello piemontese, ci ricorda la ratio della Legge n. 184/83.

Con essa, infatti, il Legislatore volle garantire il diritto del minore a crescere ed essere educato nella propria famiglia naturale, attraverso la predisposizione d'interventi diretti a rimuovere l'insorgere di situazioni di difficoltà e di disagio che possano compromettere la crescita in essa del minore.

Questo aspetto, avente carattere assolutamente prioritario, può subire delle deroghe solo in presenza di difficoltà oggettive, ovvero in caso di cure materiali e morali carenti, da parte dei genitori e degli stretti congiunti, tali da pregiudicare in modo grave e non transeunte lo sviluppo e l'equilibrio psicofisico del minore stesso.
Una situazione simile, evidenziano i Giudici, finirebbe con il configurare una situazione di abbandono che, nel sistema della legge richiamata, è presupposto necessario per la dichiarazione dello stato di adottabilità.

Laddove, infatti, come nella vicenda oggetto di ricorso, si accerti che la vita offerta al minore dai congiunti sia inadeguata al suo normale sviluppo psico-fisico, diventa inevitabile rescindere l’originario legame familiare e provvedere in vista dell'adottabilità, proprio al fine di evitare un più grave pregiudizio del soggetto più debole. CC




Inserito in data 15/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 luglio 2014, n. 3676

L'interdittiva antimafia può fondarsi su fatti meramente sintomatici ed indiziari

Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità del provvedimento di risoluzione del contratto di appalto emanato a seguito di un’informativa interdittiva antimafia, ha confermato la sentenza del Tar Campania il quale, già in primo grado, aveva respinto il ricorso per l’annullamento di tali atti.

Muovendo dalle medesime motivazioni il Supremo Consesso richiama l’orientamento giurisprudenziale consolidato mettendo in luce il diverso grado di accertamento probatorio richiesto per l’adozione della misura interdittiva “tipica” (avente natura cautelare e preventiva volta ad anticipare l’azione di prevenzione) per la quale è sufficiente la sola presenza di ‹‹una serie di indizi in base ai quali, se considerati in modo complessivo, non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste›› (si veda anche C.d.S., III, 5 marzo 2013, n. 1329).

Si precisa, inoltre, che ‹‹Ai fini dell’adozione dell’interdittiva, i fatti sintomatici ed indizianti che sostengono la plausibilità della sussistenza di un collegamento tra impresa e criminalità organizzata possono anche incentrarsi nelle relazioni familistiche dell’interessato con contesti e persone che non lasciano seriamente propendere per la loro affidabilità›› (Cons. Stato, III, 4 settembre 2013, n. 4414).

Tuttavia, i Giudici di Palazzo Spada concordano nel ritenere insufficiente ai fini della dimostrazione di un tentativo di infiltrazione la mera esistenza di un rapporto di parentela (C.d.S, III, 10 gennaio 2013, n. 96).

Nel caso di specie, peraltro, l’esistenza di un collegamento familiare con soggetto svolgente attività imprenditoriale in società dello stesso settore (precedentemente colpite da interdittive antimafia confermate nei giudizi di impugnazione), l’acquisizione improvvisa da parte dell’appellante dell’azienda, o di un ramo di essa, del familiare colpito dall’informativa antimafia, pur se priva di alcuna qualifica imprenditoriale, nonché la mancata esperienza nel settore sono stati ritenuti elementi sufficienti ad inquadrare la vicenda traslativa di cessione o affitto di ramo d’azienda in un tentativo di sostanziale ‹‹intestazione fittizia della gestione imprenditoriale utile ad aggirare le verifiche antimafia, o comunque dettata dall’intenzione di esercitare l’attività di impresa nei rapporti con la Pubblica Amministrazione attraverso schermi societari››.

La decisione assunta, dunque, non sembra fondarsi sul mero rapporto di parentela, avendo preso  in considerazione altri elementi indiziari collocati in una visione complessiva che ha messo in luce il rischio di infiltrazioni mafiose. Per questi motivi l’appello risulta privo di ogni fondamento. VA



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Inserito in data 15/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 luglio 2014, n. 197

Illegittimità costituzionale degli art. 33 e 34 legge della regione Piemonte 3/13

Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 33 e 34 della legge Regione Piemonte del 25/3/2013, recante «Modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo) e ad altre disposizioni regionali in materia di urbanistica ed edilizia, già modificate dalla sopravvenuta legge regionale 17/2013.

A parere della consulta, infatti, le modifiche introdotte non sono sufficienti ad elidere i profili di illegittimità costituzionale della norma censurata e, conseguentemente, a far dichiarare cessata la materia del contendere.

Nel merito si afferma che l’art. 33 della legge regionale 3/2013 si pone in contrasto con l’art. 117 comma 1 e 2 lettera s) Cost. «in ragione della arbitraria limitazione del campo di applicazione della disciplina statale contenuta nell’art. 6, comma 2, lettere a) e b), comma 3, comma 3-bis e comma 4, e nell’art. 12 del d.lgs. n. 152 del 2006, attuativo dei principi comunitari contenuti nella direttiva 2001/42/CE, che stabiliscono il campo di applicazione della disciplina della VAS e della verifica di assoggettabilità a VAS, disponendo l’esclusione della stessa solo per particolari tipi di piani e programmi tassativamente elencati e solo per le varianti riguardanti singoli progetti, nonché per contrasto con l’art. 3 della stessa direttiva 27 giugno 2001, n. 2001/42/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente)».

A sostegno della decisione assunta viene richiamata quella giurisprudenza costituzionale che riconduce la tutela dell’ambiente all’interno delle materie di competenza legislativa riservata esclusivamente allo Stato. Ne consegue che la disciplina legislativa regolamentante questo settore funge da limite negativo alla disciplina delle Regioni (anche a statuto speciale) le quali potrebbero introdurre solo una normativa che offra una tutela ambientale più alta e nel rispetto del bilanciamento delle esigenze contrapposte già effettuato dallo Stato (si veda sul punto C.Cost. 145/13; 225/12).

La stessa giurisprudenza costituzionale, inoltre, riconduce la valutazione ambientale strategica e la relativa disciplina (d.lgs. 152/06) alla materia della «tutela dell’ambiente» (sentenze n. 227, n. 192, n. 129 e n. 33 del 2011), di competenza esclusiva dello Stato. Risultano, dunque, consentiti specifici interventi da parte delle regioni solo in presenza di interessi espressivi di una competenza propria delle stesse, quand’anche questi intercettino trasversalmente interessi ambientali.

‹‹É indubbio, pertanto, «che il significativo spazio aperto alla legge regionale dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 non possa giungere fino a invertire le scelte che il legislatore statale ha adottato in merito alla sottoposizione a VAS di determinati piani e programmi; scelte che in ogni caso sono largamente condizionate dai vincoli derivanti dal diritto dell’Unione» (sentenza n. 58 del 2013).

Da quanto detto segue che la norma censurata, nel prevedere una generale sottrazione delle varianti disciplinate dalla stessa dal processo di valutazione ambientale strategica ed anche alla stessa verifica di assoggettabilità viola la tutela offerta dal d. lgs. 152/2006 ed in particolare l’art. 6 commi 3 e 3-bis, a nulla rilevando la possibilità di applicare la disciplina in materia di VIA.

Come ricordato dalla Corte Costituzionale, infatti, la VAS e la VIA sono istituti che vanno tenuti distinti.

Ugualmente meritevole di accoglimento è la censura mossa avverso l’art. 34 l. reg. 3/2013 nella parte in cui dispone che le varianti del piano regolatore generale (PRG) debbano essere «conformi agli strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica regionali e provinciali», senza prevedere la partecipazione del Ministero competente.

Questa disposizione normativa, ponendosi in contrato con l’art. 145 comma 5 d.lgs. 42/2004, che impone la partecipazione dello stato alla verifica di conformità del PRG al PPT, violerebbe anch’essa l’art. 117 comma 2 lett. s) cost.

‹‹Costituisce, infatti, affermazione costante […] quella secondo cui l’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica «è assunta a valore imprescindibile, non derogabile dal legislatore regionale in quanto espressione di un intervento teso a stabilire una metodologia uniforme nel rispetto della legislazione di tutela dei beni culturali e paesaggistici sull’intero territorio nazionale» (sentenza n. 182 del 2006). Al contrario, nella specie, la generale esclusione della partecipazione degli organi ministeriali nei procedimenti di adozione delle varianti, nella sostanza, veniva a degradare la tutela paesaggistica da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica (sentenza n. 437 del 2008). VA



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Inserito in data 14/07/2014
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 11 luglio 2014, n. 1776

Revoca patente di guida post misura di sicurezza: natura giuridica e giurisdizione

Il Collegio pugliese, aderendo ad un orientamento giurisprudenziale già consolidato, delimita la natura giuridica della situazione soggettiva sottesa al provvedimento di revoca della patente di guida – emesso a seguito dell'irrogazione, a carico del titolare, di una misura di sorveglianza speciale di p.s.

I Giudici, infatti, precisano che “il provvedimento prefettizio col quale, ai sensi degli artt. 120 e 219 Cod. strad. – applicabile ratione temporis al caso di specie - , viene disposta la revoca della patente di guida a seguito dell'irrogazione, a carico del titolare, della misura della sorveglianza speciale di p.s., non può essere assimilato alle sanzioni amministrative, poiché esso non costituisce conseguenza accessoria della violazione di una disposizione in tema di circolazione stradale, bensì la constatazione dell'insussistenza, originaria o sopravvenuta, dei requisiti morali prescritti per il conseguimento del titolo di abilitazione alla guida” (Cfr. Cass. civ, II, 4.11.2010, n. 22491).

Non ricorre, pertanto, una sanzione accessoria – ex art. 120, 2’ co. del Codice della strada, irrogabile al fine di impedire l’uso del veicolo per eventuali, successivi reati: in casi simili, infatti, si compirebbe una valutazione discrezionale da parte dell’Amministrazione e la conseguente situazione giuridica vantata dal ricorrente sarebbe di interesse legittimo.

Ricorre, invece, un accertamento vincolato– ex art. 120, 1’ co. del Codice della strada, volto alla valutazione della sussistenza – in capo all’odierno ricorrente – dei requisiti morali necessari ai fini della circolazione stradale.

Si configura, pertanto, un diritto soggettivo perfetto ed occorre, di conseguenza, devolvere l’odierna controversia all’attenzione dell’AGO, in applicazione dei principi della translatio iudicii (art. 59 l. n. 69/09; art. 11 2° co. c.p.a). CC



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Inserito in data 14/07/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, DECIMA SEZIONE - SENTENZA 10 luglio 2014, Causa C-358/12

DURC irregolare, esclusione giustificata

I Giudici dell’Unione europea avallano la normativa italiana in materia di appalti pubblici, con riguardo ad una particolare ipotesi di esclusione dalla gara.

E’ condiviso, infatti, l’intento del Legislatore italiano di estromettere dall’aggiudicazione un'impresa non in regola con il pagamento dei contributi previdenziali (DURC), una volta che sia stata superata una determinata soglia, definita «grave», e cioè di importo superiore sia a 100 euro che al 5% delle somme dovute. CC




Inserito in data 12/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 luglio 2014, n. 3570

Caratteri e disciplina degli oneri reali

La sentenza del Consiglio di Stato è interessante perché ci ricorda i caratteri e la disciplina degli oneri reali.

In primo luogo, è configurabile questo istituto nei casi di prestazioni a carattere periodico dovute dal colui che permane nel godimento di un determinato bene immobile. Fonte dell’obbligo è in questo caso la cosa e il rapporto che la lega al titolare (res, non personam, debet), per cui il creditore potrà soddisfarsi sulla stessa esercitando un’azione reale”.

In secondo luogo, […] nel caso di alienazione di un bene sottoposto all’onere reale, il creditore acquista nei confronti dell’avente causa i medesimi diritti che aveva nei confronti dell’originario proprietario, il quale però continua ad essere in proprio obbligato, secondo le regole della solidarietà”. TM



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Inserito in data 12/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 8 luglio 2014, n. 15824

Responsabilità del rivenditore di bene difettoso verso l’acquirente-produttore

La Seconda sezione civile della Corte di Cassazione si occupa della responsabilità del rivenditore per i danni cagionati al compratore-operatore professionale dal prodotto difettoso: nella specie, un noto operatore professionale nel settore alimentare aveva acquistato da un rivenditore peperoncino rosso adulterato con un colorante cancerogeno (il “Sudan rosso I”) e lo aveva utilizzato per condire delle olive destinate ai consumatori.

A giudizio della Suprema Corte, la responsabilità del rivenditore è soggettiva (per colpa). Per la giurisprudenza consolidata, “in tema di vizi della cosa venduta, ai sensi dell’art. 1494 cod. civ., il rivenditore è responsabile nei confronti del compratore del danno a lui cagionato dal prodotto difettoso de non fornisce la prova di aver attuato un idoneo comportamento positivo tendente a verificare la qualità della merce ed a controllare in modo adeguato l’assenza di vizi, anche alla stregua della destinazione della merce stessa, giacché i doveri professionali del rivenditore impongono senz’altro, secondo l’uso della normale diligenza, controlli periodici o su campione, al fine di evitare che notevoli quantitativi di merce presentino gravi vizi di composizione”.

In particolare, la Corte di Cassazione si sofferma sul contenuto dei controlli cui è tenuto il rivenditore: “onde individuare la contaminazione di alimenti da parte di inquinanti non codificati, la diligenza professionale richiede di  affiancare alle analisi mirate di routine (da svolgersi secondo metodiche accreditate) anche ulteriori analisi di controllo […] volte ad escludere la presenza di, talora massicce, contaminazioni e sofisticazioni alimentari identificabili”; infatti, “se è ignoto il componente estraneo, è ben noto invece quello che ci deve essere; se, individuato questo, risulta che c’è anche dell’altro, è su questo ‘altro’ incognito che le ricerche si devono appuntare per stabilire di cosa si tratti”.

Pertanto, non viene meno la responsabilità del rivenditore sebbene, al tempo dei fatti per cui è causa, non era stato ancora dato l’allarme sulla presenza di questa sostanza cancerogena negli alimenti, né la Commissione europea aveva imposto agli Stati membri di effettuare i controlli sulle partite di peperoncino rosso per verificare la presenza del Sudan rosso I.

Tuttavia, per la Corte di Cassazione, l’acquirente dell’alimento adulterato, operatore professionale e produttore, intenzionato ad utilizzare la spezia acquistata per la produzione di una sostanza alimentare destinata all’uso umano ha un onere di diligenza che gli impone di effettuare, a sua volta, controlli a campione tesi ad escludere la presenza di additivi nocivi nella spezia comprata prima del suo utilizzo nel prodotto finale; infatti, l’acquirente di merce destinata al consumo alimentare umano, che sia operatore professionale del settore, non può fare esclusivo affidamento sull’osservanza del dovere del rivenditore di fornire cose non adulterate né contraffatte.

Tale onere di diligenza trova fondamento nell’obbligo di sicurezza alimentare del produttore nei confronti del consumatore finale e rileva quale dovere di cooperazione del creditore ai sensi dell’art. 1227, c.2, cc, riducendo la responsabilità del rivenditore nei confronti dell’acquirente professionale per i danni provocati dalla vendita del bene difettoso (costi di produzione, distribuzione e ritiro delle olive in cui è presente il peperoncino oggetto della fornitura; danno all’immagine). TM




Inserito in data 11/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 8 luglio 2014, n. 15491

Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale

Per la Suprema Corte, “nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità psicofisica patita dal danneggiato per il periodo di tempo indicato, e il diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento del danno è trasmissibile agli eredi 'iure hereditatis'; in questo caso, l'ammontare del danno biologico terminale sarà commisurato soltanto all'inabilità temporanea, e tuttavia la sua liquidazione dovrà tenere conto, nell'adeguare l'ammontare del danno alle circostanze del caso concreto, del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte (Cass., 30 ottobre 2009, n. 23053; Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549)”.

Il danno biologico è, altresì, risarcibile iure proprio anche in capo ai prossimi congiunti della vittima allorquando “sia adeguatamente provato il nesso causale tra la menomazione dello stato di salute dell'attore ed il fatto illecito (Cass., 23 febbraio 2004, n. 3549)”.

In conclusione, gli Ermellini puntualizzano che il danno da perdita del rapporto parentale (c.d. 'danno edonistico') “deve essere valutato unitamente al risarcimento del danno morale iure proprio”.

Il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale (ex art. 2059 c.c.) preclude, infatti, “la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (danno alla vita di relazione, danno estetico, danno esistenziale, ecc.), che costituirebbero vere e proprie duplicazioni risarcitorie, fermo restando, però, l'obbligo del giudice di tenere conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi del danno non patrimoniale nel singolo caso, tramite l'incremento della somma dovuta a titolo risarcitorio, in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass., 23 settembre 2013, n. 21716)”. EMF




Inserito in data 11/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 luglio 2014, n. 193

Alterità del Giudice e medesima res iudicanda

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettera c), del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233 (Ricostituzione degli Ordini delle professioni sanitarie e per la disciplina dell’esercizio delle professioni stesse), nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti la professione dei farmacisti, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione”, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione.

In via consequenziale, dichiara, altresì, ”l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, primo e secondo comma, lettere a), b), d) ed e), del d.lgs. C.p.S. n. 233 del 1946, nella parte in cui non prevede la nomina di membri supplenti della Commissione centrale per l’esame degli affari concernenti le professioni dei medici chirurghi, dei veterinari, delle ostetriche e degli odontoiatri, che consentano la costituzione, per numero e categoria, di un collegio giudicante diversamente composto rispetto a quello che abbia pronunciato una decisione annullata con rinvio dalla Corte di cassazione”.

In particolare, “la Commissione centrale esercita «funzioni di giurisdizione speciale» (art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 158 del 2012), in virtù di una qualificazione pacifica nella giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 7 agosto 1998, n. 7753) e, svolgendo un’attività di natura giurisdizionale, avverso le decisioni pronunciate dalla stessa è ammesso ricorso per cassazione, ex art. 111, settimo comma, Cost.”.

Il procedimento disciplinare nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie si articola, infatti, “in una prima fase, svolta davanti all’ordine professionale locale, che ha natura amministrativa; nel caso di impugnazione dell’atto che la definisce, alla stessa segue un’ulteriore fase che è svolta, invece, davanti ad un “giudice” ed ha natura giurisdizionale”.

Tuttavia, i caratteri giurisdizionali del procedimento non escludono “ che lo stesso possa essere caratterizzato da profili strutturali e funzionali peculiari, in coerenza con la specificità delle funzioni esercitate ed alla luce degli interessi allo stesso sottesi, tra questi anche quello di garantire l’indefettibilità e continuità dell’attività svolta dalla Commissione centrale. Nondimeno, tali interessi vanno sempre subordinati al «principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, che ha pieno valore costituzionale ai sensi degli artt. 24 e 111 della Costituzione, con riferimento a qualunque tipo di processo, “pur nella diversità delle rispettive discipline connessa alle peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento”» (C. Cost., sentenza n. 262 del 2003).

In sostanza, il giudice deve sempre rimanere super partes rispetto agli interessi oggetto del processo e deve assicurare «quel “minimo” di garanzie ragionevolmente idonee allo scopo» (C. Cost., sentenza n. 78 del 2002).

Pertanto, in tutti i tipi di processo “devono essere previste regole in grado di proteggere in ogni caso il valore fondamentale dell’imparzialità del giudice, impedendo, in particolare, che quest’ultimo possa pronunciarsi due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 335 del 2002), specie nel caso di rinvio proprio o prosecutorio (sentenza n. 341 del 1998)”.

D’altra parte, “la diversità del giudice-persona fisica salvaguarda la stessa effettività del sistema delle impugnazioni, poiché queste «rinvengono, in linea generale, la loro ratio di garanzia nell’alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla» ed opera anche in senso “discendente”, con riguardo, cioè, al giudizio di rinvio dopo l’annullamento (sentenza n. 183 del 2013) tutte le volte in cui sia stata effettuata una valutazione definitiva sulla stessa res iudicanda”.

Alla luce di quanto suddetto, la Consulta, in passato, ha “dichiarato costituzionalmente illegittima la norma che, non prevedendo la nomina di ulteriori membri supplenti della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, non impediva, in caso di annullamento con rinvio di una decisione dalla stessa pronunciata, che lo stesso collegio giudicante si pronunciasse due volte sulla medesima res iudicanda (sentenza n. 262 del 2003; analogamente, con riguardo alla mancata previsione della nomina di supplenti in grado di assicurare meccanismi di sostituzione del componente astenuto, ricusato o legittimamente impedito del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in relazione proprio ad un giudizio di rinvio, sentenza n. 305 del 2002)”. EMF



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Inserito in data 10/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 luglio 2014, n. 3482

Presupposti di ammissibilità del ricorso in ottemperanza

La terza sezione del Consiglio di Stato ci ricorda che il giudizio di ottemperanza è ammissibile, al ricorrere di un comportamento della P.A. che viola o elude il giudicato, in assenza di situazioni nuove.

A fronte di un giudicato, in sede di riedizione del potere, l’Amministrazione può tenere due condotte: 1) riesercitare il potere, valutando differentemente situazioni che, esplicitamente o implicitamente, sono state oggetto di esame da parte del giudice; 2) riesercitare il potere, tenendo conto non solo della decisione del giudice, ma anche di situazioni nuove e non contemplate in precedenza.

Nel primo caso, la riedizione del potere soggiace a vincoli e limiti precisi, derivanti dal giudicato: ciò in linea con “l’orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per la quale l’Amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. C.E.D.U., 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia)”. Pertanto, il superamento di tali limiti lascia emergere un comportamento elusivo, sindacabile in sede di ottemperanza.

Nel secondo caso, l’esigenza di certezza, propria del giudicato, non è tale da proiettare il suo effetto vincolante. “Resta inteso comunque che l’art. 112, comma 1, del c.p.a. imponga a tutte le parti l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice, e ciò soprattutto per la Pubblica Amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum e in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante completamento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale)”. TM



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Inserito in data 10/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE PENALE - SENTENZA 4 luglio 2014 n. 29009

Sull’aggravante del metodo mafioso e sugli atti di concorrenza ex art. 513 bis cp

La sentenza della seconda sezione della Cassazione penale è interessante sotto due profili.

In primis, individua i presupposti di applicabilità dell’aggravante del “metodo mafioso”, prevista dall’art. 7, D.L. 13 maggio 1991, n. 152. Aderendo all’orientamento prevalente, la Corte afferma che per la configurabilità di tale aggravante, “non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione a delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa” .

In secundis, s’interroga sull’interpretazione degli “atti di concorrenza”, elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 513 bis (illecita concorrenza con minaccia o violenza). Condividendo l’indirizzo giurisprudenziale più recente e ormai prevalente, si afferma che “l’art. 513-bis cod. pen.  punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando, invece, nella fattispecie astratta, gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare l’altrui libera concorrenza” . In altri termini, si procede ad una lettura restrittiva del delitto in esame, in base alla quale la limitazione della concorrenza non è solo il fine perseguito dall’agente, bensì anche un carattere intrinseco della condotta del reo. Questa lettura restrittiva va preferita perché conforme alla lettera della norma – che distingue gli atti di concorrenza dagli atti di violenza o minaccia – e rispettosa dei principi di legalità e tassatività. Evidenziata, poi, la diversità dei beni giuridici protetti dal delitto de quo (ordine economico e, quindi, normale svolgimento delle attività produttive connesse) e dal delitto di estorsione (patrimonio dei singoli), la seconda sezione afferma la configurabilità di un concorso formale dei delitti predetti, quando si realizzino contemporaneamente gli elementi costitutivi di entrambi i reati; con la conseguenza che, laddove non si ravvisino gli atti di concorrenza propri del delitto ex art. 513 bis cp, può comunque configurarsi il delitto di estorsione, consumato o tentato. TM

 




Inserito in data 09/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE all’ADUNANZA PLENARIA, 3 luglio 2014 n. 3347

Sui poteri sostitutivi del giudice dell’ottemperanza: rimessione alla Plenaria

Con l’ordinanza in epigrafe, l’Adunanza Plenaria è chiamata a dirimere il seguente quesito di diritto: “se nella fase di ottemperanza - con giurisdizione, quindi, estesa al merito - ad una sentenza avente ad oggetto una domanda demolitoria di atti concernenti una procedura espropriativa, rientri o meno tra i poteri sostitutivi del giudice, e per esso, del commissario ad acta, l’adozione della procedura semplificata di cui all’art. 42 bis“.

A tal proposito, parte della giurisprudenza (Cons. St., nn. 1222 e 1344 del 2014) nega tali poteri sulla scorta del principio di corrispondenza tra “chiesto” e “pronunciato”: si assisterebbe, infatti, “alla singolare situazione per cui lo stesso giudice, che in sede di cognizione ha ritenuto che il bene dovesse essere restituito al legittimo proprietario, in sede di ottemperanza ordinerà invece all’amministrazione di impossessarsi dello stesso bene, anzi addirittura la sostituirà, mandando un suo ausiliario a mettere in atto tale proposito”.  

D’altronde, “tale conclusione risulterebbe ulteriormente confermata dalla maggiore incidenza economica che avrebbe l’adozione del provvedimento ex art. 42-bis: per cui deve essere lasciata all’esclusiva valutazione dell’amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili”.

Per contro, un secondo filone interpretativo ritiene “che il commissario ad acta possa sostituirsi all’amministrazione competente al fine di portare a compimento la procedura espropriativa per il tramite del provvedimento di cui all’art 42-bis, dando così rilievo ai poteri concessi al giudice amministrativo in sede di ottemperanza” ” (cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 6351 del 2011).

Siffatta ricostruzione, invero, fornirebbe una tutela sostanziale al proprietario (ex art. 24 Cost.), “nel senso di impedire che eventuali ulteriori dilazioni da parte dell’amministrazione nell’adempimento della sentenza possano continuare a nuocere all’interessato, con evidente perdita di efficacia dei poteri sostitutivi del giudice in sede di ottemperanza e, conseguentemente, di quelli del commissario  ad acta  nominato in tale sede”.

Del resto, “anche secondo l’orientamento formatosi nel vigore dell’art. 43, l’atto di acquisizione sanante era applicabile in sede di giudizio di ottemperanza” (cfr. Cons. St., sez. IV, 03.09.2008 n. 4114).

Ciò posto, il Collegio ritiene doveroso rammentare che “le Sezioni Unite della Cassazione, con ordinanza 13.01.2014, n. 441, hanno rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della norma di cui all’art. 42 bis del T.U. appr. con d.P.R. n. 327 del 2001, sotto diversi profili”. EMF



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Inserito in data 08/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 luglio 2014, n. 3435

Requisiti soggettivi ed elementi oggettivi dell’offerta negli appalti integrati

Il Supremo Consesso ha accolto l’appello principale avverso la pronuncia di primo grado concernente una procedura di appalto integrato da svolgersi secondo il criterio di scelta dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in tal modo confermando il provvedimento di aggiudicazione emanato in favore della società appellante.

Il Consiglio di Stato ha preliminarmente esaminato e rigettato le censure mosse in sede di ricorso incidentale promosso in primo grado da parte della società appellante avverso l’illegittima partecipazione e mancata esclusione dalla procedura concorsuale della società appellata.

Particolare rilievo sembra assumere l’esclusione della indeterminatezza dell’offerta fondata sulla esatta interpretazione del concetto di “variante” rispetto al progetto predisposto dalla stazione appaltante.

A parere del Supremo Consesso, infatti, <<costituiscono varianti ex art. 76 d.lgs. n. 163 del 2006 le modifiche progettuali e non già le soluzioni tecniche consentite proprio sulla base del progetto predisposto dalla stazione appaltante e che non comportino uno stravolgimento dell’ideazione sottesa a quest’ultimo (C.d.S. 819/14; 5160/13; 4916/12) […] queste ultime “sono consustanziali alle procedure di affidamento secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, come tipicamente sono gli appalti integrati, nel quale la finalità perseguita è quella di giovarsi degli apporti tecnici dei privati al fine di meglio conseguire gli obiettivi prestazionali prefigurati dall’amministrazione con il progetto posto a gara>>.

Accertata, dunque, la consequenziale legittimazione della società appellata a contestare in giudizio il provvedimento di ammissione e di aggiudicazione in favore dell’appellante, il Consiglio di Stato ha proceduto all’esame del ricorso principale, le cui censure sono state riproposte dinanzi allo stesso e vertevano sostanzialmente sul possesso dei requisiti soggettivi necessari alla partecipazione o  sulla carenza di elementi oggettivi nell’offerta da presentata.

In particolare veniva contestata la mancanza della figura del geologo, prevista dal bando di gara, in seno alla società di ingegneria indicata dall’aggiudicataria nella propria offerta.

Più precisamente, il motivo d’appello verteva sulle disposizioni della normativa di gara che in cui imponevano di indicare un geologo tra i progettisti.

Sul punto si è osservato che <<l’indicazione del geologo richiesta dal disciplinare deve essere letta in relazione al disposto dell’art. 91, comma 3, cod. contratti pubblici, il quale consente di sub-affidare le indagini geologiche, geotecniche, sismiche, i sondaggi, i rilievi, le misurazioni e picchettazioni, strumentali allo sviluppo dell’attività di progettazione esecutiva oggetto dell’appalto integrato, a soggetti non facenti parte dei progettisti a ciò espressamente designati e direttamente responsabili nei confronti della stazione appaltante>>. Ciò in quanto <<gli interessi dell’amministrazione non sono minimamente pregiudicati, potendo la stessa confidare sulla responsabilità dei predetti progettisti, ai sensi dell’ultimo inciso del predetto art. 91, comma 3>>.

Inoltre l’amministrazione risulterebbe sufficientemente tutelata dalla disciplina del subappalto di cui all’art. 118 d.lgs. n. 163 del 2006, applicabile nel caso di specie in virtù del rinvio ad essa da parte dell’art. 252, comma 5, del regolamento di esecuzione.

Pertanto, mancando un rapporto diretto tra il soggetto indicato e la pubblica amministrazione, non risulta necessaria la dichiarazione dei requisiti generali prevista dall’art. 38 del codice dei contratti pubblici mentre le verifiche in ordine al possesso dei requisiti di affidabilità morale seguono la disciplina del subappalto.

Per lo stesso motivo, non essendo configurabile un raggruppamento temporaneo, ma solo l’affidamento di attività strumentali alla progettazione esecutiva, non risultano violate le prescrizioni di cui all’art. 253 comma 5 d.p.r. 207/10.

Si eccepiva, inoltre, l’inammissibilità della variante operata in relazione alla scelta dei materiali da utilizzare in quanto asseritamente peggiorativa in ragione della maggiore onerosità della gestione e manutenzione dell’infrastruttura.

Anche il suddetto motivo è stato considerato privo di ogni fondamento da parte dei giudici di Palazzo Spada i quali hanno affermato che <<il TAR ha in sostanza ricavato una conclusione in contrasto con le possibilità aperte dalle disposizioni di gara, che hanno ammesso la modifica del progetto predisposto dalla stazione appaltante, senza espressamente escludere alcuni materiali utilizzabili. […] D’altra parte la legislazione in materia di appalti pubblici (ed a ben vedere il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa) consente che l’amministrazione acquisisca apporti dell’offerente sin dalla fase della progettazione inerente al contratto da affidare, al fine di reperire le soluzioni maggiormente in grado di soddisfare le proprie esigenze.

Inoltre il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover considerare che <<l’offerta migliorativa era stata formulata dall’appellante nell’ambito del sub-elemento di valutazione dell’offerta tecnica relativo “all’ottimizzazione della funzionalità della nuova conduttura, anche in relazione alla gestione del moto viario ed alle gestione delle pressioni di esercizio”(per un massimo di 15 punti)>>.

La valutazione di questa “miglioria”, pertanto, rientrava nella valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, censurabili in sede giurisdizionale solo per manifesta illogicità o irragionevolezza, vizi non presenti nel caso in questione. VA



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Inserito in data 08/07/2014
COSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 luglio 2014, n. 3445

Dies a quo del termine per promuovere il procedimento disciplinare

Il Consiglio di Stato ha dichiarato infondate le censure di intempestività mosse avverso la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso inflitta a seguito di una pronuncia penale irrevocabile.

Il Supremo Consesso ha precisato che il termine di 180, previsto dall’art. 38 comma 8 del c.c.n.l. del 5 aprile 1996 del comparto del personale delle aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, entro il quale l’Amministrazione deve iniziare il procedimento disciplinare comincia, è sospeso fino alla sino alla sentenza definitiva con ciò intendendosi che, laddove la denuncia penale non sia presentata dalla stessa amministrazione, è lo stesso temine iniziale del procedimento disciplinare che deve essere  sospeso.

Invero, l’art. 38, commi 5 e 6, del c.c.n.l. deve essere interpretato nel senso che <<laddove l'Amministrazione sia venuta a conoscenza di gravi fatti illeciti penalmente rilevanti e sia tenuta per legge a denunciarli, e' anche facoltizzata ad attivare subito il procedimento disciplinare, che rimane sospeso fino alla sentenza definitiva.

Ma ciò non si verifica allorché la denuncia dei “gravi fatti illeciti” sia stata fatta da un terzo ed abbia comportato l’avvio del procedimento penale>>.

In queste ipotesi, dunque, la Pubblica amministrazione può attendere sino alla conclusione del giudizio penale prima di dar vita al procedimento disciplinare (si veda Cass. civ., sez. lav., 10/03/2010 n. 5806).

L’art. 5, comma 4 L. 97/2001, inoltre, dispone che <<nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti pubblici privatizzati, ancorché a pena condizionalmente sospesa, l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare; e il procedimento disciplinare deve avere inizio, o, in caso di intervenuta sospensione, deve proseguire, entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all'amministrazione o all'ente competente per il procedimento disciplinare>>.

Alla luce del dettato normativo appare evidente che il decorso del termine sia legato alla “notizia” della sentenza irrevocabile e risponde all’esigenza di dare certezza e stabilità ai rapporti contrattuali, evitando che si protragga indefinitamente lo stato di incertezza del rapporto ed il relativo potere disciplinare dell’Amministrazione.

Il dettato normativo, inoltre, evita <<che il termine decorra in un periodo nel quale la predetta Amministrazione sia oggettivamente impossibilitata ad esercitare ogni valutazione in ordine alla instaurazione, ovvero alla riattivazione, della procedura disciplinare>> (Cass.civ., sez. lav., 22/10/2009 n. 22418 ).

Altrettanto priva di fondamento è apparsa l’accusa di genericità delle contestazioni rilievo che l’Amministrazione, nel promuovere il procedimento disciplinare, può effettuare le contestazioni richiamando l’imputazione fatta nel processo penale conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

Nessun avallo, in fine, hanno avuto le accuse relative alla violazione dell’obbligo di motivazione e alla sussistenza del fatto oggetto di contestazione. VA



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Inserito in data 07/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 4 luglio 2014, n. 191

Sul principio di parità delle armi processuali (ex art. 111 Cost.)

Con la pronuncia in esame, la Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 7, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2011, n. 10 nella parte in cui, introducendo l’art. 2, comma 196-bis, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2010), stabilisce che il Commissario straordinario del Governo per il Comune di Roma «deve essere in possesso di comprovati requisiti di elevata professionalità nella gestione economico-finanziaria, acquisiti nel settore privato, necessari per gestire la fase operativa di attuazione del piano di rientro».

Tale disposizione viola il principio di “parità delle armi processuali”.

Il Governo, infatti, da un lato, si è sovrapposto al G.A., che ha disposto l’annullamento del provvedimento di revoca del Commissario straordinario di prima nomina, e, dall’altro, gli ha imposto di “prendere in considerazione, come requisito indispensabile per la validità della nomina, il dato della professionalità maturata nel settore privato, in possesso solo del secondo Commissario nominato e non di quello sostituito”.

D’altra parte, per il Giudice delle Leggi (ex plurimis, sentenza n. 186 del 2013) è ravvisabile la violazione dell’art. 111 Cost. “quando il legislatore statale immette nell’ordinamento una fattispecie di ius singulare che determina lo sbilanciamento fra le due posizioni in gioco”.

A tal proposito, la Corte di Strasburgo ha più volte ribadito che «in linea di principio non è vietato al potere legislativo di stabilire in materia civile una disciplina innovativa a portata retroattiva dei diritti derivanti da leggi in vigore, ma il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione, ostano, salvo che per motivi imperativi di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia» (sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia; 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia; 31 maggio 2011, Maggio e altri contro Italia; 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia; 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia). Per tale ragione, le circostanze addotte per giustificare misure retroattive devono essere «trattate con la massima circospezione possibile» (sentenza 14 febbraio 2012, Arras e altri contro Italia).

A ciò si aggiunga che “lo stato del giudizio, il grado di consolidamento dell’accertamento e la prevedibilità dell’intervento legislativo (sentenza 27 maggio 2004, Ogis Institut Stanislas e altri contro Francia), nonché la circostanza che lo Stato sia parte in senso stretto della controversia (sentenze 22 ottobre 1997, Papageorgou contro Grecia; 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e altri contro Regno Unito) sono tutti elementi valorizzati dal giudice di Strasburgo per affermare la violazione dell’art. 6 della CEDU da parte di norme innovative che incidono retroattivamente su controversie in corso”. EMF



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Inserito in data 05/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 luglio 2014, n. 3357

Caratteri essenziali del sindacato del g.a. sulla discrezionalità tecnica

La sentenza si occupa del sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica, ovvero sull’apprezzamento effettuato dalla PA sulla base di discipline tecnico-scientifiche (nel caso in esame, di regole di valutazione didattica, riconducibili allo svolgimento di prove di esame, implicanti riscontro del grado di maturità raggiunto e delle conoscenze acquisite dagli allievi).

A partire dalla decisione del Consiglio di Stato n. 601 del 1999, si è ritenuto che spetta al giudice amministrativo una piena cognizione del fatto, secondo i parametri della disciplina in concreto applicabile.

Nell’ambito del giudizio di legittimità non può infatti non essere valutata, anche attraverso idonea consulenza tecnica, l’eventuale erroneità dell’apprezzamento della PA, ove tale erroneità sia in concreto valutabile. Appare dunque censurabile ogni valutazione che si ponga al di fuori dell'ambito di esattezza o attendibilità, quando non appaiano rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia. In altre parole, l’esercizio della discrezionalità tecnica deve rispondere ai dati concreti, deve essere logico e non arbitrario.

Ciò mira a garantire, con l’effettività della tutela giurisdizionale, l’esclusione di ambiti franchi da tale tutela, al fine di assicurare un giudizio coerente con i principi, di cui agli articoli 24, 111 e 113 Cost, nonché 6, par.1, CEDU.

Al contrario, si ha eccesso di potere giurisdizionale solo quando l’indagine del giudice di legittimità si sia estesa alla opportunità o alla convenienza dell’atto, con oggettiva sostituzione della volontà dell’organo giudicante a quella della PA competente in materia. CDC



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Inserito in data 05/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 luglio 2014, n. 3359

Non c’è diritto all’assunzione per i vincitori di concorso pubblico

È inammissibile l’accertamento di un diritto alla nomina, in base al consolidato indirizzo giurisprudenziale che non riconosce ai vincitori di concorso, per servizi da svolgere presso PA, un diritto incondizionato all’assunzione. Infatti, la PA ha il potere di non procedere alla nomina in presenza di valide e motivate ragioni di interesse pubblico, che facciano venire meno la necessità o l’opportunità di copertura del posto, disponibile al momento della pubblicazione del bando, pur dovendosi valutare la ragionevolezza e la coerenza delle scelte successivamente compiute.

Il diverso indirizzo della giurisprudenza della Cassazione, che configura il bando di concorso – per i lavori a contratto anche presso PA – come “offerta al pubblico”, idonea a costituire presupposto di un vero e proprio diritto all’assegnazione del posto, non rileva nel caso affrontato. Infatti, il posto da assegnare richiedeva un atto unilaterale di nomina, implicante la stabile collocazione in ruolo della dipendente interessata, in base ai posti disponibili nella pianta organica per la qualifica di riferimento. La collocazione poteva quindi essere controbilanciata da ragioni di interesse pubblico, da cui poteva derivare una rideterminazione dell’organico. CDC



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Inserito in data 03/07/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 25 giugno 2014, n. 184

Parziale illegittimità costituzionale dell’art. 517 c.p.p.

La Corte Costituzionale, essendo stata sollevata una questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 517 c.p.p. dal Tribunale ordinario di Roma con ordinanza del 21/02/2014, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma in questione, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. << nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale>>.

La problematica trae spunto da un procedimento penale nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all’art. 186 comma 2 lett. b) del nuovo codice della strada, poi aggravato in fase di dibattimento a seguito dell’escussione di alcuni testimoni, avendo il pubblico ministero contestato le circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2. Sexies dell’art. 186 sopra citato.

A seguito della modifica della contestazione, infatti, l’imputato aveva presentato una richiesta di patteggiamento, pur essendo decorso il termine previsto dagli artt. 556 comma 2 e 555 comma 2 c.p.p.

Il giudice remittente, tuttavia, rileva come la richiesta fosse stata <<originata dalla contestazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 517 c.p.p. delle circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-sexies dell’art. 186 Cod. d. Strada […] suscettibili di un significativo mutamento sanzionatorio in danno dell’imputato […] La possibile richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, peraltro, era stata rappresentata dall’imputato fin dagli atti introduttivi del dibattimento, «attraverso la produzione della dichiarazione di disponibilità» del presidente di una onlus a far lavorare l’imputato nel caso di sostituzione della pena>>.

Secondo il giudice rimettente, dunque, la norma violerebbe l’art. 24 comma 2 Cost. e dell’art. 3 Cost. rispettivamente laddove osti alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di patteggiamento a fronte di una contestazione tardiva, da parte del pubblico ministero, di circostanze aggravanti note già nella fase delle indagini preliminari, non consentendo all’imputato un’adeguata valutazione della possibilità di rinuncia al dibattimento e discriminando la possibilità di accesso al rito speciale in ragione della completezza ed esaustività delle indagini.

La Suprema Corte di legittimità ha avallato le censure mosse dal giudice a quo richiamando dei propri precedenti giurisprudenziali (sentenze n. 237 del 2012 e n. 333 del 2009), nei quali viene chiarita la ratio della disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali; la norma in questione introdurrebbe una certa flessibilità, all’interno di un sistema accusatorio che prevede la formazione della prova in sede dibattimentale,  consentendo di adattare gli esiti della suddetta istruttoria, <<quando alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale>>.

Presupposto indefettibile per l’applicabilità degli artt. 516 e 517 c.p.p. è, dunque, << la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere nel corso dell’istruzione dibattimentale>>.

Il Supremo Consesso, inoltre, ricorda come le Sezioni Unite della Cassazione, attraverso un’interpretazione estensiva, abbiano consentito l’utilizzo delle contestazioni anche come strumento correttivo per eventuali incompletezze od errori commessi dal pubblico ministero (S.U. Cass. 4/1998; Cass. 333/09).

Questa lettura estensiva delle norme, però, deve poter tener conto anche delle esigenze difensive: a tal fine il codice di procedura penale prevede la possibilità, per l’imputato, di richiedere un termine a difesa non inferiore a quello previsto dall’art. 429 c.p.p. , nonché l’acquisizione di nuove prove (art. 519 c.p.p.). Rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale che <<costituiscono anch’essi «modalità, tra le più qualificanti (sentenza 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere, in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta>>.

La Corte Costituzionale, superando l’orientamento giurisprudenziale che subordinava la tutela dell’interesse dell’imputato ai benefici dei riti speciali alle ipotesi in cui la sua condotta consentisse effettivamente di evitare il dibattimento (sentenze n. 593/90; 129/93; n. 316/92) e che riteneva non imprevedibili le modificazioni delle imputazioni, ha affermato che <<le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali. Anche il principio di eguaglianza viene violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni (sentenza n. 265/94).

A parere della Suprema Corte Costituzionale le medesime esigenze difensive sopra esposte sussisterebbero anche nella fattispecie sottoposta alla sua attenzione che ha visto la trasformazione dell’imputazione in un’ipotesi circostanziata: tale modificazione, infatti, comporterebbe comunque un non indifferente aggravamento del quadro sanzionatorio, a nulla rilevando che l’aggravamento sia solo potenziale in quando affidato alla discrezionale valutazione del giudice ed al suo potere di bilanciamento.

<<In conclusione, poiché «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», non vi è dubbio che, in seguito al suo errore e al conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, sì che «risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenza n. 265 del 1994)>>. VA



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Inserito in data 03/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 giugno 2014, n. 3274

Curatore fallimentare e responsabilità per la rimozione di rifiuti

Il Supremo Consesso si è pronunciato in merito alla possibilità di configurare in capo al curatore fallimentare una responsabilità per lo smaltimento dei rifiuti prodotti dall’impresa fallita, con particolare attenzione all’ipotesi in cui, come nel caso di specie, lo stesso non sia stato autorizzato alla prosecuzione dell’attività aziendale.

Dopo aver risolto in senso positivo le questioni preliminari, relative all’ammissibilità o meno del ricorso, facendo leva sulla natura provvedimentale dell’ordinanza emessa dal comune e sul carattere innovativo della stessa sul versate della legittimazione passiva, il Consiglio di Stato ha affrontato la questione principale: se l’avvicendamento del curatore nel rapporto di locazione dell’immobile interessato comporti il subingresso anche nell’obbligo di dare esecuzione alle ordinanze emesse dal comune (nelle quale, appunto, si ordinava di procedere alla rimozione dei rifiuti).

I giudici di Palazzo Spada, richiamando alcune precedenti pronunce, hanno affermato che <<l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area>> (decisione n. 4328 del 29 luglio 2003);  <<il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di un obbligo gravante sull'impresa fallita>>. Invero, <<Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti>>.

A tanto si giunge sulla base della considerazione che l’attività che ha originato i rifiuti risale a condotte antecedenti ed indipendenti dal fallimento in capo al quale, pertanto, non può configurarsi alcun tipo di responsabilità, neppure in forma omissiva.

Il Supremo Consesso afferma, inoltre, che quanto affermato è ancor più fondato laddove, come nel caso di specie, <<il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti>>.

Ne consegue la completa estraneità dell’organo fallimentare all’illecito ambientale. Lo stesso, inoltre, sarebbe anche privo di poteri gestori che travalichino quelli relativi alla liquidazione ed al soddisfacimento della massa dei creditori.

In fine il Consiglio di Stato, richiamando la decisione n. 3885/2009, rileva come una diversa soluzione comporterebbe un sovvertimento del principio giuridico “chi inquina paga” sotteso all’art. 192 d.lgs. 152/06 (che addossa gli obblighi in questione al responsabile dell’illecito e, solidalmente, al proprietario dell’area, o titolare di altro diritto di godimento, cui la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa). Infatti, laddove si estendesse questa responsabilità anche alla curatela i costi relativi allo smaltimento dei rifiuti andrebbero a ricadere indirettamente sui creditori, intaccando la massa attiva del fallimento (estranei all’attività illecita e già pregiudicati nei loro diritti dal dissesto finanziario dell’impresa).

Alla luce di queste considerazione il Consiglio di Stato ritiene che questa soluzione non possa essere sovvertita neanche dal disposto dell’art. 192 comma 4 d.lgs. 152/06 ai sensi del quale   <<Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni>>.

Ciò in quanto la società fallita rimane un soggetto distinto e separato dagli organi fallimentari, conservando il proprio patrimonio e la propria soggettività giuridica: a seguito della dichiarazione del fallimento, infatti, la società perde solo la disponibilità e non anche la titolarità dello stesso.

<<Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione […]; il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926); […] il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi>>.

Per tali motivi è da escludere la sussistenza di una responsabilità del curatore per gli illeciti ambientali e del correlativo obbligo di porvi rimedio. VA



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Inserito in data 02/07/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 25 giugno 2014, n. 15

Le penalità di mora si applicano anche alle condanne al pagamento di somme di denaro

La questione affrontata concerne l’applicabilità dell’istituto delle penalità di mora, di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), cpa, quando il ricorso per ottemperanza sia proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza che abbia imposto alla PA il pagamento di una somma di denaro.

Com’è noto, tale norma prevede che il giudice dell’ottemperanza possa fissare una somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva della sentenza o per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato. Si delinea così una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, rientrante fra le pene private o sanzioni civili indirette, la quale mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice. Ciò assicura i valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale, a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse.

Secondo l’Adunanza Plenaria, l’istituto opera per tutte le sentenze di condanna del giudice amministrativo, comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie.

In tal senso depone, anzitutto, un argomento di diritto comparato. Infatti, l’istituto in questione discende dal modello francese delle astreintes, nel quale non vi sono limiti strutturali legati alla natura della sentenza di condanna.

Ciò si salda con un argomento letterale. La norma, infatti, non contiene un limite analogo a quello, stabilito dall’art. 614-bis cpc nell’ambito dell’esecuzione civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile.

La soluzione è coerente anche sul piano sistematico. Infatti, nel processo civile la previsione delle penalità di mora per le sole pronunce di condanna ad un non fare o ad un fare infungibile, cioè per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato, mira ad introdurre una coercizione indiretta che colmi l’assenza di un’esecuzione diretta. Tale esigenza non si pone nel giudizio di ottemperanza, in cui tutte le prestazioni sono surrogabili, vista la possibilità di nominare un commissario ad acta con poteri sostitutivi.

Infine, la tesi non è scalfita dall’argomento equitativo, secondo il quale vi sarebbe il rischio di una duplicazione di risarcimenti, con correlativa locupletazione del creditore. Infatti, la penalità di mora, come si è detto, assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria, e non ad una funzione riparatoria. Trattandosi di una pena, e non di un risarcimento, non viene allora in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un unico danno, ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. Semmai, l’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive potranno rilevare al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo. CDC



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Inserito in data 02/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 27 giugno 2014, n. 28009

Finalità di terrorismo e rapporti tra delitti di attentato e dolo eventuale

La sentenza si occupa, fra l’altro, della nozione di finalità di terrorismo (art. 270-sexies cp) e del rapporto tra reati di attentato e dolo eventuale.

Sotto il primo profilo, si analizza in particolare l’elemento soggettivo, che opera in una duplice direzione. Da un lato, l’agente vuole un “grave danno per un Paese od una organizzazione internazionale”. Dall’altro, persegue un fine alternativo, fra i tre indicati dalla norma: intimidire la popolazione, destabilizzare o distruggere strutture politiche fondamentali, costringere il potere pubblico o una organizzazione internazionale a compiere o non compiere un atto.

Quanto alla nozione di “grave danno”, la legge esige l’obiettivo compimento di condotte che possono determinare quel danno (e dunque sono idonee in quel senso). Non basta l’intenzione del danno, in quanto la condotta deve creare la possibilità che si verifichi. Si tratta, dunque, di un evento di pericolo concreto.

L’azione deve poi essere anche finalizzata ad uno dei tre ulteriori eventi, che non deve necessariamente verificarsi, secondo lo schema tipico del dolo specifico.

La sentenza esamina, in particolare, la nozione di “costrizione”. Si nota, anzitutto, che l’essenza della politica consiste nel dispiegamento di forze individuali e sociali al fine di orientare o imporre le scelte rimesse agli organi del potere pubblico; dunque, il fine di condizionamento politico è di per sé solo inidoneo a selezionare le condotte con finalità terroristiche. Allora, la nozione di costrizione deve essere interpretata e ricostruita valorizzando i seguenti profili. In primo luogo, l’atto terroristico deve mirare ad orientare un affare particolarmente rilevante, capace di influenzare le condizioni della vita associato, per il suo oggetto o per le sue implicazioni. Occorre, poi, che vi sia una pressione indebita, cioè illecita. Tuttavia, non qualsiasi azione illecita o violenta può farsi rientrare nella nozione di costrizione, ma solo quella che miri al sovvertimento dei principi fondamentali, che formano il nucleo intangibile dell’assetto ordinamentale.

La sentenza delinea poi i caratteri essenziali dei delitti di attentato, sottolineando come essi siano segnati dall’univoca direzione degli atti verso un evento determinato e dall’idoneità degli atti a produrre la relativa lesione. Si tratta di caratteri analoghi a quelli del delitto tentato: pertanto, anche i delitti di attentato (come il delitto tentato) sono incompatibili con il dolo eventuale. Infatti, la forma del dolo non può che allinearsi alla struttura oggettiva del fatto, e cioè sulla percezione e sulla volizione di una destinazione univoca del proprio agire verso la produzione di un evento dato. CDC




Inserito in data 01/07/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 23 giugno 2014, n. 14220

L’appaltatore è tenuto a denunciare i difetti della materia

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che “l'appaltatore risponde dei difetti dell'opera quando accetti senza riserve i materiali fornitigli dal committente, sebbene questi presentino vizi o difformità riconoscibili da un tecnico dell'arte o non siano adatti all'opera da eseguire ed i difetti denunziati dal committente derivino da quei vizi o da quella inidoneità (Cass. nn. 470/10, 10580/94, 1569/87 e 1771/65). Egli, inoltre, è tenuto ad avvisare il committente che i materiali che questi gli abbia fornito, essendo di cattiva qualità o, comunque, inidonei rispetto all'opera commessagli, non siano tali da assicurare la buona riuscita di questa, con la conseguenza che, in difetto di tale avviso, non può eludere la responsabilità per i vizi dell'opera adducendo che i materiali erano difettosi”.

Tali principi, ricavati dall’esegesi “degli artt. 1655 c.c. (secondo cui l'appaltatore è tenuto a compiere l'opera con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio) e 1663 c.c. (in base al quale l'appaltatore è altresì tenuto a dare pronto avviso al committente dei difetti della materia che quest'ultimo gli abbia fornito, se si scoprono nel corso dell'opera e possono comprometterne la regolare esecuzione), sono agevolmente estensibili alla diversa ipotesi in cui i materiali forniti dal committente, sebbene né difettosi né inadatti, richiedano tuttavia per la loro corretta utilizzazione l'osservanza di una particolare procedura”.

Pertanto, l’appaltatore “ha l'obbligo di valutare previamente il materiale consegnatogli e, ove non l'abbia mai impiegato prima, di informarsi sulle sue caratteristiche intrinseche e sulle tecniche di applicazione che esso richieda, tecniche il cui eventuale apprendimento è a carico dell'appaltatore stesso ed è esigibile al pari del possesso delle ordinarie nozioni dell'arte”. EMF




Inserito in data 01/07/2014
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 27 giugno 2014, n. 1153

Sui criteri di selezione delle offerte

L’art. 81, comma 1, del Codice dei Contratti prevede che “Nei contratti pubblici…la migliore offerta è selezionata con il criterio del prezzo più basso o con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa”.

Ciò posto, è “principio consolidato in giurisprudenza quello per cui la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso) costituisce espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, riguardando il merito dell'azione amministrativa, risulta sottratta al sindacato giurisdizionale di legittimità; né sussiste obbligo di motivazione al riguardo in capo alla P.A.”.

A tal proposito, il Collegio sabaudo osserva che “la norma di cui all’art. 286 del Regolamento di Esecuzione è norma di natura regolamentare, recessiva rispetto al principio generale sancito dalla norma primaria”.  

Tuttavia, esso “non impone l’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ma ne disciplina i contenuti allorchè la stazione appaltante l’abbia adottato nel caso di specie”.

Peraltro, “il regime delle incompatibilità previsto dall’art. 84 D. Lgs. 163/2006 non trova applicazione nelle gare da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, ma solo nelle gare da aggiudicare secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; e ciò in quanto l’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa implica l’esercizio di un potere di scelta tecnico-discrezionale da parte della commissione, mentre al criterio del prezzo più basso fa da sponda una scelta pressoché automatica da effettuare mediante il mero utilizzo dei parametri tassativi prescritti dal disciplinare di gara” (TAR Milano, sez. I, 10 gennaio 2012, n. 57; TAR Brescia, sez. II, 28 ottobre 2009, n. 1780; Cons. Stato, sez. IV, 23 settembre 2008, n. 4613). EMF

 



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Inserito in data 27/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3115

Sulla lottizzazione abusiva

Nel caso in esame, il Consiglio di Stato precisa che, in tema di lottizzazione, le difformità riscontrate rivelavano una destinazione d’uso differente da quella assentita, essendo indice di una destinazione residenziale.

Il mutamento della destinazione, accompagnato, tra l’altro, dalla creazione – in seguito all’attribuzione delle particelle al N.C.E.U. - dei subalterni 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8, integrava, infatti, un’ipotesi di lottizzazione abusiva, in quanto, nell’ambito di una valutazione complessiva dello stato dei luoghi, rivelava una trasformazione urbanistica ed edilizia dei terreni in contrasto con le previsioni dello strumento urbanistico.

Sotto altro profilo, inoltre, l’Amministrazione aveva operato sulla base di una compiuta istruttoria, per cui era platealmente infondata l’asserzione secondo la quale l’Amministrazione si sarebbe limitata a porre a fondamento della propria motivazione gli elementi contenuti nella domanda di condono successivamente ritirata.

Né poteva fondatamente ritenersi, come invece a torto sostenutosi nel mezzo di primo grado, che il riferimento alla tipologia di frazionamento fosse “sibillino” e “poco chiarificatore”.

Inoltre, il Tar, preso atto della circostanza che l’ Amministrazione aveva fornito prova che, con note prot. nn. 1329, 1330, 1331 e 1332 del 29 gennaio 2007, si era provveduto a comunicare alla società Dueffe Costruzioni l’avvio del procedimento “finalizzato all’emanazione eventuale dei provvedimenti di cui ai commi 7 e 8 dello stesso art. 30 D.P.R. 380/2001” (tanto che la società era stata nella condizione di produrre in data 15 febbraio 2007 memorie “ex art. 10 L. n. 241/90”), ha escluso la fondatezza della dedotta violazione sub art. 7 della legge n. 241/1990.

Inoltre, è stata disattesa l’ultima doglianza incentrata nel primo mezzo per motivi aggiunti, laddove si era sostenuto che l’Amministrazione aveva erroneamente ritenuto le difformità denunciate soggette a permesso di costruire, “anziché a semplice d.i.a.”.

Il primo giudice ha fatto presente che l’esposta censura faceva riferimento agli artt. 22 e 32 del D.P.R. n. 380/01, con ciò “intendendosi sostanzialmente dimostrare la possibilità di sanare gli interventi in contestazione in forza di d.i.a.: senonché trattava di motivi estranei all’ipotesi in esame e, dunque, non pertinenti in quanto il provvedimento impugnato non era interessato da problematiche di tal genere, risultando adottato esclusivamente in applicazione della diversa previsione di cui all’art. 30 del medesimo D.P.R.

Nel caso in esame, l’acquisizione di diritto delle aree abusivamente lottizzate - intervenuta in seguito alla maturazione del termine di 90 giorni prescritto dall’art. 30, comma 8, del D.P.R. n. 380/01, richiamato nelle ordinanze nn. 6, 7, 8 e 9, oggetto di impugnativa con i primi motivi aggiunti, ritenuti infondati - non poteva che aver “assorbito ex se l’ordine di demolizione”.

L’area lottizzata e, unitamente ad essa, ovviamente anche i manufatti sulla stessa insistenti non rientravano più nel patrimonio della originaria ricorrente in quanto acquisiti dall’Amministrazione, alla quale, tra l’altro, competeva, ai sensi di legge, il compito di provvedere “d’ufficio, e con spese a carico dei responsabili, alla demolizione delle opere”.

Dunque, ricorrevano pertanto le condizioni per affermare che gli ordini imposti con le ordinanze di immediata sospensione dei lavori e rimozione delle opere nn. 14, 15, 16 e 17 in questione erano venuti meno, né in capo alla originaria ricorrente, non più proprietaria, poteva essere riscontrato alcun interesse all’annullamento degli stessi.

In tema di lottizzazione abusiva, si rammenta che in seno ad una recente decisione (la n. 3381/2012) la Sezione ha avuto modo di rivisitare la fattispecie, pervenendo ad alcune conclusioni traslabili alla fattispecie. A tal proposito, è stato affermato che “al fine di valutare un'ipotesi di lottizzazione abusiva c.d. materiale, appare necessaria una visione d'insieme dei lavori, ossia una verifica nel suo complesso dell'attività edilizia realizzata, atteso che potrebbero anche ricorrere modifiche rispetto all'attività assentita idonee a conferire un diverso assetto al territorio comunale oggetto di trasformazione”.

Specificamente, sussiste lottizzazione abusiva in tutti i casi in cui si realizza un'abusiva interferenza con la programmazione del territorio; la verifica dell'attività edilizia realizzata nel suo complesso, può condurre a riscontrare un illegittimo mutamento della destinazione all'uso del territorio autoritativamente impressa anche nei casi in cui le variazioni apportate incidano esclusivamente sulla destinazione d'uso dei manufatti realizzati.

Invero, il Consiglio di Stato precisa che “è proprio la formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/01 che impone di affermare che integra un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita adeguamento degli standards. Come già affermato dalla giurisprudenza di merito il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibile con le esigenze di finanza pubblica.

Ciò che rileva è il concetto di "trasformazione urbanistica ed edilizia" e non quello di "opera comportante trasformazione urbanistica ed edilizia"”.

Ne discende, ad avviso del Collegio, che il mutamento di destinazione d'uso di edifici già esistenti può influire sull'assetto urbanistico dei terreni sui quali essi insistono e può altresì comportare nuovi interventi di urbanizzazione.

Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia", deve quindi essere interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma (il cui bene giuridico tutelato è costituito, come si diceva in precedenza, dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del Comune), che tende, lo si diceva, appunto, a garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica. La verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa conformità ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire. GMC



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Inserito in data 26/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3118

Sulle procedure di avanzamento di carriera

Il Consiglio di stato, con la sentenza in epigrafe, si occupa della procedura di avanzamento, nell’ambito della quale, allorchè si controverta della promozione a gradi sì elevati della scala gerarchica, vengono valutati i curricula di candidati di eccelso valore, concludendosi con, come affermano i Giudici di Palazzo Spada, “il posizionamento dei candidati a distanza ristrettissima tra loro”.

Nel caso di specie, tra il primo classificato ed il sesto, intercorrevano soltanto cinque centesimi di punto, mentre tra il primo classificato e l’appellante intercorrevano appena quattro centesimi di punto.

Secondo il Consiglio di Stato, il dato numerico appare “indicativo di due emergenze processuali di rilievo: la prima di esse è dimostrativa del gravoso compito demandato alla Commissione di Avanzamento nel graduare carriere impeccabili e certamente luminose e, soprattutto, nel discernere tra i possibili elementi di contrario segno rinvenibili nei curricula a quale di essi dare prevalenza.

La seconda, riposa nel convincimento per cui vi sarebbe già da dubitare se in simile fattispecie si possa razionalmente predicare la sussistenza di indici di “eccesso di potere assoluto” nei termini ipotizzati da parte appellante”.

Anzitutto, i giudici di Palazzo Spada hanno immediatamente sgombrato il campo da un argomento critico, ossia la possibile fondatezza della censura di “eccesso di potere assoluto”, che sembra certamente infondato, per concentrarsi sugli argomenti di maggior spessore critico.

La doglianza di “eccesso di potere assoluto”, non sussiste certamente in quanto lo stesso, per pacifica giurisprudenza, presupporrebbe la individuazione di una figura di ufficiale con precedenti di carriera costantemente ottimi (tutti giudizi finali apicali, massime aggettivazioni nelle voci interne, conseguimento del primo posto nei corsi basici, di applicazione ed in quelli successivi di aggiornamento professionale), ed esenti da qualsiasi menda o attenuazione di rendimento.

Invero, i profili sintomatici di tale vizio, potrebbero cogliersi esclusivamente quando nella documentazione caratteristica risulti un livello tanto macroscopicamente elevato dei precedenti dell’intera carriera dell’ufficiale, da rendere a prima vista il punteggio attribuito del tutto inadeguato.

Il percorso professionale dell’appellante, pur connotato da estrema brillantezza, non presenta “quelle caratteristiche di assoluta, costante e incondizionata eccellenza dal che discende l’insussistenza di quella rara ipotesi di assoluta preminenza che potrebbe consentire l’ipotizzabilità dell’eccesso di potere in senso assoluto”.

L’appellante sostiene che il Tar avrebbe errato nell’avere enfatizzato il dato del primo conseguimento della qualifica apicale, obliando il ben più significativo dato del mantenimento dell’eccellenza in rapporto tra la data di conseguimento e l’anzianità totale.

Ha, in proposito, richiamato la sentenza n. 1363/2011, laddove era già stato stigmatizzato il richiamo a flessioni di rendimento remote; ha fatto presente che egli vantava più note aggiuntive e 26 ricompense morali in più; anche i titoli dell’appellante erano maggiormente pregnanti: egli aveva retto comandi ex art. 27 del dLgs n. 69/2001 (comando isolato operativo) per 251 mesi (il controinteressato per 192 mesi)

Tuttavia, va esclusa l’automatica trasponibilità delle valutazioni rese in sede giurisdizionale dalla Sezione nella sentenza richiamata dalla difesa dell’appellante e recante n. 1363/2011, anche in relazione alla circostanza che in detta procedura i controinteressati Ufficiali “destinatari” della comparazione volta a dimostrare la sussistenza dell’eccesso di potere in senso relativo erano più d’uno.

Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, il Tar, valutando sinotticamente il percorso di carriera dell’appellante e del controinteressato,  ha “utilizzato” in chiave reiettiva un argomento del tutto neutro: nella sentenza gravata, infatti, si pone in luce che il “generale Gentili “attenzionato” dal ricorrente risulta – pur arruolatosi nel Corpo due anni dopo il ricorrente – non aver mai riportato flessioni della qualifica finale, a differenza dello stesso ricorrente, e soprattutto risulta aver conseguito la qualifica apicale di “eccellente” con continuità dopo 5 anni dall’immissione in servizio”.

Il Tar, ha, successivamente, valorizzato la circostanza che il controinteressato non ha mai riportato flessioni della qualifica finale, ha conseguito notazioni di “lode” con continuità già nel grado di maggiore e comunque per un periodo equipollente all’originario ricorrente pur con minore anzianità di servizio, ed ha riportato in carriera un numero significativamente inferiore di flessioni di giudizio nelle singole voci.

Quanto a tale ultimo profilo, il Collegio condivide quanto affermato nella decisione già richiamata n. 1363/2011 circa la non assoluta significatività del dato numerico assoluto delle flessioni di rendimento riportate da ciascun ufficiale, con riguardo ai giudizi per le voci interne delle schede valutative.

Quanto agli incarichi ricoperti, il Tar ha valorizzato nella posizione del controinteressato la circostanza che questi avesse maturato, a fronte della minore anzianità, un maggior periodo di comando rispetto all’odierno appellante e l’oggettivo e particolare rilievo degli incarichi da ultimo espletati dal controinteressato quale Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Generale e quindi come Comandante Regionale della Sicilia.

Il Collegio, condivide il risalto che la giurisprudenza amministrativa attribuisce all’incarico ricoperto dal Gen. Gentili di Sottocapo di Stato Maggiore del Comando Generale e vuol porre in luce che, anche considerando tali emergenze processuali, non pare possa emergere un profilo del controinteressato superiore a quello dell’appellante, il che lascia inspiegato il  divario di punteggio.

Infine, tale carenza motivazionale si accentua laddove si prendano in considerazione gli altri parametri valutativi.

Concludendo, secondo il Consiglio di Stato, l’appello va accolto e per l’effetto, in riforma della gravata decisione, va accolto il mezzo di primo grado con conseguente annullamento dei gravati provvedimenti, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione. GMC



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Inserito in data 25/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2014, n. 3126

Espropriazione per p.u. di immobili privati per interventi alberghieri

Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in epigrafe specifica che l’oggetto della controversia consiste, in sostanza, nello stabilire se, pur a seguito della abrogazione delle norme che consentivano l’espropriazione per pubblica utilità di immobili privati per finalità di realizzazione di interventi alberghieri, sia tuttora possibile disporre tale espropriazione.

In tale sede, viene ribadito che l’art. 24, co. 1, d.l. n. 112/2008, conv. in l. 133/2008, ha abrogato la l. 7 aprile 1938 n. 475, recante “Conversione in legge del R.D.L. 21 ottobre 1937, n. 2180”, contenente provvedimenti per la dichiarazione di pubblica utilità delle espropriazioni per la costruzione di nuovi alberghi e per l'ampliamento e la trasformazione di quelli esistenti in Comuni di particolare interesse turistico.

In particolare, l’art. 1 del R.D.L. n. 2180/1937, ora abrogato, prevedeva che “le opere occorrenti per la costruzione di nuovi alberghi, per l'ampliamento e la trasformazione di quelli esistenti nei Comuni riconosciuti di particolare interesse turistico dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissariato per il turismo - sono dichiarate di pubblica utilità con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Ministro per i lavori pubblici”.

La dichiarazione di pubblica utilità dell’intervento, avrebbe dovuto avvenire sulla base di piani di massima (art. 1, co. 2), che, a loro volta, avrebbero dato luogo a piani particolareggiati da adottarsi nei singoli Comuni (art. 3).

Inoltre, l’art. 4 dichiarava applicabile la legge 25 giugno 1865 n. 2359, sia per le espropriazioni che per la determinazione dell’indennità.

Nel caso in esame, l’intervenuta abrogazione di tale disciplina normativa, è nota anche all’appellante ed è senza dubbio esatto che il vigente ordinamento dell’espropriazione per pubblica utilità, pur come delineato a seguito del DPR n. 327/2001, prevede l’istituto anche nei casi in cui occorra realizzare opere private di pubblica utilità.

A tal proposito, infatti, l’art. 1 prevede che il Testo Unico espropriazioni regola l’espropriazione di beni immobili “anche a favore di privati”; così come l’art. 2, co. 1, lett. c) prevede anche il soggetto privato quale “beneficiario dell’espropriazione”; l’art. 6, co. 9 individua l’autorità competente all’espropriazione finalizzata “alla realizzazione di opere private” ed infine l’art. 36 la misura dell’indennità nei casi in cui l’espropriazione è finalizzata alla realizzazione di opere private di pubblica utilità, indicandola nel “valore venale del bene”.

Tuttavia, secondo quanto specificato dalla Corte “la persistenza della possibilità di espropriazione per opere private di interesse pubblico, e la disciplina di quest’ultima a livello generale, non implicano che ciò possa trovare immediata e specifica applicazione per la realizzazione di alberghi ex novo ovvero per l’ampliamento di quelli esistenti”.

Ciò che il Legislatore, in virtù dell’abrogazione della l. n. 475/1938, ha fatto venir meno è sia, per un verso, la possibilità di ritenere gli interventi di tipo alberghiero quali opere di pubblica utilità ai fini espropriativi, sia, per altro verso, il conferimento del potere espropriativo così finalizzato in capo all’autorità amministrativa, come invece richiesto dall’art. 2, co. 1, DPR n. 327/2001, ma – soprattutto – dall’art. 42 Cost.

I giudici di Palazzo Spada precisano che, posto che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge” (come prevede il secondo comma dell’art. 42), l’espropriazione della stessa è possibile “per motivi di interesse generale” e soprattutto “nei casi preveduti dalla legge” (comma terzo).

Dunque, gli interventi di costruzione e ampliamento di alberghi, per effetto dell’intervenuta abrogazione della relativa disciplina, non rappresentano più una ipotesi che la legge prevede come finalità tale da consentire l’espropriazione della proprietà privata.

Quindi, per tal motivo, appare evidente che non può assumere alcun rilievo, onde giungere a diverse conclusioni, la circostanza che gli interventi “alberghieri” siano considerati di pubblico interesse da altre e distinte previsioni normative (ad esempio a fini edilizi, come indicato dall’appellante: pag. 13 app.), trattandosi, secondo quanto precisato, “della causa di attribuzione di distinto potere amministrativo e mancando comunque l’espressa previsione legislativa di attribuzione del potere espropriativo con riferimento al caso di specie”.

Concludendo, secondo il Consiglio di Stato, non appare fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, co. 1, d.l. n. 112/2008, nella parte in cui abroga la l. n. 475/1938, posto che la individuazione di opere di “pubblica utilità”, rientra nella discrezionalità del legislatore, da esercitarsi con maggior rigore nei casi in cui il sacrificio della proprietà privata debba essere disposto in favore di interventi privati, pur riconosciuti di pubblica utilità.

Nel caso di specie, l’intervenuta abrogazione non appare affetta da irragionevolezza. GMC



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Inserito in data 24/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE - QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 25490

Caratteristiche dei beni sottoponibili a confisca per equivalente

Respingendo le difese del ricorrente, la Corte di Cassazione indica le caratteristiche che devono presentare i beni suscettibili di formare oggetto di confisca per equivalente:

a) ha ad oggetto beni di cui il reo ha la disponibilità;

b) non occorre accertare che tali beni siano pertinenti al reato (e in ciò si differenzia della confisca diretta);

c) “Quanto alla data di acquisto dei beni oggetto del provvedimento ablativo, essa è del tutto irrilevante sia perché trattasi di elemento non contemplato dalla norma, sia perché il principio di irretroattività in materia penale attiene al momento della condotta e non invece al tempo ed alle modalità di acquisizione dei beni destinatari in concreto della sanzione. Sebbene alla confisca per equivalente […] debba attribuirsi natura eminentemente sanzionatoria […] la irretroattività deve intendersi riferita al fatto di reato […] e non certo alla data di acquisizione dei beni su cui cade la sanzione”. TM




Inserito in data 24/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 giugno 2014, n. 3127

Sulla determinazione della indennità di residenza ai titolari di farmacie

L’art. 2 della Legge n. 221/1968, nel testo vigente prima del d.lgs. n. 153/2009, attribuisce l’indennità di residenza «ai titolari delle farmacie rurali, ubicate in località con popolazione inferiore a 3.000 abitanti».

L’articolo unico della legge n. 40/1973 ha inoltre precisato che «ai fini della determinazione della indennità di residenza (...) si tiene conto della popolazione della località o agglomerato rurale in cui è ubicata la farmacia prescindendo dalla popolazione della sede farmaceutica prevista dalla pianta organica».

Con tale pronuncia, i giudici di Palazzo Spada precisano che il d.lgs. n. 153/2009, ha devoluto, alla contrattazione collettiva, la disciplina dell’indennità di residenza dei farmacisti rurali, aggiungendo tuttavia che «fino a quando non viene stipulato l'accordo collettivo nazionale... l'indennità di residenza in favore dei titolari delle farmacie rurali continua ad essere determinata sulla base delle norme preesistenti».

Le parti in questione, si sono riferite alla normativa anteriore come se fosse tuttora vigente; d’altro canto, secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato “anche se le nuove disposizioni pattizie fossero già intervenute, la controversia resterebbe di interesse attuale per le pretese relative al periodo anteriore”.

Nel caso di specie, la farmacia di cui si discute è “l’unica farmacia istituita nel Comune di Péccioli, che non supera i 5000 abitanti; e non è smentito che sia qualificabile “farmacia rurale””; inoltre, nel quadro normativo richiamato, il limite dei 3000 abitanti deve essere verificato con riferimento non già alla popolazione dell’intero Comune, bensì a quella del capoluogo comunale che è il centro abitato nel quale è ubicato l’esercizio farmaceutico – con esclusione degli abitanti dei centri minori e delle case sparse.

Deve specificarsi altresì che la legge n. 40/1973, appare assolutamente inequivoca, poiché dettata a guisa di interpretazione autentica. GMC



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Inserito in data 23/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 13537

C’è danno catastrofale se la vittima ha compreso che la propria fine era imminente

Con la decisione in esame, la Suprema Corte precisa, peraltro, che il danno non patrimoniale per la paura di dover morire (cd. danno catastrofale) si configura solo quando la vittima non solo era cosciente, ma era pure in grado di comprendere che la propria fine era imminente.

Nel caso in esame, invece, l’offeso non aveva avuto consapevolezza della propria morte: infatti, era morto per un infarto, complicanza imprevista delle lesioni procurate dal fatto illecito; anzi, tale circostanza non era sta messa in conto neppure dai medici che lo avevano avuto in cura, tant’è che essi lo avevano tranquillamente dimesso. TM




Inserito in data 23/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 giugno 2014, n. 2964

Sul danno da ritardo

In tema di danno da ritardo, i giudici di Palazzo Spada precisano che il termine previsto dall’art. 2 della legge n. 241/1990 per l’adozione di provvedimenti amministrativi, vanta una natura ordinatoria e non già perentoria e, dunque, l’inosservanza, da parte dell’Amministrazione, non esaurisce affatto il potere di provvedere, né, tanto meno, determina, di per sé, l’illegittimità dell’atto adottato fuori dal termine.

Specificamente, si tratta di un termine c.d. “acceleratorio” ai fini della definizione del procedimento, non contenendo, la legge, alcuna prescrizione circa la sua eventuale perentorietà, né circa la decadenza della potestà amministrativa, né riguardo l’illegittimità del provvedimento adottato.
La richiesta di accertamento del “danno da ritardo”, ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento favorevole, se, da una parte, deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per la natura delle posizioni fatte valere, dall’altra, in virtàù del principio dell’atipicità dell’illecito civile, costituisce una fattispecie sui generis, di natura del peculiare, la quale deve essere ricondotta nell’alveo dell’art. 2043 c.c. per l’identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità.
L’ingiustizia e la sussistenza stessa del danno, non possono, in linea di massima, presumersi iuris tantum, in esclusiva relazione al ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato dovrà, alla luce dell'art. 2697 del codice civile, provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda.

Nel caso di danno da ritardo della P.A., occorrerà verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ossia prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale) e di quelli di carattere soggettivo (dunque, dolo o colpa del danneggiante).
Il mero “superamento” del termine fissato ex lege. o per via regolamentare, alla conclusione del procedimento, rappresenta indice oggettivo, ma non integrerà “piena prova del danno”.

La valutazione sarà di natura relativistica e dovrà tener conto sia della specifica complessità procedimentale, che di eventuali condotte dilatorie dell’amministrazione.
La domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c., può essere accolta dal giudice solo se l’istante dimostri che il provvedimento favorevole avrebbe potuto (o dovuto) essergli rilasciato già ex ante e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell’illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla pubblica amministrazione.

Invece, non vi sarà danno da ritardo nel caso in cui non sia ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’amministrazione e la tempistica procedimentale consenta in modo semplificato di escludere un atteggiamento dilatorio in capo alla P.A.
Il danno da ritardo nel provvedere, deve effettivamente sussistere e dovrà essere provato nel suo preciso ammontare.

Concludendo, il mero ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo, non potrà far presumere, di per sé, la sussistenza di un danno risarcibile, bensì il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda. GMC



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Inserito in data 20/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA 13 giugno 2014, n. 13526

Danno a terzi per omessa esecuzione di lavori su lastrico solare condominiale

Secondo la giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis, Cass SU 3672/97 e Cass 12606/05), in caso di danni a terzi, cagionati dall’omessa esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria su lastrico solare in edificio condominiale, i singoli condomini sono tenuti a concorrere al risarcimento dei danni secondo i criteri di cui all’art. 1126 cc. Infatti, la responsabilità discende direttamente dalla titolarità del diritto reale e dall’inadempimento delle obbligazioni, ad esso relative, di conservazione delle parti comuni.

Secondo la pronuncia in esame, invece, tale orientamento effettua un’indebita applicazione delle norme, quali l’art. 1126 cc, fissate per stabilire il contributo alle riparazioni o ricostruzioni, concepite dal legislatore per tener conto della maggiore utilità che i condomini aventi l’uso esclusivo traggono rispetto agli altri. Tale norma, però, non può riguardare l’allocazione del danno subito dai terzi, il quale risale alla mancata solerzia del condominio nell’apprestare tempestivamente ricostruzioni e riparazioni. Pertanto, l’illecito risale alla condotta omissiva o commissiva dei condomini, che fonda una responsabilità aquiliana, da scrutinarsi secondo le rispettive colpe dei condomini e, in caso di responsabilità condominiale, secondo i criteri millesimali.

Pertanto, visto il ripensamento dell’orientamento maggioritario, la pronuncia rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. CDC




Inserito in data 20/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 20 giugno 2014, n. 14

Dopo la stipula del contratto la PA non può esercitare la revoca, ma solo il recesso

La questione affrontata è se con il potere di revoca attribuito dall’art. 21-quinquies della l. 241/90 la PA possa incidere sul contratto stipulato e come ciò si concili con il carattere paritetico delle posizioni fondate sul contratto, di cui è espressione l’istituto del recesso, regolato in generale dall’art. 21-sexies l. 241/90 e dall’art. 134 cod. contr. per gli appalti di lavori pubblici. Quest’ultima norma, infatti, attribuisce alla PA “il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto”, con obbligo di ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere, oltre al decimo delle opere non eseguite.

Si premette, sul punto, che la fase conclusa con l’aggiudicazione della gara ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre la fase che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è retta dalle norme civilistiche. Pertanto, nella fase privatistica la PA si pone con la controparte in posizione di parità, ma “tendenziale”, in quanto sono apprestate per la PA norme speciali, derogatorie del diritto comune, di autotutela privatistica; ciò perché l’attività della PA, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell’interesse pubblico.

Nel codice dei contratti pubblici, fra le norme speciali relative all’esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici vi è l’art. 134. Esso regola il recesso della PA dal contratto in modo diverso rispetto all’art. 1671 cc, prevedendo il preavviso all’appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere”; invece, per l’art. 1671 cc, il lucro cessante è dovuto per intero e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute.

Allora, deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso, basato su sopravvenuti motivi di opportunità; la specialità della previsione del recesso di cui all’art. 134 preclude, di conseguenza, l’esercizio della revoca.

Se, infatti, è stata prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell’interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale). In caso contrario, la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, dal momento che la PA potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando nel rapporto una posizione privilegiata; peraltro, per la PA la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell’obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale.

Ciò vale con riferimento alla revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici. Restano perciò impregiudicati:

1) la revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto;

2) l’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, l. 311/04, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto;

3) il recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia;

4) la revoca, ex art. 21-quinques l. 241/90, di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dalla PA, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto, nonché in riferimento ai contratti attivi.

In conclusione, secondo il principio di diritto affermato, “nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006”. CDC



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Inserito in data 19/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 25191

Negato concorso tra art. 416 bis c.p. e reimpiego di beni provenienti dal delitto associativo

Con la pronuncia in epigrafe, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione penale hanno negato la configurabilità del concorso tra il reato di associazione mafiosa e i delitti di riciclaggio e reimpiego, quando le operazioni dirette ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa o di reimpiego riguardano i proventi del delitto associativo.

Ad avviso delle Sezioni Unite, “la previsione che esclude l’applicabilità dei delitti di riciclaggio e reimpiego di capitali nei confronti di chi abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto costituisce una deroga al concorso di reati che trova la sua ragione di essere nella valutazione, tipizzata dal legislatore, di ritenere l’intero disvalore dei fatti ricompreso nella punibilità del solo delitto presupposto”.

Inoltre, “Il Collegio, condividendo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso”. Infatti, differentemente dall’associazione a delinquere, l’associazione mafiosa può anche essere costituita per perseguire scopi leciti, come quello di gestire attività lecite produttive di profitto, accentrando il proprio disvalore nell’uso del metodo mafioso. Del resto, nel senso dell’idoneità a generare lucro del reato associativo de quo, depone l’art. 416bis, c. 7, cp, nella parte in cui prevede la confisca del provento di tale reato. Pertanto, “Il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter cod. pen.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti”.

Relativamente alla valenza della clausola di riserva (“Fuori dei casi di concorso nel reato”), le Sezioni Unite aderiscono alla tesi eziologica secondo cui “il criterio per distinguere la responsabilità in ordine a tale titolo di reato dalla responsabilità per il concorso nel reato presupposto […] non può essere unicamente quello temporale, ma occorre verificare, caso per caso, se la preventiva assicurazione di “lavare” il denaro o di reimpiegarlo abbia realmente (o meno) influenzato o rafforzato, nell’autore del reato principale, la decisione di delinquere”. Inoltre, è pacifico che la clausola di riserva può operare solo se l’agente era consapevole di cooperare con altri nella realizzazione del delitto presupposto, secondo gli ordinari principi in tema di concorso di persone.

Di conseguenza, è possibile distinguere varie ipotesi:

a) Il soggetto che non concorre né nel reato associativo, né nei delitti scopo può rispondere ex artt. 648bis c.p. o art. 648ter c.p. per aver riciclato o reimpiegato il denaro, i beni o le altre utilità provenienti da tali reati;

b) colui che prima concorre nel reato scopo, poi ricicla o reimpiega i relativi proventi, risponde dei delitti scopo, aggravati ai sensi dell’art. 7 d.l. 152/91;

c) l’associato che ripulisce (o reimpiega) i proventi dei delitti scopo, risponde sia del reato associativo, che del reato di riciclaggio (o reimpiego);

d) l’associato che ripulisce (o reimpiega) i le utilità derivanti dall’associazione in quanto tale, risponde solo del reato associativo;

e) risponde di concorso esterno in associazione mafiosa l’extraneus che, attraverso l’attività di riciclaggio o di reimpiego dei proventi associativi, fornisce un contributo causalmente efficiente alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o di una sua articolazione;

f) risponde della fattispecie aggravata prevista dall’art. 416bis, c. 6, cp, l’associato che ha commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego da parte sua;

g) risponde del reato punito dall’art. 12quinquies del d.l. n. 306/92, l’autore del delitto presupposto che attribuisce fittiziamente ad altri la disponibilità di beni o altre utilità, di cui rimane effettivamente dominus, al fine di agevolarne una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo (cioè che commette auto-riciclaggio attraverso l’intestazione dei beni provenienti dal reato ad un prestanome);

h) risponde di concorso nel reato punito dall’art. 12quinquies del d.l. n. 306/92, il prestanome che accetta di vedersi fittiziamente intestati i beni provenienti da un delitto, con la consapevolezza che l’attribuzione è finalizzata ad eludere le norme sulle misure di prevenzione patrimoniale o agevolare la commissione di reati di ricettazione, riciclaggio o reimpiego. TM




Inserito in data 19/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 giugno 2014, n. 3050

Ratio del principio dispositivo con onere acquisitivo

La pronuncia in epigrafe è d’interesse anche perché chiarisce bene la ratio del principio dispositivo con onere acquisitivo: difatti, l’onere del ricorrente di introdurre solo un principio di prova media tra l’esigenza dell’onerato di non essere gravato di una probatio diabolica e l’interesse della PA resistente alla parità delle armi e, quindi, a non subire ricorsi meramente esplorativi.  

Nel processo amministrativo, infatti, anche dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (art. 64, comma 2, c.p.a.) il sistema probatorio è retto dal c.d. principio dispositivo con metodo acquisitivo, ol quale comporta l'onere per il ricorrente di presentare almeno un indizio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori e ciò, per l'appunto, è contemplato dal “sistema” proprio in quanto il ricorrente, di per sé non ha la disponibilità delle prove, essendo queste nell'esclusivo possesso dell'amministrazione ed essendo quindi sufficiente che egli fornisca un principio di prova.
 Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente si è limitato a contestare genericamente l’assenza di autorizzazione senza allegare il minimo principio di prova, il minimo indizio a sostegno di tale censura”.

Per altro verso, si esclude “che i poteri officiosi del giudice possano essere utilizzati per sopperire ad una mancanza nella pur attenuta iniziativa probatoria di cui il ricorrente è comunque onerato (nei limiti del richiamato principio di prova) anche nel processo amministrativo”. TM



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Inserito in data 18/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 giugno 2014, n. 3050

Adeguatezza della motivazione numerica del giudizio sulle prove concorsuali

Con la pronuncia in esame, i Giudici di Palazzo Spada ci rammentano che il giudizio su una prova concorsuale può essere motivato in forma numerica, senza incorrere nella violazione dell’art. 3 della L. n. 241/90.

Il voto numerico, infatti, specie nell’ambito delle procedure concorsuali caratterizzate da un numero molto elevato di partecipanti, vale ad integrare, anche alla luce dei criteri di valutazione predeterminati dalla commissione, l’adempimento dell’obbligo motivazionale. Il voto numerico, infatti, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionali delle commissioni esaminatrici, contenendo in sé la motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. La motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere ad un evidente principio di economicità amministrativa, assicura infatti la necessaria chiarezza e graduazione delle valutazioni compiute e del potere amministrativo esercitato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2009, n. 5751)”. TM



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Inserito in data 18/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 giugno 2014, n. 13537

Compensatio tra risarcimento del DP da morte del parente e pensione di reversibilità

Con la sentenza in esame, la sezione terza della Corte di Cassazione afferma la “compensabilità” tra il danno patrimoniale consistente nella perdita delle elargizioni che il coniuge ucciso corrispondeva e la pensione di reversibilità.

Secondo la giurisprudenza finora maggioritaria, invece, tale situazione non giustificherebbe l’applicazione della compensatio lucri cum damno, atteso che il vantaggio non deriva direttamente dal fatto illecito ma dalla legge (ex pluribus, C. 5504/14 e C. 2530/64).

A giudizio della terza sezione sussistono innumerevoli ragioni per superare tale orientamento:

a) la giurisprudenza tradizionale non motiva la propria asserzione, se non rifacendosi alla sentenza “capostipite”, che però riguardava un caso del tutto diverso (ossia la non compensabilità tra danno patrimoniale per la perdita del congiunto e vantaggio conseguente all’accettazione dell’eredità);

b) la tesi tradizionale è affetta da un vulnus logico, nella misura in cui pretende che danno e vantaggio scaturiscano dalla medesima fonte, come se si trattasse di una compensazione in senso tecnico ex art. 1241 cc; viceversa, la stessa legge ammette la compensatio lucri cum damno rispetto ad ipotesi in cui la perdita e il vantaggio traggono origine da atti o fatti eterogenei (cfr. artt. 1149 cc, 1479, 1592, art.1.bis L. 20/94);

c) l’indirizzo tradizionale sconta un vizio dogmatico, poiché richiede la “medesimezza della fonte”, sebben la dottrina che aveva elaborato la compensatio lucri cum damno pretendesse la “medesimezza della condotta” (es. l’autore del fatto illecito non può ridurre la sua responsabilità regolando un viaggio al danneggiato);

d) la giurisprudenza prevalente cade in un errore sistematico, perché interpreta l’art. 1223 cc in modo asimmetrico, ritenendo che il rapporto tra fatto illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato quando accerta il danno, ma esigendo al contrario che lo sia quando accerta il vantaggio provocato dallo stesso fatto illecito;

e) inoltre, in fattispecie analoghe, perviene inspiegabilmente all’opposta conclusione della compensabllità [la giurisprudenza nega il cumulo tra risarcimento del danno da emotrasfusioni e indennizzo ex art. 1 L. 210/92 (C. 991/2014) o tra risarcimento del danno alla salute sofferto da pubblici impiegati per causa di servizio e pensione privilegiata (si veda C. 9094/04) o comunque consente di scomputare il cd. aliunde perceptum del danno patito dal lavoratore ingiustamente licenziato (C. 5676/12) o l’indennità espropriativa dal risarcimento del danno per accessione invertita (C. 11041/90); non c’è un danno patrimoniale risarcibile se il lavoratore ha continuato a conseguire la retribuzione nel periodo di tempo in cui è stato inabile al lavoro a causa del fatto illecito del terzo (C. 3507/78)];

f) tale orientamento, inoltre, determina un’abrogazione tacita dell’azione di surrogazione spettante all’assicuratore (ex artt. 1203, 1916 cc), in violazione di tali disposizioni e di evidenti ragioni di giustizia (impoverisce la collettività, attraverso la fiscalità generale, onerandola del pagamento di una somma che serve non a ristorare la vittima ma ad arricchirla);

g) nel nostro ordinamento (cfrr. artt. 1233, 1224.1, 1909 e 1910 cc), il risarcimento non deve né arricchire, né impoverire la vittima (principio d’indifferenza), con la conseguenza che la vittima ha diritto a ricevere solo la differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito;

h) la pensione di reversibilità ex art. 13 r.d.l. 636/39 ha una funzione indennitaria, mirando a preservare i congiunti dalle conseguenze patrimoniali negative derivanti dal venir meno della fonte principale di reddito del nucleo familiare (es. spetta solo a chi non ha redditi propri); di conseguenza, ripara il medesimo danno causato dal responsabile, riducendolo corrispondentemente.

Sulla scorta del suesposto ragionamento, la Corte di Cassazione formula il seguente principio di diritto: “Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto”. TM




Inserito in data 17/06/2014
CONSIGLIO DI STATO SEZ. V, 16 giugno 2014, n. 3033

Al potere di autentica non si applica anche il criterio di pertinenzialità

I Giudici di Palazzo Spada, chiamati a decidere sulla corretta interpretazione dell’art 14 l. 53/90 e sugli esatti confini del potere di autenticazione disciplinato dal d.p.r. 445/00, contraddicendo il precedente orientamento espresso dalla medesima Sezione con sent. 2501/13 (nella quale era stata affermata la necessita di applicare, per i consiglieri comunali e provinciali, sia il limite territoriale che quello della pertinenza della competizione elettorale, rigetta il ricorso presentato dagli appellanti.

Con la sentenza in commento, infatti, si sostiene che il potere di autentica degli orfani politici non riguardi solo le elezioni dell’Ente di appartenenza (nello stesso senso C.d.S. Sez. V, 716/14;1885/14).

Dirimente ai fini della risoluzione della controversia appare la pronuncia dell’Adunanza Plenaria (sentenza n. 22/2013), la quale ha chiarito che “I pubblici ufficiali menzionati nell'art. 14 L. 21 marzo 1990 n. 53 (e nella specie nell'art. 18 L. reg. Trentino Alto Adige 8 agosto 1983 n. 7) compreso il giudice di pace, sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni delle liste di candidati esclusivamente all'interno del territorio di competenza dell'ufficio di cui sono titolari o ai quali appartengono”. Tanto sul presupposto di un necessario collegamento tra pubblico ufficiale e territorio che faciliti, pur nel rispetto dell’esigenza di certezza e trasparenza, la presentazione delle liste elettorali.

La stessa Adunanza Plenaria, dunque, nulla dice sul criterio di pertinenzialità.

Si sottolinea, inoltre, che “il potere di autenticazione si risolve nell'attestazione del compimento di un'attività materiale, con cui viene certificata l'apposizione della sottoscrizione in presenza del pubblico ufficiale, con immediata trasposizione del risultato di tale percezione in un documento rappresentativo dell'accaduto munito di fede privilegiata, come avviene per gli atti pubblici”. Ne consegue, dal momento che il consigliere provinciale svolge le proprie funzioni all’interno dell’intero territorio della provincia, l’impossibilità, nel silenzio della legge, di affermare l’illegittimità dell’autenticazione operata all’interno del procedimento elettorale relativo ad un Comune che ricada nella Provincia nella quale il Consigliere provinciale esercita le proprie funzioni.

Né possono invocarsi, a sostegno della tesi opposta, esigenze di incertezza giuridica dell’attività di autentica, trattandosi di attività meramente certificativa, priva di qualsiasi finalità di controllo.

Pertanto “una simile limitazione che comporterebbe una significativa deroga alle funzioni del Consigliere provinciale, che, una volta eletto, assume funzioni esercitabili sull’intero territorio provinciale, necessiterebbe, infatti, di una esplicita limitazione legislativa, che nella fattispecie non risulta sussistere”. VA



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Inserito in data 17/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 12 giugno 2014, n. 24874

Natura dell’autorizzazione all’accesso e alle ispezioni ex art. 52 D.p.r. n. 633/72

La Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato avverso l’ordinanza che aveva autorizzato la perquisizione ed il sequestro, presso una società cooperativa ed uno dei soci di cose, necessarie all’accertamento delle violazioni tributarie previste dall’art. 75 d.p.r. 633/72 e 70 d.P.R. 600/1973 emesso in mancanza dell’accertamento dei presupposti richiesti dall’art. 52  d.p.e. 633/72.

Ai sensi del citato articolo, infatti, “L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma puo' essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.

E' in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorita' giudiziaria piu' vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali e' eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”, tuttavia l’ordinanza non motivava in merito all’esistenza dei suddetti “gravi indizi”.

Peraltro il Collegio, nell’argomentare la propria decisione, sottolinea come il ricorsa, in realtà, abbia ad oggetto un provvedimento non sottoponibile a riesame (istituto relativo alle misure probatorie e cautelari) e, conseguentemente non ricorribile per Cassazione ex art. 325 c.p.p.

Nella specie, infatti, (…) semplicemente di una autorizzazione rilasciata dal PM alla GdF per accedere, nel corso delle normali attività ispettive di natura amministrativa, a locali adibiti anche ad abitazione o a locali diversi da quelli indicati dal primo comma dell'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633”. Pertanto l’attività posta in essere aveva natura amministrativa e non rientrava affatto tra quelle compiute dalla polizia giudiziaria.

La stessa giurisprudenza ha più volte ribadito che “in materia di illeciti tributari gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto e delle imposte dirette sono sempre utilizzabili quale "notitia criminis ", in quanto a tali attività non è applicabile la disciplina prevista dal codice di rito per l'operato della polizia giudiziaria, sicché la mancanza o l'irregolarità formale dell'autorizzazione, se è causa di invalidità dell'accertamento fiscale, non riverbera i suoi effetti sull'accertamento penale» (cass. 12017/07;1668/97;11307/95).

L'autorizzazione del procuratore della Repubblica, pertanto, opera solo sul piano amministrativo e non si risolve in un provvedimento con cui venga disposta o autorizzata una misura cautelare o probatoria ai fini penali”.

È lo stesso art. 52 cit. che, al comma 7, prevede il sequestro solo come mezzo eventuale, cui fare ricorso laddove non sia possibile riprodurre i documenti o riportarne il contenuto nel verbale, o in altre ipotesi eccezionali.

Ne consegue l’impossibilità di proporre ricorso per cassazione ex art. 325 c.p.p. avverso un  provvedimento che opera solo sul piano amministrativo. VA




Inserito in data 16/06/2014
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. IV, 12 giugno 2014, n. 3334

Sulla sanatoria del DURC

Con la sentenza in epigrafe, il Collegio napoletano sostiene che la regolarità contributiva è “requisito indispensabile non solo per la partecipazione alla gara ma anche per la stipulazione del contratto (cfr. T.A.R. Umbria 12 aprile 2006, n. 221, Cons. Sato., Sez. IV, 27 dicembre 2004, n. 8215),sì che, l'impresa deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura di gara”.

Pertanto, non può condividersi la tesi “suggestiva e di recente avallata da una pronuncia in giurisprudenza (cfr TAR Veneto n. 486/2014)”.

In particolare, quest’ultima ricostruzione si fonda sulla disposizione di cui al DM 24.10.2007, poi trasfusa nell'art. 31.8 del DL n. 69/2013, recante “semplificazioni” alla disciplina del rilascio del DURC, la quale dispone espressamente che in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio del DURC “gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC….invitano l'interessato……a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”. In sostanza, la novella prevede “che gli enti previdenziali preposti al rilascio del DURC sono tenuti ad attivare un procedimento di regolarizzazione attraverso il quale le imprese siano messe in grado di sanare la propria posizione prima della “certificazione” di una loro situazione di irregolarità”.

Tuttavia, tale normativa, ad avviso del Consesso, “deve ritenersi operante per il solo DURC cd. interno, ossia quello confezionato dall’INPS per il riconoscimento di benefici o sgravi contributivi alla ditta (e che ha una validità temporale inferiore o pari a 30 giorni) e non anche per il documento relativo alla verifica requisiti per partecipazione alle gare di appalto”.

Opinare diversamente, infatti, determinerebbe “una rilevante modifica – peraltro in maniera tacita per incompatibilità sopravvenuta – alla disposizione sostanziale dell’art. 38 del Codice dei Contratti (D. Lgs. n. 163/2006) per il quale è pacificamente acclarato che il requisito della regolarità contributiva necessario per la partecipazione alle gare pubbliche debba essere posseduto dai concorrenti sin dalla data di presentazione della domanda di ammissione alla procedura”.

Non solo.

Sarebbe, altresì, incompatibile “con i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della par condicio tra le imprese concorrenti, in quanto comporterebbe la possibilità di partecipare in ogni caso alle gare per le imprese in stato di irregolarità contributiva, potendo poi fidare sulla possibilità di sanare la propria posizione dopo il preavviso di DURC negativo da parte dell’INPS, con evidente violazione della ratio della disposizione, che nella regolarità contributiva dell’impresa vuole apprezzare non solo un dato formale, ma un dato di affidabilità complessiva della ditta partecipante alla gara”.     

D’altronde, anche la Corte di giustizia UE con la pronuncia del 9 febbraio 1996, in cause riunite C-226/04 e C-228/04) ha affermato che “la sussistenza del requisito della regolarità fiscale e contributiva (che, pure, può essere regolarizzato in base a disposizioni nazionali di concordato, condono o sanatoria) deve comunque essere riguardata con riferimento insuperabile al momento ultimo per la presentazione delle offerte, a nulla rilevando una regolarizzazione successiva la quale, pertanto, non potrà in alcun modo incidere sul dato dell’irregolarità ai fini della singola gara [Cons. St., sez. VI, 5 luglio 2010, n. 4243]”. EMF



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Inserito in data 16/06/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 giugno 2014, n. 174

Sulla q.l.c. dell’art. 135, co. 1, lettera q-quater), del D. Lgs. 104/2010

Con la pronuncia in esame, il Giudice delle Leggi “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 135, comma 1, lettera q-quater), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recente delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui prevede la devoluzione alla competenza inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, delle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti emessi dall’autorità di polizia relativi al rilascio di autorizzazioni in materia di giochi pubblici con vincita in denaro”, per contrasto “con il principio dell’articolazione territoriale della giustizia amministrativa, di cui all’art. 125 Cost.”.

Infatti, “le deroghe alla ripartizione ordinaria della competenza territoriale devono essere valutate secondo un «criterio rigoroso» (sentenza n. 237 del 2007, punto 5.3.1. del Considerato in diritto), essendo di tutta evidenza che − laddove la previsione di ipotesi di competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, non incontrasse alcun limite − il principio del decentramento della giustizia amministrativa e dell’individuazione del giudice di primo grado sulla base del criterio territoriale, a livello regionale, sarebbe esposto al rischio di essere svuotato di concreto significato”.

Ne discende la necessità di “accertare che ogni deroga al suddetto principio sia disposta in vista di uno scopo legittimo, giustificato da un idoneo interesse pubblico (che non si esaurisca nella sola esigenza di assicurare l’uniformità della giurisprudenza sin dal primo grado, astrattamente configurabile rispetto ad ogni categoria di controversie); che la medesima deroga sia contraddistinta da una connessione razionale rispetto al fine perseguito; e che, infine, essa risulti necessaria rispetto allo scopo, in modo da non imporre un irragionevole stravolgimento degli ordinari criteri di riparto della competenza in materia di giustizia amministrativa” (sentenza n. 159 del 2014).

Trattasi, invero, di criteri non riscontrabili nelle controversie previste dalla disposizione impugnata, che attengono “a provvedimenti emessi non già da un’autorità centrale, ma da un’autorità periferica, e segnatamente dalla questura, competente al rilascio di autorizzazioni ex art. 88 del r.d. n. 773 del 1931”. 

Del resto, il carattere squisitamente locale degli interessi coinvolti nel provvedimento non va escluso per il sol fatto che le controversie relative ai provvedimenti de quibus possano “presentare profili di connessione con atti di autorità centrali (e in particolare con quelli emessi dall’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, previsti dalla prima parte della stessa lettera q-quater dell’art. 135, comma 1)”.

D’altra parte, l’accentramento di competenza operato dall’art. 135, co. 1, lettera q-quater), del D. Lgs. 104/2010  “non appare giustificato neppure in ragione delle altre finalità, parimenti dotate di rilievo costituzionale, che questa Corte ha individuato nella «straordinarietà delle situazioni di emergenza (e nella eccezionalità dei poteri occorrenti per farvi fronte)» (sentenza n. 237 del 2007). Al contrario, l’attività oggetto delle autorizzazioni previste dall’art. 88 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773, e la natura degli accertamenti che le Questure sono chiamate a svolgere ai fini del rilascio di dette autorizzazioni, non sono qualificate dal carattere della straordinarietà, né dall’esigenza di fronteggiare situazioni di emergenza; va inoltre escluso che la disciplina derogatoria introdotta dalla disposizione censurata si giustifichi in funzione di un peculiare status dei destinatari dei provvedimenti, come tale meritevole di un diverso trattamento”. EMF



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Inserito in data 14/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 giugno 2014, n. 2999

Conferenza di servizi in materia di impianti eolici e superamento del dissenso

La realizzazione di impianti eolici è soggetta alla procedura semplificata di cui all’art. 12 d. lgs. 387/2003. Essa prevede che la costruzione di tali impianti sia sottoposta ad autorizzazione unica emessa all’esito di conferenza di servizi, alla quale partecipano tutte la amministrazioni interessate. I lavori sono indetti dalla PA procedente, che, valutate le posizioni prevalenti, adotta la determinazione conclusiva del procedimento.

Tale schema ordinario è derogato quando sia manifestato un dissenso da parte di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità.

In questi casi, ex art. 14 quater l. 241/1990, il dissenso può essere superato tramite rimessione della questione al Consiglio dei Ministri, che adotta il provvedimento finale nel rispetto dei principio di leale collaborazione previsto dall’art. 120 Cost, previa intesa con le Regioni o le Province autonome interessate.

Tuttavia, nel caso in cui non si raggiunga tale intesa, il Consiglio dei Ministri può superare la mancata intesa, concludendo definitivamente il procedimento autorizzativo.

Ciò svolge una funzione semplificatoria volta a superare gli arresti procedimentali per il rilascio dell’autorizzazione unica. Il Consiglio dei Ministri, infatti, si sostituisce completamente alle amministrazioni interessate, previa acquisizione delle loro posizioni, nel rispetto del principio di leale collaborazione: al Consiglio dei Ministri, pertanto, è conferito un ampio potere discrezionale volto ad effettuare una valutazione degli interessi in giuoco.

Come affermato in giurisprudenza, “la decisione è devoluta ad un altro e superiore livello di governo e con altre modalità procedimentali. L’effetto di un tale dissenso qualificato espresso a tutela di un interesse sensibile (cioè di particolare eco generale, di incidenza non riparabile o facilmente riparabile, e per di più qui riferito a un valore costituzionale primario) è dunque di spogliare in toto la conferenza di servizi della capacità di ulteriormente procedere […] e di rendere senz’altro dovuta […] la sua rimessione degli atti a diversa autorità, vale a dire al menzionato livello, a differenza del precedente impegnativo di responsabilità di ordine costituzionale. In questi casi dunque la manifestazione del dissenso qualificato in conferenza di servizi provoca senz’altro la sostituzione della formula e del livello del confronto degli interessi, fa cessare il titolo dell’amministrazione procedente a trattare nella sostanza il procedimento salvo, in conformità al dissenso, rinunciare essa stessa allo sviluppo procedimentale e disporre negativamente sull’iniziativa che gli ha dato origine” (Cons. Stato, 23 maggio 2012, n. 3039). CDC



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Inserito in data 13/06/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 giugno 2014, n. 170

Rettificazione di sesso: può restare in vita un rapporto giuridicamente regolato

La questione di legittimità costituzionale affrontata è se la soluzione di collegare alla sentenza di rettificazione di sesso del coniuge l’effetto automatico di scioglimento del matrimonio realizzi un bilanciamento adeguato tra l’interesse dello Stato a tenere fermo il modello del matrimonio eterosessuale ed i diritti maturati dai coniugi nella precedente vita di coppia.

Secondo la Corte, la situazione dei coniugi che in tal caso intendano non interrompere la loro vita di coppia si pone fuori dal matrimonio (necessariamente eterosessuale), ma non è semplicisticamente equiparabile ad un’unione di soggetti dello stesso. Infatti, ciò equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, in cui la coppia ha maturato reciproci diritti e doveri.

La questione di legittimità costituzionale deve allora essere esaminata alla luce dell’art. 2 Cost. Infatti, come affermato con la sentenza n. 138 del 2010, nella nozione di formazione sociale è da annoverare l’unione omosessuale, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico, con i connessi diritti e doveri. Spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle suddette unioni, ma spetta altresì alla Corte costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni.

Secondo la pronuncia, la condizione dei coniugi che intendono proseguire nella loro vita di coppia è riconducibile proprio alle situazioni “specifiche” e “particolari” che consentono l’intervento della Corte. Essa, infatti, coinvolge l’interesse dello Stato a non modificare il modello del matrimonio eterosessuale e l’interesse della coppia ad evitare il sacrificio integrale della dimensione giuridica del preesistente rapporto.

La normativa risolve il contrasto fra tali interessi in termini di tutela esclusiva di quello statuale, restando chiusa ad un bilanciamento con gli interessi della coppia, che reclama di essere tutelata come stabile convivenza tra due persone idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della personalità.

Pertanto, si dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della l. 164/1982, nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con un’altra forma di convivenza registrata che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima. La disciplina di tale convivenza rimane demandata alla discrezionalità di scelta del legislatore. CDC



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Inserito in data 12/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2014, n. 2982

Sul procedimento di verifica di anomalia

Secondo quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza in oggetto, “il procedimento di verifica di anomalia è avulso da ogni formalismo, essendo improntato alla massima collaborazione tra l’amministrazione appaltante e l’offerente, quale mezzo indispensabile per l’effettiva instaurazione del contraddittorio ed il concreto apprezzamento dell’adeguatezza dell’offerta” ed ancora “ il procedimento di verifica dell’anomalia non ha carattere sanzionatorio (al fine di eliminare l’offerta sospettata di anomalia) e non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, mirando piuttosto ad accertare se in concreto l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile ed affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell'appalto: esso è pertanto finalizzato a garantire e tutelare l’interesse pubblico concretamente perseguito dall’amministrazione attraverso la procedura di gara per la effettiva scelta del miglior contraente possibile ai fini dell’esecuzione dell’appalto” (ex multis, C.d.S., sez. III, 14 dicembre 2012, n. 6442; sez. IV, 30 maggio 2013, n. 2956; sez. V, 18 febbraio 2013, n. 973, 15 aprile 2013, n. 2063), ponendosi, l’esclusione dalla gara dell’offerente per l’anomalia della sua offerta, soltanto come effetto della valutazione (operata dall’amministrazione appaltante) di complessiva inadeguatezza della stessa rispetto al fine da raggiungere.

Pacificamente, la giurisprudenza ha più volte sottolineato che il corretto svolgimento del procedimento di verifica presupponga l’effettività del contraddittorio (tra amministrazione appaltante ed offerente), di cui costituiscono necessari corollari “l’assenza di preclusioni alla presentazione di giustificazioni ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; la immodificabilità dell'offerta, ma la sicura modificabilità delle giustificazioni, nonché l’ammissibilità di giustificazioni sopravvenute e di compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto”. GMC



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Inserito in data 12/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2014, n. 2980

Sui poteri di autotutela in materia di DIA o SCIA

Il Centro di Aggregazione in questione, la cui attività è oggetto di contestazione nel giudizio, è stato creato sulla base di finanziamenti regionali strumentali alla realizzazione di uno specifico progetto, la cui gestione è stata affidata ad una cooperativa.

Secondo quanto si evince, tale progetto, rivolto a giovani in particolari situazioni di disagio, prevede “l’attivazione di uno sportello informatico, di numerosi laboratori e corsi di formazione, strumentali alla realizzazione di percorsi di crescita culturale, sociale e umana, finalizzati anche a favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro”.

Il progetto in questione, tuttavia, appare “totalmente incompatibile” con l’esercizio sic et simpliciter di un bar – ristorante aperto al pubblico, all’interno della struttura di proprietà comunale.

Il Consiglio di Stato, sottolinea che tale ultima attività non rientra neanche tra quelle elencate nel capitolato speciale di appalto e nel progetto di gestione, i quali si limitano semplicemente all’indicazione di una “mera sala di ristoro”, attività assolutamente non sovrapponibile con quella oggetto delle due SCIA.

Nel caso ivi esaminato, i giudici di Palazzo Spada puntualizzano che “la Cooperativa appellata ha presentato due SCIA per comunicare l’attivazione di un pubblico esercizio di somministrazione di cui alla legge n. 287 del 1991 e di cui all’art. 64 del d.lgs. n. 59-2010, senza prevedere alcuna limitazione né con riferimento alla clientela (soci o non soci), né con riferimento a particolari eventi ricollegabili all’attività del Centro di aggregazione”.

Per effetto di tali SCIA, la Cooperativa potrebbe gestire un bar aperto al pubblico e non destinato esclusivamente ai tesserati del centro, in una struttura di proprietà comunale, ristrutturata con finanziamenti pubblici, che avrebbe dovuto essere utilizzata per le attività elencate nel progetto suindicato, di competenza del Settore Sociale del Comune, in quanto volto al recupero sociale di giovani in situazione di disagio; di conseguenza del tutto legittimamente, dunque, gli effetti di tali SCIA sono stati inibiti dall’Amministrazione.

Peraltro, secondo quanto ancora precisato “le SCIA in controversia non contengono alcuna limitazione o specificazione da cui si evinca che l’attività di somministrazione sia collegata al laboratorio di gastronomia e pasticceria, né risulta attivato in concreto alcun laboratorio di gastronomia e pasticceria”.

Sotto il profilo giuridico, l’apertura di un bar all’interno della struttura comunale, destinato alla fruizione dei tesserati frequentatori del medesimo Centro, avrebbe comunque richiesto la presentazione della SCIA ai sensi degli artt. 2 e 3 del d.P.R. 4 aprile 2001, n. 235 e la SCIA relativa alle attività commerciali del tutto liberalizzate ex art. 64 del d.lgs. n. 59-2010 che è relativa ai pubblici esercizi.

Concludendo, con riguardo ai motivi assorbiti dal TAR, si deve osservare che “l’Amministrazione ha a disposizione i poteri di autotutela in materia di DIA o SCIA ex art. 19 l. 241-90; tali poteri costituiscono una forma peculiare di autotutela, maggiormente accostabile all’autotutela cd. esecutiva, piuttosto che a quella di cui all’art. 21-nonies della medesima legge, poiché non ha per oggetto un atto amministrativo ed è mirata alla rimozione materiale degli effetti della DIA o SCIA medesima, in connessione con l’avvenuta illegittimità e non con una ragione ulteriore di interesse pubblico che connota invece l’autotutela cd. decisoria e che deve, in quel caso, essere oggetto, almeno in via generale, di specifica motivazione”.

Dunque, aldilà dell’inosservanza dei termini procedimentali decadenziali per far valere la riscontrata illegittimità con l’esercizio di poteri inibitori a tutela degli interessi pubblici, l’atto impugnato ha valore di autotutela nel senso sopra precisato, con conseguente legittimità dell’intervento operato dal Comune. GMC



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Inserito in data 11/06/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 giugno 2014, n. 162

Motivi d’incostituzionalità del divieto di PMA eterologa (artt. 32; 2, 3 e 31; 3)

Con la decisione in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa previsto dalla L. n. 40/2004.

Preliminarmente, si osserva come la questione concerna un tema eticamente sensibile, che spetta al legislatore regolamentare per individuare il punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze, salvo il sindacato del Giudice delle Leggi ove il bilanciamento operato sia irragionevole.

Si sottolinea, inoltre, come tale divieto non sia espressione di una regola granitica, essendo stato introdotto solo nel 2004, né sia imposto da obblighi derivanti da atti internazionali.

Ciò detto, a giudizio della Corte Costituzionale, la disciplina in esame lede il diritto alla salute ex art. 32 Cost., inteso dalla Corte costituzionale come diritto all’integrità psichica oltre che fisica: “è, infatti, certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di tipo eterologo, possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia”.

Inoltre, tale disciplina lede il diritto alla vita privata e familiare ex artt. 2, 3 e 31 Cost. delle coppie affette da patologie curabili solo accedendo alle tecniche di fecondazione eterologa. Infatti, il loro diritto di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche dei figli è compresso in modo irragionevole, perché non giustificato dall’impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango. In effetti, si evidenzia come l’unico interesse che si contrappone a tale diritto è quello della persona nata da PMA di tipo eterologo, che vedrebbe messa in pericolo la propria salute psichica da tale genitorialità non naturale e che vedrebbe violato il proprio diritto a conoscere la propria identità genetica. Sotto entrambi i profili, si evidenzia come si tratti di questioni già considerate non dirimenti al fine di escludere l’adozione; anzi, la Corte sottolinea come in tale ambito sia stato “già infranto il dogma della segretezza dell’identità dei genitori biologici quale garanzia insuperabile della coesione della famiglia adottiva, nella consapevolezza dell’esigenza di una valutazione dialettica dei relativi rapporti”.

Da ultimo, secondo la Corte costituzionale, il divieto di fecondazione eterologa è irragionevole ex art. 3 Cost., ossia in contrasto coi valori di giustizia e di equità, di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica. Infatti, tale legge, pur essendo finalizzata a favorire la cura dell’infertilità e della sterilità, vieta di accedere alla PMA alle coppie affette dalle patologie più gravi. Inoltre, attraverso il divieto di PMA eterologa, la L. n. 40/04 opera un “diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi”.

Infine, si evidenzia come la dichiarazione d’incostituzionalità non determini una carenza di regolamentazione, poiché continueranno ad applicarsi le norme della L. 40/04, che si rivolgono ad ogni tipo di PMA (Es. art. 5 prescrive che l’infertilità legittimante l’accesso alla PMA deve essere documentata con atto medico). Anzi, dovranno applicarsi anche le norme pensate dal legislatore per le PMA di tipo eterologo eseguite all’estero nonostante il divieto di legge (Es. art. 9, che afferma l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità ed esclude il formarsi di relazioni giuridiche tra il donatore di gameti e il nato). Poi, con riguardo agli ulteriori profili non regolamentati espressamente, dovranno applicarsi i principi generali ricavabili dalla normativa in tema di donazione di organi e tessuti (Es. gratuità e volontarietà della donazione).

Deve essere quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili, nonché dell’art. 9, commi 1 e 3, limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3», e dell’art. 12, comma 1, di detta legge”. TM



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Inserito in data 11/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 giugno 2014, n. 2963

Le spese processuali seguono il principio di sinteticità degli atti ex artt. 3 e 26 CPA

Il Consiglio di Stato applica il principio di sinteticità degli atti processuali (art. 3 e art. 26 co. 1 c.p.a.) al fine d’individuare la parte gravata dalle spese processuali, considerata la “estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”.

Secondo la giurisprudenza, tale principio è connesso al principio della ragionevole durata del processo (art. 2, comma 2, c.p.a.), a sua volta corollario del giusto processo, ed assume una valenza peculiare nel giudizio amministrativo caratterizzato dal rilievo dell'interesse pubblico in occasione del controllo sull'esercizio della funzione pubblica. Infatti, “La sinteticità degli atti costituisce uno dei modi - e forse tra i più importanti - per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace …sulla stessa scia si muovono gli articoli 40, co. 1, lett. c) e d), e 101, co. 1, c.p.a. (in relazione al contenuto del ricorso introduttivo in primo grado e in appello)”.

Tale principio opera anche nel giudizio di Cassazione, atteso che l'art. 366, co. 1, n. 3 c.p.c., recita che il ricorso deve contenere "L'esposizione sommaria dei fatti della causa".

In particolare, secondo le indicazioni della Corte di giustizia dell'UE, gli scritti delle parti non dovrebbero superare di norma una lunghezza variabile da 5 a 15 pagine (in base alla tipologia della causa e dello scritto difensivo). TM



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Inserito in data 10/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, DECRETO CAUTELARE MONOCRATICO - 9 giugno 2014, n. 2435

Sospesa ordinanza del Collegio laziale: il concorso si svolgerà regolarmente

 



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Inserito in data 10/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 giugno 2014, n. 2933

Non è ammesso il rinnovo tacito della concessione demaniale

Il Collegio, dopo aver affermato che “Il rilascio di concessione demaniale è atto rimesso a valutazioni discrezionali dell’Amministrazione, circa l’opportunità e la convenienza sottostanti all’instaurazione del rapporto, che può scaturire solo da formale rilascio di titolo abilitativo per il godimento di un bene di proprietà pubblica. Il rinnovo tacito del titolo in questione, se non testualmente previsto nell’atto di concessione, non può in linea di principio essere riconosciuto dopo la scadenza dello stesso, anche se sussiste un obbligo dell’Amministrazione di emettere provvedimento motivato, in presenza di istanze di proroga o di rinnovo, ovvero di rilascio di nuova concessione (C.d.S. 1566/10; 626/13)” e che “Il mero pagamento dei canoni, dopo l’intervenuta scadenza del titolo, non può considerarsi di per sé rinnovo tacito della concessione (C.d.S. 4098/13)” ricorda come l’indizio e di una pubblica gara per la concessione di utilizzo di un manufatto di pertinenza demaniale risulta essere la procedura che meglio risponde ai principi comunitari che tutelano la libera circolazione di servizi, la par condicio nonché l’imparzialità e la trasparenza dell’agere amministrativo. Pertanto la tutela dell’aspettativa del concessionario e del diritto di insistenza risulta recessiva rispetto alle esigenze sottostanti la scelta dell’indizione della gara da parte della pubblica amministrazione.

Il caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso, peraltro, presentava delle peculiarità con riferimento ad determinato arco temporale laddove, vista l’esistenza di una determinata nota  dell’Amministrazione concedente attestante l’assenza di motivi ostativi al rinnovo della concessione, degli ordini di pagamento emessi e del principio di libertà delle forme, avrebbe potuto ipotizzarsi (solo per quel determinato periodo) un rinnovo per facta concludentia. VA



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Inserito in data 10/06/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 giugno 2014, n. 159

Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati e competenza inderogabile

La Corte Costituzionale, dopo aver dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa agli artt. 13, 14,15, e 16 del d.lgs. 104/2010 per contrasto con l’art. 76 cost., ha respinto nel merito quella sugli artt. 14 e 135 cooma 1 lett. p) d. lgs. 104/10 sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, 25,111 e 125 cost.

In particolar modo era stata messa in dubbio la legittimità costituzionale dei suddetti articoli nella parte in cui prevedono la competenza funzionale inderogabile del Tar Lazio per le controversie relative all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

A parere del giudice rimettente, infatti, le norme in questione violerebbero, sotto il profilo della ragionevolezza, il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 cost. derogando i criteri ordinari di individuazione della competenza caratterizzati da un collegamento territoriale; vanificherebbero l’articolazione su base regionale della Pubblica amministrazione e violerebbero il diritto alla difesa e ad un giusto processo, rendendoli maggiormente onerosi.

Ai sensi dell’art. 14 c.p.a. «sono devolute funzionalmente alla competenza inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, le controversie indicate dall’articolo 135 e dalla legge». A sua volta il richiamato art. 135 c.p.a. enumera le controversie attribuite alla competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, tra le quali figrano anche quelle relative ai provvedimenti dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Si rileva, peraltro, che la competenza funzionale del TAR Lazio in materia era già stata prevista sin dall’istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (d. legge 4/10).

Si ricorda, inoltre, che la disciplina processuale (all’interno della quale rientra anche il riparto di giurisdizione) è rimessa alla valutazione discrezionale del legislatore, col solo limite della  “razionalità” (c.cost. 341/06).

Nel risolvere la questione sottoposta alla sua attenzione la Corte Costituzionale rileva la necessita di adottare maggiore cautela ed applicare un criterio rigoroso visti i problemi che il caso in esame pone in relazione all’articolazione su base regionale sancita dall’art. 125 cost. del sistema di giustizia amministrativa (sent. 237 del 2007 – par. 5.3.1).

Tuttavia, nel caso di specie, non sembra possibile rinvenire un contrasto con la normativa costituzionale in quanto “l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si configura come una articolazione dell’amministrazione centrale, la quale si avvale, per l’assolvimento dei suoi compiti, di altre amministrazioni dello Stato (…). La sua competenza non è delimitata dal punto di vista territoriale, essendo chiamata a svolgere compiti relativi ai beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, anche a supporto dell’autorità giudiziaria, su tutto il territorio nazionale. […] Pertanto, i provvedimenti dell’Agenzia (…) possono qualificarsi come «atti dell’amministrazione centrale dello Stato (in quanto emessi da organi che operano come longa manus del Governo) finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunità locali» (c.cost. 23707), i quali attengono alla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza (sent. 34/12)!.

Alla luce di quanto detto, la Suprema Corte ha affermato che la scelta derogatoria effettuata dal legislatore supera lo scrutinio di proporzionalità e, pertanto, risulta costituzionalmente legittima, essendo, anzi, funzionale ad un trattamento omogeneo delle fattispecie concrete che possono verificarsi nelle diverse realtà territoriali. VA



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Inserito in data 09/06/2014
TAR ABRUZZO - L’AQUILA, SEZ. I, 5 giugno 2014, n. 523

Sulla clausola di esclusione dalla gara

Per il Collegio aquilano, l'inserimento nel bando di gara “di clausole che prevedono la sanzione dell'esclusione, deve essere giustificata da un particolare interesse pubblico, al fine di evitare un mero formalismo, che finirebbe per pretendere dai concorrenti un comportamento accuratamente diligente per finalità non degne di nota o di rilievo ( C.d.S., sez. V, 5289/2007). Di conseguenza le clausole che comminano l'esclusione devono rispondere al canone di ragionevolezza ( C.d.S. IV, 308/2006) ”.

Ne deriva che la verifica della regolarità della documentazione va condotta tenendo conto della tendenza alla semplificazione e del divieto di aggravamento degli oneri burocratici ove non sia ravvisabile la lesione di un interesse pubblico effettivo e rilevante, va accordata la preferenza al favor partecipationis con applicazione del principio di sanabilità delle situazioni di irregolarità formali delle procedure concorsuali”.

Ciò posto, “è illegittima, per violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità dell'azione amministrativa, la previsione dell’Avviso pubblico che, nel disciplinare i requisiti formali previsti per la presentazione delle proposte per l’ammissione al finanziamento, imponga, a pena di esclusione, di indicare l'oggetto della procedura sulla busta, riportante già, obbligatoriamente, l’esatta indicazione dell’ufficio competente a riceverle all’interno dell’organizzazione amministrativa regionale”.

La clausola del bando, infatti, “mirava a realizzare ovvero facilitare il recapito delle buste presso l’ufficio competente a riceverle, evitando così gli aggravi procedimentali derivanti dalla eventuale dispersione delle buste”. EMF

 



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Inserito in data 08/06/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I QUATER, ORDINANZA 6 giugno 2014, n. 2563

Il disabile ha diritto a speciali modalità di svolgimento delle prove di esame

Con la pronuncia in esame, il Collegio romano, in accoglimento di domanda cautelare proposta da un concorrente disabile, dispone la sospensione del decreto ministeriale del 7 marzo 2014 nella parte in cui fissa lo svolgimento delle prove scritte del concorso per magistrato ordinario in tre giorni consecutivi, “ordinando all’amministrazione resistente l’individuazione di una diversa articolazione temporale delle prove secondo le esigenze rappresentate dal ricorrente”.

L’art. 16 della legge 12.3.1999 n. 68, infatti, garantisce “ai disabili la possibilità di partecipazione a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi, in parità di condizioni con tutti gli altri concorrenti, mediante la previsione di speciali modalità di svolgimento delle prove di esame”.

In particolare, ai sensi dell’art. 20 della legge n. 104/1992, il disabile ammesso alla partecipazione a concorsi pubblici ha diritto “di chiedere l’ausilio necessario in relazione al proprio handicap , nonché la concessione di tempi aggiuntivi”.

Tuttavia, il predetto articolo 16 “non può valere a legittimare l’introduzione di modalità di svolgimento delle prove concorsuali incompatibili con quelle espressamente previste dalla legge in relazione ad esigenze generali parimenti rilevanti, come quelle finalizzate a garanzia dell’anonimato o del buon andamento della procedura”.

Ciò posto, i Giudici romani ritengono che “la domanda del ricorrente di articolazione dello svolgimento delle prove scritte in tre giorni non consecutivi non contrasta con nessuna disposizione precettiva di legge , considerato che il r.d. 1860/1925 e successive modificazioni e integrazioni non impone che le prove scritte si svolgano in tre giorni consecutivi; e ciò a differenza della subordinata richiesta di svolgimento di una sola prova scritta e di differimento delle ulteriori prove all’esito della correzione della prima, che contrasta con la regolamentazione normativa generale di cui alle disposizioni di legge richiamate”.

Pertanto, contemperando gli interessi evocati in giudizio, il Collegio laziale ritiene che sia l’efficacia del decreto di fissazione del concorso a dover essere sospesa «nella parte in cui fissa lo svolgimento delle prove scritte in tre giorni consecutivi». Si reputa primaria, infatti, l’esigenza di garantire l’accesso alle prove del ricorrente disabile «in parità di condizioni con gli altri concorrenti». EMF



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Inserito in data 07/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III., 6 giugno 2014, n. 2887

In merito all’azione di liberalizzazione

I Giudici di Palazzo Spada puntualizzano che l’azione di liberalizzazione, intrapresa dalle istituzioni comunitarie in vari settori di attività di interesse economico, a lungo contrassegnate da situazioni di monopolio legale, tra i quali il servizio pubblico postale, si è accompagnata alla definizione della nozione di servizio universale corrispondente, alla luce del diritto europeo, all’insieme di tutte quelle prestazioni che devono essere rese disponibili sull’intero territorio, a condizioni di prezzo accessibili a tutti, secondo caratteristiche da armonizzarsi negli ordinamenti interni dei diversi Stati membri.

Il Consiglio di Stato, trattando del caso di specie concernente le Poste, precisa che in virtù dell’articolo 3 del d.lgs n. 261 del 1999, con il quale si è attuata la direttiva 97/67/CE, successivamente modificata dalla direttiva 2008/6/CE, “ponendo le basi per un mercato postale completamente liberalizzato, il servizio postale universale ricomprende attualmente la raccolta, il trasporto, lo smistamento e il recapito degli invii postali fino a 2 kg, compresi gli invii raccomandati e assicurati, e dei pacchi fino a 20 kg; con la precisazione che la parte del servizio universale riservata “in via esclusiva” a Poste italiane s.p.a. è ora limitata alle sole notificazioni e comunicazioni a mezzo posta degli atti giudiziari e dei verbali delle violazioni del codice della strada, mentre su tutto il resto, anche nell’ambito dello stesso servizio universale, è possibile il confronto concorrenziale di altri operatori titolari di licenza individuale o di autorizzazione generale”.

Inoltre, anche la direttiva emanata nel 2008, ha conservato il servizio universale, da intendersi quale servizio che gli Stati sono tenuti ad offrire alle rispettive collettività, ribadendone ed accentuandone la funzione di “coesione sociale e territoriale”, specie con particolare riferimento alla “capillarità della rete postale”.

La disciplina nazionale, modificata dal d.lgs. 58/2011, prescrive, conseguentemente, che la fornitura del servizio postale sia assicurata su tutto il territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, in via continuativa per tutta la durata dell’anno, nonché che l’Autorità di regolamentazione del settore postale (divenuta grazie all’art. 21, comma 14, del d.l. 201/2011, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazione) sia “competente ad adottare i provvedimenti regolatori in materia di qualità e caratteristiche del servizio postale universale, anche con riferimento alla determinazione dei criteri di ragionevolezza funzionali alla individuale dei punti del territorio nazionale necessari a garantire una regolare ed omogenea fornitura del servizio.”

Si ribadisce che: “in questo contesto, il citato d.lgs. 58/2011 ha previsto che il servizio universale sia affidato a Poste italiane s.p.a. (che è, come noto, una società ad oggi totalmente partecipata dal Ministero dell’Economia e della Finanze) per un periodo di quindici anni, con scadenza quindi fino al 2016, fatta salva la possibilità di revoca qualora la verifica dello stato del rispetto degli obblighi del contratto di programma dia esito negativo” ed inoltre che “il decreto legislativo ha poi confermato l'obbligo per il fornitore del servizio universale di istituire la separazione contabile distinguendo, fra singoli servizi, i prodotti rientranti nel servizio universale, per i quali è previsto un finanziamento statale, e quelli esclusi da tale ambito ed offerti in condizioni di piena concorrenza con gli altri operatori.”

Quanto ai rapporti tra lo Stato e il fornitore del servizio universale, questi sono disciplinati dal “contratto di programma”.

Il Contratto di programma tra il Ministero dello sviluppo economico e Poste Italiane (per il triennio 2009-2011), è stato approvato con l. n. 183/2011, fatti salvi gli adempimenti previsti dalla normativa comunitaria; l'efficacia del contratto è stata, quindi, perfezionata con la decisione della Commissione europea del 20 novembre 2012, che ha autorizzato i trasferimenti statali verso Poste Italiane a parziale copertura degli oneri connessi con lo svolgimento degli obblighi di servizio postale universale.

Trattando dei profili concernenti eminentemente la giurisdizione, se, da una parte, è stata negata la giurisdizione del giudice amministrativo, sul duplice rilievo della natura formalmente privatistica di Poste italiane, la quale eserciterebbe la propria libertà di impresa piuttosto che un potere amministrativo propriamente inteso e della necessità, per gli utenti o per gli enti (anche locali) che li rappresentano, di rivolgersi in prima battuta all’Autorità di regolamentazione, fatta salva la possibilità di impugnarne, in un secondo momento, i relativi atti dinanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, dall’altra parte, invece, si è riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo, sulla base di una lettura ampia ed in chiave oggettiva della nozione di servizio pubblico (è il caso della sentenza qui impugnata e di quella, ancora più recente, del Tar Lazio, III ter, n. 1117/2014), e facendo leva, per analogia, sull’art. 1 del d.lgs. 198/2009.

Oltre a ciò “l’attribuzione della giurisdizione anche su determinati profili inerenti la stessa erogazione del servizio (ad esempio la violazione di standard qualitativi o degli obblighi contenuti nelle carte di servizi) e che investono diritti soggettivi degli utenti (cd. class action pubblica) non potrebbe, a maggior ragione, non attrarre nella giurisdizione amministrativa anche gli atti prodromici aventi natura organizzativa posti in essere dal concessionario del servizio (Tar Campania, Salerno, n. 533/2013).”

In conclusione, il Collegio precisa che reputa che il secondo degli orientamenti richiamati sia di certo il più persuasivo. GMC

 

 



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Inserito in data 06/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 giugno 2014, n. 2867

Responsabilità civile della PA e accertamento della colpa

In base agli artt. 2043 e 2697 cc, l’onere di provare la colpa della PA grava sul privato, il quale può peraltro servirsi delle presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 cc. Tali presunzioni, insieme ai caratteri del processo amministrativo ed al principio dispositivo con onere acquisitivo, fanno sì che il privato debba esclusivamente introdurre nel processo elementi di prova, consistenti anche nella semplice prova dell'illegittimità dell'atto amministrativo.

Spetterà, di contro, alla PA dimostrare che vi è stato un errore scusabile, configurabile, ad esempio, “in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata” (Cons. Stato n. 3981/06 e 14/12).

In altre parole, il giudice amministrativo può affermare la responsabilità della PA quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato; può, invece, negarla quando l'indagine conduce al riconoscimento dell'errore scusabile. CDC



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Inserito in data 06/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, sentenza 30 maggio 2014, n. 12264

Danno da nascita indesiderata: l’onere della prova grava sulla madre

Nel giudizio intentato dai genitori per il risarcimento del danno da nascita indesiderata conseguente al mancato rilievo, da parte del medico, di malformazioni congenite del feto, è onere della parte attrice allegare e dimostrare che, se fosse stata informata delle malformazioni del concepito, avrebbe interrotto la gravidanza, poiché tale prova non può essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto.

Infatti, quando manchi una espressa manifestazione di volontà della gestante di interrompere la gravidanza, la mera richiesta di accertamento diagnostico integra un semplice elemento indiziario dell'esistenza di una volontà che si presume orientata verso l'esercizio della facoltà di abortire. Del resto, sono innumerevoli le ragioni che possono spingere una donna e una madre, anche se soltanto futura, ad esigere quegli accertamenti, a partire dalla volontà di gestire al meglio la gravidanza indirizzandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi ed il tipo, risulti il più consono alla nascita del figlio, ancorché malformato. Ne segue che la parte attrice è tenuta ad integrare il contenuto della presunzione con elementi probatori ulteriori.

Invece, non incombe sul medico l'onere di provare che, in presenza di una tempestiva informazione, la gestante non avrebbe potuto o voluto abortire.

Una diversa distribuzione degli oneri probatori equivarrebbe, del resto, a trasformare il giudizio risarcitorio in una vicenda para-assicurativa, indebitamente collegata al solo verificarsi dell'evento di danno conseguente all'inadempimento del sanitario.

Tale soluzione, infine, appare più rispettosa delle regole probatorie stabilite ex lege in seno al processo civile, oltre che più consapevole della estrema delicatezza della questione, che non può prescindere da una precisa assunzione di responsabilità delle proprie dichiarazioni da parte della donna, unico soggetto cui la legge (e non solo) riconosce il diritto di decidere, sia pur a precise condizioni, della prosecuzione o meno di una gravidanza. CDC




Inserito in data 05/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 giugno 2014, n. 2855

Inserire un’area tra le zone per l’istruzione dell’obbligo integra vincolo conformativo

I Giudici di Palazzo Spada si soffermano sulla complessa distinzione tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi. In particolare, nell’inserire un’area tra le zone pubbliche di interesse generale e, in particolare, tra le zone per l’istruzione dell’obbligo, il PRG avrebbe posto un vincolo conformativo.

Risulta, del resto, di questo stesso avviso anche la Corte di Cassazione, che nell’affermare il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa ha “l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti” (cfr., da ultimo, Cass.civ., sez. I, 26 maggio 2010, n. 12862)”.

Del resto, nel caso di specie, le stesse NTA consentivano la realizzazione e la gestione delle attrezzature scolastiche ad opera del privato proprietario del suolo.

Né tale prerogativa poteva dirsi elisa per il fatto che l’area sia limitrofa ad un polo scolastico già esistente, di proprietà pubblica.

Pertanto, non trattandosi di un vincolo espropriativo, la sua reitera non necessitava di una particolare motivazione. TM



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Inserito in data 05/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 giugno 2014, n. 2856

Recepimento della teoria della duplice chance (piuttosto che quella del cd. one shot)

Il Consiglio di Stato esamina i rapporti tra giudicato di annullamento e successivo riesercizio del potere.

 “Come è noto e come lucidamente affermato da qualificata dottrina, il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere esercitato comporterebbe, in teoria, che l’Amministrazione possa (e debba) riprovvedere in relazione alla “res” attinta da un giudicato annullatorio”.

E soprattutto comporterebbe che ciò possa avvenire un numero non predeterminato di volte”.

Perciò, “Ogni controversia sarebbe destinata, in potenza, a non concludersi mai, con un definitivo accertamento sulla spettanza – o meno - del “bene della vita””.

Interrogandosi su come conciliare dette –opposte – esigenze […], il punto di equilibrio è stato individuato in via empirica dalla giurisprudenza imponendo all'Amministrazione - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - di esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per sempre, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili prima non esaminati”.

Questo principio costituisce jus receptum in giurisprudenza”.

Esso appare equo contemperamento (o quantomeno il migliore che sia stato sinora individuato) tra esigenze all’apparenza inconciliabili: la “forza”della res iudicata e la stessa funzione ed utilità di quest’ultima, la continuità del potere amministrativo ex art. 97 della Costituzione ed il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 della Costituzione medesima”.

Nell’ ordinamento italiano, quindi, per costante elaborazione pretoria, non trova riconoscimento la teoria c.d. del "one shot" (viceversa ammessa in altri ordinamenti)”.

Detta regola prevede che l’Amministrazione possa pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato”.

Nel sistema italiano il principio è stato “temperato”, accordandosi all’Amministrazione due chance: si è, infatti, costantemente affermato che l'annullamento di un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale, che abbia negato la soddisfazione di un interesse legittimo pretensivo, non determina la sicura soddisfazione del bene della vita, ma obbliga semplicemente l'amministrazione a rinnovare il procedimento tenendo conto della portata conformativa della sentenza”.

Pertanto, nel compiere il giudizio sulla spettanza del bene della vita a fini risarcitori, il giudice può considerare gli ulteriori motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, quantunque non esplicitati dalla PA col provvedimento di rigetto, poi annullato. TM



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Inserito in data 04/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 giugno 2014, n. 2833

Privatizzazione di enti previdenziali e permanente pubblicità dell’attività svolta 

I giudici di Palazzo Spada, con la sentenza in commento, hanno accolto il ricorso presentato avverso la decisione che aveva declinato la giurisdizione del giudice amministrativo per la risoluzione del ricorso avente ad oggetto il rinnovo del consiglio di amministrazione di una fondazione avente ad oggetto il trattamento previdenziale ed assistenziale per gli agenti e rappresentanti di commercio (privatizzato con l’art. 1 comma 3 d.lgs. 509/94).

Più precisamente il ricorso in esame verteva sul mancato esercizio dell’attività istruttoria che deve essere effettuata da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali concernete l’individuazione delle associazioni nazionali maggiormente rappresentative.

Ad avviso del Supremo Consesso la privatizzazione degli enti gestori di forme di previdenza amministrativa non ha inciso sulla pubblicità dei fini da questi perseguiti né, conseguentemente, sulla pubblicità dell’attività svolta (si veda CdS 6014/12; C.Cost., ord.za 214/99).

L’art. 8 dello statuto della Fondazione prevede: “Sei mesi prima della scadenza dell’Organo, il Presidente chiede al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale l’individuazione delle associazioni maggiormente rappresentative su base nazionale di cui al comma precedente, lettera a) e lettera b); ricevuta la comunicazione del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, il Presidente invita le associazioni maggiormente rappresentative, come sopra individuate, a designare i membri di propria competenza nel termine di sessanta giorni dal ricevimento di tale richiesta..”.

Il punto dirimente della controversia, dunque, risulta essere l’individuazione dell’esatta natura dell’attività ministeriale: se l’attività ministeriale di “individuazione” abbia natura provvedimentale (in quanto espressione di un potere pubblicistico), ovvero se debba essere ricondotta nell’alveo degli atti privatistici (svolgendo solo una funzione strumentale ed endoprocedimentale).

più precisamente ci si chiede se la scelta sia libera ovvero limitatamente vincolata a parametri di discrezionalità obiettivi.

Sul punto, si osserva come “In ragione del principio di legalità, la causa di una manifestazione di volontà o di giudizio nell’azione amministrativa mai può essere libera come nelle attività negoziali dei privati: ma è sempre vincolata al fine pubblico in funzione del quale l’attività è dall’ordinamento data, sia essa di amministrazione diretta o di controllo […] consegue da questo che, nel percorso procedurale delineato dallo statuto in discorso, la funzione “istruttoria”, e comunque esterna all’ente, del ministero […] non è attratta nel fascio delle attività private inerenti l’attività propria della Fondazione e dei suoi organi. Essa, viceversa, resta espressione pubblicistica, propria di una separata e indipendente attività autoritativa ministeriale, intesa alla ricognizione e alla valutazione degli elementi rilevanti per la finale decisione, che è di esclusiva spettanza ministeriale ed è ordinata all’individuazione delle categorie datoriali preponenti”. VA



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Inserito in data 04/06/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 3 giugno 2014, n. 2842

Natura di una struttura ad uso stagionale e rilascio permesso di costruire

Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso presentato avverso la sentenza che aveva respinto il precedente appello avverso la decisione del Tar con la quale si autorizzava l’ampliamento di un chiosco-bar.

Si sottolinea come la destinazione della struttura al soddisfacimento di esigenze stagionali, destinate a ripetersi nel tempo, e l’imponenza strutturale della stessa contrastino con la nozione di “struttura precaria”. Si evidenza, inoltre, che non si sarebbe potuto rilasciare un permesso di costruire in considerazione nei numerosi vincoli di inedificabilità sussistenti in loco, a nulla rilevando l’art. 56 del Regolamento edilizio comunale che riconosce sempre un carattere ontologicamente precario ai chioschi. A tale disposizione, infatti, non potrebbe riconoscersi un significato concreto contrastante con le previsioni del d.P.R. 380/01 (T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia)”.

Sull’esatta natura della struttura oggetto di controversia, rappresentante il fulcro del problema, il Collegio richiama l’orientamento secondo cui “i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale. […] la ‘precarietà’ dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (C.d.S. 6615/07).

Ai fini di un’esatta classificazione, dunque, è necessario procedere ad una valutazione case by case: peraltro, a seguito di un attento esame delle caratteristiche del caso concreto il Consiglio di stato ha ricondotto il manufatto all’interno della categoria di cui all’art. 3 comma 1 lett. e) d.p.r. 380/01 (struttura di nuova costruzione).

Parimenti priva di merito appare la presentazione di un’istanza di variazione dello strumento urbanistico (ex art. 5 d.p.r. 447/98) la quale, di contro, testimonia la consapevolezza del contrasto tra il manufatto e la disciplina del piano. VA



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Inserito in data 03/06/2014
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 28 maggio 2014, n. 146

Sulla q.l.c. della nomina dei giornalisti preposti all’ufficio stampa senza concorso

Con l’ordinanza in epigrafe, la Consulta “dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 3, della legge della Regione siciliana 6 luglio 1976, n. 79 (Provvedimenti intesi a favorire la più ampia informazione democratica sull’attività della Regione), nella parte in cui prevede che “la nomina dei giornalisti preposti all’Ufficio stampa e documentazione presso la Presidenza della Regione siciliana avvenga prescindendo da qualsiasi procedura concorsuale o comunque selettiva, senza che ricorrano esigenze pubbliche che giustifichino tale scelta, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97, terzo comma, della Costituzione.

Carente risulta, infatti, la motivazione sulla rilevanza della questione, omettendo il Giudice a quo di evidenziare le ragioni per cui ritiene di dover applicare la disposizione censurata al ricorso posto al suo esame ed avente ad oggetto la richiesta di applicazione della tutela reintegratoria.

A ciò si aggiunga che il rimettente non fornisce “nessuna indicazione in ordine alle modalità con cui si è atteggiato, in concreto, il rapporto di lavoro dei ricorrenti”.

Non solo.

Il Giudice del lavoro bypassa anche di esaminare “cosa sia accaduto al rapporto in occasione della elezione dei diversi Presidenti succedutisi dal 1991 al 2012, e neppure quali fossero la tipologia e le caratteristiche delle prestazioni richieste ai giornalisti”.

In conclusione, “l’argomentazione appare evidentemente incongrua e contraddittoria atteso che, da un lato, il rimettente chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in quanto essa configurerebbe un rapporto di lavoro subordinato senza prevedere l’accesso tramite concorso, mentre, dall’altro lato, afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale- la quale…discenderebbe proprio dalla natura subordinata del rapporto - comporterebbe la qualificazione dello stesso in termini di lavoro autonomo”. EMF



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Inserito in data 03/06/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SESTA PENALE, SENTENZA 28 maggio 2014, n. 21890

Sulla configurabilità dell’aggravante del travisamento nel delitto di rapina

Con la pronuncia in esame, gli Ermellini ritengono che ai “fini della sussistenza della circostanza aggravante del travisamento nel delitto di rapina è sufficiente una lieve alterazione dell'aspetto esteriore della persona, conseguita con qualsiasi mezzo anche rudimentale, purché idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona stessa” (v. Sez. 2, n. 18858 del 27/04/2011, Di Camillo, Rv. 250114; Sez. 1, n. 5053 del 02/04/1979, Passalacqua, Rv. 142128). EMF




Inserito in data 31/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, INFORMAZIONE PROVVISORIA 29 maggio 2014, n. 12

Droghe leggere, riduzione delle pene per piccolo spaccio

Saranno rideterminate al ribasso le condanne definitive per spaccio di droghe leggere, inflitte nel periodo in cui era in vigore la Legge Fini – Giovanardi, dichiarata incostituzionale lo scorso 12 febbraio.

I Supremi Giudici, nel caso di specie, hanno accolto un ricorso della Procura di Napoli contro la decisione del Tribunale, la quale aveva negato, ad un condannato recidivo per piccolo spaccio, di ottenere il ricalcolo della pena a seguito della sentenza della Consulta del 2012, che aveva dichiarato incostituzionale la norma della Legge Fini – Giovanardi che vietava la concessione delle circostanze attenuanti prevalenti nel caso in cui si trattasse di soggetti recidivi.

Invero, secondo la Corte Costituzionale, la normativa delineatasi sulle tossicodipendenze era illegittima, dovendo tornare in vigore, in tal modo, la Legge Jervolino – Vassalli, per tutti quei reati legati alle droghe leggere, ed applicandosi, dunque, il principio del “favor rei” laddove i processi fossero ancora in corso.

Ricostruendo brevemente il quadro tracciato, La Consulta, in quella occasione, ha bocciato la Legge che – dal 2006 sino al 2014 – ha equiparato le droghe leggere a quelle pesanti.

La normativa precedente richiamata (e da applicare) è la Legge Jervolino – Vassalli, risalente al 1990, la quale, considerata, in un certo qual senso, “criminogena”, fu abrogata parzialmente mediante un referendum nel 1993, alleggerendo in tal modo le pene per i consumatori di droghe leggere.

La Legge Fini – Giovanardi, sostanzialmente, ha quindi equiparato le droghe pesanti con quelle leggere, introducendo, come spartiacque tra detenzione e spaccio, la dose massima consentita, un “quid di illecito” oltre il quale, per la legge, si diventata – in modo pressoché automatico – dei pusher, sebbene in realtà si sia soltanto consumatori di sostanze stupefacenti. Oltre a ciò, si inasprivano le condanne, prevedendo una pena massima fino a 20 anni anche per il solo possesso di hashish e marijuana.

Con la nota informativa in epigrafe, le Sezioni Unite penali della Suprema Corte, affermando che occorrerà “rideterminare al ribasso” le condanne definitive per spaccio di droghe leggere, nel periodo in cui era in vigore la Legge già citata, hanno chiarito le ricadute della pronuncia della Corte Costituzionale.

Anzitutto, i giudici della Suprema Corte, erano chiamati a pronunciarsi su una questione più generale rispetto alle norme in materia di stupefacenti; occorreva, difatti, chiarire se “la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, ma che incide sul trattamento sanzionatorio comporti una rideterminazione della pena in sede di esecuzione, vincendo la preclusione del giudicato”.

A tale domanda, i Giudici di legittimità hanno dato soluzione positiva: invero, tale principio generale, secondo il quale l'illegittimità di una norma travolge anche le condanne già divenute definitive, riveste una particolare importanza in relazione agli effetti della bocciatura della Legge Fini – Giovanardi sulle condanne passate in giudicato.

Oltre a ciò, gli Ermellini, puntualizzano altresì che la rideterminazione della pena sarà possibile altresì per i recidivi, nel caso in cui venga ritenuta prevalente la circostanza attenuante della lieve entità del fatto.

Specificamente, “la questione riguardava gli effetti della sentenza n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 69, comma quarto, Codice penale, nella parte in cui vietava di valutare prevalentemente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma cinque, del Dpr n. 309 del 1990 sulla recidiva di cui all'art. 99, comma quarto, Codice penale.”

Ed ancora, la nota informativa emessa dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte aggiunge altresì che “[...] nella specie il giudice dell'esecuzione, ferme le vincolanti valutazioni di merito espressa dal giudice della cognizione nella sentenza della cui esecuzione si tratta, ove ritenga prevalente sulla recidiva la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma cinque, Dpr n. 309 del 1990, ai fini della rideterminazione della pena dovrà tenere conto del testo di tale disposizione, come ripristinato a seguito della sentenza Corte costituzionale n. 32 del 2014, senza tenere conto di successive modifiche legislative.”

A ben vedere, dunque, coloro i quali siano stati condannati definitivamente con recidiva per “piccolo spaccio”, avranno diritto di ottenere il ricalcolo della pena per l'incostituzionalità della norma che gli vietava il riconoscimento delle circostanze attenuanti.

Chiaro è, altresì, che il giudice dell'esecuzione – il quale sarà tenuto al ricalcolo – dovrà necessariamente tener conto della abolizione della Legge Fini – Giovanardi, proprio in quella parte in cui non si faceva distinzione, come premesso, tra droghe leggere e pesanti, con effetti di aggravio di pena, dunque, anche per le ipotesi più lievi. GMC




Inserito in data 31/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 maggio 2014, n. 2753

Sulle offerte migliorative nelle gare di appalto

I Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito alle offerte migliorative nelle gare di appalto da aggiudicare con il “criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa”.

Nel caso ivi in questione, il Consiglio di Stato ha puntualizzato che “Il disciplinare di gara, al punto 3 della seconda parte (“Presentazione dell’offerta”), descrivendo il contenuto della seconda busta interna “B – offerta tecnica”, ha stabilito, al secondo capoverso, che il progetto definitivo avrebbe dovuto determinare in ogni dettaglio i lavori da realizzarsi e si sarebbe dovuto sviluppare ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento fosse identificato in forma, tipologia, qualità e dimensione”, rilevando altresì che “Non sono ammesse, pena esclusione, variazioni planimetriche rispetto ai tracciati delle infrastrutture viarie previste dal progetto preliminare approvato posto a base di gara. Le modifiche che verranno apportate con il progetto definitivo offerto dovranno comunque essere effettuate senza aumento di spesa rispetto a quanto previsto dal progetto preliminare posto a base di gara dalla stazione appaltante”.

Da tali disposizioni, emerge chiaramente che non era vietata la possibilità di apportare “variazioni migliorative” al progetto preliminare posto a base di gara, purché fossero, tuttavia, rispettate le previsioni planimetriche rispetto ai tracciati delle infrastrutture viarie. Invero, essi “secondo l’intenzione dell’amministrazione appaltante, costituivano punti cardini, significativi e caratterizzanti dell’intervento da realizzare, contribuendo pertanto a realizzare l’interesse pubblico effettivamente perseguito.”

Sul tema, il consolidato indirizzo giurisprudenziale, afferma che “con riguardo alle gare di appalto da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, come nel caso in esame, ammette che l’offerta presentata possa contenere soluzione migliorative, a condizione che non siano alterati i caratteri essenziali ovvero lo stesso oggetto dell’appalto (Cons. St., sez. 8, marzo 2011, n. 1460), anche per non ledere la par condicio dei concorrenti (Cons. Stato, sez. V, 7 giugno 2012, n. 3358).

In tal senso, la sentenza richiama anche la sentenza del 23 gennaio 2012, n. 285, la quale, relativamente ad un appalto integrato, ex art. 54, comma 1, lett. B), del D. Lgs. n. 163 del 2006, ha distinto le varianti progettuali migliorative, consentite (incidenti sulla qualità dell’opera, sotto il profilo strutturale, prestazione e funzionali, quali schede progettuali, modalità esecutive, materiali, impianti), dalle modificazioni vietate in quanto “idonee ad alterare l’essenza strutturale e prestazioni dell’opera delineata nel progetto definitivo e come tali lesive, oltre che della par condicio dei concorrenti, anche dello stesso interesse della stazione appaltante al conseguimento delle specifiche funzionalità perseguite, secondo il progetto definitivo posto a base di gara”. GMC



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Inserito in data 30/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 29 maggio 2014, n. 2792

Specialità della responsabilità della PA e conseguenze sul nesso di causalità

La responsabilità della PA da provvedimento illegittimo ha natura speciale non riconducibile né alla responsabilità extracontrattuale né alla responsabilità contrattuale.

Infatti, rispetto alla responsabilità extracontrattuale, presuppone che il comportamento illecito si inserisca nell’ambito di un procedimento amministrativo, nel quale la PA deve rispettare predefinite regole di azione, procedimentali e sostanziali. L’esistenza di un contatto tra le parti impedisce di ritenere che si sia in presenza della responsabilità di un soggetto non avente alcun rapporto con la parte danneggiata, come accade nella responsabilità extracontrattuale

In secondo luogo, rispetto alla responsabilità contrattuale, sono diverse le posizioni soggettive che si confrontano: da un lato, dovere di prestazione o di protezione e diritto di credito, dall’altro, potere pubblico e interesse legittimo o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, diritto soggettivo.

Infine, rispetto ad entrambe le responsabilità civilistiche, la connessione tra sindacato di validità sul potere discrezionale e sindacato di responsabilità sul comportamento impone al giudice amministrativo di non sovrapporre, nell’accertare la sussistenza del fatto illecito, proprie valutazioni a quelle riservate alla PA.

La specialità della responsabilità della PA incide, fra l’altro, sulla ricostruzione dell’elemento costitutivo del nesso di causalità, assegnandogli una valenza non del tutto riconducibile alla teorie elaborate in ambito civilistico.

Infatti, la ricostruzione del nesso eziologico mira a valutare se la condotta della PA sia stata idonea a ledere la posizione soggettiva di interesse legittimo. L’accertamento della lesione dell’interesse legittimo – in ragione della stretta connessione con il potere pubblico – richiede l’effettuazione di un giudizio prognostico. Sul punto, occorre però distinguere due diverse fattispecie.

La prima fattispecie ricorre nel caso in cui il privato abbia proposto sia l’azione di annullamento che l’azione di responsabilità e l’esito del giudizio di annullamento consente il riesercizio di poteri discrezionali. In quest’ipotesi, secondo giurisprudenza costante, il giudice amministrativo non può effettuare, per evitare di invadere sfere di valutazione che la Costituzione riserva alla PA, il predetto giudizio prognostico. Si ritiene, infatti, necessario attendere che la PA rinnovi il procedimento emendato dal vizio riscontrato in sede giudiziale e soltanto se all’esito di tale giudizio si accerta che il privato aveva “diritto” a quel determinato bene della vita sarà possibile ottenere, ricorrendo gli altri presupposti, il risarcimento del danno. In questo caso, pertanto, svolgendosi un giudizio di spettanza, la regola probatoria applicata è quella della “certezza”.

La seconda fattispecie ricorre nel caso in cui la parte abbia proposto un’autonoma azione di responsabilità o l’attività amministrativa sia vincolata e pertanto la rinnovazione procedimentale si svolge nel solo rispetto di quanto stabilito dal giudice ovvero determinato, in tutti i suoi profili, dalla legge. In tal caso il giudice amministrativo, senza il rischio di sovrapporre il proprio giudizio alle valutazioni dell’autorità pubblica, può effettuare un giudizio prognostico. Occorre, pertanto, accertare se vi è stato danno ingiusto valutando se, in applicazione della teoria condizionalistica e della causalità adeguata, è “più probabile che non” che l’azione o l’omissione della pubblica amministrazione siano state idonee a cagionare l’evento lesivo. CDC

 



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Inserito in data 30/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 26 maggio 2014, n. 11698

Concorso colposo del danneggiato ed esposizione volontaria ad un rischio gratuito

Il concorso colposo del danneggiato, che comporta ex art. 1227, primo comma, cc la conseguente e proporzionale riduzione della responsabilità del danneggiante, è configurabile non solo in caso di cooperazione attiva del danneggiato, ma in tutti i casi in cui il danneggiato si esponga volontariamente ad un rischio superiore alla norma, in violazione di norme giuridiche o di regole comportamentali di prudenza avvertite come vincolanti dalla coscienza sociale del suo tempo, con una condotta (attiva od omissiva) che si inserisca come antecedente causale che culmina nel danno subito. In tal caso, infatti, con l’accettazione consapevole del rischio il trasportato ha posto in essere un antecedente causale non del fatto dannoso complessivo, ma dell’evento verificatosi, il quale consiste nella lesione del bene giuridico tutelato.

Ciò si basa, oltre che sull’art. 1227 cc, sull’art. 2 Cost, il quale fonda le scelte di politica sociale di allocazione del rischio, ma anche l’obbligo di ciascuno di essere responsabile e valutare le conseguenze dei propri atti.

Occorre però individuare quale sia la soglia di rilevanza causale della volontaria esposizione al rischio. Infatti, non si può pretendere una sottrazione totale al rischio, la quale è impossibile, non essendo tutti i rischi prevedibili ed evitabili, ed inoltre contrasta con il vivere nella società e con l’esigenza di assolvere ai vari compiti imposti dalla società.

Pertanto, è semplice individuare la condotta che comporta esposizione volontaria al rischio e sia fonte di responsabilità quando essa sia posta in essere in precisa violazione di norme giuridiche. Meno immediata è la collocazione della soglia di rilevanza di tale comportamento quando sia posta in essere una violazione di regole di prudenza. In tal caso, si può ritenere che il danneggiato realizzi una condotta causalmente rilevante quando accetti volontariamente di esporsi ad un rischio gratuito, cioè non necessitato e neppure giustificato dall’attività che egli debba svolgere e dovuto ad una scelta voluttuaria e gravemente imprudente. CDC




Inserito in data 29/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA INTERLOCUTORIA, 23 maggio 2014, n. 11545

Il divieto di donazione di beni futuri ex art. 771 cc opera per i beni altrui?

La Corte di Cassazione ha trasmesso gli atti al Primo Presidente affinché valuti la possibilità di rimettere alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza consistente nello stabilire se l’art. 771 c.c. possa essere interpretato equiparando a tutti gli effetti la categoria dei “beni futuri” ai “beni altrui”.

Com’è noto, l’art. 771 c.c. afferma la nullità della donazione avente ad oggetto beni futuri.

I) Per un orientamento giurisprudenziale (C. 6544/85; 11311/96; 10356/09; C. 12872/13), tale norma si applica anche alla donazione avente ad oggetto beni totalmente o parzialmente altrui, in quanto beni futuri in senso soggettivo.

In questo senso si allega un argomento letterale, ossia la circostanza che l’art. 769 c.c. definisce la donazione come il contratto con cui il donante dispone di un “suo diritto”.

Inoltre, in questo senso depone un argomento sistematico: il codice civile ha assoggettato la donazione al principio consensualistico, ossia ha previsto che il diritto si trasferisca al momento stesso in cui si perfeziona l’accordo (fatta salva la donazione manuale ex art. 783 c.c., che costituisce un contratto reale).

II) Per un orientamento minoritario (C. 1596/01, secondo cui la donazione di beni altrui è valida ma inefficace e, perciò, idonea a concorrere all’usucapione, purché sia concepita delle parti come donazione di cosa propria del donante), la donazione avente ad oggetto beni altrui è valida, in quanto qualificabile come donazione obbligatoria ossia che arricchisce il donatario attraverso l’assunzione nei suoi confronti di un’obbligazione (cfr. art. 769 c.c. seconda parte).

A tale conclusione si perviene sottolineando che l’art. 771 cc è una norma eccezionale, non estensibile analogicamente.

Inoltre, si evidenzia che la legittimazione a disporre è un elemento esterno alla struttura della fattispecie contrattuale; con la conseguenza che esso dovrebbe incidere sull’efficacia del negozio piuttosto che sulla sua validità. TM




Inserito in data 29/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 maggio 2014, n. 2742

Il termine annuale previsto dall’art. 31 c. 2 CPA integra una mera sanzione processuale

La sentenza in epigrafe desta interesse nella parte in cui si sofferma sulle conseguenze del decorso del termine annuale previsto dall’art. 31, c. 2, primo alinea, c.p.a., per la proposizione dell’azione avverso il silenzio (“L’azione può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento”).

Per la Quinta sezione, “alla stregua di consolidata giurisprudenza, si deve escludere che il termine annuale previsto dall’art. 31, co. 2, c.p.a., produca una decadenza sostanziale che colpisce la posizione soggettiva, atteggiandosi invece a mera sanzione processuale che non impedisce la proposizione di autonomo giudizio a seguito della presentazione di una nuova istanza volta al conseguimento del provvedimento amministrativo”.

Per espressa previsione di legge (art. 31, co. 2, c.p.a., secondo alinea: “è fatta salva la riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”), infatti, la decorrenza del termine annuale incide soltanto sul piano processuale, senza che si produca nessuna vicenda estintiva dell’interesse legittimo pretensivo sotteso all’iniziativa procedimentale di parte: pertanto, se tale situazione giuridica soggettiva persiste in capo al cittadino anche dopo un anno dalla formazione del silenzio-rifiuto, sussiste pure la legittimazione a riproporre l’istanza di avvio del procedimento e, conseguentemente, a promuovere l’azione avverso il silenzio”.

Va soggiunto che, stante la natura del termine in una con la relativa ratio, la diffida a provvedere va equiparata ad una nuova istanza ai sensi dell'art. 31, comma 2, c.p.a.”. TM



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Inserito in data 28/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 maggio 2014, n. 2687

Violazione della regola dell’anonimato ed individuazione dei segni di riconoscimento

I giudici di Palazzo Spada, con la presente sentenza, hanno confermato la decisione assunta dal giudice di prime cure in merito alla violazione della regola dell’anonimato vigente in ambito concorsuale.

Dopo un breve esame della normativa che regola la materia (art. 13 del d.P.R. 487/94: “non è permesso ai candidati di comunicare tra loro verbalmente o per iscritto, ovvero di mettersi in relazione con altri salvo che con gli incaricati della vigilanza ed i membri della commissione”; art. 14 comma 2: secondo il quale lo svolgimento delle prove scritte “senza apporvi sottoscrizioni né altro contrassegno”) e la precisazione della ratio della suddetta disciplina, volta a garantire non solo il principio di uguaglianza tra i candidati, ma anche il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione (C.d.S. A.P. 26/2013) il Supremo Consesso ha esaminato le peculiarità del caso in questione.

Il Consiglio di Stato ha precisato infatti che, a prescindere dalla mancanza di rilevanza delle anomalie redazionali (presenti nella c.d. brutta copia) ai fini del violazione dell’anonimato (valutazione sulla quale, peraltro, esprime parere difforme da quello espresso dal giudicie di primo grado), nel caso di specie il concorsista con il proprio comportamento, più precisamente attraverso l’esternazione delle modalità di compilazione della prova scritta, e la situazione di fatto in cui le prove si sono svolte (trattasi di concorso cui hanno partecipato solo cinque candidati), hanno concorso ad infrangere il presupposto dell’anonimato che permea le selezioni concorsuali.

La violazione dell’obbligo di garantire l’anonimato della prove viene dunque nel caso di specie a ricondursi non solo all’inosservanza della regola primaria che impone la redazione di un compito privo di segni di potenziale riconoscibilità dell’autore, ma anche all’aver il candidato esternato il criterio redazionale osservato con comunicazione verbale idonea a renderlo conoscibile da parte di terzi”, a nulla rilevando la mancanza di un effettivo riconoscimento, invero, “a fronte dell’esigenza di assicurare l’indipendenza di giudizio dell’organo valutatore non occorre accertare se il riconoscimento della prova di un candidato si sia effettivamente determinato, essendo sufficiente la mera, astratta possibilità dell’avverarsi di una tale evenienza.”. (c.d.s. 3747/13 del 2013); “la violazione dell’anonimato nei riguardi della Commissione nei pubblici concorsi comporta, insomma, un’illegittimità da pericolo c.d. astratto e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di indagine sull’effettiva lesione della regola di imparzialità in sede di correzione” (A.P. 26/13).

Viene di contro esclusa la rilevanza identificativa di alcuni contrassegni, quali l’indicazione dell’ora di inizio e termine delle prove o degli argomenti da sviluppare all’interno dell’elaborato, nonché di interventi correttivi dello stesso, sulla considerazione che “non si discosta, invero, dalle ordinarie modalità redazionali l’indicazione nella minuta dell’elaborato dell’ordine degli argomenti cui dare articolato sviluppo e l’apposizione dell’arco temporale di durata della prova, non essendo di norma consentito in tale sede l’utilizzo di fogli diversi da quelli messi a disposizione dalla commissione” (c.d.s 102/13). VA



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Inserito in data 28/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE PENALE - SENTENZA 15 maggio 2014, n. 20238

Sulla responsabilità penale dell’agente provocatore

La Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito alla configurabilità di una responsabilità penale, anche a titolo di concorso morale, dell’agente provocatore.

Con la pronuncia in commento, infatti, dopo aver operato una prima distinzione tra “agente infiltrato”, cui si applica la disciplina speciale che ne regola l’operato, ed “agente provocatore”, ricorda che “perché l’agente provocatore non sia punibile, occorre che egli abbia assunto una posizione marginale rispetto alla realizzazione dell'illecito, nel senso di non essersi spinto al punto da cagionare, con rilevanza causale, l'evento criminoso, il quale non deve essere da lui sollecitato, ma occorre che il fatto di reato, nell'ideazione e nella realizzazione, sia riconducibile alla volontà del provocato”.

Nel caso di specie la problematica era stata sollevata con riferimento alla possibilità o meno di utilizzare ai fini probatori i risultati conseguiti in violazione dell’art. 191 c.p.c. (in mancanza dei presupposti richiesti dalla legge per la sussistenza dell’ipotesi di agente infiltrato).

Gli Ermellini hanno osservato come “non si verte in tema di inutilizzabilità della prova allorquando l'intervento degli agenti si limiti a disvelare un'intenzione criminosa già esistente, anche se allo stato latente, senza averla determinata nell'imputato in modo essenziale”, in caso contrario, infatti, il giudizio di svolgerebbe in violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Invero, “mentre non lede il diritto all'equo processo l'intervento della polizia giudiziaria (…) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere” (Sez. 3, 09/05/2013 n. 37805, cit.).

La Corte di legittimità, inoltre, ha ricordato come in tali ipotesi non possa trovare applicazione neanche l’art. 49 c.p. (sul reato impossibile) in quanto l’impossibilità del verificarsi dell’evento deve essere valutata con riferimento alla inidoneità dell’azione tramite un giudizio ex ante: così non è nel caso in cui il fatto sia stato impedito dal tempestivo intervento dell’agente “sicché l'attività dell'agente provocatore, essendo causa estrinseca per nulla incidente sull'attitudine della condotta del reo a raggiungere il risultato voluto, non esclude l'efficacia causale della condotta stessa “ (v. 39216/2013). VA

 




Inserito in data 27/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 maggio 2014, n. 11035

 Sull’identificazione del bene oggetto di donazione indiretta

Con la sentenza in esame, gli Ermellini affermano che “in tema di donazione indiretta, con riguardo alla vicenda dell'edificazione, con denaro del genitore, su terreno intestato a figli (a seguito di precedente donazione indiretta), il bene donato può ben essere identificato, non nel denaro, ma nello stesso edificio realizzato - senza che a ciò sia di ostacolo l'operatività dei principi sull'acquisto per accessione -, tutte le volte in cui, tenendo conto degli aspetti sostanziali della vicenda negoziale (nella specie alternativamente indicata dal giudice del merito come appalto o come contratto a favore di terzi) e dello scopo ultimo perseguito dal disponente, l'impiego del denaro a fini edificatori sia compreso nel programma negoziale perseguito dal genitore donante”.

Si tratta, peraltro, di un orientamento in linea con la pronuncia del 5 agosto 1992, n. 9282, con cui le Sezioni Unite hanno enunciato il principio secondo cui “nell'ipotesi di acquisto di un immobile con denaro proprio del disponente ed intestazione ad altro soggetto, che il disponente medesimo intenda in tal modo beneficiare, con la sua adesione, la compravendita costituisce strumento formale per il trasferimento del bene ed il corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario, e, quindi, integra donazione indiretta del bene stesso, non del denaro, sicché, in caso di collazione, secondo le previsioni dell'art. 737 cod. civ., il conferimento deve avere ad oggetto l'immobile, non il denaro impiegato per il suo acquisto”.

Invero, “alla base di questa soluzione - convalidata anche dalla giurisprudenza successiva (Sez. II, 29 maggio 1998, n. 5310; Sez. II, 22 settembre 2000, n. 12563; Sez. II, 6 novembre 2008, n. 26746; Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11496) - vi è la sottolineatura che, nel caso del denaro corrisposto dal donante al donatario allo specifico scopo dell'acquisto del bene o mediante il versamento diretto dell'importo all'alienante o mediante la previsione della destinazione della somma donata al trasferimento immobiliare, c'è un collegamento tra l'elargizione del danaro e l'acquisto del bene da parte del beneficiario”. EMF




Inserito in data 27/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 maggio 2014, n. 139

Sulla q.l.c. dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata, in riferimento all’art. 3, comma 1, della Costituzione, “la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463 (Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 novembre 1983, n. 638, il quale punisce con la sanzione penale della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032,00 euro il datore di lavoro che omette il versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti”.

In particolare, l’omessa previsione della soglia di non punibilità nella disciplina dell’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non può essere comparata all’art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, che punisce «con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».

Infatti, mentre la ratio della norma sospettata di illegittimità costituzionale “è quella di ovviare al fenomeno costituito dalla grave forma di evasione, quale quella contributiva, con un inasprimento delle sanzioni”; la previsione invocata dal Giudice rimettente (art. 10-bis del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74) a fondamento dell’irragionevolezza “è stata dettata in attuazione della «Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario», i cui principi e criteri direttivi indicano la diversa finalità perseguita dal legislatore penale nel prevedere «un ristretto numero di fattispecie […] caratterizzate da rilevante offensività per gli interessi dell’erario», con «soglie di punibilità idonee a limitare l’intervento penale ai soli illeciti economicamente significativi»”.

L’obiettivo perseguito dalla normativa censurata è, altresì, rafforzato dalla previsione contenuta nell’art. 2116 del codice civile, secondo cui le prestazioni previdenziali e assistenziali «sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza», trattandosi  di “logico corollario delle finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti” (Corte Costituzionale, sentenza n. 347 del 1997).

D’altra parte, “anche sul piano della tipizzazione della fattispecie penale emergono sostanziali differenze tra i reati posti a confronto, atteso chela norma censurata prevede un reato a consumazione istantanea con una speciale causa di estinzione collegata al versamento tardivo delle ritenute previdenziali entro tre mesi dalla contestazione”; mentre, di contro, “l’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 − in ossequio alla diversa finalità dell’opzione punitiva prescelta − introduce una condizione oggettiva di punibilità, che impedisce di configurare il disvalore penale delle condotte non ritenute di rilevante offensività”.  EMF



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Inserito in data 26/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 19 maggio 2014, n.10965

Garanzia per vizi è diritto potestativo: a fini interruttivi occorre domanda giudiziale

Gli Ermellini, intervenendo in un giudizio in tema di compravendita e garanzia per vizi del bene che ne costituisce oggetto, sottolineano la natura di diritto potestativo propria della posizione giuridica soggettiva dell’acquirente.

Pertanto, per interrompere la prescrizione annuale – prevista ex articolo 1495 cod. civ. – ai fini dell’esercizio dell’azione edilizia, è necessario che l’acquirente provveda alla proposizione di domanda giudiziale e non solo ad un atto di costituzione in mora.

Quest’ultimo adempimento, infatti, come ha già sottolineato copiosa giurisprudenza, per il disposto dell'art. 1219, primo comma, cod. civ., si attaglia ai diritti di credito e non anche ai diritti potestativi. (Cfr. S.C. 20332/07; e anche utilmente S.C. 25468/10), quindi non sarebbe sufficiente per la posizione in esame. CC

 

 




Inserito in data 26/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2649

Prolungamento di una via: è una mera variante semplificata allo strumento urbanistico

I Giudici amministrativi, uniformandosi alla posizione del Collegio di primo grado, evidenziano come la scelta di prolungare una pubblica via – quale quella oggetto dell’odierna censura, costituisca una variante semplificata allo strumento urbanistico.

Non si richiedono, pertanto, gli adempimenti procedimentali più complessi – previsti, invece, ad un livello più generale, ossia ove si incida sull’assetto generale del PRG.

In seconda battuta, il Collegio ricorda l’impostazione giurisprudenziale, ormai pacifica, in tema di vaglio giurisdizionale in ambito urbanistico.

Si tratta, infatti, di valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, esse risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.

Nel caso in esame, evidenziano i Giudici del gravame, non appare che l’operato amministrativo sia gravato di un tale rilievo di illegittimità – come lamentato dagli appellanti.

Si conferma, pertanto, il rigetto delle doglianze – già espresso in primo grado. CC



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Inserito in data 24/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 maggio 2014, n. 137

Sull'attribuzione dei poteri all'autorità per l'energia elettrica e il gas

Con la pronuncia in epigrafe, si evince che non spetta allo Stato e, per esso, al Presidente del Consiglio dei ministri attribuire, con proprio decreto, del 20 luglio 2012 – Individuazione delle funzioni dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici, ai sensi dell'articolo 21, comma 19 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – poteri, compiti e funzioni all'Autorità per l'energia elettrica ed il gas, in relazione al servizio idrico, nei confronti delle Province autonome di Trento e di Bolzano e, per l'effetto, annulla le lettere e) ed o) dell'art. 3, c. 1, del predetto decreto, nella parte in cui si riferiscono anche alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Specificamente, l'impugnato art. 3, al 1°comma, attribuisce alla sopracitata Autorità una serie di compiti e di funzioni che presuppongono un sistema territoriale ed organizzativo del servizio che non trova riscontro alcuno nella Provincia autonoma di Trento e che, altresì, rappresentano espressione di poteri regolatori anche in materia tariffaria, di vigilanza e sanzionatori che non possono ritenersi legittimamente esercitabili nei confronti delle Province autonome, in virtù delle competenze provinciali e di attuazione in tema di servizio idrico.

Occorre sottolineare, inoltre, che è già stato rilevato – dalla sentenza n. 233 del 2013 della Corte Costituzionale – che in coerenza con detti principi, nel d.P.C.m. 20 luglio 2012, recante l'individuazione delle funzioni dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas attinenti alla regolazione e al controllo dei servizi idrici, all'art. 4, è stabilito che “sono in ogni caso fatte salve le competenze delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano ai sensi dei rispettivi statuti speciali e delle relative norme di attuazione”.

Da tale norma, la quale chiude il decreto in esame, è possibile pacificamente far discendere l'inapplicabilità, nella Provincia autonoma di Trento, delle richiamate previsioni contenute nell'impugnato art. 3, 1° comma.

Si sottolinea, che le clausole di salvaguardia, analoghe a quella contenuta nell'art. 4 del decreto in oggetto, rappresentano un limite all'applicazione delle norme statali incompatibili con gli statuti speciali e le relative norme di attuazione, escludendo il contrasto con il riparto costituzionale delle competenze, alla luce della sentenza n. 241 del 2012 della Corte Costituzionale. GMC

 



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Inserito in data 24/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 20 maggio 2014, n. 11090

Sull'opposizione all'esecuzione

L'opposizione all'esecuzione trova il suo fondamento negli articoli 615 e 616 del c.p.c.

Essa, ha ad oggetto la contestazione delle ragioni proprie dell'esecuzione medesima. Invero, il comma 1° dell'art. 615 del c.p.c., prevede che mediante l'opposizione si contesta il diritto del creditore di procedere con l'esecuzione forzata, diritto, il quale, condiziona la legittimità del processo esecutivo stesso.

Quanto ai legittimati a proporla, questi sono tutti coloro i quali – in concreto – subiscono l'esecuzione anche quando la veste di debitore non risulti direttamente dal titolo esecutivo: essi saranno, il debitore, il terzo proprietario del bene pignorato ovvero un soggetto terzo espropriato.

Quanto ai convenuti – ossia i c.d. legittimati passivi – questi saranno il creditore procedente e quelli intervenuti e dotati di titolo esecutivi. 

In generale, con l'opposizione all'esecuzione, sarà possibile negare l'esistenza stessa del titolo esecutivo ab origine, contestare la sua nullità sopravvenuta per caducazione, negare la sua idoneità a fondare l'esecuzione da parte o nei confronti di un soggetto determinato o, addirittura, a fondare l'esecuzione stessa ed infine negare la corrispondenza della misura richiesta con il contenuto del titolo.

Nello specifico caso in cui, nel corso del giudizio di opposizione all'esecuzione, il diritto per cui si procede esecutivamente – fondato su un titolo esecutivo giudiziale ancora sub iudice – risulta  negato parzialmente da una successiva sentenza di merito, pur non definitiva, emessa nel giudizio in cui se ne discute, o per riconoscimento della parziale inesistenza originaria o per riconoscimento di una parziale inesistenza in forza di fatto estintivo sopravvenuto fatto valere in quel giudizio, il giudice dell'esecuzione che decida l'opposizione, deve rigettarla per la parte di credito riconosciuta esistente ed accoglierla per la parte residua, dichiarando, a seconda dei casi, il momento al quale risale l'accertata inesistenza.

Tale principio, si applica anche nel caso in cui l'esecuzione sia stata iniziata sulla base di un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo e l'opposizione ad esso venga accolta parzialmente, così come emerge anche dall'art. 653 c.p.c., 2°comma, alla luce del quale “Se l'opposizione è accolta solo in parte, il titolo esecutivo è costituito esclusivamente dalla sentenza, ma gli atti di esecuzione già compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta”. GMC




Inserito in data 23/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2651

Sull’esercizio del potere di acquisizione sanante ex art. 42-bis dpr 327/2001

Il potere di acquisizione sanante ex art. 42-bis dpr 327/2001 può essere esercitato anche quando vi sia stato un giudicato di condanna alla restituzione conseguente all’annullamento di un provvedimento di esproprio o all’annullamento di un provvedimento di acquisizione sanante emanato in vigenza del previgente art. 43 dpr 327/2001.

Ciò si desume dal tenore letterale dello stesso art. 42 bis, comma 8: “le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato”.

Pertanto, il vecchio provvedimento di acquisizione sanante, emesso in base ad una legge dichiarata incostituzionale, non può essere sanato dal sopravvenire di una norma legittimante. Ciò è escluso anche dalla stessa dinamica del potere amministrativo, che, salvo espresse previsioni di legge o precise statuizione giudiziali in funzione satisfattiva del ricorrente, non può avere effetti sananti retroattivi.

Ne segue che il giudicato di annullamento del provvedimento di acquisizione sanante e di restituzione del bene al privato cessa di avere efficacia in ragione dell’esercizio postumo dell’autonomo e nuovo potere conferito di cui all’art. 42-bis. CDC



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Inserito in data 23/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2014, n. 2638

Danno da ritardo: differenza tra risarcimento e indennizzo

L’art. 2-bis, comma 1, l. 241/1990 non collega il risarcimento del danno al mero superamento del termine di conclusione del procedimento amministrativo senza che sia intervenuta l’emanazione del provvedimento finale, ma pone l’inosservanza del termine previsto come presupposto del danno ingiusto cagionato “in conseguenza” dell’inosservanza dolosa o colposa di detto termine.

Il successivo comma 1-bis, invece prevede non il risarcimento del danno, ma il riconoscimento di un indennizzo per il solo fatto del superamento del termine.

Ambedue le ipotesi, nel considerare l’inosservanza di un termine per la conclusione di un procedimento, presuppongono che si verta nell’ambito di un procedimento amministrativo, non potendo le norme applicarsi a casi di attività della pubblica amministrazione diversa da quella procedimentalizzata. CDC



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Inserito in data 22/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 maggio 2014, n. 2526

Limitata sindacabilità delle valutazioni tecniche opinabili

I Giudici di Palazzo Spada si sono pronunciati sulla legittimità della valutazione tecnica di una conferenza di servizi. Quest’ultima aveva assimilato il MTBE ad un idrocarburo a catena lineare a basso numero di atomi di carbonio, al fine d’individuarne il valore di concentrazione limite ammissibile nelle acque sotterranee delle aree interessate da un procedimento di bonifica ambientale. Tale operazione analogica trovava il suo fondamento normativo nell’art. 1, comma 5, dell’allegato 1 al citato d.m. n. 479 del 1999, secondo cui “per le sostanze non indicate in tabella si adottano i valori di concentrazione limite accettabili riferibili alla sostanza più affine tossicologicamente”.

Poiché la valutazione di “affinità” presenta in sé un ineliminabile grado di fisiologica opinabilità, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dovere circoscrivere il proprio potere di controllo. Infatti, “Come hanno recentemente affermato anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza 20 gennaio 2014, n. 1103), il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti amministrativi comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicare della legittimità di tale provvedimento; ma quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità - come nel caso in esame - detto sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello Amministrazione ove questa si sia mantenuta entro i suddetti margini”.

Nel caso di specie, la valutazione è stata considerata scientificamente plausibile e, poiché l’Amministrazione aveva indagato le caratteristiche della sostanza, ricostruito le difformi posizioni scientifiche sul punto e poi optato per una delle tesi in campo argomentando in modo ragionevole. TM



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Inserito in data 22/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 maggio 2014, n. 2610

La disciplina ante CPA dell’azione risarcitoria per danno da provvedimento illegittimo

Riprendendo l’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 3 del 2011, il Consiglio di Stato ha riformato la sentenza del T.R.G.A. di Bolzano che aveva dichiarato inammissibile un ricorso giurisdizionale teso ad ottenere il risarcimento del danno da provvedimento amministrativo illegittimo, senza la previa impugnazione del provvedimento medesimo. Infatti, la Sesta sezione accede all’idea che, già prima dell’entrata in vigore del C.P.A., sussistesse un rapporto di pregiudizialità sostanziale e non di rito tra l’azione di annullamento e l’azione risarcitoria.

Nel merito, però, rigetta la domanda risarcitoria, in quanto prescritta. Infatti, per un verso, si rileva che la responsabilità della P.A. ha natura extracontrattuale, con la conseguente applicazione del termine quinquennale. Per altro verso, abbandonata la tesi della pregiudizialità amministrativa e non essendo applicabile ratione temporis l’art. 30, c. 5, CPA, si afferma che la prescrizione decorreva dalla data di perfezionamento dell’illecito, ossia dalla data di adozione dell’atto illegittimo. Infine, si nega che la proposizione dell’azione di annullamento possa determinare un effetto interruttivo-sospensivo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria, ai sensi degli artt. 2943, c. 1, e 2945, c.2 c.c., stante la diversità di petitum e di causa petendi che connotano tali azioni e l’assenza di un rapporto di accessorietà. TM

 



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Inserito in data 21/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 maggio 2014, n. 2565

Nullità della riperimetrazione effettuata in carenza assoluta di potere

Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla competenza a decidere la riperimetrazione del vincolo paesaggistico e, conseguentemente, sulla natura del vizio che inficia il provvedimento emesso in violazione delle relativa disciplina.

Nel caso di specie l’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali aveva rilevato che “il potere di integrazione degli elenchi delle bellezze naturali di cui alla l. 1497/39 (potere di dichiarazione di interesse pubblico) spetta distintamente e autonomamente sia allo Stato, sia alla Regione, con la conseguenza della intangibilità in via unilaterale dei vincoli apposti da ciascuno di tali livelli di governo. Pertanto la Direzione regionale per i beni paesaggistici della Calabria ha sottolineato che “il provvedimento unilaterale di riperimetrazione del vincolo adottato in modo  autonomo da uno solo dei richiamati livelli di governo sia da ritenersi nullo per difetto assoluto di incompetenza”.

Il Supremo Consesso, avallando la decisione presa in primo grado, ha respinto il ricorso presentato contro il provvedimento che ha dichiarato la suddetta nullità.

Invero, affermata la correttezza dell’assunto in merito alla distribuzione del potere di integrazione degli elenchi  di bellezze naturali, ne consegue l’assoluta intangibilità unilaterale, da parte di ciascun livello di governo (Stato o Regione), delle determinazioni inizialmente adottate da ciascuno di essi nella materia in questione (v. C. Cost. 334/98).

A riprova di quanto affermato i giudici di Palazzo Spada invocano il dettato letterale dell’art. 141-bis che, con l’avverbio “rispettivamente” sembra escludere la possibilità di intervenire con un’integrazione /riperimetrazione da parte di un livello di governo sulle decisioni prese dall’altro (imposizione originaria del vincolo).

Posta, dunque,  l’esistenza di una carenza di potere nel caso di specie, la sentenza ha statuito anche in merito alla natura della patologia che affigge il decreto regionale emesso in violazione dei principi sopra esposti.

Anche in questo caso i giudici di Palazzo Spada hanno convenuto con quanto affermato dal tribunale di merito e, applicando l’art. 21-septies l. 241/90, affermato l’esistenza di un vizio radicale di nullità ricorrendosi in un’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione la quale, come più volte dichiarato, “sussiste anche nel caso della c.d. incompetenza assoluta, ossia nelle ipotesi in cui l’amministrazione del cui operato si discute abbia adottato un provvedimento la cui adozione rientrava nella sfera di attribuzioni di un plesso amministrativo radicalmente diverso (CDS 4679/11; 739/05)”, a nulla rilevando la partecipazione degli organi periferici del ministero nella formazione del provvedimento (espressione del rispetto del principio di leale cooperazione). VA



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Inserito in data 21/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. LAVORO - ORDINANZA INTERLOCUTORIA, 20 maggio 2014, n. 11053

Art. 80 comma 19 l. 388/00 e dubbi di legittimità costituzionale

La Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione ha sottoposto al vaglio della Corte Costituzionale l’art. 80 comma 19 l. 388/2000 sollevando questione di legittimità costituzionale della norma in questione nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione della pensione e della indennità di accompagnamento per ciechi assoluti e dell’assegno sociale maggiorato, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato.

La norma così formulata, infatti, si porrebbe in contrasto con alcuni principi fondamentali tutelati sia dalla nostra Costituzione che dalla normativa comunitaria (quali il principio di uguaglianza ed il diritto alla salute).

Invero la Suprema Corte ritiene che i dubbi di legittimità costituzionali dell’art. 80 comma 19 non siano stati risolti dalle precedenti pronunce della Corte Costituzionale (intervenuta proprio sulla norma in esame.

In particolare gli Ermellini osservano come la sentenza costituzionale 306/08 ha censurato la suddetta norma limitatamente alla parte in cui condizionava la concessione delle provvidenze economiche al possesso del permesso di soggiorno (il cui rilascio presupponeva il possesso di determinati requisiti reddituali). Nel far ciò la pronuncia sanciva implicitamente la legittimità del restante impianto normativo (nella parte che qui interessa il necessario presupposto della prolungata residenza nel territorio dello stato).

Allo stesso modo non si può invocare la più recente pronuncia costituzionale (sent. 40/2013) che, pur avallando i dubbi di legittimità costituzionale del testo normativo in quanto contrastante, ex art. 117 cost., con i principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dalla CEDU e dalla Carta di Nizza, vertendosi in materia di diritti fondamentali della persona (non potendo considerarsi ragionevole una differenziazione di trattamento che, ignorando il carattere concretamente non episodico e di non breve durata del regolare soggiorno nel territorio, si fondi sulla mera mancanza della carta di soggiorno) è intervenuta in modo settoriale.

Pertanto il Collegio precisato che “avuto riguardo al tenore letterale delle norme sospettate di incostituzionalità, non è possibile fornire una interpretazione costituzionalmente orientata delle stesse né ritenere che siano ormai espunte dall’ordinamento sulla base delle pronunce già emesse dal Giudice delle Leggi, aventi efficacia limitata alle prestazi9oni di volta involta necessari” ha ritenuto opportuno sollecitare un nuovo intervento della Corte Costituzionale, non essendo neanche possibile procedere alla disapplicazione delle norme in contrasto con l’art. 14 CEDU per il carattere di “norma di principio”, non self executing, di quest’ultima. VA




Inserito in data 20/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 14 maggio 2014, n.10607

Condominio: persistenza e continuità dei poteri dell’amministratore

Il Collegio di piazza Cavour, specificando – con riguardo al caso concreto  – l’applicabilità ratione temporis dell’articolo 1129 cod. civ. ante modifica apportata dall'art. 9 della legge n. 220/12, sottolinea la persistenza dei poteri dell’amministratore di condominio, fin quando non venga sostituito da altro successore, nominato dal Giudice o dai membri dello stesso stabile.

Infatti, considerata la delicatezza del ruolo, oltrechè delle mansioni affidate all’amministratore, gli Ermellini evidenziano il carattere perenne e necessario dell'ufficio che questi ricopre, tale da non ammettere soluzioni di continuità, né consentire interruzioni nel relativo esercizio.

Pertanto, respingendo il ricorso proposto da taluni condòmini che lamentavano la validità di determinate delibere adottate nelle more di una nuova nomina, e richiamando giurisprudenza ormai certa (Cfr. S.C. nn. 7619/06, 739/88 e 572/76; conforme, n. 740/07), la Corte Suprema ribadisce il ruolo dell’amministratore di condominio, unitamente alla conseguente validità dell’assemblea da questi retta. Questa, infatti, è regolarmente riunita nella pienezza dei suoi poteri indipendentemente dagli eventuali vizi della precedente delibera di nomina dell'amministratore che l'ha convocata. CC




Inserito in data 20/05/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUARTA, SENTENZA 30 aprile 2014, causa C-26/13

Cambio di valuta, abusività e poteri del Giudice nazionale

La Corte di Giustizia europea compie un ulteriore passo avanti in tema di tutela dei consumatori ed abusività di eventuali clausole inserite nei contratti tra questi ed i professionisti.

In particolare, la vicenda in esame riguarda l’opportunità che all’atto del conferimento di un prestito, erogato in valuta estera, il consumatore possa adeguatamente vagliare le conseguenze economiche derivanti dall'applicazione, al rimborso del prestito, di un corso diverso da quello che avrebbe avuto se fosse stata mantenuta la moneta nazionale e se il contratto fosse stato concluso nell’ambito dei nostri confini.

In caso di abusività conclamata, quindi, il Collegio del Lussemburgo – confermando posizioni già espresse in merito – riconosce come ammissibile l’intervento del Giudice nazionale.

Questi, infatti, potrà  sostituire ad una clausola abusiva una disposizione di diritto nazionale al fine di ristabilire un equilibrio tra le parti del contratto e mantenere la validità di quest'ultimo. CC




Inserito in data 20/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 maggio 2014, n. 2312

Provvedimento di inibitoria della detenzione armi: ininfluente il rapporto di affinità

Il Collegio di Palazzo Spada ricorda che, per quanto ampia possa essere la sfera di discrezionalità di cui gode l’Amministrazione nel governo della disponibilità di armi da parte dei privati cittadini, incontra, pur sempre, il limite della ragionevolezza e postula un’adeguata ponderazione.

D’altra parte, l’eventuale provvedimento di inibitoria della detenzione di armi, quale quello qui censurato, costituisce pur sempre una statuizione limitativa della sfera giuridica del destinatario e, come tale, deve essere congruamente motivata.

Pertanto, non può fondarsi su un rapporto di affinità con soggetti socialmente pericolosi, quale quello presuntivamente imputato all’odierno appellante.

Del resto, in fattispecie analoghe, il Collegio si è già pronunciato in tal senso; tanto più, come nel caso in esame, laddove non siano emersi rilievi ed inadempienze quanto al corretto assolvimento degli obblighi di custodia delle armi detenute.

L’appello, pertanto, viene accolto ma non preclude, evidenziano i Giudici, che l’autorità di pubblica sicurezza possa dedicarsi all’esercizio dei poteri di controllo e di riesame, specie ove emergano elementi di fatto tali da arrecare un vulnus alle condizioni di sicurezza, ordine pubblico ed incolumità delle persone. CC



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Inserito in data 19/05/2014
TAR LAZIO – ROMA, SEZ. III BIS, 14 maggio 2014, n. 5011

Nei concorsi pubblici, il servizio pre-ruolo deve essere valutato come quello di ruolo

La questione posta al vaglio del Collegio riguarda l’annullamento del bando di concorso emanato con D.D.G. del Ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca 13 luglio 2011, avente ad oggetto l’indizione del concorso per esami e titoli per il reclutamento di dirigenti scolastici, “nella parte in cui, all’art. 3 – comma 1 – Requisiti di ammissione – prescrive (in applicazione dell’art. 3 comma 618 della legge 296/2006) che il requisito d’insegnamento effettivamente prestato di almeno cinque anni deve essere maturato dopo la nomina in ruolo, con esclusione, quindi, del complessivo servizio scolastico pre-ruolo”.

Nell’accogliere le doglianze dei precari, invero, i Giudici romani sono consapevoli del fatto che la prescrizione contenuta in tale norma determini “una insanabile antinomia con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, allegato alla Direttiva del Consiglio dell’Unione Europea 28 giugno 1999/70/CEE”.

D’altra parte, già la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza nel procedimento C-177/10, pubblicata in data 8.9.2011, ha sancito il principio secondo il quale, “nei concorsi pubblici, il servizio pre-ruolo deve essere valutato come quello di ruolo”. Peraltro, tali principi, “con specifico riferimento alla richiesta dell’integrale valutazione del servizio pre ruolo, sono stati ribaditi dalla successiva sentenza della Corte di Giustizia (Sesta Sezione) del 18 ottobre 2012 nei procedimenti Rosanna Valenza (C-302/11 e altri) contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. EMF



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Inserito in data 19/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 15 maggio 2014, n. 125

Tutela della concorrenza e competenza legislativa esclusiva statale

Per la giurisprudenza costituzionale è pacifico “che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)”.

Invero, in “questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007)”.

In particolare, la Corte ha osservato che “Si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali”(sentenze n. 299 del 2012, n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004).

Tuttavia, “l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale”. Pertanto, “l’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale” (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012).

Anche alla luce di tali rilievi, il Giudice delle Leggi dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 per contrasto con l’articolo 117, co. 2, lett. e), Cost..

L’art. 9 della legge regionale suddetta, infatti, nell’integrare “la disciplina dei «poli commerciali» di cui all’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), aggiungendovi i commi da 3-bis a 3-sexies”, introduce “nuovi vincoli all’apertura degli esercizi commerciali ponendosi in contrasto, tra l’altro, con i principi di liberalizzazione” (art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 e art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27).

Del pari, l’art. 43, nel sostituire l’art. 7 della legge della Regione Umbria 23 luglio 2003, n. 13 (Disciplina della rete distributiva dei carburanti per autotrazione), “introduce vincoli più restrittivi all’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti, prevedendo l’obbligo di erogare contestualmente gasolio e benzina in contrasto con quanto previsto dall’83-bis, comma 17, del d.l. n. 112 del 2008 che vieta restrizioni che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti”.

In conclusione, anche l’art. 44 della legge reg. n. 10 del 2013, nell’aggiungere l’art. 7-ter alla legge reg. n. 13 del 2003, viola la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della «tutela della concorrenza», in quanto il legislatore regionale “subordina l’installazione di un nuovo impianto dotato di apparecchiature self-service e pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore alla condizione che esso sia l’unico del Comune o che quello più vicino sia ad almeno dieci chilometri di distanza anche se ubicato in un Comune limitrofo”. EMF



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Inserito in data 18/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 14 maggio 2014, n. 10542

Locazione ad uso diverso da quello abitativo

Premettendo un inquadramento di carattere generale, la disciplina codicistica del contratto di locazione, è contenuta all'interno del Titolo III, Libro IV del codice civile del 1942, il quale provvede alla "tipizzazione" dei contratti che assumono maggior rilievo nell'ordinamento giuridico.

Alla luce dell'art. 1571 del codice civile, la locazione rappresenta il contratto con il quale una parte, “locatore”, si obbliga a far godere all'altra, “locatario” o “conduttore”, un bene mobile o immobile per un determinato periodo di tempo, in modo continuativo e dietro il versamento di un corrispettivo, ovvero di un canone di locazione, da corrispondere allo scadere del periodo concordato. 

Il riferimento al "contratto", previsto all'art. 1571 c.c., assume un notevole significato, indicando che il rapporto di locazione è un rapporto contrattuale ed ha, dunque, come fonte esclusiva un contratto.

In virtù del principio consensualistico, il contratto di locazione si perfeziona con il semplice accordo delle parti, laddove l'effettiva consegna del bene locato, o la privazione temporanea del godimento di esso da parte del locatore, non incidono nè sulla formazione del contratto nè tanto meno sulla durata di esso, che è determinata dalla volontà delle parti o dalla legge, potendo rilevare solo, la prima, come inadempimento o presupposto di legittimazione del conduttore al ricorso alla tutela possessoria e, la seconda, come fonte del diritto alla riduzione del canone o, eccezionalmente, causa di scioglimento del contratto su iniziativa del conduttore.

Essendo la durata del rapporto elemento determinante, secondo la definizione dell'art. 1571 c.c., è ormai dalla legge quadro n. 392 del 1978 che il legislatore ha optato per la indicazione di quella minima, onde garantire stabilità al conduttore.

La locazione costituisce, quindi, un contratto di durata in quanto il protrarsi "per un dato tempo" dell'adempimento dell'obbligo a carico del locatore di far godere il bene, è condizione essenziale affinchè il contratto possa realizzare la sua funzione. Se non previsto, la locazione non potrà eccedere i trent'anni, i contratti stipulati per un periodo superiore a quello stabilito dalla legge, subirebbero una riduzione di diritto della durata, qualificabile come limitazione di ordine pubblico ed applicabile, in quanto tale, anche d'ufficio. Tuttavia, ai sensi dell'art. 1607 del c.c., con riferimento alla locazione di immobili urbani ad uso abitativo, è prevista che questa sia convenuta per l'intera vita, nonchè sino a due anni successivi alla morte dell'inquilino. Nel caso in cui non sia previsto alcun termine, si fa riferimento all'art. 1574 del c.c., che prevede diversi termini a seconda della tipologia di bene locato, alla Legge n. 431 del 1998 che, all'art. 2, prevede una durata minima di quattro anni per le locazioni abitative e di tre anni per quelle a “canone controllato” nonchè alla Legge n. 392 del 1978 che stabilisce una durata di sei anni per le locazioni di tipo produttivo e di nove anni per quelle di tipo alberghiero. 

Con la sentenza in epigrafe, gli Ermellini puntualizzano che in tema di locazioni ad uso diverso da quello abitativo, qualora sia stata inviata disdetta immotivata alla scadenza del secondo sessennio di durata del contratto, la richiesta da parte del locatore di adeguamento del canone sebbene in prossimità della scadenza è, indipendentemente dalla circostanza che l'effetto della provocazione della cessazione del rapporto non può risolversi unilateralmente dal locatore, essendo esso risolvibile solo per effetto di accordo negoziale espresso o tacito di entrambe le parti, un atto “di per sé” pienamente compatibile con il perdurare dell'effetto di cessazione del rapporto, in quanto risulta diretto soltanto ad assicurare che, qualora il conduttore non rilasci alla scadenza, nella misura del canone dovuto ai sensi dell'art. 1591 c.c. sia compreso l'adeguamento. GMC




Inserito in data 18/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 maggio 2014, n. 2376

Potere di “soccorso” della stazione appaltante alla luce del d.lgs. 163/2006

I Giudici di Palazzo Spada intervengono sul c.d. “potere di soccorso” della stazione appaltante, ex art. 46, c.1, del d.lgs 163/2006.
Tale norma del Codice dei contratti pubblici, regolamenta il c.d. “potere di soccorso” della stazione appaltante, ammettendo, nell'osservanza dei limiti previsti dagli artt. da 38 a 45, qualora dovesse esser necessario, che i concorrenti siano invitati a “completare o fornire” chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati, concernenti i requisiti generali per l'ammissione alla gara.

Nel settore delle gare pubbliche, essa rappresenta, un'espressione del più generale principio di cui all'art. 6, c.1, lett. b), della Legge n. 241 del 1990, alla luce del quale, il responsabile del procedimento adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria e può chiedere “il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (...)”. Il principio ivi in questione, dunque, garantisce e tutela l'esigenza di consentire la massima partecipazione alla selezione, permettendo di correggere l'eccessivo rigore delle forme e tentando, altresì, di eliminare tutte quelle situazioni di esclusioni dalle gare anche per violazioni puramente formali.
Nelle procedure di gara, il “potere di soccorso”, concretandosi unicamente nel dovere, in capo alla stazione appaltante, di regolarizzare certificati, documenti o dichiarazioni già esistenti, ovvero di completarli ma solo in relazione ai requisiti soggettivi di partecipazione, chiedere chiarimenti, rettificare errori materiali o refusi, fornire interpretazioni di clausole ambigue nel rispetto della par condicio dei concorrenti, non consente assoluta la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti, a pena di esclusione, dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali. L'omessa dichiarazione della sussistenza o meno della causa di impedimento di cui all'art. 13 della Legge n. 475 del 1968, che riguarda l'incompatibilità con il pubblico impiego dell'attività di propagandista di medicinali, nonché della causa interdittiva, di cui all'art. 12, della medesima Legge, per aver ceduto la titolarità di altra farmacia da almeno dieci anni, rappresentano delle cause di esclusione, essendo insito, nelle citate norme, il carattere cogente dei divieti discendenti dalle norme medesime. Nel caso di specie, tuttavia, l'omessa dichiarazione non è sanzionata dalla clausola del bando con l'espressa comminatoria di esclusione, a ciò ne consegue che, in virtù dei principi consolidati in giurisprudenza, sulle conseguenze della non offensività delle omesse dichiarazioni in tema di requisiti generali di partecipazione alle gare, la stazione appaltante era tenuta ad esercitare il potere di soccorso nei confronti dei concorrenti, ammettendoli a fornire la dichiarazione mancante, in quanto gli stessi potevano essere esclusi solo in difetto del requisito sostanziale, ovvero se non avessero reso, nel termine indicato dalla stazione appaltante, l'integrazione della dichiarazione mancante. La stazione appaltante, nel caso in esame, ha, dunque, correttamente accertato la posizione degli interessati, richiedendo il completamento della documentazione e disponendone la riammissione in gara. GMC



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Inserito in data 16/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2502

Ammissibilità delle leggi provvedimento e condizioni di compatibilità costituzionale

Le leggi provvedimento si caratterizzano per l’incisione su un numero determinato di destinatari e per il contenuto particolare e concreto.

Com’è noto, la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina materie normalmente affidate all’Autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto. Non esiste, infatti, una riserva di amministrazione (posto che la Costituzione non garantisce ai pubblici poteri l'esclusività delle pertinenti attribuzioni gestorie); inoltre, non vi sono per il legislatore limiti diversi da quelli – formali – dell’osservanza del procedimento di formazione delle leggi, atteso che la Costituzione omette di prescrivere il contenuto sostanziale ed i caratteri essenziali dei precetti legislativi.

Tuttavia, tali leggi sono ammissibili entro limiti non solo specifici, quale quello del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, ma anche generali, ossia il rispetto del principio di ragionevolezza e di non arbitrarietà.

Pertanto, la legittimità costituzionale delle leggi-provvedimento deve essere valutata in relazione al loro specifico contenuto ed è soggetta ad uno scrutinio rigoroso di costituzionalità sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta legislativa. CDC



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Inserito in data 16/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2495

Conferimento di incarichi dirigenziali pubblici e riparto di giurisdizione

Secondo l’art. 63 del d.lgs. 165/2001, gli atti di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali sono di competenza del giudice ordinario del lavoro, in quanto costituiscono determinazioni negoziali assunte dalla PA con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro.

Fa eccezione il solo caso in cui la contestazione non investa direttamente il corretto esercizio del potere amministrativo mediante la deduzione della non conformità a legge degli atti “organizzativi” con i quali le Amministrazioni pubbliche definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici e i modi di conferimento della titolarità degli stessi. CDC



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Inserito in data 15/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 maggio 2014, n. 2472

Diritto di accesso ai documenti fiscali del coniuge per difendersi nel giudizio di separazione

Questa pronuncia accede all’indirizzo giurisprudenziale che “riconosce il diritto del coniuge, anche in pendenza del giudizio di separazione o divorzio, di accedere alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale del coniuge, al fine di difendere il proprio interesse giuridico, attuale e concreto, la cui necessità di tutela è reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata”.

In particolare, si evidenzia come le comunicazioni aventi ad oggetto i dati contenuti nell’Archivio dei rapporti finanziari dell’Agenzia delle Entrate rientrano nella nozione di documento amministrativo ex art. 22, L. n. 241/90. Secondariamente, si precisa che né la legge, né il d.m. 29 ottobre 1996, nr. 603 (di attuazione dell’art. 24, c.2, L. 241/90) hanno escluso l’ostensibilità delle comunicazioni inviate dagli operatori finanziari all’Anagrafe tributaria, come sostenuto dagli appellanti.

Inoltre, si aggiunge che nel caso di specie ricorre l’ipotesi dell’accesso difensivo (ossia l’accesso è funzionale al proficuo esercizio del diritto di difesa in giudizio): di conseguenza, l’istanza di accesso è destinata a prevalere sul diritto alla riservatezza relativamente ai dati sensibili del terzo (id est del coniuge).

Infine, si precisa che il regolamento predetto autorizza in questo caso l’accesso nella sola forma della “visione”. TM



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Inserito in data 15/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 10253

Irresponsabilità per violazione del diritto UE di organismi pubblici diversi dallo Stato

La Corte di Cassazione afferma che l’azione risarcitoria per l’omesso tempestivo recepimento della Direttiva 96/82/CE, in materia di controllo dei rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose, va proposta nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

In questo senso depone:

a) l’art. 10 del Trattato, che obbliga gli “Stati membri” all’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato;

b) l’art. 1, della L. n. 86/89, secondo cui il Parlamento, con la legge comunitaria, delega al Governo l’adozione delle norme di recepimento delle direttive comunitarie;

c) l’art. 5 della L. n. 400/88, che attribuisce al Presidente del Consiglio il compito di coordinare  e promuovere l’azione del Governo nell’attuazione delle politiche comunitarie;

d) il d.lgs. n. 334/99, secondo cui, in caso d’inerzia del Ministro dei Lavori Pubblici, spetterà alla Presidenza del Consiglio adottare le norme di recepimento;

e) la necessità di interpretare la giurisprudenza comunitaria (che afferma la possibilità che sia chiamato a rispondere per il mancato recepimento delle direttive comunitarie anche uno Stato federale o altro organismo pubblico), nel senso che i soggetti diversi dallo Stato rispondono solo se l’ordinamento interno ne afferma la responsabilità, in luogo o in concorso con lo Stato (circostanza non ravvisabile nel caso di specie). TM

 

 




Inserito in data 14/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI - SENTENZA 7 maggio 2014, n.18821

Riflessi positivi della successione di leggi nel tempo ex art. 7 CEDU

Le Sezioni Unite della corte di Cassazione sono state chiamate a stabilire “Se il giudice dell'esecuzione, in attuazione dei principi dettati dalla Corte EDU con la sentenza 17/09/2009, Scoppola e. Italia, possa sostituire la pena dell'ergastolo, inflitta all'esito del giudizio abbreviato, con la pena di anni trenta di reclusione, in tal modo modificando il giudicato con l'applicazione, nella successione di leggi intervenute in materia, di quella più favorevole”.

La nota sentenza, richiamata nel caso in esame, si era pronunciata in merito all’effettiva portata del principio di irretroattività della legge penale sancito dall’art. 7 CEDU innovando l’orientamento giurisprudenziale da tempo concorde sul carattere assoluto della predetto principio con esclusione, pertanto, di un diritto a beneficiare dell’applicazione della legge penale meno severa intervenuta in un tempo successivo alla commissione del fatto di reato.

In particolare, la sentenza della Corte di Giustizia europea afferma che “la detta norma non soltanto garantisce il principio di non retroattività delle leggi penali più severe, ma impone anche che, nel caso in cui la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e quelle successive adottate prima della condanna definitiva siano differenti, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, con l'effetto che, nell'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, costituisce violazione del principio di legalità convenzionale l'applicazione della pena più sfavorevole al reo”. Ancora più incisivo l’assunto secondo il quale, per la giurisprudenza della Corte EDU, “il principio di retroattività in mitius è un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 della CEDU, che concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono e ha, quindi, un campo di operatività meno esteso di quello che il nostro ordinamento riserva all'art. 2, comma quarto, cod. pen.” che richiama indistintamente tutte le norme penali successive alla commissione del fatto e più favorevole al reo, in quanto incidente sul complessivo trattamento riservato al medesimo.

Inoltre, la sentenza in questione, al fine di non tradire i principi sanciti dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, eleva il proprio dictat a principio generale, imponendo all’ordinamento di porre rimedio a tutte le violazioni compiute, a prescindere dalla proposizione di un ricorso individuale ex art. 34 CEDU.

Si sostiene, infatti, che l’intangibilità del giudicato, pur se volta a garantire la certezza dei rapporti giuridici e l’efficacia della sanzione penale, non può estendersi sino a prevalere sullo stesso principio di legalità, su cui si fonda il nostro ordinamento, e sulla funzione rieducativa della pena (artt. 13, 25 e 27 Cost). Ne consegue che la legalità del provvedimento sanzionatorio deve permanere anche nella fase esecutiva dello stesso.

Il Supremo Consesso, pertanto, dopo aver ricostruito l’iter legislativo del giudizio abbreviato con particolare riferimento ai reati puniti con la pena dell’ergastolo, ha fatto applicazione delle regole sulla successione di leggi nel tempo (trattandosi di norme che involgono questioni di diritto sostanziale), mettendo in evidenza il carattere innovativo, e non meramente interpretativo, dell’art. 7 comma 1 d.l. 341/90.

Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art.  art. 442 comma 2 c.p.p., ed avendo il ricorrente azionato il proprio diritto alla rimessione in termini per la richiesta di giudizio abbreviato, questi aveva diritto all’applicazione della norma più favorevole (il momento in cui individuare la normativa applicabile, infatti, è quello della presentazione della richiesta del giudizio abbreviato).

Sulla base di tali argomentazioni gli Ermellini hanno affermato che“La pena dell'ergastolo inflitta all'esito del giudizio abbreviato, richiesto dall'interessato in base all'art. 30, comma 1, lett. b), legge n. 479 del 1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall'art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest'ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all'art. 7, p. 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l'art. 117, comma primo, Cost.”.

Inoltre, il giudice dell’esecuzione potrò provvedere direttamente alla sostituzione della pena da eseguire “avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione”. VA

 




Inserito in data 14/05/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA – GRANDE SEZIONE, SENTENZA 13 maggio 2014, C-131/12

Sulla responsabilità dei motori di ricerca per il trattamento dei dati personali

Con la sentenza in commento la Corte di Giustizia europea ha fortemente ampliato gli spazi di tutela nei confronti del trattamento dei dati personali da parte dei motori di ricerca.

Invero, dopo un’attenta analisi della Direttiva 95/46/CE, condotta anche verso l’esatta delimitazione dell’ambito di applicazione della suddetta normativa, i giudici hanno ordinato ad un noto motore di ricerca di procedere alla rimozione dei link relativi a dati personali non più pertinenti alle pagine dei risultati.

Con riferimento all’ambito territoriale di applicazione della direttiva sopra citata, i giudici hanno chiarito che, al fine di evitare comportamenti elusivi, questa trova applicazione anche se la "casa madre" è straniera,  in quanto l'attività esercitata rientra comunque nel concetto di «stabilimento» nel territorio di uno Stato membro “qualora il gestore apra una succursale o una filiale destinata alla promozione e alla vendita degli spazi pubblicitari e l'attività si diriga agli abitanti dello Stato membro”.

Più precisamente la Suprema Corte di giustizia, dopo aver ricondotto nell’alveo del “trattamento” anche la semplice indicizzazione di articoli già pubblicati da altri medita, in quanto attività che si aggiunge a quella della pagina web contenente, anche legittimamente, informazioni personali, e che consente il reperimento di queste anche attraverso una semplice ricerca effettata sul nome, ha affermato l’esistenza di un diritto alla cancellazione del link dall’elenco dei risultato.

A ben vedere, infatti, “l'attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell'indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come "trattamento di dati personali", e che il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il "responsabile" del trattamento”.

Ne consegue che la domanda può essere rivolta direttamente al gestore del motore di ricerca, il quale, ove ne riscontri la fondatezza, dovrà provvedere in tal senso, anche a prescindere dalla previa cancellazione delle informazioni dalla pagina web che le riporta, in caso contrario l’interessato potrà adire l'autorità di controllo o l'autorità giudiziaria affinché queste effettuino le verifiche necessarie e ordinino a detto responsabile l'adozione di misure precise conseguenti.

Quanto affermato sino ad ora trova il proprio fondamento nel diritto all'«oblio» secondo cui anche un trattamento originariamente lecito può divenire, con il tempo, incompatibile con la direttiva nel caso in cui venga meno l’interesse alla pubblicità della notizia o dei dati, ovvero questi risultino sproporzionati rispetto alle finalità per cui sono stati trattati.

Ciò è quanto avvenuto nel caso di specie ove si contro verteva sulla visualizzazione di link contenenti il nome del ricorrente con riferimento ad aste giudiziari predisposte a seguito di un pignoramento per la riscossione coattiva di crediti, tenuto conto della sensibilità di tali dati, del tempo intercorso e della conclusione positiva del concordato fallimentare.

Pertanto, a giudizio della Corte di Giustizia europea la persona può chiedere  “a norma degli articoli 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della direttiva 95/46, la soppressione dei link suddetti da tale elenco di risultati”. VA



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Inserito in data 13/05/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SEZ. V, SENTENZA 8 maggio 2014, C-15/13

L’affidamento “in house” presuppone il c.d. “controllo analogo”

Secondo la giurisprudenza della Corte del Lussemburgo, “ai fini dell’applicazione delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici previste dalla direttiva 2004/18, basta, in linea di principio, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva, che un contratto a titolo oneroso sia stato stipulato, da una parte, da un’amministrazione aggiudicatrice e, dall’altra, da una persona giuridicamente distinta da quest’ultima” (v., in tal senso, sentenza Teckal).

Tale principio incontra un’eccezione per gli affidamenti di appalti cosiddetti “in house”, in quanto l’autorità pubblica, “che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi, e che tale deroga può essere estesa alle situazioni in cui la controparte contrattuale è un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice, qualora quest’ultima eserciti sull’affidatario un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione o con le amministrazioni aggiudicatrici che la controllano” (v., in tal senso, sentenze Teckal, nonché Stadt Halle e RPL Lochau,).

In ordine alla nozione di «controllo analogo», la Corte ha rilevato “che deve trattarsi della possibilità per l’amministrazione aggiudicatrice di esercitare un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti dell’entità affidataria e che il controllo esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice deve essere effettivo, strutturale e funzionale” (v., in tal senso, sentenza Econord, C-182/11 e C-183/11).

Per tali ragioni, i Giudici della Corte escludono che sussista il suddetto controllo nelle ipotesi in cui l’Amministrazione aggiudicatrice non detenga alcuna partecipazione nel capitale dell’entità affidataria e non abbia alcun rappresentante legale negli organi direttivi di quest’ultima.

Ne discende, dunque, l’irrilevanza della questione relativa all’estensione dell’”in house” anche alle operazioni cosiddette “in house orizzontali”, “vale a dire una situazione in cui la stessa o le stesse amministrazione/i aggiudicatrice/i eserciti(no) un «controllo analogo» su due operatori economici distinti di cui uno affida un appalto all’altro”. EMF

 

 




Inserito in data 13/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 maggio 2014, n. 120

Autodichia del Parlamento e conflitto di attribuzione tra poteri

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara inammissibile, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, 111, primo, secondo e settimo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica, approvato il 17 febbraio 1971, e successive modifiche, “nella parte in cui attribuisce al Senato il potere di giudicare in via esclusiva e definitiva i ricorsi avverso gli atti e i provvedimenti adottati dall’amministrazione di quel ramo del Parlamento nei confronti dei propri dipendenti”.

I regolamenti parlamentari, infatti, non rientrano espressamente tra le fonti-atto indicate nell’art. 134, primo alinea, Cost. (le «leggi» e «gli atti aventi forza di legge»), che possono costituire oggetto del sindacato di legittimità dinanzi alla Corte Costituzionale.

Invero, l’art. 64 Cost. considera il regolamento parlamentare “come fonte dotata di una sfera di competenza riservata e distinta rispetto a quella della legge ordinaria e nella quale, pertanto, neppure questa è abilitata ad intervenire”.

Deve, dunque, confermarsi quanto stabilito dalla consolidata giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 154 del 1985 e nelle successive ordinanze n. 444 e n. 445 del 1993), la quale ha escluso che i regolamenti parlamentari “possano essere annoverati fra gli atti aventi forza di legge”.

Tuttavia, deve essere disattesa la concezione, accreditata in passato, che attribuisce ai regolamenti in questione la natura di “fonti puramente interne”: l’insindacabilità degli stessi, preordinata a garantire l’indipendenza delle Camere da ogni altro potere, difatti, li nobilita a “fonti dell’ordinamento generale della Repubblica”.

E’ in questo contesto che s’innesta il tema “dell’estensione dell’autodichia e conseguentemente della sua legittimità”.

A tal proposito, gli “artt. 64 e 72 Cost. assolvono alla funzione di definire e, al tempo stesso, di delimitare «lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari» (sentenza n. 379 del 1996)”.

Pertanto, “le vicende e i rapporti che ineriscono alle funzioni primarie delle Camere sicuramente ricadono nella competenza dei regolamenti e l’interpretazione delle relative norme regolamentari e sub-regolamentari non può che essere affidata in via esclusiva alle Camere stesse (sentenza n. 78 del 1984). Né la protezione dell’area di indipendenza e libertà parlamentare attiene soltanto all’autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle stesse norme regolamentari «e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare» (sentenze n. 379 del 1996 e n. 129 del 1981)”.

Dubbi sorgono, invece, per i rapporti di lavoro dei dipendenti e per i rapporti con i terzi, atteso che l’indipendenza delle Camere non può “compromettere diritti fondamentali, né pregiudicare l’attuazione di principi inderogabili”.

Sul punto, la stessa Consulta, con la sentenza n. 379 del 1996, ha affermato che davanti a ciò che «[…] esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perché coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la “grande regola” dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione)».

Parallelamente, la Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo hanno assoggettato “a stretta interpretazione la stessa immunità parlamentare prevista dal primo comma dell’art. 68 Cost., riconosciuta soltanto quando sia dimostrato, secondo criteri rigorosi, il nesso funzionale fra l’opinione espressa e l’attività parlamentare, proprio per limitare l’impedimento all’accesso al giudice da parte di chi si ritenga danneggiato” (ex plurimis, sentenze n. 313 del 2013, n. 98 del 2011, n. 137 del 2001, n. 11 e n. 10 del 2000).

In conclusione, il confine tra i due distinti valori (autonomia delle Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall’altro) è posto sotto la tutela della Corte Costituzionale, “che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall’attività dell’altro” (sentenza n. 379 del 1996). EMF



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Inserito in data 12/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 maggio 2014, n. 2422

Diritto di accesso: precisazioni sull’actio ad exhibendum da parte dei concessionari

Il Collegio di Palazzo Spada fornisce significative precisazioni in ordine alla ostensibilità delle cartelle di pagamento ed in merito alle relative incombenze gravanti sugli Enti concessionari.

Nella specie, a dispetto di quanto addotto dal Giudice di primo grado, si condivide la posizione dell’appellante che, ottenuto un iniziale diniego alla propria istanza di accesso, riceveva dal concessionario, in seguito, solo una copia dell’avvenuta notifica della cartella censurata. Ne contestava, quindi, la legittimità.

I Giudici del gravame, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante, ricordano come sussista sui concessionari un obbligo di ostensione delle cartelle di pagamento. Trattandosi di un’imposizione ex lege, essa non è suscettibile di limitazioni, né sul piano soggettivo, né sotto l’ambito oggettivo.

Riguardo al primo aspetto, il concessionario non ha alcun margine discrezionale, in quanto “la copia della cartella di pagamento ex se costituisce strumento utile alla tutela giurisdizionale delle ragioni del ricorrente e la concessionaria non ha quindi alcuna legittimazione a sindacare le scelte difensive eventualmente operate dal privato.”

Parimenti, riguardo al contenuto dell’actio ad exhibendum, il concessionario non può scegliere l’oggetto della ostensione, come avvenuto nel caso in esame.

Infatti, "il diritto degli interessati è un diritto di acquisizione di quegli stessi documenti o delle loro copie e non di succedanei; non sussiste, peraltro, la possibilità per l’Amministrazione appellata di esimersi richiamando impedimenti tecnici o materiali.

Né, allo stesso modo, si può ritenere che l’interesse all’accesso venga meno per effetto dell’avvenuta ostensione di copia dell’avvenuta notifica della cartella – come qui accaduto: non basta, infatti, l’estratto del ruolo nominativo ad esaurire la conoscenza finalizzata ad un’eventuale contestazione della pretesa impositiva.

Occorre, piuttosto, dare contezza del ruolo integrale che, quale documento amministrativo è regolarmente accessibile ex lege 241/90 e ss. mm.; un eventuale, relativo diniego, infatti, finirebbe con il porre l’Amministrazione nelle condizioni di un rifiuto continuo, apodittico e pertanto difficilmente censurabile.

Sulla base di tali coordinate, pertanto, il Collegio del gravame riforma la pronuncia del Giudice territoriale, imponendo al concessionario appellato l’ostensione integrale della cartella di pagamento richiesta, della relata di notifica, unitamente al ruolo integrale. CC



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Inserito in data 11/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 maggio 2014, n. 2290

Sull'interdittiva antimafia

In generale, alla luce della più recente giurisprudenza, ai fini della c.d. interdittiva antimafia “tipica”, anche se occorre che siano individuati, nonché indicati, idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici di concrete connessioni o possibili collegamenti con le organizzazioni malavitose, che sconsigliano l’instaurazione di un rapporto dell’impresa con la Pubblica Amministrazione, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo, l’interdittiva medesima, fondarsi su fatti e vicende aventi un “valore sintomatico e indiziario” e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
L' interdittiva antimafia "tipica", è sancita all’art. 4 del D.Lgs. n. 490/1994, nonché dall’art. 10 del D.P.R. n. 252/1998 (ed oggi altresì dagli articoli 91 e segg. del D. Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, recante il Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione).

Negli anni, la giurisprudenza amministrativa ha stabilito: che l'interdittiva prefettizia antimafia costituisce una misura preventiva volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione; che trattandosi di una misura a carattere preventivo, l’interdittiva prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che, nell’esercizio di attività imprenditoriali, hanno rapporti con la pubblica amministrazione e si fonda sugli accertamenti compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente; che tale valutazione costituisce espressione di ampia discrezionalità che può essere assoggettata al sindacato del giudice amministrativo solo sotto il profilo della sua logicità in relazione alla rilevanza dei fatti accertati; che, essendo il potere esercitato espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata.

Specificamente, i Giudici di Palazzo Spada, con la sentenza ivi trattata, hanno ribadito che è oramai pacifico che: “l'interdittiva antimafia non si collega a fatti e attività oggetto di approfondimento d'ordine penale, essendo diversi i parametri di valutazione sul piano amministrativo, bensì alle stesse emergenze giudiziarie, indizi, collegamenti societari e intrecci imprenditoriali ed economici, contatti e frequentazioni e in definitiva a un quadro che, nel complesso di tutti gli elementi e prescindendo dalle singole circostanze, rende plausibile e giustifica l'adozione dell'interdittiva quale specifica misura di tutela anticipata volta a prevenire e/o stroncare ogni possibile "inquinamento" delle aziende, degli appalti pubblici e quindi dell'attività della P.A., posto in essere notoriamente anche attraverso operazioni apparentemente legittime ma fittizie tipiche delle organizzazioni mafiose”. GMC



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Inserito in data 11/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 7 maggio 2014, n. 9846

La Suprema Corte su patti parasociali e contratto a favore del terzo

I patti parasociali, conosciuti già da lungo tempo nella prassi e, ad oggi, riconosciuti pacificamente dalla giurisprudenza e dal Legislatore italiano, seppur, tuttavia, dopo un iniziale sfavore presto superato, consistono in delle convenzioni che rimangono fuori dall’atto costitutivo.

La forma di questi, è totalmente libera, per cui, la forma scritta, la scrittura privata autenticata o l’atto pubblico, saranno richiesti soltanto nel caso in cui l’accordo si sostanzi in un negozio giuridico che la richieda ad substantiam ovvero per adempiere agli obblighi di comunicazione e pubblicità previsti dalla legge.

All’atto della formale costituzione del vincolo associativo o, tuttavia, anche durante il corso della vita della società, tali convenzioni vengono stipulate tra i soci, al fine di regolare, tra loro – o solamente tra alcuni di loro – uno o più profili concernenti gli aspetti fondamentali dei propri diritti e doveri all’interno della società medesima.

Essi, presentano l’aspetto di veri e propri contratti nei quali vengono stabiliti diritti e doveri  di coloro i quali aderiscono al patto, oltre alle sanzioni per l’inosservanza di quanto prescritto e sono, in genere, formulati in maniera ben precisa.

Mediante il patto parasociale, gli aderenti perseguono l'obiettivo di fornire un indirizzo all’organizzazione e alla gestione delle società, per assicurare la stabilità degli assetti proprietari, nonché l’incidenza sulla contendibilità del controllo societario, in modo sicuramente più agile rispetto al prescritto modello legale.

Come premesso, il Legislatore ne ha sancito la loro legittimità mediante il D.lgs. n. 58 del 1998 TUF (artt. 122 e ss.), il quale, detta la disciplina specifica dei patti parasociali per le società “aperte” quotate e gli artt. 2341-bis e 2341-ter c.c. che disciplinano i patti parasociali per le società azionarie in generale.

Contrariamente a quanto avviene per lo statuto sociale, il quale ha efficacia reale, e, in quanto tale, è vincolante per tutti i soci, attuali e futuri, i patti parasociali hanno, invece, un’efficacia meramente obbligatoria, per cui vincolano solo i soci contraenti e risultano non opponibili agli eventuali altri soci non aderenti, alla società ed ai terzi in genere (alla luce di uno dei principi cardine presenti nel codice civile, ossia l'art. 1372 del c.c.).

Quanto all’esistenza dei patti parasociali, questa può essere provata, anche ai fine dell’esercizio di azioni negoziali, con qualsiasi mezzo, salvo il limite di valore previsto dall’art. 2721 del codice civile.

Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte statuisce che, alla luce della considerazione secondo la quale i patti parasociali rappresentano delle “convenzioni atipiche”, concernenti i rapporti personali tra soci ed altresì operanti sul piano organizzativo e gestionale, in cui taluni soci si prestano e si impegnano ad eseguire prestazioni a beneficio della società, essi sembrano integrare perfettamente la fattispecie del “contratto a favore di terzo”.

Di questo, poi, sono legittimati a pretendere l'adempimento sia la società (quale terzo beneficiario), che i soci stipulanti, moralmente ed economicamente interessati che l'obbligazione sia adempiuta nei confronti della società di cui fanno parte.

Nello specifico, ed alla luce della disciplina generale prevista dal codice civile, è bene rilevare che il contratto a favore di terzi, ricorre allorquando una parte, ossia lo stipulante, designa un terzo come avente diritto alla prestazione alla quale è obbligato il promittente.
Tale contratto è previsto all'articolo 1411 del codice civile, rubricato “Del contratto a favore di terzi”, che recita testualmente:
E' valida la stipulazione a favore di un terzo, qualora lo stipulante vi abbia interesse .
Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto contro il promittente per effetto della stipulazione.
Questa però può essere revocata o modificata dallo stipulante, finché il terzo non abbia dichiarato, anche in confronto del promittente, di volerne profittare .
In caso di revoca della stipulazione o di rifiuto del terzo di profittarne, la prestazione rimane a beneficio dello stipulante, salvo che diversamente risulti dalla volontà delle parti o dalla natura del contratto
”. GMC




Inserito in data 09/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 maggio 2014, n. 2367

Revoca di agevolazioni finanziarie per inadempimento: giurisdizione del g.o.

La parziale revoca di agevolazioni finanziarie per mancato utilizzo temporale dei beni agevolati è riconducibile all’inadempimento per inosservanza del vincolo di legge, non già ad attività discrezionale.

Pertanto, si ha un credito vantato dalla PA su un diritto radicato in capo al soggetto finanziato a seguito dell’incasso percepito, entrato ormai nella sua disponibilità e della quale è richiesta in restituzione una parte.

Ne segue che la controversia sul punto è devoluta al giudice ordinario, non essendo riconducibile ad esercizio di potere pubblico discrezionale ma a rivendicazione civilistica della PA per l’indebito pagamento avvenuto. CDC



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Inserito in data 09/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 maggio 2014, n. 2362

Società ad oggetto non esclusivo ed applicabilità dell’art. 13 d.l. 223/2006

Alle società in house l’art. 13, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006 impone l’obbligo di “operare con gli enti partecipanti o affidanti” e la preclusione a “svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara”. Così si intende evitare la distorsione della concorrenza che si determinerebbe in caso di partecipazione alle gare, indette da altri soggetti pubblici o privati, di soggetti già affidatari diretti di servizi pubblici locali, che non entrerebbero nel mercato “ad armi pari”, rispetto ad altri comuni operatori del settore.

Tali società sono quindi costituite per compiere a favore dell’ente socio, con affidamento diretto, attività strumentali a quelle di spettanza dell’ente stesso, che si avvale per tali attività di propri organismi, senza ricorrere al mercato. Tali società compiono un’attività amministrativa in forma privatistica, da non confondere con l’attività di impresa svolta da enti pubblici, in regime di concorrenza: si pone solo nel primo caso l’esigenza di non consentire che un soggetto che gode delle prerogative proprie di una PA possa svolgere al tempo stesso attività imprenditoriale.

Inoltre, l’art. 13, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006 dispone che le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole citate. Ciò non significa che le società multiutilities siano automaticamente escluse dal divieto in questione e siano dunque legittimate a partecipare a gare indette da terze amministrazioni.

La locuzione va infatti riferita non alle attività enunciate nell’oggetto sociale, ma all’effettivo rapporto instaurato con gli enti locali di riferimento: tale rapporto, se esclusivo, non consente proiezioni extra ambito; anche le società di tal tipo, se integralmente partecipate da enti locali, essendo qualificabili come società strumentali, devono rivolgere la propria attività in via esclusiva a favore di tali enti, trattandosi di una derivazione, o una longa manus, dell’ente o degli enti pubblici controllanti, dato il rapporto di strumentalità fra le attività delle imprese in questione e le esigenze di interesse generale che detti enti sono tenuti a soddisfare.

In altre parole, quando sia di fatto riscontrabile la presenza di affidamenti diretti – tali da porre le società interessate in condizioni di non parità con altri operatori del settore – l’eventuale non esclusività dell’oggetto sociale recede e deve essere disattesa rispetto alla limitazione legale di legittimazione: diversamente opinando, le società in house potrebbero facilmente aggirare ogni restrizione imposta, con vanificazione delle regole dettate a tutela della concorrenza. CDC



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Inserito in data 08/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 maggio 2014, n. 2343

Applicazione dei principi di ragionevolezza e favor partecipationis agli appalti pubblici

Con la presente decisione, i Giudici di Palazzo Spada applicano in materia di contratti pubblici i principi del legittimo affidamento, di ragionevolezza e del favor partecipationis (cfr. art. 46, comma 1 bis, del codice dei contratti pubblici).

In relazione ad una clausola della lex specialis della procedura che “imponeva, a pena di esclusione, la sottoscrizione, con firma per esteso e leggibile, almeno della prima e dell’ultima pagina dell’offerta tecnica”, si afferma che:

a) per non incorrere nel vizio di eccesso di potere e di violazione dell’art. 46, c.1bis del codice dei contratti, tale clausola deve essere interpretata nel senso di imporre solo l’accertamento della chiara volontà del concorrente di appropriarsi della paternità dell’offerta;

b) perciò, non merita l’esclusione l’ATI, la cui volontà è evincibile in termini certi “dall’apposizione su tutte le pagine dell’offerta tecnica delle sigle dei rappresentanti legali delle imprese raggruppate, identificati con i timbri e con i documenti di identità allegati, e dall’inserimento dell’offerta in plichi sigillati e controfirmati inclusi in contenitori parimenti sigillati e controfirmati”. TM



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Inserito in data 08/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 18311

Confisca per equivalente dei beni dell’ente in caso di reato fiscale dell’organo

Con la sentenza in epigrafe, si procede ad una delle primissime applicazioni della sentenza n. 10561/2014 delle Sezioni Unite. Ci si chiedeva se potesse disporsi il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, rispetto ai beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante.

A) Un primo orientamento della Cassazione dava risposta affermativa, nonostante la persona giuridica non fosse responsabile ai sensi del d.lgs. n. 231/01 e purché non si dimostrasse la rottura del rapporto organico. Ciò in quanto la società otteneva comunque dei vantaggi economici dal reato.

B) Un secondo indirizzo dava risposta negativa, perché i reati fiscali non erano contemplati dal d.lgs. n. 231/01, tra quelli rispetto ai quali poteva configurarsi la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Faceva eccezione il caso in cui si fosse dimostrato che si era in presenza di una società “schermo” (creata apposta per farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali).

Le Sezioni Unite hanno aderito a questo secondo indirizzo, con alcune precisazioni.

Resta ferma la possibilità di procedere al sequestro teso alla confisca diretta dei beni della persona giuridica, ove il profitto del reato sia rimasto nella disponibilità dell’ente. Però, nel caso di reato di omesso versamento delle ritenute certificate, il profitto coincide con l’importo delle ritenute non versate, in un mero risparmio di spesa. Perciò, è particolarmente difficile dimostrare che i beni dell’ente sono direttamente riconducibili al reato: tale prova potrebbe dirsi raggiunta ove si accerti che somme equivalenti a quelle sottratte all’erario sono state usate dalla società contestualmente o immediatamente dopo.

Ove la confisca diretta sia, anche temporaneamente, impossibile, si potranno confiscare per equivalente i beni del rappresentante legale.

Infine, è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto non reperito, quando si dimostra che la società è uno schermo fittizio. Difatti, in questo caso “la trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma si configura come un espediente fraudolento, non dissimile dalla figura dell’interposizione fittizia”.

Fuori da quest’ipotesi la confisca per equivalente dei beni della persona giuridica non è ammissibile, atteso che: a) la confisca per equivalente deve basarsi su specifiche disposizioni di legge; b) spesso la persona giuridica è danneggiata dal reato; c) i reati tributari non sono compresi nell’elenco di cui al d.lgs. n. 231/01, idonei a fondare la responsabilità amministrativa da reato degli enti (cfr. artt. 19 e 24); d) rispetto ai reati tributari, perciò, si ammette la confisca per equivalente solo con riguardo ai beni dell’autore o concorrente nel reato, mentre la persona giuridica non può assumere tale qualifica atteso che il nostro ordinamento non ammette una responsabilità penale degli enti; e) la disponibilità dei beni societari da parte dell’amministratore è fisiologica e, da sola, insufficiente a provare lo schermo fittizio; f) l’art. 1, c. 143, L. n. 244/07 ha previsto i reati tributari tra quelli idonei a legittimare la confisca per equivalente di cui all’art. 322ter c.p., ossia limitata ai beni dell’autore del reato. TM




Inserito in data 07/05/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 13

La Convenzione di Bruxelles non si applica solo quando la PA svolge attività d’imperio

L’Adunanza Plenaria, al fine di verificare la giurisdizione del giudice inglese (giudice ordinario individuato dalle parti con espressa pattuizione), si è soffermata sull’analisi della natura negoziale o pubblicistica del rapporto controverso (nel caso di specie recesso unilaterale da parte della PA da alcuni contratti di finanza derivata finalizzati all’emissione di titoli obbligazionari).

Il Supremo Consesso, infatti, a dispetto del percorso argomentativo prospettato dalle parti, ha osservato che “La prevalenza della fonte comunitaria sulla normativa interna, anche di fonte legislativa, infatti, non esplica nella specie alcun effetto concreto, posto che, anche ammesso, in ipotesi, il superamento dell’art. 4 della legge n. 218 del 1995 ad opera del Regolamento n. 44 del 2001, la invalidità del patto sulla deroga alla giurisdizione italiana sulla presente controversia, ove risultasse fondata la tesi della Regione appellante, discenderebbe comunque dall’art. 1 del Regolamento nella parte in cui menziona, tra quelle escluse dall’efficacia del medesimo, la materia amministrativa”. Pertanto, considerato quanto affermato dalla Corte di Giustizia (C-167/00 Henkel), secondo cui, “…esulano dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles solamente le cause tra una pubblica amministrazione e un soggetto di diritto privato, in quanto detta autorità agisca nell’esercizio della sua potestà di imperio”, il punto dirimete della controversa attiene all’esatta individuazione della natura del provvedimento (nello stesso senso Convenzione di Lugano 3’/1’/2007).

L’Adunanza Plenaria, peraltro, ha rigettato la tesi della natura di atti di imperio sostenuta dall’appellante che, qualificando come atto provvedimentale prodromico la determinazione all’emissione obbligazionaria, da concludersi con la stipula dei contratti derivati, sollevava il contrasto della dichiarazione del difetto di giurisdizione da parte del TAR con gli artt. 7, 120, 122 e 133 comma 1, lett. e) n.1 c.p.a., facendo riferimento alla precedente sentenza del Consiglio di stato 5032/2011.

A sostegno della propria decisione i giudici di Palazzo Spada hanno messo in evidenza le differenze esistenti sul piano fattuale tre il caso sottoposto al suo esame e quello deciso dalla sentenza sopra citata.

Invero, “sebbene possa definirsi non del tutto precisa l’espressione, che figura nella sentenza impugnata, che la deliberazione non conteneva alcuno specifico riferimento alla sottoscrizione dei contratti derivati qui in esame, non può negarsi che la menzione dei contratti derivati, quale risulta dai testi trascritti, è assolutamente generica e riferita a mere eventualità di cui si sarebbe valutata la convenienza e l’opportunità nel successivo percorso attuativo dell’operazione riguardante il prestito obbligazionario”. Né sono state considerate valide ed oggettive le prove sull’esistenza di un criterio di scelta per la gara che tenesse conto della capacità dei concorrenti di gestire contratti derivati.

Parimenti destituita di ogni fondamento è stata considerata anche la censura con la quale l’appellante, a dispetto della riconducibilità della stipulazione dei contratti alla gara, ritiene ugualmente espressiva di un potere di autotutela  l’iniziativa di riesame dell’Amministrazione in quanto “gli atti prodromici alla conclusione di un contratto da parte dell’Amministrazione avrebbero natura pubblicistica, perché il procedimento di formazione della volontà contrattuale della p.a. non si svolge integralmente ed esclusivamente sul piano del diritto privato. E ciò in ragione del fatto che nell’attività contrattuale delle pubbliche Amministrazioni vengono inevitabilmente in giuoco interessi patrimoniali pubblici, oltre che imprescindibili esigenze di imparzialità negli affidamenti”.

Il Supremo Consesso, infatti, ha osservato che, affinché possano trovare applicazione i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria 10/2011 (secondo cui gli atti prodromici attengono al processo decisionale che, a dispetto di quello proprio di un soggetto privato, dove resta relegato nella sfera interna del soggetto, rilevando solo il negozio giuridico finale, per un ente pubblico assume carattere di procedimento amministrativo) la determinazione amministrativa deve assumere la natura propria di atto prodromico, occorrendo “che sia individuabile nell’atto stesso il compimento di un processo decisionale ossia la formazione della volontà di compiere un atto di diritto privato, di cui l’ente abbia valutato ed approvato il contenuto, e che ciò risulti verificabile in base al procedimento seguito”. Ma, come già rilevato, è stata esclusa l’esistenza di una prova di tale determinazione, essendo stata prospettata la stipula di contratti  finanziari derivati solo come mera possibilità.

Pertanto deve rigettarsi l’appello del ricorrente in quanto, “nonostante l’atto di annullamento impugnato rechi l’imputazione dei vizi dei contratti alla deliberazione, si tratta di un mero artificio che non impedisce di riconoscere che la materia del contendere nella presente controversia è costituita, non dal sindacato sulla legittimità di un atto di imperio, ma dal giudizio sulla fondatezza dei vizi addebitati ai contratti, che, secondo il fondamentale principio affermato dalla Corte costituzionale con la sent. n. 204 del 2004, esula dalla giurisdizione amministrativa”. VA

 

 



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Inserito in data 07/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 111

Art. 117 co 2. lett. e) ed m) Cost. ed abbattimento delle barriere architettoniche

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 26, comma 1, della legge reg. n. 8 del 2013, introduce il comma 7-bis nell’art. 8 della legge regionale 3 gennaio 2006, n. 1 (Disciplina delle attività di somministrazione di alimenti e bevande. Abrogazione della legge regionale 10 luglio 1996, n. 13), secondo cui «Agli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande non raggiungibili con strade destinate alla circolazione di veicoli a motore non si applicano le disposizioni vigenti in materia di abbattimento delle barriere architettoniche» per violazione dell’art. 117 comma 2 lett. e) ed m) della Costituzione sul riparto di giurisdizione.

Dovendosi guardare, infatti, alla ratio della disciplina al fine di identificare l’interesse tutelato (v. C.Cost. 207/2010) “l’art. 26, comma 1, della legge reg. n. 8 del 2013 esula dalle materie «strade e lavori pubblici di interesse regionale» ed «urbanistica, piani regolatori per zone di particolare importanza turistica», che l’art. 2, lettere f) e g), della legge cost. n. 4 del 1948 rimette alla competenza primaria della Regione.

La norma impugnata, pur inserendosi in un più ampio contesto normativo riconducibile al governo del territorio, attiene invece ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. VA



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Inserito in data 06/05/2014
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SECONDA SEZIONE, Requête n. 73869/10 - SENTENZA G.C./Italia - del 22 aprile 2014

Ritardo nelle cure mediche ai detenuti: Italia sanzionata

La Corte di Strasburgo, intervenendo ancora una volta riguardo alle condizioni del nostro sistema penitenziario, ha sanzionato l’Italia.

In particolare, ordina di risarcire i danni morali patiti dal detenuto ricorrente che, afflitto da una grave patologia, non ha ricevuto le cure adeguate o, quanto meno, non nei tempi in cui le stesse sarebbero state maggiormente efficaci e necessarie.

Una simile condizione di attesa, procurando uno stato di ansia continua, di prostrazione e di vergogna, ha inevitabilmente inciso sulla qualità della vita dell’odierno istante, al punto da spingerlo a tentare per ben due volte il suicidio.

Allo stato dei fatti, dunque, l’Italia cade nuovamente in una violazione dell’articolo 3 della CEDU, perché non in grado di assicurare ai carcerati condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana.

Infatti, l’inosservanza dei parametri predisposti da Strasburgo riguardo alle cure mediche da somministrare ai detenuti ed i ritardi dell’Amministrazione penitenziaria, tali da non fronteggiare tempestivamente l’aggravarsi delle condizioni di vita del ricorrente, già più volte lamentate, espongono lo Stato italiano a forti critiche e alle relative conseguenze in sede sanzionatoria. CC




Inserito in data 06/05/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 maggio 2014, n. 112

Legittima la destituzione ex lege dell’agente di p.s. sottoposto a misura di sicurezza

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, primo comma, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), nella parte in cui prevede la destituzione di diritto per gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza sottoposti a misura di sicurezza personale, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

In particolare, la normativa introdotta dal D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, prevedendo che la prestazione del servizio da parte del personale summenzionato “è necessariamente condizionata al permanere di specifici requisiti di idoneità, previsti ai fini dello svolgimento delle funzioni relative”, si pone “in termini di specialità nell’ambito dell’ordinamento del pubblico impiego”.

Sulla scorta di tale rilievo, pertanto, deve escludersi che dalla norma censurata derivi una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla sentenza n. 971 del 1988,  “che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 85, primo comma, lettera a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), nella parte in cui non prevede, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare”.

In conclusione, “appare compatibile con i principi costituzionali, una disciplina che valuti in termini rigorosi le conseguenze che discendono, sul piano del rapporto di impiego, dalla accertata pericolosità del pubblico dipendente”: essa “trasparentemente riflette la preminenza attribuita dal legislatore all’interesse della collettività ad essere difesa dalla pericolosità sociale di un suo membro … rispetto all’interesse del singolo alla graduazione della sanzione disciplinare che gli deve essere applicata”. EMF




Inserito in data 06/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 maggio 2014 n. 2289

Esclusione dalla gara per omessa dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali 

L’art. 38, c. 1, lett. f) del D.Lgs. n. 136/2006 impone, a pena di esclusione dalla, “la dichiarazione di pregresse risoluzioni contrattuali anche da parte di stazioni appaltanti diverse da quella che bandisce l’appalto”.

Si tratta, invero, “di dichiarazione/prescrizione essenziale che prescinde dalla stazione appaltante, la stessa o altra, perché attiene ai principi di lealtà e affidabilità contrattuale e professionale che presiedono agli appalti e ai rapporti con la stazione stessa, né si rilevano validi motivi per non effettuare tale dichiarazione, posto che spetta comunque all’Amministrazione la valutazione dell’errore grave che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova.

Né può farsi ricorso al cd. soccorso istruttorio, che, volto a chiarire e completare dichiarazioni o documenti comunque esistenti (cfr. anche Ad. Plen. N. 9/2014), non può estendersi alla dichiarazione omessa in violazione dei c.d. “adempimenti doverosi” imposti dall’art. 38, c. 1, lett. f) summenzionato.

In sostanza, il Consiglio di Stato osserva che “le procedure concorsuali perseguono il rispetto rigoroso delle regole poste ad assicurare l’imparzialità e la parità di trattamento in tutte le loro fasi, per cui spetta al concorrente il dovere della diligenza nella osservanza delle disposizioni concorsuali proprio ai fini della tutela dell’interesse al concorso; né tale onere può essere posto a carico dell’Amministrazione, che altrimenti verrebbe a violare proprio quella par condicio, che invece nella fattispecie prevale sul diverso principio del favor partecipationis, dovendosi assicurare certezza agli elementi dell’offerta.”

Per tali ragioni, le “valutazioni che incidono sulla moralità professionale spettano alla stazione appaltante e non di certo al concorrente, che non può quindi operare alcun proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e quindi di dichiarazione in proposito.” EMF



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Inserito in data 05/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA 29 aprile 2014, n. 2214

Chiamata la Plenaria: lettura sostanziale o formale art. 38 DLgs. 163/06?

Con la pronuncia in esame è chiamata l’Adunanza Plenaria – nell’esercizio della propria funzione nomofilattica - ex art. 99 -1’ c. Cp.A. – a risolvere un quesito alquanto lineare, ma dai risvolti pratici significativi.

La terza Sezione del Consiglio di Stato, recependo contrasti interni allo stesso Organo, unitamente alle recenti impostazioni emergenti dalla giurisprudenza comunitaria, si interroga sulla necessità che le dichiarazioni da rendere in sede di gara pubblica, all’atto della proposizione di un’offerta – ex articolo 38 D. Lgs. 163/06, debbano riferirsi personalmente a ciascun singolo membro o, come accaduto nel caso in esame, possano essere presentate da parte di un solo rappresentante legale dell’impresa aggiudicataria con riferimento a tutti i soggetti interessati, ma senza indicazione di ciascun singolo nominativo.

Il contrasto, in sostanza, riguarda la possibilità che, dell’articolo 38 oggi censurato, si debba dare una lettura in senso formale o, come sembrerebbe propendere la Sezione remittente, in maniera più sostanziale.

Il primo filone, avallato dalla prevalente giurisprudenza in materia (Cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 6053 del 16 novembre 2011; n. 3862 del 27 giugno 2011, Sez. V, n. 7578 del 20 ottobre 2010) ritiene, in pratica, che l’indicazione analitica circa l’insussistenza di cause ostative – con riferimento a ciascun singolo membro della ditta aggiudicataria – sia più fedele all’intenzione del Legislatore, teso ad epurare l’ambito soggettivo dei partecipanti alle gare pubbliche.

E non solo. Un’indicazione compiuta ad personam consentirebbe, altresì, all’Amministrazione di essere resa edotta tempestivamente di possibili cause di esclusione, con inutile, eventuale aggravio di attività amministrativa.

Invece, il percorso argomentativo opposto, seguito dal Collegio in sede di rimessione ed intriso di influenze comunitarie, propende per un’impostazione sostanziale – in forza della quale parrebbe sufficiente che l’indicazione – ex articolo 38 DLgs. 163/06 – sia compiuta dai soli rappresentanti legali della ditta, cumulativamente con riguardo agli altri membri della stessa.

Tale chiave di lettura, ritengono i Giudici della terza Sezione, non solo è più aderente allo spirito di semplificazione dell’attività amministrativa – ex lege 241/90 e ss. mm.; ma, altresì, appare in linea con lo spirito del Legislatore dei Contratti pubblici che tende, esclusivamente, a riscontrare l’insussistenza di requisiti di dubbia moralità – all’atto dell’aggiudicazione di un’offerta.

A sostegno di questa impostazione, infine, il Collegio remittente richiama l’esperienza giuridica comunitaria.

Si ricorda, infatti, che la recente nuova Direttiva in materia di appalti n. 2014/24/UE del 26 febbraio 2014, proprio nell’ottica di una generale semplificazione del sistema, ha previsto la presentazione di un unico documento per la partecipazione alle gare, consistente in una unica autodichiarazione come prova documentale preliminare del possesso dei requisiti necessari per la partecipazione di una impresa ad una gara.

Peraltro, richiamando propri precedenti (Cfr. decisioni n. 4370 del 2013, n. 1487 e n. 1744 del 2014), questa Sezione ha già evidenziato come la partecipazione agli appalti pubblici, siano essi per forniture o servizi o forniture, sia ormai disciplinata da puntuali disposizioni normative comunitarie che sono volte «alla chiarezza e trasparenza delle procedure, alla par condicio, alla tutela della concorrenza, al favor partecipationis, alla tassatività delle cause di esclusione, al soccorso istruttorio laddove non si tramuti nell’integrazione sostanziale o nella modifica dell’offerta, all’inammissibilità di clausole ultra legem che in pratica si risolvono in meri appesantimenti formali e burocratici, all’approccio interpretativo rivolto a valorizzare il contenuto effettivo dell’offerta», e ad «assicurare che l’esito della gara venga a premiare in effetti la migliore offerta economica e tecnica, alla luce della corrispondenza degli aspetti formali con quelli sostanziali, dei requisiti di partecipazione con la verifica dei documenti prodotti a supporto, e quindi salve le dichiarazioni non corrispondenti al vero».

Delineata l’oscillazione giurisprudenziale unitamente alle articolazioni argomentative finora compiute, il Collegio della terza Sezione conclude evidenziando l’utilità ed il pregio di un’impostazione sostanzialistica dell’articolo 38.

Ne discenderebbe, infatti, un assottigliamento anche dell’eventuale contenzioso in sede di aggiudicazione. Un eventuale ricorso di altri concorrenti contro l’ammissione dell’aggiudicatario (e conseguentemente contro l’aggiudicazione), per l’appunto, sarebbe ammesso solo in quanto si deduca positivamente l’esistenza delle cause ostative.

E’ evidente che tutto risulterebbe più snello e, in considerazione di ciò, si reputa decisivo l’apporto chiesto e rimesso al massimo Consesso amministrativo. CC



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Inserito in data 04/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2273

Sull'art. 68 del d.lgs. 163 del 2006

I Giudici di Palazzo Spada si soffermano in merito alla circostanza secondo la quale le stazioni appaltanti non possono respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, nel caso in cui, nell'offerta stessa, è data prova che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente.
Nel caso ivi esaminato, l’appellante censura con l’atto di appello all’esame la sentenza impugnata sia con riferimento all'accoglimento del ricorso principale sia con riguardo alla reiezione del suo ricorso incidentale.

Quanto al rigetto del ricorso principale, si evince che “l’appellante osserva in primo luogo che la valutazione espressa dall’Area farmaceutica concerne la mera conformità del prodotto alla specifica tecnica di cui al capitolato tecnico, ma non tiene conto del fatto che - alla stregua dei chiarimenti forniti dalla stessa stazione appaltante nonché ai sensi di precise disposizioni dell’art. 68 del D.Lgs. n. 163/2006 - è ammessa la fornitura di prodotti equivalenti ancorché non conformi, quale il prodotto offerto dalla medesima appellante” ed ancora che “tale giudizio di equivalenza non è stato a suo dire svolto dall’Area farmaceutica, che si è limitata ad una pedissequa valutazione di non conformità”.

Dunque, di fronte all’evidente omissione del giudizio di equivalenza da parte dell’Area farmaceutica, che “si era limitata assolutamente al vero il fatto che la provetta con le caratteristiche in questione è prodotta da altri, oltre che dall’odierna appellata”, come ammette l’azienda nel foglio illustrativo della provetta stessa; la disciplina di gara, pertanto, risulta essere palesemente anticoncorrenziale, se interpretata nel senso di ammettere prodotti fabbricati esclusivamente da un solo operatore economico.

Non è rilevante e non è neppure verosimile, poi, che, come sostenuto dalla appellante in base ad un dato meramente letterale (in quanto è utilizzata solo la espressione “non conforme”), che l’Area farmaceutica si sarebbe limitata a valutare la non conformità del prodotto e non abbia proceduto all’esame di equivalenza; è invece da presumere che, nelle circostanze date, il giudizio di non conformità comprenda necessariamente il giudizio di non equivalenza, se non viene altrimenti specificato.

In ogni caso, se è del tutto pacifico che, ai sensi dell'art. 68, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, non è consentito alle stazioni appaltanti respingere un'offerta per il motivo che i prodotti ed i servizi offerti non sono conformi alle specifiche di riferimento, se nell'offerta stessa è data prova, con qualsiasi mezzo appropriato, che le soluzioni proposte corrispondano in maniera equivalente ai requisiti richiesti dalle specifiche tecniche, ciò significa che, “in caso di prodotto non conforme e di mancanza della citata prova in sede di offerta (il che, come s’è detto, non è contestato nella fattispecie all’esame ), ne deriva l’automaticità dell’esclusione, senza che possa ravvisarsi in capo alla stazione appaltante un onere di attività di indagine circa l’eventuale equivalenza.” GMC



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Inserito in data 04/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2271

Sull'azione di dissociazione in tema di gare d'appalto

Pur non essendo un istituto giuridico codificato, la dissociazione può aver luogo mediante forme diversificate, ma deve tuttavia risultare “esistente, univoca e completa.”

Infatti, alla luce della odierna giurisprudenza del Consiglio di Stato e della CGA, la dichiarazione di dissociazione, deve richiamare misure “concretamente adottate” e deve altresì correlarsi a “specifiche condotte penalmente rilevanti.”

Nel caso ivi esaminato, l'azione di dissociazione intrapresa dalla società non è sufficiente a realizzare un'effettiva dissociazione dalla condotta dell'ex amministratore; come premesso, per rilevare in senso esimente la dissociazione, infatti, deve, da un lato, correlarsi ad una specifica condotta penalmente sanzionata e deve richiamare soprattutto atti o misure concretamente adottate (ad es. azione di responsabilità) dall’impresa nei confronti dell’amministratore medesimo.

A ciò ne consegue, dunque, che la mera dichiarazione in via ipotetica ed eventuale prodotta dall’appellante, non comporta quella dissociazione esistente, univoca e completa richiesta dalla giurisprudenza (si confronti altresì la sent. n. 4804 del 2007) e quindi non vale a sopperire alle carenze sostanziali della originaria autocertificazione.

Risulta chiaro che, se non si richiedesse un' “effettività” della dissociazione, la norma che vieta la partecipazione delle imprese alle gare d'appalto i cui amministratori siano incorsi in reati incidenti sulla moralità professionale, si presterebbe a delle facili elusioni e le attività di dissociazione rivestirebbero la qualità di mere “operazioni di facciata'”, consentendo in tal senso il perpetrarsi di illeciti ed il rischio che si assuma, quale contraente con la Pubblica Amministrazione, un soggetto non affidabile, rischio che, alla luce dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, il quale prevede i “Requisiti di ordine generale” ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, servizi e forniture, il Legislatore tenta di fronteggiare. GMC



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Inserito in data 04/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2271

Sull'azione di dissociazione in tema di gare d'appalto

Pur non essendo un istituto giuridico codificato, la dissociazione può aver luogo mediante forme diversificate, ma deve tuttavia risultare “esistente, univoca e completa.”

Infatti, alla luce della odierna giurisprudenza del Consiglio di Stato e della CGA, la dichiarazione di dissociazione, deve richiamare misure “concretamente adottate” e deve altresì correlarsi a “specifiche condotte penalmente rilevanti.”

Nel caso ivi esaminato, l'azione di dissociazione intrapresa dalla società non è sufficiente a realizzare un'effettiva dissociazione dalla condotta dell'ex amministratore; come premesso, per rilevare in senso esimente la dissociazione, infatti, deve, da un lato, correlarsi ad una specifica condotta penalmente sanzionata e deve richiamare soprattutto atti o misure concretamente adottate (ad es. azione di responsabilità) dall’impresa nei confronti dell’amministratore medesimo.

A ciò ne consegue, dunque, che la mera dichiarazione in via ipotetica ed eventuale prodotta dall’appellante, non comporta quella dissociazione esistente, univoca e completa richiesta dalla giurisprudenza (si confronti altresì la sent. n. 4804 del 2007) e quindi non vale a sopperire alle carenze sostanziali della originaria autocertificazione.

Risulta chiaro che, se non si richiedesse un' “effettività” della dissociazione, la norma che vieta la partecipazione delle imprese alle gare d'appalto i cui amministratori siano incorsi in reati incidenti sulla moralità professionale, si presterebbe a delle facili elusioni e le attività di dissociazione rivestirebbero la qualità di mere “operazioni di facciata'”, consentendo in tal senso il perpetrarsi di illeciti ed il rischio che si assuma, quale contraente con la Pubblica Amministrazione, un soggetto non affidabile, rischio che, alla luce dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006, il quale prevede i “Requisiti di ordine generale” ai fini della partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, servizi e forniture, il Legislatore tenta di fronteggiare. GMC




Inserito in data 03/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 aprile 2014, n. 2252

Nomina della commissione giudicatrice e onere di impugnazione

Il provvedimento di nomina della Commissione giudicatrice di una gara d'appalto può essere impugnato dal partecipante alla selezione che si ritenga leso nei suoi interessi non in via autonoma, ma solo quando, con l'approvazione delle operazioni concorsuali e la nomina dell'aggiudicatario, si esaurisce il procedimento amministrativo e diviene compiutamente riscontrabile la lesione della sfera giuridica dell'interessato.

Anche in caso di concorso pubblico, si riconosce che il termine per l'impugnazione degli atti del procedimento diversi dall'esclusione dalla partecipazione o dai giudizi negativi formulati dalla Commissione sulle prove di esame decorre dalla data di conoscenza del relativo esito, coincidente col provvedimento di approvazione della graduatoria. Infatti, solo da tale atto può scaturire la lesione attuale della posizione degli interessati e la sua conoscenza reca in sé tutti gli elementi che consentono all'interessato di percepirne la portata lesiva.

Solo nel caso in cui evidenzi la presenza di una causa di astensione fondate su ragioni di opportunità, l’interessato è tenuto a farle emergere nel corso del procedimento amministrativo, a pena di preclusione della censura in un successivo contenzioso giurisdizionale. Sicché nel caso in cui l’amministrazione opponga un diniego alla sostituzione, l’interessato è tenuto ad impugnarlo, non potendo attendere di reagire avverso il provvedimento di aggiudicazione dell’appalto. CDC

 



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Inserito in data 03/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2280

Sul riparto di giurisdizione in tema di pubblico impiego

La sentenza conferma che la tutela giurisdizionale inerente al rapporto di lavoro di un pubblico dipendente può avvenire davanti al giudice amministrativo quando venga impugnato direttamente un atto di macro-organizzazione che si assume autonomamente lesivo e davanti al giudice ordinario quando il dipendente contesti l'atto di gestione, applicativo o consequenziale rispetto a quello organizzativo.

Dunque, come costantemente affermato in giurisprudenza, spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo la diretta cognizione degli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, adottati dalle amministrazioni quali atti presupposti, nei confronti dei quali sono configurabili situazioni di interesse legittimo derivando gli effetti pregiudizievoli direttamente dall'atto presupposto, mentre la cognizione spetta al giudice ordinario quando il giudizio investe direttamente atti di gestione del rapporto in relazione ai quali i suddetti provvedimenti di autoregolamentazione costituiscono solamente atti presupposti. CDC

 

 



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Inserito in data 02/05/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 aprile 2014, n. 2247

L’art. 21octies L. n. 241/90 non legittima la motivazione postuma del provvedimento

Con la pronuncia in commento, il Consiglio di Stato interviene sulla vexata quaestio dell’ammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione provvedimento amministrativo alla stregua dell’art. 21octies L. n. 241/90.

Ad avviso del Giudice di primo grado, l’art. 21 octies, comma 2, prima parte, avrebbe introdotto la regola del regola del raggiungimento dello scopo, così trasformando il processo amministrativo relativo agli atti vincolati da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto e superando il tradizionale principio del divieto di motivazione postuma.

Diversamente, per la Terza Sezione del Consiglio di Stato, “la motivazione del provvedimento costituisce l’essenza e il contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata, e non può certo essere emendata o integrata, quasi fosse una formula vuota o una pagina bianca, da una successiva motivazione postuma, prospettata ad hoc dall’Amministrazione resistente nel corso del giudizio”. Segnatamente, “il difetto di motivazione nel provvedimento impugnato non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la motivazione del provvedimento il presupposto, il fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo (art. 3 della l. 241/1990) e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. 241/1990, il provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti”. TM



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Inserito in data 02/05/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 16 aprile 2014, n. 16711

Compatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il dolo alternativo

La Prima Sezione della Corte di Cassazione riconosce la compatibilità tra l’aggravante della premeditazione e il dolo alternativo.

Va premesso che il riconoscimento della premeditazione, configurata come circostanza aggravante nei delitti di omicidio volontario e di lesioni personali, è condizionato dal positivo accertamento di due presupposti, uno cronologico, altro soggettivo: il primo è rappresentato da un apprezzabile, ma non preventivamente individuato dalla norma di legge, lasso di tempo intercorso tra l’insorgenza del proposito criminoso e la sua attuazione concreta, tale comunque da consentire la possibilità di riflessione circa la possibilità e l’opportunità del recesso, il secondo dalla perdurante determinazione criminosa nell’agente senza soluzioni di continuità e senza ripensamenti dal momento del concepimento dell’azione antigiuridica fino alla sua realizzazione. Il legislatore ritiene dunque meritevole di una punizione più severa colui che, rispetto alla situazione di ideazione e normale ponderazione che usualmente precede l’agire umano, si distingue per la particolare fermezza e costanza nel tempo dell’intenzione criminosa […] perché dimostra la maggiore intensità del dolo e quindi una più spiccata capacità a delinquere”.

Si è altresì affermato che l’elemento cronologico non si presta in sé ad una quantificazione minima, valevole in astratto per ogni caso, ma richiede comunque un’estensione temporale tale da consentire all’agente la riconsiderazione della decisione assunta e da far prevalere la spinta al crimine rispetto ai freni inibitori.

Inoltre, […] la ricostruzione probatoria della premeditazione non può esaurirsi nel mero accertamento della preventiva acquisizione dei mezzi, dei luoghi e degli strumenti materiali con cui tradurre in pratica il proposito criminoso […]. E’ piuttosto necessario fare ricorso ad elementi estrinseci e sintomatici, individuati a livello esemplificativo nella causale dell’azione, nell’anticipata manifestazione dell’intento poi attuato, non contraddetto da condotte opposte, nella ricerca dell’occasione propizia, nella meticolosa organizzazione e nell’accurato studio preventivo delle modalità esecutive, nella violenza e reiterazione dei colpi inferti”.

Deve poi tenersi conto che per integrare l’aggravante, di natura soggettiva, non è sufficiente un generico proposito di fare ricorso alla violenza. Seppure, come è pacifico, il dolo quale rappresentazione del fatto reato tipizzato, non include l’identità personale della prefigurata vittima, in quanto elemento esterno al fatto […], ciò nonostante i caratteri di fermezza ed irrevocabilità della risoluzione, necessari per individuare la premeditazione, assumono rilievo se posti in relazione ad un bersaglio specifico, già previamente individuato e contro il quale sia diretta l’azione”: per cui l’aggravante non è ravvisabile quando, per l’interferenza di fattori e circostanze non preventivati, l’agente impulsivamente decida di offendere un soggetto diverso da quello premeditato; mentre, la premeditazione si configura in caso di aberratio ictus, ossia quando l’agente offende un soggetto diverso da quello programmato per un errore esecutivo, atteso che l’aggravante de qua non riguarda le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole (che, ai sensi dell’art. 60 c.p., non sono posti a carico dell’agente in caso di errore sulla persona offesa).

Nel caso del dolo alternativo, “l’agente si prefigura e vuole sin da un momento anticipato rispetto a quello della realizzazione del suo intento in modo indifferente e alternativo che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, posto l’atteggiamento psicologico di sostanziale equivalenza rispetto agli effetti conseguibili, egli risponde per quello in concreto determinato”.

Premesso ciò, per la Suprema Corte, “Questa equivalenza di conseguenze dell’azione, previste e perseguite con indifferenza da parte dell’autore del reato, per poter essere compatibile con la premeditazione deve risalire al momento dell’ideazione del progetto criminoso ed essere mantenuta costante per uno spazio temporale apprezzabile e tale da consentire una differente determinazione senza che mai nel frattempo la volontà del soggetto attivo abbia risolto l’alternativa con una risoluzione definitiva per l’evento meno grave”. TM




Inserito in data 30/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 aprile 2014, n. 2208

La tutela della situazione familiare prevale sugli automatismi delle condanne ostative

Il Supremo Consesso ha accolto il ricorso promosso da un cittadino albanese avverso il diniego di rinnovo di permesso di soggiorno motivato sulla base della mera esistenza di una condanna in materia di stupefacenti.

Ai sensi dell’art. 4 del TU n. 286/1998, come modificato dall’art. 4 della legge n. 189/2002, infatti, questa tipologia di reato rientrerebbe tra quelli che comportano automaticamente l’ostatività al rinnovo del permesso di soggiorno. 

L’appellante, tuttavia, ha osservato che la norma in questione, laddove fosse interpretata nel senso di escludere in modo assoluto la possibilità per il giudice amministrativo di valutare eventuali elementi sopravvenuti o la situazione lavorativa e soprattutto familiare meritevole di tutela, e di alcun accertare l’effettiva pericolosità sociale del richiedente, si porrebbe in contrasto con le disposizioni dell’art. 5, comma 5, del D.Lgs n. 286/1998, come modificate dal D.Lgs. n. 5/2007 e successivamente interpretate dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato e da quella della Corte di Cassazione.

La stessa Corte Costituzionale, con sent. 172/2012, con riguardo alle procedure di emersione, “ha escluso che sia costituzionalmente legittima la equiparazione degli effetti delle condanne ostative per i reati rientranti nell’art. 380 c.p.p. a quelle per i reati di minore gravità di cui all’art. 381 c.p.p., in relazione alle quali occorre una specifica verifica di effettiva pericolosità sociale”.

Più precisamente si rileva la necessità di tenere in debita considerazione alcuni elementi concomitanti quali la durata del soggiorno dello straniero, la situazione familiare dello stesso e l’attualità della pericolosità sociale.

Si veda sul punto la sentenza della Corte costituzionale n. 202/2013, che” ha esteso tale tutela alla situazioni familiari costituitesi in Italia, assimilabili al ricongiungimento familiare stesso”  il cui effetto è stato quello di dare prevalenza alla tutela della situazione familiare ed in particolare all’esistenza di effettivi legami familiari con figli pienamente radicati nel nostro paese “rispetto ai meccanismi automatici di valutazione della pericolosità sociale in base alle cosiddette condanne ostative”.

Secondo i giudici di Palazzo Spada, dunque, anche in questo caso dovrà trovare applicazione l’art. 4, comma 3, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 286/1998 secondo cui “Lo straniero per il quale e' richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell'articolo 29, non e' ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l'Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone”. VA



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Inserito in data 30/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 aprile 2014, n. 2213

I maggiori costi espropriativi vanno addebitati solo al soggetto che vi ha dato causa

Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunziarsi in merito alla legittimità del provvedimento amministrativo con il quale è stata richiesta, a titolo di conguaglio, l’integrazione del corrispettivo per le concessioni del diritto di superficie assegnate giusta convenzioni stipulate ex art. 35 della legge 22 ottobre 1971 n.86, ha confermato la decisione del giudice di primo grado che ha affermato: “che il diritto al conguaglio esiste unicamente con riferimento ai costi relativi all’acquisizione dell’area oggetto di ciascuna specifica convenzione e non in relazione a quelli sopportati per tutte le aree dei vari comparti; che l’integrazione del corrispettivo di acquisizione per ciascuna area deve essere collegata ai costi effettivamente sostenuti per la singola area.

[…] Vero è che l’art.35 della legge n.865/1971 prevede l’esatta corrispondenza tra i costi effettivamente sostenuti dal Comune per l’acquisizione delle aree e il corrispettivo del diritto di superficie ( Cons. Stato Se. IV 22/3/2011 n.1751), ma tale regola deve essere fatta valere con riferimento al singolo intervento, cioè a ciascun area , oggetto di singola convenzione”.

Il Supremo Consesso, inoltre, ha precisato che le disposizioni di cui all’art. 5 bis del d.l. n.333/92 convertito nella legge n.359/92 recante un nuovo criterio di stima dell’indennità di esproprio delle aree edificabili (con riferimento alle quali era stata richiesta la revisione del prezzo), ai sensi del comma 6 dello stesso articolo, si applicano “ in tutti i casi in cui non sono stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l’entità dell’indennizzo e/o del risarcimento del danno”. Nel caso di specie, tuttavia, non risultavano contestazioni giudiziali aperte, presumendosi, dunque, la già avvenuta definizione dei costi e la loro consolidazione, sicché non si sarebbe potuto parlare di maggiori oneri espropriativi, anche a seguito della sopravvenienza di nuovi criteri di calcolo delle indennità.

“Se così è, la clausola di “salvo conguaglio” di cui all’art.3 delle convenzioni stipulate tra le parti qui in controversia non può essere fatta valere dall’Amministrazione giacché la richiesta di integrazione si pone in contrasto con l’assetto normativo sopra illustrato che consente il pareggio economico unicamente per ogni singolo intervento oltreché rivelarsi irrazionale ed ingiusta, non potendo il preteso conguaglio operare per un rapporto giuridico ormai definito ed intangibile (…), laddove i maggiori costi espropriativi riguardano aree diverse da quelle della concessionaria appellata e non possono essere “spalmati” indistintamente, anche su chi, per così dire, come la Società appellata, risulti incolpevole”. VA



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Inserito in data 29/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 11 aprile 2014 n. 1793

La proroga delle convenzioni Consip ex D.L. 95/12 viola il diritto comunitario

Con la sentenza in esame i Giudici di Palazzo Spada, conformemente all’insegnamento della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale, ritengono che vada disapplicato l’art. 1 del D. L. 95/2012 per contrasto con il diritto comunitario.

La disposizione suddetta, infatti, prevedendo che «le quantità ovvero gli importi massimi complessivi» delle Convenzioni CONSIP «sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero all’importo originario, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione stessa, ove questa intervenga prima del 31 dicembre 2012» e che «la durata delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è prorogata fino al 30 giugno 2013, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione originaria», viola “gli artt. 28 e 31, Dir 2004/18 CE, che precludono la possibilità di affidare contratti pubblici di servizi e forniture senza procedure di gara a evidenza pubblica”.

Invero, dal combinato disposto delle norme comunitarie, si deduce che gli Stati membri possono aggiudicare gli “appalti pubblici facendo ricorso vuoi alla procedura aperta o ristretta, vuoi, nelle circostanze specifiche espressamente previste all’art. 29 della direttiva 2004/18, al dialogo competitivo, vuoi ancora, nelle circostanze specifiche espressamente elencate agli artt. 30 e 31 della medesima direttiva, ad una procedura negoziata. L’aggiudicazione di appalti pubblici mediante altre procedure non è autorizzata dalla detta direttiva” (Corte di Giustizia CE, sez. III, 10 dicembre 2009, causa C-299/08, punto 29).  

In particolare, l’art. 31, comma 1, n. 4, lett. b) “consente il rinnovo dell’affidamento ricorrendo alla procedura negoziata solo quando ricorrono le condizioni ivi indicate tra le quali rileva che la possibilità del rinnovo sia indicato “sin dall’avvio del confronto competitivo” e l’importo totale previsto per la prosecuzione sia individuato nel bando”.

D’altra parte, la violazione della normativa comunitaria non può essere confutata dalla “natura transitoria della norma”, né tanto meno dalla “finalità di risparmio per le Finanze pubbliche in periodo di necessaria “spending review” ”. EMF



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Inserito in data 29/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 aprile 2014 n. 2063

Esclusione dalla gara pubblica e regime della doppia impugnazione

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “l'interesse finale che un soggetto escluso da una gara pubblica fa valere è quello di assicurarsi il bene della vita cui mira, ossia l'aggiudicazione, atteso che la rimozione dell'esclusione costituisce un passaggio solo strumentale. Data la relazione intercorrente fra esclusione ed aggiudicazione, di conseguenza, anche quest'ultima deve essere necessariamente impugnata (eventualmente insieme alla prima), poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, infatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione (che sarebbe affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante : cfr. C.d.S., V, 14 dicembre 2011, n. 6539), e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile (C.d.S., III, 16 marzo 2012, n. 1091; V, 14 dicembre 2011, n. 6544; 17 maggio 2012, n. 2826)”.

In sostanza, il ricorso avverso l'esclusione da una gara diventa “improcedibile tutte le volte in cui l'aggiudicazione finale intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame, senza che l'impugnazione sia stata estesa anche al nuovo atto (C.d.S., V, 19 luglio 2013, n. 3940; 15 maggio 2013, n. 2626; 14 dicembre 2011, n. 6539; 18 febbraio 2009, n. 950; 11 luglio 2008, n. 3433; III, 25 gennaio 2013, n. 481)”.

Ciò può desumersi anche dal disposto “dell’art. 79, comma 5, lett. a), d.lgs. n. 163 del 2006, che impone all'Amministrazione di comunicare il provvedimento di aggiudicazione anche ai concorrenti esclusi che abbiano proposto -o siano in termini per proporre- ricorso avverso l'esclusione (C.d.S., II, 26 novembre 2008, n. 3921)”.

Né la parte può “ritenersi esonerata dalla necessaria impugnativa per il fatto di avere già gravato la precedente aggiudicazione provvisoria. Questa, infatti, ha natura di atto endoprocedimentale (la cui autonoma impugnabilità si riconnette ad una mera facoltà, e giammai ad un onere, del concorrente non aggiudicatario), ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del soggetto non risultato aggiudicatario, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva (C.d.S., V, 20 giugno 2011, n. 3671; 11 gennaio 2011, n. 80; III, 11 marzo 2011, n. 1581; VI, 20 ottobre 2010, n. 7586; Ad.Pl., n. 31 del 31 luglio 2012; V, 13 maggio 2013, n. 2578; 27 marzo 2013, n. 1828; III, 11 febbraio 2013, n. 763)”.

Sul tema, peraltro, l’Adunanza Plenaria n. 31 del 31 luglio 2012 “ha chiarito che l’onere di agire in giudizio contro l’aggiudicazione definitiva di cui si sia venuti a conoscenza è immediato, e la sua insorgenza non può essere differita all’esito del successivo controllo sul possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicataria ai sensi dell’art. 11, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006”.

La figura dell’atto ad efficacia subordinata a controllo successivo, infatti, non è in linea con le caratteristiche peculiari dell’aggiudicazione definitiva: quest’ultima “da un lato fa sorgere in capo all’aggiudicatario un’aspettativa alla stipulazione del contratto di appalto” e, dall’altro, “produce nei confronti degli altri partecipanti alla gara un effetto immediato consistente nella privazione definitiva, salvo interventi in autotutela della stazione appaltante o altre vicende non prevedibili né controllabili, del “bene della vita” costituito dall’aggiudicazione”.

Sotto il profilo risarcitorio, invece, viene in rilievo la previsione dell’art. 34, comma 3, C.P.A., secondo la quale “Quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori”.

A tal proposito, è stato osservato che “l'applicazione di tale norma presuppone un’espressa istanza dell'interessato (V, 6 dicembre 2010, n. 8550; 14 dicembre 2011, n. 6539)”, il quale è tenuto a dimostrare “la concreta possibilità, attraverso il rinnovo delle operazioni di gara, di poter quantomeno avere in astratto titolo all'aggiudicazione. In tal senso la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di affermare come "la domanda di risarcimento del danno non può essere valutata in presenza della sola illegittimità dell'esclusione , non rilevando al momento un " danno risarcibile" connesso direttamente a tale illegittimità." (Consiglio Stato, sez. IV, 28 febbraio 2005 , n. 751)” (così C.d.S., V, 18 febbraio 2009, n. 950). EMF



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Inserito in data 28/04/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 22 aprile 2014, n. 12

Traslatio iudicii in appello, consumazione del potere di impugnare e giudicato

Il massimo Consesso amministrativo risolve la diatriba riguardo alle conseguenze derivanti dalla dichiarazione di inammissibilità – a seguito della erronea devoluzione al Consiglio di Stato anzichè al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana - dell’appello avverso pronunce emesse dal TAR Sicilia.

Si pronuncia, frattanto, sul quesito relativo alla esperibilità della traslatio iudicii in sede di gravame; nella specie, avendo riguardo alla peculiarità del caso, invero prospettabile dinanzi al Collegio siciliano.

La questione controversa vede il confronto tra due orientamenti: il primo, prevalente, a tenore del quale dall’inammissibilità deriva il passaggio in giudicato della sentenza, poiché si è consumato il potere di impugnazione (ex plurimis Cons. St., sez. IV, 21.10.1993, n. 898; Cons. St., sez. IV, 19.2.1990, n. 103).

Invece, secondo altra tesi, minoritaria, la dichiarazione di inammissibilità non preclude la riassunzione, poiché non produce la consumazione del potere di impugnare (Cons. St., sez. III, 16.4.2011, n. 2340). A sostegno di tale assunto, peraltro, si sosteneva l'estensibilità – al giudizio di secondo grado – dell’art. 50 c.p.c. – che statuisce la riassunzione dinanzi al Giudice ritenuto realmente competente.

Il sommo Consesso amministrativo, richiamando ed applicando principi ormai saldi nell’esperienza processual – civilistica, aderisce al primo orientamento.

Evidenzia, infatti, come l’individuazione del giudice di appello, ex art. 341 c.p.c., attiene ad una “competenza” territoriale del tutto sui generis: dipende indefettibilmente dalla sede del giudice a quo, sicché è dotata di un carattere prettamente funzionale che impedisce il definitivo suo radicamento presso un giudice diverso, per il fatto che la questione non sia stata posta in limine litis (Sezioni Unite civili, 22.11.2010, n. 23594).

Pertanto, considerando la peculiare natura del Giudice d’appello – come appena descritta – si ritiene errata l’applicabilità della traslatio iudicii in sede di gravame – come paventata dal secondo filone giurisprudenziale: si tratta, infatti, di un Organo giudiziario che risponde a logiche peculiari, al punto da poter parlarsi di “competenza funzionale”.

Tanto più, sottolineano i Giudici della Plenaria, con riferimento al caso di specie, ove è espressamente prevista dalla legge (Cfr. Decreto legislativo presidenziale 6 maggio 1948 n. 654 attuativo dell’art. 23 dello Statuto della Regione Siciliana - R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455 e ss. mm.) la competenza del CGA – in sede di appello – avverso le pronunce emesse dai TAR siciliani.

E’ una competenza funzionale, dunque inderogabile; come tale, non si ammette la “tollerabilità” propria dei difetti legati alla territorialità.

Dunque, applicando tali coordinate al rito amministrativo, va esclusa la possibilità di estendere le norme che, in primo grado, disciplinano la riassunzione del processo dinanzi al Giudice competente.

Il Collegio della Plenaria, consacrando la ratio della competenza dei Giudici d’appello siciliani, così conclude: l’appello ad un giudice diverso da quello individuato dalla legge determina la consumazione del potere di impugnare, ove siano decorsi i termini per il gravame, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza impugnata. CC

 

 



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Inserito in data 28/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 24 aprile 2014, n. 9276

Perimetri boschivi: non può essere illimitata la responsabilità civile dell’Ente

Con un arresto di indubbia importanza ed intervenendo riguardo ad una vicenda “singolare”, gli Ermellini tracciano nuovamente i confini della responsabilità civile.

Il caso in esame, emerso a seguito di uno scontro tra un’autovettura ed un cinghiale improvvisamente sbucato fuori da un bosco, consente, infatti, una delimitazione della responsabilità da parte dell’Ente titolare del fondo.

Nella specie, si è ritenuto sostanzialmente ingiusto addebitare il carico della vicenda alla Regione: è impensabile, dicono i Giudici, pretendere che vengano recintate tutte le strade e che vengano segnalati tutti i perimetri boschivi.

Si tratta di un’area in cui la responsabilità civile recede dinanzi alla struttura territoriale ed alla conseguente difficoltà, oggettivamente sussistente, di prevedere e delimitare i rischi potenziali.

In forza di ciò, dunque, viene disposto l’esonero da ogni forma di responsabilità presuntivamente imputata all’Ente e, per l’effetto, annullata ogni pretesa risarcitoria avanzata nei riguardi di quest’ultimo. CC




Inserito in data 27/04/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 22 aprile 2014, n. 11

Conflitto di competenza e coinvolgimento TAR Sicilia: disciplina applicabile

La pronuncia è significativa perché traccia un principio di diritto, nell’interesse della legge – ex art. 99, 5’ c. C.p.A. – in materia di conflitti di competenza in cui sia interessato il TAR Sicilia.

Il sommo Consesso, riecheggiando quanto già affermato dalla Plenaria 2/11, sostiene l’inapplicabilità – nel caso di specie - della norma di cui all'articolo 10, comma 5’ del decreto Legislativo 24 dicembre 2003, n. 373 recante "Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana concernenti l'esercizio nella regione delle funzioni spettanti al Consiglio di Stato".

Tale disposizione, infatti, attribuisce all'Adunanza plenaria, integrata da due magistrati della Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, la cognizione della diversa fattispecie dei conflitti di competenza, in sede giurisdizionale, “tra il Consiglio di giustizia amministrativa ed il Consiglio di Stato”.

In questo modo, infatti, estendendo la composizione del massimo Collegio, diventa possibile garantire un maggiore equilibrio nel giudizio sui conflitti di competenza in cui sia coinvolto il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana.

Ove, invece, il conflitto di competenza coinvolga un TAR siciliano – come nella vicenda in esame – la conoscibilità della questione è disciplinata dalle previsioni ordinariamente previste dal Codice del processo amministrativo. E' in questo senso, infatti, il tenore letterale del citato art. 10, co. 5’, d.lgs 273/2003 – come pocanzi richiamato – limitato solo agli Organi giurisdizionali di appello. CC



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Inserito in data 27/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 23 aprile 2014, n. 9219

Forma scritta ad substantiam anche per i contratti delle Aziende comunali 

Il Collegio di piazza Cavour sottolinea l’importanza della forma scritta nella stipula dei contratti, ricordandone l’applicabilità anche in sede di esercizio dell’autonomia negoziale degli Enti Locali che - ex art. 114 L. 267/2000 TUEL - agiscono iure privatorum.

La forma scritta, infatti, ancor di più nell’ambito delle pratiche contrattuali destinate al pubblico interesse, è requisito imprescindibile che, ai sensi degli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923, è  dettato a salvaguardia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa nell'interesse del cittadino e della collettività.

Il rispetto di un simile parametro, infatti, costituisce remora ad arbìtri e, agevolando l'espletamento della funzione di controllo, consente il perseguimento dei principi di imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, siglati dall’articolo 97 della Costituzione.  

In guisa di ciò, i Giudici, evidenziando – nella vicenda in esame - la carenza della forma scritta, respingono il ricorso di un’Azienda municipale – intenta a richiedere alla ditta appaltatrice il riconoscimento di una somma di denaro, presuntivamente dovuta ma, purtroppo, non desumibile da alcun contratto. CC

 

 




Inserito in data 26/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2014, n. 2064

Sul potere di qualificazione della domanda giudiziale

Il Consiglio di Stato, con la decisione n. 8010 del 2003, rigettava l’appello proposto dal Comune di Castellammare di Stabia avverso la sentenza del TAR Campania, la quale aveva riconosciuto ai ricorrenti, dipendenti assunti ai sensi della legge 1° giugno 1977, n. 285, il diritto al pagamento di n. 582 ore lavorative non retribuite poiché erroneamente considerate come “attività di formazione”.

Dunque, l’interessato, deducendo l’erroneità dei conteggi effettuati, nonché la conseguente insufficienza della somma liquidata dall’amministrazione nel 2004, adiva il Tribunale di Torre Annunziata, in funzione di giudice del lavoro, per ottenere il pagamento delle somme già riconosciute in sede di giurisdizione amministrativa con condanna generica, oltre al risarcimento dei danni, il quale declinava la propria giurisdizione in favore del g.a. Il TAR, dichiarando che l’amministrazione non aveva ancora eseguito il predetto giudicato e, perdurando l’ingiustificato inadempimento, ha nominato quale commissario ad acta il Prefetto di Napoli, respingendo la domanda volta ad ottenere un distinto risarcimento del danno, mancando i presupposti della responsabilità dell’amministrazione. Il Comune di Castellamare di Stabia ha chiesto la riforma della predetta sentenza, deducendone l’erroneità e l’ingiustizia alla stregua di cinque motivi di gravame; l’interessato ha resistito al gravame, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza.

I giudici di Palazzo Spada hanno precisato che alla luce di “un consolidato indirizzo giurisprudenziale dal quale non vi è ragione per discostarsi, spetta al giudice la qualificazione giuridica dell’azione, potendo egli anche attribuire al rapporto giuridico dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non venga sostituita la domanda giudiziale, modificandone i fatti o fondandosi su una realtà fattuale diversa da quella allegata in giudizio (Cass. civ., sez. III, 3 agosto 2012, n. 13945; sez. I, 14 novembre 2011, n. 23794; sez. II. 10 febbraio 2010, n. 3012); ciò trova applicazione anche nel processo amministrativo, con la precisazione che in tale sede il potere del giudice deve esercitato nell’ambito e nei limiti dei motivi di censura sollevati dal ricorrente (principale ed eventualmente di quello incidentale).”

Inoltre “è  stato anche precisato che il potere di qualificazione della domanda giudiziale è consentito solo al giudice di primo grado (Cass. civ., sez. III, 14 maggio 2013, n. 11542), così che l’impugnazione di un provvedimento giurisdizionale deve essere proposta nelle forme previste dalla legge per la domanda così come è stata qualificata dal giudice, a prescindere dalla correttezza o meno di tale qualificazione, e non come le parti ritengano che debba essere qualificata (fermo restando poi il potere delle parti di censurare l’errore di giudizio relativo alla qualificazione della domanda con apposito motivo di gravame)”.

Ciò posto, nel caso in oggetto, avendo la sentenza impugnata qualificato la domanda giudiziale come ottemperanza al giudicato formatosi sulla precedente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sez. V, n. 463 del 6 febbraio 1998, anche il giudizio di appello deve seguire quel rito. GMC



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Inserito in data 26/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE – SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 15 aprile 2014, n. 8727

Litisconsorzio necessario per le cause sull'impianto di riscaldamento

La Suprema Corte torna sul  dibattuto tema del litisconsorzio necessario e, in tale specifico caso, si occupa delle cause concernenti l'impianto di riscaldamento all'interno di un condominio.

Alla luce di quanto da ultimo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, “sussiste litisconsorzio necessario processuale nei confronti del condomino dissenziente” per quanto concerne l'impianto di riscaldamento centralizzato in un condominio.

La questione trattata in tal sede, ha avuto inizio già nel 2000 allorquando, due condomini, separatamente, adivano il Tribunale, successivamente ad una delibera condominiale che decideva la cessazione del servizio centralizzato di riscaldamento del “supercondominio”, senza indicazione alcuna con specifico riferimento alle modalità di trasformazione in impianti unifamiliari.

Successivamente, l'assemblea condominiale, accoglieva la richiesta di un condomino di procedere alla cessazione del servizio centralizzato di riscaldamento, tuttavia, in una successiva delibera, il condominio stabilisce di voler continuare ad usufruire dell'impianto centralizzato.

Dopo una riunione degli amministratori del condominio medesimo, si decise di negare gli stacchi unilaterali dall'impianto e, al condomino che già aveva proceduto a distaccarsene, si chiedeva, dunque, il pagamento delle quote ai fini dell'erogazione dell'elettricità.

Considerando, tuttavia, la volontà contraria del condomino di pagare, l'assemblea rinunciava al rimborso, statuendo però il divieto di ulteriori distacchi dell'impianto centralizzato, stabilendo che anche i condomini distaccatisi “avrebbero dovuto contribuire alle spese di manutenzione e di esercizio”.

Successivamente ad una vasta serie di ricorsi, la Suprema Corte ha sostenuto, nel caso di specie, che “sussiste litisconsorzio necessario processuale nei confronti del condomino dissenziente, che aveva impugnato la delibera assembleare, partecipato al giudizio di primo grado e non aveva appellato nel grado successivo. All'integrazione la Corte territoriale avrebbe dovuto provvedere d'ufficio e comunque la questione era stata sollevata dalle parti. Né al riguardo appare utile procedere all'interpretazione della presunta volontà di acquiescenza della parte pretermessa, con riguardo agli effetti che la pronuncia, adottata in assenza del contraddittorio necessario, potrebbe determinare. Infatti, deve rilevarsi che “se la decisione viene resa nei confronti di più condomini, che abbiano agito in uno stesso processo, tutti sono parti necessarie nei successivi giudizi di impugnazione, poiché per tutti deve potere fare stato soltanto la pronuncia finale, dandosi altrimenti luogo all'eventualità di giudicati contrastanti, con l'affermazione della legittimità della deliberazione per alcuni e della sua invalidità per altri” (Cass. n. 13331 del 2000, e n. 2471 del 1985). GMC




Inserito in data 25/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 aprile 2014, n. 2063

Ricorso avverso esclusione da una gara: occorre impugnare anche l’aggiudicazione

Il soggetto escluso da una gara pubblica fa l’interesse ad assicurarsi il bene della vita cui mira, cioè l'aggiudicazione, atteso che la rimozione dell'esclusione costituisce un passaggio solo strumentale. Dunque, anche l’aggiudicazione deve essere impugnata (eventualmente insieme all’esclusione), poiché il difetto d'impugnazione dell'aggiudicazione avrebbe come conseguenza l’inutilità di un’eventuale decisione di annullamento dell'esclusione. Tale decisione, infatti, non varrebbe a rimuovere anche l'aggiudicazione (affetta da un’invalidità ad effetto solo viziante, e non caducante), e perciò non permetterebbe un reinserimento dell'escluso nel flusso della procedura, ormai esaurita ed inoppugnabile.

Pertanto, è improcedibile il ricorso avverso l'esclusione quando l'aggiudicazione finale intervenga, e sia conosciuta, prima della pronunzia sul relativo gravame, senza che l'impugnazione sia stata estesa anche al nuovo atto.

Ciò si fonda anche sull’art. 79, comma 5, cod. appalti, che impone all'Amministrazione di comunicare il provvedimento di aggiudicazione anche ai concorrenti esclusi che abbiano proposto -o siano in termini per proporre - ricorso avverso l'esclusione.

Né la parte può ritenersi esonerata dalla necessaria impugnativa per il fatto di avere già gravato la precedente aggiudicazione provvisoria. Questa, infatti, ha natura di atto endoprocedimentale (la cui autonoma impugnabilità si riconnette ad una mera facoltà, e giammai ad un onere, del concorrente non aggiudicatario), ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, sicché è inidonea a produrre la definitiva lesione del soggetto non risultato aggiudicatario, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva. CDC



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Inserito in data 25/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE PENALE, SENTENZA 9 aprile 2014, n. 15829

Presunzione di trasferimento fittizio: confisca allargata e misure di prevenzione

La sentenza affronta il tema del sequestro (funzionale alla confisca allargata ex art. 12-sexies d.l. 306/1992) di beni appartenenti ad un terzo. In tal caso, l’accusa è gravata da un duplice onere probatorio.

Anzitutto, deve provare che il bene appartiene di fatto all’indagato, in quanto l’intestazione a favore di un terzo è fittizia. A tal fine, rilevano presunzioni, quali la parentela e la convivenza fra il dante causa e l’avente causa, nonché rapporti di amicizia o di lavoro, la gratuità dell’atto, la circostanza che il soggetto ha continuato ad avere la disponibilità di fatto del bene trasferito a terzi.

Una volta che sia dimostrato che il bene è intestato fittiziamente al terzo, essendo, in realtà, di proprietà dell’indagato, scatta una nuova e diversa fase processuale nella quale l’accusa è gravata della prova vertente sull’esistenza di una sproporzione fra reddito dichiarato o proventi dell’attività economica dell’interessato e valore economico dei beni, nonché sulla mancanza di una giustificazione credibile circa la loro provenienza.

Una volta che i suddetti fatti risultino provati, scatta una presunzione (iuris tantum) di illiceità dei beni appartenenti all’indagato, sicché deve ritenersi ingiustificato un acquisto effettuato in un tempo in cui l’indagato (o il condannato) non aveva adeguate disponibilità economiche.

Queste norme sono diverse da quelle previste dall’art. 26 del d.lgs. 159/2011 per il procedimento di prevenzione. Tale disposizione prevede due presunzioni a favore dell’accusa, che riguardano i trasferimenti a favore di una determinata cerchie di persone (coniuge, parenti e affini) e gli atti a titolo gratuito avvenuti in un determinato arco temporale. Secondo la giurisprudenza, si tratta di norme dettate in un preciso ambito settoriale e non applicabili, in via analogica, nel normale processo penale, proprio perché si tratta di norme speciali.

Peraltro, come si è detto, anche nel processo penale in cui si discute di un sequestro finalizzato alla confisca su beni di un terzo, l’accusa può addurre come prova presuntiva della simulazione sia il rapporto di parentela, sia la gratuità del’atto. Tuttavia, “mentre nel processo penale questi indizi rimangono tali non determinando alcuna inversione dell’onere probatorio (salva, ovviamente, la facoltà del terzo di difendersi allegando e provando il contrario), nel processo di prevenzione fanno automaticamente presumere la fittizi età del trasferimento invertendo, illico et immediate, l’onere probatorio a carico del terzo”. CDC




Inserito in data 24/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 aprile 2014, n. 1998

G.O. sull’escussione di una fideiussione, il cui rapporto garantito ha natura pubblicistica

La Corte regolatrice della giurisdizione, ha avuto modo di chiarire, anche di recente, che è devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario e non a quella del Giudice Amministrativo la controversia avente a oggetto l'escussione, da parte di un Comune, della polizza fideiussoria concessa a garanzia degli impegni assunti nell'ambito di una convenzione urbanistica relativa all'esecuzione di una costruzione edilizia, attesa l'autonomia tra i rapporti in questione e la circostanza che nella specie la P.A. agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri (Cfr. Cassazione civile, sez. un. 06/12/2012 n. 21912)”.

Non vale ad inficiare la validità del principio, la circostanza, evidenziata dagli appellanti in via incidentale, che nel caso di specie si tratterebbe non di un contratto autonomo di garanzia ma di una comune garanzia fideiussoria talchè vi sarebbe una dipendenza del rapporto di garanzia (privatistico) rispetto a quello garantito, quest’ultimo di natura pubblicistica”.

Il collegamento infatti non è riferito al pubblico potere, quanto, piuttosto alle obbligazioni scaturenti dall’accordo amministrativo, come tali involgenti posizioni paritarie di diritto soggettivo, non a caso rimesse alla giurisdizione esclusiva del GA. Le ragioni che hanno consigliato di estendere quest’ultima anche alle controversie relative all’esecuzione dell’accordo, non possono, di per sé sole, giustificare l’ulteriore estensione anche ai rapporti accessori a quelli obbligatori citati. La dilatazione sarebbe troppo ampia e striderebbe con la natura squisitamente privatistica del rapporto di garanzia”.

Del resto, “Le Sezioni Unite, nella loro veste di giudice del riparto, hanno in più occasioni disatteso la tesi dello spostamento della giurisdizione per motivi di connessione”.

D’altro canto, non può essere enfatizzata, per derogare a detto assetto, neanche la finalità “di assicurare la concentrazione delle tutele”, pur richiamata dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69”. Difatti, tale principio di concentrazione delle tutele costituiva uno dei criteri direttivi cui doveva attenersi il legislatore delegato, mentre “non consente di attrarre, in via meramente interpretativa e senza base normativa, nell’ambito della giurisdizione amministrativa controversie relative a diritti soggettivi, pure a prescindere dall’individuazione di una disposizione legislativa fondante un’ipotesi di giurisdizione esclusiva (così, Ad. Plen. n. 6 del 29/01/2014)”. TM



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Inserito in data 24/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 14 aprile 2014, n. 16207

L’induzione del minore alla prostituzione operata dal cliente rileva ex art. 600bis.2 cp

Le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere un contrasto interpretativo, stabilendo “se la condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integri gli estremi della fattispecie di cui al comma primo o di cui al comma secondo dell’art. 600-bis del codice penale”.

In particolare, la più grave ipotesi di cui al primo comma punisce coloro che inducono i minori alla prostituzione, mentre il secondo comma punisce i clienti, ossia i soggetti che compiono atti sessuali col minore dietro pagamento.

Il dubbio ermeneutico si era posto perché, in alcune pronunce si era affermato che la promessa o la dazione di denaro o altra utilità sarebbe di per sé idonea a indurre il minore alla prostituzione, stante il mancato raggiungimento di un pieno livello di maturità e la conseguente impossibilità di compiere scelte davvero consapevoli. Pertanto, il comma secondo troverebbe applicazione solo rispetto al cliente di un minore “corrotto” (già dedito alla prostituzione).

Secondo le Sezioni Unite, invece, “la basilare distinzione fra induttore e cliente deve muoversi fra attività rientranti nell’ambito dell’offerta di prostituzione e attività rientranti nell’ambito della domanda”. Per cui, c’è induzione alla prostituzione quando un soggetto convince il minore a intrattenere rapporti sessuali con terzi, anche identificabili in un solo soggetto, a patto che questo non s’identifichi nell’induttore.

Infatti, dagli stessi lavori preparatori della l. n. 269/98, emerge che solo con l’introduzione del secondo comma dell’art. 600bis c.p. si è inteso incriminare il “cliente”.

Questa ricostruzione non compromette le esigenze di maggior tutela del minore sostenute a livello internazionale: infatti, tali esigenze hanno portato ad incriminare lo stesso pagamento del minore per ottenere una prestazione sessuale, mentre tale condotta non è punita se la prestazione sessuale acquistata è resa da un adulto.

Inoltre, tale interpretazione è conforme al principio di offensività: in effetti, il quadro edittale più rigoroso previsto dal comma primo dell’art. 600-bis c.p. rispetto a quello del primo comma si giustifica solo per condotte più offensive della mera fruizione della prestazione sessuale.

Infine, poiché la giurisprudenza ripudia l’idea di un minore “corrotto”, questa ricostruzione è l’unica che consente di evitare la tacita abrogazione dell’art. 600-bis c. 2°.

Pertanto, “La condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca una persona minore di età ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al comma secondo e non al comma primo dell’art. 600-bis del codice penale”. TM




Inserito in data 23/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 aprile 2014, n. 105

Art. 69 – 4’ co. c.p., come sostituito dall’art. 3 L. 5 dicembre 2005, n. 251: questione di legittimità costituzionale

La Corte Costituzionale, pronunciandosi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 comma 4 c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante dell’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva dell’art. 99 comma 4 c.p.,  ne ha sancito l’illegittimità per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost.

La Suprema Corte, invero, partendo dall’analisi della ratio che ha ispirato la formulazione dell’art. 69 c.p., ed in particolare del comma 4, consistente nella volontà di riequilibrare gli effetti della  penalizzazione, anche attraverso la modifica delle cornici edittali di alcune ipotesi circostanziali, sostanzialmente diverse dai reati base, attraverso la comparazione delle stesse, (v. corte cost. 251/2012), ha analizzato gli effetti che la norma produrrebbe nel caso di specie.

Se è vero, infatti, che sono ammesse delle deroghe al bilanciamento delle circostanza, la cui scelta introduttiva è rimessa al legislatore, queste sono “sindacabili da questa Corte « ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012), ma in ogni caso «non possono giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012)”.

Analizzando la divaricazione tra i livelli minimi di pena si osserva che, sì come accaduto con riferimento all’art. 73 comma 5 del d.p.r. 309/90, si avrebbe un aumento eccessivo rispetto a quello prodotto dall’art. 99 comma 4 c.p.

Inoltre, “le differenti comminatorie edittali del primo e del secondo comma dell’art. 648 c.p. rispecchiano le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore”, ma laddove si applicasse l’art. 69 c.p. i due fatti verrebbero ricondotti nella medesima cornice edittale (con violazione dell’art. 25 cost.).

“La recidiva reiterata, invece, riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, pertanto questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo”.

Inoltre  “la norma censurata, oltre che irragionevole, sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., perché condurrebbe, in determinati casi, ad applicare pene identiche a violazioni di rilievo penale molto diverso”.

Infine, osserva la Corte Costituzionale, la legittimità della previsione di trattamenti differenziati per i recidivi non esclude la possibilità di sottoporre al vaglio di legittimità costituzionale le singole previsioni laddove, come nel caso di specie, il trattamento sanzionatorio conseguente alla loro applicazione appaia sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e, dunque, si ponga in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena sancita a livello costituzionale (v. Corte Cost. 341/1994).

In conclusione è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 69 comma 4 c.p. nella misura in cui, impedendo la prevalenza della circostanza attenuante prevista dall’art. 648 comma 2 c.p. sulla recidiva reiterata, comporta un trattamento sanzionatorio più grave per il soggetto che abbia compiuto un reato oggettivamente più lieve rispetto a colui che, pur avendo posto in essere una condotta maggiormente offensiva per l’ordine sociale, si veda riconosciuta la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. VA



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Inserito in data 23/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 aprile 2014, n. 8965

Decorrenza del termine di prescrizione del danno da occupazione appropriativa

La Corte di Cassazione, a seguito delle numerose condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per il meccanismo di decorrenza della prescrizione concernente le ipotesi di espropriazione indiretta, ha rivisto il proprio orientamento giurisprudenziale.

Con la pronuncia in questione, infatti, a dispetto delle precedenti pronunce nelle quali aveva individuato il dies a quo del decorso del termine prescrizionale nel momento in cui avviene l’irreversibile trasformazione del bene, la Suprema Corta ha affermato che “ai fini del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno da occupazione appropriativa, non è sufficiente la mera consapevolezza di avere subito un’occupazione e/o una manipolazione dell’immobile senza titolo, bensì occorre che il danneggiato si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive per il suo diritto dominicale anche con riferimento alla loro rilevanza giuridica e, quindi, in particolare, al verificarsi dell’effetto estintivo-acquisitivo definitivo perseguito dall’amministrazione espropriante. L’onere di provare la ricorrenza del presupposto richiesto dall’art. 2947 c.c., coincidente con il momento in cui il trasferimento della proprietà con la sua rilevanza giuridica viene percepito o può essere percepito dal proprietario quale danno ingiusto ed irreversibile, grava sull’amministrazione, dovendosi ritenere, in mancanza, che tale momento coincida con quello della citazione introduttiva del giudizio, analogamente a quanto ritenuto dalla Corte europea”.

Invero, a parere del Supremo Consesso, opinando diversamente, rimarrebbe troppo incerta l’esatta individuazione del suddetto momento, quanto meno per gli atti compiuti prima dell’entrata in vigore della l. 458/88, e verebbe leso il principio di effettività della tutela giurisdizionale in quanto si correrebbe il rischio che la proposizione del giudizio risarcitorio possa avvenire successivamente al decorso del termine prescrizionale. A parere della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, anche questo settore necessita di norme di diritto interno che siano accessibili, precise e prevedibili. VA




Inserito in data 22/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 aprile 2014, n. 8957

Vendita con patto di riscatto e divieto di patto commissorio

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che “il divieto del patto commissorio si estende a qualsiasi negozio che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall'ordinamento, dell'illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento di proprietà di un suo bene come conseguenza della mancata estinzione del debito” (cfr. Cass., Sez. II, 20 febbraio 2013, n. 4262; 12 gennaio 2009, n. 437; Cass., Sez. III, 2 febbraio 2006, n. 2285).

In particolare, ai fini dell'operatività del divieto, assume rilievo il profilo funzionale dell'operazione, “nel senso che l'assetto d'interessi risultante dalle pattuizioni intervenute tra le parti dev'essere tale da far ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento del bene al creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, restando invece irrilevanti la natura obbligatoria, traslativa o reale del contratto attraverso il quale si realizza il predetto intento, il momento in cui l'effetto traslativo è destinato a realizzarsi, lo strumento negoziale destinato alla sua attuazione e la stessa identità delle parti che abbiano posto in essere i negozi preordinati al conseguimento del predetto risultato: al di fuori dell'ipotesi tipica contemplata dall'art. 2744 cod. civ., caratterizzata dalla costituzione in garanzia di un bene di cui il creditore è destinato ad acquistare automaticamente la proprietà in caso d'inadempimento, l'operatività del divieto è infatti subordinata alla configurabilità del negozio come mezzo per eludere tale norma imperativa, e quindi all'accertamento di una causa illecita, tale da rendere applicabile la sanzione di cui all'art. 1344 cod. civ. (cfr. Cass., Sez. II, 10 marzo 2011, n. 5740; 5 marzo 2010, n. 5426; 19 maggio 2004, n. 9466).

Ne consegue che “pur non integrando direttamente un patto commissorio, anche la vendita con patto di riscatto o di retrovendita può rappresentare un mezzo per sottrarsi all'applicazione del relativo divieto, ogni qualvolta il versamento del prezzo da parte del compratore non si configuri come corrispettivo dovuto per l'acquisto della proprietà, ma come erogazione di un mutuo, rispetto al quale il trasferimento del bene risponda alla sola finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempia o meno l'obbligo di restituire le somme ricevute” (cfr. Cass., Sez. II, 8 febbraio 2007, n. 2725; 20 luglio 2001, n. 9900; Cass., Sez. I, 4 agosto 2006, n. 17705). EMF




Inserito in data 22/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 18 aprile 2014, n. 104

Illegittima la disciplina regionale sul commercio lesiva della concorrenza

Con la pronuncia in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 2, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5.

In particolare, l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013, inserendo l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, “conferisce alla Giunta regionale un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi”.

L’attribuzione di tale potere alla Regione incide sulla materia della «tutela della concorrenza» spettante, ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del legislatore statale.

Pertanto, “il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio” non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della competenza statale in materia di concorrenza, costituendo quest’ultima “un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza” (C. Cost., sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).

Tale declaratoria di illegittimità costituzionale si riverbera anche sull’art. 7 della L. reg. n. 5 del 2013, che “fa dipendere il rilascio dell’autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti dalla Giunta regionale”.

E’, altresì, illegittimo l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, che, “pur eliminando i vincoli alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio su area pubblica”.

La disposizione, infatti, ripropone “limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.”.

L’articolo 11 della L. Reg. summenzionata, invece, inserendo nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il comma 2-bis, introduce un divieto assoluto tanto all’apertura quanto al trasferimento delle grandi strutture di vendita nei centri storici.  Tale divieto, incidendo direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato, “si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita” (sentenza n. 38 del 2013); con la conseguenza che esso deve essere subordinato al “rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione” (parere reso dall’Autorità garante della concorrenza in data 11 dicembre 2013, sull’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011).  

La Corte Costituzionale dichiara, altresì, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 L. Reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 per violazione dell’art. 25 Cost., “il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato” (C. Cost. n. 196 del 2010).

Più in generale, la Consulta ha affermato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sugli artt. 6 e 7 della CEDU si ricava “il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto” (C. Cost. n. 196 del 2010). EMF



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Inserito in data 19/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 aprile 2014, n. 99

Infondatezza della questione di legittimità costituzionale art. 5, c. 5 d.l. n. 78/2010

La Corte Costituzionale ritorna sull'infondatezza della questione di legittimità dell'art. 5, comma 5, del d.l. n. 78/2010 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122.

Il decreto in oggetto, ha introdotto il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle Pubbliche Amministrazioni ai titolari di cariche elettive inclusa la partecipazione ad organi collegiali
Specificamente, l'art. 5, comma 5, del d.l. n. 78 del 2010, prevede che, “Ferme le incompatibilità previste dalla normativa vigente, nei confronti dei titolari di cariche elettive, lo svolgimento di qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni di cui al c. 3 dell'art. 1 della l. 31 dicembre 2009, n. 196” –  ovvero dalle Amministrazioni inserite nel conto economico consolidato – “inclusa la partecipazione a organi collegiali di qualsiasi tipo, può dar luogo esclusivamente al rimborso delle spese sostenute”; e continua prevedendo che “eventuali gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta”.

La norma ivi in questione, è già stata espressamente qualificata, con sentenza n. 151 del 2012 della Corte Costituzionale, come principio fondamentale di “coordinamento della finanza pubblica”, riconducibile alla competenza legislativa dello Stato, ai sensi dell'art. 117, comma 3, della Costituzione.

Si afferma, altresì, che “il comma denunciato introduce il principio di gratuità di tutti gli incarichi conferiti dalle indicate pubbliche amministrazioni ai titolari di cariche elettive (inclusa la partecipazione ad organi collegiali di qualsiasi tipo), in forza del quale i soggetti che svolgono detti incarichi hanno diritto esclusivamente al rimborso delle spese sostenute”.

Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, a tale principio risponde anche la previsione che gli “eventuali gettoni di presenza non possono superare l'importo di 30 euro a seduta”.

Dalla qualificazione della norma censurata come principio fondamentale di “coordinamento della finanza pubblica”, segue, dunque, l'infondatezza delle censure prospettate in riferimento agli art. 117, comma 3, e 119 della Costituzione. GMC



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Inserito in data 19/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 aprile 2014, n. 1828

In merito alla delibera di istituzione di nuove farmacie ex art. 11 del D.L. n. 1/2012

Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con sentenza n. 6615 del 19 giugno 2013, ha accolto il ricorso proposto dai due titolari di farmacie in Roma avverso la deliberazione della Giunta comunale di Roma n. 157 del 30 maggio 2012, recante revisione straordinaria per il 2012 della pianta organica delle farmacie di Roma Capitale con l’istituzione di 119 nuove sedi farmaceutiche, ai sensi dell’art. 11 del D.L. n. 1/2012 convertito in legge n. 27/2012, e in particolare delle nuove farmacie nn. 758 e 760.

In primo grado, Il T.A.R. ha dapprima disatteso la eccezione di incostituzionalità di quella normativa che ha attribuito ai Comuni, e non più alle Regioni, il compito di individuare, sentiti l’A.S.L. e l’Ordine provinciale dei farmacisti, le nuove sedi farmaceutiche in base al nuovo parametro di una ogni 3.300 abitanti residenti (anziché 4.000, come in precedenza) sulla base dei dati I.S.T.A.T. al 31 dicembre 2010, non ritenendo sussistente nel caso in esame alcun concreto conflitto di interesse con la posizione imprenditoriale dei Comuni, titolari di farmacie comunali, e comunque irrilevante ai fini del decidere il caso all’esame.

Ha quindi ritenuto fondata la censura di incompetenza della Giunta Comunale in materia, ritenendo che l’atto di istituzione e localizzazione di nuove farmacie costituisce esercizio di un potere del Comune di tipo “programmatico”, con riflessi sulla pianificazione e organizzazione del servizio farmaceutico nel territorio comunale

Il Consiglio di Stato afferma che non può non uniformarsi all’ormai prevalente orientamento espresso in particolare proprio nelle ultime pronunce (da ultimo, n. 4669/2013 e la n. 4257/2013), che individua invece nella Giunta l’organo comunale deputato all’adozione del provvedimento de quo.

Il Consiglio precisa che: “Dagli atti depositati, emerge che il Comune ha operato in corretta applicazione della nuova normativa, espletando la prescritta istruttoria con l’acquisizione dei pareri favorevoli dell’A.S.L. e dell’Ordine provinciale dei Farmacisti – che ha notoriamente la funzione di tutelare i propri iscritti quindi di interessi legittimi ma particolari assicurata proprio con la partecipazione al procedimento – nonché dei dati necessari per l’istituzione e l’ubicazione delle nuove farmacie, comprese quelle qui in contestazione, tenendo conto della specificità e delle caratteristiche del servizio pubblico da erogare e delle diverse aree del territorio comunale.

Il Comune ha in proposito esercitato un’attività tecnico-discrezionale allo stesso spettante con scelte insindacabili in quanto immuni da manifesta irrazionalità o illogicità.

A ben vedere, dunque, è la Giunta comunale ad esser competente ad adottare la delibera di istituzione di nuove farmacie, alla luce dell'art. 11 (Potenziamento del servizio di distribuzione farmaceutica, accesso alla titolarità delle farmacie, modifica alla disciplina delle somministrazione dei farmaci) del Decreto Legge n. 1/2012 cui s'è fatto riferimento. GMC

 



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Inserito in data 18/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 11 aprile 2014, n. 8510

Conversione della domanda di adempimento in risoluzione e risarcimento del danno

La questione affrontata dalle Sezioni Unite con la sentenza in esame è se il contraente fedele possa introdurre nel corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al mutamento, consentito dall’art. 1453, secondo comma, cc, della originaria domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto.

Le Sezioni Unite accolgono l’orientamento estensivo, per le seguenti ragioni.

Anzitutto, secondo un argomento letterale, il secondo comma dell’art. 1453 cc nel fare “salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”, configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l’azione risarcitoria. Dunque, non esclude che, in occasione dell’esercizio dello ius variandi, vi si affianchino pretese che hanno funzione complementare rispetto al rimedio base.

Nello stesso senso depone l’interpretazione sistematica. Infatti, quando domanda la risoluzione, il contraente deluso ha interesse non solo allo scioglimento del vincolo, ma anche alla restituzione della propria prestazione e alla riparazione del pregiudizio sofferto. Precludere a chi abbia chiesto prima l’adempimento e poi la risoluzione di ottenere la tutela complementare restitutoria e risarcitoria vanificherebbe le finalità di concentrazione della tutela. Infatti, la vittima dell’inadempimento sarebbe costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo per ottenere restituzione e risarcimento del danno.

A ciò non sono di ostacolo né la circostanza che l’art. 1453, secondo comma, cc dovrebbe formare oggetto di stretta interpretazione, in quanto deroga al generale divieto di nova (che non consente l’ampliamento successivo del thema decidendum) né il fatto che la pretesa risarcitoria sia non solo nuova per petitum e causa petendi, ma anche non consequenziale a quella di risoluzione del contratto. Infatti, già nel passaggio, consentito dal codice, dall’adempimento dalla risoluzione l’indagine si allarga, dovendo essere diretta all’acquisizione di dati ulteriori (in particolare, la gravità dell’inadempimento). Ed inoltre, anche la tutela restitutoria (sicuramente consentita) può esigere l’acquisizione di dati che non sono disponibili nel giudizio.

Pertanto, secondo il principio di diritto affermato, “la parte che, ai sensi dell’art. 1453, secondo comma, cc, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l’adempimento, può domandare, contestualmente all’esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale”. CDC




Inserito in data 18/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2014, n. 1946

Giudicato di annullamento e sopravvenienze normative o di fatto

La sentenza riguarda il tema, già affrontato dalle Sezioni Unite della Cassazione in sede di ricorso per eccesso di potere giurisdizionale del giudice amministrativo in sede di ottemperanza, dell’attuazione di un giudicato di annullamento di una procedura per il conferimento di un incarico direttivo, nel corso del cui giudizio l’istante sia stato collocato in quiescenza.

In questi casi, la rinnovazione dell’attività amministrativa è inevitabilmente sottoposta alle sopravvenienze normative o di fatto, di cui il giudicato non ha potuto tenere conto. Dunque, il vincolo conformativo del giudicato può operare solo se e fino a quando l'incarico sia ancora conferibile e la procedura sia ancora espletabile. Al contrario, ogni ulteriore statuizione del giudice dell’ottemperanza eccede i limiti esterni del potere giurisdizionale.

Pertanto, in tali ipotesi deve essere dichiarata l’improcedibilità dell’appello, perché una eventuale nuova procedura concorsuale sarebbe priva di qualsiasi utilità per il ricorrente, in quanto, a causa del collocamento in quiescenza, non potrebbe più coltivare la pretesa ad una progressione di carriera. CDC



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Inserito in data 17/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2014, n. 1862

Non è legittimato all’opposizione di terzo il titolare di una posizione secondaria

I giudici di Palazzo Spada si soffermano sui presupposti che legittimano a proporre l’opposizione di terzo ordinaria, ai sensi dell’art. 108, c. 1, c.p.a.

1) In primis, deve trattarsi di soggetti che non hanno partecipato al giudizio conclusosi con la sentenza che s’intende opporre.

2) In secundis, tali soggetti devono subire un pregiudizio ad una loro situazione giuridica dalla sentenza.

a) Secondo la giurisprudenza tradizionale, la legittimazione all’opposizione di terzo spetta al controinteressato pretermesso (soggetto cui non è stato notificato il ricorso di primo grado), ossia ad un “soggetto titolare di un interesse alla conservazione dell’atto o alla mancata adozione dell’atto, che il ricorrente intende superare, individuato nell’atto stesso o facilmente individuabile (come chiarito da Cons. St., Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2)”: infatti, in questo caso, il pregiudizio è insito nella sua stessa condizione processuale.

Con la pronuncia n. 2/07, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha individuato altre tipologie di controinteressato:

b) il controinteressato sopravvenuto;

c) il controinteressato sostanziale ma non facilmente individuabile dalla lettura dell’atto impugnato;

d) il controinteressato occulto, ossia “colui che abbia conseguito un titolo abilitativo, un beneficio o uno status da un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato”.

In quest’ultima ipotesi, il pregiudizio non è in re ipsa: perciò, occorre accertare la titolarità di una posizione giuridica autonoma e incompatibile (requisito eliminato dall’art. 108 c.p.a. al solo fine di circoscrivere alla non integrità del contraddittorio la prova gravante sull’opponente). Ciò implica che: l’interesse fatto valere deve attenere ad una situazione giuridica soggettiva;  “la situazione giuridica in questione deve essere autonoma, ossia non deve essere direttamente incisa dalla sentenza opposta, né deve risultare in posizione di derivazione o dipendenza rispetto a quella oggetto di accertamento giudiziale”; “la situazione giuridica deve essere ‘incompatibile’, nel senso che l’accertamento giudiziale deve aver prodotto la contemporanea esistenza di poteri e facoltà su di un bene della vita che non possono coesistere, sotto forma di convergenza di interessi ovvero di divergenza di interessi”.

Ne consegue che non è legittimato all’opposizione di terzo ex art. 108 c.p.a. il soggetto titolare di una situazione secondaria, accessoria e riflessa (ad esempio, perché ha stipulato un contratto con una delle parti necessarie). TM



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Inserito in data 17/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 aprile 2014, n. 1970

Applicazione pratica dei principi affermati da A.P. 14/11

L’Adunanza Plenaria, con la decisione n. 14/11, ha affermato il principio secondo cui, in presenza di una graduatoria valida ed efficace, la P.A. deve scorrere la graduatoria o, altrimenti, motivare la scelta di indire un nuovo concorso.

Con la pronuncia in epigrafe, si precisa che tale principio non ha efficacia retroattiva: il che non esclude, però, la sindacabilità in concreto delle scelte operate dalle Amministrazioni, pure prima di tale pronuncia (contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado).

Sotto altro profilo, si sottolinea che tale principio presuppone la “corrispondenza fra i posti che l’amministrazione stessa ha esigenza di coprire, e quelli alla cui copertura è preordinata la graduatoria esistente”. Pertanto, esso non trova applicazione ove le due graduatorie non siano omogenee, come nel caso di specie: infatti, “La graduatoria “vecchia” era stata formata all’esito di un concorso articolato per regioni; e più precisamente era destinata alla copertura di posti presso uffici aventi sede in Campania. Il nuovo concorso è stato bandito su scala nazionale, ossia per un certo numero di posti non localizzati in alcuna regione in particolare, e non è detto che uno o più dei vincitori siano destinati a prendere servizio in Campania. Quindi le esigenze cui l’Istituto intende sopperire con il nuovo concorso non si identificano con quelle che, in ipotesi, potrebbero essere soddisfatte mediante l’utilizzazione della graduatoria in cui era inserita l’attuale appellante.”. TM



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Inserito in data 16/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 14 aprile 2014, n. 94

Giurisdizione esclusiva del g.a. su sanzioni della Banca d’Italia, eccesso di delega

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tar Lazio avverso gli artt. 133 comma 1 lett. l); 134 comma 1 lett. c) e 135, comma 1, lettera c), del d. lgs. 104/2010, nonché dell’art. 4, comma 1, numeri 17) e 19), dell’Allegato 4 al medesimo decreto legislativo, nella parte in cui hanno trasferito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative ai provvedimenti sanzionatori di natura pecuniaria adottati dalla Banca d’Italia, per contrasto con l’art. 76 Cost. (eccesso di delega).

Nel pronunciare la parziale illegittimità delle norme in esame la Corte Costituzionale ha fatto riferimento ai principi dalla stessa enunciati nella precedente sentenza 162/2012.

In particolare si osserva che l’art. 44 l. 69/2009, contenendo una delega per il riordino normativo del riparto di giurisdizione, lascia un limitato spazio di discrezionalità al legislatore il quale, nel provvedervi deve comunque tenere in debita considerazione i principi ed i criteri enucleati nella legge delega.

Con riferimento al caso di specie, inoltre, si richiedeva di «adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori» (art. 44 della legge n. 69 del 2009), tra le quali si annovera quella delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, tanto  con riguardo tanto alle sanzioni previste dall’art. 195 del d.lgs. n. 58 del 1998, quanto a quelle previste dall’art. 145 del d.lgs. n. 385 del 1993.

Così non è stato,“pertanto, deve ritenersi che, nel trasferire alla giurisdizione esclusiva, estesa al merito, del giudice amministrativo e alla competenza funzionale inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, le controversie relative ai provvedimenti sanzionatori adottati dalla Banca d’Italia, gli artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c), e 135, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 104 del 2012 abbiano ecceduto i limiti della delega conferita, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost” ed anche “le norme abrogative, direttamente conseguenti alla disciplina ora dichiarata costituzionalmente illegittima, contenute nell’art. 4, comma 1, numeri 17) e 19), dell’Allegato 4 al d.lgs. n. 104 del 2010”. VA



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Inserito in data 16/04/2014
TRIBUNALE CIVILE di GROSSETO, ORDINANZA 9 aprile 2014, n. 544

Trascrivibile in Italia il matrimonio same-sex tra cittadini italiani

Il tribunale di Grosseto si è pronunciato in merito all’annosa questione sul riconoscimento, ed in particolare sulla trascrivibilità, dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso e, più precisamente, tra cittadini italiani dello stesso sesso.

Con l’ordinanza in questione il Tribunale di merito, sovvertendo i precedenti giurisprudenziali delle autorità superiori (in particolare della Corte Costituzionale e della Corte di legittimità), ha ammesso la trascrivibilità nel registro di stato civile del matrimonio tra persone dello stesso sesso celebrato all’estero.

Il carattere innovativo della decisione in commento appare di tutta evidenza: infatti, sebbene negli ultimi anni le unioni tra persone dello stesso sesso abbiano ricevuto riconoscimento sia a livello nazionale, che a livello europeo(v. C. Cass. 4184/12; CgE, Shalk e Lopf c. Austria; C.Cost. 138/2010), si è sempre esclusa la piena equiparabilità delle suddette unioni al matrimonio civile propriamente inteso e, conseguentemente, se ne è esclusa la trascrivibilità nel registro di stato civile sulla base dell’asserita inidoneità delle stesse a produrre effetti nel nostro ordinamento.

Argomentando sulla propria decisione il Giudice di merito ha rilevato che il nostro ordinamento abbia già dato riconoscimento alle unioni same-sex le quali, pertanto, non sono considerate inesistenti né contrarie all’ordine pubblico; che nelle norme di cui agli artt. 84-88 c.c., richiamate dall’art. 27 l. 218/95, non è individuato alcun riferimento al sesso in relazione alle condizioni necessarie per contrarre matrimonio; che il matrimonio in oggetto è produttivo di effetti giuridici nell’ordinamento dello Stato dove è stato celebrato e non è previsto, nel nostro ordinamento alcun ulteriore e diverso impedimento derivante da disposizioni di legge alla trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all’estero secondo le forme previste dalla legge straniera […] non avendo tale trascrizione natura costitutiva ma soltanto certificativa e di pubblicità di un atto già valido”. Sulla base di tali riflessioni ha ordinato all’Ufficiale di Stato civile di trascrivere il matrimonio nei registri di stato civile, peraltro il Procuratore ha già manifestato la volontà di impugnare tale decisione. VA




Inserito in data 15/04/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 10 aprile 2014, n. 3922

Difetto di giurisdizione e spending review - ex D.L. 95/12

In primo luogo, il Collegio romano ritiene fondata l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla difesa di Consip sul presupposto che la proroga e l'incremento di una Convenzione concernente un appalto di servizi integrati “sarebbero avvenute quale effetto diretto della legge, per cui Consip non avrebbe esercitato alcun potere amministrativo o discrezionalità”.

I commi 15 e 16 dell'art. 1 del d.l. 95/2012 – “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini” (cd. spending review) - prevedono, infatti, che la proroga e l'incremento delle Convenzioni avrebbero avuto effetto "a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione stessa, ove questa intervenga prima del 31 dicembre 2012 e fatta salva la facoltà di recesso dell'aggiudicatario".

Pertanto, Consip “ha agito nell’osservanza dei i principi generali, secondo cui solo la legge può determinare modifiche unilaterali ad un rapporto contrattuale, cioè senza il consenso di ambedue le parti, se tale potere non è già attribuito ad una di esse dalla convenzione originaria (cfr. gli articoli 1321, 1372, e 1374 codice civile). Peraltro, anche quando la legge attribuisce tale potere ad una sola delle parti (circostanza che non si è verificata nel caso di specie), la parte che lo esercita fa uso di una posizione giuridica soggettiva di diritto comune”.

In ultimo, il Tar dichiara il proprio difetto di competenza in ordine agli atti con cui quattro diverse amministrazioni regionali hanno aderito alla predetta nota, non sussistendo “alcuna connessione procedimentale o funzionale tale da giustificare un unico processo (v. Cons. Stato, sez. IV, n. 359/2013; Cons. Stato, sez. V, n. 6537/2011)”. EMF



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Inserito in data 15/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 aprile 2014, n. 1630

L’abuso del processo è una species dell’abuso del diritto

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “integra un abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della giurisdizione”.

In particolare, la “sollevazione di detta auto-eccezione in sede di appello, per un verso, integra trasgressione del divieto di venire contrafactum proprium – paralizzabile con l’exceptio doli generalis seu presentis – e, per altro verso, arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell’ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice, in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall’art. 11 c.p.a. (Cons. St., sez. V, 7.2.2012, n. 656)”.

In conclusione, “alla stregua del principio del divieto di abuso del processo, precipitato del più generale divieto di abuso del diritto e della clausola di buona fede, deve considerarsi inammissibile il motivo di impugnazione con il quale il ricorrente contesti la giurisdizione, da lui stesso adita, al fine di ribaltare l’esito negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in palese contrasto con il divieto del venire contra factum proprium e con la regola di correttezza e buona fede prevista dall’art. 1175 c.c. (v., da ultimo, anche Cons. St., sez. VI, 8.2.2013, n. 703)”. EMF



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Inserito in data 14/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2014, n. 1687

Rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione: aspetti valutabili

Il Collegio di Palazzo Spada, confermando quanto statuito dai primi Giudici, ritiene non sufficiente, ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno a favore dell’appellante, il relativo inserimento sociale unitamente alla condizione di incensurato.

Occorre, infatti, che l’istante possegga un reddito minimo tale da consentire il proprio sostentamento, oltre a quello dell’eventuale nucleo familiare; l'insussistenza di tale requisito integra motivo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. 286/98.

I Giudici spiegano, infatti, che l’autosufficienza economica, sia pur minimamente richiesta, consente di evitare l’inserimento nel contesto sociale di soggetti che, altrimenti, finirebbero con il gravare sull’erario e che sarebbero seriamente esposti, peraltro, al rischio di contaminazioni socialmente non auspicabili.

In virtù di simili valutazioni, pertanto, il Collegio ritiene che il rifiuto del permesso di soggiorno sia stato correttamente adottato dalla Questura - sulla base della mancanza di sufficienti mezzi di sussistenza; e che, quindi, l’odierno appello debba essere respinto. CC



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Inserito in data 14/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 aprile 2014, n. 1725

Ricorso per revocazione: inammissibile per errore di giudizio. Confermata A.P. 5/14

La pronuncia in esame ricorda la definizione di errore di fatto revocatorio, confermando l’iter argomentativo seguito dalla Adunanza Plenaria n. 5 dello scorso 24 gennaio.

In particolare, il Collegio statuisce l’inammissibilità dell’odierno ricorso, posto che il vizio lamentato si fonda su un errore di giudizio, e non su una mera svista o abbaglio dei sensi che avrebbe provocato l’errata percezione del contenuto degli atti del giudizio, ritualmente acquisiti ai documenti di causa.

Ciò che può giustificare un ricorso per revocazione è, infatti, soltanto la sussistenza di un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa.

Tanto non ricorre nel caso in esame ove, invece, quel che viene contestato è il percorso valutativo del giudice, intendendo censurarne l’apprezzamento delle risultanze processuali.

Queste ultime, ammonisce il Collegio, afferiscono al procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, che non può essere contestato perché rientrante nelle incombenze di chi giudica.

Infatti, se si desse modo di sindacare la relativa attività ermeneutica ed i canoni adoperati, si finirebbe con il creare un ulteriore grado di giudizio, non contemplato nel nostro ordinamento giuridico e, pertanto, inammissibile. CC



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Inserito in data 13/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 31 marzo 2014, n. 7485

Aumento importo assegno di mantenimento: ne ha diritto il coniuge che abbandona la carriera

Il Collegio di piazza Cavour, tenendo conto delle oggettive difficoltà che attualmente affliggono il mondo del lavoro, riconosce il diritto del coniuge - maggiormente dedito alla famiglia – di ottenere un aumento dell’assegno di mantenimento.

Si tratta, come è chiaro, di una decisione a favore di chi, dedicandosi alla crescita e all’educazione della prole, ha finito con l’abbandonare il proprio percorso professionale.

La Corte, certa della necessità di garantire, dopo la separazione, il medesimo tenore di vita che i coniugi avevano in costanza di matrimonio, evidenzia la necessità di un’adeguata tutela a favore del coniuge economicamente “più esposto”.

Nel compiere una valutazione complessiva e tenendo conto, altresì, delle difficoltà cui possa andare incontro chi, oggi, voglia rientrare nel mercato del lavoro, i Giudici mantengono l’attenzione di sempre a favore della parte più debole, sancendo a suo favore il diritto ad ottenere una maggiorazione della somma abitualmente percepita. CC




Inserito in data 13/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 2 aprile 2014, n. 69

Norma di interpretazione autentica, retroattività e affidamento dei consociati

I Giudici della Consulta, intervenendo in un giudizio in materia pensionistica, tracciano i limiti della retroattività della legge.

Infatti, ricordando come il divieto di retroazione della norma abbia assunto rango costituzionale solo limitatamente all’ambito penalistico, la Corte sottolinea che, per il resto,  tale principio trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e purchè non contrasti con altri valori o interessi costituzionalmente protetti (Cfr. ex plurimis, sentenze n. 257 del 2011, n. 74 del 2008 e n. 234 del 2007).

E’ intuibile, d’altra parte, che l’eventuale retroattività della norma possa trovare un limite nell’affidamento dei consociati e, in particolare, nella speranza – comunemente condivisa – di poter confidare in un ordinamento giuridico certo e garantista.

Tanto non sarebbe consentito ove si rendesse possibile un’applicazione indiscriminatamente retroattiva della norma. Il medesimo auspicio è perseguibile anche in ambito processuale, venuto in evidenza con l’odierno ricorso.

Infatti, il voler conferire portata retroattiva ad una norma introduttiva di termini decadenziali più brevi rispetto a quelli in cui aveva confidato il ricorrente del giudizio a quo, finirebbe con il contrastare con il principio di eguaglianza – ex articolo 3 della Costituzione; oltrechè inficiare il diritto ad un giusto processo, anch’esso costituzionalmente siglato dall’articolo 111.

Del resto, questa Corte ha poi comunque escluso che l’istituto della decadenza tolleri, per sua natura, applicazioni retroattive, non potendo logicamente configurarsi una ipotesi di estinzione del diritto per mancato esercizio da parte del titolare in assenza di una previa determinazione del termine entro il quale il diritto in questione debba essere esercitato (Cfr. sentenza n. 191 del 2005).

Pertanto i Giudici della Consulta, circoscrivendo l’operatività temporale della norma censurata, ribadiscono con fermezza principi di indubbio spessore, quali quelli relativi alla delimitazione della retroattività della norma, in grado di incidere su aspetti dai decisivi riflessi costituzionali. CC

 



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Inserito in data 12/04/2014
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZIONE SECONDA, AFFAIRE GRANDE STEVENS ET AUTRES c. ITALIE del 4 marzo 2014 - Requêtes nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10

Diritto a non subire doppia sanzione per lo stesso fatto

Con la pronuncia in epigrafe, il Collegio di Strasburgo statuisce un principio di indubbio spessore e dai possibili, significativi sviluppi: il divieto di cumulabilità della doppia sanzione.

In particolare, avvalendosi della concezione autonomistica della fattispecie penale, la Corte EDU condanna l’Italia per il fatto di aver punito la medesima circostanza con due distinte sanzioni, una di natura penale e l’altra amministrativa.

A dispetto di quanto ritenuto dallo Stato italiano, certo della natura amministrativa della sanzione irrogata per la ritenuta manipolazione di mercato – oggetto del ricorso - e, conseguentemente, pronto alla possibile applicazione di ulteriori sanzioni di matrice penalistica, i Giudici francesi ravvisano, invece, una fortissima indole sanzionatoria nelle decisioni adottate dai Giudicanti italiani.

La CEDU, infatti, ricorda che non sono “penali” soltanto le sanzioni definite così dalla legge dello Stato, bensì anche quelle che, pur definite “amministrative”, comportino per chi le subisce conseguenze di tale gravità da essere considerate delle vere e proprie “pene”.

Tanto è accaduto nel caso oggetto della sentenza, ove la Corte di Strasburgo ha ritenuto equiparabili ad una pena le sanzioni amministrative comminate ai ricorrenti, a causa dell’elevato importo di denaro da pagare e del fatto che fossero altresì previste delle sanzioni accessorie di carattere interdittivo.

L’Italia, evidentemente, ha oltrepassato l’atteggiamento garantista proprio del Collegio alsaziano e, pertanto, incorre in sanzioni. CC




Inserito in data 12/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 aprile 2014, n. 1740

Revoca programma speciale di protezione: discrezionalità P.A. e spazio del Giudice

La pronuncia è interessante perché evidenzia lo spatium deliberandi del Giudice in sede di valutazione circa il persistere dell’idoneità, in capo al beneficiario, di misure speciali di protezione.

Il Collegio di Palazzo Spada ricorda, infatti, che un simile giudizio è espressione di una valutazione discrezionale dell’Amministrazione e come il Giudice abbia possibilità di verificare se l'esercizio di tale potere valutativo sia stato aderente ai presupposti normativi, ai dati di fatto ed ai criteri di logica e razionalità.

Nel caso di specie, la revoca della misura di sicurezza - disposta dal Giudice di primo grado ed avallata in sede di gravame – era stata statuita a carico di un soggetto autore di una serie di condotte di dubbia compatibilità con il programma di protezione predisposto a suo favore.

Si lamentava a suo carico, infatti, persino un arresto per spaccio di stupefacenti ed il conseguente procedimento penale.

Tali aspetti, pur rappresentando singoli elementi, appaiono comunque assai significativi, a prescindere dalla lieve entità, posto che – sottolineano i Giudici - la natura del reato si collega ai precedenti stili di vita e implica pericolose attività di relazione.

Si riscontrano, pertanto, i presupposti del provvedimento di revoca ai sensi di legge, contestata – invece - dalla difesa dell’appellante e si conferma, quindi, quanto già acclarato in primo grado. CC



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Inserito in data 11/04/2014
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 4 aprile 2014, n. 555

Ancora sul riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo in tema di sovvenzioni pubbliche

Il TAR Calabria pone alla propria attenzione la complessa questione del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche.

In dette materie, pur dopo l'introduzione del Codice del Processo Amministrativo, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere attuato sulla base del generale criterio fondato sulla “natura” della situazione soggettiva azionata. Conseguentemente: a) sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla pubblica amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti, senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid, il quomodo dell'erogazione; b) qualora la vertenza attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall'acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo, poiché, in tal caso, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto e, in quanto tale, tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione; c) viceversa, sarà invece configurabile una situazione soggettiva di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo nel caso in cui la questione riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato, o revocato, per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario. GMC



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Inserito in data 11/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 aprile 2014, n. 1629

Differenziazione dei tributi per lo smaltimento dei rifiuti

Con riferimento alla necessità, per i Comuni, di differenziare i tributi per lo smaltimento dei rifiuti, distinguendoli per tipologie e categorie omogenee, interviene il Consiglio di Stato.

A ben vedere, i Comuni devono differenziare i tributi per lo smaltimento dei rifiuti, distinguendoli per “tipologie e categorie omogenee”.

Pertanto, nel caso ivi esaminato, la mancata equiparazione tra le due categorie – case di cure private e cliniche mediche, e ospedali ed istituti di ricovero – ai fini della tassa sui rifiuti, non appare sorretta da alcuna plausibile ragione e, dunque, per tal motivo, risulta palesemente illogica.

La motivazione del primo giudice risulta immune da censura, poiché, dal provvedimento impugnato non è dato evincere, in alcun modo, la ragione di tale differenziazione tra ospedali ed istituti di ricovero, da un lato, e case di cura, dall'altro, nonostante l'omogeneità di categoria; né tanto meno è possibile desumere palesemente, così come sancisce il richiamato art. 65 del d. lgs. 507/1993, il “rapporto di copertura” del costo prescelto, entro i limiti di legge, mediante la moltiplicazione del costo di smaltimento per unità di superficie imponibile accertata, previsto per l'anno successivo, per uno o più coefficienti di produttività quantitativa e qualitativa di rifiuti. GMC



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Inserito in data 10/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2014, n. 1689

Sindacati nazionali e procedimento di repressione del comportamento antisindacale

La decisione del Consiglio di Stato è interessante, perché ci ricorda le condizioni legittimanti le associazioni sindacali nazionali all’esperimento del ricorso ex art. 28 L. n. 300/70.

1) In primis, l’atto impugnato deve ledere l’interesse collettivo statutariamente protetto. Infatti, “l'associazione sindacale è legittimata ad impugnare atti concernenti singoli iscritti solo in quanto i provvedimenti concretizzino anche una lesione dell'interesse collettivo statutariamente tutelato risolvendosi, altrimenti l'azione, in una non consentita sostituzione processuale con possibilità di realizzare un contrasto potenziale tra i vari iscritti”.

2) E’, inoltre, necessario che le associazioni presentino delle articolazioni locali. Come affermato dal Consiglio di Stato, “possono avvalersi del rimedio di cui all’articolo 28 della legge 300/1970 i sindacati che estendono la sfera di azione sull’intero territorio nazionale purché dimostrino di essere anche presenti localmente a mezzo delle proprie strutture associative periferiche”.

Questo secondo requisito sarà integrato se l’associazione è realmente presente nei luoghi di lavoro in cui si attuano le condotte antisindacali. Come sottolineato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 21.12.2005 n.28269) affinché possa ritenersi sussistente, al di là dei variabili moduli organizzativi, un articolazione locale di una associazione nazionale, questa deve svolgere effettivamente un’azione sindacale per la promozione degli interessi dei lavoratori in favore dei quali si dirige, sul piano locale, l’azione dei singoli organismi territoriali”.

Pertanto, l’esistenza delle articolazioni locali deve, perlomeno, risultare dallo statuto interno (che, invece, nel caso di specie non era stato neppure depositato). TM



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Inserito in data 10/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2014, n. 1691

Un caso d’illegittimità dell’atto impugnato per incostituzionalità della norma base

Con la pronuncia in esame, si è ritenuto che sia affetto da illegittimità derivata e, quindi, annullabile, l’atto amministrativo adottato sulla base di una norma successivamente dichiarata incostituzionale. Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, infatti, “La declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 38 del D.L. n. 269 del 2013, del quale l’atto impugnato costituisce […] mera e vincolata applicazione, comporta anche la caducazione di questo, per l'immediato, diretto e dedotto nesso di illegittimità derivata”.

La declaratoria di illegittimità costituzionale da cui trae spunto la controversia in esame si spiegava perché “la disposizione retroattiva, specie quando determini effetti pregiudizievoli rispetto a diritti soggettivi "perfetti" che trovino la loro base in rapporti di durata di natura contrattuale o convenzionale - pubbliche o private che siano le parti contraenti - deve dunque essere assistita da una "causa" normativa adeguata, intendendosi per tale una funzione della norma che renda "accettabilmente" penalizzata la posizione del titolare del diritto compromesso, attraverso "contropartite" intrinseche allo stesso disegno normativo e che valgano a bilanciare le posizioni delle parti”. “Ciò che non pare affatto essersi realizzato nel caso di specie nemmeno per l'odierno appellante , dal momento che gli interessi dei custodi - assoggettati, ratione temporis, al nuovo e, per i profili denunciati, pregiudizievole, regime di rapporti e di determinazione dei relativi compensi - risultano, secondo quanto ha evidenziato la Corte nella sentenza n. 92/2013, esser stati compromessi in favore della controparte pubblica, senza alcun meccanismo di riequilibrio ed in ragione, esclusivamente, di un risparmio per l'erario, che non può certo assumere connotati irragionevolmente, lato sensu, "espropriativi"”. TM



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Inserito in data 09/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 aprile 2014, n. 1672

Appalti pubblici: colpa della PA e danno da perdita di chance

Come già affermato in giurisprudenza, la vigente normativa europea relativa alle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi non consente che il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da un’amministrazione pubblica che abbia violato le norme sulla disciplina degli appalti sia subordinato al carattere colpevole di tale violazione.

Poco importa che un ordinamento nazionale non faccia gravare sul ricorrente l’onere della prova della colpa dell’Amministrazione, ma la presuma a carico della stessa; infatti, se si consente a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza, si genera ugualmente il rischio che il ricorrente venga comunque privato del diritto di ottenere il risarcimento del danno.

In questo modo si conferisce massima importanza ai principi di equivalenza e di effettività, garantendo in tutto il territorio europeo un’uniforme disciplina degli appalti pubblici. Si assicurano così la partecipazione alle imprese comunitarie alle gare, la libera circolazione dei servizi e, più in generale, la tutela dei principi della massima concorrenza e della non discriminazione.

Inoltre, tale soluzione è coerente con la natura del risarcimento per equivalente, che costituisce “una misura residuale, di norma subordinata all’impossibilità parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo”. In tal modo, infatti, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita, ossia la riedizione della gara o l’aggiudicazione definitiva, “può aspirare alla monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse resa impraticabile o assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di qualsiasi forma di tutela”.

La sentenza affronta poi il tema del danno da perdita di chance, affermando che esso “non si identifica con la perdita di un risultato utile sicuro, ma con il semplice venire meno di un’apprezzabile possibilità di conseguirlo, in particolare per essere stato l’interessato privato della stessa possibilità concreta di aggiudicarsi un appalto”.

Dunque, la risarcibilità della chance non può essere subordinata ad una sua prova rigorosa, essendo invece sufficiente che gli elementi addotti consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la possibilità di vantaggi futuri.

In ogni caso, non può essere riconosciuto il danno concernente le spese sostenute per la partecipazione alla gara annullata, trattandosi di costi che sarebbe stati comunque sostenuti anche in caso di aggiudicazione o di non aggiudicazione, cioè di legittimo esperimento della procedura di gara. CDC

 



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Inserito in data 09/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 aprile 2014, n. 1669

Rapporto tra autotutela amministrativa e giudicato amministrativo

Il rapporto di incidenza fra autotutela amministrativa e giudicato amministrativo non deve essere risolto aprioristicamente, con l'affermazione assoluta della prevalenza del secondo sul primo, ma affidato in concreto al riscontro dell'esatta portata del medesimo giudicato e del bene della vita riconosciuto.

Infatti, “solo ove il giudicato non inibisca l'esercizio dei tratti liberi dell'azione amministrativa, ovvero ne consenta espressamente la riedizione, è inconfigurabile una situazione di inottemperanza ed è pienamente esplicabile il potere di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies della l. 241-90”.

Dunque, quanto agli effetti del giudicato di annullamento, essi vanno determinati sulla base del petitum e della causa petendi: “gli atti annullati sono quelli specificamente individuati nel dispositivo o nella motivazione della sentenza, ovvero (se tale individuazione manchi) quelli impugnati e affetti dai vizi accertati”.

Quanto invece al giudicato di rigetto, deve ritenersi superato l’orientamento assai risalente che tendeva a escludere che sulla sentenza di rigetto potesse formarsi il giudicato sostanziale, sul rilievo che la sentenza non produce effetti modificativi o innovativi rispetto al precedente assetto dei rapporti sostanziali. La tesi opposta, ormai prevalente, appare maggiormente aderente ai principi generali in materia di processo, poiché la sentenza di rigetto contiene un accertamento giudiziale della situazione di fatto e di diritto e su questo accertamento non vi è ragione di negare che si formi il giudicato. Del resto, la sentenza di rigetto deve dare al resistente la stessa utilità che il ricorrente ritrarrebbe dall'accoglimento del ricorso. Sul punto, appare preferibile, secondo la sentenza, ritenere che il giudicato non può che formarsi nei limiti dei motivi posti a fondamento della domanda.

La pronuncia di inammissibilità, invece, non è in alcun modo assimilabile ad una pronuncia di rigetto, in quanto “non ha nessun contenuto di accertamento da cui possano scaturire gli effetti del giudicato”. In particolare, la pronuncia di inammissibilità della censura perché relativa all’ambito della discrezionalità tecnica non contiene né può contenere alcun contenuto di accertamento, anzi, affida esclusivamente ogni valutazione in proposito alla discrezionalità tecnica, che rimane libera di esplicarsi. Dunque, la situazione considerata dall’Amministrazione, proprio perché oggetto di una valutazione tecnico-discrezionale riservata, poteva legittimamente essere eventualmente riconsiderata, nella ricorrenza dei necessari presupposti.

Da ciò deriva che la sentenza passata in giudicato che afferma l’inammissibilità della censura citata non può inibire l'esercizio del potere di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies della l. 241-90, poiché si esplica su un tratto fisiologicamente libero dell'azione amministrativa, attinente al merito insindacabile. CDC



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Inserito in data 08/04/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 7 aprile 2014, n. 1605

Risarcibilità danno sine pregiudiziale e responsabilità per ordinanze emergenziali

Con la sentenza in epigrafe il Consiglio di Stato, dopo aver affrontato in via preliminare il problema dell’ammissibilità o meno del risarcimento del danno anche in assenza di un previo annullamento dell’atto illegittimo, causativo dello stesso, ha preso posizione sull’esatta individuazione dei soggetti responsabili per le ordinanze contingibili e urgenti emesse, in particolare nelle ipotesi in cui vi sia stato un commissariamento.

Nel caso di specie veniva richiesto un risarcimento del danno patito a seguito della occupazione di una cava disposta per lo sversamento dei materiali provenienti da alcuni comuni, coinvolti da eventi alluvionali, in carenza dell’annullamento dell’ordinanza autorizzatoria, così sfuggendo al principio della pregiudiziale amministrativa.

Invero, i fatti in questione si erano verificati in un periodo anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo con cui è stata definitivamente affermata l’autonomia dei due ricorsi.

Il Supremo Consesso, dichiarando l’ammissibilità del ricorso, ha ricordato come sia ormai “pacifico l’orientamento che riconosce anche nell’assetto anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo - che ha espressamente sancito, all’art. 30, in tema di risarcimento del danno da lesione degli interessi legittimi, l'autonomia, sul versante processuale, della domanda di risarcimento rispetto al rimedio impugnatorio – l’assenza di un rapporto di pregiudizialità processuale tra i due rimedi (Cons. St. Ad Pl, 23.3.2011, n. 3)”.

Dopo aver risolto le questioni preliminari i giudici di Palazzo Spada hanno affrontato le problematiche relative al merito, sancendo la responsabilità solidale della regione e dei comuni che, pur nella consapevolezza dell’illegittimità dell’ordinanza, avevano contribuito alla creazione ed al mantenimento dello stato di pericolo, sollevando lo Stato da ogni responsabilità, a dispetto dell’esistenza di un commissariamento.

Nel far ciò ha rilevato come “sia l’omissione di ogni riferimento all’esercizio dei poteri delegati dallo Stato per la gestione commissariale dell’emergenza, sia l’adozione dell’ordinanza facendo uso dei poteri attribuiti al Presidente della Giunta regionale dall’art. 13 d. lgs. n.22 del 1997 inducono ad escludere che la responsabilità dell’atto e, soprattutto, per le conseguenze connesse alla violazione di quanto stabilito dal comma 3 dell’art. 13 (…) possa essere ricondotta all’amministrazione statale che risulta estranea al procedimento in questione. […] Invero, l’attribuzione all’autorità centrale, per esigenze di coordinamento e di unitarietà a livello nazionale nel caso di eventi di natura straordinaria, di poteri generali in materia di protezione civile, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992 , esercitati , d’intesa con le amministrazioni regionali interessate ai sensi dell’art. 107 d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112, anche tramite un’apposita struttura commissariale con a capo il Presidente della Regione nella veste di delegato, non esclude né assorbe l’esercizio di poteri in base all’ordinario assetto di competenze delineato da norme di settore – quale è, in materia di ordinanze contingibili ed urgenzi in materia di rifiuti, l’art. 13 d lgs. n. 22 del 1997 - rientranti nella competenza esclusiva di amministrazioni a diverso livello territoriale, che , ove vi facciano ricorso, rispondono in via esclusiva del proprio operato. VA



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Inserito in data 08/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 2 aprile 2014, n.7694

Esecuzione coattiva dei debiti di gioco: obbligazioni naturali e diritto alla ripetizione

Il Supremo Consesso, con la sentenza in commento, è tornato a pronunciarsi sulla possibilità di esecuzione coattiva di debiti di gioco.

Si ricorda, infatti, che l’art. 1933 c.c.  esclude la possibilità di esperire un’azione per ottenere il pagamento di un debito di gioco o di una scommessa, consentendo esclusivamente al creditore di ritenere quanto volontariamente ricevuto dal debitore riconducendo l’ipotesi in questione all’interno della più ampia categoria delle obbligazioni naturali.

La vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di legittimità ha richiesto un’attenta lettura del fatto sotteso alla domanda. Invero l’appellante asseriva la propria estraneità al debito di gioco, trattandosi di un operatore turistico il quale, adoperandosi nell’organizzazione di trasferte a costo zero presso alcuni casinò che ospitavano gratuitamente i gitanti, con l’unico vincolo della partecipazione al gioco, aveva ottenuto l’assegno a titolo di rimborso per le spese di viaggio affrontate.

Invero, “l'estensione della disciplina prevista dall’art. 1933 c.c. a fattispecie quali dazioni di denaro, di fiches, promesse di mutuo, riconoscimenti di debito, è possibile unicamente allorché tali atti risultino funzionalmente collegati all'attuazione del giuoco o della scommessa, di talché possa ritenersi sussistente un diretto interesse del mutuante a favorire la partecipazione al gioco del mutuatario; con la reciproca e speculare conseguenza che, ove siffatto interesse manchi, per essere il mutuante del tutto estraneo all'uso che il mutuatario fa delle somme erogategli, le cause dei due negozi non hanno tra loro, quel collegamento che solo giustifica la sottoposizione dell'uno alla disciplina dell'altro”.

Tuttavia, la Suprema Corte, avallando la decisione del giudice di secondo grado con la quale si escludeva la possibilità di esperire un’azione di adempimento, ha messo il luce il percorso argomentativo della Corte d’Appello, la quale ha fondato la propria decisione sulla corretta individuazione di un puntuale interesse dell’operatore turistico alla partecipazione al gioco, ciò “in quanto il meccanismo dei rimborsi è indicativo di un coinvolgimento anche economico dell’operatore giratario nell'organizzazione del giuoco, in quanto tale idoneo a fondare, sul piano giuridico, l'applicazione nei suoi confronti del disposto dell'art. 1933 c.c.”. VA




Inserito in data 07/04/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 2 aprile 2014, n. 73

La natura giustiziale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica non è illegittima

Con la sentenza in esame, il Giudice delle Leggi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 8, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione. 

In particolare, deve escludersi che la disposizione censurata dal Giudice a quo, secondo cui il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica «è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa», si riferisca “ad un oggetto estraneo alla delega per il «riassetto della disciplina del processo amministrativo», contenuta nell’art. 44 della legge n. 69 del 2009”. 

Con tale statuizione, infatti, il legislatore ha inteso modificare “la disciplina del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, rendendo vincolante il parere del Consiglio di Stato e consentendo che (in tale sede) vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale”.

Per effetto di queste modifiche, l’istituto non ha più natura “puramente amministrativa”, ma “ha assunto la qualità di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo”.

Peraltro, il ricorso straordinario è “metodo alternativo di risoluzione di conflitti”; con la conseguenza che esso “non può considerarsi al di fuori dell’oggetto della delega sul riassetto del processo amministrativo, la quale include, fra l’altro, il riordino delle norme vigenti «sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni»”.

Operando nel senso suindicato, dunque, il legislatore delegato ha superato “il regime di concorrenza fra tale rimedio amministrativo e il ricorso dinanzi all’autorità giurisdizionale ordinaria”; concorrenza che consentiva al Giudice ordinario di “disapplicare la decisione sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica”.

La norma censurata, infatti, risponde ad una evidente finalità di ricomposizione sistematica, compatibile con la qualificazione di delega di riordino o riassetto normativo propria dell’art. 44 della legge n. 69 del 2009. E', pertanto, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 8, del d.lgs. n. 104 del 2010, come sollevata dal Consiglio di Stato in riferimento al combinato disposto degli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione.  EMF

 

 

 



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Inserito in data 07/04/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SENTENZA 3 aprile 2014, Causa C-301/12

Il SIC inidoneo ad assicurare gli obiettivi della direttiva Habitat va declassato

Con la pronuncia in epigrafe, la Corte di Giustizia prevede che gli articoli 4, paragrafo 1, 9 e 11 della direttiva 92/43/CEE del Consiglio, del 21 maggio del 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche “devono essere interpretate nel senso che le autorità competenti degli Stati membri sono tenute a proporre alla Commissione europea il declassamento di un sito iscritto nell’elenco dei siti di importanza comunitaria, qualora sia stata ad esse presentata, da parte del proprietario di un terreno incluso in tale sito, un’istanza che adduce il degrado ambientale di quest’ultimo, purché tale istanza sia motivata dalla circostanza che, malgrado il rispetto delle disposizioni dell’articolo 6, paragrafi da 2 a 4, di detta direttiva, come modificata, il sito in questione non può definitivamente più contribuire alla conservazione degli habitat naturali nonché della fauna e della flora o alla costituzione della rete Natura 2000”.

D’altra parte, opinare diversamente comporterebbe un’ingiustificata violazione del diritto dominicale.

Per i Giudici del Lussemburgo, inoltre, le norme in esame “non ostano ad una normativa nazionale che attribuisca la competenza a proporre l’adattamento dell’elenco dei siti di importanza comunitaria soltanto agli enti locali territoriali, e non anche – quantomeno in via sostitutiva in caso di inerzia di tali enti- allo Stato, purché detta attribuzione delle competenze garantisca l’applicazione corretta delle prescrizioni della citata direttiva”.

Come ben noto, infatti, le direttive vincolano gli Stati membri al risultato da raggiungere, ma non alle forme ed ai mezzi. EMF

 




Inserito in data 04/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 marzo 2014, n. 1548

Partecipazione alla gara sotto forma di riunioni temporanee

In caso di procedure ristrette o negoziate, le imprese ammesse singolarmente possono partecipare alla gara sotto forma di riunioni temporanee.

In linea generale, è possibile affermare che il raggruppamento di imprese non costituisce un’impresa in senso tecnico e giuridico, bensì è uno strumento temporaneo, occasionale e limitato di cooperazione o di integrazione, messo in opera, di volta in volta, per consentire a più imprese, tra cui una “capogruppo”, di presentare un’offerta unitaria in gare di appalto, alle quali non avrebbero altrimenti potuto partecipare per mancanza di requisiti tecnici e finanziari o per eccessivo rischio, così come il Consiglio di Stato ha più puntualizzato negli anni.

Tali forme di collaborazione, le quali rinvengono, altresì, le proprie radici nelle c.d. joint ventures di matrice anglosassone, quali modelli “superindividuali” di organizzazione economica avanzata, prevedono che le imprese, associandosi tra di loro per la realizzazione di un’operazione comune o di un importante affare, non raggiungibili dalle stesse singolarmente considerate, siano in grado, in tal modo, di accrescere i propri livelli di redditività, incrementare la propria efficienza produttiva e acquisire altro spazio sul mercato limitandone e ripartendone altresì i rischi.

La riunione di imprese, inoltre, non presenta soggettività giuridica unitaria: ciascuna impresa, infatti, nonostante operi all’interno della riunione, si presenta munita della propria esperienza, dei propri mezzi economici, tecnici e finanziari, delle proprie metodologie applicative e di condizioni personali di affidabilità (Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2000, n. 801) e ciò non consente alla stessa di creare un nuovo soggetto giuridico, né una nuova associazione: "…il rapporto di mandato non determina di per sé organizzazione o associazione delle imprese riunite, ognuna delle quali conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali" (si consideri, a tal proposito, l'art. 95, comma 7, del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554).
L'art. 37, c. 12, d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), a tal riguardo prevede che: "In caso di procedure ristrette o negoziate, ovvero di dialogo competitivo, l'operatore economico invitato individualmente, o il candidato ammesso individualmente nella procedura di dialogo competitivo, ha la facoltà di presentare offerta o di trattare per sé o quale mandatario di operatori riuniti".

La norma in oggetto, a ben vedere, vanta una ratio fondamentalmente a favore della concorrenza, tendente ad un più ampio accesso al mercato dei contratti pubblici anche a dei soggetti, i quali, singolarmente considerati, non vanterebbero quei requisiti necessari per risultare aggiudicatari della gara.

A ciò ne consegue, pacificamente, che, nel caso di procedure ristrette o negoziate, le imprese singolarmente ammesse, possono prendere parte alla gara sotto forma di riunioni temporanee.
Specificamente, in tema di appalti pubblici, ai sensi dell'art. 13 c. 5 bis L. 11 febbraio 1994 n. 109, il cui contenuto è stato trasfuso nell'art. 37 D.L.vo 12 aprile 2006 n. 163, il divieto di modificazione della compagine delle Associazioni temporanee di imprese, nella fase procedurale corrente tra la presentazione delle offerte e la definizione della procedura di aggiudicazione, è volto ad impedire l'aggiunta, o la sostituzione, di Imprese partecipanti all'a.t.i., e non anche a precludere il recesso di una o più di esse, a condizione che quelle che restano a farne parte risultino titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione e che ciò avvenga per esigenze organizzative proprie dell'a.t.i. o Consorzio, e non invece per eludere la legge di gara (in particolare, per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente dell'a.t.i. venuto meno per effetto dell'operazione riduttiva).

Pertanto, in assenza di un esplicito divieto contenuto nella lex specialis, stante la riconosciuta possibilità per gli operatori economici invitati di costituire associazioni temporanee di imprese, sarebbe irragionevole ritenere possibile una modificazione soggettiva delle a.t.i. costituende o costituite e non consentire che gli operatori economici invitati possano utilizzare il medesimo strumento. GMC



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Inserito in data 04/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 marzo 2014, n. 1537

Equilibrio tra merito tecnico e convenienza economica delle offerte

L'art. 83, comma 5, del d. lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), demanda alla stazione appaltante l'individuazione del giusto equilibrio fra merito tecnico e convenienza economica delle offerte, stabilendo che : "per attuare la ponderazione o comunque attribuire il punteggio a ciascun elemento dell'offerta le stazioni appaltanti utilizzano metodologie tali da consentire di individuare con un unico parametro finale l'offerta più vantaggiosa".

La norma, prevede espressamente che il bando di gara indichi i criteri di valutazione e precisi, altresì, la ponderazione attribuita a ciascuno di essi, ed in modo altrettanto chiaro prevede che i partecipanti alla gara debbano essere messi nella condizione di conoscere, prima della formulazione dell'offerta, tutti gli elementi che potrebbero incidere sulla determinazione della stessa.

La disposizione è finalizzata a garantire l'esclusione di offerte che, pur convenienti sotto il profilo economico, non siano tecnicamente adeguate e, dunque, idonee ad assicurare uno standard qualitativo minimo.

Si demanda, dunque, alla stazione appaltante l'individuazione del giusto equilibrio fra merito tecnico e convenienza economica delle offerte, e quindi l'articolazione dei punteggi attribuibili in relazione alle diverse voci.

In tal modo, il Legislatore rimette alla stazione appaltante la facoltà di determinare i criteri di valutazione delle offerte, precisando che questi ultimi vadano prefissati nella lex specialis, al fine di consentire, a tutti i partecipanti alla procedura di gara, di prendere, sin dall'inizio, conoscenza di tutti gli elementi che incidono sulla partecipazione, sulla valutazione delle offerte e, dunque, in ultima analisi sull'aggiudicazione.

A ciò, ne consegue che rientra nella discrezionalità della stazione appaltante predeterminare l'incidenza del prezzo in rapporto alla qualità della proposta, nella valutazione dell'offerta.

Il “criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa”, consiste, infatti, nell'individuare un ponderato bilanciamento tra le varie componenti dell'offerta e discende dalla valutazione comparativa di più fattori, previamente e discrezionalmente individuati dalla stazione appaltante.

Tale criterio, prevede, altresì, la definizione dei pesi ponderali da assegnare a ciascun criterio e sub - criterio di valutazione, cioè il livello di utilità per la stazione appaltante connessa a ciascun profilo in cui si scompone l'offerta.

Il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, è basato, sostanzialmente, su un'idoneità tecnica – economica che deve essere rapportata alla natura ed all'importo delle prestazioni oggetto della gara.

La scelta dell'offerta, dunque, non è affidata al mero ribasso del prezzo, bensì coinvolge la valutazione comparativa di altri elementi della prestazione attinenti al termine di esecuzione o di consegna, al merito tecnico, alla qualità, alle caratteristiche estetiche e funzionali, al servizio post vendita, oltrechè all'assistenza tecnica. GMC

 

 



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Inserito in data 03/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 aprile 2014, n. 1572

Chiarimenti sulle condizioni dell’azione di annullamento

La pronuncia in esame è interessante perché chiarisce le condizioni dell’azione di annullamento, richieste a pena d’inammissibilità del ricorso.

Esse devono essere “valutate in astratto con riferimento alla causa petendi della domanda e non secundum eventum litis, devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione”.

Esse “assolvono una funzione di filtro in chiave deflattiva delle domande proposte al giudice, fino ad assumere l’aspetto di un controllo di meritevolezza dell’interesse sostanziale in gioco, alla luce dei valori costituzionali ed internazionali rilevanti, veicolati dalle clausole generali fondamentali sancite dagli artt. 24 e 111 Cost.; tale scrutinio di meritevolezza, costituisce, in quest’ottica, espressione del più ampio divieto di abuso del processo”.

Esse sono:

1) “il c.d. titolo o possibilità giuridica dell’azione - cioè la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero, come altri dice, la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo”; essa difetta quando il ricorrente fa valere un interesse di mero fatto (es. l’interesse a vedere modellata l’organizzazione dei servizi pubblici comunali secondo le proprie aspirazioni socio economiche).

2) “l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (o interesse al ricorso, nel linguaggio corrente del processo amministrativo)”; esso è “scolpito nella sua tradizionale definizione di “bisogno di tutela giurisdizionale”, nel senso che il ricorso al giudice deve presentarsi come indispensabile per porre rimedio allo stato di fatto lesivo; è dunque espressione di economia processuale, manifestando l’esigenza che il ricorso alla giustizia rappresenti extrema ratio; da qui i suoi caratteri essenziali costituiti dalla concretezza ed attualità del danno (anche in termini di probabilità), alla posizione soggettiva di cui si invoca tutela; esso resta logicamente escluso quando sia strumentale alla definizione di questioni correlate a situazioni future e incerte perché meramente ipotetiche”.

3) “la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva/passiva, discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo)”; infatti, “in termini generali trova ingresso nel sistema della giustizia amministrativa anche la tutela del c.d. interesse ad agire strumentale, ma solo in casi eccezionali, se ed in quanto collegato ad una posizione giuridica attiva, protetta dall’ordinamento, la cui soddisfazione sia realizzabile unicamente attraverso il doveroso rinnovo dell’attività amministrativa, dovendosi rifiutare, a questi fini, il riferimento ad una utilità meramente ipotetica o eventuale che richiede per la sua compiuta realizzazione il passaggio attraverso una pluralità di fasi e atti ricadenti nella sfera della più ampia disponibilità dell’Amministrazione”. TM

 



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Inserito in data 03/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 26 marzo 2014, n. 14342

Trattamento sanzionatorio e prescrizionale del falso in liste di candidati

La Cassazione si occupa del caso di un pubblico ufficiale che aveva falsamente autenticato le sottoscrizioni di elettori una lista di candidati.

In passato, condotte siffatte erano sussunte nel reato ex art. 90 del DPR n. 570/60, che era considerato speciale rispetto a quello sanzionato dall’art. 479 c.p. perché inglobava anche le falsità ideologiche degli atti inerenti le operazioni elettorali.

Poi, la L. n. 61/04 aveva previsto per alcune delle condotte precedentemente sanzionate dall’art. 90, tra cui la falsità nell’autenticazione delle liste elettorali, un trattamento più mite, trasformandole da delitti in contravvenzioni punibili con la sola pena dell’ammenda e, perciò, oblazionabili. Tali condotte erano state isolate nel comma 3. La giurisprudenza continuava a ravvisare un rapporto di specialità tra il reato di cui al novellato art. 90 DPR n. 570/60 e l’art. 479 c.p.

Successivamente, la Corte costituzionale (sentenza n. 394/06) ha dichiarato l’incostituzionalità per irragionevolezza della norma riformata nel 2004. Ciò in quanto la L. n. 61/04 aveva determinato un’asimmetria tra il trattamento sanzionatorio riservato alle falsità elettorali e quello previsto in generale dalle norme penali in tema di falso, sebbene i falsi elettorali erano di solito riconducibili pure al delitto di falsità ideologica di pubblico ufficiale in atto pubblico ex art. 479 c.p. (sanzionato con la reclusione da 1 a 6 anni).

A seguito della dichiarazione d’incostituzionalità, secondo la Corte di Cassazione, la condotta di falsificazione delle sottoscrizioni delle liste elettorali andrà ricondotta all’art. 90, c.2, DPR 570/60, come modificato dalla L. n. 61/04. A sostegno di questa conclusione si adducono i seguenti argomenti: il comma 2 era stato validamente modificato dalla L. n. 61/04 e non è stato travolto dalla pronuncia della Corte costituzionale, che ha interessato il comma 3; il rapporto tra il comma 2 e il 3  era di genere a specie, poiché il comma 2 riguardava le falsità commesse genericamente in atti destinati alle operazioni elettorali, il  comma 3 le falsità commesse nelle liste di elettori o di candidati. Pertanto, “La scomparsa di tale ultima disposizione ha dunque determinato la riespansione della previsione del secondo comma dell’art. 90 d.p.R. n. 570/1960 nel testo modificato dalla l. n. 61/2004 (che prevede tra l’altro una fornice edittale di pena compresa tra uno e sei anni di reclusione e non tra due e cinque come nel testo previgente)”.

Infine, la Suprema Corte ribadisce che il reato in esame, in quanto reato elettorale, soggiace al termine di prescrizione ordinario previsto dall’art. 157 c.p.: infatti, il termine di prescrizione biennale di cui all’art. 100 DPR n. 570/60 non si riferisce all’azione penale del pubblico ministero ma riguarda esclusivamente la decadenza della cd. azione popolare, ossia l’azione che qualunque elettore può promuovere costituendosi parte civile con riguardo a qualunque reato previsto dall’indicato Testo Unico. In tal senso depongono i seguenti argomenti: il concetto di “azione penale” deve essere ricostruito nello stesso modo nel primo e nel secondo comma; la peculiarità dell’azione popolare giustifica il termine prescrizionale ridotto, in quanto funzionale ad evitare abusi di parte lesivi delle esigenze di stabilità degli organi eletti; il principio di ragionevole durata del processo impone che il processo duri per il tempo necessario a garantire un adeguato dispiegarsi del contraddittorio e del diritto di difesa; l’applicazione del termine biennale contrasterebbe col principio di uguaglianza, sub specie di ragionevolezza, stante la previsione ex art. 157 c.p. di termini prescrizionali più lunghi per reati di minore gravità. TM




Inserito in data 02/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 marzo 2014, n. 1546

Domanda di concessione in sanatoria e legittimità del precedente ordine di demolizione

La richiesta di concessione in sanatoria di un'opera edilizia non inficia la legittimità dell'ordine di demolizione impartito in precedenza, quando la domanda di sanatoria sia stata poi respinta.

Ciò deriva dal fatto che l’ordine di demolizione è un atto vincolato che poggia sull’atto presupposto che accerta la presenza di un abuso edilizio. Pertanto, l’efficacia dell’ordine di demolizione resta sospesa all’indomani della presentazione della domanda di sanatoria, ma quando la stessa venga respinta, l’ordine di demolizione torna a spiegare i suoi effetti, né l’amministrazione è tenuta ad adottare un ulteriore ordine di demolizione, “poiché la domanda di sanatoria non caduca l’ordine di demolizione, ma ne sospende gli effetti, che ricominciano a decorrere a far data dall’adozione del diniego di sanatoria”. CDC

 



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Inserito in data 02/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 1 aprile 2014, n. 1568

Qualificazione degli atti di ritiro della PA secondo sostanza, ragioni e finalità

Non rileva, ai fini della interpretazione e qualificazione di un atto, il nomen iuris quale, nel caso, quello di “revoca”. Piuttosto, l’atto di ritiro va identificato per la sua sostanza, per le sue ragioni e per le sue finalità.

Pertanto, l’atto in esame deve essere qualificato come atto decadenziale, dal carattere sostanzialmente sanzionatorio, in ragione del contenuto dei fatti di riferimento e dei presupposti istruttori che lo hanno determinato.

Conseguentemente, non trova applicazione l’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, che si riferisce alla revoca in senso proprio: non vi era, infatti, una valutazione discrezionale da compiere circa la persistenza dell’interesse pubblico rispetto alle sopravvenienze, e nessun sopravvenuto interesse pubblico doveva essere identificato ed esternato.

Le violazioni delle prescrizioni hanno legittimamente determinato l'adozione del provvedimento di decadenza che, in quanto atto dovuto, non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto emanato. Restava dunque irrilevante l'eventuale contributo partecipativo degli interessati. CDC



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Inserito in data 01/04/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 27 marzo 2014, n. 14510

Giurisdizione italiana per i reati  di cui agli artt. 416 c.p. e 12 d.lgs. 286/1998

La Corte di cassazione, accogliendo il ricorso del procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania contro l'ordinanza che disponeva l'annullamento dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di un tunisino accusato di aver guidato il gommone nelle acque extraterritoriali, ha affermato che deve riconoscersi la giurisdizione italiana per i reati di traffico di migranti dalle coste africane alla Sicilia, quand’anche questi siano stati abbandonati in mare in acque extraterritoriali su imbarcazioni precarie proprio al fine di precostituire uno stato di necessità e, conseguentemente, rendere necessario l’intervento dei soccorritori perché accompagnino i natanti all’interno delle acque territoriali.

In questo caso, infatti, “lo stato di necessità, è direttamente riconducibile ai trafficanti per averlo provocato e si lega, senza soluzione di continuità, al primo segmento della condotta commessa in acque extraterritoriali, venendo così a ricadere nella previsione dell'art. 6 c.p. L'azione dei soccorritori (che di fatto consente ai migranti di giungere nel nostro territorio) è da ritenere ai sensi dell’art. 54 comma 3 c.p., in termini di azione dell'autore mediato, operante in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro del tutto riconducibile e quindi sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale”.

A sostegno del proprio assunto la Suprema Corte ha rilevato come la condotta che caratterizza la fattispecie di reato in commento, a dispetto dell’interpretazione di quanti operano una ripartizione della stessa in due momenti distinti: il primo, illecito, che si esaurisce in acque extraterritoriali, che ricomprende il trasporto degli immigranti ed il loro abbandono in mare; il secondo, non solo lecito ma anche doveroso ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare (Convenzione di Amburgo del 27.4.1979, ratificata con legge n.147/1989 e relativo regolamento D.P.R. 662/1984, ed art. 98 della Convenzione di Montego Bay), anche una volta avuto contezza dell'illiceità dell'immigrazione, costituente la condotta terminale dell’azione criminosa che consente la realizzazione del fine perseguito, che si svolge in territorio italiano, deve essere intesa in senso unitario.

Invero, affermano i giudici di legittimità, “l'ultimo tratto della condotta altro non rappresenta che un tassello essenziale e pianificato di una concatenazione articolata di atti che non può essere interrotta o spezzata nella sua continuità, per la semplice ragione che l'intervento di soccorso in mare non è un fatto imprevedibile, che possa interrompere la serialità causale, ma è un fatto non solo previsto ma voluto e addirittura provocato[…]La volontà di operare in tale senso anima i trafficanti fin dal momento in cui vengono abbandonate le coste africane in vista dell'approdo in terra siciliana, senza soluzione di continuità, ancorché l'ultimo tratto del viaggio sia apparentemente riportabile all'operazione di soccorso, di fatto artatamente stimolato a seguito della messa in condizione di grave pericolo dei soggetti, strumentalmente sfruttata”.

Parimenti la Suprema Corte ha affermato l’esistenza della giurisdizione dello stato italiano anche con riferimento al reato di associazione a delinquere che può configurarsi in capo ai trafficanti di migranti clandestini operanti sia sul territorio libico che su quello italiano.

L’esistenza della giurisdizione del giudice italiano viene sostenuta attraverso la corretta collocazione del reato in questione all’interno della categoria del “reato transnazionale”, ricadente nell’ambito di applicazione dell’art. 7 n. 5 c.p., in forza dell'art. 15 c. 2 lett. c), che rinvia all'art. 5 paragrafo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite, contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta a Palermo il 12-15.12.2000, ratificata dall'Italia con legge 146 del 2006, inteso come reato commesso da gruppo criminale organizzato che sia commesso in uno stato, ma che ne dispieghi gli effetti in un altro. VA

 




Inserito in data 01/04/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 marzo 2014, n. 1527

Il Giudice dell’ottemperanza non può modificare il giudicato del G.o.

Il Consesso amministrativo, respingendo un ricorso proposto, in sede di ottemperanza da un dipendente dell’Archivio di Stato, al fine di vedersi riconoscere il diritto all’inquadramento nell’area della vice dirigenza, sì come previsto all’art. 17-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (‘Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche’), ha richiamato le caratteristiche ed i limiti del suddetto giudizio.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, ricordano che “quando il giudice amministrativo è chiamato a decidere un’azione di ottemperanza al giudicato derivante da una sentenza emessa da un giudice appartenente ad un ordine giurisdizionale diverso da quello della giurisdizione amministrativa – attualmente, solo il Giudice ordinario -, la giurisdizione in ordine all'attuazione del suo giudicato - pur se estesa al merito - deve limitarsi ad usare i poteri di stretta esecuzione del giudicato, in quanto l'esercizio dei più ampi poteri di attuazione idonei a modificare (sia pure arricchendolo) il giudicato originario verrebbe ad incidere su situazioni soggettive estranee all'ambito della sua giurisdizione (in tal senso –ex plurimis -: Cons. Stato, VI, 26 gennaio 2009, n. 360)”.

[…] “in sede di giudizio di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato, non potendo essere neppure proposte domande che non siano contenute nel decisum della sentenza da eseguire. Le uniche eccezioni a tale principio risultano tassativamente codificate, ora, nell'art. 112, comma 3, c.p.a. (v. CdS, V, 24 gennaio 2013, n. 462; id., V, 16 gennaio 2013, n. 240; id., IV, 17 maggio 2012, n. 2830)”.

Pertanto, avendo il giudice civile escluso la diretta applicabilità dell’art. 17-bis d.lgs. 165/2001 in assenza della contrattazione collettiva richiesta, sì come confermato dall’art. 8 della l. 4 marzo 2009, n. 15, il quale dispone che “l’articolo 17-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che la vicedirigenza è disciplinata esclusivamente ad opera e nell'ambito della contrattazione collettiva nazionale del comparto di riferimento, che ha facoltà di introdurre una specifica previsione costitutiva al riguardo. Il personale in possesso dei requisiti previsti dal predetto articolo può essere destinatario della disciplina della vicedirigenza soltanto a seguito dell'avvenuta costituzione di quest'ultima da parte della contrattazione collettiva nazionale del comparto di riferimento. Sono fatti salvi gli effetti dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge”, correttamente il giudice dell’ottemperanza ha respinto il riconoscimento di ogni forma di ristoro a titolo risarcitorio, essendo il ricorrente titolare esclusivamente di un generico titolo all’inquadramento, privo di alcuna rilevanza giuridica ed economica in attesa di essere riempito dall’intervento della contrattazione collettiva, di fatto mai verificatosi. VA



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Inserito in data 31/03/2014
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 27 marzo 2014, n. 171

Sul conferimento di incarichi di collaborazione ex art. 7, co. 6 bis, D. Lgs. 165/2001

Secondo la giurisprudenza prevalente è pacifico “che, una volta che sia stata bandita una selezione pubblica al fine del conferimento di un incarico, sussiste il dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento così aperto, a meno che non ricorra all’adozione di provvedimenti di revoca o di annullamento di ufficio dell’avviso stesso, nei limiti in cui ciò sia consentito dall’ordinamento” (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4554/2011).

La P.A., quindi, in assenza di novità legislative, non può lasciare pendente la selezione e conferire l’incarico ad uno dei concorrenti, “privilegiando la circostanza che questi si era offerto di svolgere il servizio a titolo assolutamente gratuito”.  Tale decisione, infatti, oltre a fondarsi su ”un criterio mai esplicitato dall’amministrazione”, prescinde dal “giudizio della commissione” incaricata di valutare comparativamente le posizioni dei candidati (ex art. 7, comma 6 bis, D. Lgs. 165/2001) e preclude a questi ultimi “la possibilità di sindacare in sede giurisdizionale le ragioni dell’annullamento”. 

In conclusione, tanto basta al Collegio per ritenere integrato in capo all’Amministrazione il vizio di eccesso di potere. EMF



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Inserito in data 31/03/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, QUARTA SEZIONE - SENTENZA 27 marzo 2014, Causa C-565/12

Obbligo precontrattuale del creditore di valutare la solvibilità del debitore

Per la Corte del Lussemburgo “l’articolo 23 della direttiva 2008/48 deve essere interpretato nel senso che esso osta all’applicazione di un regime nazionale di sanzioni in forza del quale, in caso di violazione, da parte del creditore, del suo obbligo precontrattuale di valutare la solvibilità del debitore consultando una banca dati pertinente, il creditore decada dal suo diritto agli interessi convenzionali, ma benefici di pieno diritto degli interessi al tasso legale, esigibili a decorrere dalla pronuncia di una decisione giudiziaria che condanna tale debitore al versamento delle somme ancora dovute, i quali sono inoltre maggiorati di cinque punti se, alla scadenza di un termine di due mesi successivi a tale pronuncia, quest’ultimo non ha saldato il suo debito, qualora il giudice del rinvio accerti che, in un caso come quello del procedimento principale, che implica l’esigibilità immediata del capitale del prestito ancora dovuto a causa dell’inadempimento del debitore, gli importi che possono essere effettivamente riscossi dal creditore in seguito all’applicazione della sanzione della decadenza dagli interessi non sono notevolmente inferiori a quelli di cui avrebbe potuto beneficiare se avesse ottemperato al suo obbligo di verifica della solvibilità del debitore”.

L’obbligo precontrattuale del creditore di valutare la solvibilità del debitore, infatti, è finalizzato “a tutelare i consumatori contro i rischi di sovraindebitamento e di insolvenza” e “contribuisce alla realizzazione dell’obiettivo della direttiva 2008/48 che consiste, come emerge dai considerando 7 e 9 della medesima, nel prevedere, in materia di credito ai consumatori, un’armonizzazione completa ed imperativa in una serie di settori fondamentali, la quale viene ritenuta necessaria per garantire a tutti i consumatori dell’Unione un livello elevato ed equivalente di tutela dei loro interessi e per facilitare il sorgere di un efficiente mercato interno del credito al consumo”. EMF




Inserito in data 30/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 marzo 2014, n. 1490

Art. 39 RD n. 773/31 (TULPS) per la detenzione delle armi: è misura cautelare

La pronuncia in esame sottolinea la natura preventiva – cautelare della misura di cui all’articolo 39 del R.D.  n. 773/31 (TULPS) che - al 1’ comma - dà facoltà al Prefetto di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti alle persone ritenute capaci di abusarne.

Nel dettaglio, l’appellante contestava un’istruttoria sommaria e – come tale – presuntivamente inidonea a fondare l’intervento prefettizio di revoca del porto d’armi, emesso a proprio carico a seguito di una denuncia per minacce da parte del coniuge separato.

Il venir meno di un giudizio di affidabilità, ad avviso del ricorrente, sarebbe un’espressione troppo contingente e suscettibile di svariate sfumature; quindi, non del tutto condivisibile.

I Giudici amministrativi, invece, sottolineando l’indole preventiva del provvedimento contestato, ricordano, a dispetto di tale doglianza, come la sommarietà di un simile giudizio non sia affatto sindacabile.

Si tratta, infatti, di una valutazione ampliamente discrezionale e, come tale, suscettibile di censura solo in caso di evidente mancanza di arbitrio e di ragionevolezza. Posto che simili carenze non sono ravvisabili nella vicenda in oggetto, si comprende il rigetto del mezzo di gravame. CC

 

 




Inserito in data 30/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 marzo 2014, n. 1495

Diniego rinnovo permesso di soggiorno: da valutare aspetti eventualmente sopravvenuti

Il Collegio di Palazzo Spada evidenzia, in merito al provvedimento di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, la natura di atto non vincolato agli accadimenti presenti al momento della relativa istanza.

Occorre, infatti, che la P.A. valuti aspetti nuovi, eventualmente sopravvenuti, rispetto ai quali l'interessato sia in grado di fornire in sede procedimentale opportuni chiarimenti.

Ciò è avvalorato dall’art. 5, comma 5, del d. lgs. 23 luglio 1998, n. 286, che attribuisce rilevanza alla mancanza dei requisiti richiesti per l'ingresso e il soggiorno sempre che non siano sopraggiunti, rispetto al momento di presentazione della domanda, nuovi elementi adeguatamente rappresentati, che consentano il rilascio del titolo.

Tanto non è accaduto nella fattispecie in esame, in cui la Questura decideva di negare il permesso sulla base di una presunta assenza dell’istante, dal territorio nazionale, proprio nel momento in cui questi iniziava a presentare richieste di soggiorno. Non veniva dato alcun pregio, invece, alle circostanze attuali, sopravvenute, quale l’esistenza di un contratto di lavoro subordinato, presuntivamente adeguato a consentire all’interessato la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti.

Il diniego, dunque, appare contestabile e, pertanto, meritano accoglimento le censure sollevate dall’odierno appellante. CC

 

 



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Inserito in data 29/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 marzo 2014, n. 1365

Sull'istituto del project financing

Il project financing, ossia la realizzazione di opere pubbliche senza oneri finanziari per la Pubblica Amministrazione, rappresenta un modello per il finanziamento e la realizzazione di opere pubbliche del tutto nuovo nella disciplina di settore.

L'obiettivo primario di tale istituto, è quello di rimediare alla scarsità di fondi pubblici e, soprattutto, al gap infrastrutturale che separa l’Italia dagli altri Paesi maggiormente industrializzati.

Diffuso da tempo nei paesi di Common Law, il project financing si configura, fondamentalmente, come una complessa operazione economico – finanziaria, rivolta ad un investimento specifico ai fini della realizzazione di un’opera e/o la gestione di un servizio, su iniziativa di promotori privati o pubblici.

La dottrina lo ha, specificamente, definito come “un’operazione di finanziamento di una particolare unità economica, nella quale un finanziatore è soddisfatto di considerare, sin dallo stadio iniziale, il flusso di cassa e gli utili dell’unità economica in oggetto come la sorgente di fondi che consentirà il rimborso del prestito e le attività dell’unità economica come garanzia collaterale del prestito”.

Specificamente, in materia di finanza di progetto, la procedura di scelta del promotore mostra dei caratteri peculiari, poiché è volta alla ricerca non solo di un “contraente” bensì di una “proposta”, che integri l'individuazione e la specificazione dell'interesse pubblico.

Il Legislatore, nel disciplinare tale istituto, ha distinto le varie fasi in cui si articola il complesso procedimento di cui trattasi.

A tal proposito, è la legge a prevedere, in particolare, che in seguito alla presentazione di una proposta da parte dei soggetti cui è riconosciuta detta facoltà, l'Amministrazione debba operare una valutazione della medesima a sua volta propedeutica all'indizione delle procedure di gara per l'aggiudicazione della concessione.
La fase di valutazione della proposta era, nel caso di specie, disciplinata dall'art. 37-ter della l. n. 109/1994, che, nella formulazione allora vigente, prevedeva che “entro il 31 ottobre di ogni anno la amministrazioni aggiudicatrici valutano la fattibilità delle proposte presentate ... verificano la assenza di elementi ostativi alla loro realizzazione e, esaminate le proposte stesse anche comparativamente, sentiti i promotori che ne facciano richiesta, provvedono ad individuare quelle che ritengono di pubblico interesse”.

Dunque, successivamente alla verifica della fattibilità del progetto e dell'assenza di elementi ostativi alla realizzazione dell'opera, doveva necessariamente seguire la individuazione della proposta di pubblico interesse e, solo a seguito di tale individuazione, le Amministrazioni avrebbero potuto procedere alla indizione della gara di cui all'art. 37-quater, co. 1, lett. a), della l.n. 109/1994, nonché alla successiva aggiudicazione della concessione mediante una procedura negoziata.

Quanto allo svolgimento, tale procedura, doveva svolgersi tra il soggetto che avesse presentato la proposta progettuale iniziale (c.d. “promotore”) ed i soggetti presentatori delle due migliori offerte della gara in precedenza indetta.

Anche nella vigenza della precedente disciplina, di cui agli art. 37-bis, ter e quater della cit. l. n. 109/1994, l'Amministrazione, dopo aver individuato il promotore, e ritenuto di pubblico interesse il progetto da questo presentato (dichiarazione, nel caso in oggetto, non intervenuta), non era tenuta a dare corso alla procedura di gara, essendo, infatti, assolutamente libera di scegliere, mediante valutazioni attinenti al merito amministrativo e non sindacabili in sede giurisdizionale, se, per la tutela dell'interesse pubblico, fosse più opportuno affidare il progetto per la sua esecuzione,  rinviare la sua realizzazione o non procedere affatto.
L'Amministrazione, inoltre, è, altresì, titolare del potere, riconosciuto dall'art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, di revocare, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo quando ciò avvenga prima del consolidarsi delle posizioni delle parti.

Per completezza, occorre segnalare che l’utilizzo del project financing, nel nostro ordinamento giuridico, è in costante crescita ed espansione.

Con riguardo alle discipline concernenti l'istituto in oggetto, a quella già prevista dagli artt.37 bis e seguenti della Legge quadro, hanno fatto seguito ulteriori interventi legislativi volti ad ampliarne sempre più la portata ed a cui giova far un breve riferimento.

La legge 24 novembre 2000 n. 340, all’art. 21, ha previsto l’utilizzo del Project financing anche con riferimento alla realizzazione “di nuove infrastrutture viarie di interesse nazionale per le quali sono utilizzabili sistemi di pedaggiamento”.

Allo stesso modo, la Legge 443 del 2001, la c.d. Legge obiettivo, ha conferito al Governo la delega per l’emanazione di uno o più decreti legislativi concernenti, tra l’altro (art. 1, comma 2, lett. a), ma cfr. anche lett. c), “la disciplina della tecnica di finanza di progetto per finanziare e realizzare, con il concorso del capitale privato”, le infrastrutture pubbliche e gli insediamenti strategici e di preminente interesse nazionale.

Sempre al fine di promuovere l’utilizzo del Project financing, l’art. 7 della L. 17 maggio 1999, n. 144 ha previsto, nell’ambito del CIPE, l’istituzione dell’Unità tecnica-finanza di progetto. Quest'ultimo è un organo composto da 15 unità, di estrazione marcatamente tecnica, investito del compito di promuovere, all’interno delle Pubbliche Amministrazioni, l’utilizzo di tecniche di finanziamento di infrastrutture mediante il ricorso a capitali privati. GMC



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Inserito in data 29/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 marzo 2014, n. 1344

Annullamento della procedura espropriativa e giudizio di ottemperanza

La vicenda sottoposta ai Giudici di Palazzo Spada coinvolge i profili della cognizione e dell’ottemperanza.

Gli appellanti erano proprietari di un’area nel centro urbano di Bari, tipizzato dalla variante al P.R.G., approvata con D.P.G.R. n. 1475 datato 8 luglio 1976, per la maggior parte a “verde pubblico – verde di quartiere” e in parte minima a viabilità.

Con decreto dirigenziale n. 54 del 7 ottobre 2002 veniva disposta l’occupazione d’urgenza dell’area in parola per la dichiarata realizzazione di un piazzale alberato.

Avverso tale decreto gli interessati proponevano gravame, lamentando che lo scopo effettivo della procedura avviata fosse la realizzazione di una struttura funzionale all’ubicazione del mercato settimanale, incompatibile con la destinazione a verde dell’area in questione; e che in ogni caso tale destinazione dovesse ritenersi caducata per effetto del decorso del termine di cui all’art. 2 della legge n. 1187/68.

Il T.A.R. della Puglia, sezione III, con sentenza n. 1630 del 16 marzo 2004, confermata poi con decisione 25 maggio 2005 n. 2718, rigettava il ricorso ritenendo tra l’altro che fosse ancora efficace la destinazione a verde in quanto vincolo conformativo e che alla destinazione stessa fosse conforme la realizzazione di un piazzale alberato. Successivamente, non ancora pronunziata la definitiva espropriazione, l’Amministrazione comunale disponeva il trasferimento del mercato settimanale sull’area con determinazioni gravate dagli interessati con il ricorso n. 234/2005, con cui chiedevano l’annullamento degli atti impugnati e la conseguente restituzione dell’immobile; in subordine, il risarcimento dei danni.

Emanato il decreto di esproprio (n. 364 del 24 aprile 2007), a firma del dirigente della ripartizione lavori pubblici, i ricorrenti proponevano l’ulteriore ricorso, chiedendo altresì il risarcimento dei danni conseguenti all’illegittima trasformazione dell’area.

Con lo stesso ricorso, lamentavano anche l’occupazione e la trasformazione di una porzione di suolo pari a mq 1.426, rinvenenti dal frazionamento delle particelle nn. 177 e 72, che sarebbero state oggetto di occupazione e non invece del decreto di esproprio stesso, conseguentemente formulando richiesta di restituzione dell’area in parte qua.

Con la sentenza 10 luglio 2009 n. 1421, il T.A.R. rigettava il ricorso (con riferimento sia alla domanda di annullamento sia alla conseguente richiesta risarcitoria) dichiarando in parte inammissibile per carenza di interesse il ricorso n. 234/2005, non potendo i ricorrenti ottenere dall’annullamento delle relative delibere alcun’utilità, stanti i giudizi a loro sfavorevoli sugli atti presupposti.

Quanto invece alla richiesta di restituzione della porzione di suolo che gli istanti ricorrenti assumevano non ricompresa nel provvedimento finale di esproprio, ma effettivamente occupata e trasformata, il T.A.R. ordinava al Comune di fornire chiarimenti in ordine all’effettiva trasformazione in strada delle particelle non ricomprese nel decreto di esproprio e rinvenenti dal frazionamento delle originarie particelle nn. 72 e 177.

All’esito dell’istruttoria, il primo giudice, con sentenza 25 novembre 2009 n. 2908, accertava, tramite la determinazione prot. n. 192950 del 30 luglio 2009, a firma del direttore della ripartizione edilizia pubblica e lavori pubblici, che in effetti le predette particelle erano state interamente interessate e trasformate dal progetto di realizzazione del piazzale alberato e della viabilità di via Salvemini e via Sorrentino.

Il Comune rappresentava inoltre l’inopportunità della loro restituzione, vista la l’utilizzazione per scopi d’interesse pubblico.

Il T.A.R. quindi, facendo applicazione dall’art. 43, comma terzo, del D.P.R. n. 327/2001 (nella formulazione allora vigente), nella parte in cui prevedeva la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene stesso senza limiti di tempo, precisava, richiamando il sesto comma, “che il danno in tali casi debba essere rapportato al “valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità”, maggiorato degli interessi moratori, a decorrere dal giorno in cui il bene stesso sia stato occupato sine titulo; e che, se in particolare si tratta di “terreno edificabile”, il valore stesso debba essere determinato sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7”.

Le consulenze tecniche non rappresentano lo strumento per ricercare il vero valore di mercato, atteso che questo sia determinabile unicamente solo con l’effettiva messa in vendita del bene, ma servono, unicamente, a “simulare” il possibile comportamento delle parti coinvolte, nel caso in cui se ne presentassero le condizioni.

È quindi un profilo ordinario, fondamentalmente ontologico, dell’azione di stima che questa fondi le sue valutazioni su delle situazioni non esattamente sovrapponibili a quella in esame, pur tuttavia paragonabili sotto diversi profili.

Le diversità delle situazioni prese in considerazione, non rappresentano, infatti, un profilo “patologico” dell’azione dello stimatore, fino a che non venga provato che, tra gli elementi presi a sostegno e quelli da valutare, non vi siano dei profili di somiglianza.
Il giudice, sia in sede di ottemperanza ma, soprattutto, in sede di cognizione, non può imporre all’Amministrazione di agire tramite il ricorso al procedimento di cui all’art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001 (Testo unico sulle espropriazioni per pubblica utilità), sotto la rubrica “Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico”.
Se vero è che, infatti, in sede di ottemperanza, il giudice amministrativo possa sostituirsi all’Amministrazione anche nelle scelte che toccano il merito dell’azione, è anche vero che il giudizio di ottemperanza altro non è che il “portato esecutivo” del giudizio di cognizione.

Dunque, è pacifico che il giudice dell’ottemperanza è vincolato dal contenuto della sentenza da eseguire, ed è, tuttavia, palese che la sentenza di cognizione ottemperanda è, a sua volta, legata ai limiti dati dalla domanda proposta dalla parte in sede di ricorso introduttivo.

Si tratta, in sostanza, di un rapporto di successiva delimitazione e progressiva messa a fuoco, dal quale non si può prescindere se non dimenticando le interconnessioni tra i vari momenti del processo.
L’unico obbligo scaturente dalla sentenza che annulla gli atti di una procedura espropriativa, è quello di restituzione del bene, mentre le altre opzioni sono rimesse alle scelte dell’Amministrazione, dal momento in cui si pongono su un piano diverso da quello dell’esecuzione del giudicato.

Specificamente, proprio la maggiore incidenza economica del provvedimento ex art. 42-bis, d.P.R. n. 327 del 2001, impone che sia lasciata all’Amministrazione la ponderazione comparativa delle alternative possibili. GMC



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Inserito in data 28/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 marzo 2014, n. 1478

Illegittima procedura di verifica delle anomalie e danno da mancata aggiudicazione

Con la sentenza in esame, i Giudici di Palazzo Spada hanno accertato l’illegittimità della procedura di gara (in particolare, della procedura di verifica delle anomalie che aveva portato all’esclusione dalla gara della società appellante). Poi, non potendo disporre la reintegrazione in forma specifica perché il contratto era stato già concluso ed eseguito, il Consiglio di Stato si è interrogato sulla sussistenza dei presupposti per il risarcimento per equivalente e sulle voci di danno rilevanti in caso di mancata aggiudicazione.

La pronuncia si segnala sotto due profili.

In primis, perché all’inevitabile opinabilità del subprocedimento di verifica dell’anomalia (non reiterabile né dall’Amministrazione, né dal giudice) fa discendere delle conseguenze in ordine al quantum del danno risarcibile.

L’insuperabile dubbiezza dell’esito del subprocedimento di verifica dell’anomalia si proietta, allora, inevitabilmente sull’entità del risarcimento ottenibile dall’avente diritto. Così come prospettato anche dalla parte appellante, il risarcimento dovrà di riflesso essere ridotto nella misura che si può determinare equitativamente, sin d’ora, nel 50% della somma che l’impresa avrebbe potuto ottenere qualora si fosse invece potuto accertare il suo pieno diritto all’aggiudicazione (Cons. St. 5846/2012 cit.)”.

In secundis, perché nel quantificare il lucro cessante supera il criterio forfettario del 10%.

Con riguardo al lucro cessante, non può accogliersi la richiesta dell’appellante di quantificare il danno nella misura forfettaria del 10%. Tale parametro veniva in un primo momento desunto dalla giurisprudenza dal dato normativo fornito dall’art. 345 della legge n. 2248 del 1865 All. F, che tuttavia riguarda differenti istituti”.

“Peraltro, tale misura di risarcimento porterebbe, in molti casi, all’abnorme risultato che il risarcimento dei danni sarebbe, per l’imprenditore, più favorevole dell’impiego del capitale.

Tale tecnica di quantificazione del danno in discorso, è stata pertanto messa in discussione dalla più recente giurisprudenza di questo Consiglio […], affermandosi in sua vece l’onere dell’impresa di una prova rigorosa della percentuale di utile effettivo che essa avrebbe conseguito qualora fosse stata aggiudicataria dell’appalto […]. Appare al riguardo decisiva la previsione di utile indicata dalla stessa società danneggiata in sede di offerta di gara“. TM



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Inserito in data 28/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE , SENTENZA 20 marzo 2014, n. 6513

Assegni bancari falsificati: è esigibile la diligenza dell’accorto banchiere

La questione che viene, nello specifico, all’esame della Corte è la seguente: se, a fronte del pagamento di un assegno bancario falsificato nella firma di traenza, che presentava “un tracciato assolutamente piatto”, sussista la responsabilità della banca […] per il danno patito dal correntista apparentemente traente di detto assegno”.

Secondo la giurisprudenza di legittimità, nella fattispecie in esame si applica l’art. 1176, c. 2 c.c., ossia la diligenza va rapportata alla natura dell’attività esercitata. Trattandosi di diligenza tecnica, “deve essere valutata secondo standard oggettivi i quali tengano conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento, ma che, al tempo stesso, vengono ad adeguarsi alla realtà peculiare dello specifico rapporto contrattuale”.

Ne consegue che “la diligenza che la banca deve spiegare nell’esame della genuinità e fedeltà dell’assegno presentato per il pagamento deve essere riferita non a quella di qualsiasi osservatore di medio interesse e di media diligenza, bensì a quella di un esaminatore attento e previdente, per il maggior grado di attenzione e di prudenza che la professionalità del servizio consente di attendersi”. Pertanto, la responsabilità della banca non viene meno “per il solo fatto che il giudice penale abbia affermato la sussistenza del reato di falso escludendo il carattere grossolano della falsificazione, atteso che in una verifica non superficiale di un accorto funzionario di banca un’alterazione anche di non grossolana macroscopicità può essere riconosciuta”. Tali considerazioni non contrastano con le pronunce che affermano che la banca non è tenuta a predisporre un’attrezzatura qualificata con strumenti meccanici o chimici per il controllo dell’autenticità delle sottoscrizioni degli assegni presentati per la riscossione; né collide con le decisioni secondo cui gli impiegati di banca non sono tenuti a dotarsi di una solida competenza grafologica. Infatti, la banca “non si ritiene esonerata dalla predisposizione di qualsivoglia strumentario tecnico di rilevamento della falsificazione, bensì da una “attrezzatura qualificata” o particolare”; così come gli impiegati di sportello sono esonerati dall’avere una “solida o “specifica” competenza grafologica, non già, anche in tal caso, da una qualsiasi, minima, competenza in materia”. 

Tuttavia, tale apprezzamento non può prescindere, come detto, dalla considerazione del carattere dinamico del concetto di diligenza e della sua specifica connotazione tecnica”. “Un’indagine, questa, che, dunque, non potrà non calibrare prudentemente la specifica tipologia di falsificazione dell’assegno, in concreto rilevante, con la condotta esigibile, in quel dato momento storico e in quel particolare contesto, dalla banca”.

In conclusione, “Nel caso di falsificazione di assegno bancario nella firma di traenza – la quale presenti, nella specie, “un tracciato assolutamente piatto” - la misura della diligenza richiesta alla banca nel rilevamento di detta falsificazione è quella dell’accorto banchiere”. TM




Inserito in data 27/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 marzo 2014, n. 1454

Accertamenti sulla dipendenza da causa di servizio: c’è discrezionalità tecnica

La sentenza ribadisce che gli accertamenti sulla dipendenza di una malattia da causa di servizio rientrano nella discrezionalità tecnica del Comitato per la Verifica per le Cause di Servizio, che perviene alle relative conclusioni sulla base delle cognizioni di scienza medica e specialistica. Pertanto, il sindacato giurisdizionale è ammesso solo in caso di vizi logici desumibili dalla motivazione degli atti impugnati, dai quali si evidenzi la inattendibilità metodologica delle conclusioni, o di irragionevolezza manifesta, palese travisamento dei fatti, omessa considerazione di circostanze di fatto tali da poter incidere sulla valutazione finale e non correttezza dei criteri tecnici e del proseguimento seguito.

È noto, peraltro, che quando l’Amministrazione intende uniformarsi al giudizio medico legale del Comitato, non è tenuta a fornire una particolare motivazione. CDC



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Inserito in data 27/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 marzo 2014, n. 1457

Giudicato di annullamento e riesercizio del potere amministrativo

A seguito del giudicato di annullamento (soprattutto in caso di lesione di interessi legittimi pretensivi), la potestà di provvedere è restituita nuovamente all’ Amministrazione perché essa si ridetermini.

Il principio di continuità dell’azione amministrativa e la tendenziale “inesauribilità” del potere comporterebbe che l’Amministrazione possa riprovvedere un numero non predeterminato di volte. Infatti, nulla osta a che, rideterminandosi, l’Amministrazione possa porre a sostegno del proprio convincimento elementi “nuovi” non oggetto della propria antecedente delibazione vulnerata dal giudicato e per tal via riconfermi il contenuto dispositivo annullato.

Tuttavia, se l’Amministrazione potesse pronunciarsi un numero di volte in via di principio infinito sullo stesso affare, sarebbe vanificata la portata accertativa e soprattutto conformativa di ogni decisione. Ogni controversia, infatti, “sarebbe destinata, in potenza, a non concludersi mai con un definitivo accertamento sulla spettanza - o meno - del bene della vita”.

Poiché occorre che la controversia fra l'Amministrazione e l'amministrato trovi ad un certo punto una soluzione definitiva, dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo l’Amministrazione deve “esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando, una volta per tutte, tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati”.

Tale principio appare equo contemperamento tra esigenze all’apparenza inconciliabili (la “forza” della res iudicata, la continuità del potere amministrativo, il principio di ragionevole durata del processo).

Nell’ ordinamento italiano, quindi, non trova riconoscimento la teoria c.d. del "one shot" (ammessa in altri ordinamenti), secondo la quale l’Amministrazione può pronunciarsi negativamente una sola volta, facendo in detta occasione emergere tutte le possibili motivazioni che si oppongono all’accoglimento della istanza del privato. Nel sistema italiano, piuttosto, il principio è stato “temperato” accordandosi all’Amministrazione due chances. CDC



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Inserito in data 26/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE LAVORO, SENTENZA 20 marzo 2014, n. 13088

Mobbing e maltrattamenti in famiglia all’interno delle imprese

La Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi in merito alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, sì come previsto e descritto dall’art. 572 c.p., nell’ipotesi in cui i comportamenti molesti e vessatori siano posti in essere all’interno di un gruppo di lavoro di un’azienda.

L’art. 572 c.p. prescrive la sanzione della reclusione per “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte”.

Più precisamente viene in rilievo la possibilità di rincodurre all’interno del concetto di “rapporti parafamiliari” quelli intercorrenti tra dipendente e datore di lavoro, o tra colleghi, nel caso in cui l’azienda abbia delle dimensioni ridotte.

Esaminata la questione, il Collegio ha ricordato come, secondo un orientamento giurisprudenziale orami consolidato “non ogni fenomeno di di mobbing - e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio - attuato nell'ambito di un ambiente lavorativo, integri gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla legge n. 172 del 2012, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. "mobbing") si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia […].

Nel caso di specie, peraltro, a dispetto delle locuzioni utilizzate dagli imputati, che si definivano come “una grande famiglia”, la realtà lavorativa appariva sufficientemente articolata e tale da escludere i caratteri propri dei rapporti familiari (come, ad esempio, potrebbe ipotizzarsi con riferimento al rapporto di lavoro che lega il collaboratore domestico al proprio datore di lavoro).

Alla luce del principio giurisprudenziale sopra esposto la Cassazione ha escluso che nel caso sottoposto alla propria attenzione potesse configurarsi il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. VA




Inserito in data 26/03/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. IV, 24 marzo 2014, n. 1391

Condono edizilio, domande integrative di sanatoria e silenzio-assenso

Il Consesso ha ritenuto prive di fondamento le obiezioni mosse dall’appellante avverso la sentenza del giudice di primo grado che ha ritenuto legittimo il provvedimento con il quale il Comune ha dichiarato inammissibile la richiesta di condono edilizio presentata attraverso un’asserita nota integrativa.

Con la sentenza in commento, i Giudici amministrativi hanno affermato che né la legge 47/85 sul condono edilizio, né le normative a questa successive, ammettono la presentazione di domande integrative in sanatoria “giacchè non sono configurabili domande aggiuntive che vanno in via di fatto a modificare il contenuto di altre domande di sanatoria precedentemente presentate e ognuna delle quali ha una sua autonoma tipologia” .

Il Consesso, inoltre, ha precisato che sebbene sia possibile procedere alla correzione di quanto dichiarato in precedenza, tale correttivo deve essere di minimo conto e non può spingersi sino ad incidere sul contenuto sostanziale di una precedente domanda, a meno di non consentire un’elusione delle normative attualmente vigenti.

Nel caso di specie la nota integrativa, contenendo l’indicazione dell’esatta volumetria dell’immobile oggetto di abuso edilizio, non poteva essere qualificata come atto meramente correttivo ma, di fatto, si presentava come autonoma e nuova domanda di condono (peraltro presentata oltre i termini di legge).

Ne consegue la destituzione di fondamento dell’asserita formazione del silenzio-assenso ex art. 35 l. 47/85 sulla domanda si sanatoria dell’ulteriore superficie di cui in nota in quanto “il meccanismo del silenzio-accoglimento una volta decorsi 24 mesi dalla presentazione della istanza di sanatoria e tale termine può essere interrotto qualora l’amministrazione comunale a fronte della domanda di sanatoria, abbia invitato l’interessato a presentare documentazione integrativa di quella già prodotta” […] ma “può ritenersi applicabile solo in presenza di una domanda di condono completa e validamente presentata, circostanza di fatto e di diritto quest’ultima, non presente nel caso de quo laddove si è in presenza di una supposta domanda di sanatoria ( sia pure integrativa) che tale non è in quanto non contiene i requisiti minimi per potere essere qualificata come domanda di sanatoria”. VA



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Inserito in data 25/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 19 marzo 2014, n. 6312

Equa riparazione e ritardo nel pagamento da parte della P.A. soccombente

Con la sentenza in esame, i Giudici della nomofilachia osservano “che -allorquando nel processo civile o amministrativo, sia stata fatta valere dinanzi al giudice una situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio e questa sia stata riconosciuta al suo titolare con decisione definitiva ed obbligatoria ('fase' processuale della cognizione) e, tuttavia, tale decisione non sia stata spontaneamente ottemperata dall'obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l'esecuzione del titolo così ottenuto ('fase' processuale dell'esecuzione forzata o dell'ottemperanza) - la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l'art. 6, prf. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un 'unico processo' scandito, appunto, da 'fasi' consequenziali e complementari”.

In tal senso, la Corte di Strasburgo, con la sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006 (Cocchiarella contro Italia), ha affermato che: “ [...] sarebbe illusorio se l'ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L'esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell'articolo 6 (vedi, inter alia, Hornsby contro la Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Reports 1997 - II, pagg. 510-11, p.40 e segg., e Metaras contro la Grecia, n. 8415/02, p.25, 27 maggio 2004)”.

Questi principi trovano applicazione anche “nel processo per l'equa riparazione da irragionevole durata del processo 'presupposto', disciplinato dalla legge n. 89 del 2001”.

In particolare, la Corte Edu “ha ritenuto integrata la violazione dell'art. 6, prf. 1, della Convenzione - sotto l'autonomo profilo del “diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive” - anche ai casi di ritardo nel pagamento dell'indennizzo (e degli interessi) conseguiti all'esito favorevole della 'fase' di cognizione del processo promosso ai sensi della legge n. 89 del 2001”.

Tuttavia, il diritto all'esecuzione del decreto emanato ex lege Pinto non è sussumibile nell'art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, secondo cui “Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetti di violazione della Convenzione [...], sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, [...] ha diritto ad un'equa riparazione”. D’altra parte, lo stesso fenomeno degli “endemici ritardi della Pubblica Amministrazione” è stato estraneo al disegno delineato dal legislatore del 2001. 

In applicazione del principio della domanda, dunque, occorre verificare se il ricorrente “abbia fatto valere, dinanzi alla competente corte d'appello, il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, ovvero l'”autonomo” diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive, vale a dire (anche) del decreto Pinto definitivo e obbligatorio”.

Questo secondo caso “può essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l'esecuzione forzata del titolo così ottenuto”.

La prima ipotesi (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata), invero, attribuisce al ricorrente “il diritto - fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell'art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del “diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive” - ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all'entità del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella 'realizzazione' dell'indennizzo e degli interessi (già riconosciuti per l'irragionevole durata del processo 'presupposto'), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata”.

La seconda (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell'esecuzione forzata), invece, potrebbe astrattamente prospettare “le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell'Amministrazione è costituito dal titolo della già pronunciata condanna al pagamento degli interessi 'corrispettivi' dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono in interessi 'moratori', dovuti appunto fino alla data dell'effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo - ed è questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo - è costituito, anche in questo caso, da un ulteriore indennizzo, dovuto dall'Amministrazione in forza dell'art. 41 della Convenzione, per la violazione dell'art. 6, prf. 1, sotto il più volte richiamato profilo del “diritto all'esecuzione delle decisioni interne esecutive”, e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all'Amministrazione medesima per il pagamento”.

Ciò nondimeno, sia la prima che la seconda ipotesi non possono essere fatte valere “nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU”. EMF




Inserito in data 25/03/2014
TAR TOSCANA-FIRENZE, SEZ. III, 21 marzo 2014, n. 567

 

Sulla ristrutturazione edilizia di un edificio diruto

Già con la sentenza n. 1560 del 12 novembre 2013, il Collegio fiorentino, avallando il prevalente orientamento giurisprudenziale, ha ritenuto che, “ai fini della sussistenza dei presupposti per la demolizione e ricostruzione (come “ristrutturazione edilizia”), è necessario che l’edificio esista, con strutture perimetrali, orizzontali e di copertura, con il risultato che si ha invece intervento di “nuova edificazione” in caso di ruderi, allorquando non si disponga di elementi attuali sufficienti a dimostrare le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio da recuperare”.

Né tale conclusione può essere confutata dall’avvento della nuova disciplina introdotta dal decreto-legge n. 69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che ha modificato l’art. 3, comma 1, lett. d) del D.P.R. n. 380 del 2001 collocando nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi edilizi “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”.

Pertanto, data l’insufficienza del solo profilo dell’an (cioè della dimostrazione che un certo immobile attualmente crollato è esistito), deve darsi conto anche della “destinazione d’uso e [del]l’ingombro planivolumetrico complessivo del fabbricato crollato”, quantificazione che “richiede certezza in punto di murature perimetrali e di strutture orizzontali di copertura, ai fini del calcolo del volume preesistente occupato dal fabbricato crollato”. EMF



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Inserito in data 23/03/2014
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, SENTENZA 19 marzo 2014, n. 146

Perdita di chance: precisazioni sul diritto ad ottenere ristoro

I Giudici siciliani respingono la richiesta risarcitoria gravante su un Ente comunale, accolta dal Collegio di prime cure in favore di una ditta estromessa da una gara pubblica.

In particolare, intervenendo sulla perdita di chance – come lamentata dall’odierna appellata, i Giudici di secondo grado non ne ravvedono la sussistenza.

Tale figura, secondo giurisprudenza ormai solida, consiste nella ragionevole probabilità, già presente nel patrimonio del danneggiato, di conseguire un risultato economico utile.

Occorre, però, ai fini di ottenerne ristoro, che gli elementi addotti dall’istante consentano una prognosi concreta e ragionevole circa la non trascurabile probabilità di conseguire vantaggi futuri, impediti, invece, dalla condotta illecita della P. A. . Il danno da perdita di “chance”, in sostanza, va verificato secondo il criterio del c. d. “più probabile che non”, alla luce della osservanza dei dati di comune esperienza.

Il Collegio palermitano, applicando tali canoni ermeneutici alla fattispecie in esame, non ne ravvisa la sussistenza.

Ritiene, piuttosto, che la ditta appellata non avesse già ab initio taluni requisiti per la partecipazione a gare dalle quali lamenta l’estromissione e su cui fonda la richiesta risarcitoria. Pertanto, dichiarandone l’infondatezza, i Giudici accolgono le doglianze del Comune appellante. CC



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Inserito in data 23/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 marzo 2014, n. 1366

Trattamento economico: pubblico impiego vs. lavoro privatizzato e relativi indici

Il Collegio di Palazzo Spada respinge l’odierno appello e, confermando in toto la pronuncia gravata, ricorda gli indici distintivi tra lavoro subordinato e lavoro autonomo.

Più nel dettaglio, viene rigettata la richiesta di riconoscimento delle differenze retributive e di quelle attinenti agli aspetti assicurativi e previdenziali, unitamente agli interessi, relativi al lavoro prestato dall’appellante nel periodo precedente al concorso pubblico con cui la stessa veniva stabilmente inserita nella pianta organica dell’Ente/datore di lavoro.

Ella fondava tale richiesta sul presupposto della continuità del lavoro svolto, della esclusività, oltrechè della predeterminazione dell’orario e dell’esistenza di un vincolo di subordinazione; tutti criteri, a proprio avviso, in grado di assimilare la propria prestazione di lavoro a quella pubblicistica e, come tale, meritevole degli emolumenti economici a questa correlati.

Il Collegio, invece, uniformandosi a precedenti giurisprudenziali, ricorda come “l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale”.

I criteri paventati dall’appellante, quali la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, hanno, invece, natura meramente sussidiaria e non decisiva.

In forza di ciò, non hanno forza le linee difensive proposte e, di conseguenza, appaiono non fondate le pretese economiche avanzate dall’appellante, il cui gravame viene respinto. CC



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Inserito in data 22/03/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 5 marzo 2014, n. 2550

Settori speciali: osservanza dei principi in materia di appalti

La stazione appaltante che opera nei settori speciali, seppur non vincolata all'applicazione delle norme non espressamente indicate dall'art. 206 del D.Lgs. n. 163/06 (Codice dei contratti pubblici), deve, tuttavia, conformare la disciplina di gara ai principi fondamentali in materia di appalti pubblici.
Specificamente, dovrà conformare la disciplina di gara, nell'esercizio della facoltà discrezionale alla stessa riconosciuta, alla luce dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo da dettare una disciplina congrua con l'oggetto della gara nonché con le relative caratteristiche, non potendo, la mera riconducibilità dell'oggetto ai settori esclusi, giustificare l'applicazione della disciplina derogatoria a discapito degli ulteriori principi, fondamentali ed immanenti in materia di appalti, del favor partecipationis, di non discriminazione, della concorrenza e della economicità.

Occorre sottolineare che tale ultimo principio, altresì, costituisce una fondamentale articolazione del principio, generalissimo, di buon andamento, non essendo la scelta del contraente finalizzata all'esclusivo interesse dell'Amministrazione, bensì volta anche alla tutela degli interessi degli operatori al fine di poter concorrere per il mercato e potervi, dunque, accedere.

A tal proposito, si ricorda che l'art. 27 del D.Lgs. n. 163 del 2006 delinea, attraverso l'indicazione dei principi fondamentali, la disciplina generale degli appalti pubblici, la quale rappresenta parametro di legittimità delle relative procedure, anche con specifico riguardo ai settori speciali, in relazione ai quali occorre comunque verificare se ricorra lo scopo di tutela sotteso alla disciplina speciale nonché se la riconosciuta non applicabilità di determinate disposizioni del Codice, sia coerente e compatibile con l'interesse sotteso alla gara.
L'art. 206 del D.Lgs. n. 163 del 2006 sopracitato presenta, inoltre, in tema di cauzioni, una sorta di “vuoto normativo” nell'escludere, dalle disposizioni applicabili ai settori speciali, l'art. 75 del D.Lgs. n. 163 del 2006, conseguentemente potendo le gare, in tali settori, anche prescindere dalla necessità della cauzione a garanzia dell'offerta.

Dunque, essendo rimessa alla lex specialis di ogni singolo appalto, la predisposizione della normativa al riguardo, tale facoltà dovrà essere esercitata nel rispetto del “nesso di necessarietà” della deroga rispetto all'oggetto dell'appalto e del principio di proporzionalità, da coniugarsi, altresì, con il perseguimento della tutela della concorrenza e del principio di massima partecipazione, spettando, inoltre, alla stazione appaltante stabilire le modalità di prestazione della cauzione ed il relativo ammontare in modo coerente con la natura e l'oggetto dell'appalto, garantendo, altresì, ai partecipanti, delle analoghe, rispetto a quelle dei settori classici, condizioni di accesso alla gara laddove la stessa non abbia quel carattere di specificità che ne giustifica la deroga alla disciplina generale. GMC



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Inserito in data 22/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE , SENTENZA 19 marzo 2014, n. 6337

Opposizione a decreto ingiuntivo

La Suprema Corte chiarisce che qualora nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vengano introdotti, con l'opposizione, fatti estintivi, modificativi od impeditivi dell'esistenza del credito di cui al decreto, verificatisi dopo la sua pronuncia e prima della scadenza del termine per l'opposizione, oppure, ancora, nel caso in cui nel corso del giudizio di opposizione, vengano introdotti fatti di quella natura, verificatisi dopo la proposizione dell'opposizione, nel caso in cui il debitore non abbia formulato domanda di accertamento della verificazione di tali fatti (nella quale su di essa dovrà esservi pronuncia), la pronuncia di inammissibilità dell'opposizione per ragioni di rito, come la tardività o il difetto di procura (nel regime anteriore alla l. n. 69 del 2009), una volta passata in giudicato, non precluderà la possibilità di dedurre quei fatti o mediante azione di accertamento negativo o, nel caso in cui sia minacciata o iniziata l'esecuzione sulla base del decreto, rispettivamente con l'opposizione al precetto e con l'opposizione all'esecuzione. GMC




Inserito in data 21/03/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 20 marzo 2014, n. 1364

Applicazione pratica dei principi espressi da AP 9/14 in tema di ricorso incidentale

Nella pronuncia in esame vengono applicati i principi espressi dall’Adunanza Plenaria con la recente sentenza n. 9/14 circa il rapporto fra ricorso principale (proposto dal concorrente sconfitto in una procedura selettiva) e ricorso incidentale (proposto dal concorrente vincitore), così sintetizzati:

1) “il giudice ha il dovere di decidere la controversia, ai sensi del combinato disposto degli artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c., secondo l’ordine logico che, di regola, pone la priorità della definizione delle questioni di rito rispetto alle questioni di merito e, fra le prime, la priorità dell’accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali rispetto alle condizioni dell’azione”;

2) “nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, deve essere esaminato prioritariamente rispetto al ricorso principale il ricorso incidentale escludente che sollevi un’eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale non aggiudicatario, in quanto soggetto che non ha mai partecipato alla gara, o che vi ha partecipato ma è stato correttamente escluso ovvero che avrebbe dovuto essere escluso ma non lo è stato per un errore dell’amministrazione”;

3) nonostante la proposizione di un ricorso escludente, “l’esame prioritario del ricorso principale è ammesso, per ragioni di economia processuale, qualora risulti manifestamente infondato, inammissibile, irricevibile o improcedibile”;

4) in tali giudizi, “il ricorso incidentale non va esaminato prima del ricorso principale allorquando non presenti carattere escludente; tale evenienza si verifica se il ricorso incidentale censuri valutazioni ed operazioni di gara svolte dall’amministrazione nel presupposto della regolare partecipazione alla procedura del ricorrente principale”;

5) “nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, sussiste la legittimazione del ricorrente in via principale - estromesso per atto dell’Amministrazione ovvero nel corso del giudizio, a seguito dell’accoglimento del ricorso incidentale - ad impugnare l’aggiudicazione disposta a favore del solo concorrente rimasto in gara, esclusivamente quando le due offerte siano affette da vizio afferente la medesima fase procedimentale come precisato in motivazione.

Nel caso esaminato, veniva in rilievo un ricorso incidentale escludente, perché teso a far valere la carenza di legittimazione del ricorrente principale derivante dalla mancata intestazione della polizza assicurativa a tutte le associande di un A.T.I. costituenda. Accolto il ricorso incidentale, il ricorso principale è stato dichiarato improcedibile, perché non si trattava di procedura di gara con due sole concorrenti (e perciò non ricorreva l’ipotesi di cui al n. 5). TM



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Inserito in data 21/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 14 marzo 2014, n. 12228

Confine tra concussione e indebita induzione: danno contra ius vs vantaggio indebito

Le Sezioni Unite penali sono state chiamate a pronunciarsi su due questioni di diritto.

In primis, su “quale sia, a seguito della legge 6 novembre 2012, n. 190, la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 cod. pen.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater cod. pen. di nuova introduzione)”.

In proposito, prima della pronuncia in esame, si affiancavano tre diversi orientamenti della Corte di Cassazione:

1) Stante l’omogeneità letterale tra le fattispecie ante e post riforma del 2012, occorre riprendere i criteri usati per distinguere tra concussione per costrizione e per induzione, facenti leva sulla diversa intensità della pressione prevaricatrice e sulla conseguente più o meno ampia limitazione della libertà di autodeterminazione del concusso.

2) Prima della riforma il problema della distinzione tra costrizione e induzione non si era posto più di tanto, poiché entrambe le condotte erano punite allo stesso modo. Oggi, invece, si pone, soprattutto perché il legislatore del 2012 ha previsto la punibilità dell’indotto e non del costretto; tale nodo ermeneutico va sciolto alla stregua della natura del danno prospettato alla vittima: se tale danno è ingiusto e contra ius (id est contrario alla legge), si avrà concussione; se, invece, tale pregiudizio è legittimo e secundum ius (conforme alla legge), si avrà induzione.

3) Poiché non sempre è agevole definire l’intensità della pressione psicologica esercitata dal pubblico agente sul privato, per le situazioni dubbie si deve usare anche il criterio del vantaggio indebito perseguito dal secondo: se il privato agisce al fine di scongiurare un danno (certat de damno vitando), si ha concussione; se egli agisce al fine di ottenere un indebito beneficio (certat de lucro captando), si ha induzione.

Contro il primo orientamento, le Sezioni Unite adducono la difficoltà dell’indagine psicologica e i conseguenti rischi di applicazioni arbitrarie, in violazione del principio di determinatezza.

Contro il secondo orientamento, si obietta che esso non consente di apprezzare l’effettivo disvalore delle situazioni ambigue.

Avverso la terza tesi, le Sezioni Unite evidenziano che esso rispetto alle situazioni “non al limite”, soffre dei limiti del primo orientamento.

Ad avviso delle Sezioni Unite, la questione va affrontata considerando la ratio della riforma del 2012 (legge anticorruzione) che ha scorporato dal delitto di concussione le condotte induttive, rendendole fattispecie intermedia tra la concussione e la corruzione. Tale ratio consiste nel “chiudere ogni possibile spazio d’impunità al privato che, non costretto ma semplicemente indotto da quanto prospettatogli dal pubblico funzionario disonesto, effettui in favore di costui una dazione o una promessa indebita di denaro o di altra utilità” (ciò in quanto, nella passi applicativa, la dilatazione del concetto d’induzione era avvenuta a discapito del reato di corruzione, con conseguente impunità del privato).

Inoltre, si deve tener conto del fatto che, a seguito della riforma del 2012, mentre il reato di concussione conserva la sua essenza plurilesiva (offende sia l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, sia la libertà di autodeterminazione e il patrimonio del privato), il reato di indebita induzione ha natura monoffensiva (lede solo il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione).

Tenuto conto di ciò, il confine tra concussione e illecita induzione va ricercato apprezzando la maggiore o minore gravità della pressione psicologica esercitata dal pubblico agente sul privato in funzione del suo contenuto sostanziale (anziché della modalità in cui viene espressa).

Preliminarmente, occorre ricordare che entrambi i reati contemplano come elemento costitutivo l’abuso della qualità o dei poteri del pubblico agente, ossia il loro uso per conseguire finalità diverse da quelle tipiche e, in particolare, finalità illegittime.

La costrizione (o abuso costrittivo) indica una eterodeterminazione dell’altrui volontà e perciò si estrinseca nella violenza o nella minaccia, in quanto uniche modalità idonee ad obbligare il soggetto passivo a tenere un  comportamento che altrimenti non avrebbe tenuto (cfr. art. 336 c.p. delitto speculare alla concussione). In particolare, la violenza è ravvisabile nei rari casi in cui l’agente dispone di mezzi contenzione o di immobilizzazione (es. le forze di polizia). Invece, la minaccia rilevante è la minaccia-mezzo (contrapposta alla minaccia fine), ossia quella che coarta la libertà di autodeterminazione della vittima prospettandole l’alternativa secca tra il sottomettersi alla volontà del minacciante e subire il male ingiusto minacciato (cfr. artt. 1435 cc e art. 612 cp); per male ingiusto d’intende un danno contrario alla norma giuridica e lesivo di un interesse personale o patrimoniale della vittima riconosciuto dall’ordinamento; infine, si precisa che la minaccia può essere anche implicita, velata, allusiva, assumendo le forme del consiglio o dell’esortazione, purché tali forme evidenzino una carica intimidatoria analoga alla minaccia esplicita. In tutte queste ipotesi, il privato agisce per evitare un danno (certat de damno vitando): per cui, ben si comprende che egli non sia punibile ma anzi sia vittima del reato. in definitiva, “Antigiuridicità del danno prospettato dal pubblico ufficiale ed assenza di un movente opportunistico di vantaggio indebito per il privato sono i parametri di valutazione che denunciano lo “stato di costrizione” ex art. 317 cod. pen.”.

L’induzione indica una “condotta-evento”, ossia un comportamento che può assumere varie forme e si specifica in base al risultato che produce: il risultato induttivo. In particolare, l’abuso induttivo va ricostruito in via residuale rispetto all’abuso costrittivo, come dimostra l’incipit dell’art. 319-quater (“Salvo che il fatto costituisca più grave reato”). L’indotto è punibile e, perciò, è considerato dal legislatore complice del pubblico agente: il che è indice del fatto che in questo caso i beni privati non sono offesi. Ne consegue che, in caso d’induzione, la libertà di autodeterminazione del privato è intatta, perché il pubblico agente non l’ha minacciato di un male ingiusto. Pertanto, il privato si determina a fare quanto suggeritogli dal pubblico agente al fine di ottenere un vantaggio indebito (certat de lucro captando): “In sostanza, nel percorrere una linea ermeneutica costituzionalmente orientata, è necessario farsi guidare dall’esigenza, imposta dall’art. 27, comma primo, Cost., di giustificare la punibilità del privato per il disvalore insito nella condotta posta in essere, disvalore ravvisabile, più che nella mancata resistenza all’abuso esercitato dal pubblico agente (aspetto, questo, “derivato”), soprattutto nel fatto di aver approfittato di tale abuso per perseguire un proprio vantaggio ingiusto”. A questo criterio discretivo fa riferimento, in tema di corruzione internazionale, anche l’art. 322-bis, comma 2, n. 2, c.p., che richiama espressamente l’art. 319-quater cp. Come affermato da autorevole dottrina, l’induzione “non costringe ma convince”.

La Cassazione precisa che ci sono dei casi in cui il criterio indicato non potrà applicarsi meccanicamente, dovendosi indagare la vicenda concreta (dati circostanziali, beni giuridici in gioco, principi e valori che governano la materia): i casi di abuso della qualità (in cui non è ben definito né il danno minacciato, né il vantaggio promesso); i casi misti di minaccia-promessa (in cui il pubblico agente non solo minaccia il male ingiusto, ma alletta il privato con la promessa di un vantaggio indebito); il caso in cui il pubblico agente subordina la tempestiva adozione di un provvedimento favorevole per il privato (o la mancata adozione di un provvedimento sfavorevole) al pagamento dell’indebito, perché qui il vantaggio non è indebito (né il male minacciato è ingiusto); il caso in cui privato ottiene un vantaggio indebito, al fine di preservare un bene di rango particolarmente elevato (es. la vita posta in pericolo da una patologia) o accettando di sacrificare un bene particolarmente importante (es. libertà sessuale), perché qui l’agente agisce in uno stato di coazione morale ex art. 54 c.p. tale da escludere la concussione.

 

3) SU 12228/14: C’è continuità normativa tra concussione ante L. n. 190/12 e i reati novellati #diritto TM

In secundis, le Sezioni Unite sono state chiamate a stabilire se vi sia o meno continuità normativa (abrogatio sine abolitione) tra i reati in esame ante e post riforma n. 190 del 2012, con conseguente applicazione del principio del favor rei ex art. 2 c.4 cp, o abolitio criminis, soggetta all’art. 2 c.1 c.p.

A tal fine, occorre “procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte, quelle precedenti e quelle successive, al fine di stabilire se vi sia o no uno spazio comune alle due fattispecie, senza la necessità di ricercare conferme o smentite al riguardo nei criteri valutativi del bene giuridico tutelato e delle modalità di offesa, inidonei ad assicurare approdi interpretativi sicuri”.

Ciò posto, ad avviso delle Sezioni Unite, “v’è totale continuità normativa tra presente e passato con riguardo alla posizione del soggetto qualificato, chiamato a rispondere di fatti già riconducibili, in relazione all’epoca di commissione degli stessi, nel paradigma del previgente art. 317 cod. pen.”.

In particolare, si rileva che c’è continuità tra concussione per costrizione ante e post riforma, perché non sono mutati gli elementi strutturali della fattispecie (art. 317 c.p.), ma è stato solo escluso dal novero dei soggetti attivi l’incaricato di pubblico servizio (la cui condotta resta comunque inquadrabile in altre fattispecie di diritto comune, id est nell’estorsione aggravata o, se manca il danno patrimoniale, nella violenza privata aggravata o, se la vittima è stata costretta a prestazioni sessuali, nella violenza sessuale).

C’è continuità normativa anche tra la concussione per induzione ante riforma e l’indebita induzione ex art. 319-quater c.p. Numerosi argomenti militano in tal senso: a) la struttura dell’abuso induttivo è rimasta immutata; b) la prevista punibilità dell’indotto non investe direttamente la struttura tipica del reato (che già era un reato naturalisticamente plurisoggettivo), ma interviene solo al suo esterno (sull’inquadramento dogmatico del fatto del privato).

Ne consegue l’applicabilità della norma sopravvenuta, in quanto più favorevole.

La previsione della punibilità, ex art. 319-quater, comma secondo, cod. pen., del soggetto indotto, in precedenza considerato vittima, sarà operativa, ovviamente, solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della detta norma, in applicazione dell’art. 2, comma primo, cod. pen.”.

 

4) SU 12228/14: Concussione e indebita induzione vs corruzione: relazione di soggezione o paritetica #diritto TM

 Le Sezioni Unite s’interrogano pure sul discrimen tra i reati di concussione e indebita induzione rispetto al reato di corruzione.

La concussione è facilmente distinguibile dalla corruzione, in ragione della sussistenza di una condotta di violenza o minaccia da parte del pubblico ufficiale.

Più difficile è discernere tra indebita induzione e corruzione: a tal fine si deve far leva sul tipo di relazione che s’instaura tra il privato e il pubblico agente (squilibrata o paritaria) e, di conseguenza, sulla presenza o meno di una soggezione psicologica del primo rispetto al secondo. In particolare, la relazione squilibrata propria dell’induzione è frutto di una condotta prevaricatrice del pubblico agente, ossia dell’abuso dei poteri e della qualità funzionale all’ottenimento della prestazione indebita. Indice sintomatico dell’induzione è l’iniziativa del pubblico agente.

In conclusione, tali fattispecie si differenziano perché “richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere  o a indurre l’extraneus, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la par condicio contractualis ed evidenzia l’incontro assolutamente libero e consapevole delle volontà delle parti”.

Inoltre, “il tentativo di induzione indebita, in particolare, si differenzia dall’istigazione alla corruzione attiva di cui all’art. 322, commi terzo e quarto, cod. pen., perché, mentre quest’ultima fattispecie s’inserisce sempre nell’ottica di instaurare un rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti, diretto al mercimonio dei pubblici poteri, la prima presuppone che il funzionario pubblico, abusando delle sue qualità o dei suoi poteri, ponga potenzialmente il suo interlocutore in uno stato di soggezione, avanzando una richiesta perentoria, ripetuta, più insistente e con più elevato grado di pressione psicologica rispetto alla mera sollecitazione, che si concretizza nella proposta di un semplice scambio di favori”. TM




Inserito in data 20/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 marzo 2014, n. 1346

Sull’impugnazione della decisione del ricorso straordinario

Secondo l’art. 10, terzo comma, dpr 1199/1971, la parte che non abbia esercitato l’opzione per la sede giurisdizionale può impugnare la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato solo per vizi di forma e di procedura suoi propri.

Secondo la giurisprudenza, i vizi di forma e di procedura deducibili come mezzi di impugnazione sono solo quelli verificatisi nella fase successiva alla pronuncia del parere del Consiglio di Stato. Tuttavia, tale limitazione è opponibile solo alle parti che abbiano scelto, o accettato, che la controversia fosse decisa nella sede straordinaria. Pertanto, il controinteressato non ritualmente evocato può impugnare la decisione senza quelle limitazioni e preclusioni, e dunque anche per vizi inerenti al parere del Consiglio di Stato e alle fase procedurali anteriori.

Quanto alla individuazione del giudice amministrativo competente a giudicare su tale impugnazione, la prassi giurisprudenziale consolidata è nel senso che l’impugnazione si propone davanti al Tribunale amministrativo regionale. Infatti, quando essa sia effettuata dal controinteressato che lamenti di non essere stato ritualmente evocato, non si fa altro che esercitare la facoltà di opzione per la sede giurisdizionale e le inerenti garanzie, fra le quali il doppio grado di giurisdizione. Da questo punto di vista, solo l’impugnazione davanti al T.A.R. appare interamente restitutoria per il controinteressato pretermesso.

Tale disciplina, secondo la sentenza in esame, è ancora vigente ed applicabile, anche a seguito della riconosciuta giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario.

Infatti, “la recente evoluzione del ricorso straordinario non ha eliminato la disciplina previgente né le peculiarità dell’istituto, se non nella misura in cui singole disposizioni siano state abrogate o modificate” e fra le disposizioni abrogate non vi è l’art. 10.

Né si può dire che le vecchie regole concernenti l’impugnabilità debbano intendersi abrogate per incompatibilità con le nuove disposizioni, essendo invece coerenti con la disciplina generale dell’istituto, ed in particolare con quel carattere di “opzionalità” che permane inalterato.

Infine, le recenti innovazioni normative sono state concepite per accrescere le garanzie e le possibilità di difesa delle parti. Pertanto, l’esclusione di ogni possibilità di impugnazione per il controinteressato pretermesso sarebbe un effetto perverso del tutto estraneo alle intenzioni del legislatore. CDC




Inserito in data 20/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, QUINTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 13 marzo 2014, n. 12203

Diffamazione a mezzo stampa: no al carcere per i giornalisti

La sentenza in esame concerne l’applicabilità della pena detentiva nel caso del reato di diffamazione commesso da un giornalista. Secondo la Suprema Corte, l'irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria “non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l'alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità”. 

Ciò è confermato dall'orientamento della Corte EDU che, ai fini del rispetto dell'art. 10 della Convenzione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l'irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, in quanto, altrimenti, non sarebbe assicurato il “ruolo di 'cane da guardia' dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle” (sentenza 24-9-2013 Belpietro contro Italia). 
Peraltro, si nota che la libertà di espressione costituisce valore garantito anche nell'ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d'informazione cui si correla quello all'informazione (art. 21 Cost). Tali diritti impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza. CDC

 

 




Inserito in data 19/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 17 marzo 2014, n. 1312

Giurisdizione ordinaria e recesso della P.A.

Ai sensi dell’art. 1, comma 13, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, 13. “Le amministrazioni pubbliche che abbiano validamente  stipulato  un contratto di fornitura o di servizi hanno diritto di  recedere  in qualsiasi  tempo  dal   contratto,   previa   formale   comunicazione all'appaltatore con preavviso  non  inferiore  a  quindici  giorni  e previo pagamento delle prestazioni  gia'  eseguite  oltre  al  decimo delle prestazioni non ancora eseguite, nel caso in cui, tenuto  conto anche dell'importo dovuto per le prestazioni non ancora  eseguite,  i parametri delle convenzioni  stipulate  da  Consip  S.p.A.  ai  sensi dell'articolo 26, comma 1, della  legge  23  dicembre  1999,  n.  488 successivamente   alla   stipula   del   predetto   contratto   siano

migliorativi  rispetto   a   quelli   del   contratto   stipulato  e l'appaltatore non acconsenta ad  una  modifica,  proposta  da  Consip s.p.a., delle condizioni economiche tale da rispettare il  limite  di cui all'articolo 26, comma 3 della legge 23 dicembre  1999,  n.  488.

Il  diritto di recesso si inserisce automaticamente nei  contratti  in  corso  ai sensi  dell'articolo  1339  c.c.,  anche  in  deroga  alle  eventuali clausole difformi apposte dalle parti”.

Nel caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato la norma citata era stata invocata all’interno di un contratto di appalto relativo al servizio di assistenza medica del personale.

Più precisamente, l’amministrazione aveva esercitato il proprio diritto di recesso in attuazione della manovra di spending review.

Il Supremo Consesso, tuttavia, accogliendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione, non si è pronunciata sul merito della questione.

I giudici di palazzo Spada, infatti, hanno ricordato come l’Amministrazione può agire non solo in veste autoritativa, ma anche attraverso modelli privati e che, in quest’ultimo caso, agendo all’interno di un rapporto paritario, rimane soggetto alle regole proprie del diritto privato.

La coesistenza di questi due modelli (pubblico e privato) emerge con maggiore evidenza nella materia contrattuale. La conclusione di un contratto con la Pubblica amministrazione, infatti, può comportare l’applicazione sia della normativa comune che di quella privata: la prima regola la fase della scelta dell’altro contraente, la seconda la fase successiva relativa all’esecuzione del rapporto.

Questi due momenti sono separati anche dal punto di vista del riparto di giurisdizione: il dettato legislativo, infatti assegna al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di “affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, svolti da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria, ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale [….]”(art. 133, comma 1, lettera e), n. 1 c.p.a.), mentre spetta al giudice ordinario la cognizione su controversie, attinenti alla fase esecutiva del contratto (v. anche C.d.S. 691/10; Cass. SS.UU. ord. 17829/07).

Sulla scia di questa ripartizione “il Collegio non ritiene che il citato art. 1, comma 13, del d.l. n. 135 del 2012 possa corrispondere all’attribuzione di una potestà, che consenta all’Amministrazione – già parte di un rapporto contrattuale a regolazione civilistica – di intervenire ab extra sul rapporto stesso in forma e modalità autoritativa, in modo tale da svincolarsi dagli obblighi contrattuali assunti per affermate esigenze di interesse pubblico. Infatti la finalità migliorativa delle prestazioni “viene perseguita con una fattispecie di recesso unilaterale del contratto, che costituisce mera specificazione di quanto comunque consentito al committente, nell’ambito dei contratti di appalto, a norma dell’art. 1671 c.c.”.

In conclusione, ritenendo che l’esercizio del diritto di recesso da parte dell’Amministrazione non costituisca esercizio di una potestà pubblica, ma di un potere contrattuale, il Supremo Consesso ha dichiarato la materia rientrante nella giurisdizione del giudice ordinario in quanto attenente alla fase esecutiva del contratto. VA



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Inserito in data 19/03/2014
TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. I, 17 marzo 2014, n. 679

E' risarcibile la perdita di chance da mancata indizione di gara

Il giudice di merito, in parziale accoglimento delle doglianze presentate da una società di stampa a seguito dell’affidamento senza gara di un contratto di pubblicazione con il Consiglio Federale della FISI, ha affermato che è possibile riconoscere il diritto al risarcimento del danno c.d. da perdita di chance (quale lesione della “possibilità” di conseguire un risultato favorevole) anche quando non sia possibile fornire la prova di una probabilità di vittoria.

Nel caso in esame, infatti, essendo state violate le norme che imponevano l’indizione di una gara ad evidenza pubblica, non era possibile procedere alle suddette valutazioni data l’assenza di ogni criterio di partecipazione (non essendovi alcun bando di gara a fissarli) e, di conseguenza, non essendo possibile preventivare il numero di partecipanti alla stessa.

Tuttavia il Collegio ha ritenuto che “ la lesione di una siffatta posizione soggettiva produce ex sé un danno patrimoniale rispetto al quale la chance non opera come fattore delimitativo ai fini della determinazione dell’an, ma solo come possibile criterio di quantificazione del quantum (nell’ambito del quale può assumere rilevanza il dato dei potenziali partecipanti alla gara qualora determinabile)”.

Nell’ipotesi siffatta, invero, non sarebbe possibile applicare sia il criterio statico (che richiede la prova di un probabilità di vittoria superiore al 50%), sia il criterio eziologico (che, invece, richiede la prove della “possibilità di vittoria” non necessariamente vicina alla certezza). VA

 

 



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Inserito in data 18/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 marzo 2014, n. 1134

Diritto di accesso: chiarimenti in ordine all’interesse diretto, concreto e attuale

Il Collegio di Palazzo Spada illustra, ancora una volta, la nozione di interesse diretto, concreto e attuale che, secondo la giurisprudenza amministrativa ormai costante, fonda il diritto di accesso – ex art. 22 – c. 1’ – Lett. b) - L. 241/90 e ss. mm.

Nel caso specifico i Giudici d’appello, uniformandosi al decisum di primo grado, ritengono sussistente l’interesse dell’odierno appellato alla ostensibilità dei documenti con cui era stato disposto in ordine al proprio trasferimento da una sede di lavoro ad altra differente.

I Giudici, infatti, ricordando la necessaria garanzia dell’accesso qualora sia funzionale “a qualunque forma di tutela, sia giudiziale che stragiudiziale, anche prima e indipendentemente dall’effettivo esercizio di un’azione giudiziale” (cfr. Cons. St., sez. V, 23 febbraio 2010, n.1067), evidenziano come, in un caso simile, l’istanza di accesso avanzata dal ricorrente risulti formulata in rapporto di stretta strumentalità con la difesa in giudizio del proprio interesse legittimo oppositivo avverso il trasferimento d’autorità, già impugnato innanzi all’adito T.A.R.

E’ corretta, dunque, la richiesta ostensiva ribadita in sede di gravame. Viene confermata, peraltro, la possibile schermatura dei dati sensibili di eventuali controinteressati, come era già stata ampiamente suggerita dal Giudice territoriale, a sostegno della propria pronuncia favorevole al ricorrente. CC



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Inserito in data 18/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 marzo 2014, n. 1286

Gara pubblica, omessa produzione documenti e diritto alla par condicio tra concorrenti

La pronuncia ricorda l’importanza del principio della par condicio tra i partecipanti ad una gara pubblica.

Il Collegio, infatti, condividendo l’assunto del TAR, sottolinea come le regole previste dalla lex specialis debbano essere rispettate da tutti i candidati sin dalle prime fasi e per tutto il corso della procedura di gara. Sussiste, infatti, un reciproco dovere di rigorosa correttezza e buona fede che, altrimenti, verrebbe inciso.

Non è consentita, dunque, alcuna integrazione di certificati già necessari all’atto della partecipazione, come richiesto, invece, dall’odierno appellante; né, del resto, è possibile demandare il controllo – circa il rispetto delle regole concorsuali – all’Amministrazione.

Ciascun candidato, infatti, è tenuto a salvaguardare il proprio interesse personale al concorso; operando diversamente, l’Amministrazione finirebbe con il poter pregiudicare proprio quella par condicio che, invece, tenta di assicurare imponendo il rigoroso rispetto delle condizioni di gara.

Sulla base di tali considerazioni, quindi, il Collegio avalla le statuizioni del Giudice di primo grado, confermando l’inefficacia del contratto originariamente stipulato dalla ditta appellante, interessata all’integrazione e alla produzione di altri documenti. CC

 



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Inserito in data 17/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 marzo 2014 n. 1296

La comunicazione dell’aggiudicazione e l’applicazione dell’art. 84 c. 10 D.lgs. 163/06

Con la sentenza in esame, i Giudici di Palazzo Spada si esprimono sulla comunicazione dell’aggiudicazione da cui decorre il termine di cui all’art. 120, comma 5, Cod. proc. amm., e sull’applicabilità alle concessioni di servizi dell’art. 84, comma 10, del D.Lgs. n. 163 del 2006.

In primo luogo, infatti, il Collegio sostiene che la nota in cui è scritto che un’impresa «non è vincitrice di gara», omettendo l’indicazione dell’aggiudicazione ad altra impresa, “impedisce di potere ritenere avvenuta quella piena conoscenza necessaria ai fini della decorrenza del termine di impugnazione dell’aggiudicazione”.

Ciò posto, deve ricordarsi che “’l’art. 120, comma 5, Cod. proc. amm., non prevedendo forme di comunicazione esclusive e tassative, non incide sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell’atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, sia acquisita con forme diverse da quelle dell’art. 79 del d.lgs. n. 163 del 2006 (tra le altre, Cons. Stato, VI, 5 dicembre 2013, n. 5806)”.

In ordine al secondo quesito, il Consesso, alla luce della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 13 del 2013, ritiene, invece, che “in sede di affidamento di una concessione di servizi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sono applicabili, tra l’altro, le disposizioni di cui al citato art. 84, comma 10, in quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di trattamento, richiamati dall’art. 30, comma 3, del medesimo decreto legislativo”.

Ne consegue, quindi, che “la nomina dei commissari e la costituzione della commissione devono avvenire dopo la scadenza del termine fissato per la presentazione delle offerte”. EMF



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Inserito in data 17/03/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 14 marzo 2014, n. 50

Sui rapporti tra legge delega e decreto legislativo

E’ fondata, sotto il profilo del difetto di delega (ex art. 76 Cost.), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale), “nella parte in cui prevedono un meccanismo di sostituzione sanzionatoria della durata del contratto di locazione per uso abitativo e di commisurazione del relativo canone in caso di mancata registrazione del contratto entro il termine di legge, nonché l’estensione di tale disciplina – e di quella relativa alla nullità dei contratti di locazione non registrati – anche alle ipotesi di contratti di locazione registrati nei quali sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo, o di contratti di comodato fittizio registrati”.

Tale disciplina, infatti, si presenta “del tutto priva di “copertura” da parte della legge di delegazione: in riferimento sia al relativo ambito oggettivo, sia alla sua riconducibilità agli stessi obiettivi perseguiti dalla delega”.

E’ del tutto evidente come con la legge n. 42 del 2009 – come previsto dalla disposizione programmatica di cui all’art. 1, comma 1 –, “il Parlamento ha inteso introdurre «disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l’istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l’utilizzazione delle risorse aggiuntive e l’effettuazione degli interventi speciali di cui all’articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese». Accanto a ciò, l’obiettivo dichiarato è quello di disciplinare «i principi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni», dettando «norme transitorie sull’ordinamento, anche finanziario, di Roma capitale»”.  

Pertanto, del tutto coerenti appaiono l’«oggetto e finalità» della delega definiti dall’art. 2 della legge, ove si precisa, appunto, che l’esercizio della funzione legislativa è conferito «al fine di assicurare, attraverso la definizione dei princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario e la definizione della perequazione, l’autonomia finanziaria di comuni, province, città metropolitane e regioni nonché al fine di armonizzare i sistemi contabili e gli schemi di bilancio dei medesimi enti e i relativi termini di presentazione e approvazione, in funzione delle esigenze di programmazione, gestione e rendicontazione della finanza pubblica»”.  

A proposito dei rapporti che devono intercorrere tra la legge di delegazione approvata dal Parlamento e il decreto legislativo emanato dal Governo, difatti, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato “come il sindacato di legittimità costituzionale sulla delega legislativa si esplichi attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli. Il primo riguarda le disposizioni che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla legge di delegazione, tenuto conto del contesto normativo in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità relative. Il secondo riguarda le disposizioni stabilite dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi e i criteri direttivi della delega”.   

Ne discende, quindi, che “il test di raffronto con la norma delegante, cui soggiace la norma delegata, deve ritenersi avere esito negativo, quando quest’ultima intercetta un campo di interessi così connotato nell’ordinamento, da non poter essere assorbito in campi più ampi e generici, e da esigere, invece, di essere autonomamente individuato attraverso la delega» (sentenza n. 219 del 2013)”.

In particolare, nei casi in cui il Parlamento deleghi al Governo il compito di procedere al riassetto di determinati settori normativi, l’esercizio, da parte del legislatore delegato, «di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita», deve ritenersi circoscritto entro limiti rigorosi; di guisa che «l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente» può ritenersi ammissibile «soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato» (sentenza n. 80 del 2012, con richiamo della sentenza n. 293 del 2010). EMF



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Inserito in data 16/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 marzo 2014, n. 1030

Omesse indicazioni in sede di offerta economica

I giudici di Palazzo Spada hanno chiarito che l'omessa indicazione, in sede di offerta economica, del separato costo da sostenere per gli oneri di sicurezza non comporta, di per sé, l'automatica esclusione dalla gara.
Nel caso di appalti non aventi ad oggetto l'esecuzione di lavori pubblici, nei cui confronti si applica la norma dettata ad hoc dall'art. 131 d.lgs. n 163 del 2006, Codice dei Contratti Pubblici, ed il cui bando di gara non contenga una comminatoria espressa, l'omessa indicazione nell'offerta dello scorporo matematico degli oneri di sicurezza per rischio specifico non comporta, già di per sé, l'esclusione dalla gara, bensì rileverà ai soli fini dell'anomalia del prezzo offerto; nel senso che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione dei suddetti oneri non è rimosso in toto, bensì semplicemente posticipato al sub – procedimento di verifica della congruità dell'offerta nel suo complesso.
Nelle fattispecie relative alla cessione di azienda o di ramo di azienda, nonostante la non univocità della norma circa l'onere dichiarativo dell'impresa – cui va aggiunta l'incertezza degli indirizzi giurisprudenziali – in assenza nella disciplina di gara di una specifica comminatoria di esclusione, quest'ultima potrà essere disposta, non già per la mera omessa dichiarazione dei requisiti di moralità previsti all'art. 38 del d.lgs. n. 163 del 2006, prescritti per l'ammissione alle procedure di affidamento di concessioni e di appalti pubblici, ma solamente là dove sia effettivamente riscontrabile l'assenza del requisito in oggetto. GMC



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Inserito in data 16/03/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 5 marzo 2014, n. 1036

Rettifica di un provvedimento amministrativo

Ai fini dell’inquadramento di un atto amministrativo, non assume alcun rilievo dirimente l’autoqualificazione resa dall’amministrazione emanante, dovendosi, invece, aver riguardo al suo contenuto sostanziale ed alla funzione da esso perseguita.
L’istituto della rettifica consiste, sostanzialmente, nella eliminazione di errori ostativi o di errori materiali cui l’Amministrazione sia incorsa, di natura non invalidante ma che diano luogo a delle mere irregolarità.

È bene chiarire che affinché ricorra un’ipotesi di errore materiale in senso tecnico – giuridico, occorre che esso sia il frutto di una “svista” in grado di determinare una discrasia tra manifestazione della volontà esternata nell’atto e volontà sostanziale dell’autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall’atto medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un criterio di normalità. Si rileva che, in tale contesto, non v'è necessità alcuna di ricorrere ad un particolare sforzo valutativo ed interpretativo, valendo il requisito della riconoscibilità ad escludere l’insorgenza di un affidamento incolpevole del soggetto destinatario dell’atto in ordine alla corrispondenza di quanto dichiarato nell’atto a ciò che risulti effettivamente voluto.

Inoltre, oltre un congruo limite temporale, non può farsi luogo neanche alla rettifica, onde non pregiudicare la certezza dei rapporti, soprattutto nei casi di incidenza pregiudizievole sulla situazione giuridica del destinatario dell’atto.
Quanto alla rettifica delle previsioni del piano urbanistico comunale adottato/approvato, sarà ammissibile solo in presenza di un errore materiale che abbia inciso nella fase di redazione e/o assemblaggio dei diversi atti che formano lo strumento urbanistico, senza che lo stesso, tuttavia, abbia influito sulla scelta urbanistica sottostante, dovendo, altresì, la divergenza esistente tra previsioni, solo apparentemente diverse, dello strumento pianificatorio, essere risolvibile per mezzo dell’individuazione, sulla base di un vincolato procedimento logico, di una soluzione univoca che s’imponga in modo manifesto ed immediato dalla lettura della documentazione del piano, senza dover ricorrere ad alcuna attività interpretativa della volontà dell’Amministrazione deliberante.
Il provvedimento di rettifica è espressione di una funzione amministrativa di contenuto identico, seppure di segno opposto, a quella esplicata in precedenza.

Tale funzione dovrà, dunque, articolarsi secondo gli stessi moduli già adottati, senza i quali rischia di risultare per certi aspetti incompiuta o, comunque, difettosa rispetto all’identica causa del potere. A ben vedere, l'Amministrazione è tenuta a porre in essere un procedimento omologo, anche per quel che concerne le formalità pubblicitarie, a quello a suo tempo seguito per l’adozione dell’atto modificato, richiedendosi, dunque, una speculare identità dello svolgimento procedimentale. GMC



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Inserito in data 14/03/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 marzo 2014, n. 35

Da ridurre i consiglieri ed assessori: q.l.c. per violazione art. 117 3’ c. della Costituzione

I Giudici della Consulta accolgono la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri con riguardo ad una delibera legislativa statutaria della Regione Calabria, riguardante il numero dei consiglieri e degli assessori regionali.

In particolare, gli articoli 1 e 2 della delibera sarebbero in contrasto, rispettivamente, con le lettere a) e b) dell’articolo 14, comma 1, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, che costituirebbero principi di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione.

In particolare, la norma del D.L. n. 138, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, detta criteri di proporzione tra elettori, eletti e nominati e, come tale, individua parametri di coordinamento in tema di finanza pubblica, compatibilmente al disposto costituzionale di cui al terzo comma dell’articolo 117.

Si spiega, così, la perplessità riguardo alla delibera legislativa oggi impugnata. Questa, infatti, statuendo un numero di Consiglieri ed Assessori di gran lunga superiore rispetto alla consistenza della popolazione della Regione Calabria – da ultimo registrata, dà luogo, non solo ad una disparità tra elettori e rappresentanti ma, altresì, ad un’evidente iniquità rispetto agli obiettivi di finanza pubblica.

Ne discende, dunque, il contrasto rispetto al citato articolo 14 del D.l. n. 138 del 2011 e la conseguente violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, come sottolineato dal Collegio della Consulta. CC

 



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Inserito in data 14/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 marzo 2014, n. 1104

Abuso edilizio: illecito permanente e diritto P.A. al ripristino dello status quo ante

Con la pronuncia in esame, il Collegio di Palazzo Spada aderisce e conferma l’orientamento giurisprudenziale prevalente in tema di abusi edilizi e conseguenti sanzioni.

I Giudici, infatti, ricordando – da un lato – il noto insegnamento della Corte Costituzionale riguardo all’inerenza dello ius aedificandi al diritto di proprietà e, dall’altro, ribadendo la funzione sociale del diritto dominicale e la necessaria, piena tutelabilità, sottolineano come nessuna nuova disciplina urbanistico – edilizia possa sanare un’opera realizzata in assenza di previa istanza autorizzatoria, come quella del caso odierno.

La previa domanda del cittadino, infatti, consente una comparazione tra la relativa pretesa e gli interessi pubblici eventualmente confliggenti e va presentata entro un termine perentorio.

Tanto non è accaduto nel caso in esame in cui, pertanto, è configurabile un abuso edilizio, qualificato dalla giurisprudenza prevalente come un illecito permanente.

Come tale, esso spinge l’Amministrazione a ripristinare lo stato dei luoghi e a sanzionare la condotta contra legem, con impraticabilità di qualsiasi comparazione, al riguardo, fra l’interesse del privato alla conservazione del bene e l’interesse pubblico, sotteso alla garanzia di effettività della disciplina dell’assetto del territorio, a tutela degli interessi collettivi della popolazione (Cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. IV, sentt. 27 dicembre 2011 n. 6873 e 8 gennaio 2013 n. 32; sez. VI, sent. 15 marzo 2007 n. 1255). CC

 

 



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Inserito in data 13/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 marzo 2014, n. 1126

Principio d’irrisarcibilità dei danni evitabili dal danneggiato secondo diligenza

Nella decisione in esame, il Consiglio di Stato ci ricorda che il principio dell’irrisarcibilità dei danni evitabili (art. 1227, c. 2, c.c.) opera anche nel processo amministrativo ex art. 30 c.p.a.

Segnatamente, “l’art. 30, comma 3, del c.p.a. dispone, che, nel determinare il risarcimento, «il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti»”.

“In proposito l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3 del 23 marzo 2011, ha affermato che l’articolo 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, […] pur non evocando in modo esplicito il disposto dell’art. 1227, comma 2, del codice civile, afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, un dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza”.

“Con la conseguente rilevanza, sul versante causale, dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione dello strumento di tutela specifica predisposto dall’ordinamento a protezione delle posizioni di interesse legittimo e per evitare il consolidamento di effetti dannosi”.

“E ciò in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come un fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile”.

Nel caso di specie, i danneggiati non avevano impugnato, nei termini, il provvedimento che aveva loro assegnato un contributo ritenuto inferiore a quello spettante: pertanto, se ne erano consolidati gli effetti, impedendo loro di richiedere il risarcimento per tali maggiori somme. TM

 

 



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Inserito in data 13/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE PENALE, SENTENZA 7 marzo 2014, n. 10110

Novità sul fatto di lieve entità ex art. 73, c. 5 dpr 309/90 (TU stupefacenti)

La Suprema Corte esamina l’art. 73, c. 5, del d.p.r. 309/90, modificato dall’art. 2, c. 1, lett. a del d.l. 146/13 (convertito senza modifiche sul punto dalla L. 10/14).

Per effetto di tale riforma il fatto di lieve entità non integra più una circostanza attenuante, bensì costituisce un autonomo titolo di reato; ciò si ricava, tra l’altro, dalla previsione di una clausola di sussidiarietà espressa (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”), dalla specifica individuazione di un soggetto attivo (“chiunque”) e di una condotta tipica (“commette”). Di conseguenza, tale fatto oggi non è più suscettibile di bilanciamento con le circostanze aggravanti.

Inoltre, la riforma ha ridotto il massimo edittale di pena detentiva (da 6 a 5 anni): ciò produce effetti favorevoli per l’imputato sui termini di custodia cautelare e sul computo della prescrizione.

Per il principio del favor rei (art. 2.4 c.p.), tale nuova disciplina si applicherà anche ai fatti commessi sotto il vigore della previgente. “Ritiene tuttavia il Collegio che, a fronte di un’immutata previsione del fatto-reato sanzionato, un problema di successione di leggi nel tempo – e di necessità di ricalcolare una pena divenuta illegale, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato – si ponga soltanto nel caso in cui il giudice del merito sia partito da una pena base, oggi non più contemplata, superiore a cinque anni di reclusione. Oppure quando, considerata l’ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 73 Dpr. 309/90 circostanza attenuante, ne abbia eliso la portata bilanciandola, in quanto ritenuta minusvalente o equivalente, rispetto a circostanze aggravanti”. Infatti, in questi casi: la pena irrogata è illegale e la sentenza impugnata va annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio al giudice di merito; l’accordo concluso in sede di patteggiamento è invalido e perciò il giudice deve operare un annullamento senza rinvio per consentire alle parti di rinegoziare l’accordo su altre basi. Viceversa, la pena non va rideterminata se quella originaria era prossima al minimo edittale, rimasto immutato. Infine, quando la pena è vicina all’attuale massimo edittale, occorrerà accertare caso per caso se essa necessiti di essere rideterminata perché divenuta sproporzionata per eccesso o meno.

Il Giudice della legittimità si pronuncia anche in merito agli effetti della sentenza n. 32/2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 4bis e 4vicies ter d.l. n. 272/05 (legge Fini-Giovanardi) per violazione dell’art. 77, c. 2, Cost. Tale sentenza d’incostituzionalità determina la reviviscenza del primo e quarto comma dell’art. 73 nel testo anteriore alla novella del 2005 e, conseguentemente, gli illeciti concernenti le “droghe leggere” beneficeranno di un trattamento sanzionatorio più mite (multa e reclusione da due a sei anni), mentre gli illeciti inerenti le “droghe pesanti” soggiaceranno a sanzioni più severe (multa e reclusione da otto a venti anni). Nella stessa sentenza, la Corte ha escluso che tale dichiarazione d’incostituzionalità incida sul d.l. 146/13.

Pertanto, a seguito della dichiarazione d’incostituzionalità, le norme in tema di stupefacenti puniscono con pene diverse i fatti concernenti le droghe pesanti e quelli relativi alle droghe leggere, mentre puniscono in modo indifferenziato, sia per le droghe pesanti che per quelle leggere, i fatti di lieve entità. TM

 




Inserito in data 12/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 marzo 2014, n. 1085

Sindacato estrinseco ed intrinseco sulla valutazione di anomalia dell’offerta

Le valutazioni della commissione in sede di valutazione dell’anomalia dell’offerta hanno carattere essenzialmente tecnico e sono finalizzate non già alla ricerca di singole inesattezze dell’offerta, ma ad accertare la sua attendibilità o inattendibilità nel suo complesso, affinché offra sufficienti garanzie di affidabilità ai fini della corretta esecuzione dell’appalto.

Il sindacato giurisdizionale attiene in questi casi principalmente ad un controllo di tipo estrinseco, limitato alla valutazione di figure sintomatiche di eccesso di potere per travisamento dei fatti, arbitrarietà, carenza o illogicità della motivazione; esso è volto ad accertare che questa sia congrua e dettagliata e dia conto di tutti gli elementi dell’offerta e delle ragioni per le quali essa venga considerata inattendibile. Il sindacato può essere esteso a profili intrinseci “solo quando venga in rilievo un vizio che attiene alla palese scorrettezza dell’operazione tecnica o del procedimento applicativo eseguiti”. CDC



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Inserito in data 12/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 5 marzo 2014, n. 10561

Confisca di beni di persone giuridiche per reati tributari commessi dai loro organi

La sentenza in esame affronta la seguente questione: “se sia possibile o meno disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente nei confronti di beni di una persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante o da altro organo della stessa”.

Secondo la sentenza, la confisca diretta del profitto di reato è possibile in tali ipotesi, quando il profitto sia rimasto nella disponibilità della persona giuridica. Ciò si fonda sull’art. 6, comma 5, d.lgs. 231/2001, secondo cui è “comunque disposta la confisca del profitto che l'ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente”. Tale norma si ricollega non ad una prospettiva di tipo sanzionatorio, ma di ripristino dell'ordine economico perturbato dal reato, che comunque ha determinato una illegittima locupletazione per l'ente.

Non è invece di regola possibile la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica, quando non sia stato reperito il profitto del reato tributario compiuto dai suoi organi, salva la sola ipotesi in cui la persona giuridica sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisca come effettivo titolare.

Infatti, tale confisca (come anche il sequestro alla stessa finalizzato) non può avvenire ai sensi dell’art. 19 d.lgs. 231/2001, atteso che il citato d.lgs. non prevede i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l'adozione del provvedimento. La confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica non può inoltre fondarsi né sull’art. 1, comma 143, l. 244/2007 (che non contiene una previsione autonoma di confisca per equivalente), né sull'art. 322-ter cp (che si applica all'autore del reato, mentre la persona giuridica non può essere considerata tale).

La sentenza aggiunge infine che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità. Infatti, “è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato”. Tuttavia, tale irrazionalità non può essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, dato che il secondo comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. CDC




Inserito in data 11/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE, 4 marzo 2014, n.5056

Danno da morte immediata e trasmissibilità: chiamate le Sezioni Unite

Con l’ordinanza in questione la Suprema Corte di Cassazione ha rimesso alle S.U. la soluzione dei nuovi contrasti emersi in giurisprudenza sul tema della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata seguito della pronuncia emessa il 23 gennaio (v. Cass. 1361/14).

Con quest’ultima sentenza, infatti, è stato riaperto il dibattito in merito alla possibilità di ammettere il risarcimento, richiesto iure ha ereditario, del c.d. danno tanatologico ai familiari del soggetto deceduto.

Invero, le Sezioni Unite del 2008, con la sentenza n. 26972, sulla scia di numerose pronunce giurisprudenziali che avevano affermato il principio della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata, poi posto a fondamento della decisione n. 372 del 1994 della Corte Costituzionale, “che aveva escluso profili di illegittimità costituzionale dell'art. 2043 codice civile, in relazione al c.d. 'danno biologico da morte', in dipendenza del 'limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l'oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa”, sembravano aver risolto la vexata questio.

Quest’orientamento era stato seguito in modo unanime dalla giurisprudenza successiva la quale, in tempi più recenti, era arrivata ad ammettere la trasmissibilità agli eredi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale solo con riferimento alla sofferenza morale provata tra l'infortunio e la morte, dunque nella sola ipotesi in cui, in tale periodo di tempo, la persona fosse rimasta lucida e cosciente.

Tuttavia con la citata sentenza 1361/14 gli Ermellini hanno rivisto la propria posizione affermando l’opposto principio ed ammettendo la risarcibilità del c.d. danno tanatologico.

Nella suddetta pronuncia, infatti, i giudici della Corte di Cassazione hanno rilevato come la perdita della vita, che costituisce il bene primario di ogni individuo, non può essere lasciata “priva di tutela (anche) civilistica', poiché 'il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute', così che la sua risarcibilità 'costituisce realtà ontologica ed imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza”'.

Con questa decisione, dunque, si è voluto superare il limite posto dal criterio della individuazione di un adeguato periodo di lucidità e di coscienza nella vittima del sinistro ai fini dell'acquisizione al suo patrimonio di un diritto trasmissibile iure successionis.

Pertanto, preso atto del nuovo contrasto giurisprudenziale e della rilevanza della materia la Suprema Corte ha ritenuto opportuno rimettere la questione alle S.U. affinchè “dica la Corte se sia legittimo o non negare il risarcimento del danno biologico richiesto iure haereditario dagli stretti congiunti della vittima allorquando la vittima stessa sia immediatamente deceduta a seguito delle gravi lesioni riportate in un incidente stradale”. VA




Inserito in data 11/03/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 marzo 2014, n. 41

Sulla parziale illegittimità costituzionale dell’art. 83 d.p.r. 361/1957

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 83, comma 1, numero 8), ultimo periodo, del d.P.R. n. 361 del 1957, limitatamente alla parte in cui consente un’alterazione del riparto dei seggi tra le circoscrizioni e, conseguentemente, la richiesta di annullamento del provvedimento illegittimo emesso in applicazione della norma in questione.

La Corte di legittimità, infatti, è stata chiamata a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione promosso dalla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, fondato sull’assunto della mancata spettanza allo Stato del potere di assegnazione di un diverso numero di seggi rispetto a quello previsto dal d.p.r. 22 dicembre 2012 (Assegnazione alle circoscrizioni elettorali del territorio nazionale e alle ripartizioni della circoscrizione Estero del numero dei seggi spettanti per l’elezione della Camera dei deputati), in quanto applicazione del disposto costituzionale di cui all’art. 56 cost.

Invero, secondo la parte impugnante, “il criterio di ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni sarebbe fissato dall’art. 56 Cost. attraverso un rigido rapporto di proporzionalità con la popolazione delle stesse rivestirebbe carattere assoluto, in quanto espressione del principio democratico, della sovranità popolare e della parità di trattamento tra i cittadini”.

Dall’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, numero 8), del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), e successive modificazioni conseguirebbe anche l’illegittimità del provvedimento emesso dallo Stato in applicazione del sopra esposto criteri di ripartizione dei seggi e ciò in quanto “altererebbe la distribuzione della rappresentanza territoriale come definita dalla Costituzione, determinando una sottorappresentazione della comunità friulana e giuliana”, ne veniva, pertanto, richiesto l’annullamento, previa declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, numero 8).

Tuttavia, come già preannunciato, la Corte ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione sul rilievo che “perché si dia la materia di un conflitto di attribuzione fra Regione e Stato, occorre innanzitutto che la prima lamenti la lesione della propria sfera di competenza costituzionale e in secondo luogo che «la negazione o lesione della competenza sia compiuta immediatamente e direttamente con quell’atto” (ex plurimis, sentenza n. 206 del 1975)”.

Peraltro, nel caso di specie, la Regione non vantava alcuna competenza costituzionalmente garantita in materia, né poteva esprimere alcuna rappresentanza parlamentare (un qaunto i deputati eletti rappresentano l’intera nazione, art. 67 cost.).

Appariva, dunque, evidente l’assenza degli stessi presupposti necessari per la presentazione del conflitto di attribuzione.

Parimenti inammissibile è stata dichiarata la richiesta di annullamento del provvedimento amministrativo.

La Corte, infatti, ha ricordato come dalla stessa sia stato più volte affermato, in merito al rapprtp fra atto amministrativo impugnato e legge di cui lo stesso è attuazione, che “in sede di conflitto di attribuzione non (è) possibile impugnare atti amministrativi al solo scopo di far valere pretese violazioni della Costituzione da parte della legge che è a fondamento dei poteri svolti con gli atti impugnati” (v. sentenza n. 472 del 1995). Pertanto, potendosi ricondurre la lesione lamentata alla norma di legge e non all’atto impugnato, mera attuazione della prima in considerazione dell’assenza di ogni margine di discrezionalità, anche il secondo motivo di impugnazione doveva essere dichiarato inammissibile. VA

 

 



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Inserito in data 10/03/2014
TAR TOSCANA – FIRENZE, SEZ. I, 5 marzo 2014, n. 418

La responsabilità precontrattuale della P.A.

Secondo la giurisprudenza consolidata gli enti pubblici possono essere chiamati a rispondere a titolo di responsabilità precontrattuale (ex artt. 1337 e 1338 c.c.) “laddove abbiano ingenerato legittimi affidamenti che poi non sono stati rispettati.

In tal caso, infatti, “si verifica una lesione non ad un interesse legittimo bensì al diritto soggettivo alla libertà negoziale di coloro che sono entrati in trattative con l’ente. Non si tratta quindi di valutare il corretto esercizio della discrezionalità amministrativa poiché non viene in rilievo alcun bilanciamento di interessi; ciò che si deve verificare è invece se l’amministrazione si sia comportata da corretto contraente, senza ingenerare falsi affidamenti in terzi e rispettando legittimi affidamenti comunque creati. Trattasi di un giudizio su un diritto soggettivo che il giudice amministrativo é competente a conoscere in ragione dell’esclusività della sua giurisdizione in tema di procedure di affidamento dei contratti pubblici” (art. 133, comma 1, lett. e], n. 1] c.p.a., in giurisprudenza C.d.S. IV, 11 novembre 2008 n. 5633).

Più in particolare, il pregiudizio non attiene “alla spettanza dell’aggiudicazione di un determinato contratto pubblico bensì alla lesione dell’affidamento che sia stato ingenerato in un terzo dal comportamento tenuto da una pubblica amministrazione, la quale l’abbia coinvolto in una trattativa che, successivamente, sia stata colposamente posta nel nulla, anche se il provvedimento di annullamento o di revoca della procedura attivata possa reputarsi legittimo. (C.d.S. V, 7 settembre 2009 n. 5245).

Ne discende che la pretesa risarcitoria del terzo riguarda “non l’utile che avrebbe potuto ricavare dall’esecuzione del contratto pubblico, poiché non è della spettanza di questo che si discute, bensì le spese sostenute per avere partecipato inutilmente alla procedura e il lucro cessante consistente nelle occasioni di lavoro perdute a causa di detta partecipazione, cd. ‘chance contrattuale alternativa’ “ (C.d.S. VI, 1 febbraio 2013 n. 633). EMF



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Inserito in data 10/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 marzo 2014 n. 1072

L'avvalimento è una facoltà di esclusiva pertinenza del "concorrente"

La questione posta all’esame del Collegio consiste “nello stabilire se il progettista indicato, nella accezione e terminologia usata dall’art. 53 co.3 del codice dei contratti, (“..avvalersi di progettisti qualificati da indicare nell’offerta..”), possa o meno fare ricorso ad un progettista terzo, utilizzando a sua volta l’istituto dell’avvalimento”.

In particolare, secondo il Consiglio di Stato e l’Autorità di Vigilanza, tale possibilità deve respingersi alla luce di due criteri esegetici:

a) il criterio letterale (ex art. 49 D. Lgs. n. 163 del 2006), secondo cui “solo “il concorrente” singolo, consorziato o raggruppato può ricorrere all’avvalimento trattandosi di un istituto di soccorso al concorrente in sede di gara per cui va escluso chi si avvale di soggetto ausiliario a sua volta privo del requisito richiesto dal bando”;

b) “il fatto che se il progettista indicato non è legato da un vincolo negoziale con la stazione appaltante, a maggior ragione non è legato il suo ausiliario che è soggetto terzo che non può offrire alcuna garanzia alla amministrazione”.  

Infatti, stante che gli obblighi contrattuali con la Pubblica Amministrazione appaltante sono assunti dal solo concorrente, l’ausiliario, a mente dell’art. 49 co.2 lett. d), “si obbliga verso il concorrente e la stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie di cui è carente il concorrente mediante apposita dichiarazione; inoltre l’ausiliario diventa ex lege responsabile in solido con il concorrente in relazione alle prestazioni oggetto del contratto (art. 49 co.4)”.

Peraltro, la “responsabilità solidale, che è garanzia di buona esecuzione dell’appalto, può sussistere solo in quanto la impresa ausiliaria sia collegata contrattualmente al concorrente tant’è che l’art. 49 prescrive l’allegazione, già in occasione della domanda di partecipazione, del contratto di avvalimento mentre tale vincolo contrattuale diretto con il concorrente e con la stazione appaltante non sussiste nel caso in cui sia lo stesso ausiliario che ricorre ai requisiti posseduti da terzi” (Cons. Stato, III, 1.10.2012 n.5161). 

D’altra parte, “la estensione della categoria di “concorrente” sino a comprendere l’ausiliario e/o il soggetto indicato dal concorrente per la progettazione, comportando potenzialmente una catena di avvalimenti di “ausiliari dell’ausiliario” non consente un controllo agevole da parte della stazione appaltante in sede di gara sul possesso dei requisiti dei partecipanti”. EMF

 

 



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Inserito in data 09/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 marzo 2014, n. 1018

Integrazione della motivazione ed esecuzione del giudicato

Nel giudizio amministrativo, il divieto di integrazione della motivazione non ha carattere assoluto. Non sempre, infatti, i chiarimenti resi nel corso del giudizio valgono quale inammissibile integrazione postuma della motivazione: è il caso degli atti di natura vincolata di cui all'art. 21-octies della Legge n. 241 del 1990.

Con specifico riguardo a tali atti, la Pubblica Amministrazione può dare anche in un momento successivo l'effettiva dimostrazione, in giudizio, dell'impossibilità di un diverso contenuto dispositivo dell'atto, oppure quello concernente la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, nel caso in cui questa, data la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale.
Nonostante il divieto di motivazione postuma, affermato dalla giurisprudenza amministrativa, meriti di essere ribadito, rappresentando l'obbligo di motivazione l'essenziale presidio del diritto di difesa, non può ritenersi che la Pubblica Amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione allorquando le ragioni del provvedimento siano intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato o si verta, oppure, in ipotesi di attività vincolata della stessa.
Considerando l'attuale assetto normativo, devono essere attenuate le conseguenze del principio del divieto di integrazione postuma, dequotando in tal senso il relativo vizio tutte le volte in cui l'omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato, nei casi in cui, in fase infraprocedimentale, risultano percepibili le ragioni sottese all'emissione del provvedimento gravato e nei casi, come anticipato, di atti vincolati. GMC

 



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Inserito in data 09/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 febbraio 2014, n. 944

Sull'informativa antimafia c.d. “atipica”

L'informativa antimafia c.d. "atipica", a differenza di quella c.d. "tipica", non ha carattere direttamente interdittivo, consentendo alla stazione appaltante di valutare discrezionalmente se avviare, o proseguire, i rapporti contrattuali, alla luce della idoneità morale dell'imprenditore di assumere la posizione di contraente con la Pubblica Amministrazione.

È bene rilevare che l'efficacia interdittiva può comunque scaturire dall'autonoma valutazione discrezionale della P.A. (o, nel caso di specie, dell'ente appaltante, qual è l'ANAS S.p.A,) destinataria della predetta informativa prefettizia atipica.

È pacifico che quest'ultima, ancorché non priva di effetti nei confronti della P.A., non ne comprime interamente l'autonoma capacità di apprezzamento del dato fornito, onde il mantenimento o la risoluzione del rapporto contrattuale, deve tuttavia essere sempre il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante.
In giurisprudenza, inoltre, è molto importante il principio secondo il quale non serve, anche a fronte di un'informativa "atipica" una motivazione molto ampia, se non quando la stazione appaltante decidesse d'instaurare, o di proseguire, il rapporto con l'impresa, anche a seguito dell'informativa che la riguardi.

La ragione di ciò risiede, sostanzialmente, nella natura dell'accertamento antimafia, prescindendo tuttavia dagli effetti automatici che la legge, a seconda dei casi, gli accorda, nonché nella correlata esigenza di tutelare, in via preferenziale, anche con dei meccanismi di tipo indiziario, la trasparenza del settore dei pubblici appalti da fenomeni altamente pericolosi nonché invasivi da parte della criminalità organizzata. GMC

 

 

 



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Inserito in data 07/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 marzo 2014, n. 1067

L’ammonimento ex L. 38/09 presuppone l’accertamento imparziale degli atti persecutori

La controversia in esame trae origine da un provvedimento di un Questore di ammonimento ex art. 8 del d.l. n. 11 del 2009 (convertito in L. 38/09) nei confronti del ricorrente a mantenere una condotta conforme a legge e ad astenersi dal compiere atti persecutori nei confronti della ex compagna, con l’avvertenza che, altrimenti, sarà deferito anche d’ufficio all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 612 bis c.p.

In primis, il Consiglio di Stato ci ricorda che “l’art. 8 del d.l. 23 febbraio 2009 n. 11, conv. con mod. dalla legge 23 aprile 2009 n.38, sulla richiesta di ammonimento nei confronti della persona autore della condotta di reiterate minacce o molestie, il questore provvede “assunte se necessario informazioni degli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti”. La Sezione ha già avuto modo di affermare che il provvedimento di ammonimento assolve ad una funzione tipicamente cautelare e preventiva, sicché potrebbe essere omessa la comunicazione dell’avvio del procedimento nella ricorrenza di particolari esigenze di celerità (cfr. Cons. St., Sez. III, 23 febbraio 2012 n. 1069); è stato peraltro precisato che la norma prescrive l’audizione delle persone informate dei fatti, tra le quali rientra l’ammonendo, il quale deve essere posto in grado di replicare alle contestazioni (cfr. Cons. St., Sez. III, 21 ottobre 2011 n. 5676)”.

In secundis, il Questore è tenuto ad apprezzare criticamente quanto addotto dalla richiedente, ossia deve acquisire elementi di giudizio ulteriori rispetto a quelli forniti dalla stessa parte, altrimenti incorrendo in difetto d’istruttoria.

Da ultimo, i Giudici di Palazzo Spada affermano che lo stato di ansia e di timore dell’interessata

non giustifica di per sé solo l’applicazione della misura di cui si controverte, dovendosene verificare il collegamento non soggettivo con manifestazioni di un attuale e concreto intento persecutorio; e ciò, giova ribadirlo, anche sulla scorta di elementi non riconducibili in via esclusiva alla richiedente”. TM



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Inserito in data 07/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 marzo 2014, n. 4928

Sulla responsabilità del medico che non impedisce interventi abusivi sui pazienti

Oggetto della decisione in esame è il ricorso avverso una sanzione disciplinare irrogata dall’Ordine dei Medici e dei Chirurghi di Milano e confermata dalla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie.

La condotta sanzionata consisteva nel non aver vigilato sull’attività odontoiatrica svolta presso lo studio di cui il ricorrente era responsabile sanitario, così consentendo che persone non in possesso dei requisiti necessari per l’esercizio della professione odontoiatrica esercitassero abusivamente la professione.

La Suprema Corte conferma la legittimità del provvedimento disciplinare, in quanto la responsabilità posta a carico del sanitario non è oggettiva bensì colposa per fatto omissivo. In particolare, si rimprovera il sanitario per non aver posto in essere “quegli accorgimenti che la sua non continua presenza presso lo studio rendeva necessari  per garantire che il personale operante presso la struttura non perpetrasse condotte abusive”; ”tra le prime misure da assumere vi era proprio quella di impedire interventi abusivi sui pazienti in assenza del sanitario”. TM




Inserito in data 06/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, SENTENZA NON DEFINITIVA - 3 marzo 2014, n. 993

Acquisizione sanante: questioni di legittimità costituzionale e di giurisdizione

La pronuncia ha ad oggetto un ricorso avverso una sentenza del Tar Lombardia concernente il quantum del risarcimento danni dovuto a seguito di emanazione di un provvedimento di acquisizione sanante emesso sotto la vigenza dell’art. 43 TU espropriazioni.

La vicenda presenta numerosi profili problematici in considerazione dell’intervento, medio tempore, della Corte Costituzionale che ha tacciato di illegittimità per eccesso di delega la norma in questione, oggi sostituita dall’art. 42-bis TU espropriazioni.

Si pone, infatti, il problema del rapporto intercorrente tra il giudicato ed il potere residuo dell’amministrazione, degli effetti caducatori delle pronunce della Corte Costituzionale sugli atti amministrativi emanati in base ad una norma successivamente dichiarata incostituzionale e, correlativamente, dei termini e dei modi con cui introdurre le suddette questioni all’interno di un giudizio pendente avente ad oggetto il medesimo provvedimento amministrativo, sebbene impugnato per cause diverse. Infine viene affrontato il problema del riparto di giurisdizione derivante dalla diversa formulazione dell’art. 42 bis rispetto alla norma previgente.

Il Supremo Consesso, dopo aver affermato che il provvedimento di acquisizione costituisce esercizio del potere attribuito all’amministrazione (prima ex art. 43, oggi ex art. 42-bis TU espropri) e non già un modo di esecuzione del giudicato, rigetta l’eccezione di incompetenza, escludendo che il ricorso dovesse essere presentato dinanzi al giudice dell’ottemperanza. Invero, <<sia l’una che l’altra norma attribuiscono all’amministrazione un potere che affonda le sue radici nella situazione di illiceità in vista di un equo e peculiare contemperamento degli interessi idoneo a preservare il pregnante interesse pubblico all’utilizzo del bene, elidendo, al contempo, qualsivoglia pregiudizio per ciò prodottosi nella sfera giuridica del proprietario.

[…] Il giudice può pertanto essere adito in sede di ottemperanza solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione non restituisca il bene immobile, né provveda all’emanazione del provvedimento di acquisizione>>.

Successivamente il Consiglio di Stato affronta le problematiche relative alla c.d. invalidità sopravvenuta conseguenti la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43.

Questi, dopo aver ricordato l’esistenza di una presunzione di validità dei provvedimenti amministrativi derivante dalle esigenze di certezza dell’ordinamento (superabile solo con la tempestiva impugnazione degli stessi), esclude che la sopravvenuta caducazione della legge valga ad invalidare i provvedimenti amministrativi che ne sono applicazione, quand’anche il provvedimento sia stato impugnato tempestivamente, ma per vizi diversi. Infatti, <<se è pur vero che l’atto sub iudice non può considerarsi regolazione di un rapporto esaurito, è del pari innegabile che il processo amministrativo da luogo ad un giudizio a critica vincolata […] non potendo il giudice sostituirsi alla parti nell’individuazione di motivi di illegittimità. Né può dirsi che il potere del giudice di dubitare ex officio della legittimità costituzionale di una norma rilevante ai fini del decidere, sia elemento di per sé sufficiente>>.

Deve, peraltro, ritenersi ammissibile, anche attraverso il ricorso ai motivi aggiunti, la proposizione dei vizi di incostituzionalità in altri giudizi in cui ciò sia ancora possibile, anche se sopravvenute rispetto al ricorso originario.

Effettuate le suddette considerazioni generali, il Consesso procede all’esame del caso di specie, superando il problema della irritualità della proposizione dei motivi aggiunti con la messa in evidenza delle peculiarità dello stesso: la declaratoria di incostituzionalità ha ad oggetto la norma fondante la stessa esistenza del potere autoritativo della PA e non una qualunque norma.

<< Ammessa dunque la rilevanza nel giudizio, della pronuncia di incostituzionalità, il vizio che ne scaturisce è quello previsto dall’art. 21 nonies della legge 241/90, ossia il difetto assoluto di attribuzione, come tale presidiato dalla sanzione della nullità>>, che può essere sempre rilevata d’ufficio, analogamente a quanto previsto per le nullità civilistiche.

Infine, il Consiglio di Stato prosegue non interessanti affermazioni in merito al riparto di giurisdizione in subiecta materia.

Richiamando l’art. 133 lett. f) c.p.a., che disciplina la materia in questione, rileva come possa affermarsi la giurisdizione del giudice ordinario solo ove si attribuisca carattere indennitario  “all’indennizzo” di cui all’art. 42-bis conseguente ad atti espropriativi o ablativi.

Tuttavia il Consesso, a seguito di un attento esame dell’istituto, giunge ad affermare il carattere risarcitorio di tale “indennizzo” in quanto, nonostante il termine utilizzato evochi il contenuto dell’art. 43 Cost., il presupposto della fattispecie è il “cattivo uso” del potere espropriativo, e non anche il caso di assenza dello stesso, mancando del tutto la dichiarazione di pubblica utilità. <<In sostanza, nella ratio della previsione normativa la mancanza di un pregresso e idoneo titolo fa cadere il collegamento della vicenda ablatoria con la funzione anche sociale della proprietà individuale, finendo per privare di giustificazione il sacrificio della posizione proprietaria del singolo, ordinariamente presidiata dal principio del libero consenso, talchè, in via eccezionale, l’equilibrio è ripristinato ex post garantendo il totale ed integrale ristoro del sacrificio, ivi compreso quello non patrimoniale derivante dalla matrice autoritaria della sottrazione della proprietà, quest’ultimo liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

Inoltre <<l’art. 43, predecessore dell’art. 42 bis, […] qualificava expressis verbis le somme dovute, quale oggetto di una obbligazione risarcitoria. Il semplice mutamento nominale (indennizzo in luogo di risarcimento) […] non può, di per sé solo, immutato il contesto normativo, deporre per uno stravolgimento dell’intera fattispecie […]Del pari ininfluenti sono le ulteriori plausibili considerazioni circa la non sicura integralità del ristoro assicurato dal legislatore rispetto a quanto ordinariamente ritraibile dal privato a mezzo dell’applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.>>. VA

 

 



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Inserito in data 06/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 3 marzo 2014, n. 4934

Compravendita: la planimetria allegata integra la volontà delle parti

La Suprema Corte, pronunciandosi in merito alla proprietà di una scala destinata ad uso comune, in riforma delle sentenze pronunciate in primo e secondo grado, ha precisato che, sebbene generalmente le planimetrie ed i dati catastali abbiano carattere sussidiario, potendo farvi riferimento solo laddove il contenuto del contratto risulti oscuro o quantomeno equivoco, questa sussidiarietà viene meno nel momento in cui siano state allegate al contratto stesso.

In questo caso, infatti, la Corte aveva << omesso di considerare che la planimetria allegata all'atto notarile divisionale (con l'allegazione del relativo tipo di frazionamento) … formava propriamente parte integrante del predetto atto notarile, ragion per cui non avrebbe potuto essere completamente obliterato in funzione della valutazione, sul piano ermeneutico, del contenuto dell'atto medesimo».

Invero, come più volte affermato in precedenza dalla medesima Corte di Cassazione, le planimetrie allegate ai contratti su beni immobili ne costituiscono parte integrante qualora i contraenti si siano riferite ad esse per l’esatta individuazione del bene oggetto di transazione. In queste particolari ipotesi, dunque, svolgono la funzione di esplicitare e completare le dichiarazioni delle parti.

Pertanto, nel caso di specie, la Corte d’Appello, in violazione dell’art. 1362 c.c., aveva omesso di indagare l’effettiva comune volontà delle parti, limitandosi ad attribuire apoditticamente all’espressione “comune”, utilizzata in contratto, il valore letterale di questa. VA




Inserito in data 05/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 marzo 2014, n. 1001

Riesercizio del potere e violazione o elusione del giudicato

La sentenza ribadisce che si ha violazione e/o elusione del giudicato quando “l’amministrazione esercita nuovamente la medesima potestà pubblica, già illegittimamente esercitata, in contrasto con il puntuale contenuto precettivo del giudicato amministrativo, oppure cerca di realizzare il medesimo risultato con un’azione connotata da un manifesto sviamento di potere, per cui la PA pur formalmente provvedendo a dare esecuzione ai precetti rivenienti nel giudicato, finisce in realtà con aggirare le stesse statuizioni sul piano sostanziale”.

La PA è tenuta non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice e a determinarsi secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere diligentemente in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando i profili oggetto della decisione del giudice e quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull’oggetto della pretesa, allo scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato.

Dunque, in sede di riesame della vicenda, la PA deve essere particolarmente rigorosa nella verifica di tutti i possibili profili rilevanti, esaminando l’affare nella sua interezza, non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili non ancora esaminati, per evitare che la situazione sostanziale dell’interessato sia frustrata. CDC



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Inserito in data 05/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 28 febbraio 2014, n. 9883

Asservimento della funzione del pubblico ufficiale corrotto: si applica l’art. 319 cp

La fattispecie criminosa dell’asservimento dell’intera funzione (pubblico ufficiale corrotto posto a libro paga del privato corruttore non può essere sussunta nel novellato art. 318 cp (corruzione per l’esercizio della funzione), bensì nell’art. 319 cp (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio).

Anzitutto, appare difficilmente configurabile un asservimento delle funzioni pubbliche volto al compimento di atti conformi alle funzioni e ai doveri del pubblico ufficiale, dato ciò vale di per sé a violare i canoni di fedeltà e imparzialità del pubblico funzionario.

Inoltre, appare singolare che una disciplina normativa (quella introdotta dalla legge n. 190 del 2012) tesa ad armonizzare le disposizioni sanzionatorie dei fenomeni di corruzione e a renderne più agevole l’accertamento e la perseguibilità offra il fianco a rilievi in termini di offensività, ragionevolezza e proporzionalità della pena. Infatti, sostenendo la riconduzione del fatto in esame nell’alveo dell’art. 318 cp, la condotta del pubblico funzionario stabilmente infedele sarebbe punita con una pena assai più mite rispetto a quella del pubblico ufficiale che compia un solo atto contrario all’ufficio, malgrado siano evidenti la maggiore offensività e il più elevato disvalore giuridico e sociale della prima condotta, integrata da asservimento costante e metodico dell’intera funzione del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi privati. CDC

 

 




Inserito in data 04/03/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE , SENTENZA 20 febbraio 2014, n. 4065

I legittimati a chiedere l’annullamento della vendita collegata funzionalmente al leasing

Con la pronuncia in esame, gli Ermellini confermano che il “contratto di acquisto di un bene, destinato ad essere concesso in leasing, e compiuto nella veste di acquirente dal lessor secondo le indicazioni del leaser, è un contratto in sé autonomo e distinto dal contratto di leasing stipulato o stipulando tra concedente ed utilizzatore”.

Si tratta, invero, di contratti tra loro collegati; di guisa che nell’ipotesi in cui “il concedente agisca nella veste di mandatario dell'utilizzatore” (leasing finanziario), non deve privarsi “di autonomo rilievo, nei rapporti tra venditore ed acquirente, il consenso di quest'ultimo”.

In primo luogo, infatti, è dato rilevare che “il concedente, anche quando acquisti il bene nella veste di mandatario dell'utilizzatore, agisce pur sempre come mandatario in rem propriam e senza rappresentanza, sicché la volontà rilevante ai fini della validità del contratto resterebbe sempre quella dell'acquirente-concedente, non quella del futuro utilizzatore”.

In secondo luogo, la Cassazione osserva che “presupposto del contratto di leasing è la proprietà o comunque la legittima disponibilità giuridica, in capo al concedente, del bene concesso in locazione (così Sez. 1, Sentenza n. 16158 del 20/07/2007, Rv. 598435). Pertanto, “il contratto di vendita stipulato tra fornitore e concedente è preordinato a fare acquistare al secondo la suddetta disponibilità, e sarebbe quindi contrastante con i presupposti e lo scopo dell'operazione di leasing negare al concedente i tradizionali rimedi accordati dall'ordinamento a chi abbia acquistato la proprietà di un bene per effetto di una viziosa formazione della volontà negoziale”.

D’altra parte, per effetto del pacificamente riconosciuto collegamento funzionale tra il contratto di vendita e quello di locazione finanziaria, “si produce una diffusione delle cause di nullità, annullamento, risoluzione, dall'uno all'altro dei due contratti collegati (Sez. 3, Sentenza n. 17145 del 27/07/2006, Rv. 593959)”. Proprio sulla “base di questo si è ripetutamente ammesso che l'utilizzatore possa far valere in nome proprio, nei confronti del fornitore, le azioni scaturenti dal contratto di vendita (Sez. 6-1, Ordinanza n. 17604 del 12/10/2012, Rv. 623743; Sez. 3, Sentenza n. 11776 del 19/05/2006, Rv. 590825); come pure che, se convenuto dal concedente per il pagamento dei canoni, possa eccepirgli ex art. 1460 c.c. l'esistenza dei vizi della cosa (Sez. 3, Sentenza n. 8101 del 23/05/2012, Rv. 622434)”.

Ne deriva che, “se per effetto del collegamento negoziale tra vendita e locazione si è ammesso che l'utilizzatore possa far valere nei confronti del fornitore i vizi del contratto di vendita pur non essendone parte, a fortiori dovrà ammettersi che quei vizi potranno essere fatti valere dal concedente, che del contratto di vendita è parte in tutti i sensi”.

I Giudici ricordano la natura di atto gestorio proprio dell’accordo di cessione volontaria e, pertanto, la devoluzione all’Autorità giurisdizionale ordinaria.

Il Collegio amministrativo campano, infatti, ritenendo fondata l’eccezione sul proprio difetto di giurisdizione sollevata dalla Difesa comunale resistente, sottolinea la sussistenza – nel caso concreto – di tutti gli elementi tipici di una traslazione consensuale del diritto di proprietà, intercorsa tra il ricorrente ed il Comune intimato.

Pertanto, ritenuto che con l’accordo intervenuto tra le parti, l’attività dell’amministrazione esuli dall’esercizio formale, anche indiretto, del potere amministrativo, ne consegue che ogni doglianza legata all'esecuzione del contratto e ad eventuali inadempimenti successivi alla chiusura della procedura espropriativa, trovi la propria sede naturale nella giurisdizione ordinaria.

Ci si muove, infatti, nell’alveo del potere privatistico e, pertanto, ogni vertenza relativa all’esecuzione ed all’adempimento dell’accordo di cessione volontaria – similmente alla vicenda oggi in esame - rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cfr. Cass. civ. SS.UU, sent. n. 24687/2010, n. 29527/2008). EMF




Inserito in data 03/03/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 25 febbraio 2014, n. 9

Sull’art. 46, commi 1 e 1-bis, D.lgs. 163/06 e sull’ordine di trattazione dei ricorsi

In primo luogo, il Supremo Consesso si pronuncia sul “principio di tassatività delle cause di esclusione dalle gare per l’affidamento di contratti pubblici”, che, introdotto dall’art. 4, co. 2, lett. d), nn. 1 e 2, d.l. 13 maggio 2011, n. 70 - Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia – convertito con modificazioni dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, innova rispetto al sistema previgente fondato sull’atipicità delle cause di esclusione (tutt’ora vigente per le procedure competitive diverse da quelle disciplinate dal codice dei contratti pubblici).

In passato, infatti, l’Amministrazione era titolare della facoltà “di individuare, nel rispetto della legge, il contenuto della disciplina delle procedure selettive (c.d. lex specialis della gara), quale ne fosse l’oggetto: reclutamenti di personale, contratti attivi e passivi, affidamento di beni e risorse pubbliche (cfr., da ultimo, Ad. plen., 25 febbraio 2013, n. 5, che ha generalizzato l’obbligo della gara per l’assegnazione a privati di beni o risorse pubbliche, con la conseguente applicazione di una serie di ricevuti principi, anche di derivazione comunitaria, fra cui quelli della trasparenza, della par condicio, della non discriminazione)”.

Questo sistema, da un lato, consentiva “la miglior tutela degli speciali interessi pubblici affidati alla cura dell’Amministrazione di settore” (ex art. 97 Cost.) e, dall’altro, comportava il sindacato estrinseco del Giudice Amministrativo, atteso che le scelte discrezionali (sia amministrative che tecniche) delle amministrazioni potevano essere “filtrate attraverso il prisma dell’eccesso di potere e delle sue figure sintomatiche di sviamento dalla causa tipica: abnormità, manifesta sproporzione, irragionevolezza, travisamento dei fatti (cfr., da ultimo, nell’ambito di consolidati principi che questa Adunanza condivide, Corte giust. UE, Sez. II, 24 gennaio 2013, G-73/11; Corte cost., 8 giugno 2011, n. 175; Cass., Sez. un., 20 gennaio 2014, n. 1013; 8 marzo 2012, n. 3662; 9 novembre 2011, n. 23302; Cons. St., Sez. VI, 14 agosto 2013, n. 4174; Sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640)”.

Tuttavia, proprio la “straordinaria importanza che ha assunto il mercato degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, nell’economia di ciascuno Stato membro e dell’Unione europea nel suo complesso” ha indotto il legislatore del 2011 a “correggere quelle soluzioni, diffuse nella prassi (amministrativa e forense), che sfociavano in esclusioni anche per violazioni puramente formali”.

In particolare, alla luce delle sentenze dell’Adunanza Plenaria del 16 ottobre 2013, n. 23 e del 7 giugno 2012, n. 21, deve ritenersi che la “nuova disposizione deve essere intesa nel senso che l’esclusione dalla gara è disposta sia nel caso in cui il codice, la legge statale o il regolamento attuativo la comminino espressamente, sia nell’ipotesi in cui impongano “adempimenti doverosi” o introducano, comunque, “norme di divieto” pur senza prevedere espressamente l’esclusione ma sempre nella logica del numerus clausus”.

Così operando, il legislatore ha inteso effettuare “direttamente il bilanciamento tra l’interesse alla massima partecipazione alle gare di appalto ed alla semplificazione, da un lato, e quello alla speditezza dell’azione amministrativa ed alla parità di trattamento, dall’altro, mettendo l’accento sui primi a scapito dei secondi ma salvaguardando una serie predefinita di interessi, selezionati ex ante, perché ritenuti meritevoli di una maggior protezione rispetto ad altri, in guisa da sottrarli alla discrezionalità abrogatrice della stazione appaltante”.

Peraltro, la legge ha rafforzato il principio di tassatività prevedendo la sanzione della nullità parziale per le clausole difformi (ex art. 1419, co. 2, c.c.): “la nullità di singole clausole non comporta la nullità dell’intero atto se le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative, senza che si possa indagare sulla presenza di una difforme volontà della stazione appaltante di non adottare il bando privo della clausola nulla, ma fermo l’esercizio, ovviamente, degli ordinari poteri di autotutela (cfr., per una recente applicazione del principio vitiatur se non vitiat in materia di gare pubbliche, Ad. plen., 20 maggio 2013, n. 14)”.

In ordine all’individuazione della natura giuridica, invece, i Giudici di Palazzo Spada ritengono che l’art. 46, co. 1-bis, del codice dei contratti pubblici “non costituisce una norma di interpretazione autentica e, pertanto, non ha effetti retroattivi e trova esclusiva applicazione alle procedure di gara i cui bandi o avvisi siano pubblicati (nonché alle procedure senza bandi o avvisi, i cui inviti siano inviati), successivamente al 14 maggio 2011, data di entrata in vigore del d.l. n. 70 del 2011”.

Manca, infatti, il “presupposto dell’incertezza applicativa della norma antecedente quella asseritamente di interpretazione autentica”, l’effetto “tipico insito in tutte le norme di interpretazione autentica, ovvero l’incidere su rapporti pendenti” (v. art. 4, co. 3, d.l. n. 70 del 2011), nonché il “requisito formale dato dalla auto qualificazione della norma come di interpretazione autentica”.

In relazione all’altra questione sottoposta al suo esame, la Plenaria  evidenzia che il “potere di soccorso” (ex art. 46, co. 1, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) “non consente la produzione tardiva del documento o della dichiarazione mancante o la sanatoria della forma omessa, ove tali adempimenti siano previsti a pena di esclusione dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento di esecuzione e dalle leggi statali”.

Viceversa, “nelle procedure di gara non disciplinate dal codice dei contratti pubblici, il “potere di soccorso” sancito dall’art. 6, co. 1, lett. b), l. 7 agosto 1990, n. 241, costituisce parametro per lo scrutinio della legittimità della legge di gara che, in assenza di una corrispondente previsione normativa, stabilisca la sanzione della esclusione; conseguentemente, è illegittima - per violazione dell’art. 6, co. 1, lett. b), l. 7 agosto 1990, n. 241, nonché sotto il profilo della manifesta sproporzione - la clausola della legge di gara che disciplina una procedura diversa da quelle di massa, nella parte in cui commina la sanzione della esclusione per l’inosservanza di una prescrizione meramente formale”.

L’altro quesito sottoposto al vaglio dei Giudici in funzione nomofilattica riguarda il rapporto tra ricorso incidentale e ricorso principale.

A tal proposito, già l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 4 del 2011, aveva sottolineato che il combinato disposto degli artt. 76, co. 4, c.p.a. e 276, co. 2, c.p.c. (presieduto dal principio di parità delle parti e di imparzialità del giudice) “impone di risolvere le questioni processuali e di merito secondo l’ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, e fra le prime la priorità dell’accertamento della ricorrenza dei presupposti processuali (nell’ordine, giurisdizione, competenza, capacità delle parti, ius postulandi, ricevibilità, contraddittorio, estinzione), rispetto alle condizioni dell’azione (tale fondamentale canone processuale è stato ribadito dall’Adunanza plenaria 3 giugno 2011, n. 10); puntualizzando, altresì, che “l’ordine di esame delle questioni pregiudiziali di rito non rientra nella disponibilità delle parti e non subisce eccezioni neppure se venga impugnata, da parte del ricorrente principale, la legge di gara”.

In particolare, l’ordine di trattazione del ricorso principale e di quello incidentale “dipende dal loro oggettivo contenuto”; con la conseguenza che, “qualora il ricorso incidentale abbia la finalità di contestare la legittimazione al ricorso principale, il suo esame assume carattere necessariamente pregiudiziale e la sua accertata fondatezza preclude, al giudice, l’esame del merito delle domande proposte dal ricorrente principale”.

Tuttavia, “in ossequio al superiore principio di economia processuale, il giudice può, in concreto, ritenere preferibile esaminare prioritariamente il ricorso principale, quanto meno nei casi in cui esso sia palesemente infondato, irricevibile, inammissibile o improcedibile, sulla scorta del paradigma sancito dagli artt. 49, co. 2, e 74 c.p.a.; questa facoltà non deve essere negata, a priori, sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa del controinteressato e consenta un’effettiva accelerazione della definizione della controversia; in linea di principio resta ferma la priorità logica della questione pregiudiziale, ma eccezionali esigenze di semplificazione possono giustificare l’esame prioritario di altri aspetti della lite”.

E’ proprio nell’ottica del principio di “parità delle armi”, “come declinato dal giudice delle leggi e dalla Corte di Strasburgo”, che si spiega l’ordine di trattazione dei ricorsi; di guisa che “la riconducibilità della negligenza…al ricorrente principale”, “consapevole di aver commesso un errore che lo priva della legittimazione”, impedisce al giudice “di pronunciarsi sulla illegittimità della mancata esclusione dell’aggiudicatario”.

Tale principio è stato derogato dalla sentenza Fastweb(Corte di Giustizia, Sez. X, 4 luglio 2013, C-100/12), secondo cui “se entrambe le offerte sono inficiate dal medesimo vizio che le rende inammissibili, apparirebbe prima facie contrario all’uguaglianza concorrenziale escludere solo l’offerta del ricorrente principale, dichiarandone inammissibile il ricorso, e confermare invece l’offerta dell’aggiudicatario ricorrente incidentale, benché suscettibile di esclusione per la medesima ragione. Ma in realtà ciò avviene perché, essendo il vizio fatto valere da entrambi i contendenti il medesimo, in concreto neppure si pone un problema di esame prioritario del ricorso incidentale rispetto al ricorso principale: prioritario, in questo peculiare caso, è l’esame del vizio; se questo sussiste, entrambi i ricorsi devono essere accolti, se non sussiste entrambi dovranno essere disattesi e l’aggiudicazione sarà confermata”. Invero, l’identità del vizio è riconducibile “non già all'effetto (esclusione) bensì alla causa dell'esclusione”, intendendosi per tale la causa “che afferisce alla medesima sub fase del segmento procedimentale destinato all’accertamento del titolo di ammissione alla gara dell’impresa e della sua offerta”. EMF



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Inserito in data 02/03/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 25 febbraio 2014, n. 10

Natura ordinatoria o perentoria del termine ex art. 48, 2’ co. D.Lgs. 163/06 e ss. mm.

Con la pronuncia in esame, il massimo Consesso amministrativo risolve un dubbio interpretativo riguardo alla natura giuridica attribuibile al termine di cui al secondo comma dell’articolo 48 del Codice dei Contratti pubblici.

La norma, al primo comma, testualmente così recita: «Le stazioni appaltanti prima di procedere all’apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate, arrotondato all'unità superiore, scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito».

Il secondo comma, poi, dispone che: «La richiesta di cui al comma 1 è, altresì, inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all’aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i concorrenti sorteggiati, e nel caso in cui essi non forniscano la prova o non confermino le loro dichiarazioni si applicano le suddette sanzioni e si procede alla determinazione della nuova soglia di anomalia dell'offerta e alla conseguente eventuale nuova aggiudicazione».

Un primo orientamento, non condiviso dai Giudici della Plenaria, fonda la natura ordinatoria sul fatto che, invero, il comma oggi in esame non specifichi nulla riguardo all’indole del termine in esso previsto. E’ diverso, invece, quanto statuito al comma primo che espressamente parla di perentorietà.

Peraltro, ad avviso di talune Sezioni di Palazzo Spada, il termine di cui al secondo comma dello stesso art. 48 deve considerarsi, mancando esigenze acceleratorie, meramente sollecitatorio (Cfr. Cons. Stato, sez. V: 31 marzo 2012, n. 1886; 8 ottobre 2010, n. 6490). Spetterebbe, quindi, alla lex specialis prevedere, eventualmente, in modo diverso, alla luce degli interessi sottesi alla specifica vicenda amministrativa.

Altro filone, invece, definisce come perentorio il termine oggi in esame, sulla base di due ordini di valutazioni. In primo luogo, posto che – sul piano letterale - il secondo comma dell’art. 48 richiama espressamente quanto previsto dal primo comma della stessa disposizione.

In secondo luogo, sul piano della ratio, esiste una identità giustificativa «che va ravvisata nelle esigenze di celerità e di correttezza del procedimento, per evitare il protrarsi di una procedura viziata per inadeguatezza o scorrettezza degli eventuali aggiudicatari».

Un’indole simile, del resto, va colta – a fortiori – in un procedimento complesso e, al tempo stesso rilevante, quale è una gara pubblica. Se, infatti, la ditta aggiudicataria potesse costringere l’ l’Amministrazione “a tenere in piedi sine die per l’esame della documentazione la struttura organizzativa predisposta per la gara”, finirebbe con l’incidere sugli adempimenti anche del secondo classificato e, di conseguenza, intaccare l’intero iter procedurale.

E’ proprio il rischio di una seria compromissione di valori essenziali, quali la trasparenza, la correttezza ed il buon agere pubblico, ad aver indotto il massimo Collegio di Palazzo Spada ad aderire a quest’ultimo orientamento: appare irragionevole, infatti, la possibilità che l’efficace conclusione della gara resti sospesa a tempo indefinito a discrezione dei soggetti privati.

Sulla base di tali valutazioni, dunque, l’Adunanza Plenaria afferma il seguente principio di diritto: “L’articolo, 48, comma secondo, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che l’aggiudicatario e il concorrente che lo segue in graduatoria, non compresi fra i concorrenti sorteggiati ai sensi del comma primo del medesimo articolo, devono presentare la documentazione comprovante il possesso dei requisiti di capacità economico – finanziaria e tecnico – organizzativa, di cui al comma primo, entro il termine perentorio di dieci giorni dalla richiesta inoltrata a tale fine dalle stazioni appaltanti”. CC



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Inserito in data 02/03/2014
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I - 28 febbraio 2014, n. 504

Cessione volontaria e profili di giurisdizione

I Giudici ricordano la natura di atto gestorio proprio dell’accordo di cessione volontaria e, pertanto, la devoluzione all’Autorità giurisdizionale ordinaria.

Il Collegio amministrativo campano, infatti, ritenendo fondata l’eccezione sul proprio difetto di giurisdizione sollevata dalla Difesa comunale resistente, sottolinea la sussistenza – nel caso concreto – di tutti gli elementi tipici di una traslazione consensuale del diritto di proprietà, intercorsa tra il ricorrente ed il Comune intimato.

Pertanto, ritenuto che con l’accordo intervenuto tra le parti l’attività dell’amministrazione esuli dall’esercizio formale, anche indiretto, del potere amministrativo, ne consegue che ogni doglianza legata all'esecuzione del contratto e ad eventuali inadempimenti successivi alla chiusura della procedura espropriativa, trovi la propria sede naturale nella giurisdizione ordinaria.

Ci si muove, infatti, nell’alveo del potere contrattuale e, quindi, privatistico; pertanto, ogni vertenza relativa all’attività negoziale di una delle parti – alla stregua di quanto accaduto nella vicenda qui in esame - rientra nella giurisdizione del giudice ordinario (Cfr. Cass. civ. SS.UU, sent. n. 24687/2010, n. 29527/2008). CC



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Inserito in data 01/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 febbraio 2014, n. 828

Legittimità esclusione dalla gara per omessa sigillatura del plico

I giudici di Palazzo Spada si soffermano sulla legittimità della esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta.

Alla luce dell'art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, Codice dei contratti pubblici, che prevede che “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”, viene ribadito che senza timbratura e controfirma, dunque, non può sussistere certezza che la sigillatura su quel lembo sia stata opposta all'origine dal mittente che dispone del timbro e della firma, né tanto meno può sussistere la certezza che, dopo la spedizione, un lembo del plico non sia stato aperto e, solo successivamente, sigillato con il nastro adesivo.

È bene rilevare che gli adempimenti fino ad ora prescritti assicurano, infatti, l'autenticità della chiusura originaria proveniente dal mittente e, dunque, evitando la manomissione del contenuto del plico, garantiscono in tal modo la totale segretezza dell'offerta, con la conseguente legittimità dell'esclusione dalla gara dell'impresa che abbia omesso la sigillatura del plico contenente l'offerta medesima.

Rientra nel potere dell'Amministrazione fissare le regole di svolgimento della gara pubblica, comprese quelle che attengono alle modalità di presentazione delle offerte, tale potere sfugge al sindacato giurisdizionale salva la sua manifesta irragionevolezza, irrazionalità ed illogicità, che non sussistono nel caso in cui sia per essa richiesta una doppia formalità, e cioè la sigillatura del plico e la controfirma sui lembi di chiusura, in quanto ragionevolmente finalizzata sia ad evitare il rischio della manomissione del plico e dell'alterazione del suo contenuto, garanzia alla quale è preposta la sigillatura, che a garantire la effettiva provenienza del plico e dell'offerta, garanzia cui è preposta la controfirma sui lembi di chiusura. GMC



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Inserito in data 01/03/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 febbraio 2014, n. 915

Insindacabilità della scelta della ubicazione di una farmacia

Nella sentenza oggetto di attenzione da parte del Consiglio di Stato, vengono in rilievo due problematiche tra loro connesse, per cui i punti in contestazione sono due: la scelta della ubicazione, il ricorrente sostiene che la nuova farmacia si sarebbe dovuta collocare in un’area più periferica e meno servita, nonché la perimetrazione della zona, il ricorrente deduce che quella definitivamente adottata non coincide con quella elaborata nella fase preparatoria e che la modifica intervenuta in corso di procedimento è viziata perché non è stato acquisito, in proposito, il parere obbligatorio dell’Ordine provinciale dei farmacisti.

I giudici di Palazzo Spada sottolineano che la dislocazione delle sedi farmaceutiche sul territorio comunale, è frutto di ampia discrezionalità; per tal ragione, le scelte effettuate a questo riguardo dall'autorità competente, sebbene opinabili per definizione, non sono sindacabili se non per manifesta irrazionalità ed analoghi vizi che, in tale fattispecie, non ricorrono.

Non è manifestamente irrazionale, pertanto, nel caso di specie, che la nuova farmacia venga collocata in un'area già servita dalle farmacie preesistenti, se l'entità della popolazione interessata lo giustifica.

Risulta essere pacifico che l'aumento del numero delle farmacie risponde anche allo scopo di estendere il servizio farmaceutico alle zone meno servite, ma tale indicazione non risulta essere tassativa né tanto meno esclusiva. GMC



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Inserito in data 27/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 febbraio 2014 n. 922

GO sulle cause inerenti il trattamento economico di consiglieri e amministratori comunali

Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato afferma la giurisdizione del giudice ordinario rispetto alle controversie concernenti il trattamento economico spettante ai consiglieri e agli amministratori comunali.

La giurisprudenza concorda, infatti, nel ritenere che i consiglieri e gli amministratori comunali si pongono in rapporto di servizio di natura onoraria con l’amministrazione di appartenenza, per cui, stante il carattere del rapporto intercorrente, qualsiasi richiesta da essi rivolta ad ottenere l’erogazione di un eventuale trattamento economico spettante per legge, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, essendo detto trattamento necessariamente previsto dalla norma e, nella specie, oltre ad essere stabilito nella debenza, è anche preventivamente quantificata nell’importo (cfr. articolo 82, T.U.E.L. n. 267/2000, come modificato dal d.l. n. 78 del 2010 e dal d.l. n. 225 del 2010)”.

La ricorrenza di tali presupposti comporta che il titolo dedotto in giudizio dagli interessati ha il carattere e si configura come un diritto soggettivo, non occorrendo che per la sua sussistenza sia esercitato alcun potere discrezionale da parte dell’ente di appartenenza”.

In tali sensi si è anche espressa la suprema Corte di Cassazione (cfr. tra le tante Sez. Un. 9 aprile 2008, n. 9160)”. TM

 

 



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Inserito in data 27/02/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. III, 26 febbraio 2014, n. 934

Inammissibilità del ricorso avverso il silenzio se nessuna norma attribuisce il potere non esercitato

Com’è noto, il rito del silenzio rifiuto presuppone, a pena di inammissibilità del ricorso, l’inerzia dell’Amministrazione a fronte di un obbligo di provvedere.

Nel caso di specie, il ricorrente non aveva richiesto un determinato provvedimento ma aveva sostenuto la tesi dell’assimilazione delle posizioni ai partecipanti ai corsi di formazione in medicina generale a quella dei specializzandi in ambito universitario e chiesto informazioni e chiarimenti sulle procedure che conducono ad un diverso trattamento economico; tale tesi è insostenibile alla luce dell’attuale assetto normativo (d.lgs. n. 368/99), essendo le due situazioni diverse e non assimilabili, come dimostra la circostanza che le stesse sono disciplinate in parti diverse del decreto, senza alcun rinvio o elemento di connessione. Pertanto, “La richiesta […] riguarda interessi che potrebbero essere oggetto di iniziative sul piano legislativo, sollecitabili in via politica o sindacale, ma non giunge a configurare in alcun modo la richiesta di un determinato provvedimento amministrativo e non può dar luogo ad una fattispecie di silenzio impugnabile in sede amministrativa”. In altri termini, nel caso di specie, il ricorso avverso il silenzio è stato dichiarato inammissibile, perché l’istanza rimasta senza risposta era tesa ad esercitare un potere privo di base normativa e, mancando il potere, a fortiori, non c’era l’obbligo di esercitare il potere, di provvedere, presupposto del rito del silenzio.

Sotto altro profilo, il Consiglio di Stato ci ricorda che la richiesta di accesso a documenti può essere avanzata anche in via preliminare purché in presenza di un interesse diretto, concreto, attuale e collegato ai documenti richiesti: nel caso di specie, non sussisteva tale collegamento e, pertanto, il ricorso è stato respinto. TM

 

 



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Inserito in data 26/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 febbraio 2014, n. 877

Contratto di tesoreria e stipula di contratti finanziari con altri istituti bancari

Il contratto di tesoreria deve essere qualificato in termini di rapporto concessorio e non come appalto di servizi, avendo ad oggetto la gestione di un servizio implicante il conferimento di funzioni pubblicistiche, quali il maneggio di danaro pubblico e il controllo di regolarità sui mandati e prospetti di pagamento nonché sul rispetto dei limiti degli stanziamenti in bilancio. Le relative controversie appartengono pertanto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, quali controversie relative a concessioni di pubblici servizi, allorquando implichino indagini e statuizioni sulla validità e sulla operatività dei provvedimenti e di clausole del rapporto concessorio ovvero abbiano ad oggetto non la mera debenza e la misura del corrispettivo, ma il momento genetico del rapporto di concessione del servizio di tesoreria. Restano invece al giudice ordinario le controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi.

Occorre anche aggiungere che il contratto di tesoreria ha natura atipica, in quanto, per un verso, il rapporto tra la banca e l’ente locale è imposto dalla legge, e, per altro verso, esso è gratuito, nulla l’amministrazione essendo tenuta a corrispondere. Infatti, gli istituti bancari partecipano alle gare per l’aggiudicazione dei servizi di tesoreria non per trarre benefici direttamente dalla gestione del servizio di tesoreria, quanto piuttosto per ampliare la propria clientela, per sviluppare i propri servizi e la propria attività nelle aree in cui si svolge il servizio stesso e per le conseguenti ricadute positive in termini pubblicitari e di immagine. Ciò si traduce in indubbi benefici strutturali, oltre che di natura economica, derivanti dalla gestione dei flussi finanziari dell’ente.

Ciò precisato, non può ammettersi che il concreto svolgimento del servizio di tesoreria ed in particolare il peculiare ruolo del tesoriere possano impedire, ostacolare o comunque anche solo minimamente interferire con l’esercizio delle funzioni proprie dell’ente, con l’ulteriore conseguenza che non può escludersi che l’ente possa legittimamente decidere di utilizzare le proprie disponibilità nel modo ritenuto più opportuno per le proprie finalità e per i bisogni della collettività. Peraltro, è necessario che tali scelte avvengano nel rispetto della ratio e della funzione del servizio di tesoreria, tenendo conto del legittimo e ragionevole affidamento posto dalla banca tesoriera sulla effettiva e concreta gestione dei fondi dell’ente.

Pertanto, seppure sia ammissibile la decisione dell’amministrazione di procedere alla stipula con istituti bancari, diversi dal tesoriere, di contratti di acquisto di titoli o di altri strumenti finanziari, il servizio di tesoreria non implicando un diritto di esclusiva e non potendo escludersi che l’ente possa decidere di far fruttare le proprie disponibilità finanziarie in modo diverso e maggiore dal semplice riconoscimento dell’interesse corrisposto dal tesoriere, non può tuttavia consentirsi che l’investimento avvenga attraverso la stipulazione di un contratto di deposito a termine, cioè facendo fruttare le proprie finanze sostanzialmente attraverso le stesse modalità e nelle stesse forme del servizio di tesoreria, sovrapponendosi sostanzialmente a quest’ultimo e privando il tesoriere delle legittime aspettative sopra delineate. CDC

 



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Inserito in data 26/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2014, n. 3964

Responsabilità ex art. 2048 cc: presupposti e criteri di imputazione

La responsabilità dei genitori per fatti illeciti commessi dal minore con loro convivente, prevista dall'art. 2048 cc, è correlata ai doveri inderogabili posti a loro carico all'art. 147 cc e alla necessità di una costante opera educativa, finalizzata a correggere comportamenti non corretti e a realizzare una personalità equilibrata, consapevole della relazionalità della propria esistenza e della protezione della propria ed altrui persona da ogni accadimento consapevolmente illecito.

Per evitare la responsabilità, i genitori devono “dimostrare di aver impartito al figlio un'educazione normalmente sufficiente ad impostare una corretta vita di relazione in rapporto al suo ambiente, alle sue abitudini ed alla sua personalità.

I criteri in base ai quali può imputarsi la responsabilità ex art. 2084 cc consistono sia nel potere-dovere di esercitare la vigilanza sul comportamento dei figli stessi, sia nell'obbligo di svolgere adeguata attività formativa, impartendo ai figli l'educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari. In quest'ultimo ambito rientrano i danni provocati dalle manifestazioni di indisciplina, negligenza o irresponsabilità, nello svolgimento di attività suscettibili di arrecare danno a terzi, fra cui in particolare l'inosservanza delle norme della circolazione stradale.

Questo rigore appare giustificato, in quanto ingenera il possibile interesse anche economico dei genitori ad impartire ai figli un'educazione che li induca a percepire il disvalore sociale dei comportamenti pericolosi per gli altri ed è idoneo a sollecitare la precauzione dei minori allo stesso fine, anche per il timore della possibile reazione dei genitori.

D'altra parte se è vero che oggi è sempre più anticipato il momento in cui i minori si allontanano dalla sorveglianza diretta dei genitori, il compito di impartire insegnamenti adeguati e sufficienti ad affrontare correttamente la vita di relazione deve essere assolto, se del caso, anche con maggiore rigore proprio in ragione dei tempi in cui avviene l'emancipazione dal controllo diretto dei genitori.

Si segnala, infine, che l'inadeguatezza del grado di educazione del figlio minore ben può desumersi dalle stesse modalità del fatto illecito, nel senso che è dato ravvisare culpa in educando non solo quando i genitori non dimostrino di aver impartito al minore l'educazione e l'istruzione consone alle proprie condizioni sociali e familiari, ma anche quando dalle stesse modalità del fatto si evinca una educazione di per sé carente; non è vero, invece, il contrario, in quanto non è dato escludere la colpa dei genitori sulla base della mera considerazione delle modalità del fatto, in sé non particolarmente grave, perché un'opzione di tal genere condizionerebbe la sussistenza dell'onere della prova liberatoria alla gravità del fatto; il che è estraneo alla lettera e alla ratio legis. CDC




Inserito in data 25/02/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 febbraio 2014, n. 863

Divieto d’ostensione estensibile anche a società non datrici di lavoro dei dichiaranti

Il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità della compensazione delle spese di giudizio, ha ripercorso l’iter giurisprudenziale relativo al rapporto intercorrente tra il diritto di accesso agli atti ed il diritto alla riservatezza sottolineando la complessità della questione e, dunque, rigettando le richieste della parte istante e confermando il dispositivo di primo grado.

Invero, a fronte di un’iniziale presa di posizione dei giudici di Palazzo Spada che vedeva la soccombenza del diritto alla riservatezza dinanzi ad una richiesta di accesso agli atti giustificata dalla necessità di tutelare i propri interessi giuridici e, più in particolare, all’esercizio del diritto di difesa (sì come previsto dall’art. 24 della Costituzione e dall’art. 24, comma 7 della legge n. 241 del 1990, nella parte in cui dispone che l’accesso sia garantito “comunque” a chi debba acquisire determinati atti per la cura dei propri interessi giuridicamente protetti), si è assistito nel tempo ad un ripensamento di tale assunto, ritenendo più corretto procedere ad una valutazione in concreto degli interessi contrapposti.

Peraltro, non può sottacersi l’esistenza di pronunce che hanno escluso l’accesso alle dichiarazioni rese dai lavoratori ai succitati ispettori del lavoro “nell’ipotesi in cui il predetto accesso sia stato chiesto dalle società che hanno un rapporto lavorativo diretto con i medesimi lavoratori e ciò in ragione del fatto che […] nel bilanciamento dei contrapposti interessi doveva ritenersi prevalente quello alla tutela della riservatezza delle dichiarazioni rese dai lavoratori al fine di proteggerli da eventuali ritorsioni o indebite pressioni che il datore di lavoro, con cui avevano un rapporto di diretta dipendenza, avrebbe potuto svolgere nei loro confronti (v. C.d.S, Sez. VI, 7678/2009; 736/2009).

Infine la peculiarità della questione esaminata con la sentenza de qua pone al centro del dibattito anche la problematica relativa all’applicabilità o meno, in assenza di un rapporto lavorativo diretto fra lavoratori e società istanti, della normativa regolamentare che non consente l'accesso agli atti contenenti le dichiarazioni rese agli ispettori del lavoro, qualora dalle medesime possano derivare azioni discriminatorie o indebite pressioni a carico dei lavoratori, ed in particolare il decreto del Ministero del lavoro e della previdenza sociale n. 757/1994.

A tal proposito il Consiglio di Stato, con sentenza 4035/2013, ha affermato che “anche nella materia dell’accesso da parte di società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni ispettive così come in caso di accesso “diretto” da parte dei datori di lavoro - si potrebbe procedere ad una valutazione “caso per caso” delle richieste di accesso agli atti […] in quanto non potrebbe affermarsi in modo aprioristico una generalizzata recessività dell’interesse pubblico all’acquisizione di ogni possibile informazione, per finalità di controllo della regolare gestione dei rapporti di lavoro (a cui sono connessi valori, a loro volta, costituzionalmente garantiti), rispetto al diritto di difesa” ,invero, “la predetta tutela […] per quanto privilegiata, non risulta di per se stessa garantita dall’ordinamento in via generale ed assoluta, ma va necessariamente contemperata con la tutela dei contrapposti interessi che trovano il loro fondamento in norme costituzionali e sub costituzionali, […], nell’ottica di un corretto bilanciamento fra tutele d’interessi di livello normativo quantomeno equiordinato, se non costituzionalmente sovraordinato”.

In considerazione della rilevanza sociale del rapporto di lavoro e della posizione di soggezione del dipendente, appare senza dubbio meritevole di tutela l’esigenza di riservatezza sulle dichiarazioni rese dallo stesso il quale, come già sottolineato, rappresenta la parte debole del rapporto.

Con la sentenza in esame, inoltre, il Consiglio di Stato ha precisato che “le predette conclusioni […] per il principio di non contraddizione devono ritenersi estensibili anche nei confronti delle richieste di accesso avanzate da società non datrici di lavoro dei soggetti che hanno reso le citate dichiarazioni, ma alle medesime legate da un vincolo di coobbligazione solidale.

Ciò in quanto […] consentire l’accesso alle società non datrici di lavoro accorderebbe a soggetti terzi rispetto al vincolo contrattuale una tutela che non si garantisce agli stessi datori di lavoro, portatori di un interesse diretto all'acceso: ciò finirebbe per creare delle illogiche disparità di trattamento, garantendo al soggetto che ha maggior interesse all'accesso (il datore di lavoro) un tutela inferiore rispetto a quella concessa ai soggetti esterni rispetto al vincolo contrattuale.

[…]Infine, deve rilevarsi come si assista ad una crescente tendenza all’esternalizzazione dei rapporti di lavoro, attuata tramite la creazione di società satelliti o comunque con la instaurazione di rapporti con soggetti erogatori di servizi di “manodopera” che sostituiscono, più o meno strutturalmente, le maestranze della società appaltante: tale tendenza non può, dunque, che creare forme di solidarietà de facto tra imprese, anche al di fuori di situazioni di effettivo controllo azionario della società appaltante sulla società appaltatrice”. VA



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Inserito in data 25/02/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 24 febbraio 2014, n. 864

Limiti all’esercizio dell’annullamento in autotutela da parte della P.A

La causa sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato ha ad oggetto l’annullamento di un pregresso provvedimento di ammissione ad un concorso.

L’appellante, inserita in graduatoria pur in mancanza dei titoli richiesti dal bando di concorso (come precisato dalla stessa in sede di domanda) aveva superato le prove selettive e, dichiarata vincitrice, aveva svolto la professione di insegnante abbandonando le altre attività lavorative svolte in precedenza.

Decorsi undici anni l’amministrazione, in applicazione dell’art. 21-nonies l. 241/90, aveva provveduto all’annullamento del pregresso provvedimento di ammissione e al conseguente depennamento dalla graduatoria.

La ricorrente, pur non contestando l’assenza dei titoli richiesti, sostiene l’illegittimità del suddetto provvedimentoin quanto violativo dei limiti imposti dalla legge al ritiro degli atti per motivi di illegittimità”.

L’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, infatti, dispone che “il provvedimento amministrativo illegittimo, ai sensi dell'articolo 21-octies della legge n. 241 del 1990, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.

Dalla necessità di procedere al contemperamento degli interessi in gioco entro un ragionevole lasso di tempo i giudici di Palazzo Spada hanno costantemente dedotto l’insufficienza del mero intento di ripristinare la legalità violata al fine di giustificare l’esercizio dell’annullamento d’ufficio.

Nel caso di specie è apparso evidente che “il decreto del direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale dell’Umbria risulta adottato dopo il decorso di un lasso temporale non ragionevole dall’epoca dell’espletamento del concorso e della stabilizzazione dei suoi atti conclusivi […] e lo stesso non ha dato conto della sussistenza di un interesse pubblico specifico, concreto ed attuale per l’esercizio del potere di autotutela”.

L’atto di annullamento, pertanto, risulta posto in essere in violazione dell’affidamento legittimamente formatosi in capo all’appellante. Le conclusioni tratte dal Consiglio di Stato, inoltre,  risultano ancor più meritevoli di pregio laddove si consideri che l’amministrazione scolastica è venuta meno all’onere di verifica delle dichiarazioni rese nella domanda di ammissione e della valutazione dei titoli di studio medio tempo conseguiti dalla ricorrente.

Alla luce delle sopra esposte  considerazioni i giudici di Palazzo Spada hanno accolto le censure sollevate dalla ricorrente. VA



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Inserito in data 24/02/2014
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 21 febbraio 2014, n. 320

Atti del procedimento di ammonimento per stalking, diritto di accesso e diniego

I Giudici piemontesi accolgono il ricorso avverso il diniego di accesso, palesato dalla Questura, in merito agli atti di un procedimento di ammonimento per stalking – ex art. 8 D.L. n. 11/09 – pendente sul ricorrente.

A fronte delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica, prospettate dall’Amministrazione intimata a sostegno del proprio rigetto, il Collegio evidenzia, invece, che per quanto la materia dell’accesso possa subire ulteriori specificazioni ad opera di una normativa di dettaglio, questa non possa estendersi in guisa da procurare una sottrazione generalizzata e indiscriminata delle istanze ostensive rientranti in tali ambiti.

Tanto sarebbe accaduto nel caso di specie, in cui la Questura ha vagamente palesato il proprio dissenso, trattandosi di un procedimento per atti persecutori – ex art. 612 bis c.p. e quindi genericamente afferente alle materie tutelate dalle norme del D.M. 415/1994 – in tema di sicurezza pubblica.

E’ stato opposto, infatti, un diniego generalizzato ed immotivatamente privo degli opportuni accorgimenti che, in casi simili, avrebbero dovuto essere adoperati dall’Amministrazione resistente che, pertanto, è tenuta all’ostensione di quanto richiesto. CC



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Inserito in data 24/02/2014
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III, 19 febbraiio 2014, n. 266

Acquisto del possesso sine titulo da parte di PA, usucapione e diritto al ristoro

La pronuncia è significativa in quanto ricorda, con sapiente capacità ricostruttiva, l’atteggiamento granitico della giurisprudenza riguardo alla non rinvenibilità, nel nostro sistema, di deroghe all’istituto dell’usucapione, laddove questa avvenga a favore della mano pubblica ed in presenza di tutti i requisiti di legge.

Nel caso di specie, infatti, si ravvede il decorso del termine ventennale a partire dalla scadenza dell’occupazione d’urgenza e, pertanto, l’intervenuta usucapione sul fondo a favore dell’Amministrazione comunale intimata.

Peraltro, si nega efficacia interruttiva di tale termine ad una mera nota con cui, qualche anno addietro, il difensore di parte ricorrente aveva richiesto al Comune il pagamento dell’indennità di esproprio, ma non la restituzione del bene in modo da porre fine al relativo possesso.

Tale nota, tra l’altro, non ha natura di atto processuale di instaurazione di un giudizio che,

per effetto del rinvio fatto dall'art. 1165 c.c. all'art. 2943 c.c., è valutato come l’unico atto idoneo ad interrompere i termini.

Quindi, stando così le cose, il Collegio barese decide di accogliere l’eccezione di usucapione – sollevata dalla Difesa comunale e, pertanto, di respingere la richiesta restitutoria nonché quella risarcitoria formulata in via subordinata.

Infatti, data la retroattività degli effetti dell'acquisto del diritto per usucapione, cessa l’illiceità permanente dell’originario possesso sine tutulo in mano pubblica e, di conseguenza, viene meno ogni connessa tutela sul piano obbligatorio e risarcitorio. CC



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Inserito in data 23/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 febbraio 2014, n. 3967

Contratto di appalto e responsabilità per danni provocati a terzi

La giurisprudenza è unanime nel ritenere che “in tema di appalto è di regola l'appaltatore che risponde dei danni provocati a terzi ed eventualmente anche dell'inosservanza della legge penale durante l'esecuzione del contratto, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio appaltato, organizzandone i mezzi necessari, curandone le modalità ed obbligandosi a fornire alla controparte l'opera o il servizio cui si era obbligato, mentre il controllo e la sorveglianza del committente si limitano all'accertamento e alla verifica della corrispondenza dell'opera o del servizio affidato all'appaltatore con quanto costituisce l'oggetto del contratto”.

In particolare, “una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi risulta configurabile solo allorquando si dimostri che il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso (sentenze 23 marzo 1999, n. 2745, e 2 marzo 2005, n. 4361), oppure quando sia configurabile in capo al committente una culpa in eligendo per aver affidato il lavoro ad impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche, ovvero in base al generale principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 cod. civ. (sentenze 6 agosto 2004, n. 15185, e 27 maggio 2011, n. 11757)”.

In conclusione, gli Ermellini ricordano come tali principi trovino “conferma in riferimento agli appalti pubblici, a proposito dei quali si è detto che l'appaltatore conserva, anche se generalmente in misura minore rispetto all'appalto privato, i necessari margini di autonomia, sicché egli è da considerare, di regola, unico responsabile dei danni cagionati ai terzi nel corso dei lavori, potendosi riconoscere anche la responsabilità dell'amministrazione solo se il fatto dannoso si è determinato in esecuzione del progetto o di direttive impartite dall'amministrazione committente, poiché in questo caso l'appaltatore agisce quale nudus minister (sentenze 31 luglio 2002, n. 11356, 22 ottobre 2002, n. 14905, e 20 settembre 2011, n. 19132)”. EMF




Inserito in data 23/02/2014
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 20 febbraio 2014, n. 528

La revoca del Presidente del Consiglio comunale

Con la sentenza in esame, i Giudici pugliesi confermano l’orientamento del Consesso di Palazzo Spada (sez. V, 26 novembre 2013, n. 5605), secondo cui la revoca del Presidente del Consiglio comunale “trae origine da apprezzamenti di carattere politico e tuttavia non esprime una scelta libera nei fini, dovendo comunque sempre porsi nel solco del perseguimento delle finalità normative, non disponibili dai componenti del consiglio e dalle forze in esso presenti, di garantire la continuità della funzione di indirizzo politico amministrativo dell’ente comunale”.

Tale principio, desumibile dalla natura istituzionale della figura de qua, implica, pertanto, che “la revoca non può essere che causata dal cattivo esercizio di tale funzione, tale da comprometterne la neutralità, non potendo essere motivata sulla base di una valutazione fiduciaria di tipo strettamente politico”. 

Ne discende che il Giudice amministrativo deve esercitare il suo sindacato “attraverso le tipiche figure sintomatiche dell’eccesso di potere, quali in particolare la carenza di motivazione, il travisamento dei fatti, la contraddittorietà tra fatti e decisione, l’ingiustizia ed illogicità di quest’ultima”.

In particolare, alla luce del precedente del Consiglio di Stato (sez. V, 26 novembre 2013, n. 5605), egli dovrà, in primo luogo, “accertare l’effettiva sussistenza dei fatti, affinché la revoca non si fondi su presupposti inesistenti o non adeguatamente esternati nel provvedimento” e, in secondo luogo, “apprezzare la non arbitrarietà e plausibilità della valutazione politica in forza della quale l’organo consiliare ritiene che i suddetti fatti influiscano negativamente sull’idoneità a ricoprire la funzione”. EMF

 

 



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Inserito in data 21/02/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 17 febbraio 2014, n. 1871

Sulla scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto

La scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto, rappresenta espressione tipica della discrezionalità amministrativa ed, in quanto tale, è sottratta al sindacato del giudice amministrativo, tranne nel caso in cui, in relazione alla natura ed all'oggetto del contratto, non sia manifestamente illogica o basata su travisamento di fatti.

Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, sia la scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto (tra quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa e quello del prezzo più basso), sia la scelta dei criteri più adeguati (tra quelli esemplificativamente indicati dall'art. 83 del d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163 – Codice dei contratti pubblici) per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, costituiscono espressione tipica della discrezionalità della stazione appaltante e, concernendo il merito dell'azione amministrativa, restano sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, con la conseguenza che quest'ultimo non può sostituire, con proprie scelt,e quelle operate dalla Pubblica Amministrazione (si consideri, a tal proposito, la sentenza del Consiglio Stato, sez. V, 19 novembre 2009 , n. 7259 ).

In ogni caso, anche alla luce della consolidata giurisprudenza comunitaria, gli offerenti devono essere posti su un piano di parità durante l’intera procedura di gara, il che comporta che i criteri, nonché le condizioni, che si applicano a ciascuna gara, non possono, in nessun caso, predeterminare o costituire delle situazioni di vantaggio per taluni.

Le stazioni appaltanti, in sostanza, scelgono, tra i due criteri sopra citati, quello più adeguato in relazione alle caratteristiche dell'oggetto del contratto in quanto la specificazione del tipo di prestazione richiesta, e delle sue caratteristiche peculiari, consente di determinare correttamente ed efficacemente il criterio più idoneo all'individuazione della migliore offerta.

Alla luce di quanto brevemente esposto, il criterio del prezzo più basso, in cui assume rilievo la sola componente del prezzo, può presentarsi adeguato esclusivamente nel caso in cui l'oggetto del contratto abbia connotati di ordinarietà e, inoltre, sia caratterizzato da elevata standardizzazione in relazione alla diffusa presenza, sul mercato, di operatori in grado di offrire, in condizioni analoghe, il prodotto richiesto.

Nelle altre fattispecie, invece, sembra essere particolarmente arduo ipotizzare che non rivestano alcun rilievo gli “aspetti qualitativi” della prestazione offerta ai fini della scelta del contraente. GMC



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Inserito in data 21/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA 17 febbraio 2014, n. 754

Legge Pinto e contrasto con norme CEDU

Il Consiglio di Stato rinvia la Legge Pinto alla Corte costituzionale.

L'ordinanza in questione, prende le mosse dall'appello proposto dal Ministero della Giustizia contro undici sentenze di condanna per eccessiva durata del processo.

In particolare, la contestazione riguarda la condanna dell'Amministrazione al pagamento anche di ulteriori somme a titolo di penalità di mora (c.d. astreinte), ai sensi dell'art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm. in ragione dell'ingiustificato ritardo nell'esecuzione rispetto al momento in cui, sulle sentenze o sui decreti, si era formato il giudicato.

Nello specifico, ad esser presi di mira sembrano essere l'esiguità delle risorse, nonché i continui ritardi nei pagamenti, i quali trovano la loro fonte in un passaggio della norma ove si prevede che «l'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili».

Una previsione che, dunque, ampiamente contrasta con l'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) sulla ragionevole durata del processo, recepita dall'ordinamento italiano, la quale prevede che: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia.”
Sintetizzando la questione ivi in oggetto, con l'ordinanza del 17 febbraio 2014, n. 754, i giudici di Palazzo Spada, prendendo atto «dell'impossibilità di procedere a diretta disapplicazione della norma nazionale», hanno, quindi, dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, dell'articolo 3, comma 7, della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui prevede che “l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili (…)”, per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Corte Costituzionale, per tramite della norma interposta costituita dall’art. 6, par. 1, sopracitata, come interpretato dall’ormai costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Con l'ordinanza in esame, viene posto in luce che in tutti i casi di ravvisato contrasto tra una norma della CEDU ed una norma interna, il giudice non può procedere alla “diretta disapplicazione” di quest’ultima;le norme della CEDU, infatti, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente creata per dare ad esse interpretazione e applicazione (art. 32, par. 1, della Convenzione), integrano, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1, della Carta Costituzionale, nella parte in cui prevede l'obbligo, per la legislazione interna, di rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Dunque, in caso di ipotizzato contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune dovrà verificare la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi, a tal fine, di ogni strumento ermeneutico posto a sua disposizione.

Ove tale verifica dia esito negativo, non potendo rimediare a ciò mediante la semplice non applicazione della norma interna contrastante, il giudice deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale.
La Corte Costituzionale, pur tuttavia non potendo sicuramente sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione, la quale, chiaramente, si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale, si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione, ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale ad integrare il parametro considerato. GMC

 

 



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Inserito in data 20/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 febbraio 2014 n. 768

Integra eccesso di potere richiedere diverse altezze minime per i VVF volontari e di ruolo

La decisione in esame del Consiglio di Stato è innovativa nella misura in cui afferma l’illegittimità di un bando concorsuale che prevedeva come requisito di partecipazione l’altezza minima del concorrente. A tale conclusione il Giudice amministrativo perviene facendo leva sulla irragionevolezza della scelta in concreto operata dall’Amministrazione piuttosto che sul contenuto meramente discriminatorio della previsione.

Segnatamente, “per quanto riguarda il requisito dell'altezza, per i posti nella qualifica di Vigile del Fuoco, l'art. 1 del D.P.C.M. 27 aprile 1993, n. 233 […] stabilisce che "per l'ammissione ai concorsi a posti dei vigili del fuoco nel Corpo nazionale dei vigili del fuoco è richiesta una statura non inferiore a cm 165"

Ciò posto, se la discriminazione indiretta rappresentata dal requisito dell’altezza della cui legittimità qui si discute risulta pienamente legittimata dalla norma primaria (art. 31, comma 2, del D. Lgs. n. 198/2006) e se tale norma (che individua l’attività di vigile del fuoco come meritevole di una specialissima déroga al divieto di discriminare le persone – ed in particolare uomini e donne – in relazione a caratteristiche fisiche quali la statura) è già stata ritenuta dalla Sezione non sospettabile di incostituzionalità (v. sent. 3 dicembre 2013, n. 5739), reputa tuttavia la Sezione che la disposizione regolamentare del d.P.C.M. n. 411/1987 (come modificata dal d.P.C.M. n. 233/1993) debba considerarsi irragionevole e viziata per contraddittorietà, nella parte in cui detta per i vigili del fuoco di ruolo una regola diversa da quella dettata per il personale "volontario" dello stesso Corpo dal regolamento emanato con d.P.R. 6 febbraio 2004, n. 76 (quest’ultimo, infatti, richiede per il personale volontario la statura minima di cm 162, diversa da quella di cm 165 richiesta per il personale permanente, ossia di ruolo)”.

Precisamente, la norma primaria consente di derogare al divieto di non discriminazione fondata sull'altezza per l'accesso ai pubblici impieghi in considerazione delle mansioni espletate. Ma le mansioni espletate dai vigili del fuoco di ruolo e da quelli volontari sono le medesime, differenziandosi solo sotto il profilo della durata temporale (il volontario presta l’attività lavorativa in modo discontinuo e temporaneo): perciò, il requisito minimo di altezza non può che essere lo stesso. TM

 

 



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Inserito in data 20/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE - PRIMA SEZIONE PENALE, SENTENZA 18 febbraio 2014, n. 7579

Lettura restrittiva dei presupposti delle giurisdizioni eccezionali: art 234 CPMP

Com’è noto “la giurisdizione militare rappresenta – tuttora – una eccezione al principio generale della unità della giurisdizione, giustificato costituzionalmente in rapporto alla previsione espressa di cui all’art. 103 comma 3 Cost.”. Necessita, pertanto, di essere ricostruita restrittivamente.

In particolare, la legge richiede due condizioni per l’operare della giurisdizione militare: 1) “lo status soggettivo di militare in servizio alle armi o considerato tale dalla legge al momento del commesso reato”; 2) “la corrispondenza, almeno sotto il profilo della contestazione, tra la condotta ipotizzata e una previsione incriminatrice contenuta nella legge penale militare”.

Nel caso della truffa militare ex art. 234 cod. penale militare di pace, si richiede inoltre che il soggetto passivo sia un altro militare o che il fatto sia commesso in danno dell’amministrazione militare. In quanto reato contro il patrimonio, l’unica tipologia di danno che può venire in rilievo  è quella patrimoniale, consistente nella diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del reato in conseguenza della condotta tipica. Onde il reato non si configura laddove il soggetto passivo sia un ente non militare, che in forza di legge sopporta gli oneri economici del servizio prestato dal militare (nel caso in esame la Banca d’Italia sopportava gli oneri economici connessi al servizio di vigilanza, ivi compreso il pagamento delle ore di straordinario). “La truffa, ove sussistente, avrebbe il carattere di reato comune e non militare e pertanto la cognizione va rimessa all’autorità giudiziaria ordinaria ai sensi dell’art. 20 cod.proc.pen.”. TM




Inserito in data 19/02/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER, 18 febbraio 2014, n. 1957

Diniego di riconoscimento della cittadinanza per carenza del requisito reddituale

Le determinazioni dell'Amministrazione sulle domande di concessione della cittadinanza italiana al cittadino straniero, che risieda in Italia da oltre dieci anni, sono non vincolate, ma a carattere ampiamente discrezionale. L'Amministrazione, infatti, deve effettuare una valutazione sulle ragioni che inducono lo straniero a chiedere la nazionalità italiana e delle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale, ivi compresi quelli di solidarietà economica e sociale.

In queste ipotesi, del resto, l'interesse dell'istante ad ottenere la cittadinanza deve coniugarsi con l'interesse pubblico. Lo straniero viene infatti inserito a pieno titolo nella collettività nazionale, acquisendo diritti e doveri, tra i quali non assume un ruolo secondario il dovere di solidarietà sociale di concorrere con i propri mezzi, attraverso il prelievo fiscale, a finanziare la spesa pubblica funzionale all'erogazione dei servizi pubblici essenziali.

Dunque, correttamente l'Amministrazione può porre a base del diniego di riconoscimento della cittadinanza una appurata carenza del requisito reddituale in capo all'istante, atteso che la congruità dei redditi dell'aspirante deve essere tale da garantirne in ogni caso l'autosufficienza economica.

La verifica dell’Amministrazione in ordine ai mezzi di sostentamento dell'istante non è solo “funzionale a soddisfare primarie esigenze di sicurezza pubblica, considerata la naturale propensione a deviare del soggetto sfornito di adeguata capacità reddituale, ma è anche funzionale all'accertamento del presupposto necessario a che il soggetto sia poi in grado di assolvere i ricordati doveri di solidarietà sociale”.

Ne consegue che il controllo giudiziario, avendo natura estrinseca e formale, non può spingersi al di là della “verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole”. CDC



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Inserito in data 19/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 12 febbraio 2014, n. 3207

Vendita di terreno con condizione sospensiva di approvazione di variante urbanistica

La sentenza conferma che la vendita di un terreno, stipulata per consentire all'acquirente una sua utilizzazione edificatoria, al momento non permessa dagli strumenti urbanistici, e sottoposta alla condizione sospensiva della futura approvazione di una variante di detti strumenti che contempli quell'utilizzazione, “non è affetta da nullità, né sotto il profilo dell'impossibilità dell'oggetto, né sotto il profilo dell'impossibilità della condizione, dovendosi ritenere consentito alle parti di dedurre come condizione sospensiva anche un mutamento di legislazione o di norme operanti "erga omnes", salva restando l'inefficacia del contratto in conseguenza del mancato verificarsi di tale mutamento”. CDC

 

 




Inserito in data 18/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 febbraio 2014, n. 735

Ristrutturazione: nuova costruzione e patrimonio già esistente

La controversia in oggetto trae origine dalla diversa individuazione della categoria cui ricondurre l’opera soggetta a ristrutturazione.

Invero, se da un lato gli appellati ed il giudice di prime cure avevano ritenuto legittima l’attività di ristrutturazione intrapresa in considerazione del fatto che riguardasse un fabbricato storico, oggetto di dichiarazione di interesse particolarmente importante, e che l’articolo 30 del D.Lgs. n. 42/2004 “impone ai proprietari dei beni vincolati un vero e proprio obbligo conservativo e quindi rende necessaria la esecuzione di interventi volti a preservare la conservazione”, dall’altro il comune appellante ha diversamente qualificato l’edificio in questione, considerando un mero rudere.

Il Consiglio di Stato adito, dopo aver proceduto ad un accertamento di fatto, ha avallato la posizione assunta dall’appellante e, conseguentemente, ha dichiarato la legittimità dell’atto di annullamento della DIA.

Nel caso di specie la distinzione tra interventi di nuova costruzione ed interventi sul patrimonio già esistente assume un ruolo essenziale. Solo in quest’ultimo caso, infatti, si può propriamente parlare di “ristrutturazione”. Pertanto, “stante l’inesistenza di un fabbricato su cui intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le affermazioni del primo giudice sulla possibilità della ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente consentito, anche nella forma della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove. […] In secondo luogo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di parcheggi ex legge 122 del 1990, visto che la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non concepibile in assenza dell’opera principale” .

Infine, il Consiglio di Stato ha parimenti ritenuto priva di ogni fondamento l’eccezione di violazione dell’obbligo di motivazione ricordando che quando l’annullamento d’ufficio di un provvedimento abilitativo all’edificazione è dovuto ad un fatto dell’interessato la violazione del pubblico interesse è insita nel mancato rispetto della disciplina urbanistica e non necessita di una specifica motivazione. VA



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Inserito in data 18/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 febbraio 2014 n. 736

La riabilitazione esclude la rilevanza della condanna ai sensi dell’art. 38 D.Lgs 163/06

L’art. 38 cod. contr. pubbl. indica una serie di requisiti di ordine generale in assenza dei quali non si può prendere parte ad una gara d’appalto.

In particolare, per quanto concerne il caso sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato, è stato sollevato il problema dell’applicabilità o meno dell’art 38 lett. c) nel caso in cui il bando di gara, quale “lex specialis” preveda “comunque” l’obbligo di comunicare l’esistenza di sentenze di condanna, anche laddove si sia avuta riabilitazione o estinzione del reato.

La norma in questione, infatti, prevede l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi di quei soggetti nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale. Tuttavia la medesima disposizione di legge ha precisato che “l'esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima”.

Alla luce dell’esposto dettato normativo il Supremo Consesso ha affermato che “la previsione della lex specialis di dichiarare anche le sentenze di condanna per le quali sia intervenuta la riabilitazione è ingiustificatamente gravatoria” e che, pertanto, “non rileva, in questa prospettiva, il disposto dell’art. 38, comma 2, Cod. contr. pubbl., invocato dall’amministrazione, ai sensi del quale il concorrente “attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva […], in cui indica anche le eventuali condanne per le quali abbia beneficiato della non menzione”, dovendo detta norma essere intesa nel senso che vanno dichiarate le condanne che, ancorché assistite dal beneficio della non menzione, siano comunque suscettibili di influire nell’apprezzamento della moralità professionale”.

Ne consegue l’illegittimità del provvedimento di esclusione dalla gara fondato sull’omessa comunicazione delle condanne per le quali sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento laddove sia già intervenuta l’estinzione del reato essendo oramai decorso il prescritto lasso di tempo senza che l’imputato abbia commesso un reato della stessa indole ovvero vi sia stata riabilitazione.

Invero, sulla base di quanto sopra esposto “l'intervenuta riabilitazione escludeva dunque la rilevanza della condanna ai fini di un’eventuale esclusione, e quindi non vi è stata alcuna falsa o omessa dichiarazione sulla cui base potesse essere posta a base dell’esclusione dalla gara e dei successivi provvedimenti”. VA



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Inserito in data 17/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 febbraio 2014, n. 674

Attestato su fatti che devono essere appurati dalla P.A. e danno da perdita di chance

La dichiarazione con cui un’impresa manifesta di “conoscere ed incondizionatamente accettare il bando di gara ed il relativo disciplinare con riferimento a tutte le clausole, dati e prescrizioni del capitolato ad esso allegato” non preclude, a posteriori, la possibilità di contestare “l’applicazione di una clausola del disciplinare di gara accettato”.

La soluzione opposta, infatti, si porrebbe “in contrasto sia con gli artt. 24 e 113 Cost. (che prevedono e garantiscono il diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione), sia con gli stessi principi di imparzialità e buon andamento amministrativo, volti anche a tutelare la par condicio di coloro – imprese e cittadini – che entrano in contatto con la P.A., al fine di instaurare con essa rapporti contrattuali, al tempo stesso così garantendo alla P.A. la più ampia possibilità di scelta del contraente più adeguato”.

Il Consesso, pertanto, accogliendo le doglianze dell’impresa ricorrente, ha ritenuto l’illegittimità della “clausola del bando che prevede, a pena di esclusione, la necessità di allegazione di un attestato in ordine ad un fatto, che la stessa amministrazione procedente è tenuta a rilasciare” (ex art. art. 18, comma 3, della l. 7 agosto 1990 n. 241); nonché del “provvedimento che tale esclusione ha disposto, in luogo di procedere ad una integrazione istruttoria, per di più da effettuarsi di ufficio” (ex art. 18, comma 3, della l. 7 agosto 1990 n. 241). 

Ciò posto, i Giudici di Palazzo Spada rilevano che “al fine di ottenere il risarcimento del danno da perdita di chance, occorre fornire prova certa in ordine alla circostanza che l’offerta del concorrente illegittimamente escluso sarebbe stata quella che avrebbe comportato l’attribuzione dell’aggiudicazione al concorrente medesimo, di modo che questi si vede privato sia del “lucro”, derivante dall’esecuzione del contratto, sia dell’acquisizione di un elemento curriculare positivo, da far valere in ulteriori e successive procedure di gara”.

A tal proposito, il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 febbraio 2008 n. 490, ha puntualizzato che è proprio la “rilevante probabilità” a contraddistinguere “la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile”. Viceversa, infatti, nel caso “in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita” deve escludersi il risarcimento da perdita di chance, risultando “pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 3 agosto 2004 n. 5440; sez. V, 25 febbraio 2003 n. 1014; sez. VI, 23 luglio 2009 n. 4628; Cass. civ., sez. I, 17 luglio 2007 n. 15947)”.

In conclusione, la necessità di fondare dal punto di vista probatorio la “chance di conseguimento dell’utilità finale” è confermata dalla giurisprudenza civile “in tema di responsabilità precontrattuale”; atteso che, in mancanza di prove rigorose inerenti le eventuali occasioni contrattuali perse, l’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale (c.d. interesse negativo) è ancorato al solo “danno emergente per spese sostenute” (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 1977 n. 73; Cons. Stato, sez. VI, 17 dicembre 2008 n. 6264). EMF



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Inserito in data 17/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 febbraio 2014, n. 711

 

Revoca e sospensione della licenza di porto d'armi

Con la sentenza in commento, il Consesso è chiamato a vagliare il rapporto tra la norma speciale in materia di stupefacenti (art. 75, t.u. 10 ottobre 1990, n. 309) e la disciplina generale in tema di pubblica sicurezza (art. 39, t.u. 18 giugno 1931, n. 773).

In particolare, il Collegio ritiene che l’introduzione della norma speciale (sospensione della licenza) non preclude al prefetto “la possibilità, in presenza di situazioni di pericolo rafforzato, di una misura (ancora) più rigorosa ove si ritenga che la prima non sia sufficiente e che, in radice, non vi siano più i presupposti necessari per beneficiare della licenza”.

In questo senso, peraltro, si era già espresso il Consiglio di Stato, VI, n. 506/2006, secondo cui “il potere del prefetto di vietare la detenzione di armi e munizioni ai soggetti ritenuti capaci di abusarne, previsto dall’art. 39, t.u. 18 giugno 1931, n. 773, non è venuto meno a seguito dell’art. 75, t.u. 10 ottobre 1990, n. 309”.

La prevalenza della norma generale, tuttavia, postula “pur sempre un accertamento in concreto della condotta del privato … (omissis) e una motivata valutazione anche sotto il profilo della proporzionalità, da cui si comprendano le ragioni per le quali si è ritenuto che la sospensione, in ipotesi sino ad un anno, non fosse sanzione sufficiente”. EMF



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Inserito in data 16/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 febbraio 2014, n. 507

Scusabilità dell'errore riconducibile a formulazioni degli atti di gara

Il Consiglio di Stato si sofferma in merito sulla scusabilità dell'errore riconducibile alle formulazioni degli atti di gara che potrebbero indurre dei dubbi interpretativi.
Trattando del caso specifico, in materia di cause di esclusione dalle gare, per reati incidenti sulla moralità professionale, la verifica dell'incidenza dei reati commessi dal legale rappresentante dell'impresa sulla moralità professionale della stessa, attiene all'esercizio del potere discrezionale della Pubblica Amministrazione e deve essere valutata mediante la disamina, in concreto, delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di condanna, della natura, nonché delle concrete modalità di commissione del reato, non potendo la medesima concorrente valutare da sé quali reati possano essere considerati rilevanti ai fini della dichiarazione da rendere, ciò implicando un giudizio assolutamente soggettivo ed, in quanto tale, inconciliabile con la finalità primaria della norma.

Tuttavia, nel caso in cui la dichiarazione sia resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante, ed il concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa.

Si osserva, dunque, che il rigore formalistico cede in presenza di una scusabilità dell'errore riconducibile a formulazioni degli atti di gara che possono indurre dubbi interpretativi, tanto più alla luce della vigenza della regola della tassatività delle cause di esclusione, di cui all'art. 46, comma 1 bis, Codice dei contratti pubblici, il quale recita che: “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenete ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle.”

La norma riportata, s'ispira evidentemente ad un criterio sostanzialistico, riaffermando, in tal modo, il favor partecipationis.

Inoltre, il potere-dovere, della Stazione appaltante, di chiedere un'integrazione documentale (già, tuttavia, contemplato in generale dall'art. 6 della Legge n. 241 del 1990), trova oramai un solido riscontro nell'art. 46 del Codice dei contratti pubblici, il quale codifica, dunque, uno strumento volto a far valere, entro chiaramente certi limiti, la sostanza sulla forma (o sul formalismo), nell'esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione. GMC



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Inserito in data 16/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 febbraio 2014, n. 583

Teoria del c.d. falso innocuo alle procedure d'evidenza pubblica

La teoria del c.d. "falso innocuo", nelle gare ad evidenza pubblica, presuppone che la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità, nonché sull'oggetto, delle dichiarazioni da fornire.
L'art. 45, § 2, lett. g) della dir. n. 2004/18/CE, che fa conseguire l'esclusione dalla gara alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di false dichiarazioni (e non anche incomplete) nel fornire informazioni, si dimostra di immediata applicazione nell'ordinamento nazionale e, quindi, nelle procedure di gara solo nel caso in cui l'esclusione da esse non sia sancita, in virtù dell'art. 38, comma 1, del D.lgs. 163/2006, in modo espresso nella legge di gara.

Analizzando quanto esposto, infatti, da un lato, non si può predicare l'applicabilità mera del c.d. "falso innocuo" alle procedure d'evidenza pubblica, in quanto la completezza delle dichiarazioni permette, anche in ossequio al principio di buon andamento dell'azione amministrazione nonché di proporzionalità, la celere decisione sulla ammissione dell'operatore economico alla gara.

Dall'altro lato, la dimostrazione dell'assenza di elementi ostativi alla partecipazione ad una gara di appalto in capo ad uno degli amministratori della società, (nel caso di specie, il vicepresidente del CDA), rappresenta elemento essenziale dell'offerta (o comunque è dovuta ai sensi dell'art. 38, c. 2 del D.lgs. 163/2006), così che la sua mancanza produce l'automatica esclusione automatica ai sensi dell'art. 46, comma 1-bis, anche in assenza di espressa comminatoria da parte della legge di gara.

Alla luce di altre pronunce del Consiglio di Stato, si ricorda che con sentenza n. 6240 del 30 novembre del 2011, è stato precisato che chi partecipa a una gara, avendo tutti i requisiti richiesti, e la lex specialis non prevede espressamente la sanzione dell'esonero in caso di mancata osservanza delle puntuali prescrizioni su modalità e oggetto delle dichiarazioni da fornire, non può essere escluso.

L’omissione, infatti, non danneggia gli interessi presidiati dalla legge e, pertanto, può essere considerata un'ipotesi di “falso innocuo” che, in quanto tale, non può provocare, dunque, in assenza di una chiara regola legislativa o dell’indicazione del bando, l'esclusione, le cui ipotesi risultano, invece, tassative.

Secondo i giudici di Palazzo Spada, difatti, se non sussistono esplicite previsioni escludenti in base alla lex specialis, occorrerà allora richiamarsi ad una “valutazione sostanzialistica della sussistenza delle cause di esclusione”, considerando, nuovamente, che il primo comma dell'articolo 38 del D.lgs n. 163 del 2006, ricollega l'esclusione dalla gara al dato sostanziale del mancato possesso dei requisiti indicati, mentre il comma successivo, non prevede analoga sanzione in caso di mancata, o non chiara, dichiarazione resa in tal senso.

Per questo motivo, è da ritenere che solo l'insussistenza, in concreto, delle cause di esclusione, previste dal citato articolo 38, implicherà “ope legis” l'effetto espulsivo. GMC

 

 

 



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Inserito in data 14/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 febbraio 2014 n. 697

Ipotesi di inapplicabilità del termine lungo per impugnare alla revocazione straordinaria

La causa in esame trae origine da un ricorso per revocazione straordinaria di una precedente sentenza ai sensi dell’art. 395 n. 3 c.p.c., ossia per il rinvenimento di documenti decisivi.

Il Consiglio di Stato ci ricorda che la revocazione straordinaria è un “mezzo d’impugnazione straordinaria di regola proposta contro un sentenza già passata in giudicato formale (come nel caso di specie; v. sopra), previsto in ipotesi eccezionali in cui il legislatore ha ritenuto che si fosse alla presenza di sintomi di ingiustizia della sentenza tali da giustificare la compromissione della certezza tutelata dal giudicato ed alla cui gravità si accompagna la caratteristica che i relativi vizi non possono essere rilevati sulla base della sola sentenza”.

Pertanto: per un verso, “secondo l’art. 92, comma 2, cod. proc. amm. – con disciplina in parte qua omologa a quella generale processualcivilistica di cui all’art. 326, comma 1, cod. proc. civ. – nei casi di revocazione straordinaria il termine generale d’impugnazione (di sessanta giorni per il rito ordinario, e di trenta giorni per il rito abbreviato) decorre dagli eventi ivi individuati come dies a quo, nella specie, con riferimento all’ipotesi dell’art. 395, n. 3), cod. proc. civ., dalla data in cui è stato recuperato il documento decisivo”; per altro verso,  “non v’è spazio per l’applicazione del termine ‘lungo’ ex art. 92, comma 3, cod. proc. amm. (rispettivamente ex art. 327, comma 1, cod. proc. civ., per il processo civile), previsto in caso di mancata notificazione della sentenza, alla revocazione straordinaria ex art. 395, nn. 1), 2) 3) e 6) cod. proc. civ., quantomeno nei casi – quale quello sub iudice – in cui la conoscenza effettiva del vizio sia avvenuta dopo il passaggio in giudicato formale della sentenza revocanda per consunzione dei termini previsti per le impugnazioni ordinarie”. TM



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Inserito in data 14/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 febbraio 2014 n. 696

Limiti alla possibilità di modificare le dichiarazioni sostitutive di atti di notorietà

Nella controversia de qua, il Consiglio di Stato esclude che la parte che ha presentato una dichiarazione sostitutiva di autocertificazione possa modificarla sine die.

Ciò in quanto, “se si riconoscesse la facoltà di apportare una radicale modificazione alla dichiarazione originaria, ne risulterebbero … vanificate le norme che assoggettano a limiti temporali rigorosi l’adempimento dell’obbligo avente ad oggetto la presentazione appunto della dichiarazione sostitutiva”.

A diverse conclusioni potrebbe giungersi se la prima dichiarazione fosse affetta da un errore di calcolo: “l'errore materiale o di calcolo deve consistere in un'inesattezza accidentale, rilevabile direttamente dall’atto e comunque riconoscibile, fermi i dati da computare ed il criterio aritmetico da seguire, quando la divergenza si riverbera sul risultato finale e che si possa emendare “a colpo d’occhio” in base a tali dati e criteri a seguito della ripetizione corretta del computo”. In questo caso, infatti, l’ulteriore dichiarazione integrerebbe una semplice rettifica ex art. 1430 c.c.

Nel caso di specie, l’erroneità della prima dichiarazione non era ictu oculi riconoscibile e comunque andava considerata imputabile al dichiarante; conseguentemente, l’ulteriore dichiarazione sostitutiva serviva a ritrattare i fatti precedentemente dichiarati. Pertanto, legittimamente l’Amministrazione non gli ha attribuito rilevanza. TM



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Inserito in data 12/02/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, C 385/12 del 5 febbraio 2014

Fatturato di gruppo viola il diritto alla libertà di stabilimento e alla parità di trattamento

Il Collegio del Lussemburgo risponde al quesito, sollevato da un Giudice di uno Stato membro, riguardo alla presunta incompatibilità di una normativa nazionale che imponga di commisurare l’imposta al fatturato di gruppo.

Una simile tassazione, infatti, finirebbe con il procurare effetti discriminatori, sul piano fiscale, a carico delle imprese collegate, obbligate a versare una frazione dell'imposta straordinaria dovuta dall'insieme delle imprese del gruppo. Così facendo, ciascuna collegata viene assoggettata ad un'aliquota media nettamente superiore a quella che le si applicherebbe qualora venisse preso in considerazione unicamente il fatturato realizzato dai negozi ubicati all’interno del territorio nazionale.

Appare evidente, dunque, l’incisione alla libertà di stabilimento, oltrechè alla parità di trattamento, posto che diventa di gran lunga più agevole il trattamento fiscale riservato alle imprese non appartenenti ad un gruppo di società, come nel caso di un'impresa autonoma in franchising.

La Corte, infatti, così conclude: «Gli articoli 9 Tfue e 54 Tfue devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa di uno Stato membro relativa ad un'imposta sul fatturato del commercio al dettaglio che obbliga i contribuenti che costituiscono, nell'ambito di un gruppo di società, "imprese collegate", ai sensi della normativa medesima, a sommare i rispettivi fatturati ai fini dell'applicazione di un'aliquota fortemente progressiva per poi successivamente ripartire tra di loro l'importo dell'imposta così calcolata in ragione del prorata del rispettivo fatturato reale ». CC




Inserito in data 12/02/2014
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. II, 6 febbraio 2014, n. 424

Impossibile ottemperanza a decisione CEDU: non è annoverabile ex art. 113 Cpa

Il Collegio etneo dichiara l’inammissibilità dell’azione esperita dal ricorrente che, destinatario di una decisione CEDU contenente statuizioni a sé favorevoli, ne chiedeva l’esecuzione dinanzi al Giudice amministrativo.

Si trattava, più nel dettaglio, di un provvedimento con cui la Corte francese sollecitava e prendeva atto di un accordo amichevole intercorso tra l’istante, vittorioso in un ricorso ex lege Pinto (L. 89/01) e lo Stato italiano – nelle vesti del Ministero dell’Economia e Finanze – tenuto al pagamento dell’indennizzo riconosciuto secondo i parametri di Strasburgo.

Data la mancata esecuzione, il ricorrente decideva di agire in ottemperanza dinanzi al Collegio amministrativo, territorialmente competente.

I Giudici, in primo luogo, escludono l’annoverabilità della decisione in esame fra “gli altri provvedimenti” equiparati alle sentenze passate in giudicato - ex art. 113 C.p.A. e ne ricordano, peraltro, la natura peculiare.

Si tratta, infatti, di atti in grado di creare reciproci vincoli obbligatori tra gli Stati membri e, al tempo stesso, non idonei a dare luogo ad obbligazioni di tipo privato nei confronti dei ricorrenti vittoriosi: tutto ciò, infatti, urterebbe contro la lettera della Convenzione ed i comuni principi di diritto internazionale riconosciuti dagli Stati contraenti.

Ciascun soggetto vittorioso, come nel caso odierno, potrà disporre di strumenti di esecuzione differenti, espressamente attribuiti al Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa e, segnatamente per l’Italia, al Presidente del Consiglio dei Ministri del Governo della Repubblica italiana, in conformità con il dettato dell'art. 46, par. 1, della Convenzione.

Il Giudice italiano, dunque, non possiede alcun potere cognitorio “in punto di interpretazione, revisione e/o esecuzione delle sentenze rese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo” – come già sancito da una recente pronuncia in sede di regolamento di giurisdizione (Cfr. Sez. Un. Ord. n. 11826 del 16 maggio 2013).

Non resta, quindi, che statuire l’inammissibilità dell’azione odierna, rimettendo il ricorrente dinanzi agli Organi, ritenuti competenti dalla Convenzione. CC



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Inserito in data 11/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 febbraio 2014, n. 601

Sull’onere di motivazione in sede di adozione dello strumento urbanistico

La sentenza ribadisce che il potere di pianificazione urbanistica, come ogni potere discrezionale, non è sottratto al sindacato giurisdizionale, in quanto la PA deve dare conto, sia pure con motivazione di carattere generale, degli obiettivi che intende perseguire e, quindi, della coerenza delle scelte effettuate con i detti obiettivi ed interessi pubblici.

L’onere di motivazione in sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte effettuate incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, è di carattere generale e risulta soddisfatto con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte predette, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”.

Come precedentemente affermato in giurisprudenza, infatti, “le scelte urbanistiche … richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative; … mentre richiede una motivazione specifica una variante che interessi aree determinate del PRG., per le quali quest’ultimo prevedeva diversa destinazione (a maggior ragione in presenza di legittime aspettative dei privati), non altrettanto può dirsi allorché la destinazione di un’area muta per effetto della adozione di un nuovo strumento urbanistico generale, che provveda ad una nuova e complessiva definizione del territorio comunale. In questa ipotesi, infatti, non è in discussione la destinazione di una singola area, ma il complessivo disegno di governo del territorio da parte dell’ente locale, di modo che la motivazione non può riguardare ogni singola previsione (o zonizzazione), ma deve avere riguardo, secondo criteri di sufficienza e congruità, al complesso delle scelte effettuate dall’ente con il nuovo strumento urbanistico.” CDC



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Inserito in data 11/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 4 febbraio 2014, n. 2403

Non rientra tra i motivi di giurisdizione la violazione del diritto europeo

Secondo la pronuncia in esame, la pretesa violazione del diritto dell’Unione Europea da parte di organo giurisdizionale di ultimo grado non rientra fra i “motivi di giurisdizione” che legittimano il ricorso per cassazione avverso le pronunce del Consiglio di Stato (o del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana).

È vero, infatti, che rientra nel sindacato per motivi di giurisdizione “l’operazione che consiste nell’interpretare la norma attributiva di tutela, onde verificare se il giudice amministrativo la eroghi concretamente”. Tuttavia, ciò vale “soltanto se il rifiuto sia stato determinato dall’affermata estraneità della domanda alle attribuzioni giurisdizionali dello stesso giudice, oppure nei casi, estremi, nei quali l’errore si sia tradotto in una decisione anomala o abnorme, frutto di radicale stravolgimento delle norme di riferimento, non quando si prospettano come omissioni dell’esercizio del potere giurisdizionale meri errori in iudicando o in procedendo”.

Nel caso, la pretesa violazione del diritto europeo non attiene alla corretta individuazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma investe un vizio del giudizio. Si tratta di un error in iudicando, che non si trasforma in eccesso di potere giurisdizionale solo perché viene in gioco il diritto dell’Unione. Infatti, qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme può essere letta in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale, ma non per questo può essere considerata come eccesso di potere giurisdizionale sindacabile dalla Corte di cassazione. CDC

 

 




Inserito in data 10/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 3 febbraio 2014 n. 2290

L’indizione di una nuova selezione ‘idoneativa’ incardina la giurisdizione del G.A.

Alla luce della giurisprudenza prevalente, le Sezioni Unite, in funzione nomofilattica, ritengono che “le controversie attinenti ad una procedura di selezione 'idoneativa' e 'non concorsuale' avviata da una ASL per il conferimento di un incarico dirigenziale (nella specie di dirigente di struttura complessa), aventi ad oggetto atti adottati in base alla capacità ed ai poteri propri del datore di lavoro privato, appartengano alla giurisdizione del giudice ordinario (v. fra le altre Cass. 5-3-2008 n. 5920, Cass. 13-10-2011 n. 21060)”.

Tuttavia, nei casi in cui la controversia “esuli dalla procedura avviata e dai relativi atti ed investa direttamente una scelta discrezionale ulteriore, come quella della indizione di una nuova procedura selettiva, la cognizione non può che appartenere al giudice amministrativo, in ragione della situazione soggettiva vantata nei confronti di tale scelta discrezionale della pubblica amministrazione”.

D’altra parte, “parallelamente, seppure in materia di procedure concorsuali e di scorrimento della graduatoria, è stato più volte affermato che, nel caso di indizione di un nuovo concorso, l'amministrazione esercita un potere autoritativo, di fronte al quale il candidato idoneo vanta solo un interesse legittimo tutelabile davanti al giudice amministrativo ex art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165/2001 (v. Cass. S.U.18-6-2008 n. 16527, Cass. S.U. 16-11-2009 n. 24185, Cass. S.U. 6-5-2013 n. 10404)”. EMF




Inserito in data 10/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 febbraio 2014 n. 556

Diritto di accesso e valutazione astratta degli scopi cui esso è preordinato

Per costante orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, sez. IV, 4 settembre 2012, n. 4671), “il diritto di accesso agli atti non può, quale posizione giuridica soggettiva autonomamente rilevante e tutelata, sfuggire all'ineliminabile correlazione con un interesse, oltre che attuale e concreto, diretto (ossia immediatamente riferibile alla sfera giuridica dell'istante in termini di sua pertinenza ad essa e quindi, come tale, personale) quindi non ipotetico e astratto”.

In particolare, in “tema di diritto di accesso ai documenti motivato con l'esigenza di promuovere un procedimento giurisdizionale, il giudizio circa la concreta pertinenza della documentazione alla causa non può che spettare all'autorità giudiziaria adita, ma, non di meno, spetta all'Amministrazione la valutazione dell'astratta inerenza dell'istanza a quel giudizio; diversamente opinando, l'intenzione annunciata di proporre un'azione giudiziaria giustificherebbe la richiesta di qualsivoglia documento (Consiglio di Stato, sez. V, 12 ottobre 2002, n. 5516); pertanto, al fine di consentire detto vaglio, il titolare della posizione legittimante deve esternare le ragioni per cui intende accedere e, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto d'accesso è preordinato”.

In conclusione, il Consesso di Palazzo Spada ritiene che l’istanza di accesso ai documenti non può concernere gli importi corrisposti, a titolo di T.A.R.S.U., da altre imprese esercenti analoga attività sul territorio comunale, non essendo tale motivazione astrattamente legata allo scopo di farne utilizzo in un giudizio innanzi alla Commissione Tributaria. Come correttamente evidenziato dal Comune nel provvedimento di diniego, infatti, trattasi di pretesa basata sulla legge e sul regolamento T.A.R.S.U. locale.  EMF



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Inserito in data 07/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 6 febbraio 2014, n. 5838

Anche le dichiarazioni spontanee dell'indagato interrompono la prescrizione

Le Sezioni unite della Suprema Corte, con la pronuncia in esame, hanno chiarito che “Le dichiarazioni rese dall'indagato in sede di presentazione spontanea possono dispiegare efficacia interruttiva, al pari dell'ordinario interrogatorio, in costanza di una duplice condizione: che siano rese all'autorità giudiziaria (e non già, dunque, alla polizia giudiziaria) ed in esito a contestazione del fatto per cui si procede”.

Con riguardo al caso specifico, è stato rigettato il ricorso presentato da sette persone condannate per associazione a delinquere ed altri reati, con la formula dell'applicazione della pena su richiesta, infatti, secondo la Cassazione, riportando un proprio precedente, “le dichiarazioni spontanee rese all'autorità giudiziaria equivalgono “ad ogni effetto” all'interrogatorio dunque anche ai fini dell'interruzione della prescrizione ex art. 374, comma 2 c.p.p. solo quando vi sia stata una contestazione chiara e precisa del fatto addebitato”, così come accade in tal caso.

La Corte osserva, altresì, che “al di là del dato sostanziale, anche il profilo formale depone univocamente, a favore della ritenuta equiparazione delle anzidette dichiarazioni spontanee all'interrogatorio, in costanza dei pertinenti elementi qualificanti. Ed infatti le dette dichiarazioni rese in presenza del difensore di fiducia sono state precedute dagli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, c.p.p.”

Per tali ragioni, i giudici hanno affermato che il quesito concernente la rilevanza di tali dichiarazioni, come atto interruttivo della prescrizione, deve trovare, nel caso in oggetto, risposta affermativa. GMC

 




Inserito in data 07/02/2014
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II, 31 gennaio 2014, n. 289

Trasformazione concessioni “perpetue” in concessioni temporanee

La gestione dei siti cimiteriali, è ampiamente influenzato dalla disciplina pubblicistica demaniale.

Ciò ha una importante incidenza poiché implica che, se nei riguardi dei terzi lo ius sepulchri garantisce al concessionario ampi poteri di godimento del bene, con la conseguenza che, nei rapporti interprivati, la protezione della situazione giuridica è piena, assumendo la fisionomia propria dei diritti reali assoluti di godimento, nei confronti della Pubblica Amministrazione concedente, invece, esso rappresenta piuttosto un “diritto affievolito” in senso stretto, soggiacendo ai poteri regolativi e conformativi di stampo pubblicistico.

Ciò posto, la natura demaniale dei cimiteri contrasta profondamente con la perpetuità delle concessioni cimiteriali; essa, infatti, finirebbe per celare un vero e proprio diritto di proprietà sul bene demaniale (il cimitero), che per sua natura è un bene pubblico, destinato, dunque, a vantaggio dell'intera collettività.

Conseguentemente a quanto descritto, l'utilizzo di tale bene, in favore di alcuni soggetti, che sarebbe quindi ciò che si verifica mediante una concessione, deve necessariamente essere limitato dal punto di vista temporale, anche stabilendo una durata prolungata nel tempo e alla rinnovabile tuttavia alla scadenza.

In caso contrario, verrebbe contraddetta la sua ontologica finalità pubblica, a cui il bene verrebbe, in tal modo, definitivamente  sottratto.

Concludendo, alla luce di quanto brevemente argomentato, nel caso specifico, risulta valido il regolamento del comune che ha previsto la trasformazione delle concessioni c.d. “perpetue” in concessioni temporanee di lunga durata e soggette a rinnovo. GMC

 

 



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Inserito in data 06/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 3 febbraio 2014, n. 8

Appello avverso dispositivo - art. 119 C.p.A., offerte anomale e diritto ad agire in giudizio

Con la pronuncia in esame il massimo Collegio amministrativo fornisce chiarimenti significativi in tema di appalti pubblici.

In primo luogo, per ragioni di pregiudizialità, i Giudici procedono all’esame di un aspetto di natura prettamente processuale, afferente alla reale natura dell’azione impugnatoria in tema di appalti.

La querelle, infatti, sorgeva dal dubbio circa la natura autonoma, o unitaria ma a “formazione progressiva”, degli appelli proposti, rispettivamente, avverso il dispositivo e contro la residua parte della sentenza.

Ad avviso della Sezione remittente, infatti, l’accoglimento dell’una o dell’altra possibilità avrebbe condotto a differenze sia sul piano contenutistico, che riguardo alla successiva pronuncia in sede giurisdizionale.

I Giudici della Plenaria, formando il proprio convincimento su un’attenta lettura del 6’ comma dell’articolo 119 C.p.A., ritengono non ricorra alcuna scissione dell’azione impugnatoria nei due momenti in cui ne è ammesso l’esercizio, prima avverso il dispositivo e poi contro al sentenza. Invero, prosegue il Collegio, si versa a fronte di due momenti che sono espressione del medesimo potere di impugnazione della parte, cui segue l’effetto devolutivo della controversia in un primo tratto limitatamente all’emissione di misure cautelari, nel secondo con effetto di cognizione piena del merito della controversia in relazione ai motivi di impugnativa che il ricorrente è posto in condizione di articolare.

In tal modo, uniformandosi alla posizione assunta dall’ordinanza di remissione, la Plenaria afferma che – con l’iniziale impugnazione del solo dispositivo, come nel caso di specie,  si anticipa semplicemente lo strumento cautelare, riservandosi la possibilità di articolare meglio in seguito i motivi di censura.

Non ricorre, pertanto, né un tertium genus di tutela cautelare – oltre ai regimi di cui agli artt. 62 e 98 C.p.A., come taluni avevano paventato; né un nuovo mezzo di gravame – a dispetto dell’unitarietà dei mezzi di impugnazione classificati agli articoli 91 e ss. del Codice del Rito amministrativo.

Si tratta, piuttosto, di un percorso in linea con la regola di sinteticità degli atti di parte nel processo amministrativo che - enunciata di massima all’articolo 3, comma 2, C.p.a., e puntualizzata all’articolo 120, comma 10, C.p.a. con riguardo al contenzioso relativo a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture - persegue l’intento di prevenire reiterazioni, ridondanze e duplicazioni dei contenuti degli atti di parte.

Acclarato questo aspetto rituale, il massimo Consesso prosegue nell’esame del merito, con particolare attenzione alle offerte sospettate di anomalia e correlato interesse a ricorrere da parte dell’impresa esclusa. Valuta queste censure compiendo un attento excursus dei caratteri essenziali del processo amministrativo.

Infatti, la Plenaria ricorda che preme valutare, a questo punto, l’attività di controllo svolta dal c.d. r.u.p. – il responsabile unico del procedimento. Egli, infatti, è chiamato a valutare – con un giudizio tecnico, le offerte presentate dalle varie ditte.

Si tratta, come è chiaro, di un’espressione di discrezionalità tecnica; pertanto, solo laddove fosse significativo il vizio di eccesso di potere in cui egli possa essere incorso nell’esame dell’anomalia, lì, allora, sarà fondata la doglianza del soggetto escluso e, pertanto, non difetterà la relativa legittimazione ad agire, divenendo possibile intervenire in sede giurisdizionale.

Afferma la Plenaria, infatti, che “è consentito il sindacato esterno del giudice amministrativo sull’operato dell’organo deputato all’esame delle offerte, in presenza di elementi che il ricorrente elevi a vizio di eccesso di potere in cui la stazione appaltante si assume sia incorsa per una non corretta disamina di elementi contenutistici tali da evidenziare una palese incongruità dell’offerta”.

Una soluzione simile, del resto, appare conforme ai principi propri del processo amministrativo che, quale giurisdizione di legittimità e di diritto soggettivo, mira al ripristino della legalità.

Ricorda il supremo Collegio di Palazzo Spada che un tale bene della vita possa essere conseguito, invero, solo laddove sussista la possibile riedizione dell’attività amministrativa che, in casi simili, comporterebbe la caducazione e ripetizione dell’intera gara.

Tanto non ricorre nel caso concreto ove l’appellante, terza ditta classificata, non ha modo di porsi in rapporto di prossimità, regolarità ed immediatezza causale rispetto alla domanda di annullamento proposta. Non sussiste, in concreto, per l’odierno ricorrente, l’adesione, in modo rigoroso e con carattere di immediatezza e di attualità, all'oggetto del giudizio (Cfr. Cons. St., IV, n .3365 del 07 giugno 2012; n. 6151 del 22 nov. 2011; V, 2947 del 2 maggio 2012).

Questi, infatti, quale impresa terza classificata non è portatrice di un interesse strumentale concreto e diretto all'annullamento degli atti impugnati ed alla rinnovazione della procedura, poiché dall’auspicato rinnovo non può derivare alcuna chance di vittoria stante la postergazione al secondo concorrente utilmente graduato.

Pertanto, anche avvalendosi di giurisprudenza recente, i Giudici illustrano il richiamo alla natura della giustizia amministrativa – compiuto al fine di spiegare la insindacabilità in sede giurisdizionale dell’odierna censura.

Infatti, l’interesse strumentale alla caducazione dell'intera gara e alla sua riedizione assume consistenza sempre che sussistano, in concreto, ragionevoli possibilità di ottenere l'utilità richiesta; il che non ricorre nel caso odierno.

Pertanto, considerata l’impronta soggettivistica e di legittimità del processo amministrativo – come sopra chiarite, diventa facile – ad avviso della Plenaria – escludere la legittimazione processuale dell’odierno appellante e, quindi, rigettarne il mezzo di gravame. CC



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Inserito in data 06/02/2014
TRIBUNALE REGIONALE DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA DI TRENTO, SEZ. UNICA, ORDINANZA 29 gennaio 2014, n. 23

Appalti: costi eccessivi e compatibilità con diritto UE. Chiamata la CgUE

I Giudici trentini, con la presente pronuncia, rimettono all’attenzione della Corte di Giustizia europea una questione di estrema attualità: il costo eccessivo della giustizia amministrativa, specie in materia di contratti pubblici.  

In primo luogo, esaminando le numerose doglianze, il Collegio affronta il quarto dei motivi aggiunti che, sia pure così collocato, ha una pregiudizialità logica tale da richiedere una valutazione prioritaria.

Si tratta, infatti, dell’eccezione circa il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in ordine al provvedimento con cui il Segretario generale di questo T.r.g.a dd. ha richiesto al difensore della ricorrente di integrare il pagamento del contributo unificato.

Il Collegio non esita a ricordarne la natura di provvedimento amministrativo tout court – a fronte del quale non può che radicarsi la giurisdizione amministrativa, appunto evocata.

E’ vero, infatti, che il contributo unificato ha natura di tributo e ciò giustificherebbe l’inquadramento della giurisdizione tributaria.

Tuttavia, nella specie viene in evidenza un atto del Segretario generale del Tribunale avente consistenza di provvedimento amministrativo, poiché emanato nell’esercizio di discrezionalità tecnica (si tratta, infatti, dell’uso ed interpretazione di norme processuali).

E’ corretta, pertanto, la devoluzione al giudice amministrativo, posto che il Segretario non ha fatto una mera e pedissequa applicazione di norme giuridiche, ma ha provveduto riguardo alla relativa interpretazione ed allocazione nel caso pratico, al punto da compiere una valutazione comparativa/tecnica.

La censura in questione, sia pure così superata, offre uno spunto di estrema attualità: il rincaro del contributo unificato, il cui ulteriore aggravio è caricato, a parte ricorrente, dal Segretario generale del Tribunale.

Un provvedimento simile, inserito in un quadro legislativo estremamente vario e frastagliato (D.P.R. n. 115/2002; art. 37, co. 6, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98; L. 24 dicembre 2012, n. 228) – come definito dagli stessi Giudici trentini, ha un’evidente indole deflattiva del contenzioso. Tuttavia, non si condivide l’inevitabile impatto discriminatorio che ne è disceso, posto che un aggravio economico tale si è ravvisato solo in materia di contratti pubblici.

Peraltro, nota ancora il Tribunale trentino, tale impianto legislativo pone evidenti problemi di conformità rispetto ai parametri e principi dell’ordinamento comunitario, ancor prima che riguardo a quelli costituzionali – di cui agli articoli 24 e 113.

Ne risente, infatti, sia la possibilità di agire in giudizio per la tutela delle posizioni giuridiche; allo stesso modo, viene inficiato il buon andamento amministrativo, nella misura in cui si finisce con il non censurare più l’attività delle stazioni appaltanti.

A fronte di impegni economici così gravosi, vi è, in sostanza, il serio rischio di un collasso del vaglio giurisdizionale, specie in settori tanto importanti per l’economia del Paese.

Inoltre, accanto all’effettività della tutela giurisdizionale, ormai siglata agli articoli 6 e 13 CEDU e art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, viene frustrato anche il principio di proporzionalità.

Non vi è, infatti, alcun equilibrio rispetto ai provvedimenti legislativi intervenuti riguardo all’avvio del contenzioso dinanzi ad altri Organi giurisdizionali; né, parimenti, si ravvede alcuna giustificazione dell’aumento dei costi in una presunta, maggiore efficienza della “macchina organizzativa” necessaria per un processo. 

Infatti, i costi del personale amministrativo e di magistratura, delle strutture, dell’organizzazione complessiva della macchina giudiziaria sono fissi e costanti, non variabili in proporzione alla qualità e valore del contenzioso.

E’ chiaro, stando così le cose che, se la misura del contributo non vale a coprire specifici e differenziati costi della giustizia - nella particolare materia degli appalti, non si comprende, allora, la ratio di un aumento così significativo – quale quello evidenziato nella presente ordinanza.

Dunque, sulla base di tali valutazioni, i Giudici trentini hanno ravvisato un’evidente discrasia rispetto all’impianto comunitario e, pertanto, ritengono sussistenti le condizioni per rimettere la questione all'esame della Corte di giustizia dell'Unione Europea. CC



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Inserito in data 05/02/2014
CORTE DI CASSAZIONE – SECONDA SEZIONE PENALE - SENTENZA 31 gennaio 2014, n. 5089

Nozione di reato politico a fini estradizionali

Con la sentenza de qua, la Corte di Cassazione ci rammenta che la nozione di reato politico a fini estradizionali svolge una funzione di garanzia, consistente nel limitare il diritto punitivo dello Stato straniero. Di conseguenza, tale nozione non coincide con quella di cui all’art. 8 c.p., ove presenta una ratio repressiva.

In particolare, si ritiene che gli artt. 10, c. 4 e 26, c. 2, della Costituzione, nel vietare l’estradizione per reati politici tanto degli stranieri quanto dei cittadini, facciano riferimento a reati che si connotano sotto il profilo oggettivo e non sotto quello soggettivo degli scopi delle condotte punite: “i reati sono qualificabili come politici in ragione dell’interesse giuridico che risulti leso (si pensi ai delitti di manifestazione del pensiero che siano stati consumati all’estero per contrastare regimi illiberali e tutelare libertà fondamentali), purché risultino ispirati dalla volontà di affermare valori di libertà e democrazia protetti dalla nostra Costituzione, salvo che, per la particolare atrocità ed eccezionale gravità delle modalità della loro commissione, non si pongano essi stessi in contrasto con i valori della Carta fondamentale (come avviene per i reati di terrorismo, per i quali le convenzioni internazionali tendono ormai a stabilire una sorta di “depoliticizzazione” a fini estradizionali)”.

La nozione di reato politico a fini estradizionali è stata nel tempo ampliata in modo da garantire all’estradando pure una tutela sul piano processuale: “il reato è ‘politico’ anche quando indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia la fondata ragione di ritenere che, proprio per la “politicità” della condotta illecita, l’estradando possa essere sottoposto nello Stato straniero richiedente ad un processo penale non equo o alla esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative persecutorie per ragioni politiche, che ledono diritti fondamentali dell’individuo, quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti”. TM




Inserito in data 05/02/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 30 gennaio 2014, n. 7

A) Solo il ricorso incidentale escludente deve essere esaminato prima del ricorso principale

L’Adunanza Plenaria è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sull’annosa quaestio dell’ordine di esame dei ricorsi, principale e incidentale. In particolare, nell’ordinanza di rimessione si chiedeva se “in fattispecie come quella in esame il ricorso incidentale porta preliminarmente in giudizio, con la verifica della legittimazione, una parte cospicua del merito della controversia, nonché il sindacato sui criteri di valutazione delle offerte da parte della stazione appaltante. Sicché l’esame delle sole prospettazioni dell’aggiudicatario sembrerebbe contrario al principio di parità delle parti. Pertanto appare necessario che l’Adunanza plenaria si pronunci sulla applicabilità del principio di diritto da essa affermato nella pronuncia n. 4/2011 anche a una fattispecie come quella in esame”.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, la soluzione sta nella corretta lettura della pronuncia n. 4/11, che va pertanto confermata. Infatti, tale decisione impone l’esame prioritario ed esclusivo del ricorso incidentale solo laddove questo introduca “censure che colpiscono la mancata esclusione, da parte della stazione appaltante, del ricorrente principale (ovvero della sua offerta), a causa della illegittima partecipazione di quest’ultimo alla gara o della illegittimità dell’offerta; tale situazione lato sensu di invalidità della posizione del ricorrente principale, deve scaturire dalla violazione di doveri o obblighi sanzionati a pena di inammissibilità, di decadenza, di esclusione (a titolo esemplificativo si pensi all’intempestività della domanda di partecipazione alla gara, alla carenza di requisiti soggettivi generali, di natura tecnica o finanziaria, ovvero di elementi essenziali dell’offerta)”. “Ne discende che tutte le criticità prospettate come incidenti su attività svolte a valle di quelle dedicate al riscontro dei suddetti requisiti, non impongono l’esame prioritario del ricorso incidentale perché, in tale ipotesi, esso non mira ad accertare l’insussistenza della condizione dell’azione rappresentata dalla legittimazione del ricorrente, in quanto soggetto escluso o che avrebbe dovuto essere escluso dalla gara. […] Si pensi alla contestazione del punteggio tecnico o economico nonché alla valutazione di anomalia dell’offerta

Pertanto, l’Adunanza Plenaria ha affermato il seguente principio di diritto: “nel giudizio di primo grado avente ad oggetto procedure di gara, solo il ricorso incidentale escludente che sollevi un’eccezione di carenza di legittimazione del ricorrente principale non aggiudicatario – in quanto soggetto che non ha mai partecipato alla gara, o che vi ha partecipato ma è stato correttamente escluso ovvero che avrebbe dovuto essere escluso ma non lo è stato per un errore dell’amministrazione - deve essere esaminato prioritariamente rispetto al ricorso principale; tale evenienza non si verifica allorquando il ricorso incidentale censuri valutazioni ed operazioni di gara svolte dall’amministrazione nel presupposto della regolare partecipazione alla procedura del ricorrente principale”. TM



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Inserito in data 05/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 30 gennaio 2014, n. 7

B) L’art. 37 c. 13 d.lgs n. 163/06 non è principio generale della materia dei contratti pubblici

Con la pronuncia de qua, il Consiglio di Stato ha anche chiarito che l’art. 37, c. 13, del d.lgs. 163/2006 (codice dei contratti) non va annoverato tra i principi desumibili dal Trattato FUE e i principi generali relativi ai contratti pubblici, ossia non rientra in quel compendio di norme che si applicano anche alle concessioni di servizio pubblico ex art. 30 del codice dei contratti.

A tale conclusione si è giunti applicando i criteri, enucleati nelle decisioni nn. 13 e 19/2013 dell’Adunanza plenaria, per l’individuazione delle norme del codice dei contratti espressive di principi generali e basati sulla natura dell’interesse presidiato dal precetto e sulla sua ampiezza applicativa.

In particolare, nella versione vigente alla data di pubblicazione del bando, l’art. 37, c. 13, recitava: “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”. Tale disposizione soddisfa l’esigenza della stazione appaltante di correttezza dell’azione amministrativa, poiché agevola i compiti di accertamento e controllo da parte del seggio di gara: pertanto, non è posta a presidio di valori immanenti del sistema dei contratti pubblici.

L’art. 37, c. 13, è stato riformato nel 2012, nel senso di limitare l’obbligo di corrispondenza tra quote di esecuzione e quote di partecipazione ai soli appalti di lavori; per gli appalti di servizi e di forniture, l’obbligo è stato circoscritto alla mera indicazione delle parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna delle imprese raggruppate. Pure tale intervento legislativo dimostra che la disposizione in esame non esprime un principio generale: infatti, essa è priva del requisito soggettivo delle norme di principio (applicabilità a tutte le tipologie di contratti, di lavori, di servizi e di forniture), pur continuando a presentarne il requisito oggettivo (natura imperativa).

Pertanto, l’Adunanza Plenaria ha affermato il seguente principio di diritto: “la norma sancita dall’art. 37, co. 13, codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163), che impone ai concorrenti riuniti, già in sede di predisposizione dell’offerta, l’indicazione della corrispondenza fra quota di partecipazione al raggruppamento e quota di esecuzione delle prestazioni (per i contratti di appalto di lavori, servizi e forniture fino al 14 agosto 2012 e per i soli contratti di appalto di lavori a decorrere dal 15 agosto 2012) - pur integrando un precetto imperativo capace di imporsi anche nel silenzio della legge di gara come requisito di ammissione dell’offerta a pena di esclusione - non esprime un principio generale desumibile dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ovvero dalla disciplina dei contratti pubblici di appalto e come tale, a mente dell’art. 30, co. 3, del medesimo codice, non può trovare applicazione ad una selezione per la scelta del concessionario di un pubblico servizio”. TM

 

 



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Inserito in data 04/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 febbraio 2014, n. 469

Rapporto di lavoro personale universitario-azienda sanitaria: giurisdizione del g.o.

Secondo la sentenza, spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il rapporto lavorativo del personale universitario con l'azienda sanitaria.

Infatti, l'art. 5, comma 2 del d.lgs. n. 517 del 1999 distingue il rapporto di lavoro dei professori e ricercatori con l'università da quello instaurato dagli stessi con l'azienda ospedaliera. Esso dispone che, sia per l'esercizio dell'attività assistenziale, sia per il rapporto con le aziende, si applicano le norme stabilite per il personale del servizio sanitario nazionale.

Ne segue che, “quando la parte datoriale si identifichi nell'azienda sanitaria, la qualifica di professore universitario funge da mero presupposto del rapporto lavorativo e l'attività svolta si inserisce nei fini istituzionali e nell'organizzazione dell'azienda”. Pertanto, opera il principio generale di cui all'art. 63, tupi, che sottopone al giudice ordinario le controversie dei dipendenti delle aziende e degli enti del servizio sanitario nazionale.

Ciò non contrasta con una precedente pronuncia che ha ritenuto la sussistenza della giurisdizione amministrativa in controversia concernente l’impugnazione da parte di medici-docenti di atti di organizzazione aziendale, in quanto essi avevano natura squisitamente autoritativa e pubblicistica. CDC



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Inserito in data 04/02/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 febbraio 2014, n. 470

Diritto della PA alla ripetizione di somme indebitamente corrisposte a propri dipendenti

La sentenza conferma che la ripetizione di somme indebitamente corrisposte dalla PA ai propri dipendenti ha carattere di doverosità e costituisce esercizio, ex art.  2033 cc, di un vero e proprio diritto soggettivo a contenuto patrimoniale. Esso non è rinunciabile, in quanto correlato al conseguimento di finalità di pubblico interesse cui sono istituzionalmente destinate le somme. Ciò esclude che la PA sia tenuta a fornire una specifica motivazione oltre all’indicazione delle ragioni per le quali il percipiente non ne aveva diritto.

In altre parole, non si richiede alcuna comparazione tra interessi pubblici e privati coinvolti, se non sotto il limitato aspetto delle esigenze di vita del debitore. Ne consegue che la buona fede del dipendente ed il suo affidamento nella stabilità dell’erogazione non costituiscono ostacolo al recupero, neppure quando intervenga a lunga distanza di tempo dalla corresponsione, ma comportano solo l’obbligo della PA di procedere al recupero stesso con modalità tali da non incidere significativamente sulle esigenze di vita del debitore. CDC



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Inserito in data 03/02/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 29 gennaio 2014, n. 6

Riparto di giurisdizione in materia di revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche

Con la sentenza indicata in epigrafe, l’Adunanza Plenaria sposa il tradizionale e consolidato orientamento giurisprudenziale, “secondo cui il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata”.

In particolare, “sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica Amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l’effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l’an, il quid, il quomodo dell’erogazione (cfr. Cass. Sez. Un. 7 gennaio 2013, n. 150)”.

Si incardina la giurisdizione del Giudice ordinario “anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. In tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (cfr. Cass. Sez. Un., ord. 25 gennaio 2013, n. 1776)”.

Per contro, “è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario (Cass. Sez. Un. 24 gennaio 2013, n. 1710; Cons. Stato, Ad. Plen. 29 luglio 2013, n. 17)”.

Pertanto, deve escludersi la tesi avallata dall’ordinanza di rimessione e dalla giurisprudenza minoritaria (Cons. Stato, sez. IV, 19 luglio 1993, n. 727; Cons. Stato, sez. IV, 2 agosto 2000, n. 4255; Cons. Stato, sez. VI, 16 febbraio 2005, n. 516), “che – muovendo dalla qualificazione del denaro come bene pubblico e, di conseguenza, dell’atto di erogazione come provvedimento di natura concessoria – sostiene che le controversie in materia di attribuzione (e, quindi, di revoca) di contributi o agevolazioni finanziarie rientrerebbero nella giurisdizione esclusiva di cui il giudice amministrativo dispone in materia di concessioni di beni pubblici ai sensi dell’art. 133, lett. b) cod. proc. amm.”.

Infatti, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 19 maggio 2008, n. 12641, hanno escluso “l’equiparabilità tra concessione di beni ed erogazione del denaro, in quanto, anche se il denaro è annoverabile nella categoria dei beni, non va confusa la figura della concessione a privati di benefici pubblici, che presuppone l’uso temporaneo da parte dei privati di detti bene per una finalità di pubblico interesse, con quella del finanziamento, che implica un tipo di rapporto giuridico del tutto diverso, in forza del quale il finanziato acquisisce la piena proprietà del denaro erogatogli ed eventualmente assume l’obbligo di restituirlo in tutto o in parte ad una determinata scadenza”.  Peraltro, “le ragioni di non agevole distinguibilità tra posizioni di diritto soggettivo e d’interesse legittimo, che sottostanno alla scelta legislativa di attribuire alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in tema di concessione di beni o servizi pubblici, non necessariamente ricorrono nei rapporti di finanziamento. Né, d’altronde, il carattere eccezionale della giurisdizione esclusiva ne consente l’applicazione al di là dei casi indicati dalla legge (in questi termini Cass. Sez. Un. 19 maggio 2008, n. 12641, par. 3 della motivazione)”.

La giurisdizione del G.O. risulta, altresì, “confermata, argomentando a contrario, dalla recente introduzione, ad opera della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea), nel testo dell’art. 133 del codice del processo amministrativo della lettera z-sexies”. Così operando, il legislatore ha selezionato dall’ampia categoria dei contratti pubblici la species dei contributi che costituiscono aiuti di Stato, attribuendoli espressamente alla giurisdizione esclusiva” e “realizzando così una reductio ad unitatem, con l’effetto di escludere le altre giurisdizioni nazionali (ordinaria e tributaria) e di superare le diversità delle molteplici discipline sostanziali”.

Ne discende che, “in assenza di norme speciali, la giurisdizione in materia di contributi e agevolazioni finanziarie è soggetta agli ordinari criteri di riparto, con il conseguente possibile concorso, a seconda del tipo di controversia e di situazione soggettiva dedotta, delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e tributaria”.

D’altronde, “l’esclusione della sussistenza di una giurisdizione esclusiva consente di superare anche l’argomento fondato sull’art. 7 cod. proc. amm., laddove tale disposizione richiama, attraverso la formula “atti […] riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere amministrativo” le espressioni contenute nelle note sentenze della Corte costituzionale 6 luglio 2004, n. 204 e 11 maggio 2006, n. 191”.

Del pari, a fronte della revoca del contributo finanziario conseguente all’inadempimento delle obbligazioni assunte per ottenere la sovvenzione, “non viene in rilievo il generale potere di autotutela pubblicistica (fondato sul riesame della legittimità o dell’opportunità dell’iniziale provvedimento di attribuzione del contributo e sulla valutazione dell’interesse pubblico), ma lo speciale potere di autotutela privatistica dell’Amministrazione (di cui peraltro l’ordinamento conosce altre tassative ipotesi, le più importanti delle quali si riscontrano nell’esecuzione dei contratti pubblici: cfr. le ipotesi di recesso e risoluzione di cui agli artt. 134-136 d.lgs. 12 aprile 2006 recante Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE)”; con conseguente instaurazione della giurisdizione del G.O.. EMF



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Inserito in data 03/02/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, SENTENZA 30 gennaio 2014, Causa C-285/12

Lo status di rifugiato va riconosciuto anche al soggetto in pericolo di vita

La questione pregiudiziale posta al vaglio della Corte di Giustizia “verte sull’interpretazione dell’articolo 15, lettera c), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”.

In particolare, il Giudice del rinvio chiede se la predetta disposizione debba essere interpretata “nel senso che l’esistenza di un conflitto armato interno deve essere valutata sulla base dei criteri stabiliti dal diritto internazionale umanitario e, in caso di risposta negativa, quali criteri debbano essere utilizzati per valutare l’esistenza di un tale conflitto ai fini di determinare se un cittadino di uno Stato terzo o un apolide possa beneficiare della protezione sussidiaria”.

Il primo quesito è confutato dal tenore letterale dello stesso articolo 15, lett. c), secondo cui il danno “è costituito da una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Tale ultima espressione, infatti, “differisce dalle nozioni poste a fondamento del diritto internazionale umanitario, il quale distingue, da un lato, i «conflitti armati internazionali» e, dall’altro, i «conflitti armati che non presentano carattere internazionale»”; di guisa che il legislatore dell’Unione ha inteso concedere la protezione sussidiaria anche “in caso di conflitto armato interno, purché tale conflitto sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata”. Pertanto, non è necessario “che sussistano tutti i criteri ai quali si riferiscono l’articolo 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra e l’articolo 1, paragrafo 1, del protocollo aggiuntivo II dell’8 giugno 1977, che sviluppa e integra tale articolo”.

In sostanza, il diritto internazionale umanitario ambisce “a fornire, nella zona di conflitto, una protezione alle popolazioni civili limitando gli effetti della guerra sulle persone e sui beni” e “non prevede, a differenza dell’articolo 2, lettera e), della direttiva, letto congiuntamente all’articolo 15, lettera c) della medesima, la concessione di una protezione internazionale a determinati civili che si trovano al di fuori della zona di conflitto e del territorio delle parti al conflitto. Le definizioni della nozione di conflitto armato accolte dal diritto internazionale umanitario non mirano, quindi, ad identificare le situazioni in cui una tale protezione sarebbe necessaria e dovrebbe essere concessa dalle autorità competenti degli Stati membri.”.

Dalla separatezza dei due regimi, dunque, discende l’impossibilità di subordinare il riconoscimento dello status di rifugiato alla sola ricorrenza delle condizioni previste dal diritto internazionale umanitario.

Chiarito ciò, la Corte di Strasburgo puntualizza che “in assenza di qualsivoglia definizione, all’interno della direttiva, della nozione di conflitto armato interno, la determinazione del significato e della portata di questi termini deve essere stabilita, conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte, sulla base del loro significato abituale nel linguaggio corrente, prendendo in considerazione il contesto nel quale sono utilizzati e gli obiettivi perseguiti dalla normativa in cui sono richiamati (sentenze del 22 dicembre 2008, Wallentin-Hermann, C-549/07, Racc. pag. I-11061, punto 17, e del 22 novembre 2012, Probst, C-119/12, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20)”.

Ed è, appunto, alla luce del linguaggio corrente che “la nozione di conflitto armato interno si riferisce ad una situazione in cui le forze governative di uno Stato si scontrano con uno o più gruppi armati o nella quale due o più gruppi armati si scontrano tra loro”. Tuttavia, in presenza di tali presupposti non scatta de plano lo status di rifugiato, dovendo sussistere anche “una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria”. Si prescinde, invece, dalla valutazione dell’intensità degli scontri, dal livello di organizzazione delle forze armate e dalla durata del conflitto. EMF

 

 



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Inserito in data 31/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ.V, 17 gennaio 2014, n. 191

Interpretazione dell'art.23-bis, comma 9, D.L. 112 del 2008

Alla luce della sentenza in commento, non può essere accolta la richiesta risarcitoria in caso di error juris scusante in capo alla Pubblica Amministrazione.
L'ultimo periodo del comma 9, dell'art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) , d.l. 112/2008, nella versione precedente alle modifiche apportate dal D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, recita che gli affidatari diretti di un servizio pubblico locale: “non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti”.
La norma in oggetto si rivolge agli affidatari diretti, ovvero a quei soggetti che gestiscono un servizio pubblico, acquisito al di fuori di procedure competitive, prevedendo una deroga alla impossibilità di partecipare alle procedure di gara.

Inoltre, questa non avrebbe alcun senso nel caso in cui fosse rivolta a dei soggetti che, sebbene in passato avessero fruito di affidamenti diretti, non si trovino, al momento del bando, nella situazione ivi prospettata.

Alla luce di quanto indicato, nel momento in cui il Legislatore ha voluto estendere la deroga in questione alla possibilità, per gli affidatari diretti, di partecipare alle procedure di gara svolte su tutto il territorio nazionale, è venuta meno la possibilità di ancorare la nozione di affidatario diretto allo specifico servizio dallo stesso conseguito senza gara e, conseguentemente, quello di giustificare una lettura della norma orientata a ritenere che il soggetto partecipante alla gara fosse l'ex affidatario diretto.
Inoltre, occorre chiarire che non risulta provata la presenza di una chiara violazione di legge imputabile all'Amministrazione; la norma violata è stata oggetto, a più riprese, di diversificati interventi normativi, che non hanno contribuito a far sedimentare una piena comprensione dello stesso in capo agli operatori del diritto.

La giurisprudenza amministrativa, inoltre, solo in modo tendenzialmente approssimativo, è venuta a capo di una univoca soluzione normativa.

Ciò che sicuramente deriva, da quanto fin qui esposto, è la totale assenza di un'univoca soluzione per ritenere che si sia in presenza di una vera e propria “responsabilità extracontrattuale” in capo alla Pubblica Amministrazione. GMC

 

 

 



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Inserito in data 31/01/2014
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. I, 23 gennaio 2014, n. 68

Giurisdizione del G.O. per alcuni atti di una fondazione

Il TAR Lombardia, sez.di Brescia, ha stabilito che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sugli atti di nomina, o di revoca, dei rappresentanti di un ente pubblico nell'ambito dell'organo amministrativo di una Fondazione, costituita come ente di diritto privato.
Ciò è facilmente comprensibile laddove ci si soffermi sulla considerazione secondo la quale la “natura provvedimentale” degli atti di nomina o revoca dei rappresentanti di un ente pubblico, nella specie, del Comune, nell'organo amministrativo di altro ente, va ritenuta solo quando quest'ultimo sia un ente pubblico, ovvero costituito per legge come tale. In tutti gli altri casi, si tratterà di atti aventi natura privatistica.

Non rappresenta un ostacolo rilevante né che l'ente in questione sia qualificabile come organismo di diritto pubblico, perché ciò rileverà solo al diverso fine dell'applicabilità della normativa sulle gare pubbliche, né tanto meno la circostanza, verificabile anche per fondazioni private, che si tratti, appunto, di una fondazione, in cui gli amministratori sono, o comunque possono essere di nomina pubblica.
Nel caso di una Fondazione costituita come ente di diritto privato, gli atti in questione sono da considerarsi come atti privatistici a tutti gli effetti, ed in quanto tali sottoposti, dunque, alla giurisdizione del giudice ordinario. GMC

 

 



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Inserito in data 30/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SECONDA, SENTENZA 16 gennaio 2014, n. 820

Divieto di autotutela e limiti di liceità delle sanzioni condominiali

La Corte esamina delle clausole di un regolamento condominiale, disciplinanti l’uso dello spazio comune destinato al parcheggio dei veicoli.

In primis, ci ricorda che l’uso della cosa comune non è proporzionale al valore della proprietà esclusiva di ciascun condomino: infatti, ciascun condomino può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne parimenti uso (art. 1102 cc). Pertanto, è ben possibile che il regolamento di condominio attribuisca a ciascun condomino il diritto ad un posto auto, a prescindere dal valore della proprietà esclusiva di cui ciascuno è titolare.

Secondariamente, asserisce che “le spese d’uso e manutenzione di tale spazio condominiale destinato al parcheggio dei veicoli, devono collocarsi nell’ambito del godimento della cosa comune; ne discende che le spese stesse rientrano fra quelle generali, per cui è applicabile il criterio di riparto stabilito dal primo comma dell’art. 1123 cc con riferimento al valore della proprietà di ciascun condomino, e non a quello dell’uso differenziato dettato dal secondo comma”.

Infine, confermando un proprio precedente orientamento, la Suprema Corte afferma che “qualora nel regolamento condominiale sia inserita, secondo quanto previsto eccezionalmente dall’art. 70 disp. Att. c.c., la previsione di una “sanzione pecuniaria”, avente natura di pena privata, a carico del condomino che contravvenga alle disposizioni del regolamento stesso, l’ammontare di tale sanzione non può essere superiore, a pena di nullità, alla misura massima consentita dallo stresso art. 70 e pari ad euro 0,05 […]. A maggior ragione dunque non si può ritenere che sia consentito introdurre nel regolamento condominiale sanzioni diverse da quelle pecuniarie, ovvero diversamente , ciò che sarebbe in contrasto coi principi generali dell’ordinamento che non consentono al privato – se non eccezionalmente – il diritto di “autotutela””. Pertanto, è illecita la sanzione regolamentare che dispone la rimozione dell’auto non in regola a spese del proprietario. TM




Inserito in data 30/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 gennaio 2014, n. 462

Funzione sanzionatoria, oltreché incentivante, delle astreintes ex art. 114 cpa

Con la sentenza in commento, “la Sezione non ritiene di doversi discostare dall’ormai consolidato indirizzo di questo Consesso, che è concorde nel senso dell’applicabilità dell’istituto della penalità di mora per ritardo nell’esecuzione del giudicato, introdotto nel processo amministrativo dall’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., non solo ai casi di ottemperanza a sentenze comportanti per la p.a. obblighi di fare o non fare, ma anche alle condanne al pagamento di somme di denaro”.

L’orientamento opposto è ancora diffuso in primo grado e si basa sulle seguenti argomentazioni: sulla Relazione di accompagnamento al c.p.a., dalla quale emergerebbe che le astreintes sarebbero state introdotte per dotare il processo amministrativo di uno strumento analogo a quello civilistico ex art. 614bis c.p.c. (che le prevede solo per gli obblighi di fare o di non fare); sulla necessità di evitare asimmetrie tra processo civile e amministrativo; sull’esigenza di evitare discriminazioni tra chi ricorre al giudice amministrativo in sede di ottemperanza al fine di ottenere l’esecuzione di una condanna pecuniaria emessa dal giudice ordinario nei confronti delle P.A. e chi a tal fine ricorre al giudice civile di esecuzione.

Ad avviso dei Giudici di Palazzo Spada, gli argomenti di cui sopra sono soccombono ove si consideri: a) il “chiaro tenore letterale della disposizione de qua, laddove, a differenza che nel citato art. 614-bis cod. proc. civ., non viene posta alcuna distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna dell’amministrazione inadempiente al pagamento della penalità di mora”; b) ”le peculiarità del giudizio di ottemperanza disciplinato nell’ambito del processo amministrativo, tali da escluderne la piena assimilabilità ad un mero giudizio di esecuzione e, pertanto, anche da giustificarne un diverso regime normativo sotto lo specifico profilo qui considerato”.

Pertanto, emerge “la peculiare natura giuridica dell’astreinte ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che integra non già un mero meccanismo risarcitorio per il ritardo nell’inadempimento del giudicato, ma anche uno strumento sanzionatorio e di pressione nei confronti della p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti dal decisum giudiziale”. TM



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Inserito in data 29/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 gennaio 2014, n. 418

Istituto del preavviso di diniego – ex art. 10 bis e formazione silenzio assenso

Con la pronuncia in esame i Giudici amministrativi ricordano l’importanza del preavviso di diniego, di cui all’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990, aggiunto dall'articolo 6 della legge 11 febbraio 2005 n. 15 (poi modificato dal comma 3 dell’articolo 9 della legge 11 novembre 2011, n. 180).

Si tratta di un istituto connotato da una chiara indole deflattiva del contenzioso, oltrechè da un intento partecipativo del singolo che abbia presentato una domanda all’Amministrazione.

Essa, infatti, tramite il rimedio appena detto, ha modo di evidenziare le proprie ragioni ostative all’accoglimento della domanda del singolo, consentendogli di rettificare o precisare il tenore della propria istanza, in modo che egli possa confidare in un possibile, diverso epilogo del procedimento avviato.

Altro aspetto importante, ricordato dall’odierna decisione, è la natura interruttiva propria della comunicazione dei motivi ostativi: si arrestano, infatti, i tempi necessari alla formazione del silenzio assenso.

Va da sé, del resto, che non avrebbe alcuna logica la formazione di un provvedimento tacito di assenso (ove la legge lo riconosca) quando la stessa Amministrazione, sia pure in modo ancora non definitivo, ha chiaramente indicato - nel preavviso di diniego ex art. 10 bis - le ragioni per le quali la domanda proposta non possa essere accolta.

Alla luce di tali considerazioni, il Collegio riforma la sentenza impugnata con cui, invece, i Giudici di primo grado avevano negato natura interruttiva ai termini assegnati ex art. 10 bis e, di conseguenza, avevano ritenuto ormai compiuto il silenzio assenso sull’autorizzazione richiesta. CC



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Inserito in data 29/01/2014
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SECONDA SEZIONE, C-371/12 - SENTENZA del 23 gennaio 2014

Diritto Ue non limita gli Stati membri ad un regime unico sui risarcimenti

La pronuncia indicata è significativa poiché evidenzia la possibilità, concessa a ciascuno Stato membro, di delimitare e modulare l’entità del risarcimento in base alla consistenza del pregiudizio subito in caso di sinistri stradali.

Infatti, prendendo spunto dalla normativa italiana, il Collegio europeo acconsente ad un regime differenziato per i risarcimenti dei danni morali derivanti da lesioni di lieve entità.

In particolare, se il danno deriva da un sinistro stradale, si riconosce che le normative nazionali prevedano una limitazione degli indennizzi rispetto a quelli derivanti, per analoghe lesioni, da incidenti di altro genere.

E’ quanto ricorre, per l’appunto, nell’ambito della normativa italiana ove, tanto il Codice civile per il diritto al risarcimento dei danni morali derivanti dai sinistri stradali, quanto il Codice delle assicurazioni private – D. Lgs. 209/05 - per i danneggiamenti di lieve entità, contemplano una netta differenziazione risarcitoria in base al tipo di lesione – presupposto del danno lamentato.

Si tratta per la Cgue, di un dettato normativo con cui non si pregiudica la garanzia per cui la responsabilità civile da circolazione di autoveicoli sia coperta da un’assicurazione conforme al diritto dell’Unione.
D’altra parte, proseguono i giudici di Lussemburgo, le direttive Ue non impongono agli Stati membri un particolare regime sull’entità dei risarcimenti; e, purchè la normativa interna non limiti in modo sproporzionato o escluda del tutto la possibilità risarcitoria, le norme Ue non ostano ad una legislazione che imponga criteri vincolanti per la determinazione dei danni morali – anche se meno favorevoli rispetto a quelli subiti in altri incidenti.

Questa, infatti, la massima con cui i Giudici europei chiudono l’odierna vicenda:

Gli articoli 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, e di controllo dell’obbligo di assicurare tale responsabilità, e 1, paragrafi 1 e 2, della seconda direttiva 84/5/CEE del Consiglio, del 30 dicembre 1983, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, come modificata dalla direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una legislazione nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale prevede un particolare sistema di risarcimento dei danni morali derivanti da lesioni corporali di lieve entità causate da sinistri stradali, che limita il risarcimento di tali danni rispetto a quanto ammesso in materia di risarcimento di danni identici risultanti da cause diverse da detti sinistri. CC



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Inserito in data 28/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 22 gennaio 2014, n. 1277

Famiglia di fatto: le attribuzioni patrimoniali danno luogo ad obbligazioni naturali

La sentenza in esame richiama anzitutto la giurisprudenza della Cedu, secondo la quale il diritto alla vita familiare, tutelato dalla Convenzione Europea, attiene non solo alle relazioni basate sul matrimonio, ma può anche comprendere altri legami familiari di fatto.

A ciò corrisponde un orientamento inteso a valorizzare il riconoscimento, ai sensi dell'art. 2 Cost, delle formazioni sociali, nelle quali va ricondotta “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (Corte cost, n. 138 del 2010). In tale nozione si è ricondotta la stabile convivenza tra due persone, anche dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.

Pertanto, nel nostro ordinamento sono emersi segnali sempre più significativi, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. Ciò è avvenuto sul piano legislativo (tra gli esempi citati dalla pronuncia, la 1. 19 febbraio 2004, n. 40, che all'art. 5 prevede l'accesso alle tecniche di fecondazione assistita da parte delle coppie di fatto; la l. 9 gennaio 2004, n. 6, che, in relazione ai criteri per la scelta dell'amministratore di sostegno, prevede anche che la stessa cada sulla persona stabilmente convivente con il beneficiario, nonché prevede che l'interdizione e l'inabilitazione siano promosse dalla persona stabilmente convivente) ma anche su quello giurisprudenziale (tra gli esempi citati dalla pronuncia, l'affermazione della responsabilità aquiliana, sia nei rapporti interni alla convivenza, sia nelle lesioni arrecate da terzi al rapporto nascente da un'unione stabile e duratura.

A ciò si aggiunge, in particolare, che i doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella formazione sociale costituita dalla convivenza more uxorio refluiscono sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le eventuali attribuzioni patrimoniali effettuate nel corso o in relazione alla convivenza. Non può prescindersi, nell'esaminare la ricorrenza o meno di un adempimento effettuato in virtù di doveri sociali e morali, dall'ambiente socio economico cui appartengono le parti, nonché da un esame della concreta situazione in cui i pretesi adempimenti risultano effettuati. CDC

 

 




Inserito in data 28/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 gennaio 2014, n. 416

Caratteri dell’ottemperanza e differenza tra violazione ed elusione del giudicato

L’oggetto del giudizio di ottemperanza consiste nella puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento dell’obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita riconosciutogli in sede di cognizione. Tale verifica, condotta nell’ambito dello stesso quadro processuale che ha costituito il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione, comporta una puntuale attività di interpretazione del giudicato, al fine di enucleare e precisare il contenuto del comando. Pertanto, in sede di ottemperanza non può essere riconosciuto un diritto nuovo ed ulteriore rispetto a quello fatto valere ed affermato con la sentenza da eseguire, anche se sia ad essa conseguente o collegato e non possono essere neppure proposte domande che non siano contenute nel decisum della sentenza da eseguire.

Ciò non implica un vulnus all’effettività della tutela giurisdizionale amministrativa, in quanto costituisce il naturale e coerente contemperamento della pluralità degli interessi e dei principi costituzionali che vengono in gioco nel procedimento giurisdizionale amministrativo, ed in particolare di quello secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vittoriosa e di quello della stessa dinamicità dell’azione amministrazione e dell’esercizio della relativa funzione da parte della pubblica amministrazione.

Nel giudizio di ottemperanza può essere dedotta come contrastante con il giudicato non solo l’inerzia della pubblica amministrazione cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui si realizzi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero ancora la violazione o l’elusione attiva del giudicato. Il nuovo atto può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza, con la conseguenza che la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.

La violazione del giudicato è pertanto configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice, mentre si ha elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale, giungendo surrettiziamente allo stesso esito già ritenuto illegittimo. CDC



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Inserito in data 27/01/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 22 gennaio 2014, n. 786

Assunzione mediante concorso per titoli ed esami

Con la pronuncia indicata in epigrafe, i Giudici romani negano che la Commissione di concorso possa “procedere alla valutazione dei titoli dopo la correzione della prova scritta e l'abbinamento delle prove ai nominativi dei candidati, non garantendo tale modus procedendi l’imparzialità, il buon andamento e la trasparenza dell’azione amministrativa”.

A tal proposito, infatti, l’art. 8, comma 1, del D.P.R. n. 487 del 1994 prevede che: “Nei casi in cui l'assunzione a determinati profili avvenga mediante concorso per titoli e per esami, la valutazione dei titoli, previa individuazione dei criteri, è effettuata dopo le prove scritte e prima che si proceda alla correzione dei relativi elaborati”.

Il mancato rispetto di tale scansione procedimentale non può essere giustificato nemmeno dall’inserimento dei criteri di valutazione in seno al bando di concorso, stante la sussistenza di “margini di discrezionalità in capo alla Commissione quantomeno con riguardo all’attività di interpretazione circa la riconducibilità dei titoli dichiarati dai candidati a quelli stabiliti dal bando”.

D’altra parte, il Collegio non ignora l’esistenza di “precedenti giurisprudenziali che ammettono la legittimità della valutazione dei titoli successivamente alla correzione delle prove scritte in modo da limitare tale operazione ai soli candidati che abbiano superato dette prove e così tutelare esigenze di snellimento delle operazioni con l'eliminazione di operazioni inutili (Consiglio di Stato, sez. VI, 20 novembre 2001, n. 5869), ma trattasi di orientamento che, in quanto implicante una sostanziale disapplicazione della norma e la negazione del suo carattere cogente, non appare, almeno in termini assoluti, condivisibile a fronte della esistenza, nell’ordinamento, di una disposizione generale di rango regolamentare che impone la valutazione dei titoli dei candidati prima della correzione delle prove scritte, disposizione regolamentare derogabile a mezzo di norme di rango superiore o da parte di disposizioni regolamentari successive a carattere speciale, ma, in caso contrario, applicabile e cogente”. EMF

 

 

 



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Inserito in data 27/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 24 gennaio 2014, n. 1464

Foro esclusivo del consumatore anche per alcuni contratti conclusi dal professionista

L’art. 1469-bis c.c., terzo comma, n. 19, secondo le S.U. n. 14669/2003, “si interpreta nel senso che il legislatore, nelle controversie tra consumatore e professionista, abbia stabilito la competenza territoriale esclusiva del giudice del luogo della sede o del domicilio elettivo del consumatore, presumendo vessatoria la clausola che individui come sede del foro competente una diversa località”.

In particolare, in tema di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, la direttiva comunitaria 93/13 CEE, “al suo decimo “considerando”, afferma espressamente la sua applicabilità “a qualsiasi contratto stipulato tra un professionista e un consumatore”, eccezion fatta per alcuni contratti espressamente enucleati”.

A tal proposito, il “D. Lgs. 206/2005, art. 3, lett. a), come modificato dal D. Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221, art. 3), definisce il consumatore come: “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta. Lo stesso articolo 3 (mod. dal D. Lgs. n. 221 del 2007), alla lett. c) definisce il professionista come la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario”.

Pertanto, “la disciplina del consumatore si applica anche al professionista prestatore d’opera intellettuale (2229 c.c.), qual è l’avvocato”.

Ciò posto, per la giurisprudenza maggioritaria “deve essere considerato consumatore e beneficia della disciplina di cui all’art. 1469 bis c.c. e segg. (attualmente D. Lgs n. 2006 del 2005, artt. 3 e 33 e segg.) la persona fisica che, anche se svolge attività imprenditoriale o professionale, conclude un qualche contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività; mentre deve essere considerato “professionista” tanto la persona fisica quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale e professionale, ricomprendendosi in tale nozione anche gli atti posti in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’impresa (Cass. 23/02/2007, n. 4208; Cass. 25/07/2001, n. 10127)”. EMF

 




Inserito in data 26/01/2014
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA, SENTENZE 24 gennaio 2014, nn. 4 e 5

Revocazione: giudice competente e presupposti dell’errore revocatorio

Con le pronunce in epigrafe, di contenuto pressochè identico, il massimo Consesso amministrativo chiarisce taluni punti essenziali riguardo alla disciplina della revocazione – ex artt. 395 – 403 c.p.c.

In primo luogo individua il Collegio competente a pronunciarsi in sede di giudizio revocatorio, chiarendone, finalmente, la corretta composizione e rettificando, al contempo, il proprio precedente orientamento – di cui alla pronuncia n. 2 del 2009 – adottato sulla scorta delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 5087 del 2008.

Secondo quest’ultima impostazione, infatti, si riteneva estensibile – a carico del Giudice che si fosse pronunciato sulla sentenza revocanda – l’obbligo di astensione di cui al n. 4 dell’articolo 51 c.p.c. – ricorrente nelle ipotesi in cui il Giudice abbia conosciuto della causa come magistrato in altro grado del processo.

Tale assunto si giustificava in considerazione di una presunta tutela della terzietà/imparzialità del magistrato che, altrimenti, si riteneva presuntivamente sminuita laddove, in sede di giudizio revocatorio, la persona fisica del Giudice avesse già avuto conoscenza della res controversa in altra sede processuale.

Questo orientamento, tuttavia, non è stato trasfuso nel codice del processo amministrativo che, per quanto emanato poco tempo dopo, ha accolto un’impostazione differente, condivisa dalle odierne pronunce.

Gli articoli 106 e 107 c.p.A., infatti, statuiscono che “La revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”; ove, come chiarisce la giurisprudenza - per “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione.

Va ricordato, peraltro, che non valgono nel processo civile, cui si ispira quello amministrativo, le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale, bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c.. – artt. 51 – 54.

Infatti, come la giurisprudenza costituzionale insegna, non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo, proprio per la particolarità e le diversità dei sistemi processuali, le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività svolta nello stesso procedimento penale, bensì le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio: ciò in quanto il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale con riferimento a qualunque tipo di processo, in relazione specifica al quale, peraltro, può e deve trovare attuazione, pur tuttavia con le peculiarità proprie di ciascun tipo di procedimento (Cfr. Corte Cost. n. 387/99).

Un traguardo simile, ove non ancora del tutto chiaro, viene ulteriormente ribadito dalla lettera di cui all’articolo 395 n. 6 c.p.c. che, richiamato dai Giudici della Plenaria, traccia quale unica ipotesi di astensione in sede di giudizio di gravame revocatorio quella in cui l’errore sia stato causato da dolo dello stesso Giudice e, al contempo, fornisce chiarimenti in ordine alla consistenza dei  motivi di impugnazione ex art. 395 e ss. c.p.c.

Infatti, come osservato anche dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cfr. Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, Sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).

Dunque, eccettuata quell’unica ipotesi di incompatibilità, giustificata da un’inevitabile carenza di imparzialità del magistrato, i casi più frequenti di revocazione afferiscono, invero, ad ipotesi di errore involontario o talmente grossolano da risolversi in una svista – in cui non è necessaria l’astensione ex art. 51 c.p.c.

Simili casi, afferma la Plenaria, non parrebbero presupporre alcun interesse proprio del magistrato, o altro pregiudizio tale da falsare l’eventuale successiva decisione in sede di gravame revocatorio.

Infatti, posto che la sola incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda, tanto non ricorre nei casi in cui la sentenza impugnata sia stata solo l’epilogo di un’errata percezione dei fatti.

E’ questa, infatti, l’effettiva consistenza dell’errore che conduce alla revocazione della sentenza.

In guisa di ciò, il Collegio della Plenaria presta un apporto importante, delimitando finalmente i contorni del giudizio revocatorio, da sempre oggetto di interpretazioni giurisprudenziali discordanti. CC



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Inserito in data 24/01/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 gennaio 2014, n. 2

Proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico locale

Con riguardo alla proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico locale, non è consentito al legislatore regionale disciplinare il rinnovo, o la proroga automatica, delle concessioni alla loro scadenza, in contrasto con i principi di temporaneità e di apertura alla concorrenza, poiché, in tal modo, dettando vincoli all'entrata, si altererebbe il corretto svolgimento della concorrenza nel settore del trasporto pubblico locale, determinando, in tal senso, una disparità di trattamento tra operatori economici, invadendo, inoltre, la competenza esclusiva del legislatore statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), Carta Costituzionale.
Come è noto, la gara pubblica rappresenta uno strumento fondamentale per tutelare e promuovere la concorrenza; alla luce di ciò, la disciplina delle procedure di gara, la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione, sono volte a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei principi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento.
La norma impugnata, prevedendo la possibilità, per gli enti locali, di reiterare la proroga dei contratti dei gestori dei servizi di trasporto pubblico locale, senza neanche l'indicazione di un termine finale di cessazione delle medesime, ha posto in essere una disciplina operante una incisiva distorsione nel concetto di “concorrenza” ponendosi, dunque, in contrasto con i principi generali, previsti dalla legislazione statale. GMC

 



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Inserito in data 24/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 gennaio 2014, n. 101

Concordato con continuità aziendale e presupposti per partecipare alla gara

La lettera a) del primo comma dell'art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, così come modificata dall'art. 33, comma 2, d.l. 22 giugno 2012 n. 83, vieta la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, l'affidamento di subappalti e la stipula dei relativi contratti a quei soggetti “che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all'articolo 186-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.
Dalla lettura della norma, emerge che questa fa salvo, dunque, il solo caso regolato dal menzionato art. 186 bis della legge fallimentare (introdotto da art. 33, co. 1, del cit. d.l. n. 83 del 2012), che disciplina il c.d. “concordato con continuità aziendale”, ovvero l'ipotesi specifica in cui il concordato preventivo, come da relativo piano delle modalità e dei tempi dell'adempimento della proposta concordataria, preveda, ancorché possa essere prevista la liquidazione di beni non funzionali all'esercizio dell'impresa, la prosecuzione dell'attività di impresa da parte del debitore, ovvero la cessione o il conferimento in una o più società dell'azienda “in esercizio”.
Alla luce di ciò, le modifiche alla legge fallimentare, nonché all'art. 38 del codice dei contratti, introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conciliano le esigenze di salvaguardia delle imprese in crisi, nel vasto quadro del sostegno e dell'impulso al sistema produttivo del Paese tesi a fronteggiare l'attuale situazione generale di congiuntura economico-finanziaria e sociale, con le esigenze, di pari spessore, volte al conseguimento effettivo degli obiettivi di stabilità.

La novella del 2012, dunque, mira ad incentivare la tempestiva emersione di criticità ed il ritorno in bonis dell'impresa, o la conservazione dell'azienda "in esercizio", tuttavia nella materia delle gare pubbliche, ha riempito di cautele l'applicazione di tale normativa di favore sia richiedendo opportune garanzie che limitando la partecipazione al concorrente sottoposto a concordato con continuità, con conseguente permanere della preclusione qualora, prima della scadenza del termine prefissato per la presentazione delle istanze di partecipazione alla gara, l'iter iniziato dall'imprenditore non sia giunto al decreto del tribunale di ammissione del ricorrente al concordato con continuità e di formale apertura della procedura di concordato finalizzata all'omologazione. GMC

 



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Inserito in data 23/01/2014
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 16 gennaio 2014, n. 77

Diritto di accesso: termine decadenziale e munus publicum per Consiglieri comunali

La sentenza sottolinea alcuni aspetti importanti in tema di accesso agli atti – di cui agli artt. 22 e ss. L. 241/90.

In primo luogo il Collegio calabrese, uniformandosi a giurisprudenza ormai pacifica, chiarisce la natura decadenziale del termine previsto dall'art. 25, L. n. 241 del 1990 e dall’art. 116 C.p.A.

A tal proposito, infatti, rigettando in parte qua la doglianza del ricorrente, i Giudici ricordano l’impossibilità di reiterare le medesime precedenti istanze di accesso – riproposte al solo fine di riaprire il termine di impugnazione del silenzio, non impugnato entro i termini di legge.

La natura decadenziale di simili preclusioni, infatti, potrebbe essere aggirata solo laddove la seconda istanza presentasse fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nella richiesta originaria; il che non ricorre nel caso di specie.

La seconda parte delle censure, invece, è accolta dal Collegio catanzerese: il ricorrente, nella sua qualità di consigliere comunale, aveva impugnato il diniego in merito all’accesso di altri atti, riguardo ai quali aveva chiesto – per la prima volta – informativa ex art. 43 D. Lgs 267/00.

I Giudici ricordano come tale norma sia ispirata alla ratio di garantire ai rappresentanti del corpo elettorale l’accesso ai documenti e alle informazioni utili all’espletamento del loro mandato (munus publicum) anche al fine di permettere e di valutare, con piena cognizione, la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, e di esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del consiglio.

E’ prioritario, quindi, garantire ai Consiglieri comunali – nel rispetto del relativo officium - la massima conoscibilità degli atti e dell’operato locale.

Si accetta, a tal fine, che le Amministrazioni interpellate rielaborino dati ed informazioni in loro possesso, adoperandosi con tutti gli strumenti necessari al raggiungimento di un simile obiettivo.

Tanto non è accaduto nel caso concreto, con conseguente annullamento del diniego impugnato ed obbligo incombente sull’Ente locale di garantire, al Consigliere comunale ricorrente, la realizzazione di un accesso pieno ed incondizionato. CC

 

 



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Inserito in data 22/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 14 gennaio 2014, n. 1826

Diritto al rinvio dell’udienza camerale ex art 127 cpp per astensione del difensore

Secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza di legittimità (così S.U. 7551/98), l’art. 486, c. 5, c.p.p., a mente del quale il giudice provvede alla sospensione o al rinvio del dibattimento in caso di legittimo impedimento del difensore, non sarebbe applicabile ai procedimenti in camera di consiglio che si svolgono nelle forme di cui all’art. 127 c.p., tra cui figura il giudizio di appello a seguito di abbreviato. Infatti, in questi giudizi, il contraddittorio sarebbe assicurato dalla notifica dell’avviso al difensore, restando irrilevante l’assenza di quest’ultimo causata da legittimo impedimento, anche se derivante da adesione all’astensione delle udienze regolarmente proclamata dagli organismi di categoria. Così si garantirebbe una maggiore celerità al giudizio abbreviato d’appello in camera di consiglio.

Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte cambia idea e, a tal fine, asserisce che l’astensione dalle udienze degli avvocati non può essere considerata come mero legittimo impedimento partecipativo: quantunque non configurabile come diritto di sciopero ex art. 40 Cost., si tratta di diritto di libertà, “manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di una forma di lavoro autonomo” e, perciò, inquadrabile nel diritto costituzionale di associazione (Corte cost. n. 171/96). Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto l’impossibilità di assimilare l’astensione dalle udienze al legittimo impedimento in senso tecnico, non constando in un’assoluta impossibilità di partecipazione bensì nell’esercizio di un diritto di libertà; di conseguenza, ha ritenuto che in questo caso non trovi applicazione il termine massimo di sospensione del corso della prescrizione pari a 60 giorni.

Né il sistema che ne deriva può dirsi irrazionale, trattandosi di situazioni diverse, l’una tesa a tutelare il diritto di associazione ex art. 18 Cost., l’altra il diritto di difesa e che, pertanto, meritano trattamenti diversi.

Né esclude il diritto al rinvio la circostanza che la partecipazione del difensore all’udienza di appello di un giudizio definito in primo grado con rito abbreviato sia facoltativa: infatti, sussiste il diritto al rinvio se il diritto di astensione è esercitato in conformità alle norme di legge tese a contemperarlo col principio del buon andamento (L 146/90, riformata con L. 83/00, prevede l’ obbligo di congruo preavviso, il ragionevole limite  temporale dell’astensione e il rispetto dei codici di autoregolamentazione); è, quindi, sufficiente osservare il codice di autoregolamentazione (avente valore di norma secondaria per le S.U., ordinanza 30/5/2013 n. 26711) che ammette il rinvio delle udienze cui il difensore ha diritto a partecipare, senza distinguere tra i casi di partecipazione obbligatoria e i casi di partecipazione facoltativa.

Pertanto, il mancato riconoscimento del diritto al rinvio dell’udienza camerale determinerà la nullità della sentenza ex artt. 178 lett. C e 180 c.p.p. TM




Inserito in data 22/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 gennaio 2014, n. 269

Diritto alla retrocessione parziale dell’immobile espropriato se inserito nel Piano di alienazione

La sentenza in epigrafe ha ad oggetto una controversia in tema di retrocessione parziale.  Primariamente, i Giudici di Palazzo Spada affermano la giurisdizione del giudice amministrativo in ipotesi di retrocessione parziale, confermando l’orientamento giurisprudenziale consolidato (Cass. Sez. Unite 24 giugno 2009 n.14805; Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza n.5616 del 26/11/2013). Infatti, “non si è in presenza di un mero comportamento della P.A., ma piuttosto di una condotta dell’Amministrazione comunale direttamente collegata al potere pubblico di apprensione dell’area di proprietà dell’appellata ai fini della realizzazione dell’opera pubblica”.

Pertanto, “si versa pleno iure nell’alveo della decisione della Corte costituzionale che con la sentenza n. 191 dell’11/5/2006 ha rimesso alla giurisdizione amministrativa le controversie relative ai “ comportamenti” di impossessamento di un bene altrui collegato all’esercizio di un pubblico potere”.

Nel merito, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ci ricorda che “si versa in ipotesi di retrocessione parziale, in base all’istituto normativamente definito dagli artt.60 e 61 della legge fondamentale sulle espropriazioni, la n.2359 del 1865 ( ora dall’art.47 del DPR n.327/2001) quando uno o più fondi espropriati non hanno ricevuto ( in tutto o in parte ) la prevista destinazione”. “Detti fondi possono essere restituiti se la pubblica amministrazione ha manifestato la volontà di non utilizzarli per gli scopi cui l’espropriazione era finalizzata e ciò avviene generalmente all’esito di un procedimento che si conclude con la dichiarazione formale di inservibilità del bene espropriato”. “Fermo restando che la dichiarazione di inservibilità dei fondi ha una efficacia costitutiva per far insorgere , in linea di massima, il diritto alla restituzione del bene già espropriato ma non utilizzato, ciò che rileva ai fini dell’applicabilità dell’istituto de quo è che la pubblica amministrazione abbia manifestato comunque la volontà di non utilizzare tali immobili, anche a mezzo di acta concludentia e non necessariamente con un atto formalmente dichiarativo della avvenuta inservibilità”. In particolare, nel caso di specie, si ravvisa l’intenzione di non usare l’immobile nella delibera comunale di inserimento dell’immobile tra quelli da alienare. TM



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Inserito in data 21/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 gennaio 2014, n. 260

Sulla decorrenza del termine per l’impugnazione degli atti del commissario ad acta

La sentenza in esame affronta il tema del controllo giudiziale sugli atti del commissario ad acta, premettendo la necessaria distinzione tra due diversi meccanismi processuali: “il primo riservato alle sole parti del giudizio e costruito nella forma del reclamo al giudice dell’ottemperanza; il secondo, valevole per tutti i terzi e quindi per tutti gli estranei al giudicato formatosi, che ha invece la forma del giudizio ordinario”.

Mentre, con riferimento ai terzi, l’art. 114 comma 6 cpa fa rinvio al giudizio ordinario (e quindi richiama la disciplina vigente in merito ai termini e alle modalità di instaurazione del giudizio), in relazione alle parti regola autonomamente il procedimento, stabilendo che “le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell'ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni”.

Mentre nei riguardi di terzi il rinvio alla disciplina del giudizio ordinario fa supporre che sia applicabile il criterio generale della conoscenza dell’atto, nulla si dice circa il criterio valevole nel caso di reclamo proponibile dalle parti.

Al commissario ad acta non può essere applicata la disciplina prevista per le altre figure di ausiliari (verificatore e consulente tecnico). Infatti, mentre gli altri ausiliari agiscono nella fase istruttoria fornendo un mero supporto conoscitivo, il commissario ad acta opera al posto del giudice, con atti imputati alla funzione giurisdizionale stessa.

Piuttosto, l’individuazione del momento di decorrenza del termine per il deposito del reclamo deve essere effettuata tenendo presente i rapporti processuali e i poteri dei soggetti coinvolti. Le parti hanno la pretesa alla comunicazione individuale del deposito degli atti del commissario ad acta e non possono fruire della posizione di attesa dei terzi, legittimati ad agire all’esito dell’effettiva conoscenza del provvedimento lesivo; inoltre, non possono protrarre ad libitum la pendenza del termine, visto che il provvedimento del commissario incide comunque sulle posizioni delle controparti del giudizio.

Deve ritenersi, quindi, che il termine decadenziale di sessanta giorni decorra dalla data del deposito del provvedimento, ossia dal momento della conoscibilità dell’avvenuto adempimento da parte del commissario ad acta.

Questo appare un criterio di equa ripartizione dei doveri di diligenza processuale in capo ai soggetti coinvolti. Infatti, si esce dall’impasse di assimilare ingiustamente la parte ai terzi o il commissario agli altri ausiliari o ancora di consentire il protrarsi sine die di una situazione irrisolta. Per altro verso, la detta conoscibilità non si risolve in un onere gravoso in capo alla parte, sia per il termine oggettivamente lungo per la presentazione del reclamo, sia perché la conoscenza dell’avvenuto deposito ben può avvenire tramite la mera consultazione del sito informatico della giustizia amministrativa. CDC

 

 



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Inserito in data 20/01/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. VI, 17 gennaio 2014, n. 231

Procedimento di sanatoria edilizia in itinere e sopravvenienza del vincolo paesaggistico

La questione posta al vaglio del Consesso riguarda il tema “della disciplina giuridica applicabile alle aree gravate da un regime vincolistico, sul piano della tutela dei valori paesaggistici, sopravvenuto rispetto all’intervento edilizio, già eseguito ed oggetto di domanda di sanatoria”.

Due sono le problematiche interpretative che emergono al riguardo: “a) se la sopravvenienza del vincolo imponga, nel procedimento di sanatoria non ancora concluso, il coinvolgimento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo stesso; b) se detta Autorità, in presenza di un vincolo sopravvenuto a contenuto assolutamente preclusivo dell’intervento, sia tenuta a far valere semplicemente il carattere ostativo del nuovo regime vincolistico ovvero se debba compiere una valutazione più ampia e articolata, che tenga conto della compatibilità in concreto dell’intervento già realizzato in rapporto al vincolo sopravvenuto”.

In relazione alla prima questione, il Consiglio di Stato sposa la tesi espressa dalla sentenza n. 20 del 1999, con cui l’Adunanza Plenaria, “dopo aver passato in rassegna i contrastanti orientamenti all’epoca emersi in sede giurisprudenziale, ha rilevato come il vincolo paesaggistico su un’area, ancorché sopravvenuto all’intervento edilizio, non possa restare senza conseguenze sul piano giuridico, con la conseguenza che deve ritenersi sussistente l’onere procedimentale di acquisire il prescritto parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo in ordine alla assentibilità della domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca d'introduzione del vincolo, tale valutazione essendo funzionale all’esigenza di vagliare l'attuale compatibilità dei manufatti realizzati abusivamente con lo speciale regime di tutela del bene compendiato nel vincolo”.

Per quanto concerne la seconda questione, invece, il “Collegio ritiene che lo scrutinio della fattispecie, da parte di tale Autorità, non possa prescindere dal considerare, anche per le intuibili implicazioni sul piano della logica e della ragionevolezza, che le prescrizioni di tutela sono sopraggiunte alla realizzazione dell’intervento edilizio, di tal che la valutazione del caso concreto non potrebbe compiersi come se l’intervento fosse ancora da realizzare”.

La giurisprudenza (cfr. Cons. St.,V, 5 dicembre 2007 n. 6177), infatti, ritiene che l’inibitoria alla edificabilità correlata al sopraggiungere di un vincolo paesaggistico debba considerarsi “ex se inidonea ad assurgere a condizione preclusiva del perfezionamento del procedimento di sanatoria edilizia” relativo alle costruzioni già realizzate e già oggetto di domanda.

Tale ricostruzione è, altresì, confermata anche dall’art. 33, comma 1 lett. a) dalla legge fondamentale sul condono edilizio (legge n. 47 del 1985). EMF

 

 



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Inserito in data 20/01/2014
CONSIGLIO DI STATO - SEZ. V, 17 gennaio 2014, n. 202

Regola dell’anonimato nei concorsi pubblici e condizioni lesive della stessa

Per i Giudici di Palazzo Spada, sono due gli “elementi che devono essere riscontrati per giungere a ritenere che si sia in presenza di un’effettiva violazione della regola dell’anonimato” nelle prove scritte per i pubblici concorsi: l’idoneità del segno di riconoscimento e l’utilizzo intenzionale dello stesso.

In riferimento alla prima condizione, la giurisprudenza ha precisato che “in sede di concorso a posti di pubblico impiego con esami scritti, al fine del rispetto della regola dell'anonimato, ciò che rileva non è tanto l'identificabilità dell'autore dell'elaborato attraverso un segno a lui personalmente riferibile, quanto piuttosto l'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, e ciò ricorre quando la particolarità riscontrata assuma un carattere oggettivamente e incontestabilmente anomalo rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato (Cons. St., Sez. V, 11 gennaio 2013, n. 102; nello stesso senso Cons. St., Sez. V, 20 ottobre 2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV, 20 settembre 2006, n. 5511)”.

Per quanto concerne la seconda condizione, invece, il Consiglio di Stato, Sez. V, 1 aprile 2011, n. 2025 “ha escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell’anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare in modo inequivoco l'intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il proprio elaborato”.

In conclusione, deve escludersi la violazione della regola de qua nel caso in cui il candidato abbia sottoscritto, una sola volta, il proprio elaborato con il nome di un celebre collega, difettando i predetti requisiti.  EMF



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Inserito in data 19/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 17 gennaio 2014, n. 242

Reclamo avverso le delibere del Commissario ad acta

Con sentenza n. 7019 del 2010 la Quinta Sezione del Consiglio di Stato, in accoglimento dell’appello proposto da una dipendente comunale avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, n. 5652 del 2003, ha accertato il diritto di questa, oltre che alla regolarizzazione contributiva e all’integrale pagamento delle differenze retributive per l’intero periodo di servizio prestato presso il Comune di Santa Maria Capua Vetere, anche dell’indennità di fine servizio, il tutto con interessi legali e rivalutazione monetaria.

Successivamente, con altra sentenza, è stato ordinato al Comune di dare puntuale esecuzione alla prima sentenza entro i successivi 60 giorni, nominando, per il caso di ulteriore persistente inadempimento, quale commissario ad acta il Prefetto di Caserta o suo delegato.

Difatti, per quanto, nel giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo possa provvedere direttamente e sostituirsi all’amministrazione, tale modalità di intervento viene quasi sempre perseguita attraverso la nomina di un commissario ad acta. Con riferimento alla sua natura giuridica, inizialmente ambigua sotto vari profili, sono state prospettate tre tesi: organo ausiliario del giudice; organo straordinario dell’amministrazione; organo misto, per alcuni aspetti ausiliario dell’amministrazione e per altri del giudice; il Codice ha recepito la tesi prevalente del commissario quale organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto nel passato anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria 14.7.1978, n. 23).

Successivamente alla nomina del commissario ad acta ed alla attività da questi svolta, la ricorrente, successivamente, ha depositato brevi note/osservazioni alla relazione redatta dallo stesso, deducendo che il credito vantato sarebbe stato soddisfatto solo in parte.

Secondo quanto esposto dalla ricorrente, il calcolo delle differenze stipendiali spettanti sarebbe stato erroneo, ai fini della determinazione del TFR sarebbe stato considerato un numero di anni inferiori al servizio effettivamente prestato, in particolare, il commissario ad acta avrebbe erroneamente posto a fondamento della propria determinazione una nota INPDAP del 2011, che non riguardava il personale in servizio per le scuole superiori anche se gestite dall’amministrazione comunale, laddove per il personale docente incaricato vi era invece l’obbligo di iscrizione e di relativo versamento all’INPS.

È stata lamentata, altresì, la mancata considerazione della circostanza secondo la quale i docenti non di ruolo, pur se passati di ruolo, non potevano ricevere alcunché dall’ex Inadel (poi Inpdap e ora Inps) per il periodo per il quale per essi non vi era l’obbligo di relativa iscrizione; alla liquidazione del TFR per l’intero periodo di lavoro, dunque, era obbligato direttamente, come statuito dalla sentenza ottemperanda. La dipendente ha, dunque, chiesto all’adito giudice dell’ottemperanza di “…emettere ogni utile provvedimento per la piena soddisfazione dei diritti creditori della ricorrente”.

Il Consiglio di Stato, dunque, è chiamato, per un verso, a stabilire se, alla luce delle contestazioni della ricorrente, il commissario ad acta abbia dato corretta ed integrale esecuzione alla sentenza n. 7019 del 21 settembre 2010, e, per altro verso, a determinare il compenso spettante al predetto commissario ad acta per l’attività svolta.

Con specifico rigerimento al primo punto, si rileva che ai sensi del sesto comma dell’art. 114 c.p.a. “il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti gli atti del commissario ad acta. Avverso gli atti del commissario ad acta le stesse possono proporre, dinanzi al giudice dell’ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni…”. Le contestazioni proposte dalla ricorrente, avverso l’attività del  commissario acta, dovevano pertanto essere oggetto di “apposito reclamo” e come tale può, pertanto, essere qualificato l’atto depositato dalla stessa.

Con riguardo al calcolo delle differenze stipendiali, è sufficiente osservare, secondo la Corte: “per un verso, che l’asserita erroneità costituisce una mera generica petizione di principio, non essendo stato indicato né l’effettivo errore in cui sarebbe incorso il commissario nella sua determinazione, né la diversa somma che effettivamente sarebbe spettata (del tutto generiche e prive di qualsiasi supporto probatorio essendo le doglianze formulate col reclamo), e, per altro verso, che, in mancanza di altri elementi probatori (che neppure la parte ricorrente è stata in grado di fornire o di indicare) del tutto ragionevolmente il predetto commissario ai fini della ricostruzione di quanto effettivamente percepito ha fatto riferimento alle certificazioni CUD, ai mandati di pagamento e gli estratti contributivi Inps, quali idonei documenti da cui ricavare dati certi ed affidabili”.

Dall’esame della documentazione depositata dal commissario, non è dato evincere che siano stati posti, a carico della ricorrente, interessi e/o sanzioni per oneri contributivi non versati o tardivamente versati, così che la relativa contestazione appare del tutto pretestuosa. Inammissibili sono, altresì, le censure relative al presunto errore in ordine al calcolo degli interessi legali e alla rivalutazione monetaria liquidata sulle somme spettanti, costituendo mero dissenso il fatto che quelle liquidate e pagate non corrispondano a quelle attese.

Infine, in ordine al TFS, il Consiglio di Stato è dell’avviso che le conclusioni cui è pervenuto il commissario ad acta siano del tutto ragionevoli, atteso che non può dubitarsi che l’obbligo di corrispondere tale indennità sussiste nei limiti in cui la stessa è dovuta per legge.

Alla luce di quanto esposto dal Consiglio di Stato in tale sede, il reclamo avverso le delibere del commissario ad acta deve essere respinto. GMC



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Inserito in data 19/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 14 gennaio 2014, n. 585

Sì al riconoscimento dell'equo indennizzo alla parte contumace in giudizio

Le Sezioni Unite civili della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, stabiliscono il riconoscimento dell'equo indennizzo alla parte contumace nel giudizio, in accoglimento del ricorso di un cittadino, che chiedeva il riconoscimento dell’indennizzo anche per il periodo in cui era stato contumace, in un contenzioso durato trent’anni.

La  Cassazione puntualizza che la mancata costituzione in giudizio potrà, eventualmente, influire sull’an o sul quantum dell’equa riparazione, ma non costituisce, di per sé, motivo per escludere il relativo diritto.
Erroneamente e ingiustificatamente, a detta del ricorrente, l’indennizzo spettante veniva limitato al periodo successivo alla sua costituzione in giudizio, mentre si sarebbe dovuto anche tener conto del tempo in cui era stato contumace, poiché né l’articolo 2 della L. 89/2001, né l’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, subordinano il diritto all’equa riparazione al requisito dell’attiva partecipazione al processo che abbia avuto una durata non ragionevole.

La Corte di appello di Perugia adita, aveva parzialmente accolto la domanda proposta dal cittadino, avverso il Ministero di giustizia, intesa ad ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole di una causa civile di divisione ereditaria, l’indennizzo, tuttavia, era stato commisurato esclusivamente al periodo successivo alla costituzione in giudizio del ricorrente.
La Suprema Corte ha, dunque, aderito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui, sia nelle disposizioni nazionali che in quelle internazionali, non vi sono espresse limitazioni, per il contumace, del diritto di ottenere in tempi ragionevoli la conclusione del giudizio.

L’art. 6 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, prima ricordato, attribuisce tale diritto ad ogni persona, relativamente alla sua causa, l’art. 2 della L. 89/2001 assicura, invece, un’equa riparazione a chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione di quel principio.
Si rileva, altresì, che non sussiste, secondo la Cassazione, incompatibilità tra contumacia ed equa riparazione: non vi è ragione, dunque, per negare che anche il contumace possa subire quel disagio psicologico che normalmente risentono le parti a causa del ritardo eccessivo con cui viene definito il processo che le riguarda. GMC

 




Inserito in data 17/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 17 gennaio 2014, n. 234

Potenziale incidenza di un ricorso parallelo e vulnus al diritto di difesa

La sentenza illustra i casi in cui sia possibile l’incisione del diritto di difesa ed il conseguente, doveroso rinvio al Giudice di primo grado – ex articolo 105 – 1’ co. C.p.A.

Evidenzia, in particolare, come l’organo giudicante possa valorizzare nella propria decisione, senza incorrere nel divieto dell’utilizzazione della scienza privata, gli esiti di altre cause chiamate alla stessa pubblica udienza, ove esse possano integrare questioni rilevabili d’ufficio potenzialmente incidenti sulla causa trattenuta in decisione.

In casi simili, il Giudice - a norma dell’art. 73, 3’ co. C.p.A., è tenuto ad individuare i possibili spazi di valutazione da conferire all’altro ricorrente, al fine di consentire a questi l’eventuale predisposizione di adeguati mezzi di difesa.

Tanto non è accaduto nella vicenda in esame, in cui, invero, la natura pregiudiziale del ricorso parallelo e la mancata menzione dello stesso ha comportato l’impossibilità – per i Giudici del gravame - di addentrarsi nel merito della vicenda controversa.

Si condivide, quindi, la decisione del Collegio che, accogliendo l’appello, dispone la riassunzione della causa dinanzi al Giudice territoriale, incorso nell’errore appena descritto. CC

 

 



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Inserito in data 17/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 gennaio 2014, n. 209

Quorum strutturale e diritto Consiglieri comunali ad un corretto esercizio del proprio officium

I Giudici di Palazzo Spada, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, rigettano l’appello dell’Ente comunale avverso l’avvenuto annullamento di una delibera consiliare – emessa in carenza del quorum strutturale richiesta ex lege.

Più nel dettaglio, il Collegio ricorda la legittimazione dei Consiglieri comunali a ricorrere avverso le deliberazioni collegiali quando queste investano direttamente la propria sfera giuridica, ovvero quando siano violate norme che attengono all’iter formativo dell’atto collegiale, precludendo agli stessi il regolare svolgimento delle proprie competenze.

E’ evidente, infatti, come sia stato leso il loro ius ad officium – giacchè il vizio denunciato incide proprio sull’esatta composizione dell’Organo consiliare e, pertanto, sulla formazione della relativa volontà – della quale i Consiglieri costituiscono estrinsecazione.

Si condivide, quindi, non solo la legittimazione processuale degli stessi – peraltro contestata in primo grado, ma anche la reiezione del gravame proposto dal Comune. CC

 



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Inserito in data 16/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 gennaio 2014, n. 67

Applicabilità del d.lgs. 164/2000 anche alla fase preliminare della procedura di project financing

Il Consiglio di Stato interviene in merito alla applicabilità della disciplina di cui al d.lgs. 164/2000 anche alla fase preliminare della procedura di project financing, nonché sulla possibilità, per gli enti locali, di stipulare un accordo convenzionale per avvalersi di un unico gestore.

La disciplina di settore di cui al d.lgs. 164 del 2000, alla luce delle disposizioni concernenti la tutela della concorrenza e del mercato, è pacificamente applicabile anche alla fase preliminare della procedura di project financing, essendo da considerare come “procedura competitiva” scandita e caratterizzata dalle relative disposizioni di matrice nazionale ed europea.

L’accordo convenzionale tra gli enti locali, al fine di avvalersi di un unico gestore, altresì, non sembra essere in contrasto con i principi generali di evidenza pubblica di derivazione comunitaria, così come è stato, altresì, statuito anche dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea, con la pronuncia del 9 giugno 2009, in causa C-480/06.

È stato rilevato, inoltre, che un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico, ad essa incombenti, mediante degli strumenti propri, senza aver alcun obbligo di far ricorso ed utilizzare autorità ed entità esterne, in quanto tali non appartenenti ai propri servizi, potendosi, tuttavia, anche avvalere anche della collaborazione con altre pubbliche autorità. GMC

 

 



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Inserito in data 16/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 14 gennaio 2014, n. 531

Danno non patrimoniale: risarcimento del danno esistenziale anche in assenza di danno biologico

La Corte di Cassazione ha, da ultimo, sancito che la mancanza di danno biologico non esclude la configurabilità “in astratto” di un danno morale soggettivo e di un danno dinamico-relazionale quale conseguenza, autonoma, della lesione medicalmente accertabile, che si colloca nella sfera dinamico-relazionale del soggetto.

La Suprema Corte, ha respinto il ricorso di una ditta individuale condannata a risarcire la famiglia di un operaio feritosi, in modo grave, a seguito di una caduta da un’impalcatura mentre partecipava a delle operazioni al fine di eseguire un montaggio di ascensori. Nonostante l’archiviazione, in sede penale, prima i giudici di merito e, successivamente, la Cassazione hanno confermato il risarcimento del danno morale ed esistenziale derivato, ai genitori dell’operaio, in conseguenza dell’evento dannoso che ha causato la totale invalidità del figlio.

La Suprema Corte, investita del quesito «se il danno esistenziale è suscettibile di autonoma valutazione rispetto al danno biologico o se invece va considerato nell’ambito di quest’ultimo come componente di esso», ha posto in luce che le espressioni «danno esistenziale» e «danno biologico» non esprimono due distinte categorie di danno, tantomeno l’uno deve ritenersi una sottocategoria dell’altro, trattandosi, invece, di locuzioni “meramente descrittive” dell’unica categoria di danno, ovvero quella del danno non patrimoniale, da identificarsi nel danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non aventi alcuna rilevanza economica.

È da ribadire, altresì, che, a partire dal 2003, la liquidazione di tutti i danni non patrimoniali è svincolata dal compimento di un reato: il danneggiato, infatti, ne ha diritto nonostante il danneggiante non abbia commesso un fatto penalmente rilevante ma, semplicemente, un illecito civile.
Anche in altre occasioni, tuttavia, le Sezioni Unite della Cassazione, hanno assunto una presa di posizione definitiva in ordine alla individuazione di tale categoria di danno con le note sentenze di San Martino (sent. 11 novembre 2008, nn. 26972/3/4/5). Tali sentenze configurano il danno non patrimoniale quale categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie diversamente etichettate.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo determinati (si pensi, ad es. danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde semplicemente a delle esigenze descrittive, non implicando, assolutamente, il riconoscimento di distinte categorie di danno non patrimoniale.

Alla luce di quanto esposto, dunque, compito del giudice, è quello di accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, individuando quali ripercussioni negative sul valore umano si siano verificate, procedendo in tal senso alla loro integrale riparazione. GMC

 




Inserito in data 15/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 gennaio 2014 n. 82

Regolamento sull’ordinamento degli Uffici e Servizi comunali è atto di macro organizzazione

Com’è noto, a seguito della cd. privatizzazione del pubblico impiego, si è operato un riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, basato sulla natura dell’atto amministrativo in contestazione.

In particolare, sono devoluti al G.O. le controversie concernenti gli atti amministrativi di micro organizzazione, che hanno per oggetto lo svolgimento del rapporto di impiego e che sono il risultato di accordi di diverso livello, centrali e decentrati, collettivi ed individuali.

Viceversa, continuano ad essere devoluti al G.A. “quegli atti che l’Amministrazione continua ad adottare nell’esercizio di pubblici poteri in quanto finalizzati al conseguimento di interessi generali che travalicano necessariamente i profili limitati e contingenti coinvolti dall’incontro o dalla contrapposizione tra l’amministrazione e il personale dipendente, e che si esauriscono nel modo di esplicarsi di tale rapporto”. Rispetto a questi ultimi la giurisprudenza amministrativa ammette ”una doppia tutela, anche contemporanea con la conseguenza che gli interessati possono rivolgersi al giudice ordinario per chiedere l’accertamento dei loro diritti anche se ci sono atti amministrativi presupposti, ma possono anche adire direttamente il giudice amministrativo a tutela di loro interessi legittimi, per chiedere l’annullamento degli atti autoritativi presupposti che siano immediatamente lesivi”.

L’atto di macro organizzazione che viene in rilievo nel caso in esame, radicando la giurisdizione del giudice amministrativo, è la deliberazione di adozione del regolamento relativo all’ordinamento degli Uffici e Servizi del Comune di Napoli.

Esso, infatti, è un atto finalizzato a regolamentare l’organizzazione delle strutture amministrative del Comune e, perciò, “deve intendersi necessariamente rivolto al conseguimento dell’interesse generale alla luce dei principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 97 Cost.”.

Attraverso la sua impugnazione il ricorrente ha fatto valere “il proprio interesse a che la nuova organizzazione e l’assetto conferito agli uffici e servizi rispondessero ai canoni di correttezza e di rispetto delle norme dettate nell’interesse generale, così da non arrecare alcun vulnus alle competenze funzionali riservate al ricorrente quale dirigente apicale dell’Amministrazione”. TM

 

 



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Inserito in data 15/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 gennaio 2014, n. 71

Potere di convalida e relativo obbligo di motivazione

È ammissibile la convalida di un atto nelle more del giudizio, in virtù dell'art. 21-nonies della l. n. 241/1990 e dell'art. 6 della l. n. 249/1968 (che consente la convalida o la ratifica degli atti viziati da incompetenza anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell'ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato).

È consentito convalidare il provvedimento annullabile non solo per incompetenza, ma anche per aspetti sostanziali della funzione amministrativa e, conseguentemente, di addurre presupposizioni, giustificazioni e motivazioni ulteriori rispetto a quelle contenute nel provvedimento convalidato.

In questo secondo caso, è necessaria l’esplicita indicazione del pubblico interesse.

Nel primo caso, invece, il provvedimento di mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da un vizio di carattere formale, come quello di incompetenza, non necessita di particolare, dettagliata motivazione al riguardo. È infatti inutile (per il principio di economia dei mezzi giuridici) l’esternazione intesa a far percepire se, nell'emendare il vizio di incompetenza, l'organo legittimato ad adottare l'atto l'abbia fatto per effettive esigenze pubblicistiche, non sussistendo altre ragioni sottostanti all’adozione del provvedimento. L’indicazione esplicita della sussistenza del pubblico interesse sarebbe quindi del tutto superflua, sussistendo il potere-dovere del dirigente competente di sanare il provvedimento in questione. CDC

 

 



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Inserito in data 14/01/2014
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 gennaio 2014, n. 1

Legge elettorale: illegittimi premio di maggioranza e liste bloccate

Con la sentenza in esame, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 e del d. lgs. 20 dicembre 1993, n. 533, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla l. 21 dicembre 2005, n. 270, relative all’attribuzione del premio di maggioranza su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, nonché di quelle disposizioni che, disciplinando le modalità di espressione del voto come voto di lista, non consentono all’elettore di esprimere alcuna preferenza.

La prima questione, riguardante la legittimità costituzionale del premio di maggioranza assegnato per l’elezione della Camera dei deputati, è ritenuta fondata dalla Corte per le seguenti ragioni.

Non c’è […] un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico. Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole”.

Nella specie, viene affermato che le disposizioni censurate “non superano lo scrutinio di proporzionalità e di ragionevolezza, al quale soggiacciono anche le norme inerenti ai sistemi elettorali. […] Le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo costituzionalmente legittimo. […] Le disposizioni censurate non si limitano, tuttavia, ad introdurre un correttivo […] al sistema di trasformazione dei voti in seggi «in ragione proporzionale», stabilito dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, in vista del legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi, ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. In tal modo, dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost. In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.) […] Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.).”

Le stesse argomentazioni comportano l’illegittimità costituzionale anche delle norme sul premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, le quali “contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. Nella specie […] stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato.

Anche l’altra questione di legittimità costituzionale, concernente la previsione delle c.d. liste bloccate, è stata ritenuta fondata, nei seguenti termini.

Secondo la Corte, “le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso. Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti.”

In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).”

La Corte poi precisa che “la normativa che resta in vigore […] è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo» […] In particolare, la normativa che rimane in vigore stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l’attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato. Ciò che resta, invero, è precisamente il meccanismo in ragione proporzionale delineato dall’art. 1 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dall’art. 1 del d.lgs. n. 533 del 1993, depurato dell’attribuzione del premio di maggioranza; e le norme censurate riguardanti l’espressione del voto risultano integrate in modo da consentire un voto di preferenza.”

Infine, si ricorda che “la decisione […] avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale […] Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. […] Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali. Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento.” CDC

 

 



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Inserito in data 13/01/2014
TAR SICILIA – PALERMO, SEZ. I, 10 gennaio 2014, n. 50

Gli uffici legali comunali gerarchicamente subordinati non sono privi di autonomia funzionale

La querelle posta al vaglio dei Giudici palermitani riguarda la legittimità della deliberazione di una Giunta comunale, con cui l’avvocato dell’ente è stato gerarchicamente subordinato al dirigente del settore affari generali.

A tal proposito, “l’art. 3 del R.D.L. n. 1578/1933 dispone, al secondo comma, che l’esercizio della professione di avvocato è incompatibile con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio pubblico ed al quarto comma, lettera b, che tale disposizione non trova applicazione relativamente agli avvocati degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso enti pubblici relativamente alle cause proprie dell'ente”.

In particolare, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Suprema Corte, la disposizione in esame prevede “che presso l'ente pubblico esista un ufficio legale costituente un'unità organica autonoma e che coloro i quali sono ad esso addetti esercitino con libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza, con sostanziale estraneità all'apparato amministrativo, in posizione di indipendenza da tutti i settori previsti in organico e con esclusione di ogni attività di gestione (vedi Cassazione, sez. un., 18 aprile 2002, n. 5559)”.

Si tratta, invero, di una questione che ha diviso la giurisprudenza amministrativa.

Per un primo orientamento, infatti, “l’esistenza di un’autonoma articolazione organica dell'ufficio legale dell’ente è indispensabile affinché l'attività professionale, seppure svolta in forma di lavoro dipendente, sia esercitata, in conformità alle disposizioni che la disciplinano, con modalità che assicurino oltre alla libertà nell'esercizio dell'attività di difesa, insita nella figura professionale, anche l'autonomia del professionista (per tutti T.A.R. Sardegna, II, 14 gennaio 2008, n. 7)”.

Di contro, per un secondo orientamento, “l’art. 3 surrichiamato tutela la piena autonomia funzionale dell'ufficio legale, ma non garantisce la individuazione dello stesso quale struttura di vertice nell'organizzazione degli uffici comunali, in quanto la collocazione nell'apparato burocratico è caratterizzata da elevata discrezionalità, dovendosi tenere conto sia dell'entità del contenzioso previsto sia delle risorse finanziarie disponibili nel bilancio comunale (per tutte TAR Campania Napoli, V, 6 giugno 2006, n. 6751)”.

Il Collegio, dal canto suo, nell’aderire a quest’ultima ricostruzione, richiama le argomentazioni sviluppate dalla V sezione del Consiglio di Stato nella decisione n. 6336 del 15 ottobre 2009, “laddove è stato evidenziato che l’art. 3 del R.D.L. n. 1578/1933 prevede "uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo" disinteressandosi completamente della struttura organizzativa, poiché la sua finalità è provvedere ad una garanzia di tipo funzionale, connessa allo status ed all'attività esercitata e che si traduce nella garanzia dell'indipendenza propria dell'avvocato, connessa al riconoscimento dello status professionale peculiare dell'iscritto all'albo speciale. Ne deriva che l'ente deve assicurare nel contempo l'inserimento nell'assetto organizzativo dell'ufficio legale e l'autonomia funzionale del professionista, assicurando una distinzione fra attività legale ed attività amministrativa. A tal fine non è, però, necessario conferire natura apicale all'ufficio legale, in quanto tale scelta ampiamente discrezionale dipende dalla quantità e qualità del contenzioso dell'ente e dalle risorse finanziarie disponibili nel bilancio comunale”.

In conclusione, dunque, la scelta discrezionale di non istituire una nuova posizione dirigenziale non intacca minimamente l’autonomia funzionale dell’ufficio legale comunale. EMF



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Inserito in data 13/01/2014
TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. IV, 9 gennaio 2014, n. 36

L'omessa indicazione dei costi di sicurezza aziendale non comporta l'esclusione dalla gara

 Con la sentenza in epigrafe, il Collegio osserva che, in base al disposto del c. 3 bis dell’art. 86 del D.Lgs. n. 163/06, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.

D’altra parte, il c. 4 del successivo art. 87 puntualizza che “non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'art. 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'art. 12, D.Lgs. 14.8.1996, n. 494 ed alla relativa stima dei costi conforme all'art. 7, D.P.R. 3.7.2003 n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta, e risultare congrui rispetto all'entità ed alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”.

Tuttavia, nonostante il legislatore abbia utilizzato una dizione unitaria, “la giurisprudenza e la prassi hanno individuato due distinte categorie di “oneri di sicurezza”, distinguendo i costi relativi ai rischi c.d. da “interferenze”, da quelli connessi ai rischi dell'attività propria dell'appaltatore (c.d. “rischi propri”, o “costi di sicurezza aziendale”)”.

In particolare, “i rischi da interferenze sono quelli derivanti dai contatti tra il personale, o l’utenza, del committente, e il personale dell'appaltatore, per la cui prevenzione la stazione appaltante deve elaborare il Documento Unico per la Valutazione dei Rischi da Interferenze, c.d. Duvri, quantificando i relativi costi, che devono essere espressamente indicati nella lex specialis, e non sono soggetti a ribasso in sede di gara”.

In sostanza, il Duvri “ha lo scopo di favorire la cooperazione nell’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto, e di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dei rischi cui sono esposti i lavoratori; sono ad esempio rischi che danno luogo ad “interferenze”, quelli esistenti nel luogo del committente, ove è previsto che debba operare l’appaltatore”.

Viceversa, i c.d. costi di sicurezza aziendale sono “quantificabili solamente dal singolo concorrente, in rapporto alla sua offerta economica e alla sua specifica organizzazione, come avviene ad esempio negli appalti di fornitura senza installazione, salvo consegna nei luoghi di lavoro o nei cantieri e negli appalti di servizi per i quali non è prevista l’esecuzione di prestazioni all’interno della stazione appaltante (v. art. 26 D.Lgs. 9.4.2008 n. 81 e Determinazione Autorità Vigilanza sui Contratti Pubblici 05.03.08 n. 3)”.

Ciò premesso, si tratta di verificare se, nel silenzio della lex specialis, l’omessa indicazione dei costi della sicurezza comporti l’esclusione di una ditta da una gara avente ad oggetto la fornitura di energia elettrica.

Secondo un primo orientamento, “le imprese partecipanti ad un appalto devono necessariamente includere nella loro offerta, a pena di illegittimità, oltreché gli oneri di sicurezza per le interferenze, anche i detti oneri di sicurezza da rischio specifico, o aziendali. Tale conseguenza viene fatta derivare dal combinato disposto dei citati artt. 86 c. 3 bis e 87 c. 4 D.Lgs. n. 163/2006, in conseguenza della loro imperatività, ed in ragione degli interessi di ordine pubblico ad esse sottesi, in quanto posti a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori”.

Alla luce di tale lettura, peraltro, “neppure la mancanza di una specifica previsione sul punto nella lex specialis potrebbe giustificare l’omessa indicazione dei costi per la sicurezza aziendale, atteso il carattere immediatamente precettivo delle norme di legge sopra richiamate, che prescrivono di esibire distintamente tali costi, in virtù di un’eterointegrazione, ex art. 1374 c.c., degli stessi atti di gara, tale da imporre, in caso di loro inosservanza, l'esclusione dalla procedura (T.A.R. Veneto, Sez. I, 8.8.2013 n. 1050, T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 5.4.2013 n. 765, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 19.2.2013 n. 181, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 7.1.2013 n. 66)”.

Un altro orientamento, invece, ritiene che “quando si tratti di appalti diversi dai lavori pubblici, e non vi sia una comminatoria espressa d’esclusione, ove sia omesso da parte del concorrente lo scorporo degli oneri di sicurezza per rischio specifico, il relativo costo, poiché coessenziale al prezzo offerto, rilevi ai soli fini dell’anomalia di quest’ultimo, potendo pertanto darsi luogo all’esclusione solamente all'esito, ove negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla sostenibilità dell'offerta economica nel suo insieme (C.S., Sez. III, 10.7.2013 n. 3706)”.

A questo secondo indirizzo, ribadito da C.S., Sez. III, 18.9.2013 n. 5070, si conformano i Giudici milanesi, che sottolineano come l’appalto oggetto di contenzioso non comporti “l’esecuzione di prestazioni che richiedano l’intervento di specifico personale presso la stazione appaltante e l’aggiudicatario si limita a svolgere un’attività di intermediazione commerciale, senza produrre alcun bene materiale”. 

Ne consegue che solo la stazione appaltante può verificare, “in sede di giudizio sull’anomalia dell’offerta, se la stessa sia stata predisposta considerando, o meno, i detti costi di sicurezza per rischio specifico”.

Per ragioni di completezza è, infine, necessario un breve accenno al secondo motivo, con cui si contesta il mancato possesso dei requisiti di capacità tecnica indicati nel bando di gara, per come interpretato da parte ricorrente.

A tal proposito, il Tar Milano aderisce all’orientamento consolidato, secondo cui “a fronte di un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dalla stazione appaltante, e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, deve prevalere il principio del favor partecipationis, ed in particolare a fronte di clausole incerte od ambigue, da interpretare nel senso favorevole alla più ampia partecipazione (T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 1.3.2013 n. 557, T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 12.7.2013 n. 1684, T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Sez. I, 14.6.2013 n. 343)”. EMF

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Inserito in data 12/01/2014
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SECONDA SEZIONE, Requête n. 77/07 - SENTENZA Cusan e Fazzo c. Italia - del 7 gennaio 2014

Svolta da Strasburgo: si al diritto di usare il cognome materno

La sentenza della Corte europea dei diritti umani segna un punto di svolta, costituendo, al contempo, un significativo monito per il Legislatore italiano.

Il Collegio di Strasburgo, infatti, sancisce la possibilità che – anche in Italia - i genitori scelgano di assegnare alla prole il cognome del ramo materno.

Si tratta di una prassi che, comunemente già adoperata in moltissimi Paesi anche non europei, ha sempre trovato una forte resistenza nell’ambito del nostro panorama giuridico.

L’utilizzo del cognome paterno, infatti, è chiara espressione di un retaggio culturale millenario che, affondando le proprie radici nell’esperienza giusromanistica, trova ancora conferma nel Codice civile, nonostante le varie riforme del diritto di famiglia sopravvenute dal 1942 in poi.

La pronuncia della Corte dei diritti umani, quindi, nel condannare l’Italia per l’evidente violazione della parità tra i sessi, invita il Legislatore italiano ad un’attenta riflessione, specie al fine di evitare che il nostro Stato si ritrovi, ancora una volta, in “una zona franca” rispetto alle convenzioni internazionali e ad una prassi già invalsa nella gran parte dei territori occidentali.

Del resto, l’anacronismo dell’imposizione paterna era già stato rilevato dalla Corte Costituzionale che, con ordinanza n. 145/07, ne aveva sottolineato l’incongruenza rispetto ad un sistema giuridico che – dal 1975 in poi, avrebbe accolto, invero, l’eguaglianza morale e giuridica tra uomo e donna.

Pertanto, sulla scia di questi iniziali indici di rinnovamento, oltrechè del significativo clamore mediatico che l’odierno arresto ha inevitabilmente prodotto, se ne attendono i primi sviluppi in sede legislativa e nell'ambito della successiva prassi giudiziaria. CC



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Inserito in data 12/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 gennaio 2014, n. 58

Chiarimenti sull’esperibilità dell’azione risarcitoria ex art. 112 – 3’ co. C.p.A.

I Giudici di Palazzo Spada, intervenendo in sede di ottemperanza, forniscono indicazioni riguardo al rimedio di cui al 3’ comma dell’articolo 112 C.p.A.

In particolare, disponendo la necessaria esecuzione della sentenza – come richiesto da parte ricorrente, il Collegio respinge, tuttavia, la connessa domanda risarcitoria.

Questa, infatti, può essere inoltrata solo quando l'ottemperanza sia divenuta impossibile, ovvero ulteriori danni siano derivati alla parte vittoriosa per mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato.

Tanto non ricorre nel caso in esame in cui, invece, non emerge alcuna impossibilità nella esecuzione in forma specifica del giudicato, né alcun rischio di una sua possibile elusione; anzi, il Giudice dell’ottemperanza prevede già in sentenza di disporre quanto necessario per soddisfare la pretesa del ricorrente, vittorioso in sede di legittimità.

Pertanto, non configurandosi - nel caso in esame - danni derivanti dall'impossibilità di dare esecuzione alla pronuncia favorevole, non è plausibile che il ricorrente agisca in sede risarcitoria - ex articolo 112 co. 3 C.p.A. CC



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Inserito in data 10/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 dicembre 2013, n. 6151

Riguardo alla sospensione del giudizio amministrativo in pendenza di quello penale

Nel caso di pendenza di un giudizio penale, la sospensione necessaria del giudizio amministrativo derogherebbe, di per sé, al principio fondamentale della reciproca autonomia, nonchè del parallelismo dei due accertamenti giurisdizionali, alla luce del nuovo processo penale. Si rileva, infatti, che i due accertamenti operano in ambiti differenti, perseguendo diverse finalità.

La sospensione, dunque, potrà essere possibile solo nel caso in cui la definizione del giudizio amministrativo inevitabilmente “dipenda”, alla luce di quanto disposto dall'art.295 del c.p.c., da quella del giudizio penale, in quanto ne risulti essere vincolata in modo esclusivo, diretto e consequenziale.

Inoltre, dovrà essere disposta alla luce di una accezione restrittiva dei presupposti su cui si fonda, in quanto la sospensione rappresenta una vera e propria eccezione al principio generale dell'autonomia dei giudizi che, oramai, si estende all'intera area giurisdizionale.

Dalla sentenza in oggetto, in merito alla decadenza del permesso di costruire, emerge che l'accertamento dell'avvenuto inizio dei lavori, entro l'anno dal rilascio del permesso di costruire, indispensabile al fine di evitarne la decadenza, è una questione di fatto, da doversi valutare caso per caso, con specifico riferimento al complesso delle circostanze concrete.

L'avvio delle opere deve essere, altresì, reale ed effettivo, dovendo sussistere, infatti, un accertato intento di esercitare il diritto di edificare che non sia semplicemente fittizio. GMC



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Inserito in data 10/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 dicembre 2013, n. 6247

Scorrimento di preesistente graduatoria o nuovo concorso?

In costanza di proroga di una graduatoria concorsuale, la scelta di indire un nuovo concorso, riguardante l'assunzione degli stessi profili della medesima graduatoria, deve essere specificamente motivata.

Infatti, nel caso in cui non dovesse sussistere un diritto soggettivo all'assunzione in capo agli idonei, l'Amministrazione deve considerare che lo scorrimento delle preesistenti graduatorie costituisca la regola generale da seguire, mentre l'indizione del concorso deve essere considerata come una eccezione.

Alla luce di ciò, è l'indizione di un nuovo concorso pubblico a dover essere adeguatamente motivata, giustificando il perchè si debba seguire un nuovo procedimento amministrativo, di rilevante complessità, ed accompagnato da ampi oneri di bilancio anziché la chiamata di soggetti, già antecedente scrutinati, e dichiarati idonei a quelle determinate funzioni. GMC



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Inserito in data 09/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 gennaio 2014 n. 4

Translatio iudicii e atti equipollenti alla riassunzione ex art. 11 c.p.a.

In seguito all’ormai nota sentenza della Corte costituzionale, n. 77 del 12.3.2007, anche nel nostro ordinamento opera il principio della translatio iudicii tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, con conseguente salvezza degli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta erroneamente proposta, in origine, avanti a giudice non munito di giurisdizione… Tale principio, recepito poi dall’art. 59 della l. 69/2009, è ora consacrato dal codice del rito amministrativo nell’art. 11, comma”.

Ritiene il Collegio che esigenze di coerenza sistematica e di giustizia sostanziale, riconducibili anche ai principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata del giudizio (art. 111 Cost.), impongano di applicare il generale principio della salvezza degli effetti sostanziali e processuali, di regola ed espressamente conseguenti alla translatio iudicii successiva al giudicato formatosi sulla giurisdizione, anche nella ipotesi in cui la parte, dopo avere adito il giudice non munito di giurisdizione e prima che tale giudicato si formi, abbia di propria iniziativa adìto il giudice munito di giurisdizione, rimediando sua sponte al proprio errore processuale ed incardinando quindi il giudizio correttamente”.

Del resto, come ha affermato l’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 24/2011, l’art. 11 c.p.a. contempla un termine ultimo per la riassunzione (tre mesi decorrenti dal passaggio in giudicato della sentenza che declina la giurisdizione), ma non un termine dilatorio e, perciò, “le parti ben possono riassumere il giudizio prima del passaggio in giudicato della sentenza che declina la giurisdizione”. TM



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Inserito in data 09/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 gennaio 2014, n. 18

La valutazione di compatibilità paesaggistica degli interventi edilizi rientra nel merito

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato ha accertato la violazione dei limiti del sindacato giurisdizionale da parte del giudice di prime cure, che si era sostituito all’Amministrazione nella valutazione di merito sulla compatibilità paesaggistica della costruzione di piscine interrate.

Il T.A.R. è incorso nella violazione dei principi della separazione dei poteri e della tassatività delle ipotesi di giurisdizione di merito delineate dall’art. 134 cod. proc. amm., da cui esula la fattispecie sub iudice, … perché ha sostituito la propria valutazione a quella tecnico-discrezionale rientrante nell’ambito dei poteri dell’amministrazione”. TM

 

 



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Inserito in data 08/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 gennaio 2014, n. 6

Riparto di giurisdizione in materia di edilizia residenziale pubblica

La sentenza in esame conferma che il riparto di giurisdizione in materia di edilizia residenziale pubblica è regolato dal criterio della posizione soggettiva riconoscibile in capo al privato.

Pertanto, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo quando tale posizione sia d’interesse legittimo perché attinente alla fase del procedimento amministrativo strumentale all’assegnazione, caratterizzato da poteri pubblicistici. La giurisdizione spetta invece al giudice ordinario quando sia di diritto soggettivo perfetto, in quanto attinente al rapporto locativo costituitosi in seguito a detta assegnazione; infatti, si tratta di fase priva di valenza pubblicistica, i cui atti non costituiscono espressione di una ponderazione tra interesse pubblico e quello privato, ma ricadono nell’ambito di un rapporto paritetico soggetto alle regole del diritto privato. CDC



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Inserito in data 08/01/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 7 gennaio 2014, n. 81

Inammissibilità dell’astreinte in caso di giudicato su pagamenti di somme di denaro

Con riguardo alla c.d. astreinte, prevista dall’art. 114, comma 4, lettera e), cpa, la sentenza conferma che non è possibile farvi ricorso quando l’esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro. Infatti, tale obbligo, in quanto di natura pecuniaria, è già assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio di pagamento degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi. Così, dunque, si duplicherebbero ingiustificatamente le misure compensative dell’entità del pregiudizio derivante all’interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato, determinandosi al contempo un ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore, oltre che della prestazione principale, di quella accessoria. CDC

 

 



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Inserito in data 07/01/2014
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 16 dicembre 2013, n. 27993

Difetta la giurisdizione della Corte dei Conti se la società ha natura privata

Con l’ordinanza in commento, le Sezioni Unite confermano che si incardina la giurisdizione del Giudice ordinario a fronte dei danni cagionati ad una società privata dai suoi dirigenti.

Alla luce dell’art. 113 del D.Lgs. n. 267 del 2000, infatti, un recente arresto delle Sezioni Unite (sentenza 26283 del 2013) “ha posto il principio di diritto per il quale la Corte dei Conti ha giurisdizione sull’azione di responsabilità esercitata dalla Procura della Repubblica presso detta Corte quando tale azione sia diretta a far valere la responsabilità degli organi sociali per danni da essi cagionati al patrimonio di una società in house, per tale dovendosi intendere quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici”.

In conclusione, la Corte dei Conti può esercitare la sua giurisdizione allorquando “…la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizzi(a) più in termini di alterità soggettiva”. EMF




Inserito in data 07/01/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II, 2 gennaio 2014, n. 20

Astreinte e giudizio di ottemperanza relativo a sentenza di condanna ex legge Pinto

Il Collegio, in via preliminare, ritiene sussistente “la legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze nei giudizi di ottemperanza relativi alle sentenze con le quali sono state accolte domande proposte nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri in materia di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo”.

In particolare, essa si fonda sul combinato disposto dell’art. 3, comma 3, della legge n. 89/2001 (come modificato dall’art. 1, comma 1224, secondo periodo, della legge n. 296/2006) con l’art. 1, comma 1225, secondo periodo, della legge n. 296/2006 (come interpretato dall’art. 55, comma 2-bis, del decreto legge n. 83/2012, nel testo integrato dalla n. 134/2012).

D’altra parte, nonostante “la giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, 25 giugno 2010, n. 4096) in passato abbia affermato che la disposizione dell’art. 1, comma 1225, secondo periodo, della legge n. 296/2006 (secondo la quale “al fine di razionalizzare le procedure di spesa ed evitare maggiori oneri finanziari conseguenti alla violazione di obblighi internazionali”, al pagamento degli indennizzi “procede, comunque, il Ministero dell’economia e delle finanze”) sia una disposizione organizzativa, indirizzata alla sola pubblica amministrazione”, il legislatore con l’art. 55, comma 2-bis, del decreto legge n. 83/2012 ha disposto che “l’articolo 1, comma 1225, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si interpreta nel senso che il Ministero dell’economia e delle finanze procede comunque ai pagamenti degli indennizzi in caso di pronunce emesse nei suoi confronti e nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri”.

Ciò posto, occorre analizzare il merito del ricorso, cioè l’interpretazione e la conseguente applicazione dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., anche avuto riguardo alla contestuale domanda di nomina di un commissario ad acta, ai sensi dell’art. 114, comma 4, lettera d), cod. proc. amm..

A tal proposito, i Giudici romani aderiscono all’orientamento del Giudice di ultima istanza (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4216; Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 22 gennaio 2013, n. 26), secondo cui “risarcimento del danno e penalità di mora sono due istituti connotati da struttura e funzioni diverse. Infatti, le c.d. astreintes, derivate da ordinamenti stranieri, rappresentano misure coercitive indirette a carattere pecuniario, con finalità sanzionatoria e non risarcitoria, nella misura in cui non sono finalizzate a riparare il pregiudizio cagionato dalla mancata esecuzione della sentenza, ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e a stimolare il debitore all’adempimento”.   

In ossequio a tale interpretazione, pertanto, deve escludersi che tale disposizione legittimi “l’interessato a richiedere la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato”.

I Giudici, infatti, disattendono la tesi sposata dal T.A.R. Lazio, Sez. I, 2 novembre 2012, n. 9003, secondo cui l’art. 114 comma 4, lettera e) “ha una portata applicativa più ampia che nel processo civile e può trovare applicazione anche nel caso di sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, perché la predetta disposizione non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile (art. 614-bis cod. proc. civ.), della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile - alla luce delle seguenti considerazioni”.

Le critiche muovono soprattutto dalla necessità di tutelare l’omogeneità dell’ordinamento ed il principio di eguaglianza, atteso che “il creditore pecuniario dell’amministrazione pubblica nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile (…), e tanto semplicemente in base ad una opzione puramente potestativa”.

Deve rammentarsi, altresì, che l’astreinte “può trovare applicazione se sussistono tutti i tre presupposti stabiliti dall’art. 114 comma 4, lettera e), cod. proc. amm., ossia quello positivo, costituito dalla richiesta di parte, e quelli negativi, costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni ostative” (Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 4 settembre 2012, n. 4685).

Invero, “questa Sezione (T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 5 dicembre 2012, n. 9037) ha già prestato adesione al diverso orientamento giurisprudenziale (ex multis, T.A.R. Lazio Roma, Sez. II-bis, 21 gennaio 2013, n. 640; T.A.R. Lazio Roma, Sez. I, 29 dicembre 2011, n. 10305; T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, 15 aprile 2011, n. 2162) secondo il quale, quando l’esecuzione del giudicato consista (come nel caso in esame) nel pagamento di una somma di denaro, non è possibile far ricorso all’astreinte in ragione dei predetti requisiti negativi (costituiti dall’insussistenza di profili di manifesta iniquità e dall’insussistenza di altre ragioni ostative), ossia in considerazione della iniquità della correlata condanna, consistente nel pagamento di una somma di denaro, laddove l’obbligo oggetto di domanda giudiziale di adempimento è esso stesso di natura pecuniaria, ed è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi”.  

Aderire all’opposta tesi, infatti, implicherebbe, per un verso, la duplicazione ingiustificata delle “misure volte a ridurre l’entità del pregiudizio derivante all’interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell’esecuzione del giudicato” e, per altro verso, “un ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore, oltre che della prestazione principale, di quella accessoria” (Cfr. T.A.R. Lazio Roma, Sez. I, n. 10305/2011 cit.).

Tali argomenti risultano rafforzati anche dalla contestuale nomina del commissario ad acta per il caso di persistente inerzia dell’Amministrazione, che “esclude la possibilità di condannare quest’ultima anche al pagamento della astreinte: infatti, diversamente opinando, si correrebbe il rischio di far gravare, ingiustamente, sull’amministrazione le conseguenze sanzionatorie di eventuali ulteriori ritardi imputabili non ad essa, bensì all’ausiliario del giudice” (T.A.R. Piemonte Torino, Sez. I, 21 dicembre 2012, n. 1386)”. EMF



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Inserito in data 03/01/2014
CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO, SENTENZA 30 dicembre 2013, n. 914

Responsabilità del tesoriere del partito per sviamento dei rimborsi elettorali

Preliminarmente, la Corte dei Conti dichiara la propria giurisdizione, ribadendo il principio secondo il quale: “le somme erogate ai partiti (gruppi o movimenti) politici per il rimborso delle spese elettorali hanno natura pubblica e sono destinate ad una finalità istituzionale vincolata, che non perdono per il solo fatto di accedere al bilancio di una associazione privata (quale è il partito), per cui la loro utilizzazione per uno scopo diverso da quello previsto dalla legge costituisce uno sviamento illegale generatore di responsabilità e di danno erariale la cui valutazione è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.

Secondariamente, la Corte reputa inammissibile la questione di legittimità costituzionale della legge sui rimborsi elettorali per difetto di rilevanza nel giudizio a quo (e non perché manifestamente infondata), atteso che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità non imporrebbe di restituire i contributi già ricevuti dai partiti, perché qualificabili come rapporti esauriti, mentre permarrebbe l’obbligo di restituzione contestato, fondato sull’illecita destinazione dei contributi pubblici (e non sulla loro illecita percezione).

In terzo luogo, nel giudizio contabile, la non contestazione quale presupposto dell’ordinanza anticipatoria ex art. 186bis c.p.c. “coincide con il riconoscimento della responsabilità erariale escludendo l’obbligo del giudice di valutare gli elementi probatori sulla condotta illecita del convenuto addotti dal Pubblico Ministero a sostegno della propria domanda risarcitoria”.

Infine, dal danno erariale non può scomputarsi la somma versata dal convenuto a titolo di imposta sui beni che intende trasferire allo Stato per assolvere al proprio obbligo risarcitorio: ciò in quanto “Perché possa essere valutato positivamente dal giudice, ai fini della determinazione dell’entità del danno, l’esborso tributario deve porsi in stretta correlazione con il danno stesso”; “L’unico caso finora individuato dalla giurisprudenza della Corte dei conti (peraltro non univoca) è quello dell’illegittimo percepimento da parte del soggetto convenuto di retribuzioni, compensi o emolumenti sui quali abbia regolarmente assolto la relativa imposta reddituale”. TM



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Inserito in data 03/01/2014
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 dicembre 2013, n. 6285

Impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria e onere di tempestiva difesa

I Giudici di Palazzo Spada ci ricordano che il processo amministrativo si è evoluto in modo da assomigliare sempre più al processo civile, anche con riguardo al sistema delle preclusioni processuali per il convenuto/resistente.

Il ricorso al giudice amministrativo, nell’evoluzione giurisprudenziale e normativa, va assimilato alla citazione nel giudizio civile e, quindi, caratterizzato dalla provocatio ad iudicium”.

La notifica del ricorso introduttivo, pertanto, vale a fissare ineludibilmente il momento delle scelte utili alla tutela della situazione giuridica tanto per il ricorrente che per tutte le altre parti, rilevando quale invito ad apprestare le proprie difese e implicando la cristallizzazione del thema decidendum con riguardo non solo agli atti con lo stesso aggrediti ma anche in relazione agli atti successivi della procedura e impone anche ai contraddittori lo stesso comportamento processuale”.

Corollario di tale impostazione è che l’azione volta a paralizzare l’azione principale non può che essere fatta valere nei termini decorrenti dal ricorso principale”.

Tale prospettazione non è in alcun modo compromessa dalle circostanze che il ricorso introduttivo avesse ad oggetto l’aggiudicazione provvisoria e che l’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria di un appalto o di un servizio pubblico sia meramente facoltativa e debba essere integrata dall’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva pena l’improcedibilità del ricorso”.

Tale evenienza […] non incide sulle regole del processo che impongono alla parte che scelga la via dell’immediata contestazione dell’aggiudicazione provvisoria l’onere di rispettare il termine e di dedurre contro tale atto tutti i motivi di doglianza con conseguente preclusione di proporre in occasione dell’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva motivi che avrebbe potuto far valere in precedenza”.

In tal caso, dunque, il ricorso incidentale dovrà essere modulato alle difese del ricorrente principale con conseguente decadenza da difese ed eccezioni non dedotte tempestivamente, ma rinviate ad un momento successivo, quello della impugnazione dell’aggiudicazione definitiva”. TM

 

 



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Inserito in data 02/01/2014
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I, 30 dicembre 2013, n. 2995

Diritto all’accesso: ratio e posizione giuridica legittimante

La sentenza ribadisce che il diritto di accesso ai documenti amministrativi è posto a garanzia del principio della trasparenza amministrativa, il quale non è assoluto e incondizionato, ma subisce alcuni temperamenti, basati, fra l’altro, sulla limitazione dei legittimati attivi. Infatti, l’accesso è consentito solo a coloro ai quali gli atti stessi, direttamente o indirettamente si rivolgono e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva legittimante, costituita da una “situazione giuridicamente rilevante” e dal collegamento qualificato tra questa posizione sostanziale e la documentazione di cui si pretende la conoscenza.

La legittimazione all’accesso va dunque riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto.

Tale posizione giuridica legittimante, anche se non deve assumere necessariamente la consistenza del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo, deve essere però giuridicamente tutelata, non potendo identificarsi con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell’attività amministrativa. Né vi è diritto all’accesso nelle ipotesi in cui la pretesa vantata non è a prima lettura riconducibile ad una previsione normativa, ma potrebbe esservi ricondotta in virtù di una particolare interpretazione che potrebbe essere affermata in un giudizio sulla pretesa. CDC



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Inserito in data 02/01/2014
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II-ter, 30 dicembre 2013, n. 11173

Onere della prova in tema di responsabilità della PA per danno da ritardo

In tema di responsabilità della PA per danno da ritardo, si ribadisce che il ricorrente ha l'onere di provare, secondo i principi generali, la sussistenza e l'ammontare dei danni dedotti in giudizio.

Infatti, la limitazione dell'onere della prova gravante sul ricorrente, che caratterizza il processo amministrativo, si fonda sulla naturale ineguaglianza delle parti di consueto connotante il rapporto amministrativo di natura pubblicistica, ma l'esigenza di un'attenuazione dell'onere probatorio del ricorrente viene meno con riguardo alla prova dell'an e del quantum dei danni azionati in via risarcitoria. Infatti, in tali ipotesi i fatti oggetto di prova ineriscono alla sfera soggettiva della parte che si assume lesa (soprattutto qualora questa agisca per il risarcimento dei danni non patrimoniali), e le relative fonti di prova si trovano normalmente nella sfera di disponibilità dello stesso soggetto leso.

Pertanto, grava sul ricorrente l'onere di dimostrare la sussistenza e l'ammontare dei danni non patrimoniali azionati in giudizio. CDC



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Inserito in data 31/12/2013
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, 27 dicembre 2013, n. 2966

Risarcimento del danno da impossibile attuazione del diritto alla retrocessione

Il diritto alla retrocessione (applicabile pure quando il procedimento espropriativo si sia concluso con un atto di cessione anziché con un decreto d’esproprio) non risolve ex tunc il precedente trasferimento coattivo, ma attribuisce all'espropriato il diritto potestativo di ottenere la restituzione del bene verso il pagamento di un prezzo commisurato all'indennizzo in precedente da lui percepito in conseguenza dell'ablazione.

La retrocessione è attuata solo dalla pronuncia (costitutiva) del giudice e determina con efficacia ex nunc un nuovo trasferimento, in direzione inversa, dall'espropriante verso l'espropriato, della proprietà del bene. Ciò presuppone l'accertamento dei presupposti e la determinazione del prezzo dietro pagamento del quale la retrocessione è in concreto attuata.

Qualora la sentenza constati l'impossibilità della concreta attuazione del diritto alla retrocessione (perché illecitamente il bene è stato fatto oggetto di una occupazione irreversibile sine titulo, o per altra ragione), sorge il diritto del retrocessionario al risarcimento del danno. Esso è commisurato alla “differenza tra il valore venale del bene al momento della sentenza di accertamento del diritto alla retrocessione ed il prezzo che l'espropriante avrebbe dovuto corrispondere se la restituzione dei beni fosse stata concretamente possibile, valutandosi il bene da retrocedere con gli stessi criteri con cui è stata determinata l'indennità di esproprio”.

Qualora il diritto alla retrocessione sia però prescritto (per il decorso del termine di dieci anni dal momento in cui è divenuto impossibile il compimento dell’opera di pubblica utilità, per scadenza del termine o mutamento delle scelte di politica urbanistica), è escluso che si possa chiedere il risarcimento del danno per l’impossibilità dell’esercizio di tale diritto.

Infatti, in casi simili fa difetto un nesso causale tra l'azione amministrativa e la lesione di una posizione di vantaggio che è collegata ad un'attività, quella funzionale alla realizzazione del diritto potestativo di ottenere la retrocessione del bene, che lo stesso soggetto non ha inteso esercitare: omissione che incide in modo determinante nella produzione del danno lamentato. Ove, dunque, sia stato eliminato in radice il diritto potestativo alla retrocessione, è altresì eliminato il diritto al risarcimento del danno per equivalente. CDC



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Inserito in data 30/12/2013
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 24 dicembre 2013, n. 1070

Illegittimi i limiti minimi di altezza nei concorsi per Agenti di Polizia locale

Con la presente pronuncia, il giudice amministrativo chiarisce il significato dell’art. 31, c.2 del d.lgs. 198/06.

Segnatamente, tale norma non si limita a vietare le discriminazioni in materia di altezza per l’accesso ai pubblici impieghi tra i sessi, imponendo di prevedere limiti differenziati di altezza per uomini e donne; bensì vieta tout court a ciascuna Amministrazione di introdurre, nei propri regolamenti e bandi di concorso, limiti di altezza per l’accesso agli impieghi.

Questa conclusione è suffragata da: la circostanza che la disposizione de qua è riproduttiva del contenuto degli artt. 1 e 2 della l. n. 874/86; il fatto che anche quest’ultima disciplina richiedeva che fosse sentita la Commissione per la parità tra uomo e donna; la necessità di rispettare i limiti imposti dalla legge delega al legislatore delegato, artefice del d.lgs. 198; infine, soprattutto, il fatto che l’art. 31, c.2, demanda ad un apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri l’individuazione dei casi in cui sono ammessi i limiti di altezza.

Poiché il d.p.C.M. n. 411/87, tuttora vigente, non ricomprende i concorsi per Agenti di Polizia Locale tra le ipotesi in cui sono ammessi i limiti di altezza per la partecipazione ai concorsi pubblici, sono illegittimi i bandi e i regolamenti tesi a prevederli.

Da ultimo, “la fissazione di un ulteriore requisito soggettivo di accesso al pubblico impiego (la statura) mediante il regolamento del Corpo di Polizia Municipale appare illegittima anche sotto il profilo dell’inidoneità della fonte (secondaria) prescelta”.

In definitiva, non si può condividere, per tutte le ragioni sopra illustrate, la pretesa di estendere alla Polizia Locale la disciplina prevista per gli Agenti della Polizia di Stato, sul rilievo di una (pretesa) affinità delle mansioni”. TM

 

 



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Inserito in data 28/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 dicembre 2013, n. 6281

Vincolo area golenale , legalità ed esatta interpretazione dell’art. 32 - L. n. 47/85

L’arresto in esame è significativo poiché richiama alcuni principi tracciati dall’Adunanza Plenaria n. 20/99, in tema di apposizione di vincoli di area golenale, successivamente ribaditi da più recenti pronunce dei Giudici di Palazzo Spada.

Più nel dettaglio, il Collegio di primo grado avrebbe avallato la richiesta di condono edilizio avanzata dal ricorrente, valutando come illegittimo il diniego palesato dall’Amministrazione, poiché fondato su un vincolo apposto successivamente all’opera abusiva e quindi ritenuto ininfluente ai fini del condono richiesto.

L’Amministrazione competente, pertanto, avrebbe dovuto rilasciare il condono e non interpellare l’Autorità preposta alla tutela del vincolo – ex art. 32 - L. n. 47/85, posto che, nel caso in esame, l’opera abusiva è stata realizzata anteriormente al vincolo stesso.

Un simile assunto, invece, non è condiviso dai Giudici del gravame i quali, richiamando – in funzione nomofilattica – quanto sancito dalla Plenaria del 1999, ricordano che in ordine alla portata del richiamato articolo 32 “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo ad essa debba darsi soluzione alla stregua dei principi generali in materia di azione amministrativa, tenuto conto della valenza attribuita dall’ordinamento agli interessi coinvolti nell’applicazione della disposizione legislativa in esame”.

Pertanto, è il principio di legalità che sovrasta, come sempre, l’agere amministrativo, con la conseguenza che occorrerà – ad avviso di tali Giudici, sottoporre l’area comunque a controllo, prescindendo dal momento in cui i vincoli di area golenale siano stati apposti.

L’obiettivo, come è evidente, è di vagliare l’attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente, conformemente alla necessità che la pubblica amministrazione, sulla quale a norma dell’articolo 97 della Costituzione incombe più pressante l’obbligo di osservare la legge, deve necessariamente tener conto, nel momento in cui provvede, della norma vigente e delle qualificazioni giuridiche che essa impone.

Dunque, dato il costante perseguimento dell’interesse pubblico, la P.A. è tenuta a negare il condono richiesto nel caso in esame e a rinsaldare l’intervento dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo – ex art. 32 - L. n. 47/85.

Si accoglie, pertanto, il mezzo di gravame proposto dall'Amministrazione competente, condividendone la condotta tenuta nel rispetto del principio di legalità. CC



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Inserito in data 27/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 17 dicembre 2013, n. 6039

Trasformazione del vano in superficie abitabile: occorre il titolo edilizio

Il Collegio della sesta Sezione, respingendo l’appello proposto, conferma un orientamento ormai saldo presso i giudici amministrativi.  

Si ribadisce, in sostanza, la natura vincolata e doverosa dell’attività con cui l’Amministrazione locale dispone la demolizione di un vano – divenuto abitabile a seguito della chiusura di un terrazzo.

Si crea, infatti, una maggiore volumetria, con riguardo alla quale occorre il previo rilascio di un titolo edilizio. Ricordano i Giudici, infatti, che – in casi simili - non è configurabile né una pertinenza, né un intervento di manutenzione straordinaria.

Occorre, pertanto, la previa autorizzazione amministrativa, in carenza della quale è illegittima l’avvenuta realizzazione di una nuova superficie abitabile. CC



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Inserito in data 24/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 dicembre 2013 n. 6024

Manifestamente infondate le censure sollevate da un’azienda farmaceutica sul “pay back”

Al fine di comprendere le motivazioni che hanno indotto il Consesso a rigettare tutte le censure oggetto del ricorso di un’impresa farmaceutica, è necessario tratteggiare succintamente la disciplina del prezzo dei farmaci.

Si tratta di una materia che è stata al centro di continui interventi da parte del legislatore statale, il quale ha cercato di assicurare l’assistenza farmaceutica, da un lato, e di non intaccare l’iniziativa imprenditoriale, dall’altro.

Infatti, l’art. 8, comma 10, della l. 537/1993 ha suddiviso “i medicinali commercializzati in Italia nella categoria “A”, comprensiva dei farmaci essenziali e per le malattie croniche, rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale, e nella categoria “C”, farmaci non rimborsati dallo stesso Servizio”. 

Avuto riguardo ai medicinali di fascia A, invero, la Corte costituzionale, con la sentenza 279/2006, ha rilevato che “fin dal 1997 è stato fissato con legge il margine di ricavo dei soggetti della filiera”, prevedendo altresì che “le quote di spettanza sul prezzo di vendita al pubblico delle specialità medicinali” rimborsabili dal SSN sono “fissate per le imprese farmaceutiche, per i grossisti e per i farmacisti rispettivamente al 66,5%, al 6,65%, al 26,7% sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell’IVA” (ex art. 1, comma 40, della l. 662/1996).

Al contempo, però, l’art. 1, comma 41, della l. 662/1996 ha affermato il principio del “prezzo contrattato”, secondo cui l’eventuale modifica delle quote di spettanza dovute alle imprese farmaceutiche, ai grossisti e ai farmacisti è rimessa “all’autonomia contrattuale dei soggetti del ciclo produttivo e distributivo attraverso convergenti manifestazioni di volontà” (Corte costituzionale sentt. n. 295/2009 e n. 330/2011).

Principio successivamente ribadito dall’art. 48, comma 33, del d.l. 269/2003, convertito in legge dalla l. 326/2003, in virtù del quale “dal 1° gennaio 2004 i prezzi dei prodotti rimborsati al Servizio Sanitario Nazionale sono determinati mediante contrattazione tra Agenzia e Produttori secondo le modalità e i criteri indicati nella del. CIPE 1° febbraio 2001, n. 3, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 73 del 28 marzo 2001”.

In particolare, la summenzionata pronuncia del 2006 si riferisce al sistema antecedente rispetto alla riforma intervenuta con il d.l. 78/2010, secondo cui “nella c.d. filiera del farmaco in fascia A, il sistema di regolazione del prezzo dei medicinali rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale era così ripartito: 66,65% per le imprese farmaceutiche, 6,65% per i grossisti e 26,7% per i farmacisti”.

Le quote de quibus, infatti, sono state rideterminate con il d.l. 78/2010, che, nella formulazione dell’art. 11, comma 6, pre-conversione (l. 122/2010), ha ridotto obbligatoriamente la quota di spettanza dei grossisti dal 6,65% al 3% , “affinché la rimanente quota del 3,65% fosse interamente devoluta a favore dei farmacisti”. L’aumento di quota (dal 26,7% al 30,35%), però, era “sostanzialmente eliminato o neutralizzato dal contestuale sconto imposto ai farmacisti nella stessa misura del 3,65% a favore del Servizio Sanitario Nazionale”.

Ne conseguiva che, “rispetto ai farmacisti e, soprattutto, ai produttori l’originario meccanismo previsto dal decreto-legge era del tutto neutro e improduttivo di effettivi vantaggi o svantaggi economici”.

Tuttavia, l’art. 11, comma 6, in sede di conversione del d. l. 78/2010 in l. 122/2010, ha subito delle modifiche, stante che “è stato ridotto lo sconto obbligatorio inizialmente posto in capo ai farmacisti, passando dall’aliquota del 3,65% all’1,82% sul prezzo di vendita, affinché la differenza di quota risultante da tale riduzione – l’1,83% – fosse posta a carico delle imprese farmaceutiche, mediante l’obbligo di queste ultime di corrispondere direttamente alle Regioni una somma pari all’1,83% del prezzo di vendita al pubblico dei medicinali”. Tale importo, quantificato con metodo tabellare dall’A.I.F.A., doveva essere corrisposto a decorrere dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto, in attesa dell’adozione di una nuova metodologia di remunerazione delle farmacie per i farmaci erogati in regime di Servizio sanitario nazionale.

Ciò posto, il Collegio ritiene manifestamente infondate tutte le censure d’illegittimità costituzionale denunciate dall’impresa farmaceutica ricorrente. Ma procediamo con ordine.

Secondo i Giudici di Palazzo Spada è manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale del predetto art. 11, comma 6 “per violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità di cui agli artt. 3 e 41 Cost.”.  

Permangono, difatti, “le ragioni che hanno indotto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 279 del 7.7.2006, a respingere analoga questione di costituzionalità”.

In primis, quello dei farmaci di fascia A non può definirsi un vero e proprio “mercato”, difettando la logica del profitto pura o le dinamiche concorrenziali di un normale mercato (C. Cost. 279/2006).

Anche a voler prescindere da tale dato, l’esiguità percentuale dello sconto oggetto di contestazione, da un lato, non intacca il margine di utile ragionevole e remunerativo delle imprese produttrici e, dall’altro, garantisce “al più ampio numero di cittadini la più ampia gamma di farmaci essenziali o per malattie croniche”, senza aggravare il bilancio statale.

In secondo luogo, stante che il minimo sacrificio grava congiuntamente su produttori e grossisti, la Corte Costituzionale ha sottolineato la posizione di preminenza dei primi nella c.d. filiera del farmaco, essendo essi gli unici ”a determinare il prezzo contrattato dei farmaci rimborsabili (delibera CIPE n. 3 del 1.2.2011), conoscendone e indicandone i fattori rilevanti” e, di conseguenza, la domanda.

D’altra parte, non si tratta “di una modifica “a regime”, ma di una misura provvisoria, per quanto di non breve durata, destinata ad essere soppiantata da un nuovo e più organico sistema remunerativo, siccome ora prevede l’art. 15, comma 2, del d.l. 95/2012, per quanto tuttora il nuovo metodo sia ancora in fase di gestazione”.

In sostanza, “il legislatore non ha inteso espropriare i profitti delle imprese farmaceutiche, sacrificando la loro libertà economica protetta dall’art. 41 Cost., ma solo imporre un modesto prelievo su tali utili in misura da garantire, insieme, un risparmio della spesa sanitaria in ambito farmaceutico, incidendo temporaneamente … sui profitti dei produttori nel perseguimento di un interesse pubblico, certamente … preminente su quello egoistico da essi fatto valere, all’erogazione di essenziali livelli di assistenza farmaceutica”.     

In riferimento alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., invece, il Supremo Consesso ritiene “che il favor legis riservato dall’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010, siccome modificato in sede di conversione, alla categoria dei farmacisti, nell’ambito della c.d. filiera del farmaco, risponda ad una legittima e, comunque, non sproporzionata né arbitraria redistribuzione della ricchezza all’interno della filiera stessa, non soltanto per la eccessiva differenza quantitativa ritenuta evidentemente esistente dal legislatore tra la precedente quota assegnata ai produttori e quella riservata ai farmacisti rispetto all’effettivo contributo rispettivamente dato da questi alla rete distributiva dei farmaci di fascia A, …, ma anche per la volontà di aiutare l’anello evidentemente stimato dal legislatore più debole della catena distributiva, quello dei farmacisti, in un evidente momento di generalizzata crisi economica, rispetto alla posizione di maggior e preponderante forza, imprenditoriale e contrattuale, di cui indubbiamente gode la categoria dei produttori ”.

Deve, inoltre, aggiungersi che lo sconto di cui è controversia “dev’essere comunque considerato e contestualizzato, sia sul piano sistematico che su quello cronologico, nella cornice predisposta dall’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010, una cornice improntata ad una provvisorietà”.

Del pari, deve considerarsi manifestamente infondata “la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010 rispetto all’art. 3 Cost. in combinazione con altri parametri costituzionali e, in particolare e rispettivamente, con gli artt. 4, 9, 41 e 53 Cost.”.

Alla luce del combinato disposto dell’art. 53 Cost. con l’art. 3 Cost., il principio di “eguaglianza tributaria” prescrive che “a situazioni eguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario diseguale” (Corte cost., 6.7.1972, n. 120).

Il fondamento solidaristico della capacità contributiva, “per altro verso, non può che condurre ad un maggior prelievo di ricchezza da parte dei soggetti che manifestano una capacità economica maggiore, quali appunto, nel caso di specie e incontestabilmente, sono i produttori, e può comportare una redistribuzione di tale ricchezza in favore dei soggetti che, anche all’interno del medesimo settore economico, sopportano oneri e/o difficoltà soverchianti o, comunque, sproporzionati rispetto alla loro attuale capacità, quali sono appunto i farmacisti”.

Questo spostamento di ricchezza “comporta un riequilibrio dell’intero settore farmaceutico e, quindi, un beneficio, per quanto indiretto, all’intera filiera del farmaco nel suo complesso e, per questa via, all’intera collettività”.

Il Collegio disattende anche le dedotte violazioni degli artt. 3, 4, 9, e 41 Cost., escludendosi “un nesso di necessaria derivazione causale tra riduzione del profitto, peraltro in misura percentuale esigua e in riferimento ai soli farmaci di fascia A, e asserito – ma mai dimostrato – calo degli investimenti nella ricerca o dell’occupazione o addirittura totale, ancorché indimostrata, compressione della libertà d’impresa”.

E’, altresì, manifestamente infondata anche “la violazione degli artt. 3 e 41 Cost. da parte dell’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010, laddove questo avrebbe inciso sul legittimo affidamento riposto dalle imprese farmaceutiche in ordine a quanto pattuito in sede di contrattazione del prezzo e delle condizioni di cessione dei medicinali di fascia A al Servizio sanitario nazionale”.

A tal proposito, la Corte costituzionale, 16.12.2011, n. 330, ha affermato che il “principio dell’autonomia contrattuale e il sistema del prezzo contrattato, in questo come in altri settori dell’ordinamento, non costituiscono valori assoluti e inderogabili, poiché sullo sfondo, invero, dei diversi interventi normativi succedutisi in materia si è sempre posta l’esigenza di coniugare “una necessaria opera di contenimento della spesa farmaceutica” con la garanzia che continuino ad erogarsi a carico del Servizio sanitario nazionale i farmaci reputati, secondo un apprezzamento tecnico-scientifico, idonei a salvaguardare il diritto alla salute degli assistiti”.

In altre termini, il principio dell’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) può essere derogato dalla “necessità di assicurare il rispetto di ben altri, fondamentali e, comunque, prevalenti valori costituzionali, quali il diritto alla salute (art. 32 Cost.)”.  

Peraltro, già nel 2006, il Giudice delle Leggi, avuto riguardo ad analoga misura di sconto obbligatorio imposto ai produttori sui farmaci di fascia A, “ha rilevato che la sfera dell’autonomia privata non riceve dall’ordinamento una protezione assoluta, sì che “la sua lamentata compressione nella determinazione del prezzo non è costituzionalmente illegittima quando si riveli preordinata a consentire il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti”.

In special modo, con l’imposizione dello sconto ai produttori il legislatore mira a “realizzare il contenimento della spesa sanitaria in vista del fine di utilità sociale costituito dalla garanzia del più ampio godimento del diritto alla assistenza farmaceutica, lasciando comunque all’imprenditore un più ridotto ma ragionevole margine di utile” (Corte cost., 7.7.2006, n. 279).

Tale principio, quindi, è valido e deve essere applicato “anche allo sconto obbligatorio dell’1,83% introdotto dall’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010”. 

Dal canto suo, la stessa terza sezione del Consiglio di Stato, in altre pronunce, ha sostenuto che l’estensione di principi ed istituti privatistici al diritto amministrativo può rivelarsi impropria o erronea, “in quanto essi non sempre e comunque sono compatibili, ad onta di un’artificiosa e velleitaria reductio ad unitatem dell’ordinamento, con la mutevole, complessa, specifica e spesso sfuggente fenomenologia dell’interesse pubblico”.

Ne discende che la libertà di iniziativa economica privata (di cui l’autonomia contrattuale è certo massima espressione) “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla dignità umana”; con la conseguenza che la legge può introdurre anche programmi diretti ad indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata a fini sociali.

Né può ritenersi che l’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010, siccome convertito con l. 122/2010, violi il principio di ragionevolezza.

Il calcolo dello sconto dell’1,83% è corretto se effettuato sul “prezzo al pubblico” e non, come sostenuto dalla ricorrente, in base al valore “prezzo massimo di rimborso per il principio attivo”, riportato nella lista di trasparenza.  

La manifesta infondatezza della disposizione in esame si estende anche alla (denunciata) mancata distinzione, nell’ambito dei farmaci inseriti in lista di trasparenza ai sensi dell’art. 7 del d.l. 347/2001, tra quota rimborsata dal Servizio sanitario nazionale e quota pagata dall’assistito, “imponendo alle imprese farmaceutiche, su entrambe e indistintamente, lo sconto dell’1,83%”.

Il senso complessivo della manovra, infatti, non è il rimborso di quanto anticipato dal Servizio sanitario nazionale sui farmaci equivalenti, ma il prelevamento forzoso di “quanto nel complesso guadagnato dai diversi soggetti della filiera incisi, anche laddove il prezzo di tali farmaci, come nell’ipotesi dei farmaci equivalenti inseriti nelle liste di trasparenza, sia stato corrisposto – in parte – dai cittadini e non sia a totale carico del Servizio sanitario nazionale”.

In pratica, l’uso del termine “pay back” (peraltro mai menzionato dalla legge) è atecnico, atteso che non rileva, “ex latere debitoris, chi – se il Servizio sanitario nazionale o il cittadino – e in che misura abbia pagato il prezzo del farmaco, ma chi e in che misura, ex latere creditoris, abbia percepito questo prezzo”.

L’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010 prevede, infatti, che a “decorrere dal 31.5.2010 le imprese farmaceutiche, sulla base delle tabelle approvate dall’A.I.F.A. e definite per Regione e per singola azienda, “corrispondono” – e non già “rimborsano” o “restituiscono” – alle Regioni medesime un importo dell’1,83% sul prezzo di vendita al pubblico al netto dell’imposta sul valore aggiunto dei medicinali erogati in regime di Servizio sanitario nazionale”.

Il Consiglio di Stato ritiene manifestamente infondata anche la lamentata violazione dell’art. 7 della l. 241/1990, per la particolare modalità con cui lo sconto obbligatorio è stato previsto e configurato dall’art. 11, comma 6, del d.l. 78/2010.

Invero, “il contenuto dei provvedimenti applicativi, emanati dall’A.I.F.A., è totalmente vincolato rispetto ai parametri in astratto prefissati dalla legge, sicché non si comprende … quale sarebbe potuto essere il concreto apporto partecipativo che l’impresa farmaceutica avrebbe potuto dare al procedimento in questione, dove alcuno spazio discrezionale era lasciato all’Amministrazione nel determinare l’importo da versare. Osta, invero, all’applicazione dell’art. 7 della l. 241/1990 “ il chiaro disposto dell’art. 13, comma 2, della stessa legge, secondo cui le norme sulla partecipazione – tra le quali figura proprio, per definizione, l’art. 7 – non si applicano ai procedimenti tributari, e comunque, quand’anche non si condivida … la natura impositiva dello sconto in questione, anche l’altrettanto chiaro disposto dell’art. 21-octies, comma 2, della stessa l. 241/1990EMF



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Inserito in data 23/12/2013
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, SENTENZA 13 dicembre 2013, n. 937

Sulla validità dell’offerta sottoscritta dall’amministratore unico uscente

Con la pronuncia in epigrafe, i Giudici palermitani sostengono che: “Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2383, comma 4, 2385, comma 3, e 2193 c.c., l’iscrizione nel registro delle imprese della nomina e della cessazione degli organi societari, pur avendo efficacia dichiarativa e non costitutiva, nel senso che l’avvicendamento degli organi sociali è valido ed efficace sin dal momento dell’adozione della delibera dell’assemblea, determina il momento in cui l’evento societario diviene opponibile ai terzi di buona fede”.

Ne consegue che rimane “privo di rilievo, sul piano della rappresentanza della società partecipante alla gara, il fatto che solo successivamente alla presentazione della relativa offerta l’avvenuta cessazione e sostituzione del suo amministratore unico sia stata annotata nel registro delle imprese”. EMF

 

 



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Inserito in data 20/12/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I Ter, 10 dicembre 2013, n. 10615

Necessità di comunicazione di avvio del procedimento di proroga

Il decreto di proroga dei termini della procedura di espropriazione, nel caso in cui venga adottato in assenza di previa comunicazione di avvio del relativo procedimento agli interessati, è da considerarsi come illegittimo.

Sulla base di tale assunto, è da rilevare che tale comunicazione è necessaria ed indispensabile anche nel procedimento finalizzato alla proroga dei termini del provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità, nonostante emerga pienamente la sua natura di sub-procedimento (e, dunque, la sua natura autonoma), all'interno di un procedimento generale volto alla dichiarazione di pubblicità utilità, anche se implicito, nella approvazione del progetto di opera pubblica.

È da considerare che alla luce dell'art.21-septies della Legge n.241 del 1990, è nullo il decreto di proroga dei termini della procedura di espropriazione intervenuto dopo la scadenza del termine da prorogare, poiché adottato, in tal senso, in carenza di potere.

La conseguenza è che non potranno neanche porsi delle questioni circa la tempestività della sua impugnazione poiché tale invalidità potrà esser fatta valere da chiunque vi abbia interesse e potrà anche essere rilevata d'ufficio dal giudice.

Si mette in chiaro che la realizzazione dell'opera pubblica, su di un fondo occupato illegittimamente, è da considerarsi un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo di acquisto del bene e, in quanto tale, non idoneo a determinare il trasferimento della proprietà.

Dunque, solo il formale atto di acquisizione della Amministrazione potrà essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi o abdicativi della proprietà in altri comportamenti o fatti.

Viene rilevato, inoltre, che affinché una determinata area privata possa far parte del demanio stradale, non è sufficiente che sulla strada si esplichi, di fatto, il transito pubblico, essendo piuttosto necessario che sia intervenuto un determinato atto, ad esempio una convenzione ovvero una espropriazione, che ne abbia trasferito il dominio alla Pubblica Amministrazione e che la strada sia destinata, dalla stessa Pubblica Amministrazione, all'uso pubblico.

Altresì, non è sufficiente la mera “destinazione all'uso pubblico”, ai fini della configurazione dell'acquisto di proprietà di una strada al pubblico demanio, essendo necessario un vero e proprio atto di “acquisizione” della proprietà, che in tal caso difetta.

Alla luce della considerazione secondo la quale la teoria della occupazione acquisitiva è già stata da tempo superata e non se ne fa, dunque, alcuna applicazione, tale atto non potrà essere dunque individuato nella mera occupazione illegittima del bene. GMC

 



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Inserito in data 20/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SECONDA, SENTENZA 19 dicembre 2013, n. 28419

Vendita “aliud pro alio”, vizi redibitori e mancanza di qualità

La Suprema Corte si sofferma, in tema di compravendita, in merito ai vizi redibitori ed alla mancanza di qualità, le cui azioni sono soggette ai termini di decadenza e prescrizione di cui all'art.1495 del codice civile.

Tali due ipotesi si differenziano dalla c.d. consegna di aliud pro alio, la quale dà luogo ad un'ordinaria azione di risoluzione contrattuale, che non tiene conto delle condizioni ex art. 1495 prima citato.

La vendita aliud pro alio ricorre allorquando la diversità tra il bene venduto ed il bene consegnato incide sulla natura, nonché sulla individualità, consistenza e destinazione di quest'ultima, in modo così incisivo da giungere a ritenere che essa possa appartenere ad un genere del tutto diverso da quello posto che formava l'oggetto della volontà dell'acquirente prima della vendita medesima, ovvero che presenti dei difetti talmente rilevanti che impediscono materialmente di assolvere alla funzione per cui è preordinato il bene o a quella concreta ed effettiva assunta come essenziale dalle parti (si tratta della cosiddetta inidoneità ad assolvere la funzione economico – sociale), facendola, in tal senso, assurgere ad un rango nettamente differente rispetto a quello per cui il contratto era preordinato in principio. GMC




Inserito in data 19/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 5 dicembre 2013, n. 27266

Persiste l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time e professione forense

Per effetto della l. n. 339/2003, la professione di avvocato era divenuta incompatibile con quella di pubblico dipendente part-time.  Il d.l. n. 138/11 ha inciso sulla disciplina in esame, sancendo il principio della libertà di accesso alle professioni regolamentate, salvi i limiti individuati con legge.

La Corte di Cassazione ritiene che tale jus superveniens non abbia tacitamente abrogato la normativa del 2003. Ciò in quanto “l’incompatibilità tra impiego pubblico part-time ed esercizio della professione forense risponde ad esigenze specifiche di interesse pubblico correlate proprio alla peculiare natura di tale attività privata ed ai possibili inconvenienti che possono scaturire dal suo intreccio con le caratteristiche del lavoro del pubblico dipendente; la legge n. 339/2003 è finalizzata infatti a tutelare interessi di rango costituzionale quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A. (art. 97 Cost.) e l’indipendenza della professione forense onde garantire l’effettività del diritto di difesa (art. 24 Cost.); in particolare la suddetta disciplina mira ad evitare il sorgere di possibile contrasto tra interesse privato del pubblico dipendente ed interesse della P.A., ed è volta a garantire l’indipendenza del difensore rispetto ad interessi contrastanti con quelli del cliente; inoltre il principio di cui all’art. 98 della Costituzione (obbligo di fedeltà del pubblico dipendente alla Nazione) non è poi facilmente conciliabile con la professione forense, che ha il compito di difendere gli interessi dell’assistito, con possibile conflitto tra le due posizioni”.

Tale opzione legislativa non è manifestamente irragionevole, essendo “coerente con la caratteristica peculiare della professione forense dell’incompatibilità con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario” (art. 3 del R. D. L. 27-11-1933 n. 1578)”.

Inoltre, la disciplina de qua non determina una disparità di trattamento alla rovescia in danno degli avvocati italiani rispetto a quelli comunitari stabiliti o integrati in Italia, perché deve ritenersi che neppure questi ultimi possano svolgere attività di lavoro subordinato presso i loro Stati di origine.

Ancora, la l. n. 339/2003 non lede il diritto al lavoro (Artt. 4 e 35 Cost.), essendo rimessa alla discrezionalità del legislatore determinare i tempi e i modi in cui tale diritto deve essere assicurato, né viola l’art. 41 Cost., poiché l’attività dei dipendenti pubblici non può essere considerata attività economica come quella di impresa.

Tale legge del 2003 non viola nemmeno il legittimo affidamento di coloro che al momento della sua entrata in vigore svolgevano sia attività di lavoro subordinato part time, sia la professione forense, perché è consentito al legislatore emanare disposizioni modificative in senso sfavorevole per i beneficiari della disciplina dei rapporti di durata, purché queste ultime non trasmodino in un regolamento irrazionale: nel caso di specie, la non irragionevolezza traspare dal fatto che agli interessati era stato concesso un triennio per optare per l’uno o per l’altro percorso professionale.  

Da ultimo, tale disciplina non contrasta coi principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, perché funzionale ad assicurare l’indipendenza e l’integrità della professione forense, come riconosciuto dalla stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea. TM




Inserito in data 19/12/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 17 dicembre 2013, n. 310

Legittimo il blocco triennale degli aumenti retributivi dei docenti universitari

Con la decisione in esame, la Corte costituzionale ha reputato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, primo, secondo e terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010. Tale norma prevede per il personale non contrattualizzato di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165/01, tra cui i docenti universitari, il blocco per il triennio 2011-2013: a) dei meccanismi di adeguamento retributivo; b) degli automatismi stipendiali (classi e scatti) correlati all’anzianità di servizio; c) di ogni effetto economico delle progressioni in carriera.

In particolare, la Corte ha ritenuto tale norma non in contrasto con l’art. 77 Cost. poiché “la protrazione nel tempo – anche se non senza limiti − delle misure previste non contraddice la sussistenza della necessità ed urgenza, attese le esigenze di programmazione pluriennale delle politiche di bilancio”.

Né la disposizione esaminata viola gli artt. 3, 97, 36 e 53 Cost., poiché a tale disposizione “non può riconoscersi natura tributaria, atteso che non danno luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a reperire risorse per l’erario”.

E’ stata ritenuta infondata anche la censura per contrasto con gli artt. 9, 33, 34 e 97 Cost., poiché il diritto di darsi ordinamenti autonomi riconosciuto alle università “non attiene allo stato giuridico dei professori universitari” […], “i quali sono legati da rapporto di impiego con lo Stato e sono di conseguenza soggetti alla disciplina che la legge statale ritiene di adottare”.

Inoltre, è stata rigettata la censura per violazione dell’art. 3 Cost., sulla base di diverse ragioni. In primis, non si configura una disparità di trattamento rispetto alla magistratura, poiché la dichiarazione di incostituzionalità della norma che bloccava gli stipendi dei magistrati si giustifica in base alla peculiarità dell’ordinamento della magistratura (in cui gli aumenti retributivi sono automatici al fine di assicurare l’indipendenza dei magistrati); né è ravvidabile una disparità di trattamento irragionevole rispetto ad altro personale non contrattualizzato (es. avvocati e procuratori dello Stato e le Forze di polizia), stante la specificità di ciascuna categoria professionale in regime di diritto pubblico. In secundis, il blocco stipendiale è ragionevole, in quanto eccezionale (perché teso a far fronte alla crisi economica internazionale), non arbitrario (perché esteso all’intero comparto del pubblico impiego e in armonia col complessivo quadro, giuridico-economico, nazionale ed europeo), consentaneo allo scopo di contenere la spesa pubblica (tant’è che sono stati espressamente esclusi i successivi recuperi), nonché temporalmente limitato (al triennio 2011-2013).

Non è neppure “ravvisabile la lesione dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, atteso che… il legislatore può anche emanare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, sempre che tali disposizioni «non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto»”.

Non risulta neanche violato il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’art. 36 Cost., riferendosi lo stesso alla retribuzione complessiva e non alle singole voci.

Né il blocco è irragionevole alla luce del sistema di valutazione delle attività didattiche, di ricerca e gestionali, essendo tale sistema pensato per garantire la qualità dell’offerta universitaria e non solo finalizzato all’avanzamento in carriera dei docenti e ricercatori universitari.

Infine, la Corte reputa ragionevole la scelta di colpire ugualmente tutti i docenti universitari, sebbene ciò danneggi particolarmente i più giovani, atteso che l’urgenza della manovra non ha reso possibile effettuare distinzioni tra i vari pubblici dipendenti e, del resto, trattasi di scelte di politica economico sociale, sindacabili dalla Corte costituzionale solo per manifesta irragionevolezza. TM



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Inserito in data 18/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 17 novembre 2013, n. 6033

Lottizzazione abusiva ed omessa comunicazione di avvio del procedimento

La pronuncia in esame, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante, ricorda come il provvedimento - con cui un’Amministrazione comunale contesta l’avvenuta lottizzazione abusiva di un fondo, si ponga quale epilogo di un procedimento partecipato.

Occorre, dunque, la previa comunicazione di avvio – ex articolo 7 L. 241/90.

Si è in presenza, infatti, di un procedimento in cui emergono diversi interessi delle parti, la cui presenza è requisito di legittimità dello stesso.

Né depone in senso contrario, prosegue il Collegio, il fatto che il potere sanzionatorio – esercitato dall’Amministrazione in circostanze simili - abbia natura vincolata.

Preme, dunque, garantire la piena partecipazione procedimentale – come richiesta dagli odierni appellanti il cui mezzo di gravame, pertanto, viene accolto. CC



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Inserito in data 18/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 dicembre 2013, n. 6018

Rideterminazione importo aiuto comunitario, recupero somme e profili di giurisdizione

I Giudici di Palazzo Spada ribadiscono la posizione assunta dalla recente Adunanza Plenaria n. 17 del 29 luglio scorso – riguardo alla corretta individuazione del Giudice competente in sede di aiuti comunitari e riliquidazione degli stessi.

Nella specie, infatti, si tratta di una rideterminazione di importi dovuti, limitatamente ai quali si profilava la necessità di quantificare il riconoscimento di un eventuale beneficio, o le motivazioni di un presunto venir meno dello stesso.

Ricorre, pertanto, una situazione in cui la P.A. istante è chiamata a vagliare l’an, il quid ed il quomodo dell’erogazione: si configura, dunque, l’esercizio di un potere discrezionale a fronte del quale è ravvisabile la giurisdizione amministrativa.

Vi è, in sostanza, una valutazione comparativa degli interessi pubblici in gioco, a dispetto di quanto addotto dal Collegio di primo grado che, invece, presumendo un comune inadempimento, scorgeva una giurisdizione ordinaria.

Quest’ultima ricorre, invero, nelle ipotesi in cui il contributo o la sovvenzione è riconosciuto direttamente dalla legge e, alla P.A., sia demandato esclusivamente il controllo in ordine all'effettiva sussistenza dei presupposti puntualmente indicati dalla legge stessa.

Tanto non ricorre nella fattispecie concreta in cui, pertanto, va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, con rinvio al TAR per la trattazione della causa nel merito, ai sensi dell’art. 105, comma 1, C.p.A. CC



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Inserito in data 17/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 dicembre 2013, n. 6017

Sulla prova del danno da perdita di chance

In tema di danno per perdita della chance di (ri)partecipare ad una nuova procedura selettiva, si ribadisce che occorre la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi, dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile.

Pertanto, la parte che chiede il risarcimento dei danni è tenuta a fornire in modo rigoroso la prova degli elementi costitutivi del danno, tra cui la prova del nesso eziologico e dell’'entità del danno, oltre che della c.d. spettanza del bene della vita (vale a dire, nella fattispecie, della certezza della nomina in assenza dell'attività illegittima dell’Amministrazione, ovvero, quantomeno, la ragionevole probabilità di conseguirla secondo un criterio di normalità ).

Dunque, poiché il risarcimento del danno da perdita di chance va ancorato ad indefettibili presupposti di certezza dello stesso, bisogna escludere il caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una "eventualità" di conseguimento del bene della vita. CDC



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Inserito in data 17/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 dicembre 2013, n. 6015

Legittimazione attiva in tema di opposizione di terzo ordinaria

È legittimato ad impugnare una sentenza con opposizione di terzo ordinaria non solo colui il quale aspirava al medesimo bene conseguito dal ricorrente vittorioso, ma anche colui che intenda difendere un bene della vita inciso negativamente, nella sua integrità o nel suo valore, dalla sentenza opposta.

Comunque, gli opponenti devono essere titolari di una posizione giuridica differenziata, qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo, rispetto all’esercizio del potere da parte della PA che venga di volta in volta in considerazione.

La legittimazione a proporre opposizione di terzo nei confronti di una sentenza del giudice amministrativo resa tra altri soggetti va dunque riconosciuta ai controinteressati pretermessi tout court, ai controinteressati pretermessi perché sopravvenuti, ai controinteressati non facilmente identificabili e, più in generale, ai terzi titolari di una situazione giuridica autonoma ed incompatibile, rispetto a quella riferibile alla parte risultata vittoriosa per effetto della sentenza oggetto di opposizione.

Deve trattarsi, in altre parole, di soggetti, che, rispetto al potere specificamente esercitato, in virtù di una posizione di collegamento qualificato individuabile sulla base del complesso delle norme di azione (per quanto in particolare riguarda gli interessi legittimi), potrebbero valersi di azione autonoma e diretta per la tutela delle suddette posizioni. CDC

 



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Inserito in data 16/12/2013
TAR PIEMONTE – TORINO, SEZ. II, 12 DICEMBRE 2013, n. 1336

I Consiglieri comunali possono presentare le dimissioni anche al Segretario comunale

Con la pronuncia in epigrafe il Consesso piemontese, nel ritenere “adeguatamente soddisfatto il requisito formale imposto dal comma 8 dell'art. 38 del T.U.E.L.”, attribuisce ai Consiglieri comunali la possibilità di rassegnare le dimissioni direttamente nelle mani del Segretario Comunale.    

Infatti, è necessario che “l'applicazione pratica delle disposizioni in tema di dimissioni dalla carica di consigliere comunale (anche in relazione alle conseguenze per ciò che attiene all'eventuale scioglimento dell'Organo elettivo) non obliteri in modo ingiustificato le prerogative di altri soggetti operanti nell'ambito dell'organizzazione dell'Ente, ovvero ne ignori in modo indebito la sfera di competenze”; di guisa che si deve “tenere in adeguata considerazione l'inscindibile nesso funzionale che lega l'attività del segretario comunale a quella dell'Organo consiliare, individuando il primo quale soggetto istituzionalmente deputato a svolgere funzioni consultive referenti e di assistenza alle riunioni dell'Organo elettivo, curandone altresì la verbalizzazione (in tal senso: comma 4, lettera d) dell'art. 97 del T.U.E.L.)” (cfr. Cons. St., Sez. VI, 19.08.2009 n. 4982). 

La riforma del 2000, peraltro, nell’enfatizzare il richiamato nesso funzionale, ha superato “il previgente modello delineato dalla legge n. 142 del 1990 (in cui il ruolo del segretario era limitato alla sola verbalizzazione degli atti consiliari)” ed ha istituito “un nuovo modello nel cui ambito il segretario si atteggia quale garante della legittimità e della correttezza dell'azione amministrativa dell'Ente locale”. Pertanto, oltre ad essere segretario ex lege dell'Assemblea elettiva, il Segretario comunale “riveste un innegabile ruolo di interfaccia istituzionale dell'intera attività dell'Organo, con un'ampiezza di funzioni che non appare passibile di interpretazioni restrittive”.

In particolare, l’interpretazione estensiva dell’art. 38, comma 8, del T.U.E.L.  è volta a contemperare (secondo il canone di proporzionalità), da un lato, “l'esigenza a che l'espressione della volontà del consigliere dimissionario sia assistita da particolari formalità (anche al fine di garantire la genuinità dell'espressione di un atto dalle rilevanti conseguenze politiche ed istituzionali)” e, dall’altro, “anche l'esigenza a che l'applicazione della pertinente disciplina non si presti ad utilizzazioni sterilmente formalistiche ovvero palesemente strumentali, quali quelle che potrebbero derivare da una sorta di 'monito' politico veicolato attraverso un atto formalmente - e deliberatamente - inefficace (le dimissioni presentate in forme non rituali), ma del pari idoneo a sortire conseguenze di carattere politico e ad alterare gli equilibri istituzionali esistenti in seno all'Ente locale”. EMF

 

 



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Inserito in data 16/12/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 dicembre 2013, n. 299

Sulla q.l.c. dell’aiuto di Stato non notificato alla Commissione europea

Ai sensi dell’art. 107 TFUE (in precedenza art. 87, paragrafo 1, del Trattato della Comunità europea) gli aiuti di Stato incompatibili con il mercato interno “consistono in agevolazioni di natura pubblica, rese in qualsiasi forma, in grado di favorire talune imprese o talune produzioni e di falsare o minacciare di falsare in tal modo la concorrenza, nella misura in cui incidono sugli scambi tra gli Stati membri”.

In particolare, “i requisiti costitutivi di detta nozione, individuati dalla legislazione e dalla giurisprudenza comunitaria, possono essere così sintetizzati: a) intervento da parte dello Stato o di una sua articolazione o comunque impiego di risorse pubbliche a favore di un operatore economico che agisce in libero mercato; b) idoneità di tale intervento ad incidere sugli scambi tra Stati membri; c) idoneità dello stesso a concedere un vantaggio al suo beneficiario in modo tale da falsare o minacciare di falsare la concorrenza (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 17 novembre 2009, C-169/08); d) dimensione dell’intervento superiore alla soglia economica minima che determina la sua configurabilità come aiuto «de minimis» ai sensi del regolamento della Commissione n. 1998/2006, del 15 dicembre 2006 (Regolamento della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e 88 del trattato agli aiuti d’importanza minore «de minimis»)”.

Peraltro, “l’ordinamento comunitario riserva alla competenza esclusiva della Commissione europea, sotto il controllo del Tribunale e della Corte di giustizia, la verifica della compatibilità dell’aiuto con il mercato interno, nel rispetto dei regolamenti di procedura in vigore”.

Viceversa, il giudice nazionale “ha una competenza limitata a verificare se la misura rientri nella nozione di aiuto ed in particolare se i soggetti pubblici conferenti gli aiuti rispettino adempimenti e procedure finalizzate alle verifiche di competenza della Commissione europea” (Corte Costituzionale, sentenza n. 185 del 2011). Egli deve, in sostanza, accertare l’osservanza dell’art. 108, n. 3, TFUE, e cioè l’avvenuta notifica dell’aiuto.

Alla luce di queste considerazioni, il Giudice delle Leggi ritiene che: “l’art. 1 della legge reg. Abruzzo n. 69 del 2012, nell’attribuire un finanziamento a favore dell’aeroporto d’Abruzzo di euro 5.500.000,00, senza notifica del progetto di legge alla Commissione ed in assenza di previo parere favorevole di quest’ultima, si pone in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost. e con l’art. 108, paragrafo 3, TFUE e deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo”.

Tale illegittimità costituzionale si riverbera, in via consequenziale, anche sugli artt. 2 e 3 della stessa legge reg. Abruzzo n. 69 del 2012.  EMF



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Inserito in data 13/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 dicembre 2013, n. 5823

Autotutela e risarcimento del danno

Il Consiglio di Stato  stabilisce che al di fuori di alcuni, specifici, settori, tra cui quello degli appalti pubblici, non sussiste responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per danno da provvedimento illegittimo senza che vi sia il concorso dell'elemento soggettivo, generalmente, in tale sede, identificabile nella colpa.

Una volta accertata l'illegittimità del provvedimento amministrativo, infatti, questa rappresenta solamente uno tra gli indici presuntivi della colpevolezza difatti, ai fini della sua valutazione, devono esser tenuti in considerazione anche altri fattori tra i quali, ad esempio, la semplicità del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il grado di chiarezza della normativa applicabile ed anche il carattere vincolato o discrezionale dell'azione amministrativa.

La Pubblica Amministrazione che abbia rilasciato la concessione per poi, successivamente, annullarla in autotutela, sfugge ad un giudizio di riprovazione circa il comportamento tenuto e, quindi, non consente di imputare alla stessa quello che è il pregiudizio sofferto dall'originario concessionario dinnanzi ad una questione di difficile soluzione. GMC



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Inserito in data 13/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ.V, SENTENZA NON DEFINITIVA 5 dicembre 2013, n. 5786

Revoca dell'aggiudicazione dopo la stipula del contratto: rimessione alla Plenaria

Alla luce dell'art. 99, comma 1, del codice del processo amministrativo, viene rimessa all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la questione concernente la possibilità, per la Pubblica Amministrazione, di esercitare il potere di revoca dell'aggiudicazione nonostante sia avvenuta la stipula del contratto.

È necessario che sulla domanda non si pronunci il giudice sfornito di giurisdizione e che questa possa essere riproposta davanti al giudice munito della stessa, seguendo il disposto dell'art. 59 della Legge n. 69 del 2009 che ha - difatti disciplinato, per la prima volta, la figura della c.d.translatio iudicii.

Il giudice, deve dunque esser munito della “potestas iudicandi”; quell'imprescindibile presupposto processuale che lo legittima a pronunciarsi sulla domanda.

La revoca, così come in tale sede intesa, trova alcune somiglianze con il recesso, così come contemplato dal diritto civile, una tra tutte la struttura unilaterale, viene, difatti, contemplato in dottrina come un vero e proprio diritto potestativo.

Alla luce degli articoli 1372 e 1373 del codice civile, il recesso trova la propria fonte in una clausola negoziale o in una norma di legge autorizzativa, si richiede che sia portato a conoscenza dell'altro contraente e non sono necessari particolari oneri, essendo sufficiente il rispetto dei canoni della buona fede oggettiva nonché della correttezza nella attuazione dei rapporti obbligatori alla luce degli articoli 1375 e 1175 del codice civile.

Si rileva altresì che l'art. 21-septies della legge 241 del 1990, ha ricondotto nell'ambito dei vizi di annullabilità tutte le ipotesi concernenti la “carenza di potere” in concreto, confinando in quella prevista di difetto assoluto di attribuzione.

L'essenza del vizio della nullità risiede, sostanzialmente, nella inconfigurabilità della fattispecie concreta rispetto a quella astratta, da potersi accertare mediante una pronuncia meramente dichiarativa, essendo costituita da una radicale inefficacia, ovvero da una inidoneità dell'atto a produrre gli effetti da esso tipicamente prodotti, della generale legittimazione alla impugnativa nonché dalla insuscettibilità di sanatoria mediante convalida. La nullità consiste, dunque, in una patologia sicuramente ben più grave rispetto a quella della annullabilità; essa richiede, dunque, la sua conoscibilità in concreto mediante un riscontro estrinseco del deficit dell'atto rispetto a quello che è il suo paradigma legale, ravvisabile tipicamente nelle ipotesi estreme di difetto assoluto di attribuzione o di incompetenza assoluta. GMC

 



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Inserito in data 12/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 dicembre 2013, n. 5950

Competenza TAR Lazio per controversie su accesso ai provvedimenti della Banca d’Italia

La sentenza in esame afferma la competenza del TAR Lazio relativamente alle controversie sull’accesso ai provvedimenti della Banca d’Italia.

Ciò si fonda, anzitutto, sull’art. 135 cpa, che indica le controversie devolute funzionalmente alla competenza inderogabile del TAR Lazio, fra le quali vi sono quelle “di cui all’articolo 133, comma 1, lettera l)”, cioè “aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Banca d’Italia”.

Secondo il Consiglio di Stato, “le decisioni di accoglimento, diniego, limitazione o differimento dell’accesso, - come ogni provvedimento, sia pure come tale assunto in senso lato,- incidono su una specifica posizione giuridica soggettiva, volta ad acquisire la conoscenza necessaria a valutare l’effetto lesivo di atti o comportamenti dell’amministrazione, onde scaturiscono da un esercizio valutativo “funzionalizzato”, nella specie relativo ai presupposti e requisiti legittimanti all’accesso, normativamente effettuato nel bilanciamento con altri interessi tutelati; tanto che le medesime determinazioni devono essere motivate e sono oggetto di un giudizio comunque a carattere impugnatorio.”

Tali caratteri soddisfano le ragioni per le quali l’ordinamento prevede ipotesi di competenza funzionale del TAR Lazio, e cioè la “particolare natura dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento impugnato” o la “esigenza di favorire fin dal primo grado l’omogeneità della giurisprudenza” (in tal senso, Ad. Plen. 25 giugno 2012, n. 23).

Non c’è dubbio, infatti, che “i provvedimenti della Banca D’Italia sono volti alla tutela di un interesse pubblico di delicatezza e rilevanza tali da chiedere, già in primo grado, la concentrazione delle relative controversie preso un unico giudice, così da assicurare una giurisprudenza specializzata e uniforme quale obbiettivo, ritenuto altresì essenziale, per il miglior perseguimento dell’interesse pubblico sotteso ai provvedimenti impugnati”.

Da ciò deriva che “il giudizio sulla conoscibilità del contenuto di tali provvedimenti, in sede di accesso, non può che spettare al giudice funzionalmente competente a decidere sulla loro impugnazione, poiché egli soltanto, individuato dall’ordinamento come specializzato a valutare quanto il contenuto dei provvedimenti sia o meno coerente con l’interesse pubblico con essi da perseguire, è titolato, in virtù della eadem ratio nella sostanza compresente, a conoscere se e quanto quel contenuto sia ostensibile alla luce della disciplina sulla pubblicità di tali atti di per sé connessa al medesimo interesse pubblico”. CDC



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Inserito in data 12/12/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 11 dicembre 2013, n. 2420

Decreto di nomina degli Assessori comunali e diritto al rispetto delle quote rosa

La pronuncia è significativa perché conferma un orientamento condizionato dai numerosi insegnamenti della Corte Costituzionale, tradotto, altresì, in dettato normativo – ex articolo 1 L. n. 215/12 – modificativo dell’articolo 6 – 3’ co. D.lgs. n. 267/2000, oltrechè dei singoli Statuti comunali.

Più nel dettaglio, i Giudici pugliesi accolgono il ricorso di una pluralità di soggetti avverso i Decreti con cui il Sindaco aveva provveduto a nominare i membri dell’Esecutivo locale, escludendoli: si tratta, infatti, di provvedimenti lesivi del parametro costituzionale di cui all’articolo 51, oltrechè discordanti rispetto alle previsioni dello Statuto locale – articoli 1 e 53 – recettivi delle ultime indicazioni del Legislatore del 2012.

La problematica dell’equilibrata presenza di entrambi i sessi negli Esecutivi è, infatti, un aspetto costantemente richiamato dalla giurisprudenza costituzionale che ha inciso, poi, sugli interventi più recenti del Legislatore.

Occorre, infatti, delimitare l’azione e l’iniziativa di chi nomina: la discrezionalità politica, ricorda il Collegio salentino, per quanto di estesa portata, è circoscritta da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio.

La tutela delle pari opportunità è, pertanto, il frutto di un acuto intervento legislativo, veicolato, poi, nei singoli Statuti; non è, certamente, il prodotto di una disciplina costituzionale.

Non a caso, infatti, i Giudici pugliesi puntualizzano come il rispetto di tali vincoli costituisca un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. Tale è, appunto, quella adita nel caso odierno; così come conforme alle indicazioni legislative e giurisprudenziali più recenti, è la soluzione di annullamento dei decreti di nomina accolta dal TAR leccese. CC

 

 



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Inserito in data 11/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE - SENTENZA 6 dicembre 2013, n.27409

Falsus procurator, apparenza del diritto, poteri Giudice di merito e giudizio in Cassazione

Il Collegio di piazza Cavour torna, ancora una volta, sull’affidamento incolpevole, sulla relativa rilevabilità da parte del Giudice di merito e le conseguenze in sede di eventuale giudizio in Cassazione.

In particolare, intervenendo in una vicenda avente ad oggetto una compravendita immobiliare, i Giudici evidenziano come in sede di rappresentanza – ex articolo 1383 cod. civ. – occorre che sussista non solo la buona fede del terzo ma, altresì, un comportamento colposo - non meramente omissivo - del rappresentato, tale da ingenerare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente.

Spetterà al Giudice di merito, in sostanza, acclarare la sussistenza dell’apparentia iuris e la conseguente fondatezza dell’affidamento da parte dell’altra parte contrattuale; il tutto, sulla base di un’adeguata istruttoria che conceda al Giudicante una corretta valutazione sulla condotta delle parti.

Tanto è accaduto nel caso specifico, al punto da poter affermare la conoscibilità – da parte di tutti i soggetti i del negozio di alienazione immobiliare – della carenza dei poteri rappresentativi e, pertanto, della inesistenza di un affidamento incolpevole.

Una simile conclusione, condotta sulla base di valutazioni di puro merito, non può essere oggetto di censura in Cassazione, a dispetto di quanto richiesto dai ricorrenti.

Questi ultimi, infatti, avrebbero dovuto indicare espressamente le ragioni dell’insufficienza della motivazione; ovvero, evidenziare il nesso eziologico tra la lacuna o incongruenza logica denunciata ed il fatto ritenuto determinante, ove correttamente valutato, ai fini della decisione favorevole al ricorrente.

Solo in questo modo, infatti, i Giudici di legittimità potrebbero cogliere l’asimmetria, valutandola – ex articolo 366 bis c.p.c.

Dinanzi a tale mancanza, pertanto, il Collegio pronuncia l’inammissibilità di questo motivo di ricorso. CC




Inserito in data 11/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 dicembre 2013, n. 5880

Ingiunzione oneri urbanizzazione: eccezione di prescrizione e fideiussione

I Giudici di Palazzo Spada, intervenendo in tema di riscossione oneri di urbanizzazione, dettano chiarimenti in ordine ad aspetti sia processuali che sostanziali.

In primo luogo, riguardo all’eccezione di prescrizione – sollevata dall’appellante all’atto del gravame, il Collegio ne sancisce l’inopponibilità in tale sede.

Infatti, a dispetto di quanto sostenuto, nel rito amministrativo il giudizio di appello non è, al contempo, revisio prioris istantiae e novum judicium.

Si tratta, invece, di un ordinario mezzo di impugnazione che, specie nel caso in esame, risente dei limiti imposti dalla consueta disciplina processual – civilistica: il divieto dei cc.dd. nova – ex articolo 345 – 2’ co. cp.c. - si ravvede, infatti, nell’impossibilità di sollevare l’eccezione di prescrizione dei diritti di credito vantati dall’Amministrazione appellata e si riscontra, peraltro, per tutti i giudizi amministrativi, sorti sia prima che dopo il D. Lgs. 104/10 – C.p.A..

Tanto più, puntualizzano i Giudici, ove si tratti di un’eccezione – quale quella in esame – non rilevabile d’ufficio – ex articolo 2938 cod. civ.

Come già affermato da giurisprudenza del passato (Cfr. Ad. Pl. 14/04), l'art. 2938 Cod. civ. è una norma di carattere generale, riferita alla tutela di tutti i diritti soggettivi, che vieta al giudice, ordinario o speciale che sia, di rilevare d'ufficio la prescrizione non opposta, in qualunque grado il giudizio si trovi; cosicché ove la parte non l'abbia dedotta in primo grado, le è precluso di farla valere per la prima volta in grado di appello.

Il secondo, significativo aspetto dell’odierna pronuncia riguarda, infine, l’obbligo di una possibile, preventiva escussione del fideiussore – da parte del Comune creditore, a fronte dell’inadempimento della società concessionaria.

Invero, come ribadisce il Collegio – richiamando giurisprudenza consolidata in tal senso, non esiste alcun obbligo simile, né ricorre violazione alcuna dei principi di buona fede e di cooperazione del creditore, ex articoli 1175, 1375 e 1227 cod.civ. – come paventato dall’appellante.

Infatti, in materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso).

Si deve, quindi, ritenere che abbia agito correttamente il Comune che, nell'applicare alla società i provvedimenti sanzionatori qui contestati, non ha proceduto alla preventiva richiesta al garante, obbligatosi, con la società, a pagare quanto dovuto. CC

 

 

 



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Inserito in data 10/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 dicembre 2013, n. 5911

La giurisdizione amministrativa sussiste fino all’approvazione della graduatoria

La sentenza riafferma, tra l’altro, che, ai sensi dell’art. 63, comma quarto, del d. lgs. 165/2001, al giudice amministrativo spetta la cognizione di tutte le controversie attinenti alla procedure concorsuali, che sono strumentali alla costituzione del rapporto, e il cui momento finale è costituito dall’approvazione della graduatoria.

Infatti, con l’approvazione della graduatoria si esaurisce l’ambito riservato al procedimento amministrativo e all’attività autoritativa dell’Amministrazione, subentrando una fase in cui i comportamenti di questa vanno ricondotti alla sfera privatistica, espressione del potere negoziale della PA nella veste di ordinaria datrice di lavoro, da valutarsi alla stregua dei principi civilistici in ordine all’adempimento delle obbligazioni (art. 1218 cc). CDC



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Inserito in data 10/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE PRIMA CIVILE, ordinanza 4 dicembre 2013, n. 27111

Scioglimento dal preliminare anche in caso di trascrizione della domanda ex art. 2932?

La pronuncia affronta la seguente questione: se il curatore fallimentare possa o meno esercitare la facoltà, prevista dall’art. 72 l. fall., di sciogliersi dal contratto preliminare con il quale l’imprenditore poi fallito ha promesso in vendita un immobile ad un terzo, anche nel caso in cui il terzo promissario abbia trascritto la domanda ex art. 2932 cc.

Secondo un orientamento consolidato, tale facoltà può essere esercitata fino all’avvenuto trasferimento del bene, cioè fino all’esecuzione del contratto preliminare o al passaggio in giudicato della sentenza costitutiva ex art. 2932 cc.

Tuttavia, in senso diverso si è pronunciata Cass SU n. 12505/2004, secondo cui “quando la domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto è stata trascritta prima della dichiarazione di fallimento, la sentenza che l’accoglie, anche se trascritta successivamente, è opponibile alla massa dei creditori e impedisce l’apprensione de bene da parte del contraente fallito, che non può quindi avvalersi del potere di scioglimento accordatogli, in via generale, dall’art. 72 della legge fallimentare”.

Prendendo atto del contrasto fra i due orientamenti, entrambi seguiti da diverse pronunce recenti della Cassazione, il Collegio ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di una pronuncia delle Sezioni Unite.

Il Collegio, peraltro, ha criticato il secondo orientamento, affermando che esso si risolve in una tautologia. Esso, infatti, da un lato dà per scontato (mentre così non è) che gli effetti della sentenza costitutiva ex art. 2932 cc debbano farsi retroagire alla data della trascrizione della domanda; dall’altro, afferma (senza spiegarlo) che, a fronte della volontà manifestata in giudizio dal curatore di sciogliersi dal contratto, la domanda ex art. 2932 cc dovrebbe comunque essere accolta. CDC




Inserito in data 09/12/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 6 dicembre 2013, n. 292

Prodotti trasportati all’interno territorio regionale; q.l.c. legge regionale

I Giudici della Consulta sanciscono l’illegittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 3, comma 1, lettera c), e 4, comma 5, della legge della Regione Puglia 13 dicembre 2012, n. 43, recante «Norme per il sostegno dei Gruppi acquisto solidale (GAS) e per la promozione dei prodotti agricoli da filiera corta, a chilometro zero, di qualità», per contrasto con l’articolo 117 – 1’ co. della Costituzione.

La disciplina regionale impugnata, infatti, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, da quest’ultima norma evocato.

Essa, in sostanza, introduce significative restrizioni nell’affidamento dei servizi di ristorazione collettiva da parte degli enti pubblici, preferendo gli imprenditori che adoperano prodotti realizzati e trasformati in seno alla Regione resistente, a prescindere dalla potenziale nocività – in sede ambientale – che possa derivarne.

Si tratta, come è evidente, di una misura ad effetto equivalente vietata dall’art. 34 del TFUE – che ricomprende ogni normativa commerciale che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari – e non giustificata ai sensi dell’art. 36 del medesimo Trattato.

Quest’ultima norma, peraltro, lascia impregiudicate le restrizioni alle importazioni giustificate da motivi di «tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali», cui la salvaguardia dell’ambiente è strettamente connessa.

Nulla del genere ricorre nella fattispecie in esame che, piuttosto, finisce con il discriminare le imprese e derogare – quindi – i parametri comunitari, ma per ragioni estranee alla tutela della salute e dell’ambiente in genere.

E’ comprensibile, quindi, la declaratoria di illegittimità cui è pervenuto il Collegio costituzionale. CC



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Inserito in data 07/12/2013
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. V, 2 dicembre 2013, n. 5473

Sui presupposti di esercizio del potere ordinatorio contingibile ed urgente

I Giudici partenopei, soffermandosi incidentalmente sulle competenze delle Province post D.L. 95/12, puntualizzano – ancora una volta – i presupposti di esercizio del potere ordinatorio contingibile ed urgente – ex artt. 50 e 54 – 4’ co. D. Lgs. 267/00 - TUEL.

Nella specie, il Collegio sottolinea l’iniquità di un’ordinanza di demolizione emessa dal Sindaco e gravante sull’Ente provinciale ricorrente e, per l’effetto, ne dispone l’annullamento.

Si tratta, infatti, di un provvedimento finalizzato ad ottenere una sistemazione definitiva del manufatto – della cui demolizione si discute; connotato, quindi, da un intento regolatorio definitivo degli interessi in gioco.

I Giudici non scorgono, in sostanza, quella straordinarietà dell’intervento che, invero, avrebbe potuto giustificarsi solo in presenza di un pericolo imminente ed imprevedibile: sono carenti, in sostanza, quei presupposti di contingibilità ed urgenza al cospetto dei quali può fondarsi il potere extra ordinem del Sindaco.

Invero l’Amministrazione - ritiene il Collegio napoletano, data la definitività dell’intervento riparatorio imposto e stante l’inesistenza di un pericolo imminente, avrebbe potuto avvalersi degli strumenti ordinari di cui dispone abitualmente. CC



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Inserito in data 07/12/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE QUARTA, Cause C da C-159 /12 a C-161/12 del 5 dicembre 2013

Pianificazione territoriale e diritto a vendere medicinali

Il massimo Organo giurisdizionale europeo interviene su una questione sollevata dal TAR Lombardia in tema di pianificazione territoriale delle strutture farmaceutiche ed affini.

In particolare, si chiede se il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea osti ad una normativa che non consente al farmacista, abilitato ed iscritto all’ordine professionale, ma non titolare di una farmacia ricompresa nella «pianta organica», di vendere, nella parafarmacia di cui sia titolare, i farmaci soggetti a prescrizione medica che non sono posti a carico del Servizio sanitario nazionale, ma interamente a carico dell’acquirente.

La risposta del Giudice richiama – da un lato, la necessità che ciascuno Stato dell’Unione provveda a regolamentare i livelli di protezione della salute; dall’altro, però, illustra maggiormente la ratio del divieto posto ai titolari di parafarmacie.

L’impossibilità, per questi ultimi, di vendere medicinali soggetti a restrizioni – se da un lato costituisce un’indubbia limitazione della libertà di stabilimento, è, al tempo stesso, giustificata da ragioni di grande spessore – quale la tutela di un bene primario come la salute.

L’eventuale massificazione derivante da un differente sistema di vendita finirebbe, in sostanza, con il procurare il serio rischio di una distribuzione dei medicinali approssimativa e poco redditizia per le farmacie, con la conseguente chiusura di alcune di esse.

E’ evidente, sottolineano i Giudici, che un’attenta pianificazione territoriale delle strutture farmaceutiche unitamente alla correlata selezione nella vendita dei medicinali siano – ambedue – aspetti finalizzati a garantire un rifornimento di medicinali completo ed accurato a favore della popolazione.

La cura della salute, affidata alla competenza di ciascuno Stato, viene quindi perseguita, nel nostro ordinamento, anche sulla base di divieti posti alle parafarmacie e conseguente estensione di compiti ai titolari di farmacie ricomprese nelle consuete piante organiche.

Il divieto qui gravato, in sostanza, è valutato come conforme al diritto dell’Unione, in vista di un rifornimento di medicinali sicuro e qualitativamente apprezzabile, nel pieno interesse della collettività. CC



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Inserito in data 06/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE – SESTA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA 26 novembre 2013, n. 26365

In merito all'eccezione di inadempimento nel contratto di appalto

L'eccezione di inadempimento è un istituto di applicazione generale in materia di contratti a prestazioni corrispettive volto, fondamentalmente, a conservare, in caso d'inadempimento di una delle parti, l'equilibrio sostanziale e funzionale del negozio giuridico.

Per giungere a tal fine, infatti, richiede quel giudizio sulla ragionevolezza del rifiuto di adempiere, espresso dal secondo comma dell'art. 1460 c.c., con la formula della non contrarietà alla buona fede.

Dunque, indipendentemente dalla possibilità, assicurata dalla legge, di domandare la risoluzione del contratto, ciascuna parte può, nei contratti bilaterali, rifiutare di adempiere la sua obbligazione se l'altra parte non adempie, o non offre di adempiere, contemporaneamente la propria.

Questa facoltà, assicurata alle parti contraenti, mira a salvaguardare l'equilibrio contrattuale, nei termini oggettivi risultanti dal contratto, in modo da evitare che una parte soffra dello scompenso di avere da parte propria adempiuto.
Tale rimedio, inoltre, concerne, sostanzialmente, le ipotesi in cui le prestazioni debbano essere eseguite contemporaneamente; esso non è, infatti, praticabile quando una prestazione deve essere effettuata prima di un'altra, né tantomeno può essere più utilizzato se la parte che se ne poteva giovare esegue la prestazione.

Con riferimento all'ambito di applicazione, il rimedio sopracitato dell'eccezione d'inadempimento è applicabile al contratto di appalto nell'ipotesi di rifiuto del committente di pagare il corrispettivo all'appaltatore inadempiente all'obbligo di eliminare i vizi e le difformità dell'opera nonché nell'ipotesi in cui l'appaltatore non consegni l'opera perché il committente rifiuta il pagamento del corrispettivo, deducendo dei vizi e delle difformità inesistenti.
L'art. 1460 c.c., dunque, postula una “proporzionalità” tra i rispettivi inadempimenti, da valutarsi non in rapporto alla “rappresentazione soggettiva” determinata dalle parti, bensì in relazione alla “oggettiva proporzione” degli inadempimenti stessi, alla luce della buona fede nonché dell'intero equilibrio contrattuale. GMC

 

 




Inserito in data 06/12/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 2 dicembre 2013, n. 285

Potere di localizzare gli impianti di recupero e smaltimento rifiuti

La disciplina della gestione dei rifiuti rientra nella materia “tutela dell'ambiente e dell'ecosistema” riservata, alla luce dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Carta Costituzionale, alla competenza esclusiva dello Stato.

In tale ambito, non può dunque riconoscersi una competenza regionale in materia di tutela dell'ambiente nonostante le Regioni possono, tuttavia, stabilire dei livelli di tutela più elevati per il raggiungimento dei fini propri, pur sempre nel rispetto della normativa statale di tutela dell'ambiente.

Inoltre, occorre sottolineare che le Regioni non possono consentire e promuovere, nonostante possa invocarsi una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, degli interventi preclusivi suscettibili di pregiudicare il medesimo interesse della salute in ambito territoriale più ampio.

Esercitando tale competenza, con l'art. 195, comma 1, lettera f), del decreto legislativo n. 152 del 2006, lo Stato ha regolato il potere di localizzare gli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti di preminente interesse nazionale.

In tale caso, la norma regionale impugnata, da considerarsi costituzionalmente illegittima, preclude allo Stato, dunque, con delle procedure difformi rispetto a quelle predisposte dalla normativa statale, di individuare degli impianti di preminente interesse nazionale con la tecnica del “trattamento a caldo dei rifiuti”, nella intera Regione autonoma della Valle d'Aosta.

Questo divieto impedisce, sostanzialmente, la realizzazione delle finalità di riequilibrio socio-economico tra le aree del territorio nazionale, indicate nella normativa statale.

Alla luce di quanto affermato, l'articolo unico della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste del 23 novembre 2012, n. 33, ovvero “Modificazione alla legge regionale 3 dicembre 2007, n. 31”, Nuove disposizioni in materia di gestione dei rifiuti, impone un “divieto generale” di realizzazione ed utilizzo di specifici impianti su tutto il territorio regionale e non contiene un vero e proprio criterio né di localizzazione né tantomeno di idoneità degli impianti.

Tale limite deve essere considerato come assoluto e si traduce in una determinazione della inidoneità di tutte le aree della Regione ad ospitare codesti impianti. GMC



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Inserito in data 05/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 29 novembre 2013, n. 26778

Indicazione termine fine lavori a pena di illegittimità dell’espropriazione

I Giudici di piazza Cavour intervengono in materia di espropriazione, ricordando la necessaria indicazione dei termini di inizio e fine dei lavori, nell’ambito del provvedimento amministrativo recante la dichiarazione di pubblica utilità.

Secondo la Suprema Corte “è incontestata la circostanza secondo la quale il provvedimento esecutivo contenente la dichiarazione di pubblica utilità, privo dei termini per il compimento dell’espropriazione e dell’opera, sia radicalmente nullo ed inefficace”.

Occorre, infatti, a pena di illegittimità dell’espropriazione, che il singolo soggetto sia correttamente ed esaustivamente informato; e che, peraltro, le notizie riguardo all’attività ablatoria siano desumibili direttamente dal provvedimento che vi dà inizio e non dedotte de relato da altro atto, comunque attinente alla procedura in corso di svolgimento. CC

 

 




Inserito in data 05/12/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA - GRANDE SEZIONE, Cause C-111 -117 – 118 -121/10 del 4 dicembre 2013

Crisi economica: diritto ad Aiuti di Stato

I Giudici europei, con una decisione indiscutibilmente legata alla contingenza del periodo storico in corso e alle difficoltà economiche proprie dello stesso, assumono una posizione singolare in tema di Aiuti di stato, derogando rispetto alle consuete restrizioni.

In particolare, intervenendo nel settore agricolo, il Collegio di Lussemburgo ha considerato «il rilevante mutamento di circostanze collegato agli effetti della crisi economica e finanziaria sul settore agricolo di tali Stati, nel corso del 2008 e 2009».

Pertanto, risultano condivisibili le decisioni assunte dal Consiglio relative alla concessione, da parte di Lituania, Polonia, Lettonia e Ungheria, di aiuti per l’acquisto di terreni agricoli tra il 2010 e il 2013.

Si tratta, come è evidente, di un regime di aiuti nuovi, emersi in presenza di circostanze impreviste ed eccezionali, a fronte delle quali è inevitabile adottare una prassi meno rigida, che consenta una riemersione dell’attività imprenditoriale, frattanto compromessa da un contesto economicamente in calo. CC

 

 



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Inserito in data 04/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 dicembre 2013, n. 5745

Sospensione dal servizio per misure cautelari personali o indagini penali pendenti

Nel pubblico impiego, la sospensione cautelare obbligatoria dal servizio è un atto dovuto da parte della PA, in conseguenza di una misura cautelare restrittiva della libertà personale, che impedisce la prestazione dell’attività lavorativa e dunque interrompe il sinallagma; tale sospensione cautelare obbligatoria non cessa automaticamente quando cessa la misura cautelare penale, occorrendo un provvedimento di revoca.

La PA deve revocare la sospensione cautelare obbligatoria disposta nei confronti di un dipendente dalla data in cui ha notizia della cessazione della misura cautelare penale, e dunque del venire meno dell’impedimento allo svolgimento del sinallagma.

Per disporre invece la sospensione cautelare facoltativa in pendenza di indagini penali, non è necessario che sia stato disposto il rinvio al giudizio. Le condizioni necessarie per la sospensione cautelare facoltativa prima del rinvio a giudizio del dipendente sono: a) che siano pendenti indagini preliminari; b) che il dipendente sia stato già sottoposto a misura cautelare restrittiva della libertà personale, poi cessata; c) che i fatti su cui pendono le indagini penali preliminari siano direttamente attinenti al rapporto di lavoro o siano tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso.

La valutazione della PA, in materia di sospensione cautelare facoltativa del dipendente pubblico, costituisce comunque una tipica manifestazione del suo potere discrezionale. Pertanto, essa è sindacabile dal giudice amministrativo solo ove risulti manifestamente irragionevole e non comporta la necessità di esporre le ragioni per le quali i fatti contestati al dipendente devono considerarsi particolarmente gravi, potendo tale giudizio essere implicito nella gravità del reato a lui imputato, nella posizione d’impiego rivestita dal dipendente o nella commissione del reato in occasione o a causa del servizio. CDC

 

 



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Inserito in data 04/12/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SESTA CIVILE, sentenza 29 novembre 2013, n. 26931

Requisiti per la sussistenza di un testamento olografo

Per poter configurare una scrittura privata come testamento olografo, non è sufficiente il riscontro dei requisiti di forma individuati dall'art. 602 cc.

Occorre, infatti, l'accertamento dell'oggettiva riconoscibilità nella scrittura della volontà attuale del suo autore di compiere non già un mero progetto, ma un atto di disposizione del proprio patrimonio per il tempo successivo al suo decesso. Tale accertamento costituisce un prius logico rispetto all’interpretazione della volontà testamentaria ed è rimesso al giudice del merito. CDC

 

 




Inserito in data 03/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE 26 novembre 2013 n. 5619

Attribuzione di qualifiche dirigenziali senza previo superamento di pubblico concorso: questione di legittimità costituzionale

Il Supremo Consesso, con l’ordinanza in epigrafe, ritiene “non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’ articolo 8, co. 24, d.l. 2 marzo 2012 n. 16, conv. in l. 26 aprile 2012 n. 44”, la quale prevede che, nelle more dell’espletamento delle procedure concorsuali, “l'Agenzia delle dogane, l'Agenzia delle entrate e l'Agenzia del territorio, salvi gli incarichi già affidati, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso”.

Secondo il Collegio, l’evidente rilevanza della questione di legittimità costituzionale, si fonda:

  1. in primo luogo, sulla violazione degli articoli 3 e 97 Cost., poiché, nel consentire l’attribuzione di incarichi a funzionari privi della relativa qualifica, la norma aggira la regola costituzionale di accesso ai pubblici uffici mediante concorso”.

A tal proposito, la Corte Costituzionale (sentenza 6 luglio 2004 n. 205), nel riconfermare il concorso pubblico come “forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione”, precisa che “la regola del pubblico concorso può dirsi rispettata solo quando le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie ed irragionevoli forme di restrizione dell’ambito dei soggetti legittimati a parteciparvi”.

Pertanto, “se è vero che la regola del pubblico concorso, quale strada maestra per l’accesso al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, può essere derogata dal legislatore, purché non venga leso il principio di ragionevolezza”, è altrettanto vero che tale eccezione non si giustifica con riferimento a norme “che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori (senza concorso o comunque senza adeguate soluzioni o verifiche attitudinali) o concorsi interni per la copertura della totalità dei posti vacanti”.

In sostanza, per il Giudice delle Leggi vale il principio secondo cui “il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso” (sent. 16 maggio 2002 n. 194); regola che può dirsi rispettata anche quando il numero dei posti riservati sia ragionevole;

  1. in secondo luogo, sulla violazione degli articoli 3 e 97 Cost., atteso che, sotto diverso profilo, la norma in esame, eludendo la regola del pubblico concorso, “determina un vulnus al principio del buon andamento amministrativo”.

Infatti, il concorso, come affermato dalla Corte Costituzionale (sent. n. 205/2004), rappresentando “la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego”, costituisce un “meccanismo strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione” e, quindi, attuazione del principio di buon andamento;

  1. in terzo luogo, sempre sulla violazione degli articoli 3 e 97, primo comma, Cost., in quanto la norma in esame, in collisione con i principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, “permette l’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari privi della relativa qualifica, consente di conseguenza la preposizione ad organi amministrativi, titolari di potestà provvedimentale, di soggetti privi dei necessari requisiti”.

Ne discende, pertanto, (anche) “una conseguente diminuzione delle garanzie dei cittadini riposte in una amministrazione che, nell’esercizio di poteri conferiti dalla legge, deve presentarsi competente, imparziale, efficiente”;

d. in quarto luogo, sulla violazione degli articoli 3 e 51 Cost., “in quanto la norma consente l’accesso a pubblici uffici (intendendosi, per essi, quelli di rango dirigenziale), sia in violazione delle “condizioni di eguaglianza”, che risultano violate dalla pretermissione della procedura concorsuale, e che devono invece sussistere tra i cittadini aspiranti ad uffici pubblici, sia in violazione dei “requisiti stabiliti dalla legge” (posto che l’art. 19, d. lgs. 31 marzo 2001 n. 165, prevede ben diverso procedimento per il conferimento degli incarichi dirigenziali)”. EMF



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Inserito in data 02/12/2013
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, SENTENZA 27 novembre 2013 n. 901

Dichiarazione di sopralluogo, offerta ribassata e art. 82 c. 3 D. Lgs 163/06

In linea generale, “la funzione della dichiarazione di sopralluogo è unicamente quella di precludere all'appaltatore contestazioni basate sull'asserita mancata conoscenza dei luoghi e di ridurre al minimo le possibilità di modifiche contrattuali in sede di esecuzione, per cui l'onere posto a carico dell'Impresa di visitare i luoghi dell'appalto prima di formulare la propria offerta è posto essenzialmente a garanzia dell'Amministrazione, garanzia che tale dichiarazione, una volta positivamente resa, comunque viene ad assolvere”.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, infatti, “nelle gare d'appalto vanno tenute distinte la dichiarazione di sopralluogo a cura del partecipante e il verbale di sopralluogo eventualmente redatto dalla Stazione appaltante, essendo generalmente sufficiente la dichiarazione di sopralluogo a prescindere dalle modalità con cui esso è stato eseguito, a meno che non sia espressamente richiesto anche uno specifico verbale di sopralluogo sulle relative modalità. ( cfr. C.G.A. n. 511 del 2011)”.

Pertanto, la sezione distaccata del Supremo Consesso ritiene non percorribile la tesi secondo cui “la mancata effettuazione del sopralluogo personalmente da parte di ciascun componente di un’ATI costituenda configura una giusta causa di esclusione dalle procedure di evidenza pubblica ( cfr. per tutte IV Sez. n. 6625 del 2011)”, atteso che, nella fattispecie sottoposta al suo sindacato, “il disciplinare non richiedeva - in conformità al disposto del previgente art. 76 DPR 554/1999 – che il sopralluogo fosse svolto dal concorrente “direttamente o a mezzo personale dipendente” giusta quanto ora previsto dall’art. 106 DPR 207/2010”. 

Con la pronuncia in epigrafe, inoltre, il Consiglio si sofferma, da un lato, sulla legittimità delle “offerte al ribasso” e, dall’altro, sulla mancata attivazione della verifica di anomalia facoltativa.

A proposito del primo punto statuisce che, nel caso in cui il disciplinare richieda ai concorrenti una dichiarazione “ contenente l’indicazione del ribasso percentuale offerto, espresso in cifre e in lettere, sul prezzo posto a base di gara”, l’offerta deve essere legittimamente presa in considerazione se dalla documentazione non emergono elementi probanti per ritenere che il ribasso proposto “possa effettivamente riferirsi anche alle spese tecniche per la progettazione esecutiva”.  

Riguardo al secondo quesito, invece, i Giudici palermitani rilevano come, ai sensi dell’art. 82, comma 3, del codice, “le stazioni appaltanti possono valutare la congruità di ogni altra offerta che, in base ad elementi specifici, appaia anormalmente bassa”.

Pertanto, trattandosi di norma che si limita riconoscere una mera facoltà (pur in assenza delle condizioni di cui al comma 2 dello stesso articolo), la Stazione appaltante è titolare di un potere discrezionale, “il cui mancato esercizio non richiede di essere supportato da specifica motivazione ( cfr. VI Sez. n. 4489 del 2011)”; di guisa che esso è sindacabile in sede di legittimità “solo in presenza di profili di evidente irragionevolezza e illogicità”. EMF



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Inserito in data 01/12/2013
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, SENTENZA 27 novembre 2013, n. 899

E’ invalido il DURC che si riferisca ad un singolo appalto  o cantiere

La giurisprudenza è concorde nel ritenere che “per la partecipazione a gare d’appalto il documento di regolarità contributiva DURC - non a caso qualificato come “Unico”- deve riportare la situazione complessiva dell’ Impresa interessata per quanto riguarda la regolarità dei versamenti agli Enti di previdenza e assistenza in favore di tutti i dipendenti dell’impresa stessa”.

A tal proposito, infatti, l’art. 19 comma 12 bis della legge n. 109 del 1994 ( nel testo coordinato, in Sicilia, con le norme della L. reg. 2 agosto 2002 n. 7 e successive modifiche ed integrazioni ) prevede “che i partecipanti alle gare per l’appalto di lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria comprovano il requisito generale della regolarità contributiva di cui all’art. 75 del D.P.R. n. 554 del 1999 mediante produzione di certificazione rilasciata dall’INPS, dall’INAIL o dalla Cassa edile di riferimento”.

D’altra parte, già l’art. 2 del decreto dell'Assessore regionale per i lavori pubblici 24 febbraio 2006 e successive modifiche, nel prevedere che "la regolarità contributiva è certificabile anche attraverso la produzione del DURC", puntualizzava chiaramente che  "ai fini dell'art. 19, comma 12 bis, legge n. 109/94, non sono valide le attestazioni rilasciate dalle Casse edili se riferite a uno o più cantieri, dovendo le Casse attestare la regolarità contributiva senza limitazione a singoli appalti. Non sono considerati validi, ai fini della partecipazione alle gare, i certificati DURC rilasciati per stati avanzamento lavori, stati finali e verifica autocertificazioni”.                          

In conclusione, dunque, il DURC fotografa “la situazione globale dell'impresa, indipendentemente dal luogo o dai luoghi dove essa abbia attivato i propri singoli cantieri. ( cfr. C.G.A. n. 635 del 2010)”. EMF

 

 



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Inserito in data 01/12/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 novembre 2013 n. 5605

La revoca del Presidente del Consiglio comunale e il sindacato del G.A.

La pronuncia in esame è significativa, in quanto i Giudici di Palazzo Spada riconfermano il principio per cui “i giudizi di critica politica che, se ammissibili per i singoli consiglieri, perché complessivamente riconducibili alle prerogative di controllo politico sull’amministrazione di detto ufficio (art. 43 t.u.e.l.), sono altrettanto evidentemente preclusi al rappresentante istituzionale dell’organo di indirizzo politico-amministrativo”.   

Il Presidente del Consiglio comunale, infatti, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, svolge una funzione “di carattere istituzionale e non politica, per cui la sua revoca non può che essere causata dal cattivo esercizio di tale funzione, tale da comprometterne la neutralità, non potendo essere motivata sulla base di una valutazione fiduciaria di tipo strettamente politico (sentenza 25 novembre 1999, n. 1983)”.

Ciò è confermato dal fatto che l’ordinamento degli enti locali pone la figura de qua a garanzia del corretto funzionamento del Consiglio comunale e “della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza (sentenza 6 giugno 2002, n. 3187)”. 

L’art. 39 t.u.e.l., difatti, “attribuisce al presidente del consiglio comunale poteri direttivi, di iniziativa ed impulso necessari al funzionamento degli organi collegiali. Il comma 1 prevede che al titolare di detto ufficio spetta la convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio; il successivo comma 4 gli demanda l’obbligo di assicurare che sulle questioni sottoposte al consiglio siano preventivamente ed adeguatamente informati i componenti dell’organo.

Si tratta, invero, “di attribuzioni di carattere necessario, visto che il citato comma 1 dell’art. 39 contempla anche la figura del vicario, e che non si esauriscono sul piano interorganico dei rapporti e delle relazioni interne al consiglio, tant’è vero che il comma 5 del suddetto art. 39 prevede che in caso di mancata convocazione possa provvedervi il Prefetto”. 

In generale, dunque, “possono costituire ragioni legittimamente fondanti la revoca in questione tutti quei comportamenti, tenuti o meno all’interno dell’organo, i quali, costituendo violazione degli obblighi di neutralità ed imparzialità inerenti all’ufficio, sono idonei a fare venire meno il rapporto fiduciario alla base dell’originaria elezione del presidente (sentenza 18 gennaio 2006, n. 114)”.

Ne discende che la revoca, pur traendo “origine da apprezzamenti di carattere politico” (al pari dell’elezione), “non esprime una scelta libera nei fini, dovendo comunque sempre porsi nel solco del perseguimento delle finalità normative, non disponibili dai componenti del consiglio e dalle forze in esso presenti, di garantire la continuità della funzione di indirizzo politico-amministrativo dell’ente comunale”.  

Dal punto di vista processuale, invece, il Giudice Amministrativo “è chiamato ad un duplice ordine di verifiche, e cioè: in primo luogo, ad accertare l’effettiva sussistenza dei fatti, affinché la revoca non si fondi su presupposti inesistenti o non adeguatamente esternati nel provvedimento; ed in secondo luogo, ad apprezzare la non arbitrarietà e plausibilità della valutazione politica in forza della quale l’organo consiliare ritiene che i suddetti fatti influiscano negativamente sull’idoneità a ricoprire la funzione”.

D’altra parte, l’interprete, nel valutare il secondo elemento, “non può che arrestarsi ad una verifica meramente estrinseca, limitata cioè al piano dell’evidente irragionevolezza ed ingiustizia della decisione, pena altrimenti lo sconfinamento del sindacato giurisdizionale in ambiti riservati ad opinabili, ma non per questo illegittime, valutazioni politico-discrezionali”. EMF



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Inserito in data 29/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 novembre 2013, n. 5515

In merito alla distinzione tra diritto di accesso e accesso civico (d.lgs. n. 33-2013)

In materia di accesso, occorre prendere in considerazione tanto gli articoli 22 e seguenti della Legge del 7 agosto 1990 n. 241, quanto le nuove disposizioni, dettate con decreto legislativo 14 marzo 2013 n. 33, in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle Pubbliche Amministrazioni.

Queste ultime norme regolamentano situazioni, tra loro diversificate, non sovrapponibili a quelle contemplate dalla famosa Legge del 1990: le due fonti normative, quella del 1990 e quella del 2013, infatti, mirano al raggiungimento di finalità differenti, nonostante entrambe siano comunque ispirate al principio di trasparenza dell'agire della Pubblica Amministrazione, principio fondamentale e sempre più in espansione nell'odierno sistema giuridico.

Specificamente, mediante il d.lgs. n. 33, il Legislatore persegue il primario obiettivo di procedere in modo sistematico verso il raggiungimento di una disciplina ordinata e complessa, in modo da poter assicurare, ad ogni cittadino, la possibilità di accedere facilmente ad ogni informazione richiesta, concernente l'organizzazione e le singole attività delle Pubbliche Amministrazioni, rispettando i principi che ispirano tutta l'attività amministrativa, ovvero il principio di imparzialità, buon andamento, trasparenza nonché quelli di efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche.

Alla luce della considerazione secondo la quale si vuol far in modo che la Pubblica Amministrazione offra un servizio trasparente e quanto più vicino al cittadino, il decreto citato mira alla attuazione della funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione, tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti nei siti istituzionali delle medesime amministrazioni, con diritto di chiunque di accedervi direttamente ed immediatamente”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell'art. 5 del d.lgs., il cosiddetto “accesso civico”, consistente in una richiesta, non motivata, di effettuare tale adempimento con possibilità, inoltre, nei casi di conclusiva inadempienza all'obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, alla luce delle disposizioni del codice del processo amministrativo.

Infine, alla luce di quanto esposto, è bene chiarire che le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano, inoltre, a collegare l'essenza dell'istituto, quale indice di trasparenza e garanzia dell'imparzialità dell'Amministrazione, con il bilanciamento che deve essere effettuato rispetto ad interessi contrapposti concernenti non solo la riservatezza degli altri soggetti coinvolti, ma anche le esigenze di buon andamento della Pubblica Amministrazione, esigenze che devono essere rispettate soprattutto laddove vi siano richieste pretestuose dirette ad introdurre delle nuove forme, per così dire “atipiche”, di controllo. GMC

 

 



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Inserito in data 29/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 novembre 2013, n. 5532

Concessione di beni demaniali e servizi pubblici locali

Il Consiglio di Stato ha stabilito che l'apprestamento di opere da parte di un concessionario di un'area demaniale marittima non è sufficiente a far individuare, come parte a cui favore si instaura il rapporto, il Comune che indice il bando per il rilascio della concessione medesima.

Infatti, la convenzione e le opere in questione hanno per oggetto innanzitutto il bene demaniale e sarà, in seguito, la concessione d'uso del bene a determinare il contenuto proprio del rapporto giuridico, inoltre, si individua lo Stato, proprietario del bene, come parte di tal rapporto; la convenzione, dunque, che impegna il concessionario nei confronti del Comune, è “accessiva” al rapporto concessorio e non viceversa: se, infatti, non si desse luogo alla concessione del bene, non vi sarebbe alcuna ragione per convenire l'eventuale, nonché connessa, esecuzione di interventi ovvero opere, sul bene stesso.

Si rileva, altresì, che le competenze regionali, in ordine al demanio marittimo, non possono mai incidere sulle facoltà che spettano allo Stato, in quanto proprietario, che precedono, logicamente, la ripartizione delle competenze medesime, venendo con ciò ribadita la essenziale rilevanza della proprietà demaniale dei beni.

Viene messo in luce che il servizio pubblico locale, volto al perseguimento di scopi sociali che serviranno alla intera collettività, è finalizzato al soddisfacimento diretto di esigenze collettive della stessa, con effetto generalizzato sul suo assetto socio – economico,  che concerne, infatti, una utenza indifferenziata.

Data l'incidenza settoriale del servizio, i riferimenti appena esposti, non saranno in toto applicabili con riferimento alla gestione degli stabilimenti balneari, mancando in tali casi, sostanzialmente, la rilevanza di un effetto “generalizzato” sull'assetto della comunità a soddisfacimento di una sua esigenza collettiva, nonché l'elemento del pagamento di una tariffa in senso proprio, quale misura determinata dall'ente locale in corrispettivo di un servizio che dimostra la natura pubblica del servizio, pur se erogato da un soggetto privato. GMC



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Inserito in data 28/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 novembre 2013 n. 5607

Non necessita di espressa menzione nel bando la possibilità di dimidiare la cauzione

I giudici di Palazzo Spada sono stati chiamati a pronunciarsi sull’ammissibilità o meno della possibilità, prevista in favore delle società certificate ex art. 75 del codice dei contratti pubblici, di dimidiare l’ammontare della cauzione richiesta quale presupposto per l’aggiudicazione di una procedura ristretta indetta per l’esternalizzazione dei servizi di gestione dei data center, pur in assenza di un’espressa menzione all’interno del bando di gara.

Dopo aver proceduto alla corretta individuazione del soggetto tenuto alla prestazione di garanzia, resa difficoltosa dalle peculiarità del bando stesso il quale prevedeva l’acquisto, da parte dell’aggiudicatario, di tutte le quote azionarie del titolare dei servizi, il Supremo Consesso ha confermato la decisione del giudice di primo grado con la quale era stato dichiarato illegittimo il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione per mancanza dei requisiti prescritti.

Invero, “l’art 113 del codice dei contratti pubblici, in materia di cauzione definitiva, richiama l’art 75, comma 7, che a sua volta prescrive il dimezzamento dell’importo laddove il concorrente sia dotato della certificazione di qualità.

La caratterizzazione immediatamente precettiva della normativa primaria in subiecta materia consente di ritenere che la lex specialis regolatrice della procedura in esame debba essere etero-integrata mediante la diretta applicazione delle norme che prevedono la dimidiazione dell’importo della garanzia. Si deve, in ogni caso, soggiungere che il rinvio della normativa di gara all’art. 113 del codice dei contratti pubblici implica anche il recepimento dell’art. 75, comma 7, da detta disposizione specificamente richiamato”.

Parimenti destituite di ogni fondamento sono apparse anche le doglianze in merito alla affidabilità dell’ente fideiussore posto che si trattava di una società di intermediazione finanziaria iscritta nell’elenco speciale di cui all’art. 107 del d.lgs 385/93 ed autorizzati dal Ministero dell’economia e delle Finanze.

Invero, in assenza di una norma di legge che attribuisca alla stazione appaltante il potere di verificare l’affidabilità del garante, una siffatta valutazione comporterebbe un’ingerenza nelle competenze attribuite alla Banca d’Italia. VA



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Inserito in data 28/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 25 novembre 2013, n. 26283

Danni degli amministratori di società in house:giurisdizione della Corte dei Conti

Le Sezioni unite sono tornate a pronunciarsi in merito alla giurisdizione della Corte dei conti sulle azioni di responsabilità promosse verso gli organi sociali quando questi abbiano cagionato un danno al patrimonio di una società a partecipazione pubblica o, come più specificamente avvenuto nel caso in esame, ad una società in house.

Dopo aver ricordato il proprio consolidato orientamento espresso in precedenza, gli Ermellini si sono soffermati sulle peculiarità del caso sottoposto alla loro attenzione.

Con le precedenti pronunce, infatti, era stato espresso il seguente principio di carattere generale: “nell'attuale assetto normativo il perseguimento delle finalità istituzionali propri della pubblica amministrazione si realizza anche mediante attività disciplinate in tutto o in parte dal diritto privato, onde il dato essenziale che radica la giurisdizione della Corte Contabile è rappresentato dall'evento dannoso verificatosi a carico della stessa pubblica amministrazione e non più dal quadro di riferimento - pubblico o privato - nel quale si colloca la condotta produttiva del danno; in secondo luogo, che le società di capitali eventualmente costituite o comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie non cessano solo per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina, se non diversamente disposto, riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile, come confermato anche dal dettato dell’art 2449 c.c.” (cass. 26806/09).

Inoltre, la pronuncia citata ricorda che gli enti dotati di personalità giuridica si configurano come soggetti di diritto autonomo, dotati anche di un proprio patrimonio, il quale non è riferibile a coloro che abbiano la gestione delle azioni.

Da tale principio conseguirebbe l'impossibilità di imputare personalmente agli amministratori o ad altri soggetti investiti di cariche sociali la titolarità del rapporto di servizio tra la società, incaricata dell'espletamento del servizio pubblico, e l'ente pubblico, né può imputarsi alla pubblica amministrazione il danno cagionato al patrimonio della società stessa a causa degli atti di mala gestio compiuti dagli organi sociali di cui sopra.

Sulla base di tali osservazioni, la giurisprudenza di legittimità, dunque, ha escluso la possibilità di ricondurre nell'ambito della giurisdizione della corte dei conti le azioni di responsabilità promosse in conseguenza del danno così cagionato, trattandosi di un danno sofferto da un privato (la società, i soci e gli eventuali creditori) e non già di un danno erariale, salvo che si tratti di un danno diretto e non di riflesso (si pensi ad esempio al danno all’immagine della p.a.) o, ancora, di un danno derivante dal mancato esercizio dei poteri di socio da parte del rappresentante dell’ente partecipante.

Eventuali deroghe a questa disciplina generale, dunque, sarebbero ammesse solo ove espressamente previsto dal legislatore.

Tuttavia la Suprema Corte, dopo aver analizzato le caratteristiche dell'istituto della società in house, ha affermato che la regolamentazione sopra descritta possa trovarvi applicazione.

La direttiva 2006/123/Ce, infatti, lascia liberi gli Stati membri di decidere le modalità organizzative delle prestazioni di servizio di interesse economico generale, potendo scegliere se provvedervi direttamente o tramite terzi. L'affidamento in house è una delle modalità consentite, tuttavia, perché possa parlarsi si “società in house”, occorre che si tratti di società di capitali costituite per lo specifico scopo pubblico che sono volte a realizzare e che siano partecipate totalitariamente da soci pubblici. Inoltre è necessario che queste realizzino la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che le controllano, purché questi ultimi esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.

Considerati i caratteri che le società in house presentano, dunque, appare evidente come queste non possano "collocarsi come un'entità che sta al di fuori dell'ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria di articolazione interna.[…] La distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva. Le conclusioni di questa corte[…] Non possono valere quando si tratti di società in house perché queste ultime hanno della società solo la forma esteriore ma costituiscono, in realtà, delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero metus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società”.

In conclusione, dal momento che gli organi amministrativi vengono a trovarsi in una posizione di vera e propria subordinazione gerarchica rispetto all’ente pubblico, non può non affermarsi che la giurisdizione in materia di azioni di responsabilità per i danni da questi prodotti spetti alla Corte dei Conti. VA




Inserito in data 27/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 novembre 2013, n. 5594

Adeguatezza della motivazione in caso di reiterazione dei vincoli espropriativi

Secondo giurisprudenza costante, “costituiscono vincoli soggetti a decadenza solo quelli preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificazione, e che dunque svuotino il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio”.

Tuttavia, la decadenza del vincolo non esclude che l’amministrazione possa reiterare i vincoli preordinati all’espropriazione, attraverso congrua motivazione in ordine alla persistenza delle ragioni di interesse pubblico che sorreggono la predetta reiterazione. Quanto all'adeguatezza della motivazione, in caso di prima reiterazione è sufficiente il richiamo alle originarie valutazioni; quando, invece, il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto, “è necessario che la motivazione dimostri che l'autorità amministrativa abbia provveduto ad una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le ragioni (riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa. specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali) che inducano ad escludere profili di eccesso di potere e ad ammetterne l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico”.CDC



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Inserito in data 27/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE FERIALE PENALE, SENTENZA 18 novembre 2013, n. 46151

Sulla prova del dolo intenzionale nel reato di abuso d’ufficio

Com’è noto, soltanto il dolo intenzionale (che si ha quando l’evento sia dall’agente perseguito come scopo finale) è compatibile con il reato di abuso d'ufficio. Occorrono dunque “la rappresentazione e la volizione dell'evento di vantaggio patrimoniale o di danno come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da quest'ultimo perseguito”. L'elemento soggettivo consiste dunque nella coscienza e volontà dell’agente qualificato di abusare dei poteri inerenti alle proprie funzioni o al proprio servizio, avendo di mira, alternativamente o congiuntamente, l'ingiusto vantaggio patrimoniale o il danno altrui.

Quanto alla prova del dolo intenzionale, bisogna acquisire elementi idonei a radicare la certezza che la volontà dell'imputato sia stata precipuamente orientata a procurare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto. Ciò può avvenire attraverso elementi sintomatici, quali la specifica competenza professionale dell'agente, l'apparato motivazionale su cui si fonda il provvedimento e i rapporti personali tra il pubblico ufficiale e il soggetto che riceve vantaggio patrimoniale o subisce danno. CDC




Inserito in data 25/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 novembre 2013 n. 5538

L’espropriazione di aree destinate ad edilizia universitaria ha natura conformativa

Con la pronuncia in commento, il Supremo Consesso conferma che è oggetto di vincolo conformativo e non ablativo la destinazione di un’area, individuata nel P.R.G., ad edilizia universitaria; di guisa che deve escludersi la natura edificatoria della stessa. Detta destinazione incide, inoltre, sulla determinazione dell’indennità di esproprio.

Si tratta, invero, di una sentenza in linea con la giurisprudenza consolidata, secondo cui “la destinazione a edilizia scolastica, e a maggior ragione universitaria, di natura peraltro normalmente conformativa e non espropriativa”, esclude “l'edificabilità legale a favore dei privati proprietari”, e non giova “a questi in sede di liquidazione dell'indennità espropriativa;…” (Cass. civ. sez. I, 24 maggio 2012, n. 8231). Ne consegue che “il risarcimento del danno va in ogni caso compiuto all’interno della categoria dei suoli inedificabili, ossia con riferimento a prezzi di mercato ben lontani da quelli assai elevati peculiari del mercato edilizio” (C.G.A.R.S., 16 ottobre 2012, n. 943). EMF



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Inserito in data 25/11/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 novembre 2013 n. 277

La stabilizzazione dei precari non può prescindere dai limiti imposti dallo Stato

Con la sentenza in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara l’illegittimità costituzionale di più articoli delle leggi n. 13 e n. 17 della Regione autonoma Sardegna in tema di stabilizzazione del precariato.

In primo luogo, la Consulta dichiara fondata la questione di legittimità dell’art. 2 della legge reg. Sardegna n. 13 del 2012 per contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 Cost.

Infatti, a differenza dell’art. 36, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 2 del 2007 che, sia pure con alcune esclusioni, “disponeva la stabilizzazione del personale con trenta mesi di lavoro precario all’attivo, sempreché fosse stato assunto con procedure selettive concorsuali pubbliche”, l’ art. 2 della legge reg. n. 13 del 2012 “integra le categorie di personale destinatarie d’inquadramento a domanda con ulteriori figure professionali. E le identifica con quelle reclutate mediante selezioni (analoghe a quelle specifiche già introdotte dall’art. 4 della legge reg. n. 12 del 2012 nella sua formulazione originaria) precedentemente non comprese e non rigorosamente rispondenti ai caratteri di stretta concorsualità pubblica previsti dalla normativa di riferimento del 2007”.

D’altra parte, già in passato, la Corte ha dichiarato “l’illegittimità di norme che disponevano stabilizzazioni di personale precario delle pubbliche amministrazioni senza prevedere la necessità del superamento di un concorso pubblico (ex plurimis, sentenze n. 51 del 2012, n. 7 del 2011, n. 235 del 2010), ed ha più volte ritenuto eccessivamente generico, al fine di autorizzare una successiva stabilizzazione senza concorso, il requisito del previo superamento di una qualsiasi selezione, ancorché pubblica, «perché tale previsione non garantisce che la previa selezione abbia natura concorsuale e sia riferita alla tipologia e al livello delle funzioni che il personale successivamente stabilizzato è chiamato a svolgere» (sentenza n. 127 del 2011, che richiama le sentenze n. 235 del 2010 e n. 293 del 2009)”.

Queste censure valgono, altresì, per dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, della legge reg. n. 17 del 2012, che “modifica il precedente testo normativo (art. 4, comma 1, della legge reg. n. 12 del 2012 nella parte già novellata dall’art. 2, comma 1, della legge reg. n. 13 del 2012)  riguardo al termine ultimo del periodo di lavoro temporaneo utile per l’assunzione in pianta stabile”.

La norma in questione contrasta, inoltre, con l’art. 117, terzo comma, Cost., “per violazione del principio fondamentale di coordinamento di finanza pubblica che si evince dalla normativa statale in tema di stabilizzazione di cui all’art. 1, comma 558, della legge n. 296 del 2006. Tale normativa, invero, “ammetteva alla stabilizzazione soltanto personale non dirigenziale che avesse già maturato tre anni di servizio alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 296 del 2006 (in servizio in quel momento o alla luce del lavoro svolto nell’ambito del quinquennio precedente), ovvero che fosse destinato a maturarli in forza di contratti stipulati prima del 29 settembre 2006 e quindi, al massimo, tenuto conto del triennio di servizio necessario, entro il 28 settembre 2009”.

A tal proposito, la Corte ha enunciato il principio secondo cui “le norme statali in tema di stabilizzazione dei lavoratori precari costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica” (sentenze n. 18 del 2013 e n. 310 del 2011).

Né la violazione del parametro costituzionale anzidetto può essere scongiurata “dallo ius superveniens di cui all’art. 4, comma 6, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 (Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni), convertito in legge, con modificazioni, nella legge 30 ottobre 2013, n. 125”. Questa disposizione, infatti, “ha previsto, ma solo a decorrere dal 1° settembre 2013 (data di entrata in vigore del citato d.l.), l’avvio di nuove procedure concorsuali miranti all’assunzione a tempo indeterminato, anche con contratti a tempo parziale, a favore di personale non dirigenziale, con contratto a tempo determinato, che presenti, tra gli altri, i requisiti di cui all’art. 1, comma 558, della legge n. 296 del 2006 ”; mentre “la disposizione regionale impugnata, operativa già nel corso del 2012, incide, prorogandola, sulla durata complessiva dei periodi di lavoro precario spendibili per avere accesso alla procedura prevista dal piano regionale di stabilizzazione”.

In secondo luogo, la Consulta dichiara fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma, 1, della legge reg. Sardegna n. 17 del 2012.

La norma, infatti, nel promuovere la stabilizzazione del personale regionale, “interessa tutti i lavoratori i quali abbiano svolto il periodo prescritto di lavoro precario sino al 30 giugno 2011”; con conseguente travalicamento del limite previsto dall’art. 1, comma 558, della legge n. 296 del 2006.  Travalicamento che, violando il principio secondo cui “le norme statali in tema di stabilizzazione dei lavoratori precari costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”, si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost.”.  

La Corte dichiara anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 17 del 2012, che “ha parificato ai periodi di lavoro utile ai fini della stabilizzazione regolata dall’art. 36, comma 2, della legge reg. n. 2 del 2007, svolti secondo quanto da esso previsto in forza di contratto di lavoro a termine, o di forme contrattuali flessibili o atipiche, presso l’amministrazione regionale, gli enti o le agenzie regionali rientranti nel comparto di contrattazione regionale di cui alla legge della Regione autonoma Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell’organizzazione degli uffici della Regione), i periodi lavorativi di tirocinio formativo retribuito e le pregresse attività lavorative presso gli enti locali territoriali e le altre pubbliche amministrazioni”. Posto che entrambe le esperienze (caratterizzandosi il tirocinio per una significativa componente formativa e non essendo scontato che i periodi di lavoro presso gli enti locali territoriali e le altre pubbliche amministrazioni “siano utilmente spendibili nel preconizzato svolgimento in pianta stabile di funzioni di competenza regionale”) non possono essere assimilate al “lavoro reso, ancorché in posizione precaria, a beneficio della suddetta amministrazione”, il Collegio ritiene che la suddetta equiparazione sia “lesiva dei principi di parità di trattamento e di buon andamento dell’attività regionale desumibili agli artt. 3 e 97 Cost.”.

Inoltre, la Corte, analogamente all’art. 2, comma, 1, della legge reg. Sardegna n. 17 del 2012, ritiene che la norma in questione violi anche l’art. 117, comma 3, Cost..  

E’, altresì, fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. Sardegna n. 13 del 2012 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost..

Si tratta, in sostanza, di disposizioni che “sanciscono il prolungamento dei termini di durata dei contratti di lavoro a tempo determinato di cui all’art. 6, comma 8, della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011, in quanto non rinnovati dalle soppresse Province sarde, prescrivendone la stipulazione immediata ad iniziativa dei dirigenti delle attuali gestioni provvisorie competenti in materia di personale”.

Ciò posto, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 8, della legge regionale n. 16 del 2011 (che prevedeva “uno stanziamento per finanziare la stipulazione dei contratti a tempo determinato onde poter proseguire l’attività lavorativa del personale in servizio presso i Centri servizi per il lavoro (CSL), i Centri servizi inserimento lavorativo (CESIL) e le Agenzie di sviluppo locale”),ad opera della sentenza 212 del 2012, travolge di riflesso anche la norma in questione. Entrambe le disposizioni, infatti, violano “l’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, pacificamente riconosciuto nella giurisprudenza di questa Corte come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica (a partire dalla sentenza n. 173 del 2012)”.

Queste stesse motivazioni vengono utilizzate anche per dichiarare fondata “la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 5, della legge reg. Sardegna n. 17 del 2012, che ha esteso agli operatori di tutela ambientale già in servizio presso le amministrazioni provinciali le disposizioni dell’art. 3 della legge reg. n. 13 del 2012”, nonché dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 17 del 2012, che ha introdotto il nuovo disposto dell’art. 6, comma 8, della legge reg. n. 16 del 2011.  Anche nella nuova formulazione, infatti, quest’articolo viola l’art. 9, comma 28, del d.l. n. 78 del 2010, in quanto “la spesa stanziata è la stessa della norma previgente caducata” e, di conseguenza, incide sempre “sulle disponibilità recate dal fondo regionale per l’occupazione”. EMF



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Inserito in data 24/11/2013
TAR EMILIA ROMAGNA - PARMA, SEZ. I, 20 novembre 2013, n. 345

Cessione di partecipazioni societarie detenute in società pubbliche: G.O

I Giudici emiliani, richiamando giurisprudenza ormai costante, sottolineano come “non risulta una riserva al giudice amministrativo della giurisdizione in merito alla cessione di partecipazioni societarie detenute in società pubbliche: la norma di cui all’art. 119, I comma, lett. c), infatti, nel prevedere un rito abbreviato in ordine ai provvedimenti ivi enunciati, detta una disposizione non già sulla giurisdizione, ma esclusivamente sul processo, stabilendo un rito speciale per alcune controversie che devono appartenere ex se al giudice amministrativo, secondo le regole ordinarie del riparto della giurisdizione” (TAR Veneto, Sez. I, 18 febbraio 2013, n. 241).

Pertanto, seguendo il criterio consueto, è corretta la devoluzione al giudice ordinario, posto che oggetto dell’odierno contenzioso in esame è la cessione di un pacchetto azionario di un soggetto esercitante una attività liberalizzata non soggetta a regime concessorio e, pertanto, non qualificabile come pubblico servizio.

Non ricorrono, quindi, atti avente un’indole provvedimentale, bensì una mera attività di natura commerciale destinata, fisiologicamente, all’attenzione dell’AGO. CC



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Inserito in data 24/11/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 novembre 2013, n. 278

L. 184/83 e ss. mm.ii.: diritto della madre all’anonimato da leggere in senso diacronico

Il Collegio della Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), «nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica».

Infatti, condividendo le valutazioni del Giudice a quo, la Consulta ritiene la suddetta norma estremamente rigida, perché non prevede, tramite un procedimento stabilito per legge che possa assicurare la massima riservatezza, la possibilità per il Tribunale di verificare, nel tempo,  un'eventuale revoca della decisione materna riguardo all’anonimato.

Si corre il rischio, infatti, di una cristallizzazione foriera, invero, solo di esiti negativi rispetto alla tutela dei diritti della personalità.

La scelta della donna di mantenere la segretezza sulla propria identità non può, infatti, non condizionare la legittima aspettativa del figlio a conoscere le proprie origini. Si tratta, come è agevole comprendere, di due aspetti coincidenti in senso biunivoco, posto che il diritto all’oblio – proprio della donna, così disciplinato, inevitabilmente finisce con l’espropriare  la persona titolare del diritto a conoscere da qualsiasi ulteriore opzione, ormai divenuta irreversibile.

Alla stregua di quanto già sancito dalla Corte EDU del 25 settembre 2012 – caso Godelli c/Italia – la normativa interna, ove non consente alcun mutamento sul segreto, è eccessivamente rigida, proprio perché limita un ambito, quale l’estrinsecazione della personalità umana – rispettivamente nella maternità o nei rapporti di filiazione, di primaria importanza.

In ragione di ciò,  i Giudici della Consulta ne statuiscono l’illegittimità, dato il vulnus arrecato agli articoli 2 e 3 della Costituzione; inducono, altresì, il Legislatore ad intervenire in merito, affinchè si possa vagliare la perdurante validità del diritto materno al proprio anonimato, nonché le “opportune cautele” in cui lo stesso possa essere inciso.

Si intende evitare, spiegano i Giudici costituzionali, che l’aver rinunciato alla genitorialità sul piano giuridico, implichi "anche una definitiva ed irreversibile rinuncia alla genitorialità naturale"; con le conseguenze che potrebbero discenderne in contesti talvolta anche delicati, quale quello della tutela della salute.

Si persegue, come è evidente, un'ottica di massima valorizzazione della personalità umana, anche sulla scia del monito proveniente dal Collegio di Strasburgo. CC

 



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Inserito in data 22/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 novembre 2013, n. 26

Principio dell'anonimato nei concorsi pubblici

Con riguardo alle prove scritte delle pubbliche selezioni, ovvero dei pubblici concorsi, una grave violazione della regola dell'anonimato, da parte della Commissione, determinerebbe la radicale invalidità della graduatoria finale, senza alcuna necessità di accertare, concretamente, la reale lesione della imparzialità adottata durante la correzione degli elaborati.

Il principio costituzionale di uguaglianza, regolato all'art. 3 della Carta Costituzionale, trova una sua fondamentale esplicazione nel criterio dell'anonimato nelle prove scritte delle procedure di concorso nonché, con riferimento al tema in oggetto, di fondamentale importanza risultano essere anche i principi, sanciti all'art. 97 della Costituzione, di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione.

La P.A., infatti, durante i pubblici concorsi o le pubbliche selezioni, deve agire con modalità che assicurino la trasparenza, operando le proprie valutazioni ed esplicando le proprie attività senza condizionamenti esterni e cercando di garantire l'assoluta par condicio tra tutti i candidati.

Trovando, tali regole, fonte nei principi costituzionali sopracitati, ovvero all'art. 3 e all'art. 97, la regola dell'anonimato nei concorsi pubblici riveste una valenza generale, nel principale tentativo di assicurare la piena trasparenza tutelando in tal senso i partecipanti di ogni singolo concorso pubblico.

Secondo quanto ha espresso il Consiglio di Stato: “L'esigenza dell'anonimato si traduce infatti a livello normativo in regole che, per quanto ora rileva, tipizzano rigidamente il comportamento dell'Amministrazione imponendo (come fa ad es. il D.M. 10.06.2010 per la selezione in controversia) una serie minuziosa di cautele e accorgimenti prudenziali, inesplicabili se non sul presupposto dell'intento del Legislatore di qualificare la garanzia e l'effettività dell'anonimato quale elemento costitutivo dell'interesse pubblico primario al cui perseguimento tali procedure selettive risultano finalizzate”, ed ancora si legge che: “Allorché l'Amministrazione si scosta in modo percepibile dall'osservanza di tali vincolanti regole comportamentali si determina quindi una illegittimità di per se rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva in quanto appunto connotata dall'attitudine a porre in pericolo o anche soltanto a minacciare il bene protetto dalle regole stesse”. GMC



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Inserito in data 22/11/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 14 novembre 2013, n. 273

In merito al sistema di finanziamento in materia di trasporto pubblico locale

Con riferimento al sistema di finanziamento in materia di trasporto pubblico locale, deve esser precisato che dalla entrata in vigore dell'art. 20 del d.lgs. 422 del 1997 (“Conferimento alle regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”) sino ad oggi, la materia concernente la disciplina di finanziamento del trasporto pubblico locale ha previsto l'esistenza di alcune fonti, diverse tra loro; si fa, specificamente, riferimento alle risorse proprie della Regione, alle compartecipazioni al gettito di tributi erariali ed alle risorse trasferite mediante fondi istituiti a vario titolo.

Essendo rimasta ancora in buona parte inattuata la Legge n. 42 del 2009 (“Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione”), e dunque incompiuta la piena attuazione dell'art. 119 della Costituzione, l'intervento dello Stato è ammissibile solamente nei casi in cui questo risponda alla esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione medesima.

Come recita l'art. 1, tale legge “costituisce attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni e garantendo i princìpi di solidarietà e di coesione sociale, in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e da garantire la loro massima responsabilizzazione e l'effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti. A tali fini, la presente legge reca disposizioni volte a stabilire in via esclusiva i princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, a disciplinare l'istituzione ed il funzionamento del fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante nonché l'utilizzazione delle risorse aggiuntive e l'effettuazione degli interventi speciali di cui all'articolo 119, quinto comma, della Costituzione perseguendo lo sviluppo delle aree sottoutilizzate nella prospettiva del superamento del dualismo economico del Paese. Disciplina altresì i princìpi generali per l'attribuzione di un proprio patrimonio a comuni, province, città metropolitane e regioni e detta norme transitorie sull'ordinamento, anche finanziario, di Roma capitale.”

Sino ad oggi, occorre rilevare, non è specificato né il livello adeguato di servizio di trasporto pubblico né tanto meno il livello essenziale di tali prestazioni, tali lacune, abbastanza rilevanti sul piano pratico, hanno creato l'esigenza di assicurare quantomeno uno standard di omogeneità nella fruizione del servizio su tutto il territorio nazionale e tale bisogno ha, dunque, richiesto il costante intervento del Legislatore statale con riguardo al finanziamento delle funzioni concernenti il trasporto pubblico.

A tal proposito, si aggiunga anche che le Regioni, non risultano coinvolte nel processo di determinazione dell'aliquota di compartecipazione al gettito delle accise e, di conseguenza,   delle risorse che vanno ad alimentare il fondo; tale considerazione trova la sua giustificazione in quell'automatismo proprio della disciplina di determinazione della dotazione del fondo, alimentato esclusivamente da risorse di provenienza dello Stato. GMC



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Inserito in data 21/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 novembre 2013, n. 5511

Associazioni sindacali e diritto di accesso ad atti amministrativi generali

La pronuncia riguarda il diritto di un’organizzazione sindacale di accesso all’atto relativo alla pianta organica del personale dipendente della Consob.

Si ricorda, anzitutto, che la giurisprudenza amministrativa pacificamente riconosce alle organizzazioni sindacali il diritto di accesso “per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l’associazione” (CdS n. 1034/2012).

Tuttavia, poiché il diritto di accesso è escluso dalla legge n. 241 del 1990 “nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta all’emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione” (art. 24, comma 1, lett. c), occorre comprendere se la pianta organica rientri nella categoria degli atti amministrativi generali.

Nella sentenza si definiscono gli atti amministrativi generali come quelli che contengono prescrizioni aventi effetti plurisoggettivi (con destinatari non determinati né determinabili al momento della loro adozione) e natura astratta (con idoneità ad essere applicati in una serie non definita di casi).

La pianta organica ha effetti plurisoggettivi, ma ha un contenuto non astratto, suscettibile di applicazione una sola volta nell’ambito temporale di efficacia dell’atto. Pertanto, essa non può essere rigorosamente inclusa nell’ambito della categoria degli atti amministrativi generali.

Ma anche qualora si volesse ritenere che la pianta organica rientri nella predetta categoria, l’accesso deve essere ugualmente consentito. Infatti, il citato art. 24, comma 1, lett c) della legge n. 241 del 1990, sottrae gli atti amministrativi generali dall’ambito applicativo delle regole sull’accesso in quanto per essi sono normalmente previsti «particolari norme che ne regolano la formazione». Nel caso in esame, invece, il sistema non conosceva modalità di formazione della pianta organica tali da assicurare un livello di tutela adeguato.

Pertanto, la Consob doveva consentire l’accesso ai documenti richiesti. CDC



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Inserito in data 21/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, sentenza 14 novembre 2013, n. 25454

Azione del condomino a tutela dei beni comuni: non c’è litisconsorzio necessario

Alle Sezioni Unite viene chiesto se ci sia litisconsorzio necessario fra tutti i condomini nella controversia introdotta da un condominio contro altro condomino per far accertare che un tratto di area di parcheggio condominiale era stato dal convenuto abusivamente inglobato nella propria autorimessa.

Anzitutto, si ricorda che l’art. 102 cpc (secondo cui “se la decisione non può che pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo) costituisce norma in bianco che non specifica quando si sia in presenza di un rapporto unico con pluralità di parti. La sussistenza di tale rapporto è questione di diritto sostanziale, che deve essere risolta verificando l’utilità della sentenza quando il giudizio si svolga in assenza di altri soggetti del rapporto; occorre cioè rintracciare gli effetti dell’azione ed individuare così i soggetti che devono partecipare al giudizio affinché la sentenza sia utiliter data.

Nel caso, dal lato del convenuto la partecipazione degli altri condomini non è necessaria, perché egli resta soddisfatto dal rigetto della pretesa attorea, che implica il mantenimento della sua situazione favorevole di possesso del bene. Anche dal lato dell’attore, l’integrazione del contraddittorio non è necessaria, poiché egli mira solo a far valere la propria posizione di comproprietario e non a far accertare la comproprietà dei condomini non partecipi al giudizio.

Questo vale, però, solo nel caso in cui il convenuto opponga un diniego volto solo a resistere alla domanda. Non vale, invece, qualora proponga domanda riconvenzionale, così mettendo in discussione la proprietà degli altri condomini, con finalità di ampliamento del tema del decidere e di ottenimento di una pronuncia avente efficacia di giudicato. In tale ipotesi, infatti, sussiste litisconsorzio necessario e obbligo di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini. CDC




Inserito in data 20/11/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 15 novembre 2013, n. 2310

La P.A. può eccepire l’intervenuta usucapione del terreno illecitamente occupato

Il Tar Lecce, dopo aver confermato la competenza esclusiva del giudice amministrativo (ex art. 133 primo comma lettera g) c.p.a.), come affermato dall’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, in materia di procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, ad eccezione delle ipotesi in cui manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e, dunque, l’Amministrazione espropriante abbia agito nell’assoluto difetto di una potestà ablativa, ha affrontato nel merito la questione del quale era stato investito.

Il ricorrente, proprietario di un terreno occupato dalla p.a., aveva presentato richiesta di restituzione e riduzione in pristino dello stesso, nonché del pagamento dei danni derivanti dai lavori effettuati per la realizzazione di un progetto di sistemazione di un viale che ne aveva comportato l’irreversibile trasformazione.

Il giudice di merito, dopo aver dichiarato priva di pregio la contestata acquisizione della proprietà a seguito di una convenzione stipulata con lo stesso ricorrente ha, di contro, affermato che anche la P.A., in sede di giudizio, può eccepire l’intervenuta prescrizione ventennale ex art. 1158 c.c. precisando, ai fini della corretta individuazione del momento di esercizio dell’azione di interruzione del possesso, che la richiesta di restituzione del terreno era stata presentata con i motivi aggiunti.

Sul primo punto il Tar Lecce ha ricordato che l’art. 28 della Legge 17 Agosto 1942 n. 1150 e ss (rubricato “Lottizzazione di aree”) dispone che: “L’autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda: 1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall’articolo 4 della Legge 29 Settembre 1964 n° 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria […]. La convenzione deve essere approvata con deliberazione consiliare nei modi e forme di legge. Il rilascio delle licenze edilizie nell’ambito dei singoli lotti è subordinato all’impegno della contemporanea esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria relative ai lotti stessi.

Dalle risultanze istruttorie, invece, emergeva chiaramente che il piano di lottizzazione non era mai divenuto definitivo, dunque le aree oggetto di contestazione non erano passate nella proprietà del demanio, non essendo sufficiente il semplice impegno del proprietario, non seguito delle formalità prescritte dalla legge.

Per quanto concerne, invece, l’intervenuta prescrizione ex art. 1158 c.c. il giudice ha ritenuto di dover avallare l’eccezione sollevata dal comune resistente precisando che “l’inizio della situazione giuridica utile per l’usucapione, ossia la trasformazione della (mera) detenzione in possesso, si verifica solo dopo la scadenza del termine massimo di occupazione legittima del terreno”.

Inoltre, a parere del giudice di merito, l’eccezione non sembra preclusa dal D.P.R. 8 Giugno 2001 n° 327, “anche perché in tal caso la possibilità per la P.A. di un acquisto postumo del diritto di proprietà con un provvedimento amministrativo avente efficacia sanante (ex art. 42-bis) è logicamente incompatibile con il già intervenuto acquisto del bene immobile a titolo di usucapione”.

Risultava, peraltro, effettivamente decorso il termine utile dei vent’anni per usucapire il terreno in considerazione del fatto che la presentazione della richiesta di restituzione del bene era stata effettuata solo successivamente, con i motivi aggiunti, e che, come più volte ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione, “in tema di usucapione, non può riconoscersi efficacia interruttiva se non ad atti che comportino, per il possessore, la perdita materiale del potere di fatto sulla cosa, ovvero ad atti giudiziali diretti ad ottenere “ope iudicis” la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapente”.

Sulla base delle considerazioni sopra esposte riteneva, dunque, di dover rigettare le richieste presentate dal ricorrente, in quanto il bene era già stato usucapito dal Comune. VA



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Inserito in data 20/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 15 novembre 2013, n. 25767

La garanzia ex art. 1669 c.c. si applica anche contro il venditore-costruttore

La sentenza in esame ha rigettato il ricorso avverso la sentenza che condannava una società, venditrice-costruttrice, alla rimozione, a proprie spese, dei difetti di costruzione di un immobile.

Per addivenire alla pronuncia de qua, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla querelle relativa alla possibilità o meno di applicare l’art. 1669 c.c., che prevede una responsabilità dell’appaltatore per danni o rovina di edifici derivanti da vizio di suolo o difetto di costruzione, anche nei confronti del venditore-costruttore.

La Suprema Corte ha dato risposta positiva al quesito evidenziando come, nel caso sottoposto alla sua attenzione, la posizione del venditore fosse pienamente equiparabile a quella dell’appaltatore.

Le infiltrazioni d’acqua lamentate dall’acquirente, infatti, si erano verificate poco dopo il completamento della costruzione dell’immobile e potevano facilmente essere ricondotte alle modalità con cui l’opera era stata eseguita. Risultava, dunque, evidente la sussistenza delle condizioni necessarie per invocare la responsabilità per rovina e difetto di immobili disciplinata dall’art. 1669 c.c. “posto che questi non si identificano solo con i fenomeni che influiscono sulla staticità dell’edificio, ma possono consistere in quelle alterazioni che incidono sulla struttura e funzionalità globale, menomando in modo apprezzabile il godimento dell’opera medesima”.

Nel motivare la propria decisione la Suprema Corte ha dichiarato prive di pregio le censure mosse dall’appellante affermando non essere di alcun ostacolo l’espresso riferimento alla persona dell’appaltatore all’interno della norma in esame, infatti, “l’operatività della garanzia di cui all’art. 1669 cod. civ. non è esclusa in ragione del fatto che si verta in ipotesi di vendita giacché l’azione di responsabilità per rovina e difetti di cose immobili, prevista dall’art. 1669 cod. civ., può essere esercitata non solo dal committente contro l‘appaltatore, ma anche dall‘acquirente contro il venditore che abbia costruito l’immobile sotto la propria responsabilità, allorché lo stesso venditore abbia assunto, nei confronti dei terzi e degli stessi acquirenti, una posizione di diretta responsabilità nella costruzione dell’opera, e sempre che si tratti di gravi difetti, i quali, al di fuori dell‘ipotesi di rovina o di evidente pericolo di rovina, pur senza influire sulla stabilità dell’edificio, pregiudichino o menomino in modo rilevante il normale godimento, la funzionalità o l‘abitabilità del medesimo”. VA




Inserito in data 19/11/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, C-4/11 - SENTENZA del 14 novembre 2013

Lo Stato inizialmente incompetente non è tenuto ad esaminare la domanda d’asilo

L’’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento di Dublino prevede che “una domanda di asilo possa esser esaminata da un solo Stato membro”, normalmente quello di primo arrivo del richiedente; con la conseguenza che il Paese di secondo ingresso del richiedente è tenuto a trasferire la procedura allo Stato competente.

Questa regola subisce un’eccezione all’art. articolo 3, paragrafo 2, secondo cui “quando lo Stato membro competente non può essere designato sulla base dei criteri enumerati nel presente regolamento, è competente il primo Stato membro nel quale la domanda è stata presentata”.

In particolare, la Corte del Lussemburgo, già nel caso N.S., ha osservato che lo Stato membro che procede alla determinazione dello Stato membro competente ha la facoltà (e non l’obbligo) di esaminare esso stesso la domanda (ex art. 3, paragrafo 2). Viceversa, lo stesso precedente giurisprudenziale evidenzia che gli Stati membri sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo allo Stato membro competente quando “le carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”.

In questi casi, infatti, la Corte di Giustizia dell’ U. E. sostiene che lo Stato membro identificato inizialmente come incompetente è tenuto, “ferma restando la facoltà di esaminare esso stesso la domanda, a proseguire l’esame dei criteri di detto capo (il III) per verificare se un altro Stato membro possa essere identificato come competente in base ad uno di tali criteri o, in mancanza, in base all’articolo 13 del medesimo regolamento”.

Ne consegue che, “in una situazione del genere, l’impossibilità di trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro identificato inizialmente come competente non implica, di per sé, che lo Stato membro che procede alla determinazione dello Stato membro competente sia tenuto a esaminare esso stesso la domanda di asilo sul fondamento dell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento n. 343/2003”. EMF

 

 



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Inserito in data 18/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 13 novembre 2013 n. 25

Le spese di bonifica di siti inquinati e la responsabilità del proprietario incolpevole

Con la pronuncia in commento, l’Adunanza Plenaria è chiamata a dirimere il seguente punto di diritto: “se, in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula “chi inquina, paga” – l’amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all’art. 240, comma 1, lettera m), d.lgs. n. 152 del 2006 (sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei suoi confronti per gli oneri sostenuti), ovvero se – in alternativa - in siffatte ipotesi gli effetti a carico del proprietario incolpevole restino limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253, stesso d.lgs., in tema di oneri reali e privilegi speciali”.

In particolare, la seconda soluzione appare conforme alle disposizioni contenute nel Titolo V della Parte IV, cit. d.lgs. (artt. da 239 a 253), che “operano una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell’inquinamento e quella del proprietario del sito, che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione”.

Da tale quadro normativo, infatti, emerge “che è il responsabile dell’inquinamento il soggetto sul quale gravano, ai sensi dell’art. 242, d.lgs. n. 152/2006, gli obblighi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale a seguito della constatazione di uno stato di contaminazione”.

Viceversa, “il proprietario non responsabile è gravato di una specifica obbligazione di facere che riguarda, però, soltanto l’adozione delle misure di prevenzione di cui all’art. 242 (che, all’ultimo periodo del primo comma, ne specifica l’applicabilità anche alle contaminazioni storiche che possano ancora comportare rischi di aggravamento della relativa situazione)”. In sostanza, “egli non è tenuto a porre in essere gli interventi di messa in sicurezza di emergenza e bonifica, ma ha solo la facoltà di eseguirli per mantenere l’area libera da pesi (art. 245)”.

Qualora non si riesca ad individuare il responsabile ovvero questi non esegua gli interventi in esame – e sempreché non provvedano spontaneamente il proprietario del sito o altri soggetti interessati – “le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla p.a. competente (art. 250), che potrà rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell’area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253)”.

L’art. 253, d.lgs. n. 152/2006, invero, prevede che in capo al proprietario incolpevole sussista solo un onere reale, che “trova giustificazione proprio nel vantaggio economico che il proprietario ricava dalla bonifica dell’area inquinata”. A differenza dell’obbligazione propter rem, infatti, nell’onere reale “il collegamento con la cosa non è tanto il mezzo per determinare la persona che deve eseguire la prestazione, ma ha soprattutto un significato di garanzia, nel senso che il creditore può sempre ricavare forzatamente dal fondo il valore della prestazione dovutagli”.

Dunque, “il creditore è titolare nei confronti del soggetto gravato dell’onere di un’azione reale di garanzia, (con il relativo diritto di prelazione), che si aggiunge all’azione personale contro il diretto debitore della prestazione garantita dall’onere”.

D’altra parte, “l’obbligo in capo al proprietario, di procedere alla messa in sicurezza ed alla bonifica dell’area, non potrebbe essere desunto neanche dai princìpi civilistici in materia di responsabilità aquiliana e, in particolare, da quello di cui all’art. 2051, c.c. (disciplinante la responsabilità civile del custode)”.

Invero, “tale criterio, da un lato, richiederebbe, comunque, l’accertamento della qualità di custode dell’area al momento dell’inquinamento (e, quindi, almeno sotto questo profilo, l’accertamento di una forma di responsabilità in capo al proprietario) e, dall’altro, sembrerebbe, comunque, porsi in contraddizione con i precisi criteri d’imputazione degli obblighi di messa in sicurezza e bonifica previsti dagli artt. 240 e ss., d.lgs. n. 152/2006, recanti una disciplina esaustiva della materia, non integrabile con la sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze”.

Né potrebbe invocarsi l’evoluzione della responsabilità civile nel senso del “progressivo abbandono dei criteri d’imputazione fondati sulla sola colpa”, in quanto, anche nelle fattispecie che prescindono dall’elemento soggettivo, l’evento lesivo deve essere imputabile almeno sotto il profilo oggettivo.

Non può, dunque, darsi seguito all’opposta tesi secondo cui il proprietario sarebbe gravato di una responsabilità di posizione, poiché sarebbe tenuto ad eseguire le opere di messa in sicurezza e bonifica a prescindere non solo dall’elemento soggettivo (dolo o colpa) ma anche da quello oggettivo (nesso eziologico).

Né il diritto del proprietario incolpevole può essere compresso in nome della funzione sociale, mancando, “anche alla luce dei princìpi desumibili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, un puntuale fondamento legislativo” in tal senso.

Nell’esaminare la giurisprudenza contraria, inoltre, la Plenaria confuta il “richiamo (contenuto nel già citato parere n. 2038/2012 e, per relationem, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria), alla sentenza della Sezione VI del Consiglio di Stato 15 luglio 2010 n. 4561”. Tale ultima pronuncia, invero, “se, da un lato, afferma che la responsabilità del proprietario è una responsabilità da posizione, svincolata dai profili soggettivi del dolo o della colpa e dal rapporto di causalità, dall’altro, specifica, tuttavia, che il “proprietario del suolo – che non abbia apportato alcun contributo causale, neppure incolpevole, all’inquinamento – non si trova in alcun modo in una posizione analoga od assimilabile a quella dell’inquinatore, essendo tenuto non ad eseguire direttamente le opere di bonifica, ma soltanto a rifondere, in sede di rivalsa, i costi connessi agli interventi di bonifica esclusivamente in ragione dell’esistenza dell’onere reale sul sito”. Pertanto, si tratta di un precedente riconducibile all’alveo della giurisprudenza maggioritaria, che “esclude, al di là delle misure di prevenzione, l’esistenza di ulteriori obblighi di facere in capo al proprietario”.

Né è conducente, a sostegno dell’indirizzo minoritario, il richiamo alla sentenza 25 febbraio 2009 n. 4472 della Corte di Cassazione a Sezioni unite civili, poiché la fattispecie non verte sulla bonifica dei siti inquinati, bensì sull’abbandono di rifiuti ex art. 192, d.lgs. n. 152/2006. E ancora non pertinenti sono quelle pronunce che riconoscono la possibilità per l’amministrazione d’imporre “al proprietario non responsabile l’obbligo di messa in sicurezza di emergenza del sito contaminato ... nell’esercizio del potere di adottare ordinanze contingibili ed urgenti, ai sensi dell’art. 54, comma 4, d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sezione VI, sent. 5 settembre 2005 n. 4525)”.

Pertanto, la questione pregiudiziale sottoposta al vaglio della Corte di giustizia dell’Unione europea è la seguente: “se i princìpi dell’Unione europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/C.e. del 21 aprile 2004 (artt. 1 ed 8 n. 3; 13° e 24° considerando) – in particolare, il principio per cui “chi inquina, paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, come quella delineata dagli artt. 244, 245 e 253, d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d’impossibilità d’individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa d’imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.

In primis, infatti, permangono “margini d’incertezza in ordine alla reale portata precettiva” del principio del “chi inquina, paga”, fondamento della responsabilità in materia ambientale.

In linea di massima, è pacifico che “la ratio del principio sia quella di internalizzare i costi ambientali (c.d. esternalità ovvero costi sociali estranei alla contabilità ordinaria dell’impresa), evitando di farli gravare sulla collettività o sugli enti rappresentativi della stessa”.

La regola, difatti, oltre che dal punto di vista repressivo, rileva sotto l’aspetto preventivo, “volto ad incentivare, per effetto del calcolo dei rischi d’impresa, la generalizzata incorporazione nei prezzi delle merci e, quindi, nelle dinamiche di mercato, dei costi di alterazione dell’ambiente, con conseguente minor prezzo delle merci prodotte senza incorrere nei predetti costi sociali attribuibili alle imprese e conseguente indiretta incentivazione per le imprese a non danneggiare l’ambiente (cfr., in tal senso, Cons. Stato, sez. V, sent. 16 giugno 2009 n. 3885)”.

Pertanto, “ciò che rileva ai fini dell’individuazione del soggetto tenuto alle misure di riparazione, non è, quindi, tanto la circostanza di aver causato la contaminazione ma quella di utilizzare, per motivi imprenditoriali, a scopo di lucro, i siti contaminati in maniera strumentale quanto all’esercizio dell’attività d’impresa”.

Questa ricostruzione è condivisibile anche alla luce del tredicesimo “considerando” di cui alla direttiva 2004/35/C.e., che “evidenziando l’insufficienza in materia ambientale della responsabilità civile (sia pure in rapporto all’inquinamento a carattere diffuso e generale) mostra, comunque, l’esigenza d’individuare criteri d’imputazione del danno ambientale prescindenti dagli elementi costitutivi dell’illecito civile e, dunque, non solo dall’elemento soggettivo, ma anche dal rapporto di causalità”.

E ancora il “considerando” n. 24 della citata direttiva 2004/35/C.e., nel conferire alle autorità competenti compiti specifici che implicano appropriata discrezionalità amministrativa, potrebbe essere letta nel senso di attribuire loro anche il potere “di individuare il soggetto che si trovi nelle condizioni migliori per adottare le misure di riparazione, anche a prescindere dal rigoroso accertamento del nesso eziologico”.

A quanto detto, si aggiunga altresì la previsione dell’art. 8 n. 3, lett. b), della direttiva 2004/35/C.e., che “dà rilievo al rapporto di causalità, ma non in positivo, bensì in negativo, nel senso che la presenza del nesso di causalità (e, dunque, la necessità che esso sia dimostrato dall’autorità competente) non sembra essere condizione necessaria al fine del sorgere della responsabilità”.

La politica dell’Unione in materia ambientale si fonda altresì sui principi di precauzione, prevenzione e correzione prioritaria (ex art. 191, paragrafo 2, T.f.U.e.).

In particolare, “il principio di prevenzione presenta tratti comuni con il principio di precauzione, in quanto entrambi condividono la natura anticipatoria rispetto al verificarsi di un danno per l’ambiente: il primo si differenzia dal secondo perché si occupa della prevenzione del danno rispetto a rischi già conosciuti e scientificamente provati, relativi a comportamenti o prodotti per i quali esista la piena certezza circa la loro pericolosità per l’ambiente”.

Entrambi i principi non sono superflui nel caso di danno già consumato, dal momento, anche nell’ipotesi di mera individuazione del responsabile, “il ritardo nell’intervento, giustificato dalla necessità di acquisire un livello di certezza scientifica soddisfacente, può dar luogo al rischio di effetti irreversibili”.

Ne consegue che “i criteri di precauzione e prevenzione potrebbero legittimare l’imposizione, a prescindere dalla prova circa la sussistenza del nesso di causalità, in capo al proprietario del sito contaminato, che si trova nelle migliori condizioni per attuarle, non solo delle misure di prevenzione descritte dall’art. 240, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 152/2006, (già previste a suo carico dall’art. 245, comma 2, stesso d.lgs.), ma anche di misure di sicurezza di emergenza”.

Per il principio della correzione prioritaria, invece, i danni causati all’ambiente devono essere contrastati “in una fase il più possibile vicina alla fonte, per evitare che i loro effetti si accrescano e si moltiplichino. Nelle situazioni d’impossibilità d’individuare il responsabile, o di evitare da parte sua le misure correttive, la fonte cui il principio fa riferimento sembra poter essere ragionevolmente individuata nel soggetto attualmente proprietario del fondo che, proprio per la sua posizione di proprietario, è quello meglio in grado di controllare la fonte di pericolo rappresentata dal sito contaminato”. 

Nonostante tali dubbi interpretativi, l’Adunanza Plenaria ritiene che “la questione pregiudiziale sottoposta alla Corte di giustizia possa essere risolta in senso negativo, escludendo cioè che i richiamati princìpi comunitari in materia ambientale possano risultare ostativi ad una disciplina nazionale che non consenta all’autorità competente d’imporre misure di messa in sicurezza d’emergenza e/o bonifica in capo al proprietario del sito non responsabile della contaminazione, prevedendo in capo al medesimo solo una responsabilità patrimoniale limitata al valore del fondo dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica, secondo il meccanismo sopra descritto dell’onere reale e del privilegio speciale immobiliare”.

A tal riguardo, infatti, l’ordinanza richiama la sentenza della Corte di giustizia, Grande Sezione, 9 marzo 2010, in causa C-378/08, secondo cui, in applicazione del principio per cui “chi inquina, paga”, l’obbligo di riparazione incombe “ in realtà sugli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento; gli operatori medesimi, pertanto, non devono farsi carico di oneri inerenti alla riparazione di un inquinamento al quale non abbiano contribuito”.

In conclusione, da un’attenta lettura dei passaggi motivazionali emerge “come, per il Giudice comunitario, il rapporto di casualità sia comunque elemento imprescindibile ai fini dell’applicazione della direttiva 2004/35/U.e. e del principio comunitario per cui <> ”. EMF

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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Inserito in data 16/11/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 novembre 2013, n. 264

Art. 49 TFUE: libertà di stabilimento ed illegittimità costituzionale

Con la pronuncia in esame i Giudici della Consulta intervengono in tema di libertà di stabilimento ed obblighi discendenti dal diritto comunitario, sancendo l’illegittimità costituzionale di una disposizione regionale.

In sostanza, una norma della Regione Molise – art. 6, comma 1, lettera b), della legge della Regione Molise 13 novembre 2012, n. 25 (Norme per il trasporto di persone mediante servizi pubblici non di linea - Istituzione del ruolo dei conducenti di veicoli o natanti di cui alla legge 15 gennaio 1992, n. 21) - prevedeva limiti specifici in sede di iscrizione nel registro dei conducenti di veicoli o natanti adibiti ad autoservizi pubblici non di linea, richiedendo – in capo a chi volesse farne parte – la residenza in un Comune compreso nel territorio della Regione da almeno un anno, oltrechè la sede legale dell’impresa nel territorio regionale.

E’ evidente l’infondatezza di un simile assunto, stante la restrizione arrecata a quanti intendano intraprendere una simile attività.

Il Legislatore regionale, in tal modo, ha violato la libertà di stabilimento – di cui all’articolo 49 TFUE - poichè determina una discriminazione “indiretta” dei cittadini dell’Unione europea, così come dei cittadini italiani residenti in altre Regioni, ed ha l’effetto di favorire i cittadini della propria Regione, i quali verosimilmente dispongono più facilmente del requisito richiesto.

Si arreca, in tal guisa, un chiaro vulnus all’articolo 117, primo comma, della Costituzione – che impone nell’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni il rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; in questo caso, di quelli discendenti dalla norma che vieta restrizioni nell’esercizio di attività commerciali o, in genere, di attività di impresa – di cui, appunto, all’articolo 49 del Trattato europeo.

Ben si comprende, quindi, la posizione assunta dal Collegio della Consulta, teso alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata. CC



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Inserito in data 15/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 novembre 2013, n. 5429

Diniego di rinnovo del permesso di soggiorno. Diritto ad un giudizio di pericolosità reale

I Giudici di Palazzo Spada, riformulando la pronuncia gravata, intervengono in tema di rilascio del permesso di soggiorno, nonchè sulla relativa disciplina di rinnovo e limiti.

In particolare, unendosi alle doglianze dell’appellante, i Giudici lamentano come l’Amministrazione avesse effettuato il diniego di rinnovo fondandosi su un giudizio di pericolosità non reale, ma solo apparente, poichè basato su un sostanziale automatismo proveniente dai – sia pur gravi – reati addebitati all’istante.

Occorre, ritiene il Collegio, che si tenga conto dei “sopraggiunti motivi” – ex art. 5, co. 5, prima parte, del d.lgs. n. 286 del 1998 – quali il tempo di permanenza in Italia, l’esistenza di un nucleo familiare, oltrechè il consistente lasso di tempo, frattanto intercorso, dal verificarsi della condotta penalmente rilevante.

Tutti requisiti che, come è ovvio, il Giudice amministrativo non può vagliare, ma che rimette all’Amministrazione appellata, in vista di una rinnovazione del procedimento alla luce di una maggiore attualità.

E’ auspicabile, infatti, che si compia una valutazione complessiva della personalità dell’istante, al fine di ponderarne i singoli aspetti della vita familiare, lavorativa e privata che, inevitabilmente, connotano l’esistenza di ciascun singolo individuo e che appaiono decisivi in un giudizio di tal fatta. CC



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Inserito in data 15/11/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA - SENTENZA 7 novembre 2013 n. 29381/09 e n. 32684/09

Unioni civili e diritti coppie omosessuali

La Grande Camera di Strasburgo segna un ulteriore, importante passo avanti nel riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali.

Infatti, sanzionando la condotta della Grecia, lamenta l’iniquità della relativa normativa in tema di filiazione e famiglia – presente ancora in taluni Stati aderenti alla Convenzione, la cui operatività è limitata con riguardo alle coppie omosessuali. In tal modo, infatti, si finisce con il violare tanto l’articolo 14, che vieta ogni forma di discriminazione, quanto l’articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Con riguardo al caso concreto, il Collegio evidenzia, infatti, l’assoluta astrattezza del concetto di “famiglia in senso tradizionale”, invocato dallo Stato ellenico a difesa delle proprie preclusioni nei riguardi delle coppie omosessuali.

Si tratta, infatti, di una nozione ormai desueta, inidonea rispetto all’evoluzione della società; è artificiale, infatti, poter mantenere l’opinione secondo la quale, a differenza delle coppie eterosessuali, quelle dello stesso sesso non possano godere del diritto alla vita familiare secondo l’articolo 8”.

Pertanto, per la Corte di Strasburgo, “la relazione tra i ricorrenti, una coppia che coabitava in una stabile unione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, allo stesso modo della relazione tra una coppia eterosessuale che si trova in un’analoga situazione”.

Quindi, non vi è motivo alcuno che sorregga l’avvenuta discriminazione da parte dello Stato greco, la cui violazione dei suesposti parametri normativi giustifica la condanna da parte della Corte EDU. CC




Inserito in data 14/11/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II bis, 6 novembre 2013, n. 9470

Inerzia della P.A., risarcibilità del danno da ritardo

Il TAR del Lazio, con tale sentenza, esamina l'evoluzione che ha condotto alla  risarcibilità del danno da c.d. “ritardo”, sottolineando la natura aquiliana della responsabilità della Pubblica Amministrazione ed assumendo come fondamentale parametro l'art. 2236 del codice civile il quale, sotto la rubrica “Responsabilità del prestatore d'opera”, recita che: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”.

L'azione di “risarcimento da ritardo” della P.A., deve essere annoverata nell'ambito dell'art. 2043 del codice civile, ai fini della identificazione degli elementi costitutivi dell'illecito, nonché dell'art. 2236, già contemplato, al fine di delineare i confini propri della responsabilità.

L'azione di risarcimento del danno riveste, in tale contesto, natura extracontrattuale; non è sufficiente la illegittimità del provvedimento o, tuttavia, l'inerzia dell'amministrazione per poter prevedere la responsabilità aquiliana della pubblica amministrazione, in quanto è essenziale il giudizio di imputabilità soggettiva, quantomeno a titolo di colpa, dell'apparato amministrativo procedente.

Il comportamento tenuto dalla P.A., in tal caso, ai fini del riconoscimento della fondatezza della domanda, dovrà essere riconducibile ad un comportamento negligente o, comunque, ad una volontà di nuocere che si ponga, dunque, in netto contrasto coi principi di legalità, imparzialità e buon andamento contemplati all'art. 97 della Carta Costituzionale.

Infine, l'azione di risarcimento del danno, come rilevato, si inquadra pienamente nella sua natura extracontrattuale, richiede tuttavia la prova della quantificazione del danno stesso, tanto con riferimento al danno emergente quanto al lucro cessante, in quanto questi rappresentano elementi costitutivi, ex art. 2697 del c.c., della relativa domanda. GMC



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Inserito in data 14/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 5 novembre 2013, n. 24801

Principi fondamentali in tema di responsabilità medica

Con la sentenza in oggetto, la Corte di Cassazione riconferma i principi, già stabiliti antecedentemente, in materia di responsabilità medica, con riferimento soprattutto a quelle prestazioni professionali contraddistinte da un certo grado di specialità.

È oramai pacifica la considerazione secondo la quale la responsabilità dell'ente ospedaliero si inquadri perfettamente entro i cardini della responsabilità di tipo contrattuale, in quanto l'accettazione del paziente nella struttura ospedaliera, al fine di consentire un ricovero ovvero una visita in ambulatorio, comporta la conclusione di un vero e proprio contratto.

La natura “contrattuale” della responsabilità, emerge anche con riferimento all'obbligazione nascente in capo al medico: nonostante, infatti, questa non sia propriamente fondata su un contratto, questa risulta essere fondata sul c.d. “contatto sociale”, ragion per cui si riconnette tale forma di responsabilità ad una di tipo contrattuale.

Nei casi di responsabilità da intervento effettuato da un medico dipendente da una struttura sanitaria, sia essa pubblica ovvero privata, è possibile applicare la disciplina prevista dall'art. 1218 del c.c., tanto nei confronti del medico, quanto nei confronti della struttura medesima.

Infatti, alla luce dell'art. 1218 del c.c., sotto la rubrica “Responsabilità del debitore”, si legge che: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Alla luce di tale norma, il paziente-creditore ha l'onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto inadempimento, non dovendo provare la colpa del medico o della struttura sanitaria e la relativa gravità.

Al debitore, invece, presumendo la colpa, incombe l'onere di provare che la inesattezza della prestazione sia dipesa da una causa a lui non imputabile; si tratterebbe sostanzialmente della prova del fatto impeditivo, in difetto della quale, considerando gli artt. 1218 e 2697 circa l'onere della prova, egli soccomberebbe, in applicazione del principio di vicinanza della prova.

Quanto alla differenza tra diligenza professionale “generica” e “qualificata”, il medico deve sempre agire seguendo la propria diligenza professionale, qualificata dalla specifica attività che viene esercitata ex art. 1176, comma 2 e art. 2236 c.c. ove, chi assume un'obbligazione nella qualità di specialista, o un'obbligazione che presuppone tale specifica qualità, è tenuto alla perizia propria della categoria.

I limiti della responsabilità in oggetto, sono quelli rinvenibili in tema di responsabilità contrattuale presupponendo, dunque, l'esistenza della colpa lieve del debitore e, dunque, il difetto della ordinaria diligenza.

Infine, con riferimento alla condotta del medico specialista, questa deve essere esaminata non con minore ma, bensì, con maggiore rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo tenere in considerazione la specializzazione e la necessità di adeguare la condotta alla natura della prestazione del caso. GMC




Inserito in data 13/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 novembre 2013, n. 5420

L’eccezione di difetto di giurisdizione non è sollevabile da chi vi ha dato luogo

Non è sollevabile l'eccezione di difetto di giurisdizione dalla parte che vi ha dato luogo agendo in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, in appello, disconosce e contesta la giurisdizione. Ritenere il contrario, infatti, contrasterebbe con i principi di correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione, ma soprattutto con il generale principio che vieta, anche in sede processuale, ogni condotta integrante abuso del diritto.

La giurisprudenza consolidata ha riconosciuto l’esistenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, il quale, ai sensi dell'art. 2 Cost e dell'art. 1175 cc, permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto. Tale abuso consiste nell’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal legislatore. Come conseguenza di tale eventuale abuso, l'ordinamento rifiuta la tutela ai poteri, diritti e interessi esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva.

Il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione di un principio generale che si riallaccia al canone costituzionale di solidarietà, “si applica anche in ambito processuale, con la conseguenza che ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo.” Esso costituisce, dunque, esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa. CDC



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Inserito in data 13/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 novembre 2013, n. 5380

L’azione di ottemperanza può condurre alla formazione del giudicato sostanziale

Com’è stato recentemente affermato dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 2 del 2013, l’azione di ottemperanza per “l’attuazione” delle sentenze del giudice amministrativo non si riduce alla mera esecuzione delle stesse, potendo essa implicare anche la risoluzione di questioni di interpretazione della portata del giudicato in relazione al riesercizio dell’attività amministrativa, così assumendo le caratteristiche di un’azione di “chiara natura cognitoria”. Pertanto, le questioni relative all’esatta attuazione del giudicato devono essere proposte mediante l’azione ex art. 112 e ss. cpa davanti al “giudice naturale”, che è quello dell’ottemperanza.

Ulteriore conseguenza è che l’azione di ottemperanza può condurre alla formazione del giudicato sostanziale, “ogniqualvolta il giudice con essa adito abbia risolto questioni concernenti il significato e la portata del titolo formatosi nel giudizio di cognizione, concorrendo con quest’ultimo alla formazione della regola di diritto applicabile al rapporto amministrativo controverso”. Ciò deriva dal fatto che il giudice dell’ottemperanza, riempiendo gli spazi vuoti lasciati dal giudicato formatosi in sede di cognizione “può adottare una statuizione analoga a quella che potrebbe emettere in un nuovo giudizio di cognizione, risolvendo eventuali problemi interpretativi che comunque sarebbero devoluti alla sua giurisdizione.” CDC



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Inserito in data 12/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 novembre 2013, n. 5361

Il risarcimento per equivalente ha natura risarcitoria e non sanzionatoria

La questione sottoposta ai giudici di Palazzo Spada verte sulla natura sanzionatoria o meno del risarcimento per equivalente previsto dall’art. 59 comma 3 della l. 1089/1939, il quale stabilisce che

“qualora la riduzione della cosa in pristino non sia possibile, il trasgressore è tenuto a corrispondere allo Stato una somma pari al valore della cosa perduta o alla diminuzione di valore subita dalla cosa per effetto della trasgressione”.

A seconda della soluzione adottata, infatti, muterebbe il regime giuridico applicabile e, in particolare, per quanto interessa nel caso di specie, la prescrittibilità o meno del diritto stesso.

Sul punto, il giudice di primo grado ha osservato che, anche a voler riconoscere natura sanzionatoria alla condanna al risarcimento per equivalente, questa non potrebbe, comunque, sottrarsi all’applicazione dell’art. 2947 c.c.

Secondo l’orientamento seguito dal Consiglio di Stato, infatti, sebbene il potere di irrogare la sanzione in questione possa essere esercitato in qualunque momento, l’imprescrittibilità atterrebbe solo al potere di accertamento dell’illecito e non anche all’irrogazione della sanzione pecuniaria a questo conseguente.

Una simile interpretazione sarebbe giustificata sia dall’esigenza di stabilità dei rapporti pubblici, sia dall’esigenza di assicurare il buon andamento della P.A. evitando inutili ritardi derivanti dall’inerzia della stessa.

L’applicazione di un meccanismo privatistico, dunque,consistente nella misura risarcitoria, anche se per il raggiungimento di un fine pubblicistico, dovrebbe imporre, anche in subiecta materia, il rispetto delle regole e dei principi civilistici operanti in materia di illecito aquiliano e, primo fra tutti, il termine della prescrizione quinquennale contemplato dall’art. 2947 c.c.”.

Il Consiglio di Stato ha così avallato la decisione del Tar salentino.

Invero, dopo aver chiarito la natura risarcitoria e riparatoria, non già sanzionatoria del risarcimento per equivalente, ha escluso l’applicabilità della disciplina prevista per le sanzioni amministrative.

In particolare, facendo riferimento ad una vecchia pronuncia del medesima sezione, il Consiglio ha evidenziato il “carattere peculiare della sanzione amministrativa di cui all’art. 59 citato che, a differenza delle sanzioni previste dagli articoli 58, 60 e 69 della legge n. 1089 del 1939, che hanno carattere meramente afflittivo e punitivo, ha natura riparatoria e risarcitoria e, pertanto, non rientra nell’ambito della legge n. 689/1981” (C.d.S 5904/05), rilevando, peraltro, che il potere di irrogare la misura ripristinatoria (per equivalente) in oggetto, da parte dell’Amministrazione, non può considerarsi imprescrittibile”.

L’Amministrazione, dunque, dopo aver proceduto all’accertamento dell’impossibilità della riduzione in pristino del bene, deve procedere alla richiesta della pretesa risarcitoria nei termini di decadenza previsti dall’art. 2947 c.c.

La responsabilità del danneggiante, infatti, andrebbe ricondotta all’interno della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

Ammettere senza limiti di tempo la possibilità di far valere la pretesa risarcitoria, infatti, comporterebbe la creazione di uno ius speciale favore della P.A anche in mancanza di una norma derogatoria, nonché di una ragione giustificatrice della diversità di trattamento: “la misura risarcitoria per equivalente (…) costituisce l’oggetto di un rapporto obbligatorio a carattere patrimoniale che è distinto dalla funzione pubblica di tutela che si manifesta nel momento presupposto dell’accertamento, il quale soltanto, per tale sua natura (e per il carattere materiale di permanenza dell’illecito), rimane imprescrittibile”.

La soluzione così fornita risponde alle molteplici esigenze sopra esposte ed appare maggiormente rispettosa del diritto di difesa e del principio di uguaglianza garantiti rispettivamente dagli art. 24 e 3 della Costituzione. VA



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Inserito in data 12/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA, SENTENZA 7 NOVEMBRE 2013 N. 44881

I valori soglia del possesso di stupefacenti non hanno valore presuntivo

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, è tornata sull’annosa questione dei valori soglia previsti per qualificare come “finalizzato ad uso personale” il possesso di sostanze stupefacenti, sì  come previsto dall’art. 73 co 1-bis lett. a) del d.p.r. 309/90.

La Suprema Corte, infatti, ha affermato che il superamento delle soglie previste con decreto del ministeriale non può automaticamente tradursi nell’accusa di spaccio di stupefacenti dovendo, viceversa, accertare tale finalità prendendo in considerazioni anche le altre peculiarità del caso.

Nella vicenda sottoposta alla loro attenzione gli Ermellini hanno ritenuto che, le particolari condizioni in cui versava il soggetto accusato del reato de quo, un ragazzo notoriamente tossicodipendente e affetto da tetraplegia, fossero idonee a giustificare la detenzione di un’elevata quantità di hashish e ad escludere la finalità di spaccio.

 La Suprema Corte, dunque, dopo aver affermato che “il superamento dei limiti massimi indicati nel decreto ministeriale cui fa riferimento l’art. 73, comma 1 bis, lett. a), Dpr n. 309/1990 non costituisce una presunzione, assoluta o relativa, in ordine alla destinazione della sostanza stupefacente a un uso non esclusivamente personale, dovendo il giudice globalmente valutare, sulla base degli ulteriori parametri indicati dalla norma, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da provare la destinazione illecita della sostanza detenuta”, ha cassato con rinvio la sentenza di condanna.

Nel caso concreto, infatti, la detenzione di un simile quantitativo di stupefacenti era stata giustificata in considerazione delle condizioni di salute dell’imputato e dell’uso cui era destinata. La droga, infatti, veniva utilizzata anche come antidolorifico e, a causa della malattia che affliggeva il giovane, appariva verosimile che questi ne detenesse delle scorte ad uso personale in considerazione delle difficoltà in cui incorreva ogni qualvolta doveva rifornirsene.

In questo contesto il mero superamento del valore-soglia non appare, dunque, sufficiente a provare la destinazione allo spaccio”. VA

 

 




Inserito in data 11/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 8 novembre 2013, n. 5337

L’immemorabile non si applica ad un ponte, che costituisce pertinenza di un fiume

L'istituto dell’immemorabile si caratterizza “per una risalenza nel tempo di situazioni fattuali -da cui si presume l'esistenza di un titolo legittimo corrispondente- delle quali tuttavia non vi è traccia documentale”.

Si tratta, in sostanza, di una situazione "cuius memoria non extat", che “realizza una fattispecie analoga, per dir così, alla regola di legittimazione relativa al possesso di beni mobili non registrati di cui all'art. 1153 cod. civ.”. Infatti, simmetricamente a questi ultimi beni, la proprietà degli immobili “si acquisiva in funzione del possesso protratto per un tempo così lungo da non conservarsene memoria né nei contemporanei né in forma documentale riferibile agli avi”.

Nonostante l’immemorabile fosse stato ripudiato dalla codificazione ottocentesca, che optò per un sistema di documentazione cartolare della proprietà fondiaria, una serie di disposizioni fanno propendere per la sua perdurante esistenza nell'ambito dei rapporti relativi a beni pubblici (art. 2 del r. d. 15 maggio 1884, n. 2503 con riferimento al possesso di diritti esclusivi di pesca; art. 23 del r. d. 8 ottobre 1931, n. 1604, sempre in tema di diritti esclusivi di pesca; art. 2 della legge 16 giugno 1927, n. 1766, di conversione dei rr.dd. 22 maggio 1924, n. 751, 28 agosto 1924, n. 1484 e 16 maggio 1926, n. 895, in materia di usi civici).

Ciò premesso, “l'applicabilità dell'istituto quale modo di acquisto e di prova della proprietà deve rapportarsi, inevitabilmente, al tipo peculiare del bene demaniale, nel senso che non può non annettersi rilievo alla distinzione tra demanio naturale e necessario e demanio artificiale e accidentale, poiché nella prima ipotesi sono le stesse caratteristiche fisico-funzionali del bene che ne connotano lo statuto, escludendo che sul medesimo possa accamparsi altro che un eventuale uso particolare, sia o meno assistito da specifico titolo concessorio”.

In particolare, sulla stessa scia del codice civile del 1865, il legislatore del 1942 all’art. 822 ha sostenuto la demanialità “di fiumi, torrenti, oltre che dei laghi e delle altre acque definite pubbliche dalle leggi in materia”, escludendone ex art. 823 l'alienabilità e la possibilità di "...formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano".

Peraltro, “coerente alla demanialità delle acque pubbliche, e tra di esse di fiumi e torrenti, è il regime giuridico, coevo all'emanazione del codice civile del 1865, della legge sulle opere pubbliche 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F”, trasfuso poi nel r. d. 25 luglio 1904, n. 523. Quest’ultimo decreto, recante il testo unico delle opere idrauliche delle varie categorie, prevede all’art. 93 che: “Nessuno può fare opere nell'alveo dei fiumi, torrenti, rivi, scolatoi pubblici e canali di proprietà demaniale, cioè nello spazio compreso fra le sponde fisse dei medesimi, senza il permesso dell'autorità amministrativa”. Non solo. L’art. 97 subordina, altresì, la ricostruzione di ponti (lettera k) allo speciale permesso del Prefetto e l'art. 98 prevede la speciale autorizzazione dei Ministero per le nuove costruzioni nell'alveo (ivi compresi i ponti).

Ne consegue che la funzione principale ed essenziale di un ponte realizzato su un fiume, torrente o corso d'acqua, è “il suo scavalcamento e quindi è innegabile che l'opera costituisca anzitutto e in modo fondamentale una pertinenza del bene demaniale, essendo posta a durevole servizio di questo, e a questo incorporata attraverso l'appoggio stabile sulle sue sponde, oltre che in relazione alla sua insistenza sullo spazio verticale sovrastante l'alveo del corso d'acqua pubblica, non potendo immaginarsi che, per il demanio, non valga la regola che riguarda la proprietà privata, già espressa dal noto brocardo " usque ad sidera, usque ad inferos", ripresa dall'art. 440 del codice civile del 1865 ("Chi ha la proprietà del suolo ha pur quella dello spazio sovrastante e di tutto ciò che si trova sopra o sotto la superficie") e, sia pure in maniera più articolata, dall'art. 840 del codice civile del 1942”. EMF

 

 



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Inserito in data 11/11/2013
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 8 novembre 2013, n. 1242

Il confronto ex art. 7 L. 241/90 precede la revoca dell’aggiudicazione definitiva

L’aggiudicazione definitiva della gara, proprio in relazione alla stabile posizione giuridica determinatasi nei confronti dell’aggiudicatario, “può essere giuridicamente eliminata dalla p.a. soltanto attraverso gli strumenti previsti dall’ordinamento, in uno con l’adeguata e congrua motivazione del provvedimento di secondo grado, il quale deve necessariamente essere preceduto da un reale confronto dialettico tra le parti nei termini previsti ed indicati dall’art. 7 della L. 241/1990”.

Invero, la giurisprudenza osserva che “la pubblica amministrazione conserva indiscutibilmente anche in relazione ai procedimenti di gara per la scelta del contraente il potere di revocare, ovvero di annullare, in via di autotutela il bando e le singole operazioni di gara, quando i criteri di selezione si manifestino come suscettibili di produrre effetti indesiderati o comunque illogici (C.d.S., sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3989), tenendo quindi conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse (C.d.S., sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5374), nei termini indicati e validi per tutta l’azione della p.a., già dall’art. 97 della Carta”.

Tale orientamento è confortato dal fatto che “le prescrizioni statuite dalla lex specialis, la cui rigida inderogabilità è pacificamente riconosciuta dalla costante giurisprudenza, possono essere superate soltanto previo loro annullamento in sede di autotutela (Consiglio di Stato, sez. V, 8 novembre 2012, n. 5681)”.

D’altra parte, si tratta di un approdo in linea anche con la giurisprudenza comunitaria secondo cui: "l'accertamento dell'idoneità degli offerenti viene di fatto effettuato dalle amministrazioni aggiudicatrici in conformità ai criteri di idoneità economica, finanziaria e tecnica (detti "criteri di selezione qualitativa") di cui agli artt. 31 e 32" della direttiva 92/50 (Corte di Giustizia U.E., 24 gennaio 2008, n. C-532/06) .

Deve, tuttavia, precisarsi che, “fino a quando non sia intervenuta l'aggiudicazione definitiva, la revoca, ovvero l’annullamento del bando di gara e degli atti successivi, rientra nella ampia potestà discrezionale della P.A., comunque accertata la presenza di concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere inopportuna, o anche solo da sconsigliare, la prosecuzione della gara ( Cons. Stato Sez. V, 9 aprile 2010, n. 1997)”.

L'aggiudicazione provvisoria, infatti, “determina nell'aggiudicatario soltanto una aspettativa di mero fatto e non già un affidamento qualificato ( Cons.St., sez.IV, 6 aprile 2010, n.1907)”.

Pertanto, “ove la p.a. decida di revocare, in sede di autotutela, il provvedimento di aggiudicazione provvisoria, l'avvio del relativo provvedimento non dovrà essere neppure notificato al soggetto provvisoriamente aggiudicatario. (Consiglio Stato, sez. V, 24 marzo 2006, n. 1525)”. EMF



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Inserito in data 07/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 novembre 2013, n. 24

Ancora precisazioni sulla portata dell’art. 38, co. 1’, lett. b), Codice Appalti

Con la pronuncia in esame il sommo Consesso amministrativo interviene, ancora una volta, sulla portata dell’articolo 38 co. 1’, lett. b), del Codice degli Appalti.

Più nel dettaglio, l’ordinanza di rimessione aveva posto all’attenzione dei massimi Giudici la necessità di inquadrare il c.d. socio di maggioranza nell’ambito delle società di capitali con meno di quattro soci – quale soggetto tenuto alle dichiarazioni di cui all’articolo 38. Sussisteva, inoltre, il dubbio circa la nozione di maggioranza – se meramente formale o, piuttosto, quantitativa/sostanziale.

Al riguardo erano emerse due distinte posizioni: con la prima si sosteneva che nel caso di due soci al 50% la dichiarazione debba essere fatta da entrambi poiché ciascuno può impedire scelte non concordate e permettere soltanto quelle che condivide. Con la seconda, invece, si affermava la possibile rilevanza delle partecipazioni di maggioranza relativa.

Il massimo Collegio approda ad una decisione estremamente lineare, affermando che “L’espressione “socio di maggioranza†di cui alle lettere b) e c) dell’art. 38, comma 1, del d.lgs n. 163 del 2006, e alla lettera m-ter) del medesimo comma, si intende riferita, oltre che al socio titolare di più del 50% del capitale sociale, anche ai due soci titolari ciascuno del 50% del capitale o, se i soci sono tre, al socio titolare del 50%.â€.

In questo modo, ritengono i Giudici, è possibile perseguire la finalità della norma di cui all’articolo 38 – qui menzionato – ovvero evitare che le società siano guidate da soggetti della cui moralità si dubita. Inoltre, diventa possibile evitare margini di discrezionalità e incertezza nell’azione amministrativa (e quindi per i concorrenti alle gare), essendo – come si vede - individuati preventivamente i soci obbligati alle dichiarazioni.

In ultimo, una simile decisione appare conforme, altresì, con la normativa sulla tassatività e tipizzazione delle cause di esclusione. Infatti, da un lato, la mancata dichiarazione da parte dei soggetti sopra indicati si configura quale ragione di esclusione per “mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice†(art. 46, comma 1-bis, del Codice, aggiunto dall’art. 4, del d.l. n. 70 del 2011), ponendosi l’inadempimento in questione in contrasto con le dette prescrizioni secondo il loro fine sostanziale di salvaguardia delle garanzie di affidabilità dei contraenti, e, dall’altro, la precisazione di fattispecie certe preclude nell’applicazione della normativa l’individuazione di cause di esclusione non preordinate, in coerenza con la prescrizione della loro tipizzazione.

Il Collegio, restituendo gli atti ai Giudici rimettenti, offre, ancora una volta, un’interpretazione quanto più autentica della norma oggi in esame. CC

 

 



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Inserito in data 06/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 ottobre 2013, n. 5222

Legge Severino (D.lgs. 235/2012) e principio di irretroattività

L'applicazione della cause ostative, regolate dal d.lgs. n. 235 del 2012, Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'art.1, comma 63, della legge 6 novembre 2012 n.190, alle sentenze di condanna intervenute in un arco di tempo anteriore, non si pone in contrasto con il principio della irretroattività della norma penale, nonché con le disposizioni sanzionatorie ed afflittive, in quanto la normativa in esame non ha natura, neanche in senso ampio, sanzionatoria, penale ovvero amministrativa.

Il Legislatore, infatti, con il D.lgs. preso in riferimento, n. 235/2012, persegue l'intento di allontanare, dallo svolgimento di pubblici uffici, dei soggetti la cui palese inidoneità sia accertata mediante pronunce irrevocabili, di modo che la condanna penale irrevocabile venga in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è collegato un giudizio di inidoneità morale a ricoprire la carica elettiva.

In tal senso, dunque, la condanna stessa rappresenta un requisito negativo ai fini della capacità di partecipazione alla competizione elettorale medesima. GMC



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Inserito in data 06/11/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II Ter, 30 ottobre 2013, n. 9274

Sull'informazione antimafia c.d. atipica

L'atto mediante il quale, in conseguenza dell'informativa prefettizia, la stazione appaltante receda dal contratto di appalto, rappresenta espressione di un potere di valutazione avente natura pubblicistica. In virtù di ciò, la controversia relativa appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo.

L'informativa antimafia “supplementare”o “atipica” si distingue rispetto all'informativa antimafia c.d. tipica; la prima rappresenta, infatti, un provvedimento  mediante il quale il Prefetto, pur attestando la mancanza di accertate ostatività, segnala le evenienze dubbie riscontrate all'Amministrazione interessata, al fine di consentirle una valutazione discrezionale ed autonoma sulla opportunità di instaurare, ovvero proseguire, il rapporto contrattuale o amministrativo con l'impresa oggetto di verifica.

L'informativa antimafia atipica, si badi, non determina di per sé un divieto legale a contrarre e, inoltre, non comporta, necessariamente, l'adozione di provvedimenti pregiudizievoli per il privato, essendo questi rimessi alla valutazione discrezionale della medesima stazione appaltante.

Quando si riceve l'informativa atipica, infatti, la Stazione appaltante è tenuta a valutare gli elementi in essa contenuti ed, eventualmente, a fornire una idonea motivazione in ordine all'assenza dei requisiti soggettivi in capo all'impresa, così da poter giustificare la risoluzione del contratto.

Il potere di revoca qui preso in oggetto ha, dunque, una portata generale e rappresenta una delle manifestazioni tipiche del potere amministrativo, intimamente connesso ai principi costituzionali previsti e regolati dalla Carta Costituzionale, quali l'imparzialità ed il buon andamento della funzione pubblica.

Tuttavia, tale potere, non è illimitato poiché deve pur sempre sottostare alla valutazione circa l'esistenza, in concreto, del pubblico interesse, in cui si sostanzia il legittimo esercizio della autotutela decisoria. GMC

 

 



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Inserito in data 05/11/2013
CORTE DI CASSAZIONE – SESTA SEZIONE CIVILE - ORDINANZA 4 novembre 2013, n. 24674

Non è specifica la procura a contrarre con sé stesso ad un prezzo “conveniente”

La Suprema Corte ha dichiarato insufficiente la specificità della procura con la quale si autorizza il rappresentate a contrarre con se stesso al prezzo ritenuto “conveniente”, requisito richiesto per assicurare la validità del contratto così concluso.

Le disposizioni contenute nell’art. 1395 c.c., infatti, sono volte a tutelare la posizione del soggetto rappresentato ed evitare possibili conflitti di interessi.

Peraltro, la finalità così perseguita verrebbe del tutto disattesa laddove la procura risultasse carente sotto il profilo della univocità. La norma in questione, infatti, “prevede una presunzione iuris tantum di conflitto di interessi, che può essere superata esclusivamente dalla dimostrazione dell’esistenza di […] una autorizzazione specifica, ovvero la predeterminazione degli elementi negoziali (cass. 27783/08)”.

La Corte di Cassazione, dunque, confermando l’orientamento affermato nei propri precedenti giurisprudenziali, ha accolto il ricorso presentato dal tutore dell’interdetto legale che lamentava la mancanza di specificità della procura speciale con la quale era stata autorizzata la vendita di un immobile che, di fatto, era avvenuta ad un prezzo fortemente inferiore a quello ritenuto corretto secondo i valori di mercato.

Così facendo gli Ermellini hanno ribadito che “la validità del contratto è legata alla indicazione, nella procura, dei requisiti minimi negoziali perché altrimenti l’interesse perseguito non sarebbe più quello del rappresentato, ma quello del rappresentante; ciò che è escluso dalle finalità che la norma persegue”.

Appare, dunque, evidente come la facoltà di contrarre con sé stesso, in assenza di alcuna indicazione sul prezzo di vendita o sui criteri utilizzabili per la sua determinazione, non possa dirsi rispondente all’esigenza di una preventiva individuazione dei requisiti minimi del contratto che ci si accinge a stipulare. VA




Inserito in data 05/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 novembre 2013, n. 5287

Illegittimo l’azzeramento senza ragioni oggettive dell’anzianità di servizio maturata

Con la pronuncia in esame il C.d.S. è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità o meno della decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con la quale, a seguito della stabilizzazione della posizione lavorativa delle appellanti e del relativo inquadramento, non sono stati fatti salvi i diritti medio tempore acquisiti, sì come disposto dall’ articolo 75 del decreto-legge n. 112 del 2008.

Più specificamente la norma in questione è stata tacciata di violare l’articolo 4 della direttiva 1999/70/CE – Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato secondo cui “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive (…)” ed altresì l’articolo 4, paragrafo 4 della medesima direttiva, secondo cui “i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive”.

Nel pronunciarsi sul caso in questione il C.d.S. ha fatto uso delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia Europea, preventivamente adita, in merito alla compatibilità della normativa nazionale con quella comunitaria.

L’Organo di giustizia europeo, infatti, ha precisato che, sebbene “il diritto comunitario osta a una disposizione nazionale (quale l’articolo 75 del decreto-legge n. 112 del 2008) che escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione al fine di determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro”, questa risulterebbe non di meno rispettosa della normativa comunitaria laddove sussistano delle ‘motivazioni oggettive’ che giustifichino la  sterilizzazione dei periodi di servizio prestati con contratti a tempo determinato.

Occorre, peraltro, precisare che le “motivazioni oggettive” non possono rinvenirsi nelle peculiarità delle mansioni svolte o nella previsione di una minore valorizzazione del rapporto di lavoro prestato da parte di disposizioni di legge o nei contratti collettivi potendo, di contro, valutarsi la “politica sociale” dello stato membro.

Sulla base di tali considerazioni, il Supremo Consesso ha ritenuto di dover respingere il ricorso affermando che ben possono farsi rientrare nella politica sociale di cui sopra quelle norme volte ad impedire “che, attraverso le procedure di stabilizzazione si determini un sostanziale svuotamento del principio costituzionale secondo cui ai pubblici impieghi si accede in via di principio tramite concorso pubblico (articolo 97, terzo comma, Cost.); b) che, attraverso l’esperimento di procedure quale quella all’origine dei fatti di causa si possa determinare una sorta di ‘discriminazione alla rovescia’ in danno dei dipendenti collocati nell’ambito del medesimo ruolo di personale per effetto di un pubblico concorso i quali – a seguito della procedura di stabilizzazione – si vedrebbero paradossalmente superati da soggetti i quali non abbiano svolto procedure concorsuali per accedere alla stabilizzazione stessa”. Né, a parere del Consiglio di Stato, il rispetto di questi principi sembra aver leso in modo assoluto i diritti dei lavorator essendo stato, di contro, effettuato un equo bilanciamento degli interessi in gioco grazie anche alla previsione della corresponsione di assegni “ad personam”. VA



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Inserito in data 04/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 ottobre 2013, n. 5251

La decadenza dei vincoli strumentali non opera per il lotto “residuale ed intercluso”

Alla luce di diverse pronunce dei Giudici di Palazzo Spada, “l'art. 2 comma 1 l. 19 novembre 1968 n. 1187, che prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli, si riferisce a tutti i vincoli discendenti dal p.r.g., senza possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un piano esecutivo (cfr. ad es. C.d.S., V, 14 aprile 2000, n. 2238; 6 marzo 1991, n. 223)”.

Invero, la giurisprudenza ha uniformemente escluso “che la decadenza ex L. n. 1187/1968 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di lottizzazione ad iniziativa privata. In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A., esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo (C.d.S., IV, 24 marzo 2009, n. 1765; V, 3 aprile 2000, n. 1908)”.

Ciò posto, la sentenza in epigrafe conferma l’ormai decennale orientamento (Cons. St., ad. plen., 20.5.1980, n. 18; sez. V, 16.6.1990, n. 538; sez. V, 13.11.1990, n. 776; sez. V, 6.4.1991, n. 446; ad. plen., 6.10.1992, n. 12) secondo cui, anche in mancanza del piano attuativo prescritto dal piano regolatore, la concessione edilizia può essere rilasciata ”quando in sede istruttoria l'Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato, vi è già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., V, 5 dicembre 2012, n. 6229; 5 ottobre 2011, n. 5450; IV, 1° agosto 2007, n. 4276; 21 dicembre 2006, n. 7769)”. EMF



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Inserito in data 04/11/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 ottobre 2013, n. 5254

L’AIA ha valenza endoprocedimentale e natura di parere non vincolante

In giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui “non può essere riconosciuta l'immediata lesività delle determinazioni conclusive adottate in sede di conferenza di servizi, disciplinata dagli artt. 14 e seguenti, della l. n. 241/1990, e, prima ancora, alle posizioni in tale sede espresse dalle singole amministrazioni. Esse hanno valenza meramente endoprocedimentale e, conseguentemente, non sono autonomamente impugnabili (Consiglio di Stato, Sezione VI, 6 maggio 2013, n. 2417)”.

Infatti, la Conferenza di servizi è caratterizzata “da una struttura dicotomica, articolata in una fase che si conclude con la determinazione della conferenza (anche se di tipo decisorio), di valenza endoprocedimentale, e in una successiva fase che si conclude con l'adozione del provvedimento finale, di valenza esoprocedimentale effettivamente determinativa della fattispecie”.

Infatti, l’esito del suddetto istituto rappresenta “il necessario atto di impulso di un'autonoma fase, volta all'emanazione di un nuovo provvedimento dell'Amministrazione che ha indetto la Conferenza dei servizi”.

Tale ultimo atto ”è direttamente ed immediatamente lesivo ed è contro di esso, pertanto, che deve dirigersi l'impugnazione, in quanto gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale ovvero non risultano impugnabili, se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi”.

In particolare, “la conferenza di servizi in argomento è riconducibile alla tipologia c.d. "istruttoria", finalizzata al preliminare esame delle domande presentate e all'acquisizione dei pareri dei soggetti pubblici coinvolti nel procedimento”. Il verbale redatto al suo termine, quindi, limitandosi a registrare i pareri delle Amministrazioni intervenute, non è vincolante. Invero, un atto endoprocedimentale può “assumere la natura di parere vincolante, e quindi avere la forza di imprimere un indirizzo ineluttabile alla determinazione conclusiva, quando siffatta forza gli venga attribuita dalla legge; ciò non si ha nel procedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale, dal momento che non si rinviene alcuna previsione in tal senso negli artt. 14 bis, 14 ter e 14 quater della l n. 241/1990”.

D’altra parte, con la sentenza in commento, il Supremo Consesso ricorda che “le valutazioni di compatibilità ambientale costituiscono espressione della discrezionalità della P.A., non solo tecnica, ma addirittura coinvolgenti profili di vera e propria opportunità circa la effettuazione della scelta più conveniente”. Ne discende che “il sindacato giurisdizionale non può spingersi a sovrapporre alla valutazione tecnica della Amministrazione (che è anche scelta di merito) una nuova valutazione tecnica, potendo effettuare solo verifica di ragionevolezza e coerenza tecnica”. EMF



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Inserito in data 03/11/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA n. 42750/09 del 21 ottobre 2013

Dottrina Parot contraria alla Convenzione europea dei diritti umani

La Grande Camera del Tribunale europeo dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato la Spagna per aver mantenuto in carcere, più anni rispetto al possibile, una moltitudine di carcerati, la maggior parte dei quali affiliati all’ETA.

La pronuncia in esame, destinata ad inevitabili e significative conseguenze sotto il profilo della scarcerazione, condanna l’ordinamento penitenziario spagnolo, poiché fondato sulla c.d. Dottrina Parot.

Questa, introdotta nel 2006 dalla Suprema Corte iberica, consente di calcolare i benefici di pena sul cumulo delle condanne, e non sui 30 anni di reclusione massima fino a quel momento previsti dal Codice Penale; occorre, sottolineano i Giudici di Strasburgo, che se ne delimiti, tuttavia, l’applicazione nel tempo, in ossequio al principio di legalità.

E’ necessario, infatti, che non si proceda ad un’applicazione di tale sistema in merito a reati commessi prima del 1995, in quanto diventerebbe un sistema retroattivo, in violazione, pertanto, dei diritti fondamentali dei detenuti – di cui agli articoli 5.1 e 7 della Convenzione europea dei diritti umani.

La pronuncia, dunque, sancisce una condanna – a carico del Governo spagnolo – in favore di un cospicuo gruppo di militanti della nota associazione terroristica.

Come è chiaro, unitamente all’aspetto pecuniario, l’imminente scarcerazione che consegue da una simile decisione è, senz’altro, l’aspetto socialmente e politicamente più rischioso; specie in uno Stato, quale quello iberico, da sempre colpito da violenti episodi terroristici. CC




Inserito in data 31/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 ottobre 2013, n. 5155

Massima partecipazione alla gara e onere di tempestiva impugnazione

Il Consiglio di Stato ha affermato che la regola, di carattere generale, volta a riconoscere preminenza all'esigenza di massima partecipazione alle gare, nel caso in cui dovessero esservi dei contrasti tra prescrizioni per essa predisposte dalla amministrazione aggiudicatrice, è espressiva del generale principio di buona fede nelle trattative, così come previsto e regolato dall'art. 1337 del codice civile concernente, fondamentalmente, l'obbligo di comunicare all'altra parte le possibili cause di invalidità negoziale di cui si è già a conoscenza.

A causa del contrasto tra la disciplina di gara e capitolato speciale, emerge che l'esercizio del potere di soccorso istruttorio, da parte della stazione appaltante, sia doveroso.

Quanto all'onere di tempestiva impugnativa, questo si configura, inoltre, solo in relazione a delle clausole che siano immediatamente escludenti, aventi ad oggetto requisiti di partecipazione alla procedura selettiva non in possesso dall'impresa concorrente. GMC



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Inserito in data 31/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 15 ottobre 2013, n. 23381

Revoca del mandato di amministratore di una società a partecipazione pubblica

Con riferimento alla revoca del mandato di un amministratore di una società, non vige un differente regime giuridico  nel caso in cui quest'ultima sia a partecipazione pubblica.

Si rammenta, infatti, che al fine di integrare una giusta causa di revoca del mandato, è necessario il venir meno del rapporto di fiducia, che sarà rilevante esclusivamente nel caso in cui i fatti che determinano il venir meno dell'affidamento siano valutabili, da un punto di vista oggettivo, come fatti idonei a lasciar dubitare circa la correttezza, nonché le attitudini di gestione, dell'amministratore.

Nel caso in riferimento, i fatti considerati come lesivi del c.d. pactum fiduciae, ovvero il rifiuto opposto, da parte degli amministratori, ad alcuni consiglieri comunali che avevano richiesto di accedere agli atti della società, il non aver seguito le direttive impartite alla società dal Comune etc., non integrano un comportamento inadempiente o, comunque, inadeguato sotto il profilo propriamente “gestionale”, degli amministratori. GMC




Inserito in data 30/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 30 ottobre 2013 n. 24468

Appalto revocabile e confini di giurisdizione

E’ significativa la sentenza in esame poiché, pronunciandosi in punto di giurisdizione, conferma l’orientamento della giurisprudenza amministrativa circa la revocabilità dell’aggiudicazione di una gara pubblica.

Nel caso di specie, infatti, gli Ermellini condividono la posizione dei Giudici di Palazzo Spada, i quali avevano respinto l’appello di una società di riscossione, cui era stata revocata la gara per lo svolgimento del servizio di tesoreria comunale.

Tale revoca si fondava sulla pessima gestione e sui gravi errori che, si constatava, fossero attribuibili alla società ricorrente in una precedente amministrazione di un Ente comunale.

La Suprema Corte, avallando la posizione dei Giudici amministrativi e richiamando il codice dei contratti pubblici, ricorda come l’esclusione dagli appalti pubblici avvenga a fronte di “una motivata valutazione dell’amministrazione in ordine alla grave negligenza o malafede nell’esercizio delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara, che abbia fatto venir meno la fiducia nell’impresa”.

Tanto sarebbe accaduto nel caso concreto, ove, le consistenti perdite economiche lamentate dal Comune precedentemente amministrato dalla società appellante, avrebbero inevitabilmente condizionato la gara – oggetto dell’odierno contenzioso, ed il relativo epilogo negativo.

La Corte, infine, pronunciandosi in tema di giurisdizione, respinge anche la doglianza secondo cui la decisione del Consiglio di Stato, sarebbe stata viziata da “eccesso di potere giurisdizionale”.

Gli Ermellini chiariscono che i giudici di Palazzo Spada sono rimasti nei confini propri della propria giurisdizione, esercitando i poteri di verifica del rispetto dell’articolo 38, 1° comma, lettera f). del Dlgs 12 aprile 2006 n. 162.

Questo, infatti, prevede l’esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento di concessioni ed appalti pubblici di lavori, servizi e forniture per i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, “hanno commesso grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara; o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale”.

Tanto quanto accaduto nel caso in esame; nessun eccesso di potere giurisdizionale, quindi, è occorso. CC




Inserito in data 29/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 23 ottobre 2013, n. 24037

Riduzione personale e limiti alla discrezionalità del datore di lavoro

La Corte di Cassazione ha precisato che, sebbene l’imprenditore goda di un’ampia discrezionalità nella scelta della gestione e dell’organizzazione dell’azienda, non può escludersi de plano ogni forma di tutela nei confronti dei lavoratori. Per meglio dire, la discrezionalità assicurata anche dall’art. 41 cost. non è preclusiva alla possibilità di verificare la legittimità o meno di un licenziamento.

Invero, perché il licenziamento possa essere considerato oggettivo e legittimo, non è sufficiente la soppressione del posto di lavoro occupato dal dipendente, ma occorre dimostrare anche che non si tratti di una scelta simulata o pretestuosa.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Cassazione non poteva giungersi a tale conclusione: infatti, sebbene le posizioni lavorative assegnate ai dipendenti oggetto di licenziamento fossero state effettivamente soppresse, l’azienda non risultava essere in difficoltà ma, al contrario, aveva conseguito un aumento dei profitti, risultavano, dunque, del tutto carenti le ragioni giustificative di tale scelta. Inoltre, anche laddove si portasse a sostegno della tesi della legittimità del licenziamento il diritto alla libertà organizzativa dell’imprenditore, quest’ultimo non aveva fornito alcuna prova in merito all’impossibilità di repechage, non potendo trovare accoglimento le argomentazioni da questi presentate.

Grava, infatti, sul datore di lavoro l’onere di provare l’impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita, sebbene diverse.

Inoltre, un’eventuale modifica in peius della posizione lavorativa del dipendente (es. demansionamento) deve ritenersi legittima laddove posta in essere con il consenso del lavoratore ed al fine di evitare l’ancor più grave alternativa del licenziamento.

Pertanto, “in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare […]anche di aver prospettato al lavoratore licenziato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un suo impiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

Il Supremo Collegio, inoltre, tendendo in considerazione le peculiarità del caso sottoposto alla sua attenzione, ha specificato che “quando il giustificato motivo oggettivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non più necessaria, né il criterio della impossibilità di repechage, in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili. Non è vero che la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare sia per il datore di lavoro totalmente libera” , dovendo essere improntata al rispetto dei principi di correttezza e buona fede, ai sensi dell’art. 1175 e 1375 cod. civ., nonché limitata dal divieto di atti discriminatori.

Ci si dovrà, dunque, affidare a criteri diversi quali i carichi di famiglia e l’anzianità. VA




Inserito in data 29/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 ottobre 2013 N. 5172

Par condicio e criteri di valutazione differenziati: sì, se giustificati

Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato si è pronunciato, rigettandola, sulla richiesta di annullamento di provvedimenti ritenuti illegittimi per asserita violazione dell’art. 6 della L.R. 39/1999 e dell’art. 5, comma 2, del d. lgs. 123/1998 (i quali, rispettivamente, attribuiscono in via esclusiva alla Giunta Regionale il potere di individuare i criteri di valutazione delle domande e dispongono che i criteri di valutazione delle domande debbano essere determinati dal bando di gara).

L'appellante, inoltre, denunciava la violazione del principio della par condicio tra i soggetti partecipanti alla gara, in considerazione della delega a favore delle province in merito alla autonoma determinazione dei criteri di preferenza delle domande che avessero già avuto un'identica valutazione, nonché l’irrazionalità e l’illogicità dei parametri di ponderazione dei sottocriteri di valutazione adottati da alcune provincie.

Il Supremo Consesso, dopo aver ricordato l’orientamento giurisprudenziale che esclude la necessità di integrazione del contraddittorio laddove il ricorso appaia manifestamente infondato, si è pronunciato nel merito rigettando le censure sopra esposte. Nel motivare la propria decisione ha  affermato che la previsione di criteri di attribuzione di punteggi differenziati non può considerarsi violativa del principio della par condicio qualora risulti giustificata dalla necessità di tenere in debita considerazione le condizioni locali: “Come ha correttamente rilevato il giudice di prime cure, infatti, la delega dell’individuazione di differenti metodologie di formazione della graduatoria intersettoriale alle Province è stata specificamente preordinata a calibrare i parametri di formazione di tale graduatoria in funzione delle specifiche realtà locali, in accordo con il “principio di collaborazione” con gli enti territoriali stabilito dall’art. 6 dello Statuto Regionale”.

Inoltre, l'articolo 6 citato risulta pienamente applicato essendo stati i criteri di valutazione delle domande fissati dalla stessa Giunta Regionale la quale si era limitata a delegare alle province esclusivamente la valutazione della ricaduta sul tessuto economico sociale del territorio dell'oggetto del finanziamento ritenendo su di sé, peraltro, il potere di approvare le graduatorie settoriali così formate. VA

 

 



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Inserito in data 28/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 ottobre 2013, n. 5158

Motivazione e irretroattività della sanzione pecuniaria comminata per abusi edilizi risalenti

Con la sentenza in commento, il Supremo Consesso si pronuncia sull’onere di motivare i provvedimenti diretti a reprimere abusi edilizi risalenti nel tempo e sulla loro irretroattività. 

Quanto al primo motivo, la motivazione non sarebbe necessaria alla luce di due principi consolidati, secondo cui:

  1.  il potere sanzionatorio, non essendo sottoposto a termini di decadenza o di prescrizione, è esercitabile in ogni tempo (Consiglio di Stato, Sezione V, 8 giugno 1994, n. 614)”;
  2.  i “provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare (Consiglio di Stato, Sezione VI, 11 maggio 2011, n. 2781, 5 aprile 2012, n. 2038 e 28 gennaio 2013, n. 496) perché il potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, non è soggetto ad esaurimento, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso (Consiglio di Stato, Sezione IV, 4 maggio 2012, n. 2592)”.

Tuttavia, il Collegio osserva che “il criterio dell’indifferenza dell’epoca di commissione dell’abuso non può essere applicato con meccanicismo indiscriminato ed illimitato”.  In presenza di talune eccezioni (costruzione munita di titolo edificatorio e decorso di svariati decenni dalla commissione della presunta violazione), infatti, “l’onere della motivazione dell’iniziativa sanzionatoria si impone quale contrappeso proprio alla mancanza di termini di prescrizione-decadenza per l’esercizio del potere repressivo”.

La stessa giurisprudenza ritiene necessaria la motivazione sulla sussistenza di un pubblico interesse “idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato” allorquando, “per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, Sezione V, 25 giugno 2002 n. 3443; 29 maggio 2006, n. 3270).

D’altra parte, anche l’Adunanza Plenaria, con decisione del 19 maggio 1983, n. 12, “pur osservando che, nella dinamica del sistema sanzionatorio delineato dall'art. 13 della l. n. 765/1967, la constatazione dell'abusività dell'opera assurgeva a elemento di per sé solo già idoneo a condizionarne la concreta operatività, (…) aveva avvertito che tale principio poteva però subire un’attenuazione, oltre che nelle ipotesi in cui l'attività privata, per quanto priva di autorizzazione, risultasse comunque conforme allo strumento di pianificazione territoriale comunale, anche nel caso in cui l'inerzia dell’Amministrazione dinanzi all'abuso edilizio fosse durata un lasso di tempo molto rilevante”.

Peraltro, l’onere di motivazione “non potrebbe non chiamare in causa, tra gli altri elementi da considerare, anche la condizione di possibile buona fede dei soggetti che si vorrebbero in ipotesi sanzionare, né potrebbe andar disgiunto da una verifica circa gli eventuali indebiti vantaggi che questi avrebbero ritratto dall’illecito”.

Ciò posto, infine, “non vi sarebbe ragione di circoscrivere l’indicato onere motivatorio all’eventualità che l’Amministrazione intenda applicare in concreto la sola misura demolitoria, esonerandola nella diversa ipotesi in cui debba essere invece inflitta una sanzione pecuniaria”. Entrambe le forme di sanzione, infatti, assolvono una funzione di reintegrazione della legalità violata, e, più specificamente, “una finalità riparatoria per equivalente della lesione dell’interesse pubblico arrecata dalla violazione edilizia (Consiglio di Stato, Sezione II, 13 novembre 1996, n. 1026; Sezione V, 8 giugno 1994, n. 614; Ad. Pl., 17 maggio 1974, n. 5; inoltre Sezione V, 15 aprile 2013, n. 2060 con riguardo alla finalità non punitiva, ma ripristinatoria delle sanzioni pecuniarie per abusi edilizi)”.  Come si evince dall’art. 12 della L. 47/1985, inoltre, la sanzione pecuniaria non è autonoma da quella demolitoria, ma surrogatoria della stessa.

Avuto riguardo al secondo motivo, i Giudici di Palazzo Spada hanno già avuto modo di osservare che “le sanzioni amministrative comminate dalla l. n. 47/1985 non sono generalmente applicabili con effetto retroattivo e non possono essere perciò irrogate per costruzioni portate a compimento prima dell'entrata in vigore della fonte stessa (Consiglio di Stato, Sezione V, 8 aprile 1991, n. 470)”. Infatti, nonostante l’art. 25 della Costituzione abbia introdotto il principio di irretroattività solo per le norme penali, si deve comunque tenere presente che “per le sanzioni amministrative debba pur sempre valere il generale canone di irretroattività posto dall’art. 11 disp. prel. cod. civ.”.

Ne consegue che, in mancanza di un’espressa disposizione normativa con valore retroattivo, devono applicarsi le sanzioni prescritte dalla normativa vigente all'epoca dell'abuso. EMF



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Inserito in data 28/10/2013
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 25 ottobre 2013, n. 1136

Il canone di leale collaborazione investe l’obbligo della P.A. di evadere l’istanza

E’ pacifico che ove l’Amministrazione “non si ritenga competente ad evadere la pratica oggetto d’istanza di un cittadino, è tenuta ad inviarla all’ufficio competente, tenendo informato di ciò il richiedente e, laddove previsto, anche a fornire all’amministrazione competente il proprio contributo istruttorio (TAR Marche, sez. I, 4 aprile 2013, n. 269; Cass. Civ. sez. trib. 27 febbraio 2009, n. 4773)”.

In particolare, il suddetto principio “è normativamente sancito dall’art. 2 comma 3 D.P.R. n. 1199 del 1971 in materia di ricorsi gerarchici, ma è applicabile ad ogni istanza presentata alla P.A. (TAR Catania, sez. I, 22 settembre 2009, n. 1554)”.

Peraltro, “in ossequio a canoni di buona amministrazione e di leale collaborazione con il cittadino, l’amministrazione, prima di affermare la propria incompetenza, è tenuta a procedere ad una riqualificazione ex officio della domanda, nel caso in cui sia palese che l’interesse sostanziale e il bene della vita perseguiti dal cittadino siano tutelabili proprio attraverso provvedimenti di competenza dell’amministrazione effettivamente evocata, al di là di eventuali imprecisioni formali dell’istanza presentata dell’interessato che potrebbero indurre a ritenere – ma solo in apparenza e solo in conseguenza di dette imprecisioni formali – la competenza di una diversa Amministrazione o (…) di un diverso organo della stessa Amministrazione”. EMF



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Inserito in data 25/10/2013
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 24 ottobre 2013, n. 2089

Ancora una pronuncia sui limiti delle ordinanze contingibili ed urgenti

La pronuncia commentata è significativa, poiché il Tribunale campano ricorda la corretta delimitazione delle ordinanze contingibili ed urgenti, frequentemente adoperate dai Sindaci nell’esercizio dei relativi poteri di gestione dell’Ente locale.

L’utilizzo di tale strumento, infatti, è preordinato a fronteggiare situazioni di estrema necessità, rispetto alle quali non sia possibile intervenire con i consueti mezzi predisposti dall’Ordinamento, data la pericolosità che, dall’inerzia e dalla lunghezza dei tempi ordinari, inevitabilmente, potrebbe derivarne.

La deroga al principio di legalità, cardine nel nostro Sistema, si giustifica, dunque, solo in ragione dell’estrema temporaneità della vicenda da affrontare e considerando, altresì, il rischio per la collettività che potrebbe discenderne.

Tanto, ovviamente, non ricorre nella vicenda in esame in cui l’ordinanza era stata emessa al fine di disporre la rimozione del legnatico conservato presso spazi condominiali esterni.

Si tratta, come è chiaro, di una vicenda meritevole di tutela sotto il profilo privatistico, con il conseguente avvio dei rimedi che il codice di procedura civile prevede in controversie tra proprietari limitrofi, attivabili su impulso di parte privata.

Non appare, certamente, opportuno l’utilizzo di poteri pubblicistici, quali quelli qui lamentati, e dei quali, pertanto, si dispone l’annullamento. CC



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Inserito in data 25/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, ORDINANZE DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 14 ottobre 2013, nn. 4998 e 4999

Chiamata l’Adunanza Plenaria riguardo ai contratti Swap

Il Collegio della quinta Sezione, con le ordinanze in esame, rimette all’attenzione dell’Adunanza Plenaria talune questioni relative alla stipula da parte di una P.A. di contratti di derivati – i cosiddetti swap.

Più nel dettaglio, si contesta l’ammissibilità degli strumenti di autotutela – nella specie adoperati dalla Regione appellante, nella forma dell’annullamento d’ufficio ex articolo 21 nonies L. 241/90 – riguardo alla precedente deliberazione della Giunta recante l’autorizzazione alla stipulazione di tali contratti.

A fronte della pronuncia del Collegio di primo grado, con cui si statuiva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, data l’insussistenza di un procedimento amministrativo alla base della stipulazione di contratti di derivati, il Giudice di appello decide di rimettere la questione al massimo Consesso amministrativo.

In particolare, si chiede di verificare se le determinazioni contrattuali, oggetto dell’odierna questione, siano l’epilogo di un procedimento amministrativo o, piuttosto, l’esito di un sinallagma contrattuale, in questo caso non del tutto funzionale e rispetto al quale la Regione avrebbe esercitato un mero potere di recesso unilaterale.

Ovviamente, dall’accoglimento dell’una o dell’altra tesi, deriva il riconoscimento dell’attendibilità dei poteri di diritto pubblico – quali quelli adoperati dalla Regione appellante e, di conseguenza, la spettanza o meno al G.A.

La questione in esame, peraltro, è ancora più significativa, posto che, trattandosi di contratti swap, è contemplata una clausola contrattuale che, derogando – ex articolo 4 L. 218/95 - alla giurisdizione italiana, assoggetta la loro disciplina alla legge di un altro Paese, anche in termini di giurisdizione sulle relative controversie.

Ad avviso dei Giudici amministrativi, già pronunciatisi in merito poco tempo addietro, una simile deroga non può operare riguardo a diritti indisponibili. Come tali, appunto, sono considerati gli interessi pubblici alla cui cura è finalizzato l'esercizio dei poteri pubblicistici accordati all’Amministrazione nell'ambito dei procedimenti di gara.

Pertanto, ove si reputasse come tale anche la procedura quivi esaminata, non sarebbe possibile la deroga a favore della giurisdizione britannica, già verificatasi e fortemente sostenuta dall’azienda appellata.

In ragione della complessità delle questioni coinvolte, si comprende la devoluzione all’esame dell’Adunanza Plenaria – ex articolo 99 – 1’ co. C.p.A.; ancora più necessaria laddove si valuti il diffuso ricorso da parte degli Enti locali a strumenti di finanza derivata – pari a quelli oggi scrutinati - e agli inevitabili, successivi contenziosi che ne scaturiscono. CC



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Inserito in data 24/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 9 ottobre 2013, n. 22974

Malattie professionali: nesso eziologico tra patologia e attività lavorativa

La Suprema Corte, con la sentenza in oggetto, interviene in tema di malattia professionale, stabilendo che non ha alcun diritto alla rendita per malattia professionale il lavoratore che faceva dipendere i propri problemi, ricollegati all'ernia del disco, dall'aver svolto, per quasi un ventennio, un lungo tragitto in autovettura per recarsi sul luogo di lavoro.

È stato rilevato dalla Corte, infatti, che la patologia di cui trattasi non è affatto causata dalla attività lavorativa in sé, ma è stata, bensì, contratta al di fuori dell'ambito lavorativo.

Gli Ermellini, accogliendo il ricorso dell'INAIL, ritengono fondato il relativo motivo di doglianza, precisando che il riconoscimento della “malattia professionale” è necessariamente legato alla dimostrazione dello stretto nesso eziologico tra la patologia e l'attività lavorativa svolta dal soggetto.

La malattia professionale non può essere riconosciuta se il problema fisico è stato contratto “in occasione di lavoro”, anzi, l'attività lavorativa deve rappresentare “la condizione sine qua non della malattia”.

Il requisito di cui sopra, ovvero della necessaria ed inscindibile connessione tra rendita ed attività lavorativa, caratterizza, inoltre, anche la differenza tra la “malattia professionale” e l' “infortunio sul lavoro”.

Infatti, con riferimento a quest'ultimo, la copertura assicurativa deve essere estesa anche a quelli che sono gli eventi che si verificano al di fuori dei luoghi di lavoro, e non esclusivamente nel corso della prestazione lavorativa, nonché per tutti quelli che possono essere considerati come degli accadimenti ricollegabili (nonostante si presentino in forma indiretta e mediata) all'attività di lavoro. GMC




Inserito in data 24/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 ottobre 2013, n. 5000

Natura degli accordi integrativi del provvedimento amministrativo

Gli accordi integrativi del contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo, quanto alla loro natura, non sono negozi di diritto privato, bensì sono “contratti ad oggetto pubblico”, per cui sussiste la giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, alla luce dell'art. 133, comma 1, lett. a), punto 2 del codice del processo amministrativo, D.ls. 2 luglio 2010 n. 104.

Gli accordi qui presi in riferimento, rappresentano una vera e propria modalità di esercizio del potere amministrativo da attuarsi per mezzo di un modulo consensuale e bilaterale, pur comunque restando la potestà esercitata pubblica e, dunque, diretta principalmente al perseguimento dell'interesse pubblico di cui è titolare l'Amministrazione, soggetta sostanzialmente a delle regole ben diverse rispetto a quelle vigenti per l'attività propria di diritto privato.

Alla luce dell'art. 11 della Legge sul procedimento amministrativo (Legge 7 agosto n. 241 del 1990), l'Amministrazione non esercita alcuna autonomia privata, come emerge dal comma 4bis dell'articolo citato, ma semplicemente un potere unilaterale di natura comunque non privatistica.

Con riferimento alla cognizione in giudizio, si sottolinea - da una parte - che per i contratti ad evidenza pubblica sussiste la giurisdizione del Giudice amministrativo solo con riferimento alla formazione del contratto, mentre la fase esecutiva è devoluta essenzialmente alla cognizione del Giudice ordinario, poiché si tratta di controversie di diritto civile in cui hanno rilevanza i diritti soggettivi.

Dall'altra parte, invece, con riguardo propriamente agli accordi ex art. 11, non esiste alcun riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo poiché, in tale ambito, tutte le controversie sono riservate alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo. GMC



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Inserito in data 23/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 ottobre 2013, n. 5129

La condanna per concussione non osta al rilascio del porto d’armi

Nella presente pronuncia, il Consiglio di Stato ricostruisce i criteri attraverso cui l’autorità di pubblica sicurezza decide se rilasciare l’autorizzazione al porto d’armi; ala luce di tali criteri, non assume rilievo decisivo l’aver riportato una condanna penale.

Come rilevato da costante giurisprudenza amministrativa […] la ratio alla base della normativa che disciplina delle autorizzazioni di polizia […] risiede nella opportunità di evitare che le autorizzazioni al porto di armi vengano rilasciate a soggetti che, per i loro comportamenti pregressi, denotino scarsa affidabilità sul loro corretto uso, potendo in astratto costituire un pericolo per la incolumità e per l’ordine pubblico”.

E’ tuttavia necessario che i precedenti comportamenti del richiedente siano sintomatici, idonei quindi ad evidenziare una personalità violenta, incline a risolvere situazioni di conflittualità anche con ricorso alle armi, o, in ipotesi, in grado di attentare all’altrui patrimonio con uso di armi ed in sintesi che, nell’ottica di una prognosi ex ante, non diano garanzia di un corretto uso delle armi senza creare turbativa all’ordine sociale”.

Come rilevato anche dalla Corte Costituzionale "..alcun carattere immediatamente ostativo, ai fini del rilascio o del rinnovo delle licenze di p.s.," può riconoscersi "al fatto di aver riportato una condanna in sede penale" attesa la necessità "di procedere ad una concreta prognosi" che tenga conto di una serie di circostanze, quali l'epoca a cui risale la condotta contestata, i reiterati rinnovi del titolo di polizia nel frattempo intervenuti, la condotta tenuta successivamente al fatto di reato e fatti eventualmente sintomatici di attualità della pericolosità sociale”.

Nel caso di specie, doveva concedersi il rinnovo del porto d’armi, essendo esso stato negato perché il richiedente aveva riportato una condanna per concussione, ossia per un reato che non denota una personalità violenta e perciò non assume rilievo ai fini della valutazione de qua. TM



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Inserito in data 23/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 ottobre 2013 n. 23591

Nullo il preliminare di vendita d’immobile irregolare dal punto di vista urbanistico

La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulle conseguenze dell’alienazione di un immobile, affetto da irregolarità urbanistiche non sanate e non sanabili.

Secondo l’orientamento tradizionale, in queste ipotesi, il venditore sarebbe inadempiente e il contratto potrebbe essere risolto per sua colpa. In tal senso deporrebbe, il fatto che l’art. 40 l. n. 47/1985 prevede la nullità solo per il caso in cui sia omessa l’indicazione degli estremi della licenza edilizia; ciò in quanto in tale caso andrebbe tutelato l’affidamento dell’acquirente, il quale non potrebbe accertare la regolarità del bene confrontando la consistenza reale dell’immobile con quella risultante dalla concessione edilizia o dalla domanda di concessione in sanatoria.

A giudizio della Seconda Sezione Civile, tale orientamento deve essere rivisto e tali contratti sono nulli.

Infatti, sotto il profilo logico, questa conclusione risulta più coerente con l’obiettivo di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico: in particolare, si evita di considerare nulli contratti affetti da mera irregolarità formale (il titolo esiste ma non ne sono riportati gli estremi) e di considerare validi contratti affetti da vizi sostanziali (l’immobile non è in regola con le norme urbanistiche ma sono indicati gli estremi del permesso edilizio); inoltre, tale soluzione corrisponde al disegno legislativo di inasprire le sanzioni per le violazioni urbanistiche (già la l. 10/77 prevedeva la nullità del negozio avente ad oggetto un immobile per il quale non era stata rilasciata la concessione edilizia, se non risultava che l’acquirente fosse a conoscenza dell’irregolarità).

Inoltre, la “non perfetta formulazione” dell’art. 40 c. 2 consentirebbe di affermare il principio generale della nullità sostanziale degli atti traslativi di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiungerebbe la nullità formale degli atti aventi ad oggetto immobili in regola ma nei quali sono omessi gli estremi del titolo abilitativo.

Infine, l’art. 40 c. 3, nell’ammettere la conferma unilaterale degli atti in cui l’omessa indicazione del titolo non sia accompagnata dalla sua carenza effettiva, confermerebbe tale tesi, poiché tale disposizione “non avrebbe senso se tali atti fossero ab origine validi, ferma restando la responsabilità per inadempimento del venditore”.

Pertanto, non potendo essere valido un contratto preliminare avente ad oggetto la stipula di un contratto nullo per contrarietà alla legge, va affermata la nullità del contratti preliminare avente ad oggetto la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico; questa conclusione si impone logicamente e consente perciò di superare il dato letterale (L’art. 40 c. 2 menziona i contratti ad effetti reali e quindi non dovrebbe applicarsi al preliminare, produttivo di effetti esclusivamente obbligatori). TM




Inserito in data 22/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 ottobre 2013, n. 5079

I titoli per l’assegnazione dei posti di ricerca devono valutarsi specificamente

Con la sentenza in esame il Consiglio di Stato ha respinto l’appello proposto avverso la decisione del giudice di primo grado, con cui era stata confermata la legittimità della valutazione cui era conseguita la proclamazione della vincitrice del posto di ricercatore universitario.

Ritiene, infatti, il Supremo Consesso che non siano state violate le disposizioni del bando, né le norme del d.m. 89/2009 che prescrivono i criteri di valutazione dei titoli e delle pubblicazioni.

Invero, con specifico riferimento ai concorsi per l’assegnazione dei posti di ricercatore e professore universitario, i titoli devono essere valutati in modo specifico, tenendo conto della significatività e della pertinenza con l’attività di ricerca.

Ne consegue che, nel procedere alla valutazione comparativa dei titoli, la commissione giudicatrice non dovrà limitarsi a considerare il numero dei titoli e a procedere ad un raffronto individuale, ma dovrà considerare il modo in cui questi incidano sulla capacità dei candidati.

Più specificamente “dei candidati deve essere costruito il profilo complessivo risultante dalla confluenza degli elementi che lo compongono, i quali sono apprezzati in tale quadro non isolatamente, ma in quanto correlati nell'insieme secondo il peso che assumono in una interazione di sintesi oggetto di un motivato giudizio unitario”.

Ne consegue, ancora, che “la suddetta valutazione specifica dei titoli deve essere svolta, ma non con dettaglio tale da instaurare una valutazione comparativa puntuale di ciascun candidato rispetto agli altri per ciascuno dei titoli, poiché si perderebbe, altrimenti, la contestualità sintetica della valutazione globale, risultando perciò necessario e sufficiente che i detti titoli siano stati acquisiti al procedimento e vi risultino considerati nel quadro della detta valutazione”.

Il medesimo iter logico deve essere seguito anche con riferimento alla valutazione delle pubblicazioni, per le quali rileva non solo l’importanza e la diffusione della collocazione editoriale delle pubblicazione, ma anche l’originalità e l’innovatività delle stesse. VA

 

 



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Inserito in data 22/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 18 ottobre 2013, n. 42818

Integrano falsa testimonianza le dichiarazioni del congiunto

La Cassazione penale, nel procedimento in esame, ha ribadito quanto oramai costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità: la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. non è applicabile nel caso in cui il congiunto, debitamente informato, si sia autodeterminato a rendere testimonianza e a non avvalersi della facoltà di astensione prevista ai sensi dell’art. 199 c.p.p.

Il disposto dell’art. 199 c.p.p., infatti, si presenta quale principio di civiltà giuridica volto a tutelare  e a riconoscere l’importanza dei rapporti familiari sancendo, per il soggetto chiamato a testimoniare, un diritto all’astensione laddove l’imputato risulti a questi legato dai suddetti vincoli familiari.

Pertanto, considerate le garanzie disposte dall’ordinamento, ritengono gli Ermellini di dover escludere la possibilità di fare ricorso alla causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p.

Nelle ipotesi sopra descritte, infatti, non potrebbe configurarsi quello stato di necessità richiesto dalla norma in questione richiesto al fine di poter escludere l’applicazione della pena prevista dall’ordinamento. Invero, in questo caso, il pericolo derivante dall’obbligo di verità sarebbe creato dallo stesso soggetto che invoca la non punibilità, pertanto, a parere dei giudici della Suprema Corte, laddove si avallasse la tesi opposta, si finirebbe con il creare, con conseguenze del tutto paradossali, una sorta di diritto a dichiarare il falso la cui titolarità spetterebbe i soggetti legati da rapporti di familiarietà.

In conclusione  “il soggetto in stato di potenziale incompatibilità a testimoniare ex art. 199 c.p.p., in quanto prossimo congiunto dell’imputato, che abbia scelto di non astenersi dalla testimonianza, assume la qualità di testimone al pari di ogni altro soggetto chiamato a testimoniare. E dunque con tutti gli obblighi connessi alla qualità di testimone dettati dall’art. 198 c.p.p., di guisa che egli è tenuto a dichiarare il vero … essendo venute meno … le ragioni giustificanti la tutela della sua peculiare posizione di prossimo congiunto”.

Ne consegue, dunque, la possibilità di applicare, ai fini della sanzione, l’art. 372 c.p. VA




Inserito in data 21/10/2013
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA 17 ottobre 2013, n. 848

Validità del principio di diritto enunciato da A.P. 4/11 e possibili limiti alla nomofilachia

Con la pronuncia in esame, il C. G. A. rimette alla Corte di Giustizia dell’Unione europea le seguenti questioni pregiudiziali:

- ”Se i principi dichiarati dalla CGUE con la sentenza del 4 luglio 2013, in causa C-100/12, con riferimento alla specifica ipotesi, oggetto di quel rinvio pregiudiziale, in cui due soltanto erano le imprese partecipanti a una procedura di affidamento di appalti pubblici, siano anche applicabili, in ragione di un sostanziale isomorfismo della fattispecie contenziosa, anche nel caso sottoposto al vaglio di questo Consiglio in cui le imprese partecipanti alla procedura di gara, sebbene ammesse in numero maggiore di due, siano state tutte escluse dalla stazione appaltante, senza che risulti l’intervenuta impugnazione di detta esclusione da parte di imprese diverse da quelle coinvolte nel presente giudizio, di guisa che la controversia che ora occupa questo Consiglio risulta di fatto circoscritta soltanto a due imprese”.

In sostanza, la Corte del Lussemburgo, con la summenzionata sentenza, ha appurato la compatibilità con il diritto dell’Unione europea del principio di diritto enucleato dall’Adunanza Plenaria n. 4/2011, secondo cui “nei processi di primo grado in cui siano stati proposti sia un ricorso principale sia uno incidentale escludente, l’ordine di esame delle impugnative da parte dei T.a.r. debba essere nel senso di riservare prioritario esame al ricorso incidentale escludente e, in caso di accertata fondatezza di quest’ultimo, di dichiarare improcedibile il ricorso principale (per sopravvenuto difetto di interesse alla sua decisione, appunto in conseguenza dell’accoglimento di detto ricorso incidentale), senza valutarne il merito”;

- ”Se, limitatamente alle questioni suscettibili di essere decise mediante l’applicazione del diritto dell’Unione europea, osti con l’interpretazione di detto diritto e, segnatamente con l’art. 267 TFUE, l'art. 99, comma 3, c.p.a., nella parte in cui tale disposizione processuale stabilisce la vincolatività, per tutte le Sezioni e i Collegi del Consiglio di Stato, di ogni principio di diritto enunciato dall'Adunanza plenaria, anche laddove consti in modo preclaro che detta Adunanza abbia affermato, o possa aver affermato, un principio contrastante o incompatibile con il diritto dell'Unione europea”. In particolare, si tratta di capire “se la Sezione o il Collegio del Consiglio di Stato investiti della trattazione della causa, laddove dubitino della conformità o compatibilità con il diritto dell'Unione europea di un principio di diritto già enunciato dall'Adunanza plenaria, siano tenuti a rimettere a quest'ultima, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso, in ipotesi ancor prima di poter effettuare un rinvio pregiudiziale alla CGUE per accertare la conformità e compatibilità europea del principio di diritto controverso, ovvero se invece la Sezione o il Collegio del Consiglio di Stato possano, o piuttosto debbano, in quanto giudici nazionali di ultima istanza, sollevare autonomamente, quali giudici comuni del diritto dell'Unione europea, una questione pregiudiziale alla CGUE per la corretta interpretazione del diritto dell'Unione europea”.

In subordine, i Giudici palermitani si chiedono se il confermare la prima soluzione (cioè la rimessione de plano all’Adunanza Plenaria) non osti, “oltre che con i principi di ragionevole durata del giudizio e di rapida proposizione di un ricorso in materia di procedure di affidamento degli appalti pubblici, anche con l'esigenza che il diritto dell'Unione europea riceva piena e sollecita attuazione da ogni giudice di ciascuno Stato membro, in modo vincolativamente conforme alla sua corretta interpretazione siccome stabilita dalla CGUE, anche ai fini della massima estensione dei principi del cd. "effetto utile" e del primato del diritto dell'Unione europea sul diritto (non solo sostanziale, ma anche processuale) interno del singolo Stato membro (nella specie: sull’art. 99, comma 3, del c.p.a. della Repubblica italiana)”. EMF



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Inserito in data 21/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 ottobre 2013 n. 5047

Mansioni superiori svolte dal pubblico dipendente ed efficacia del principio di retribuibilità

La giurisprudenza non è unanime in merito alla portata retroattiva dell’art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998. 

Le pronunce della Corte di Cassazione (v., per tutte, Cass. Civ,. SS.UU., 11 dicembre 2007, n. 25837), infatti, “hanno affermato l’efficacia retroattiva dell’art. 15, d.lgs. n. 387 del 1998, rilevando che nel pubblico impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal decreto legislativo n. 29 del 1993 (art. 56, comma 6, come modificato dal decreto legislativo n. 80 del 1998, art. 25), è stato soppresso dal citato art. 15 del decreto legislativo n. 387 del 1998 con efficacia retroattiva; e che conseguentemente il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 della Costituzione è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali”.

Al contrario, il Giudice Amministrativo “ravvisa da tempo nella riforma contenuta nel decreto legislativo n. 387 del 1998 una valenza innovativa, precisando che nel pubblico impiego il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni superiori effettivamente svolte è stato introdotto con carattere di generalità, nel rispetto dei precetti costituzionali, dal citato art. 15, d.lgs. n. 387 del 1998, a decorrere dalla sua entrata in vigore (22 novembre1998), con norma avente, appunto, natura innovativa e non ricognitiva o retroattiva, ferma restando la necessità di una determinazione formale dell'Amministrazione e della vacanza del posto in organico”.

Pertanto, prima del 22 novembre 1998, “quando non vi fosse una specifica normativa speciale che disponesse altrimenti, lo svolgimento da parte del pubblico dipendente di mansioni superiori rispetto a quelle dovute sulla base del provvedimento di nomina o di inquadramento costituiva circostanza irrilevante, oltre che ai fini della progressione in carriera, anche ai fini economici (v., da ultimo, C.d.S., Sez. V, 19 novembre 2012, n. 5852, e le pronunce in essa richiamate)”.

D’altra parte, non è configurabile l'indebito arricchimento dell’Amministrazione e l’esercizio della relativa azione da parte del pubblico dipendente che svolga mansioni superiori atteso che, mentre essa “postula, quale indefettibile presupposto, un'effettiva diminuzione patrimoniale sofferta in conseguenza dei fatti dedotti a sostegno della pretesa, nel caso considerato il dipendente non sopporta alcun depauperamento che lo legittimi all'esercizio dell'azione ex art. 2041, c.c. (v. anche in questo caso, per tutte, la citata sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 5852/2012, e le pronunce in essa richiamate)”. EMF



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Inserito in data 18/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 16 ottobre 2013, n. 23

La Plenaria insiste ancora sulla dichiarazione circa il requisito della moralità professionale

Il massimo Consesso amministrativo, nell'esercizio della sua funzione nomofilattica - ex articolo 99 C.p.A., si pronuncia su una questione rimessa dai Giudici della quinta Sezione – in merito alla portata dell’articolo 38 – lett. b) e c), del d.lgs. n. 163 del 2006 – Codice Appalti.

Più nel dettaglio, il Collegio rimettente si interrogava circa la necessità di individuare chi possa inquadrarsi quale “amministratore munito del potere di rappresentanza o quale direttore tecnico”; ovvero i soggetti richiamati nella suddetta norma, sui quali incombe l’obbligo di dichiarazione, richiesto ai fini dell’ammissione ad una gara pubblica.

Il contrasto giurisprudenziale, in sostanza, era sorto tra quanti – privilegiando un dato meramente formale e purista - richiedono la compresenza della qualità di amministratore e del potere di rappresentanza, in tal modo prevenendo malcerte indagini sostanzialistiche.

La norma, quindi, non dovrebbe prestarsi ad alcuna interpretazione estensiva, stante la necessità che rilascino dichiarazioni circa il possesso dei requisiti moralità – richiesti in una gara pubblica – solo quei soggetti effettivamente investiti di poteri rappresentativi della società verso l’esterno.

A sostegno di tale posizione, l’orientamento richiama non solo il dato civilistico – di cui all’articolo 2380-bis cod. civ. a proposito della individuazione dei titolari di una rappresentanza istituzionale della società; ma, altresì, riporta il dettato normativo di cui al medesimo articolo 38 – quivi scrutinato – che fa riferimento soltanto agli "amministratori muniti di potere di rappresentanza", senza alcun obbligo nei confronti dei procuratori.

Di opposto avviso, invece, un’altra corrente giurisprudenziale sorta in seno alla stessa Sezione che, scegliendo un’impostazione più sostanziale, finirebbe con il superare il mero dato normativo e, quindi, estendere l’obbligo di cui all’articolo 38 anche a chi operi quale procuratore all’interno del contesto societario.

Tale assunto, del resto, parrebbe trovare fondamento anche nell’articolo 45 della Direttiva U.E. 2004/18/CE - di cui l’art. 38 del d.lgs. 163 del 2006 costituisce trasposizione nell’ordinamento nazionale – che, richiamando “qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo”, sembrerebbe spingere verso un’interpretazione sostanzialistica della norma in esame.

L’Adunanza Plenaria, preso atto di un simile contrasto, privilegia l’orientamento più purista, delimitando i contorni dell’articolo 38.

I massimi Giudici, infatti, ritengono che l’impostazione più ampia, inevitabilmente, darebbe spazio a valutazioni discrezionali da parte delle stazioni appaltanti –con un aggravio in seno al procedimento chiaramente non auspicabile.

Peraltro, cosa forse più grave, si potrebbe conferire uno spazio non sempre dovuto a chi, secondo un diverso rigore normativo, non potrebbe avere una simile ingerenza in ambito societario.

Alla luce di simili considerazioni, pertanto, cercando di osteggiare un’interpretazione analogico – estensiva, la Plenaria invita ad una lettura più rigorosa possibile della norma censurata, rimettendo alla Sezione remittente la decisione delle residue questioni controverse. CC



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Inserito in data 18/10/2013
TRIBUNALE DELL'UNIONE EUROPEA, SEZIONE TERZA, CAUSA T 248/10 del 16 ottobre 2013

Violato il regime linguistico: i Giudici annullano bando UE

Il Tribunale dell’Unione Europea, accogliendo una doglianza proveniente dall’Ordinamento italiano, annulla un bando di concorso della Commissione UE per violazione del regime linguistico.

Le statuizioni contenute in bando, infatti, richiedevano - ai fini della partecipazione alla procedura – che i candidati conoscessero, oltre ad una lingua dell'Ue, anche francese, inglese o tedesco.

L'Italia aveva chiesto l'annullamento del concorso, per violazione del Regolamento n. 1/1958 sul regime linguistico, della Carta dei diritti fondamentali, dello Statuto dei funzionari dell’Unione europea.

Riteneva, peraltro, che una simile conoscenza linguistica, oltrechè non richiesta sulla base di dati normativi, non corrispondesse neanche ai requisiti professionali propri del personale oggetto della procedura concorsuale qui gravata.

I Giudici europei, condividendo l’assunto della Difesa italiana, sottolineano che l’interesse del servizio possa costituire un obiettivo legittimo idoneo ad essere preso in considerazione, a condizione che tale interesse sia oggettivamente giustificato e che il livello di conoscenze linguistiche richiesto risulti proporzionato alle effettive esigenze.

Tanto, evidentemente, non ricorreva nel caso di specie, con conseguente annullamento del bando gravato. CC



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Inserito in data 17/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE - TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 ottobre 2013, n. 22600

In merito al diritto di critica giornalistica

Il diritto di critica giornalistica, nei casi in cui vi sia proporzione tra l'importanza del fatto ed il bisogno della sua esposizione anche in chiave critica, può essere esercitato anche in modo “graffiante”.

La critica giornalistica non può, tuttavia, mai consistere in attacchi o in delle aggressioni individuali nei confronti di soggetti atte a colpire, direttamente e personalmente, la figura morale del soggetto criticato. Il diritto di cui sopra, rispetto all'esercizio del diritto di cronaca, consente l'uso di un linguaggio di certo più pungente e diretto però, nonostante tale diversità, la giurisprudenza di legittimità giunge ad una quasi totale equiparazione dei presupposti indispensabili per soddisfare tanto il diritto di cronaca quanto il diritto di critica giornalistica.

Emerge, infatti, che tali presupposti consistono: 1) nell'interesse al racconto, interesse che emerge anche nel caso in cui non si tratti di un interesse generico concernente, quindi, la generalità dei cittadini, ma riguardi sostanzialmente una determinata categoria di soggetti a cui si rivolge la pubblicazione del giornale o del quotidiano, 2) nella correttezza sostanziale e formale della esposizione dei fatti; si tratta infatti, in tal caso, della “continenza”, l'informazione non deve consistere nell'esplicazione di fatti ritenuti come lesivi dell'immagine e\o del decoro delle persone, 3) nell'esatta corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, in tal senso deve assicurarsi la veridicità del racconto.

Infine, occorre l'intera disamina del contesto in cui si inseriscono le espressioni censurate, così da valutare se vi siano delle probabili cause di giustificazione quali, ad esempio, il diritto di cronaca, il diritto di critica ed il diritto di satira. GMC

 




Inserito in data 17/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE SESTA – 3 CIVILE, ORDINANZA 4 ottobre 2013, n. 22684

Responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c.

L'art. 2051 del c.c., sotto la rubrica “Danno cagionato da cosa in custodia”, recita che “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.

Dalla norma emerge, dunque, che per i danni cagionati da cose in custodia si presuppone l'esistenza di un rapporto di custodia della cosa ed una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, in modo tale da permettere e garantire il potere di esercitare un controllo, eliminando ogni situazione di pericolo che possa sorgere ed escludendo, altresì, il contatto della cosa ad opera di terzi.

Il danneggiato, in tali casi, non è esonerato dall'onere di provare il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, ovvero di dimostrare che l'evento sia stato prodotto come conseguenza normale della condizione, particolarmente lesiva, posseduta dalla cosa, mentre resterà a carico del custode la prova contraria della sua responsabilità mediante la dimostrazione positiva del caso fortuito, ovvero la dimostrazione di un fatto da considerare sostanzialmente come estraneo alla sua sfera di custodia, avente carattere di assoluta eccezionalità nonché di imprevedibilità o, ancora, riferentesi ad una condotta colposa dello stesso danneggiato.

Alla luce di tale ultimo caso, se l'evento di danno sia da imputare totalmente alla condotta del danneggiato che ha interrotto, altresì, il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno, si verificherà una ipotesi di caso fortuito che libererà il custode dalla responsabilità così come prevista e regolata all'art. 2051 del codice civile. GMC




Inserito in data 16/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 ottobre 2013, n. 5015

Prove per l’accesso agli anni di corso successivi al 1° delle Facoltà a numero chiuso

Il Consiglio di Stato riconosce la legittimità delle prove selettive per l’accesso alle Facoltà universitarie a numero chiuso, a prescindere dal fatto che l’accesso avvenga al primo anno di corso o successivamente.

Segnatamente, “secondo ormai consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Sezione, da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi […], dall’esame del combinato disposto degli artt. 1 e 4 della 2 agosto 1999, n. 264, in relazione all’art. 6 d.m. 22 ottobre 2004, n. 270 […], non emerge in alcun modo che l’obbligo di sostenere il test d’ingresso per l’accesso alle facoltà a numero chiuso operi unicamente nelle ipotesi in cui (peraltro, secondo id quod plerumque accidit) l’accesso avvenga al primo anno di corso, dovendosi invece ritenere – stante l’inequivoco disposto normativo – che il medesimo obbligo sussista anche (in assenza di condizioni esimenti) nel caso di domanda di accesso dall’esterno direttamente ad anni di corso successivi al primo”.

In tal senso depone, in modo chiaro ed univoco, la previsione di cui al comma 1 dell’art. 4 l. n. 264 del 1999 che, nel prevedere che «l’ammissione ai corsi di cui agli articoli 1 e 2 è disposta dagli Atenei previo superamento di apposite prove», non fa alcuna distinzione fra l'accesso al primo anno di corso e l’ammissione agli anni di corso successivi”.

Tale conclusione è conforme all’ordinamento comunitario che “garantisce infatti, a talune condizioni, il riconoscimento dei soli titoli di studio e professionali, e non anche delle mere procedure di ammissione, né dispone la libera iscrizione a facoltà universitarie, dopo l’iscrizione in una università di uno degli Stati membri”.

Lo stesso art. 149 TCE (oggi, art. 165 del Trattato di Lisbona) esclude qualunque forma di armonizzazione delle disposizioni nazionali, demandando alla Unione il solo compito di promuovere azioni di incentivazione e di esprimere raccomandazioni”. TM



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Inserito in data 16/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 10 ottobre 2013, n. 23035

Obbligo del detentore di restituire i frutti ab initio ex art. 1148, c.c.

La Sesta sezione della Cassazione civile sancisce l’applicabilità dell’art. 1148 c.c. anche ai detentori di buona fede (nel caso di specie, al promissario acquirente).

Detta norma stabilisce che il possessore di buona fede risponde dei frutti, percepiti e percipiendi, solo a partire dalla data della domanda giudiziale.

Dalla lettura a contrario di tale norma, si ricava che il possessore di mala fede è obbligato a restituire i frutti percepiti anche prima della domanda giudiziale. Sotto questo profilo, la norma si applicherebbe anche ai detentori, obbligandoli alla restituzione di tutti i frutti percepiti anche prima della domanda.

Infatti, ad avviso della Suprema Corte, tale norma costituisce un “temperamento (analogo a quello contenuto nell’art. 2033 c.c. in tema di pagamento di indebito) del principio generale, secondo cui la pronunzia dell’invalidità del titolo comporta un integrale effetto ripristinatorio, in virtù del quale devono essere dall’accipiens restituiti non solo il bene indebitamente goduto in base allo stesso, ma anche le utilità ab initio dallo stesso ricavate; principio applicabile sia ai possessori, sia ai detentori (o apparenti tali), con la sola limitazione temporale, quanto ai primi, ove in buona fede e relativamente ai frutti, della decorrenza dalla domanda giudiziale”. TM




Inserito in data 15/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 11 ottobre 2013, n. 4983

Il provvedimento cautelare non può fondarsi esclusivamente su una denuncia

Il Consiglio di Stato ha confermato la decisione del Tar con la quale era stata accolta la doglianza del ricorrente in merito alla sospensione del titolo di polizia di guardia giurata, in attesa della conclusione del procedimento penale apertosi a suo carico.

Il provvedimento, infatti, era stato emesso a seguito delle accuse di truffa e falso mosse a carico dell’agente che, a giudizio della P.A., avrebbero fatto venire meno il requisito di “buona condotta” richiesto per lo svolgimento dell’incarico e fatto sorgere il pericolo di abuso dei poteri.

Tuttavia, osserva il Supremo Consesso, pur risultando condivisibili le osservazioni poste dal Ministero sul carattere discrezionale dell’atto amministrativo di sospensione e, conseguentemente, sui limiti del giudicato nel merito della decisione, appare corretta la valutazione del giudice di primo grado.

Invero, “il provvedimento di sospensione della licenza di guardia giurata, ai sensi dell’art. 10 T.U.L.P.S., è finalizzato a prevenire abusi dell’autorizzazione di polizia e non richiede il venir meno del requisito della buona condotta, così come nell’ipotesi di revoca del titolo, ex art. 11 del medesimo testo unico” e, nel caso in esame, risultavano del tutto carenti le prove in merito al pericolo di abuso che, a ben vedere, si fondavano esclusivamente sulla presentazione della denuncia dei suddetti reati.

Sulla base delle considerazioni esposte, dunque, il C.d.S. ha avallato la decisione del primo giudice ritenendo che “la mera attribuzione di un fatto penalmente rilevante, in conseguenza di una denuncia dell’interessato per dei presunti reati di truffa e falso non meglio circostanziati, non costituisce, in assenza di univoci e dettagliati indizi ( e prima che sia intervenuta la sentenza di condanna), elemento determinante e sufficiente per ritenere insussistente il requisito della buona condotta di cui al combinato disposto degli artt. 11 e 138, comma 1, R.D. n. 773/1931”. VA



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Inserito in data 15/10/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, QUINTA SEZIONE, C 94/12 del 10 ottobre 2013

Contrari alla direttiva comunitaria i limiti nazionali al raggruppamento tra imprese

La Corte di Giustizia Europea è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale sulla conformità alla direttiva comunitaria 2004/18/CE della normativa italiana in materia di appalti.

La problematica, nel caso esaminato, è sta affrontata in relazione alla possibilità, da parte dell’ordinamento italiano, di vietare agli operatori economici, partecipanti ad una gara di appalto, di avvalersi di mezzi appartenenti ad altri soggetti, anche in aggiunta ai propri, al fine di raggiungere quei requisiti di professionalità e solidità tecnica, finanziaria ed organizzativa, necessari alla realizzazione dell’opera o del servizio.

Dopo aver messo a confronto la normativa comunitaria con quella nazionale, i giudici di Lussemburgo hanno affermato che “Gli articoli 47, paragrafo 2, e 48, paragrafo 3, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, […], letti in combinato disposto con l’articolo 44, paragrafo 2, della medesima direttiva, devono essere interpretati nel senso che ostano ad una disposizione nazionale […] la quale vieta, in via generale, agli operatori economici che partecipano ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori di avvalersi, per una stessa categoria di qualificazione, delle capacità di più imprese”.

La direttiva, infatti, è volta a favorire la partecipazione alla gare di affidamento di appalti pubblici anche da parte delle piccole e medie imprese, in considerazione del vantaggio tratto anche dalla stessa amministrazione appaltante, consentendo agli operatori economici di fare affidamento su altri soggetti, a prescindere dai rapporti giuridici che li legano, a condizione che venga garantita la disponibilità dei mezzi indicati nella domanda per tutta la durata del servizio o sino al compimento dell’opera.

Né, peraltro, risultano prescritte limitazioni quanto al numero dei soggetti che forniranno tali strumenti, salva l’esistenza di perticolari esigenze dettate dalla peculiarità dei lavori che, pertanto, assumono carattere eccezionale.

Per questi motivi la Corte di Giustizia Europea ha concluso nel senso della contrarietà alla direttiva comunitaria dell’art. 49, comma 6, del decreto legislativo n. 163/2006 nella parte in cui afferma che  <<per i lavori, il concorrente può avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione. Il bando di gara può ammettere l’avvalimento di più imprese ausiliarie in ragione dell’importo dell’appalto o della peculiarità delle prestazioni (...)>>. VA

 

 



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Inserito in data 14/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 9 ottobre 2013 n. 22

La competenza territoriale come limite al potere di autenticazione del giudice di pace

Con ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato sollevava “un possibile contrasto giurisprudenziale sulla questione centrale di diritto afferente la sussistenza, o meno, di limiti di competenza territoriale in capo ai pubblici ufficiali muniti del potere di autenticazione, in particolare in capo ai giudici di pace” in materia di autenticazione delle firme dei sottoscrittori delle liste elettorali.

Invero, “la Sezione rimettente rilevava che l’orientamento giurisprudenziale…(Cons. Stato, Sez. V, 20 marzo 2012, n. 1889; Cons. Stato, Sez. V, 16 febbraio 2011, n. 999; Cons. Stato, Sez. I, parere n. 2671 del 2013), secondo cui i pubblici ufficiali menzionati nell’art. 14 l. 21 marzo 1990, n. 53, tra cui il giudice di pace, sono titolari del potere di autenticare le sottoscrizioni esclusivamente all’interno del territorio di competenza dell’ufficio di cui sono titolari o ai quali appartengono, appariva contrastare con i principi di legalità dell’azione amministrativa, secondo cui la legge determina il contenuto degli atti, i suoi effetti e le conseguenze che si verificano in caso di violazione delle normative di settore, nonché con il principio di tassatività dei vizi di nullità. Inoltre, tale orientamento non avrebbe considerato l’eventuale applicabilità dell’istituto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, né appariva configurabile un’ipotesi di difetto di attribuzione, trattandosi, invero, di rilevare, se la normativa attributiva del potere certificativo avesse dato rilievo alla titolarità dello status, nella specie di giudice di pace, ovvero avesse implicitamente richiesto anche che il suo titolare esercitasse il proprio potere intra moenia. La Sezione prospettava, inoltre, un’eventuale contrasto con il principio dell’affidamento incolpevole dei sottoscrittori della lista esclusa dalla competizione elettorale”.

Ciò posto, i Giudici di Palazzo Spada, nell’espletamento della funzione nomofilattica, ritengono di confermare il consolidato orientamento giurisprudenziale, “secondo cui i pubblici ufficiali, ai quali la legge elettorale (nella specie, l’art. 18 l. reg. n. 7 del 1983, a contenuto in parte qua sostanzialmente omologo alla disciplina prevista dall’art. 14 l. n. 53 del 1990) conferisce il potere di autenticare le sottoscrizioni delle liste di candidati, siano legittimati ad esercitare il potere certificativo esclusivamente nel territorio di competenza dell’ufficio di cui sono titolari o al quale appartengono”.

Peraltro, le motivazioni addotte a sostegno di tale conclusione sono diverse:

- l’individuazione dei soggetti indicati dalla menzionata legge elettorale implica “un rinvio allo statuto proprio delle singole figure di pubblici ufficiali, e dunque anche ai limiti territoriali, entro i quali i medesimi esercitano, in via ordinaria, le proprie funzioni”. Ne discende, dunque, “che i limiti alla competenza territoriale dell’ufficio di appartenenza integrano un elemento costitutivo della fattispecie autorizzatoria”;

- “l’art. 2699 cod. civ. – secondo cui «l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato» – stabilisce un preciso nesso di collegamento tra competenza territoriale (e per materia) del pubblico ufficiale e luogo di esercizio del potere di autenticazione (si precisa, al riguardo, che l’indicazione del luogo di attestazione della sottoscrizione, nella relazione di autentica, costituisce non già elemento estrinseco, bensì parte essenziale dell’atto pubblico)”;

- ai sensi dell’art. 2701 cod. civ. il documento formato da pubblico ufficiale incompetente e sottoscritto dalle parti ha la “mera efficacia probatoria della scrittura privata, con conseguente inidoneità autenticatoria nell’ambito delle operazioni elettorali”;

-quindi, “resta, con ciò, superata ogni questione sull’inquadramento della patologia sub specie di nullità, annullabilità, mera irregolarità o altra figura, poiché la richiamata, espressa previsione di legge sancisce l’inefficacia dell’atto pubblico formato da pubblico ufficiale incompetente”;

- dal punto di vista letterale, inoltre, la disposizione citata, nell’elencare la figura del notaio utilizza “l’articolo indeterminato «un», mentre, nell’elencazione degli altri pubblici ufficiali ivi contemplati, è impiegato l’articolo determinato «il», con evidente riferimento al pubblico ufficiale del luogo dell’autenticazione”;

- d’altra parte, l’attribuzione del potere certificativo delle sottoscrizioni delle liste di candidati a una pluralità di figure di pubblico ufficiale non implica “un ampliamento e/o un’abolizione dei limiti territoriali di esercizio delle rispettive funzioni, per contro contrastante con esigenze di certezza e di un’ordinata e trasparente raccolta delle sottoscrizioni”;

- “né, infine a fronte della consolidata prassi amministrativa (v. circolare del Ministero dell’Interno - Direzione centrale servizi elettorali, 20 aprile 2006, n. 79/2006, e varie istruzioni emanate dallo stesso Ministero in occasione di ripetute tornate elettorali) e del richiamato consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, può configurarsi un’ipotesi di incolpevole affidamento dei presentatori della lista”. EMF



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Inserito in data 14/10/2013
TAR LAZIO – ROMA, SEZ. I, 10 OTTOBRE 2013, n. 8756

Sulle modifiche apportate al C.N.E.L. dal d.l. n. 201 del 2011

Il Collegio romano è chiamato a pronunciarsi sulle modifiche apportate dall’art. 23 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito nella l. 22 dicembre 2011, n. 214, alla l. 30 dicembre 1986, n. 936, che regola la composizione ed il funzionamento del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (C.N.E.L.).

In particolare, per la ricorrente la suddetta riforma violerebbe l’art. 99 Cost., da un lato, “per essere stata introdotta con un atto normativo di decretazione d’urgenza, sia pure convertito con legge ordinaria” e, dall’altro, perché non avrebbe tenuto conto dell’importanza numerica e qualitativa delle categorie produttive.

In particolare, con riferimento al primo motivo, il Tar osserva che: “la piena fungibilità tra le due fonti primarie è confermata del giudice costituzionale, per cui appunto la parificazione alle leggi formali degli "atti aventi forza di legge", consente a tali atti di incidere validamente, al pari delle leggi, nelle materie a queste riservate (cfr. Corte costituzionale 29 luglio 1996, n. 330, in materia di norme penali)”.

Pertanto, il Tribunale sottolinea che: “Le disposizioni di cui all’art. 23, comma IX, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, sono certamente coerenti con la “straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni per il consolidamento dei conti pubblici, al fine di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell'attuale eccezionale situazione di crisi internazionale e nel rispetto del principio di equità, nonché di adottare misure dirette a favorire la crescita, lo sviluppo e la competitività”, come si legge nel preambolo dello stesso d.l. 201/11. Le norme in questione, infatti, dimezzano con effetto immediato un collegio di 122 componenti, i cui consiglieri, secondo lo stesso C.N.E.L. (http://www.cnel.it/600) percepiscono attualmente un’indennità annua pari ad almeno € 25.633,44 cui si devono aggiungere le altre integrazioni.

Si tratta, peraltro, di una scelta, che, seppur discrezionale, è ragionevole rispetto al taglio degli emolumenti, “considerato che determinate spese pro capite non sono seriamente comprimibili oltre una certa soglia, anche per la dignità della funzione assegnata”.

In ordine al secondo motivo, invece, la ricorrente denuncia, nello specifico, che la categoria produttiva della cooperazione, per effetto della nuova disciplina, “rimane sospesa tra i macro-generi del lavoro autonomo e delle professioni e dell’impresa, con la certezza di non poter avere una propria rappresentanza” in seno al C.N.E.L.

A tal riguardo, il Collegio esclude che “l’art. 99 della Costituzione stabilisca una riserva assoluta di legge, per quanto riguarda la composizione e la nomina del C.N.E.L., e che, dunque, il legislatore debba individuare sottocategorie circoscritte”.

In mancanza di elementi testuali o logici diretti a giustificare la suddetta tesi, dunque, deve propendersi per la natura relativa della riserva costituzionale.

D’altra parte, “il fatto che una determinata categoria produttiva non sia più espressamente indicata dalla legge non significa affatto, com’è del resto ovvio, che essa non troverà più adeguata rappresentanza nel C.N.E.L.”.

In conclusione, l’individuazione delle categorie rappresentative “non va attuata con una proporzione aritmetica”, imponendo l’art. 23, IX comma, “di correggere  il risultato che conseguirebbe dalla sola “importanza numerica”, per usare il sintagma dell’art. 99 Cost.”.

Le nomine dovranno tenere conto dei parametri “della specificità di settore e del pluralismo, al fine d’introdurre, all’interno del Consiglio, una più vasta gamma di competenze, esperienze e rappresentanza d’interessi conferenti alla categoria d’appartenenza (per l’appunto l’importanza “qualitativa”, di cui all’art. 99 Cost.), sempre in vista dell’obiettivo ultimo, che è il miglior svolgimento delle funzioni e delle competenze che la Costituzione e le leggi ordinarie assegnano al C.N.E.L.”. EMF



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Inserito in data 11/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 ottobre 2013, n. 4968

Mancata impugnazione del silenzio rifiuto incide solo su determinazione del danno

La sentenza in esame conferma che, ai fini dell’ammissibilità dell’azione risarcitoria, non sono sufficienti l’annullamento del provvedimento lesivo o l’ingiustificata o illegittima inerzia dell’amministrazione o il ritardato esercizio della funzione amministrativa. Infatti, si deve anche accertare se ciò sia conseguenza della grave violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede e si sia verificato in un contesto di fatto ed in un quadro di riferimento normativo tale da palesare la negligenza e l’imperizia degli uffici o degli organi dell’amministrazione o se, al contrario, la violazione sia ascrivibile ad errore scusabile, per la ricorrenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo o per la complessità della situazione di fatto.

Inoltre, si afferma che il decorso del termine di sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di concessione edilizia (previsto dall’art. 31 della legge n. 1150 del 1942) non consuma il potere–dovere dell’amministrazione di provvedere sulla domanda del privato. Infatti, il silenzio–rifiuto costituisce un provvedimento fittizio con finalità acceleratorie del procedimento di rilascio del titolo concessorio e di semplificazione. Esso attribuisce al privato la facoltà di liberarsi dell’inerzia dell’amministrazione e dell’onere della diffida e messa in mora di quest’ultima, indispensabile per adire il giudice amministrativo, così che la mancata impugnazione del silenzio rifiuto rileva sotto il diverso profilo della sua eventuale efficacia causale alla produzione del danno (concausa) e della concreta determinazione del danno risarcibile (ex artt. 1227 c.c. e 30, comma 3, c.p.a.).

Peraltro, la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, ex art. 30, comma 3, cpa, è ricognitiva dei principi già contenuti nell’art. 1227, comma 2, cc. Pertanto, “l’omessa attivazione degli strumenti di tutela costituisce, nel quadro complessivo delle parti, valutabile alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con la ordinaria diligenza, non più come preclusione di rito, ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile.” CDC



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Inserito in data 11/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, sentenza 4 ottobre 2013, n. 22752

Autolesioni dell’allievo e responsabilità della scuola

In caso di danno cagionato dall'alunno a sé stesso (c.d. autolesioni), l'accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione a scuola determinano l'instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico della scuola l'obbligo di vigilare sulla sicurezza e sull'incolumità dell'allievo per il tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica. La scuola è quindi tenuta a predisporre tutti gli accorgimenti necessari, sia all'interno dell'edificio che nelle pertinenze scolastiche, di cui abbia a qualsiasi titolo la custodia. Ciò vale anche per il cortile antistante l'edificio scolastico, del quale la scuola abbia la disponibilità e ove venga consentito il regolamentato accesso e lo stazionamento degli utenti, e in particolare degli alunni, prima di entrarvi.

L'istituto scolastico è dunque tenuto ad “osservare obblighi di vigilanza e controllo con lo sforzo diligente adeguato alla natura della cosa e alle circostanze del caso concreto, dovendo adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi”. Deve quindi mantenere la condotta diligente dovuta secondo criteri di normalità, da apprezzarsi in relazione alla capacità tecnico-organizzativa.

Sul piano dell’onere della prova, in caso di danno da lesioni conseguente a sinistro avvenuto nei locali e pertinenze scolastiche, l'attore deve provare che tale danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l'istituto ha l'onere di dimostrare che l'evento dannoso è stato determinato da causa a sé non imputabile. All'istituto spetta quindi dimostrare di avere adottato, in relazione alle condizioni della cosa e alla sua funzione, tutte le misure idonee ad evitare il danno, e che il danno si è ciononostante verificato per un evento non prevedibile né superabile con la diligenza normalmente adeguata in relazione alle circostanze concrete del caso. CDC




Inserito in data 10/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 ottobre 2013, n. 4922

Sul punteggio dei concorsi per titoli ed esami incide la media dei voti degli scritti

Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato chiarisce i criteri di calcolo dei punteggi in caso di concorso per titoli ed esami.

Ed invero, come la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo più volte di precisare con argomentazioni che il Collegio condivide, il 4° comma dell'art. 8 del d.p.r. 487/94 deve essere interpretato nel senso che nei concorsi per titoli ed esami il punteggio complessivo è costituito dalla somma del punteggio conseguito per la valutazione dei titoli, dalla media del punteggio realizzato nelle prove scritte e dal punteggio attribuito alla prova orale ( cfr. Cons. Stato Sez. V n. 2412/2002 ; n. 8081/2004 ; n. 1443/2009 ; n. 397/2010 )”.

Infatti, pur non prevedendo espressamente la richiamata disposizione la media dei voti riportati nelle prove scritte - esplicitamente richiamata dall'articolo 7, 3° comma, per i concorsi per soli esami- , ciò tuttavia la stessa non esclude ed anzi impone, per ragioni sistematiche, che tale criterio debba applicarsi anche ai concorsi per titoli ed esami”. In questo senso depone: il fatto che il legislatore nel redigere la regola di cui all’art. 8, comma 4°, non poteva ignorare quella già fissata all’art. 7, c. 3°; l’irrazionalità di un criterio di valutazione differenziato delle prove scritte, a seconda se esse concorrono solo con la prova orale o anche coi titoli; la circostanza che in entrambe le tipologie concorsuali le prove scritte costituiscono una prova unitaria, al pari di quella orale.

In conclusione, il criterio della media dei voti delle prove scritte risulta essere una criterio generale ed unico, da applicare a tutti i concorsi pubblici per l'accesso al pubblico impiego, siano essi concorsi per esami che concorsi per titoli ed esami”. TM

 



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Inserito in data 10/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 8 ottobre 2013, n. 22848

Si applica l’art 156 cpc all’appello ex art 308 cpc proposto erroneamente con citazione

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi su due contrasti giurisprudenziali.

1) In primo luogo, era controverso l’atto (ricorso o citazione) con cui era possibile impugnare la pronuncia di estinzione del giudizio di cognizione emessa dal giudice istruttore ex art. 308, c. 2, c.p.c.

Ad avviso delle Sezioni Unite, “ai sensi dell’art. 130 disp. att. c.p.c., il procedimento di appello avverso sentenza ex art. 308, comma 2 c.p.c., reiettiva del reclamo proposto avverso declaratoria di estinzione del processo pronunciata dal giudice istruttore, è retto dal rito camerale sin dal momento della proposizione dell’impugnazione, che, va, quindi, introdotta con ricorso da depositare in Cancelleria entro i termini prescritti dagli art. 325 e 327 c.p.c.”.

2) In secondo luogo, la Suprema Corte si pronuncia sulla “più generale tematica della sorte delle impugnazioni nonché delle opposizioni a decreto ingiuntivo o altro atto … introdotte, in contrasto con la previsione legale, con citazione anziché con ricorso o, viceversa, con ricorso anziché con citazione”.

A tal proposito, le Sezioni Unite ci ricordano che, secondo l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale consolidato, l’impugnazione proposta con atto diverso da quello prescritto dalla normativa processuale (es. impugnazione proposta con citazione, secondo il modello del rito ordinario di cognizione, da proporsi invece con ricorso, secondo il modello del rito lavoro) è suscettibile di sanatoria, ai sensi dell’art. 156 c.p.c. (principio del raggiungimento dello scopo), a patto che “nel termine perentoriamente prescritto dalla legge ai fini dell’ammissibilità dell’impugnativa, l’atto… sia stato, non solo notificato alla controparte, ma pure depositato nella Cancelleria del giudice”. Specularmente, l’impugnazione da proporsi con citazione ma proposta con ricorso è sanabile se “nel termine perentorio di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c., l’atto sia stato non solo depositato nella Cancelleria del giudice competente, ma anche notificato alla controparte”.

L’orientamento in esame merita di essere confermato, in quanto, come recentemente specificato da Cass. SS.UU. n. 21675/13, “la diversa soluzione adottata da Cass. ss. uu. 8491/11, in tema di impugnazione di delibera condominiale dispiegata con ricorso anziché, come dovuto, con citazione (impugnazione reputata suscettibile di sanatoria in ragione del solo tempestivo deposito dell’atto in Cancelleria e, dunque, indipendentemente dalla sua tempestiva notificazione), trova (del resto dichiarata) giustificazione nella precipua specificità morfologica e funzionale dell’atto impugnato (delibera condominiale) e, conseguentemente, della relativa opposizione; cosicché è soluzione non estensibile oltre il circoscritto specifico ambito di riferimento”.

Del resto, tale indirizzo presenta un fondamento teorico giuridico ineccepibile poiché “La conversione, ai sensi dell’ art. 156 c.p.c., di un atto introduttivo non conforme allo specifico modello legale del procedimento che intende introdurre, può, invero, realizzarsi, solo se l’atto da convertire sia dotato di tutti i requisiti indispensabili al raggiungimento dello scopo dell’utile introduzione del procedimento secondo lo schema legale prescritto”.

Pertanto, si afferma il principio secondo cui “l’appello avverso sentenza ex art. 308, comma 2, c.p.c., reiettiva di reclamo proposto avverso declaratoria di estinzione del processo pronunciata dal giudice istruttore, promosso con citazione anziché con ricorso, è suscettibile di sanatoria, in via di conversione ai sensi dell’art. 156 c.p.c., alla condizione che, nel termine previsto dalla legge, l’atto sia stato non solo notificato alla controparte, ma anche depositato nella Cancelleria del giudice”. TM

 




Inserito in data 09/10/2013
TAR VENETO - VENEZIA, SEZ. I, 24 settembre 2013, n. 1129

Ricorso in ottemperanza al fine di ottenere dei chiarimenti

Il Tar Veneto esamina la situazione secondo cui potrebbe proporsi ricorso in ottemperanza anche al fine di ottenere dei chiarimenti proprio in ordine alle "modalità" di ottemperanza.

Com'è noto infatti, ai sensi dell'art. 112, comma 5 del codice del processo amministrativo, il ricorso per l'ottemperanza può essere proposto anche al fine di ottenere dei semplici chiarimenti.

Da quanto detto ne consegue, dunque, che il ricorso, in vista del perseguimento di tale specifico fine, possa essere proposto anche dall'amministrazione tenuta alla esecuzione della sentenza.

Dalla lettera dell'art. 112 del codice del processo amministrativo, al libro IV, emerge, infatti, a chiare lettere che: "Il ricorso di cui al presente articolo può essere proposto anche al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza".

In passato, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato ha avuto modo di esprimersi circa la reale natura del ricorso rivolto al giudice per ottenere chiarimenti, soffermandosi sull'assunto secondo il quale nonostante tale ricorso sia disciplinato nell'ambito del giudizio di ottemperanza, presenta tuttavia una natura giuridica diversa dall'azione di ottemperanza così come propriamente intesa, poichè esso è finalizzato all'accertamento dell'esatto contenuto della sentenza ovvero del provvedimento ad essa equiparato che, a causa della soccombenza in un precedente giudizio, si è tenuti ad eseguire.

Tale ricorso, inoltre, così come espresso con sentenza del Consiglio di Stato n. 6468 del 2012, non può essere proposto dal commissario ad acta, tranne nel caso in cui la nomina sia avvenuta con la sentenza di merito, conclusiva del giudizio di cognizione, ai sensi dell'art. 34, comma 1, lett. e), del codice del processo amministrativo.

Inoltre, lo strumento di cui trattasi, contemplato, come precedentemente detto, all'art. 112, comma 5, c.p.a., non solo non sospende medio tempore l'obbligo di ottemperanza alle sentenze esecutive per legge, ma non può neanche trasformarsi in un'azione di accertamento della legittimità o liceità della futura azione amministrativa, salvo nel caso in cui questa non attenga ad una effettiva modalità di esecuzione della sentenza.

Infine, il giudizio di ottemperanza in oggetto non può mai trasformarsi in un appello c.d. "mascherato" che possa, dunque, portare ad un possibile, ma non consentito, stravolgimento del contenuto della pronuncia, la quale, essendo passata in giudicato, non può subire modifiche, e dunque non può più essere né riformata né tantomeno integrata dal Giudice dell'ottemperanza, nel caso in cui la pretesa avanzata sia de plano ricavabile chiaramente dal testo della sentenza che deve esser eseguita. GMC



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Inserito in data 09/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONE SESTA - 3 CIVILE, ORDINANZA 1 ottobre 2013 n. 22454

Rimessione alle Sezioni Unite: determinazione del momento di perfezionamento della notifica

La Suprema Corte, mediante l'ordinanza interlocutoria di cui in epigrafe, rimette alle Sezioni Unite la questione riguardante la determinazione del momento di perfezionamento della notificazione, con l'obiettivo primario volto ad individuare la prevenzione tra una causa continente introdotta con citazione ed una introdotta, invece, con ricorso per decreto ingiuntivo.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si troveranno, in tale contesto, nella posizione di dover chiarire la portata del principio di scissione secondo cui la notificazione si perfezionerebbe, nei confronti del notificante, al momento della consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario, con la conseguenza, di importante rilievo, che, ove quest'ultima fosse tempestiva, si evita alla parte la decadenza correlata alla inosservanza del termine perentorio entro cui la notifica deve avvenire.

Per il destinatario, invece, la notificazione si perfezionerebbe nel momento della ricezione dell'atto, così come è stato autorevolmente affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 477 del 2002, 154 del 2005 nonchè nn. 28 e 97 del 2004.

La Sesta Sezione ha rimesso il fascicolo al Presidente della Corte al fine di un'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, allo scopo di ottenerne un intervento chiarificatore su tale tema particolarmente dibattuto, soprattutto con riferimento all'intero sistema delle notificazioni vigenti, successivamente ai contributi resi dalla Corte Costituzionale e dal Legislatore, al c.d. principio della scissione.

Secondo tale principio, infatti, sembrerebbe che solo quando una notificazione avvenga al fine di impedire una decadenza (o, comunque, per la tempestività di un adempimento) si faccia riferimento al momento del perfezionamento per il notificante, mentre per tutti gli altri effetti, concernenti tanto il destinatario quanto il notificante, si prende in considerazione il momento del perfezionamento per il destinatario, così che la scissione, in tale contesto, non rivesterebbe alcuna rilevanza. GMC




Inserito in data 08/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 ottobre 2013 n. 4906

Nel silenzio del bando di gara deve escludersi la disapplicazione della lex specialis

La questione posta al vaglio del Supremo Consesso riguarda il “formale” contrasto tra bando di gara e lex specialis.

In particolare, la ricorrente, in primis, ha dedotto di essere l’unica società in possesso dell’attestazione OS12-A richiesta dal bando e, in subordine, la disapplicazione dell’art. 357, commi 16 e 17, del d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, “dalla quale deriverebbe l’illegittimità dell’ammissione alla gara delle altre imprese”. La predetta norma, infatti, in vigore alla data di adozione del bando, “ammetteva le attestazioni di qualificazione (OS12) ancora per trecentosessantacinque giorni successivi alla data di entrata in vigore del regolamento”.

Nel rigettare le conclusioni della ricorrente, i Giudici affermano che in presenza di una norma transitoria “sarebbe stata necessaria nel bando un’esplicita clausola di esclusione dei soggetti in possesso della sola attestazione di qualificazione OS12”.

Pertanto, “la circostanza che il bando abbia anticipato, in formale contrasto con la previsione transitoria dell’art. 357, comma 17, il riferimento alle attestazioni relative alla nuova qualificazione OS12-A, non può essere intesa come senz’altro produttiva di un’automatica esclusione, come quella che l’istante vorrebbe veder operare. Il bando va invero inteso come integrato con le superiori previsioni normative, che non contrasta esplicitamente. Del resto, è regola generale che nel dubbio l’atto amministrativo vada interpretato riconducendolo a conformità a legge, ed è questa la conclusione cui nella specie si perviene (cfr. Cons. Stato, VI, 21 settembre 2010, n. 7008): il che, poi, converge con il favor di legge per la massima partecipazione alla gara (cfr. Cons. Stato, V, 28 maggio 2012, n. 3121; 13 aprile 2012, n. 2114; 8 marzo 2006, 1224)”. EMF



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Inserito in data 08/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 ottobre 2013 n. 4909

Il rapporto di lavoro alle dipendenze dei Servizi di Sicurezza ha carattere speciale

In tema di ordinamento dei Servizi di Informazione e di Sicurezza, i Giudici di Palazzo Spada(Cons. Stato, sez. IV, 10 luglio 2013 n. 3684) hanno già avuto modo di osservare che: “il caso di specie (ordinamento del personale degli organismi di informazione per la sicurezza della Repubblica) rappresenta il massimo di specialità nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, come è non solo intuitivamente desumibile dalla stessa evidenza del settore di riferimento, ma anche e soprattutto dal regime di eccezionalità e di “deroghe” alla disciplina generale (anche penale). . . Né la presenza di “deroghe”, rispetto alla disciplina generale del pubblico impiego, può essere di per sé ritenuta costituire una violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e di imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.)”.

D’altra parte, “la non riconducibilità del rapporto di lavoro alle dipendenze della Pubblica amministrazione (latamente intesa) ad un modello unico (di modo che possono aversi valutazioni differenti di un medesimo episodio in ragione di impieghi diversi), è già desumibile dalla stessa Costituzione, laddove, all’art. 98, comma terzo, prevede che, per determinate categorie di pubblici dipendenti . . . possano essere disposte limitazioni finanche all’esercizio dei diritti politici (nella specie, iscrizioni ai partiti), purchè con legge ed in evidente considerazione della specificità e delicatezza delle loro funzioni” (Cons. Stato, sez. IV, 29 settembre 2011 n. 5411).

Pertanto, “la natura eccezionale delle funzioni svolte dagli appartenenti agli organismi di informazione, il fatto che le stesse afferiscono alla indipendenza e sicurezza della stessa Repubblica, alla tutela dei suoi principi democratici, al conseguente mantenimento delle garanzie costituzionali per i cittadini, non può che costituire, per un verso, fondamento di una lata discrezionalità nelle previsioni di organizzazione dei servizi, anche con riferimento allo status giuridico ed economico dei soggetti ad essi appartenenti; per altro verso, costituisce parametro interpretativo delle disposizioni concretamente adottate, potendosi le stesse ritenere illegittime nella misura in cui risultino violative di fondamentali diritti dell’uomo e di garanzie costituzionali inalienabili, ovvero appaiono di totale irragionevolezza”. EMF



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Inserito in data 07/10/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, DECIMA SEZIONE, Requête n. 43870/04 - De Luca c. Italie e Requête n. 43892/04 - Pennino c. Italie, del 24 settembre 2013

Italia condannata: si al diritto dei creditori degli Enti locali

Il Collegio di Strasburgo sancisce l’avvenuta violazione, da parte dello Stato italiano, dell'articolo 1 del Protocollo n° 1 (protezione della proprietà) e dell'articolo 6 § 1 (diritto di accesso alla giustizia).

In particolare, a fronte del diniego palesato alle istanze risarcitorie di due cittadini campani, riconosciuti quali creditori nei confronti del Comune di appartenenza, e dell’impossibilità, per i medesimi, di intraprendere l’azione esecutiva a causa della dichiarazione di dissesto finanziario in cui l’Ente di residenza parrebbe ritrovarsi, sarebbe stato necessario l’intervento dello Stato centrale, posto che il Comune non è altro che un suo componente.

Infatti, a dispetto dell’assetto costituzionale cui il nostro sistema è ormai avvezzo dal 2001 in poi, ed in contrasto con la previsione di cui all'art. 248 II comma TUEL - che prevede la sospensione delle azioni esecutive, in pendenza di dissesto finanziario dell’Ente locale, a tutela della par condicio creditorum, la CEDU riconosce, tuttavia, come nel caso di specie, l’azionabilità delle odierne pretese risarcitorie sia stata concessa con molto ritardo e come, invece, avrebbe dovuto supplire all'inerzia del Comune ingiunto - proprio lo Stato italiano.

Appaiono violate, pertanto, sia il diritto di accesso alla giustizia – di cui all'articolo 6 § 1 del Protocollo CEDU, che il diritto di tutela della proprietà – di cui all’articolo 1 del medesimo Protocollo aggiuntivo - stante l'inutilizzabilità dei beni cui gli istanti sono stati costretti.

Si spiega, così, la posizione della Corte di Strasburgo che, in attuazione dell’articolo 41 della Convenzione, ha condannato lo Stato italiano a risarcire i ricorrenti per i danni subiti. CC



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Inserito in data 07/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 2 settembre 2013, n.20054

Ancora sulla natura giuridica, in senso giurisdizionale, del Ricorso Straordinario al Capo dello Stato

Significativa la pronuncia di cui in epigrafe, poiché i Giudici della Suprema Corte, ribadendo un principio ormai cristallizzato tanto dalla giurisprudenza amministrativa che ordinaria, ne specificano la decorrenza e forniscono ulteriori chiarimenti.

Più in particolare, dando per assodata l’avvenuta giurisdizionalizzazione del procedimento di ricorso straordinario al Capo dello Stato – in ossequio al dictum delle Sezioni Unite del dicembre 2012 (Cfr. S.C. Sez. Unite n. 23464 del 19 dicembre 2012), e ricordando tutti gli indici a sostegno di questo approdo, il Collegio della Terza Sezione civile tende solo a precisare la decorrenza di un simile traguardo a partire dall’entrata in vigore del Codice del Processo Amministrativo – D. Lgs. 104/10 – in vigore dal 16 settembre 2010.

Infatti, pur ricordando come i primi segnali in tal senso si fossero già ravvisati con l’intervento del Legislatore del 2009 – con l’avvenuta obbligatorietà del previo parere del Consiglio di Stato di cui all’articolo 69 della L. 69/09, i Giudici di questa sede evidenziano che solo i ricorsi al Capo dello Stato proposti a far tempo dal momento successivo all'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo ricadano sotto il nuovo regime della giurisdizionalizzazione, dato che solo il completamento dell'evoluzione legislativa – dallo stesso Codice segnalata – ne ha determinato la giurisdizionalizzazione.

In ultimo, avvalorando la natura di cosa giudicata della decisione conseguita al termine del ricorso straordinario – qui in esame – la Terza Sezione evidenzia la necessità, in sintonia con il tenore letterale di cui all’articolo 2909 del codice civile, che tutte le parti necessarie abbiano partecipato al procedimento.

Infatti, a pena di violare il principio del contraddittorio – con le ricadute in sede costituzionale che questo avrebbe, è necessario che i soggetti del giudizio, nel quale il giudicato della decisione assunta a seguito del procedimento viene invocato, siano stati tutti partecipi o abbiano avuto comunque la possibilità di esserlo, essendovi stati evocati, come controinteressati nel procedimento stesso dinanzi al Capo dello Stato. CC

 

 




Inserito in data 04/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 settembre 2013, n. 4668

Potere comunale di adeguamento della pianta organica delle farmacie

Alla luce dell’art. 11 del d.l. 1/2012, convertito con legge 27/2012, l’organo competente all’approvazione dell’adeguamento della pianta organica delle farmacie è la Giunta comunale.

La decisione, da parte del Comune, concerne, specificamente il luogo in cui ubicare le nuove sedi farmaceutiche; essa è del tutto discrezionale e sindacabile solo nel caso in cui dovessero presentarsi gravi ed evidenti errori di valutazione.

Per la scelta da parte dei Comuni, inoltre, non dovevano esser consultati i privati titolari di sedi farmaceutiche né tantomeno, questi, potevano considerarsi interessati, in via diretta, al provvedimento comunale.

Infine, si rileva la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 11 per violazione della competenza legislativa regionale, trattandosi di una materia rimessa alla competenza legislativa statale, nonché della questione di legittimità costituzionale relativa alla violazione dell’art. 41 della Costituzione poiché, escludendo il decreto legge n. 1/2012 la prelazione comunale sulle sedi farmaceutiche nuove, o comunque vacanti, sembrerebbe essere esclusa la possibilità che il Comune agisca per propri interessi di natura patrimoniale. GMC



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Inserito in data 04/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 settembre 2013, n. 4809

Procedura di gara e responsabilità precontrattuale della P.A.

Con specifico riferimento alle gare di appalto, l’aggiudicazione provvisoria rappresenta un atto endoprocedimentale destinato a configurare una scelta del soggetto aggiudicatario della gara, non ancora definitiva.

Gli articoli 11, comma 11, 12 e 48,comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 disciplinano la possibilità, abbastanza frequente, che ad una aggiudicazione provvisoria non segua, poi, quella definitiva. Il non giungere ad una aggiudicazione definitiva, nonostante vi sia stata quella provvisoria, è un evento da considerarsi, in un certo qual senso, “fisiologico”.

In tali circostanze, alla luce degli articoli sopra citati, qualora l’operato della Pubblica Amministrazione non sia da ritenersi come illegittimo, la mancanza della aggiudicazione definitiva non rappresenta una fattispecie idonea a dar vita ad un possibile obbligo risarcitorio, e ciò a prescindere dall’inserimento, nel bando, di un’apposita clausola che contempli l’eventualità di non dare luogo alla gara ovvero di revocarla.

Anche dopo l’intervento della aggiudicazione definitiva, nei contratti pubblici, non viene negato, alla Amministrazione appaltante, di revocare l’aggiudicazione stessa, alla luce di un interesse pubblico individuato in concreto, che potrebbe essere rappresentato dalla mancanza di risorse economiche idonee a realizzare l’opera oggetto del contratto.

Con riguardo, infine, alla responsabilità precontrattuale della P.A, è importante tenere in considerazione la correttezza del comportamento complessivamente tenuto dell’Amministrazione durante lo svolgimento della gara giunta alla conclusione ed alla scelta del contraente, nonché anche nella fase della formazione del contratto, alla luce dell’art. 1337 del codice civile che postula il dovere di buona fede, gravante sulle parti, nello svolgimento e nella formazione del contratto. GMC

 

 



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Inserito in data 03/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 ottobre 2013, n. 4878

Natura risarcitoria del diritto del prestatore al compenso sostitutivo per ferie non godute

Nella sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato si pronuncia sulla natura del diritto del prestatore all’indennità per ferie non godute, qualificandolo come credito risarcitorio piuttosto che retributivo. Ne deduce la sottoposizione di tale diritto alla prescrizione ordinaria decennale, anziché alla prescrizione quinquennale prevista per i crediti retributivi.

Segnatamente, ad avviso del Consiglio di Stato, “Il prestatore che non abbia goduto delle ferie per esigenze di servizio ha diritto al compenso sostitutivo; e il credito relativo, avendo natura non retributiva ma risarcitoria, ha termine di prescrizione decennale”. TM



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Inserito in data 03/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 ottobre 2013, n. 4880

Il principio dispositivo con metodo acquisitivo onera ad avanzare un principio di prova

Al fine di dirimere la controversia sottoposta al loro esame, i Giudici di Palazzo Spada ci ricordano che, nel processo amministrativo, l’onere della prova è improntato al principio dispositivo con metodo acquisitivo: “Incombe, invero, sulla parte che agisce in giudizio indicare e provare specificamente i fatti posti a base delle pretese avanzate , in base al principio generale, applicabile anche al processo amministrativo, dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c.. Se è vero, infatti, che nel processo amministrativo il sistema probatorio è retto dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice, è altrettanto vero che, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente debba avanzare un principio di prova perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori”.

Nella specie, l’appello è stato rigettato proprio perché il ricorrente non aveva fornito neppure un principio di prova delle sue pretese e, di conseguenza, doveva reputarsi corretta la sentenza del Giudice di prime cure che non le aveva accolte. TM



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Inserito in data 02/10/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, sentenza 19 settembre 2013, n. 21438

Compensatio lucri cum damno in caso di inadempimento di contratto preliminare

Ai sensi dell'art. 1223 cc il risarcimento del danno per inadempimento deve essere conseguenza immediata e diretta della condotta del debitore. In virtù del principio della compensatio lucri cum damno, la determinazione del danno risarcibile deve tener conto degli effetti vantaggiosi per il danneggiato che hanno causa diretta nel fatto dannoso, cioè causati dall'inadempimento o dall'illecito, secondo il principio della causalità giuridica di cui all'art. 1223 cc.

Pertanto, non possono porsi a carico del promissario acquirente inadempiente alcune voci di danno (segnatamente, le spese di gestione dell’immobile e gli oneri derivanti dal mantenuto possesso del fabbricato da parte del promittente venditore, quali il pagamento di quote consortili, spese condominiali e ICI), per la semplice ragione che non possono ritenersi conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. Tale inadempimento, infatti, nel caso non si atteggia tanto a causa giuridica quanto a mera occasione del preteso danno di cui si chiede il risarcimento. Al contrario, le voci di danno pretese trovano giustificazione solo nel possesso del bene oggetto del preliminare. CDC




Inserito in data 02/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 settembre 2013, n. 4871

Occupazione illegittima di suolo agricola: si applica il criterio del valore venale

A seguito della sentenza n. 181 del 2011 della Corte Costituzionale, risulta inapplicabile, in tema di indennità di esproprio per suoli a destinazione agricola, il criterio del valore agricolo medio. Pertanto, com’è stato affermato in giurisprudenza, il criterio applicabile è quello del valore venale pieno, “potendo l'interessato anche dimostrare che il fondo è suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso da quello agricolo, pur senza raggiungere il livello dell'edificatorietà e che, quindi, ha una valutazione di mercato che rispecchia possibilità di utilizzazione intermedie tra l'agricola e l'edificatoria” (Cass. civ., sez. I, 17 ottobre 2011, n. 21386).

Allora, se ai fini dell'indennità d'esproprio non può aversi riguardo al valore agricolo medio, a fortiori non può tenersi conto del medesimo a fini risarcitori, dovendosi invece far riferimento al valore venale in comune commercio, considerate tutte le caratteristiche del suolo, ivi compresa la sua ubicazione più o meno interna o esterna a centri abitati, la presenza di opere urbanizzative e di altre infrastrutture, senza naturalmente poterne considerare potenzialità edificatorie inesistenti e/o precluse dalla sua destinazione urbanistica. CDC



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Inserito in data 01/10/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 settembre 2013 n. 4832

L’affidamento diretto di un servizio pubblico e l’accordo tra Amministrazioni

La questione posta al vaglio del Supremo Consesso attiene, “alla possibilità per un soggetto obbligato all’osservanza delle regole dell’evidenza pubblica di affidare un servizio pubblico di sua competenza ad un soggetto terzo, prescindendo dalla procedura ad evidenza pubblica e se l’affidamento diretto sia consentito ove si proceda con il modulo dell’accordo ai sensi dell'art. 15 della l. n. 241/1990”.

A tal proposito, deve rammentarsi che “l’affidamento diretto di un servizio pubblico senza esperimento di gara, quindi, in deroga ai principi generali, è consentito qualora l’amministrazione aggiudicatrice intenda internalizzare il servizio, ovvero affidarlo in house, sempre che sussistano in concreto i requisiti dell’in house, cioè la proprietà interamente pubblica della società, ovvero il controllo su di essa da parte dell’ente aggiudicatore”. Pertanto, non rientra in quest’ipotesi la costituzione di un consorzio composto da soggetti pubblici e privati, mancando un rapporto di immedesimazione organica tra il primo ed i secondi.

Né, tantomeno, le modalità di affidamento diretto possono essere ricondotte all’art. 5, comma 3, della legge regionale n. 13 del 1997, che prevede la possibilità di stipulare convenzioni o accordi amministrativi ai sensi dell’art. 15 della l. 7 agosto 1990, n. 241. Infatti, la materia del contendere impugnata dinanzi al Consiglio di Stato non coincide con le attività che la predetta legge attribuisce ai consorzi industriali.

Peraltro, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge regionale, l’art. 15 summenzionato non può richiamarsi quando manchi tra le amministrazioni pubbliche che concludono gli accordi “il presupposto della comunione degli interessi”.

A ciò si aggiunga che l'accordo “deve riguardare l'acquisizione di attività erogata da struttura non solo pubblica, ma anche (e soprattutto) priva di alcuna connotazione imprenditoriale, nell'ampia accezione delineata dall'ordinamento europeo (cfr., Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 324 del 25 gennaio 2012)”.

D’altra parte, non costituisce esimente dall’osservanza delle procedure ad evidenza pubblica “la circostanza che l’affidamento in via diretta sia avvenuto in favore di amministrazione pubblica (cfr. per caso analogo, Corte di Giustizia della U.E. I, 18 gennaio 2007, causa C – 220/05)”.

In conclusione, deve applicarsi l’art. 2, comma 1 , nonché l’art. 54, commi 1 e 2 del d.lgs. n. 163 del 2006. EMF

 

 



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Inserito in data 01/10/2013
TAR LAZIO – ROMA, SEZ. TERZA BIS, 30 SETTEMBRE 2013, n. 8498

La questione della giurisdizione in tema di graduatorie del personale scolastico

A seguito della privatizzazione del pubblico impiego, la giurisprudenza è stata divisa in ordine all’incardinarsi della giurisdizione civile o amministrativa in materia di graduatorie del personale della scuola.

In particolare, le Sezioni Unite, 23 novembre 2000, n. 1203 osservano che “nel sistema di reclutamento basato su graduatorie…formate in base a criteri fissi e prestabiliti da una p.a. dotata di potere di accertamento e valutazione tecnica, il soggetto che chiede l’inserzione nelle medesime fa valere il suo diritto al lavoro e le relative controversie debbono essere conosciute dal giudice ordinario ai sensi degli articoli 2 della L. 2248 del 1865 e dell’art. 2907 c.c.”.

A quest’orientamento, peraltro, si sono allineati anche parte dei Tribunali Amministrativi Regionali, secondo cui la giurisdizione del G.O. è giustificata dal difetto di attività discrezionale nella valutazione dei titoli e dei requisiti da parte dell'Amministrazione, configurandosi, al più, “un mero riscontro della effettiva sussistenza degli stessi”.

Non sono mancati, però, Giudici amministrativi che hanno aderito alla tesi della giurisdizione del G.A., sostenendo che la graduatoria “costituisce l’atto finale e conclusivo di un più ampio procedimento concorsuale, nel quale confluiscono diverse procedure, tutte variamente finalizzate alle successive immissioni in ruolo”.

Ripresentatosi anche tra le Sezioni del Consiglio di Stato, il contrasto è stato rimesso all’Adunanza Plenaria, che, con sentenza n. 8 del 2007, ha sottolineato che “quando l'attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l'interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo”.

Posizione, inoltre, suffragata anche dalla sentenza n. 11 del 2007 della Corte Costituzionale.

Viceversa, le Sezioni Unite continuavano ad avallare la tesi opposta. Infatti, con la sentenza n. 3399 del 2008, riaffermano che: “La giurisdizione amministrativa sulle controversie inerenti a procedure concorsuali per l'assunzione, contemplata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, comma 4, è limitata a quelle procedure che iniziano con l'emanazione di un bando e sono caratterizzate dalla valutazione comparativa dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria, la cui approvazione, individuando i "vincitori", rappresenta l'atto terminale del procedimento, cosicché non vi resta compresa la fattispecie dell'inserimento in apposita graduatoria di tutti coloro che siano in possesso di determinati requisiti (anche derivanti dalla partecipazione a concorsi) e che è preordinata al conferimento dei posti lavoro che si renderanno disponibili.”

Nonostante le oscillazioni della giurisprudenza amministrativa, deve segnalarsi la sentenza n. 5689 del 2009, con cui il Consiglio di Stato ha sposato la ricostruzione tratteggiata dalle S.U..

A conferma del precedente orientamento, la Cassazione, nell’espletamento della funzione nomofilattica, ha emanato la sentenza n. 3032 del 2011, secondo la quale l’inserimento in graduatoria di docenti iscritti in graduatorie ad esaurimento “riguarda, in sostanza, l'accertamento del diritto al collocamento nella graduatoria con precedenza rispetto ad altri docenti”.

L’assenza di una procedura concorsuale in senso stretto è stata, inoltre, la motivazione addotta dall’Adunanza Plenaria n. 11 del 2011 per dichiarare il difetto di giurisdizione del Tar. EMF 

 

 



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Inserito in data 30/09/2013
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. III, 27 settembre 2013, n. 4465

Ordinanza di demolizione opere abusive: contenuto vincolato e limiti nel gravame

I Giudici partenopei, sancendo la palese infondatezza del gravame mosso avverso un’ordinanza di demolizione di opere abusive, ne ricostruiscono gli aspetti più importanti.

In linea con giurisprudenza ormai salda, il Collegio evidenzia la natura di atto dovuto, dal contenuto rigidamente vincolato, presupponente un accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.

Di conseguenza, non ha pregio alcuno la doglianza - circa l’emissione dell’ordinanza gravata -  solo sulla base di una presunta assenza del permesso di costruire; si ricorda, infatti, che un simile provvedimento non muove da alcuna compromissione di interessi urbanistici ed ambientali. Basta la semplice lesione congiunta di questi ultimi a fondare l’ordinanza di demolizione, la cui ratio trova fonte proprio nell’arrecare un vulnus a tali valori.

Parimenti, non occorre alcuna comunicazione di avvio del procedimento: è giurisprudenza pacifica che, stante la natura rigida del provvedimento demolitorio, non abbia alcun senso l’apporto partecipativo del privato.

Il Collegio, infine, specifica la portata dell’articolo 34 del T.U. in materia di edilizia – D.P.R. 380/01, ove richiede la sostituzione della sanzione ablatoria reale con una avente natura pecuniaria – la c.d. fiscalizzazione.

Una possibilità simile ricorre solo in caso di opere realizzate in parziale difformità dal titolo edilizio, la cui demolizione costituirebbe pregiudizio alla parte conforme; certamente non in ipotesi, quale quella odierna, in cui l’opera abusiva era stata realizzata in totale assenza del permesso di costruire. CC



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Inserito in data 30/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 settembre 2013, n. 4812

Esclusione procedura selettiva: giurisprudenza salda sul giudizio di inidoneità

I Giudici di Palazzo Spada riconfermano una posizione più che stabile, ormai da anni, in tema di esclusione da prove selettive a seguito di giudizio di inidoneità fisica.

Occorre, infatti, che i requisiti psico – fisici debbano essere posseduti dal candidato al momento della partecipazione alle prove, in modo che l’eventuale provvedimento di esclusione abbia riguardo allo stato di fatto e di diritto presente in quel preciso momento, in cui il soggetto è suscettibile di valutazione.

Ed ancora, contrariamente a quanto addotto dall’appellante escluso, i verbali delle sedute di gara hanno un pieno valore probatorio, fino a querela di falso, e rinsaldano quanto raccolto in sede di esame e non quanto possa essere assunto al di fuori di tale sede.

Pertanto, appare priva di fondamento la doglianza del ricorrente che lamentava il possesso del requisito richiesto, come acclarato in un ambito e con strumenti diversi da quelli adoperati al momento della gara. CC



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Inserito in data 30/09/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, PRIMA SEZIONE, C 509/11 del 26 settembre 2013

Diritti dei passeggeri dei treni: l’indennizzo va sempre corrisposto

Il Collegio di Lussemburgo ridimensiona il concetto, estremamente ondivago, di “forza maggiore” e riconosce il diritto dei passeggeri dei treni ad essere sempre risarciti.

Più nel dettaglio, cercando di fissare delle regole uniformi, la Corte europea ha specificato che l'indennizzo corrisponde, come minimo, al 25% del prezzo del biglietto per un ritardo compreso tra 60 e 119 minuti, e al 50% di tale prezzo nel caso di ritardo superiore alle due ore.

Peraltro, i Giudici precisano che il Regolamento non può prevedere clausole difformi; e, ancora, che nessuna impresa ferroviaria può inserire nelle proprie condizioni generali di trasporto una clausola che la esoneri dall'obbligo d'indennizzo per il prezzo del biglietto in caso di ritardo causato da forza maggiore.

E’ evidente, quindi, l’ottica di massima attenzione nei riguardi dell’utenza che connota la giurisprudenza comunitaria in tema di servizi pubblici, ulteriormente avvalorata da quest’ultima, significativa pronuncia. CC



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Inserito in data 29/09/2013
TRIBUNALE DELL'UNIONE EUROPEA, QUINTA CAMERA, CAUSA T 331/11 del 12 settembre 2013

Lavori preparatori di adesione alla CEDU e diritto di accesso

L'accesso ad un documento riguardante l'adesione dell'Unione europea alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali deve essere riconosciuto e garantito a ciascuna persona fisica o giuridica residente o avente la sua sede in uno Stato membro.

E’ un principio ormai saldo, cui i Giudici europei ricordano si possa derogare solo in presenza di documenti destinati alla tutela e salvaguardia di interessi pubblici in materia di relazioni internazionali.

Tanto è ricorso, sia pure solo parzialmente, nella vicenda in esame. Il diniego di accesso palesato dal Consiglio UE, infatti, non è del tutto giustificabile, posto che è stato limitato ad alcune parti del documento, della cui ostensibilità si tratta.

Proprio dall’esame del documento emerge, infatti, che talune parti avrebbero potuto essere divulgate senza arrecare alcun pregiudizio alle relazioni internazionali: spezzoni di negoziati che, quali documenti preparatori, poco avrebbero inciso sul tenore dei rapporti tra gli Stati, o su una presunta pericolosità dei rapporti tra gli stessi.

Il Tribunale ritiene, in sostanza, che il Consiglio Europeo abbia violato il principio di proporzionalità ove, concedendo un accesso parziale assai ristretto, limitato essenzialmente alla parte introduttiva del documento e ad una parte del progetto di decisione, non sia stato in grado di bilanciare l’occultamento di altre sezioni del negoziato, effettivamente suscettibili di ledere il principio alla cui tutela il diniego di accesso è stato attuato. CC

 

 

 



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Inserito in data 29/09/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, DECIMA SEZIONE, Requête n. 5376/11 del 3 settembre 2013

Danno da emotrasfusione e diritto alla rivalutazione indennità

La Corte di Strasburgo condanna il Legislatore italiano nella parte in cui, con il D.L. 78/10, aveva statuito l’impossibilità di rivalutare la c.d. parte complementare dell’indennità dovuta.

Tale emolumento, riconosciuto ex lege 210/92, viene erogato dal Ministero della Salute in due parti, una fissa ed una, per l’appunto, complementare, limitatamente alla quale l’excursus giurisprudenziale non è sempre stato univoco.

Dapprima, infatti, la Suprema Corte del 2005 ne aveva tracciato la modulabilità in base all’indice ISTAT, unitamente alla parte fissa dell’indennità.

In seguito, precisamente nel 2009, i Giudici di piazza Cavour stravolgevano la propria impostazione, pronunciandosi per l’impossibilità della rivalutazione, poi tradotta in legge nel 2010.

A fronte di un cospicuo contenzioso inevitabilmente sorto, il Collegio di Strasburgo ha sancito l’iniquità di una simile previsione, giacchè procura un "peso abnorme ed eccessivo" ai pazienti.

Ha imposto, di conseguenza, che lo Stato italiano fissi un termine perentorio entro cui erogare gli arretrati, frattanto cumulatisi, dovendo garantire un’attuazione tempestiva ed efficace ad un diritto, così cristallizzato in favore di una moltitudine di ricorrenti. CC




Inserito in data 27/09/2013
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 23 settembre 2013, n. 780

Affidamenti in house e requisito del controllo analogo dei soci ultraminoritari

In merito alla legittimità degli affidamenti in house, dal confronto tra i principi comunitari e la lacunosa normativa interna, emerge chiaramente che l'affidamento in house, nell’assoluto rispetto dello schema comunitario, è sempre legittimo, così come la partecipazione alle gare da parte di soggetti in house ed anche lo svolgimento di attività da parte di terzi, ma espone tuttavia al rischio di fuoriuscire dallo schema comunitario, nel caso in cui la parte più importante dell'attività non venga più svolta con gli enti che detengono il controllo.

Quanto alla seconda questione, con riferimento, specificamente, agli strumenti che vengono utilizzati affinché sia possibile garantire il requisito del c.d. "controllo analogo", da parte dei soci ultraminoritari, vi è l'adeguatezza dei patti parasociali mediante i quali i soci pattisti "si impegnano a votare in assemblea, su questioni che riguardano i servizi prestati in uno specifico comune, in conformità alla volontà espressa dal comune direttamente interessato", in modo che possa esser assicurato "a ciascun comune il ruolo di dominus nelle decisioni circa il frammento di gestione relativo al proprio territorio". GMC



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Inserito in data 27/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 settembre 2013, n. 4574

Sistema sanitario nazionale e accreditamento di strutture private

Nel sistema sanitario nazionale, il riconoscimento dell'accreditamento alle strutture sanitarie private è subordinato all'esito specifico di alcune, e differenti attività quali, ad esempio, la ricognizione del fabbisogno assistenziale, nonché la programmazione sanitaria regionale.

La competenza regionale, in materia di accreditamento di istituzioni sanitarie private, deve inquadrarsi all'interno della generale potestà legislativa concorrente in materia di tutela della salute, che vincola le Regioni al rispetto dei principi fondamentali previsti dalle leggi statali.

Ai sensi dell'articolo 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, le strutture private sottoscrivono, con le Aziende sanitarie, un contratto mediante il quale si stabilisce la misura quantitativa delle prestazioni erogabili nonché la loro remunerazione finale.

Occorre però sottolineare che l'accreditamento in questione, non rappresenta un vero e proprio "vincolo" formale per le Aziende sanitarie, le quali non sono tenute a versare, al soggetto accreditato, una remunerazione per le prestazioni erogate, potendo queste ultime essere remunerate esclusivamente nei limiti dei tetti di spesa che vengono stabiliti anticipatamente mediante la stipulazione del contratto.

Vanno, infatti, considerate illegittime tutte quelle disposizioni che precludono la sottoscrizione di contratti con nuovi soggetti accreditati, facendo esclusivamente riferimento alla saturazione dell'offerta.

È bene considerare, in tale contesto, che il mercato delle prestazioni sanitarie debba operare, appunto per le sue caratteristiche intrinseche, con un numero ben limitato di erogatori privati, ferma restando l'autonomia di ogni singola Regione nella indicazione dei criteri migliori ai fini della individuazione di altri soggetti che possano essere in grado, nei limiti delle risorse disponibili e avendo in considerazione le specifiche branche di attività di cui si occupano, di erogare delle prestazioni in favore del servizio sanitario pubblico.

Infine, nonostante ai servizi sanitari non si applichi il codice dei contratti, non possono essere considerate legittime quelle disposizioni che si pongono totalmente in contrasto coi principi di concorrenza che vengono riconosciuti anche alle Aziende private operanti nel settore dei servizi e delle prestazioni sanitarie. GMC



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Inserito in data 26/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA DI RINVIO PREGIUDIZIALE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, 25 settembre 2013, n. 21

Rimessa alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea l’esatta interpretazione del principio del “chi inquina paga”

Il Massimo Consesso amministrativo ricostruisce un’annosa diatriba sorta in seno alla giurisprudenza interna in tema di messa in sicurezza dei siti inquinati, decidendo di rimetterne la soluzione ai Giudici europei.

Più nel dettaglio, avendo riguardo alla portata precettiva dell’articolo 240 del Codice dell’Ambiente – D. Lgs. 152/06 – che prescrive l’adozione di particolari misure cautelari nell’ambito di taluni plessi inquinati, i Giudici esplorano, con sapiente capacità ricostruttiva, il conflitto tra i due filoni giurisprudenziali sorti riguardo all’attribuzione di una simile mansione.

La querelle, infatti, si è sviluppata tra quanti ritengono che il noto principio del “chi inquina paga”, debba essere inteso con un’ampia accezione interpretativa e avendo prioritario rilievo alla funzione di salvaguardia al cui presidio il principio in questione è posto.

In definitiva, il principio in parola dovrebbe essere letto nel senso che la responsabilità degli operatori economici proprietari o utilizzatori di aree industriali ricadenti nell’ambito di siti inquinati si qualificherebbe quale “oggettiva responsabilità imprenditoriale”, conseguente all’esercizio di un’attività ontologicamente pericolosa.

In guisa di ciò, i proprietari delle aree malsane sarebbero tenute ad attivare qualsivoglia misura preventiva o avente valenza riparatoria, al fine di garantire un bene più ampio, quale quello degli interessi della collettività.

L’interpretazione dell’art. 240 – qui in esame – finirebbe con l’avere, pertanto, una portata notevolmente estesa, in linea con la portata precettiva e ad ampio spettro, proprie del principio di precauzione e di correzione delle fonti di danno ambientale – di chiara provenienza comunitaria.

Di opposto avviso, invece, l’orientamento che esclude una responsabilità gravante sul semplice proprietario del sito inquinato; in primo luogo, in ragione di una natura oggettiva della responsabilità che, avallata invece dal primo filone, contrasterebbe – invero – tanto con il nostro sistema giuridico, quanto con la libertà di iniziativa economico – imprenditoriale che, comunque, l’Ordinamento suggella all’art. 41 della Costituzione.

Peraltro, prosegue il Collegio, una tale estensione degli obblighi di prevenzione non sarebbe ammissibile, posto che finirebbe con l’addebitare una responsabilità per danno ambientale quale mera conseguenza di un rapporto dominicale con la res sulla quale sia in atto un fenomeno di inquinamento.

In tal senso, infatti, il Consesso si avvale – persino – dell’obsoleto istituto civilistico dell’onere reale, al fine di consacrare la mancata legittimazione in capo al proprietario incolpevole del plesso inquinato; cosa che, invece, sarebbe occorsa nell’ipotesi in cui il rapporto con il fondo avesse avuto natura di obbligazione propter rem.

In questa evenienza, infatti, l’individuazione del responsabile sulla base del rapporto con la res avrebbe procurato, inevitabilmente, la spettanza al proprietario.

Allo stesso modo, del resto, non valgono in tal senso i principi civilistici sulla responsabilità ex recepto – ex art. 2051 cod. civ. – posto che occorrerebbe sovrapporre, alla disciplina comunitaria quivi esaminata, quella di matrice interna. Obiettivo, questo, ancor più difficilmente perseguibile, stante anche la complessità di inquadrare con esattezza i “contorni” di chi è custode; specie in un settore, quale quello ambientale, in cui tale ruolo ha profili certamente meno nitidi.

Ultimo tassello a sostegno dell’interpretazione restrittiva  appena vista appare, altresì, il richiamo alla giurisprudenza nazionale prevalente, ad avviso della quale, parrebbe escluso che le norme della Parte Quarta del Decreto legislativo n. 152 del 2006 - qui discusse - possano offrire all’Amministrazione una base legislativa per imporre al proprietario non responsabile misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica.

Così ricostruita la diatriba giurisprudenziale, né celando l’adesione all’orientamento restrittivo, l’Adunanza sottopone alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea  – in via pregiudiziale – il quesito circa la compatibilità tra una normativa nazionale restrittivamente intesa ed i principi comunitari di estrema anticipazione in sede di tutela ambientale.

Più in particolare, infatti, questo il principio di diritto enunciato: “se i principi dell’Unione Europea in materia ambientale sanciti dall’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla direttiva 2004/35/Ce del 21 aprile 2004 (articoli 1 e 8, n. 3; tredicesimo e ventiquattresimo considerando) – in particolare, il principio “chi inquina paga”, il principio di precauzione, il principio dell’azione preventiva, il principio, della correzione, in via prioritaria, alla fonte, dei danni causati all’ambiente – ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245, 253 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e di impossibilità di individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di impossibilità di ottenere da quest’ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all’autorità amministrativa di imporre l’esecuzione delle misure di sicurezza d’emergenza e di bonifica al proprietario non responsabile dell’inquinamento, prevedendo, a carico di quest’ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l’esecuzione degli interventi di bonifica”.

Si tratta, come è evidente, di una questione destinata a replicarsi in una molteplicità di giudizi pendenti, stante l’estrema frequenza, ormai, del contenzioso ambientale; una vicenda, dunque, sulla cui fondatezza non è dato dubitare e sulla cui risoluzione i massimi Giudici intervengono nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.

Peraltro, la giusta estensione da attribuire al principio di precauzione in sede ambientale deriva, anche, da un inevitabile compromesso tra principi di rango costituzionale, quali quelli di tutela della salute, del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica che, invero, la giurisprudenza comunitaria ha già più frequentemente bilanciato.

Lo spessore di simili valutazioni, unitamente alla grande attenzione ormai data ai principi di precauzione e prevenzione, hanno indotto il Sommo Collegio amministrativo a ricercare il parere dei Giudici del Lussemburgo.

E’ pur vero, tuttavia, che tale rimessione in via pregiudiziale risente dell’importanza che la giurisprudenza comunitaria conferisce al nesso di causalità tra l'evento dannoso e la condotta del soggetto agente.

Eziologia valutata con grande attenzione ma, sulla cui estensione, l'esperienza europea lascia ampio margine di discrezionalità al Legislatore di ciascuno Stato membro.

Ne deriva, quindi, un ambito di operatività piuttosto ampio per ciascuno Stato, oltrechè non sempre certo.

Si comprende, pertanto, il senso della rimessione qui operata: tesa, ovvero, a “riempire di contenuti” quel principio del soggetto causatore che il Legislatore comunitario ha abbondantemente definito e che, di conseguenza, il Collegio nomofilattico intende parametrare, in un’ottica di maggior certezza - indispensabile per il nostro Sistema. CC  

 



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Inserito in data 25/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 settembre 2013, n. 4688

Condizioni per la retribuibilità dello svolgimento di mansioni superiori nella sanità

La sentenza ribadisce che, per il personale del comparto della sanità, in deroga al principio dell’irrilevanza ai fini giuridici ed economici dello svolgimento delle mansioni superiori nel settore del pubblico impiego, è ammessa la retribuibilità delle stesse in presenza di tre condizioni: esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello; previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione delle mansioni superiori da parte dell'organo a ciò competente; espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare.

È altresì necessario che l’atto di conferimento delle mansioni superiori “provenga dall'organo competente ad emanare i provvedimenti in materia di stato giuridico e trattamento economico del personale, risultando insufficienti eventuali ordini di servizio di un superiore gerarchico”; tale atto deve essere “previo”, mentre non hanno effetto eventuali riconoscimenti a posteriori, i quali sono meramente ricognitivi di una situazione fattuale e non rivestono la natura provvedimentale idonea ad introdurre ex ante la diversa posizione di status. CDC



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Inserito in data 25/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 24 settembre 2013, n. 4714

Non c’è obbligo di provvedere al riesame di un provvedimento inoppugnabile

Non sussiste alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile dall'esterno l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell'atto amministrativo mediante l'istituto del silenzio-rifiuto.

Ciò non è escluso dal fatto che la pubblica amministrazione debba comportarsi secondo buona fede e correttezza, poiché ciò non fa sorgere l’obbligo di provvedere. Questo vale anche nel caso del riesame di un provvedimento edilizio divenuto inoppugnabile a seguito della formazione del giudicato reiettivo sull’impugnazione del diniego di concessione edilizia. CDC



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Inserito in data 24/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 20 settembre 2013, n. 21591

Il patteggiamento ed il principio dell’onere della prova nei giudizi disciplinari

Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite civili affermano che: “la sentenza di patteggiamento costituisce un elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscerne l’efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, a prescindere dalla sua qualificazione come sentenza di condanna, presuppone pur sempre un’ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice disciplinare dall’onere della prova (S.U. 31.07.06 n. 17289)”.

Invero, i Giudici di Legittimità, nell’espletamento della funzione nomofilattica, sono chiamati a pronunciarsi sul ricorso proposto da un avvocato che, a seguito della condanna patteggiata per il reato di calunnia, è stato radiato dall’albo professionale di appartenenza.

In particolare, nel rigettare il ricorso avverso la sanzione disciplinare irrogata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati (COA) di Roma, il CNF rimarca la congruità della stessa; atteso che il reato contestato, rientrante tra i delitti contro l’attività giudiziaria, “incide sul requisito della specchiatezza della condotta richiesta al professionista”. E, d’altra parte, non è condivisibile la linea difensiva secondo cui la sentenza di patteggiamento, “ai fini della responsabilità disciplinare, non può ritenersi equivalente a sentenza di condanna”, in quanto trattasi di “istituto che non ha lo scopo di accertare l’esistenza del reato, ma quello di risolvere in tempi brevi il processo con irrogazione della sanzione derivante dall’accordo tra le parti del giudizio, approvato dal giudice”.

A tal riguardo, le Sezioni Unite osservano che, “a norma degli artt. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla legge 27.03.01 n. 97, le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) hanno efficacia di giudicato nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano gli avvocati, quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato (S.U. 9.04.08 n. 9166)”.

In conclusione, l’avvocato avrebbe esercitato pienamente il diritto di difesa se avesse dedotto “elementi di fatto idonei a giustificare la richiesta di applicazione della pena”, incombendo sullo stesso l’onere della prova.  EMF




Inserito in data 24/09/2013
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 20 settembre 2013, n. 723

Sui presupposti per l’esercizio del potere di ordinanza sindacale

Con la sentenza in esame il Tar Lazio, in linea con altre pronunce di merito, ritiene che i poteri di ordinanza extra ordinem dei Sindaci vadano “circoscritti a situazioni di carattere tendenzialmente eccezionale non fronteggiabili con gli ordinari strumenti previsti dall’ordinamento”. Opinare diversamente, infatti, comporterebbe la violazione del principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi e del principio di legalità dell’azione amministrativa. 

La ricorrente, infatti, che svolgeva “attività di distribuzione di materiale pubblicitario non indirizzato a mezzo di recapito nella cassetta postale di privati cittadini”, aveva impugnato l’ordinanza con cui il Sindaco, richiamando gli articoli 50 e 54 d.lg. 18 agosto 2000, n. 267, disponeva un generalizzato divieto di diffondere nel territorio comunale volantini di pubblicità commerciale “se non previa consegna nelle mani dei cittadini”.

In particolare, la predetta sosteneva che il Comune, esercitando un potere non attribuitogli da nessuna norma, avesse leso “la libertà di informazione dei cittadini (che hanno il diritto di ricevere l’informazione pubblicitaria mediante rilascio nelle proprie caselle postali del relativo materiale) e la libertà d’impresa della ricorrente (che subisce per di più anche una discriminazione a vantaggio di Poste Italiane s.p.a. che invece resta libera di continuare a distribuire materiale pubblicitario attraverso la consegna della posta)”.

Ciò posto, il Collegio ritiene che: “ l’abbandono di materiale pubblicitario sotto le porte di case e uffici o nelle grate di cancelli e finestre non possa dar luogo a una emergenza sanitaria o di igiene pubblica ex articolo 50 né a un grave pericolo per l’incolumità dei cittadini ex articolo 54 (del resto di tale situazione di pericolo ovvero di un’istruttoria che l’abbia acclarata non v’è traccia nell’atto impugnato)”. Ne discende l’illegittimità dell’ordinanza sindacale in questione per difetto dei presupposti di contingibilità e urgenza. EMF



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Inserito in data 23/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 settembre 2013, n. 4666

Persistente centralità del tradizionale giudizio sull’atto

Nella pronuncia in epigrafe, i Giudici di Palazzo Spada ci ricordano che “nel giudizio amministrativo di legittimità si deve essenzialmente verificare la legittimità degli atti impugnati, con riferimento al momento in cui essi sono stati emanati, e prescindendo dai fatti sopravvenuti”. “Questi ultimi semmai potranno dare motivo ad una richiesta di riesame, da rivolgere all’autorità amministrativa competente”.

Alla luce di ciò, il Consiglio di Stato reputa legittimi i provvedimenti dell’autorità di pubblica sicurezza, coi quali era stato revocato il porto d’armi ad un soggetto denunciato per vari reati tra cui quello di maltrattamenti in famiglia, in quanto giustificati dalla finalità di “prevenire per quanto possibile i delitti (ma anche i sinistri involontari) che potrebbero avere occasione per il fatto che vi sia la disponibilità di armi da parte di soggetti non pienamente affidabili”. TM



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Inserito in data 23/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 settembre 2013, n. 21014

Test genetici, azione ex art. 235 cc e consenso

Preliminarmente, la Cassazione evidenzia che i dati genetici sono diversi da quelli sensibili ex art. 4 d.lgs. n. 196/03: si tratta di due insiemi intersecati tant’è che si possono individuare dati genetici sensibili (es. perché idonei a rivelare lo stato di salute) e dati genetici non sensibili (es. finalizzati a rivelare la consanguineità tra due soggetti). I dati genetici si connotano per la loro idoneità a identificare il patrimonio genetico unico ed esclusivo di una persona, fonte di una serie di informazioni sulla stessa.

Per queste loro peculiarità è stata dettata una disciplina specifica per i dati genetici: l’art. 90 d.lgs. n. 196/03 stabilisce che il loro trattamento è consentito solo nei casi individuati dall’autorizzazione del Garante della Privacy, che acquisisce a tal fine il parere del Consiglio superiore di sanità, e previo consenso dell’interessato, specificato con riguardo alle finalità perseguite, ai risultati conseguibili e alle notizie inattese che tali dati possono rivelare. Prima dell’adozione dell’autorizzazione del Garante apposita, si applicava ai dati genetici la disciplina (art. 26 c.4, lett. c., d.lgs. n. 196/03 e autorizzazioni generali del garante nn. 2/04 e n. 2/02), pensata per i dati sensibili, in forza della quale il trattamento dei dati genetici con fini sanitari era consentito anche senza consenso al solo fine di tutela dell’incolumità fisica di un terzo o della collettività. Nel 2007, l’ autorizzazione generale del Garante ex art. 90 d.lgs. 196/03, ha stabilito che i dati genetici sono trattabili senza consenso dell’interessato al solo fine di tutelare in giudizio diritti della personalità di rango pari a quello dell’interessato.

Il trattamento dei dati genetici finalizzato all’eventuale esperimento di un’azione di accertamento della paternità non è qualificabile né come trattamento con finalità sanitaria, né come trattamento teso all’esercizio in sede giudiziale di un diritto della personalità di rango almeno pari a quello del controinteressato; sotto quest’ultimo profilo, la Corte distingue la richiesta di test genetici nel corso del giudizio di disconoscimento (il cui rifiuto consente al giudice di trarre elementi di prova ex art. 116 c.p.c.) dalla richiesta presentata al fine di valutare l’opportunità di un’azione giudiziale (il cui rifiuto è privo di conseguenze giuridiche). Di conseguenza, tale trattamento non poteva compiersi prima del 2007 e non può compiersi oggi senza il consenso dell’interessato.

In conclusione, la Prima Sezione Civile ha affermato che “al fine di svolgere un test genetico predittivo, seppur volto ad accertare la consanguineità per valutare il promovimento di azione di disconoscimento della paternità, è sempre necessario il consenso preventivo dell’interessato”. TM




Inserito in data 21/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 settembre 2013, n. 4551

La natura “discrezionale” dell’informativa antimafia c.d. atipica

L’informativa antimafia c.d. atipica, o “supplementare”, elaborata dalla prassi, trova il suo fondamento normativo nel combinato disposto dell’art. 10, comma 9, D.P.R. 252/1998 e dell’art. 1-septies, d.l. 629/1982, convertito in legge 726/1982, nonché nell’art. 10, comma 7, lett. c), D.P.R. 252/1998.

Tale informativa antimafia, a differenza di quella c.d. tipica, non presenta un carattere direttamente ed automaticamente interdittivo ma, bensì, consente alla stazione appaltante l’attivazione di una valutazione, di tipo discrezionale, riguardo all’avvio, o comunque al prosieguo, dei rapporti contrattuali, considerando e stabilendo la idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la P.A.

L’efficacia interdittiva, in tale contesto, potrebbe, infatti, scaturire solamente da una valutazione autonoma, libera e discrezionale, da parte dell’Amministrazione destinataria.

Alla luce di quanto previsto, infatti, non può esservi condanna della amministrazione appaltante al risarcimento dei danni derivanti dalla risoluzione del contratto di appalto, nel caso in cui la risoluzione sia stata determinata dalla applicazione di una clausola contrattuale che, configurandosi come elemento determinante della risoluzione stessa, e dunque come una sorta di “causa” del pregiudizio contestato, abbia interrotto il nesso di causalità tra adozione e comunicazione della informativa e risoluzione del contratto. GMC

 

 



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Inserito in data 21/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 settembre 2013, n. 4663

Tassatività delle cause di esclusione e principio del soccorso istruttorio

Il decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”, precisamente all’art. 46, comma 1-bis, introduce, nel sistema dei contratti pubblici, il c.d. principio di tassatività delle cause di esclusione. Mediante tale norma, che recita che: “La stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizione sono comunque nulle”, si autorizza l’esclusione, dalle procedure di gara, soltanto in presenza di una “causa normativa”, contemplata dalle singole disposizioni del decreto stesso, mediante la previsione espressa della esclusione o la loro formulazione in termini di divieto o di imposizione di adempimenti doverosi, o di una “causa amministrativa”, che rientri nell’ambito delle fattispecie generali così come tassativamente previste dal sopracitato art. 46.

Il principio di tassatività, qui preso in considerazione, è molto importante, e gode di un’ampia rilevanza in materia di contratti pubblici. La ragione giustificativa di tale principio è, principalmente, quella di impedire l’adozione di atti basati su degli eccessi di formalismo che contrastano con il divieto di aggravamento degli oneri burocratici, nonché con l’esigenza di ridurre il peso degli oneri formali gravanti su imprese e cittadini, nel tentativo di difendere la concorrenza, riconoscendo giuridico rilievo alla inosservanza di regole procedurali e formali.

Inoltre, l’art. 74, del d.lgs. n. 163 del 2006, recante “Forma e contenuto delle offerte”, in coerenza con il principio di tassatività, che prevede quali fattispecie generali che possono rilevare in tale sede quelle del “difetto di sottoscrizione” e della “incertezza assoluta” sulla “provenienza dell’offerta”, deve essere recepito nel senso che è già di per sé sufficiente che l’offerta venga sottoscritta in calce al documento, e non anche in ogni singola pagina di cui potrebbe comporsi il documento preso in oggetto. Tale previsione, che assume una notevole importanza, adempie pienamente la funzione di assicurare serietà, insostituibilità nonché affidabilità all’offerta.

La legittimità di clausole che, mediante la specifica previsione dell’automatica sanzione dell’espulsione, in presenza di omissioni formali o documentali, consentano all’amministrazione di prescindere da qualsiasi forma di preventiva interlocuzione con il privato concorrente, sembra poter essere pacificamente esclusa alla luce del principio, di natura cogente, del c.d. soccorso istruttorio, così come sancito dal primo comma dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 2006.

Tale ultimo principio considerato rappresenta, sostanzialmente, espressione del più generale principio di leale collaborazione, vigente nei rapporti tra amministrazione e privato, il quale grava sulla stazione appaltante anche, e soprattutto, nel corso del procedimento di evidenza pubblica. GMC



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Inserito in data 19/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 settembre 2013, n. 4649

Sottoposizione al regime cautelare culturale di un casello ferroviario eretto nel 1879

Al fine di stabilire se un casello, costruito nel 1879 e dato in concessione a Ferrovienord SPA, sia soggetto ai vincoli propri dei beni culturali, il Consiglio di Stato ricostruisce le differenti tipologie di beni culturali.

Nell’impostazione del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 … sono individuabili le seguenti categorie di beni.

In primo luogo, vengono in rilievo «le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico». Tali beni, se sono opera di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga ad oltre cinquantanni, sono sottoposti – in ragione della loro natura oggettiva e dell’appartenenza pubblica .– ad un regime provvisorio di tutela in funzione cautelare che permane sino al termine della procedura di verifica dell’interesse culturale. L’esito della verifica potrà essere positivo, confermando la valenza culturale del bene, o negativo, con conseguente esclusione dall’ambito della tutela (combinato disposto degli articoli 10, comma 1, e 12).

In secondo luogo, vengono in rilievo taluni beni, specificamente indicati, di appartenenza pubblica, per i quali la natura intrinsecamente culturale è operata direttamente dalla legge (art. 10, secondo comma).

In terzo luogo, sono disciplinari una categoria di beni che per acquisire la qualità di bene culturale necessitano di una espressa dichiarazione amministrativa che deve avvenire nel rispetto di una determinata procedura (articoli 10, comma 3, e 13 e seguenti).

Infine, per completezza, si segnala una ulteriore categoria di beni culturali, che sono assoggettati al regime di cui al primo o terzo comma dell’art. 10 a seconda della loro appartenenza pubblica o privata”.

Alla luce della predetta ricostruzione, i Giudici di Palazzo Spada asseriscono che il casello ferroviario controverso è annoverabile nella prima categoria di beni culturali.

In particolare, in tal senso depongono: sul piano oggettivo, la data e le modalità della sua realizzazione, espressive della sua valenza storico e artistica; sul piano soggettivo, l’appartenenza pubblica, atteso che “l’istituto della concessione di beni pubblici presuppone che la titolarità del bene rimanga in capo all’ente pubblico e si concede al privato esclusivamente l’uso del bene stesso”; sul piano legislativo, l’art. 186 del r.d. n. 1447/12 che prevede che alla scadenza della concessione i concessionari devono consegnare al Governo in buono stato, tra l’altro, le stazioni con le fabbriche tutte che vi sono comprese ed in generale qualunque altro immobile che non abbia per destinazione distinta e speciale il servizio dei trasporti. TM



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Inserito in data 19/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 settembre 2013, n. 21108

Nulla osta all’ingresso per ricongiungimento familiare del minore in caso di di kafalah

Le Sezioni Unite risolvono la questione di massima importanza rappresentata dalla possibilità di rilasciare visto d’ingresso in favore di minore extracomunitario per ricongiungimento familiare con cittadini italiani, nei cui confronti sia stato pronunciato provvedimento giurisdizionale di kafalah.

La kafalah è un istituto di diritto musulmano che consente alle coppie di prendersi cura di minori bisognosi fino alla maggiore età, senza però istaurare con essi legami giuridici; ciò in considerazione del divieto coranico di adozione. Stante le sue finalità assistenzialistiche dei minori in difficoltà, è riconosciuto dagli strumenti internazionali.

Riproponendo gli argomenti già esposti nel 2008, la Cassazione dà risposta affermativa al quesito. In primis, numerose norme internazionali (art.3 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo; art. 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e interne (art. 30 Cost.; art. 28 c.3 d.lgs. n. 286/98) stabiliscono la prevalenza dell’interesse del minore, in caso di contrasto dello stesso con interessi confliggenti: pertanto, deve affermarsi la prevalenza dell’interesse alla protezione dei minori rispetto al pericolo di elusione della disciplina delle frontiere. Secondariamente, è principio pacifico quello secondo cui deve sempre preferirsi l’interpretazione costituzionalmente orientata: ne consegue la necessità di equiparare la kafalah ai provvedimenti stranieri di adozione, al fine di non discriminare i minori musulmani rispetto agli altri.

In conclusione, ad avviso delle Sezioni Unite, si applicherà l’art. 3, c.2, lett. a, del d.lgs. 30/07, in forza del quale il cittadino italiano può chiedere il ricongiungimento del familiare diverso dai discendenti se quest’ultimo è a suo carico o convive con lui nel Paese extracomunitario o gravi motivi di salute ne impongono l’assistenza personale. Si limita, però, la rilevanza della kafalah alle sole ipotesi in cui essa sia frutto di un provvedimento di un’autorità pubblica che ha preventivamente vagliato l’adeguatezza degli affidatari: resta esclusa, pertanto, dalla nozione di “altro familiare†di cui all’art. 3 il minore affidato in base a una kafalah convenzionale. Né questa conclusione contrasta con l’ordine pubblico interno sotto il profilo della disciplina dell’adozione internazionale, atteso che la kafalah costituirebbe solo il presupposto di un provvedimento amministrativo interno di ricongiungimento e da essa conseguirebbe effetti diversi rispetto a quelli di un provvedimento di adozione.

Alla luce delle suesposti considerazioni, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “Non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, nel caso in cui il minore stesso sia a carico o conviva nel paese di provenienza con il cittadino italiano, ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistitoâ€. TM




Inserito in data 18/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 settembre 2013, n. 4569

Non si applica alle università il principio di mobilità fra pubbliche Amministrazioni

Secondo la sentenza, il principio di mobilità fra pubbliche amministrazioni (art. 30, d.lgs. n. 165 del 2001), mira a “garantire l’esercizio delle funzioni istituzionali da parte delle amministrazioni, che presentano carenze di organico”. Esso muove dall’equiordinazione del personale, a seconda dei ruoli di appartenenza e delle qualifiche funzionali possedute.

Tale principio, però, non può essere esteso ai docenti universitari, il cui rapporto di lavoro si inserisce in strutture la cui rispettiva distinzione e autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile è garantita dalla legge (l. 9 maggio 1989, n. 168, art. 6): quindi, per docenti e ricercatori non possono individuarsi ragioni di indifferenziata applicazione, in qualsiasi luogo di lavoro, dei dipendenti amministrativi di pari qualifica. I docenti universitari, infatti, “sono reclutati secondo un insindacabile giudizio espressivo di discrezionalità tecnica presso una singola università, in corrispondenza all’offerta formativa della stessa, nonché in relazione a un richiesto livello scientifico.”

Pertanto, non è configurabile una diretta applicazione al personale docente universitario dell’art. 33 della legge n. 104 del 1992 (legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) al pari di un qualsiasi altro settore del pubblico impiego. CDC



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Inserito in data 18/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE PENALE, sentenza 5 settembre 2013, n. 36399

Sull’accertamento del dolo eventuale nel reato omissivo improprio

La sentenza affronta il tema dell’elemento soggettivo nel reato omissivo improprio, premettendo che in giurisprudenza si riconosce la responsabilità del garante anche a titolo di dolo eventuale, per non aver impedito la commissione del reato da parte di altri. Occorre che questi si sia rappresentato l'evento, nella sua portata illecita, e tale rappresentazione può consistere anche nella prospettazione dell'evento come evenienza solo eventuale.

Il problema affrontato nello specifico riguarda l'accertamento di una simile forma di dolo. Secondo la pronuncia in esame, devono rifiutarsi concetti quali “prevedibilità” o “conoscibilità”, che rimandano alla struttura della colpa, ed accordare preferenza alla reale “previsione” dell'evento che, in quanto in itinere, si è ancora in condizioni ed in dovere di impedire.

Perché ciò si realizzi non è sufficiente che si accerti la violazione dell'obbligo di attivarsi, poiché l'oggettivo inadempimento non dice ancora nulla in ordine al profilo soggettivo dell'autore del fatto; né è sufficiente che siano rinvenibili “segnali perspicui e peculiari in relazione all'evento illecito”, aventi un grado di anormalità, essendo comunque necessario dare dimostrazione che quei segnali siano stati colti nel loro compiuto significato descrittivo dal garante in questione. Tale prova è legata alla valutazione delle capacità intellettive del soggetto, anche alla stessa evidenza e significatività dei segnali. Né può essere sufficiente che detti segnali rivelino una indistinta condizione di rischio per il bene tutelato: l'evento di cui si discorre, in quanto oggetto del dolo, ancorché eventuale, deve essere, infatti, lo specifico reato che andava impedito. Dunque, è necessario che si abbia la rappresentazione caratteristica del dolo eventuale di un evento-reato tipologicamente coincidente con quello del quale si è chiamati a rispondere; non però delle specifiche caratteristiche fattuali del reato commesso dal concorrente.

Bisogna poi tener conto dell'elaborazione giurisprudenziale circa la distinzione tra il dolo eventuale e la colpa cosciente. La giurisprudenza utilizza il criterio dell'accettazione del rischio, per il quale si ha dolo eventuale quando il soggetto abbia tenuto la condotta tipica nella previsione dell'evento ed accettando la sua verificazione (quale evenienza accessoria al conseguimento dell'obiettivo prefissato), laddove nella colpa cosciente alla previsione dell'evento si accompagna la mancata accettazione dello stesso. Dunque, dolo eventuale e colpa cosciente non si pongono come concetti limitrofi, sono strutturalmente diversi e non hanno una matrice comune. Per questo, ogni concezione che propugni un continuum tra dolo e colpa deve essere respinta e ciò deve far dubitare che la previsione dell'evento si atteggi in ambo le aree allo stesso modo.

Allora, il criterio dell'accettazione del rischio non serve ad indicare la struttura del dolo, ma ad indirizzare l'accertamento dell'esistenza di quella “decisione per l'illecito” che caratterizza il comportamento doloso. L’accettazione del rischio è la “parafrasi della genesi e della persistenza di una decisione per l'illecito che giunge sino all'esaurimento della condotta con la produzione dell'evento”.

Tale definizione permette di puntualizzare l'oggetto del dolo eventuale. L’accettazione “non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l'evento non direttamente voluto, pur coscientemente prospettatosi... altrimenti si avrebbe la (inaccettabile) trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo”. La necessità che l'accettazione del rischio concerna l'evento tipico riconduce l'accertamento giudiziario al rispetto del principio di legalità e del principio di colpevolezza.

Quindi, i segnali perspicui non possono che riguardare lo specifico evento che si intende porre a carico del garante omittente; essi devono essere stati percepiti ed assunti nel loro reale significato dal soggetto ed una condizione di dubbio circa la loro significatività non è di per sé incompatibile con l'accettazione dell'evento. Infatti, il dubbio, ove concretamente superato, avendo l'agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l'evento, volitivamente accettandolo nella sua prospettata verificazione, lascia sussistere il dolo eventuale. CDC




Inserito in data 17/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 13 settembre 2013, n. 21000

 Distanza dal confine e distinzione tra costruzione e ricostruzione 

Con la sentenza in commento la Suprema Corte, confermando le sue precedenti pronunce, statuisce che: “nell’ambito delle opere edilizie, si ha semplice ristrutturazione ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano (e, all’esito degli stessi, rimangano inalterate) le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura. È ravvisabile, al contrario, una ricostruzione allorché dell’edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, dette componenti, e l’intervento si traduca nell’esatto ripristino delle stesse, operato senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell’edificio e, in particolare, senza aumenti della volumetria, né delle superfici occupate in relazione alla originaria sagoma di ingombro. In presenza di tali aumenti, si verte, invece, in ipotesi di nuova costruzione, da considerare tale, ai fini del computo delle distanze rispetto agli edifici contigui, come previste dagli strumenti urbanistici locali, nel suo complesso, ove lo strumento urbanistico rechi una norma espressa con la quale le prescrizioni sulle maggiori distanze previste per le nuove costruzioni siano estese anche alle ricostruzioni, ovvero, ove una siffatta norma non esista, solo nelle parti eccedenti le dimensioni dell’edificio originario”.

Invero, i giudici di merito avevano rigettato la domanda con cui il proprietario di un immobile conveniva in giudizio         al fine di sentirlo condannare alla demolizione del confinante edificio, ovvero, in via subordinata, del solo sopralzo, perché costruito disattendendo la distanza di 10 m. dal confine prevista dal P.R.G..

Contrariamente alle motivazioni addotte dalla Corte territoriale, il ricorrente osserva che “la compensazione tra il volume aggiunto e quello eliminato non vale da sola ad escludere la sussunzione dell’intervento contestato nella fattispecie della “nuova costruzione”. Rientra in quest’ultima ipotesi, infatti, la parte eccedente i limiti dell’originaria costruzione; di guisa che ad essa dovranno applicarsi le prescrizioni in tema di distanze.

Ciò posto, nell’accogliere il ricorso, i Giudici di Piazza Cavour sostengono che “la semplice contestazione della variazione, in altezza, della originaria sagoma del fabbricato, è sufficiente a rendere l’intervento edilizio di cui trattasi non inquadrabile nella nozione di ricostruzione, come delineata dalla giurisprudenza.” EMF




Inserito in data 17/09/2013
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 11 settembre 2013, n. 4230

Nomina dei componenti della Giunta, quote rosa e diritto alle pari opportunità

I Giudici partenopei, in ossequio ad un orientamento ormai cristallizzato in tema di rispetto delle pari opportunità tra i due sessi, annullano il decreto con cui il Primo Cittadino di un comune campano aveva disposto la nomina degli assessori, provvedendo solo nei riguardi di soggetti di sesso maschile.

La pronuncia è significativa giacchè, intervenendo anche sull’indole di tale atto di designazione, ne ricorda la natura non politica e, pertanto, la sussistenza di una discrezionalità sì ampia, ma non al punto da poter consentire che il dato tecnico – elettorale sia valicato da quello più strettamente politico – clientelare.

Il Collegio, quindi, ricordando l’opportunità di un’istruttoria adeguata che, invero, il Sindaco campano non aveva compiuto, dichiara l’illegittimità del decreto di nomina gravato, evidenziandone la contrarietà rispetto agli obblighi internazionali e rispetto ai vincoli comunitari e costituzionali di pari opportunità, richiesti anche in sede di composizione della Giunta.

Limiti di tal genere, infatti, esistono nonostante la natura dell’azione di governo che il Sindaco ha compiuto: si tratta, per l’appunto, di obblighi - di rango sovra ordinato – in grado di rappresentarne un requisito di legalità formale e sostanziale che, nel caso in esame, non è stato ottemperato.

Il rispetto del principio di pari opportunità, infatti, costituisce ormai un parametro di conformazione, cui il Sindaco resistente non si è attenuto. Ciò spiega la declaratoria di illegittimità cui sono giunti i Giudici napoletani. CC



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Inserito in data 17/09/2013
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 10 settembre 2013, n. 1249

Disciplina urbanistica e poteri di autotutela

Il Collegio fiorentino tratteggia i limiti ed i confini del potere di sospensione esercitato dall’Amministrazione comunale – ex articolo 21 quater – 2’ co. L. 241/90 – in ordine ad un provvedimento abilitativo edilizio.

Contrariamente a quanto addotto dalle società ricorrenti, i Giudici evidenziano la legittimità del provvedimento sospensivo gravato, considerando la piena sussistenza dei presupposti di legge.

Tanto la non conformità del regolamento urbanistico al piano strutturale e la conseguente apertura di indagini penali, quanto il supporto di una verifica tecnico – giuridica rilasciata da professionisti appositamente incaricati, spingono il Collegio toscano ad avallare la posizione assunta in autotutela dal Comune.

Sussiste, nella specie, quel preminente interesse generale in vista del quale il potere sospensivo possa essere attuato; né, peraltro, ricorre alcun fondamento per le pretese risarcitorie avanzate dalle ricorrenti. CC



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Inserito in data 16/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 settembre 2013, n. 4543

Il respingimento alla frontiera dello straniero tra giurisdizione e legittimazione ad agire

Al vaglio del Consiglio di Stato è posta la vicenda del respingimento alla frontiera area di Fiumicino di due lavoratori stranieri (ex art. 10 t. u. n. 286/1998),  perché “in possesso di documenti contraffatti e di altri documenti non contraffatti ma conseguiti - con frode - grazie alla spendita di quelli contraffatti”. Contro tale decisione, il datore di lavoro, che si era attivato per ottenere l’autorizzazione ed il conseguente visto ad impiegare i predetti extracomunitari, propone ricorso. Il T. A. R. del Lazio, da un lato, dichiara la sussistenza della giurisdizione civile e, dall’altro, rileva il difetto di legittimazione attiva in capo al ricorrente, titolare di un interesse indiretto.

Contro tale sentenza il datore di lavoro propone appello al Consiglio di Stato adducendo, in primis, che s’incardina la giurisdizione ordinaria solo per le fattispecie riconducibili al c. 2 dell’art. 10 t. u. n. 286/1998 e, in seconda battuta, che sussiste la giurisdizione amministrativa in relazione agli altri atti impugnati ed in relazione alla sua posizione giuridica soggettiva, che è quella di interesse legittimo.

In ordine alla prima questione, il Supremo Consesso richiama la giurisprudenza della Corte di Cassazione (S.U. n. 14502/2013 e n. 15115/2013),  che non solo ritiene sussistente la giurisdizione del giudice ordinario in materia di respingimento, ma non distingue a seconda delle diverse ipotesi di respingimento. Invero, puntualizzano i Giudici, la “differenza fra le fattispecie considerate dei due commi dell’art. 10 consiste in ciò: che il caso ordinario e normale è quello del respingimento in limine, ossia immediato”; mentre “nelle ipotesi considerate nel comma 2 la norma consente – a titolo di eccezione – che il potere di respingimento sopravviva e venga ancora esercitato benché lo straniero abbia fisicamente varcato la linea di frontiera”.

Infondata è, altresì, la seconda tesi perché, sostengono i Giudici di Palazzo Spada, “come correttamente rilevato dal T.A.R., i provvedimenti di respingimento alla frontiera incidono in modo diretto solo sulle posizioni personali dei due stranieri, e solo indirettamente e de facto sugli interessi dell’appellante”. Questa conclusione trova conferma nel fatto che “gli atti amministrativi favorevoli chiesti e ottenuti dall’appellante (nulla-osta all’impiego, etc.) non sono stati revocati né annullati”: essi non producono effetti, ma per ragioni transeunti il procedimento amministrativo di cui è parte il datore di lavoro.  EMF



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Inserito in data 13/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 settembre 2013, n. 4433

La mancata approvazione dell’aggiudicazione provvisoria non è una revoca

Con tale sentenza, la terza sezione del Consiglio di Stato definisce la portata dei poteri della stazione appaltante nel corso della procedura di evidenza pubblica, ritenendo che sia inopportuno parlare di “revoca” dell’aggiudicazione provvisoria.

A tal proposito, la mancata approvazione dell’aggiudicazione provvisoria, non costituisce esito di un procedimento di secondo grado, come accade nel caso in cui s’intervenga sull'aggiudicazione definitiva, bensì integra la conclusione “in senso negativo” dello stesso ed unico procedimento di evidenza pubblica, “a causa della sopravvenuta non utilità del contratto, ancora in itinere, all’interesse creditorio, mutato per factum principis non derogabile e tale da non rendere conveniente l’attivazione del rapporto negoziale”.

Si sottolinea, inoltre, che non viene in rilievo se occorra, come accade, invece, nei procedimenti di autotutela, una congrua motivazione circa il modo con cui la P.A. accorda i contrastanti interessi nel momento dell’emanazione dell'atto di revoca. Nonostante ciò, emerge che “è parimenti indubbio che, l’adeguatezza della motivazione in ordine alla ‘revoca’ de qua, ossia dell’esito negativo del procedimento d’evidenza pubblica si commisura solo con riferimento o all'indisponibilità delle relative somme in bilancio, o alla necessità di assicurare il rispetto delle previsioni del bilancio e del patto di stabilità o al mutato assetto organizzativo che discende dai nuovi vincoli finanziari”. GMC

 

 



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Inserito in data 13/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2013, n. 4467

Informative antimafia e revoca del contratto di appalto

Il Consiglio di Stato si sofferma sulla facoltà di revoca, o di recesso, dal contratto di appalto della Pubblica Amministrazione, contemplata all’art. 11, comma 3, del D.P.R. n. 252/1998.

Specificamente, viene, in tale sede, presa in considerazione l’ipotesi in cui gli elementi che si riferiscono a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto.

Questa ipotesi rappresenta specificazione della fattispecie, più generale, della sopravvenienza, in corso di rapporto, di elementi incompatibili con il proseguimento della sua esecuzione, incompatibilità sulla quale la legge non attribuisce alcun sindacato all'Amministrazione appaltante.

L’unico divieto espresso, infatti, è quello di stipulare o approvare contratti e subcontratti, così come previsto dall’art. 10 comma 2, nei casi in cui, a seguito delle verifiche disposte dal Prefetto, emergano elementi concernenti tentativi di infiltrazione mafiosa nelle società interessate.
Ai sensi dell’art. 11, commi 2 e 3, del D.P.R. n. 252/1998 e dell’art. 4 comma 6, del decreto legislativo n. 490/1994, può riconoscersi alla stazione appaltante una qualche facoltà di non revocare l'appalto nonostante il collegamento dell'impresa con organizzazioni malavitose sia stato accertato.

Tenendo in considerazione l’evidente posizione di pieno sfavore legislativo alle infiltrazioni mafiose nei contratti pubblici, è, tale ipotesi, del tutto residuale e, dunque, consentita a quell’unico fine di tutelare l'interesse pubblico attraverso una valutazione di convenienza in relazione a circostanze particolari, quali, ad esempio, il tempo o la natura dell'esecuzione del contratto oppure la difficoltà di trovare un nuovo contraente, nel caso in cui la causa di decadenza sopravvenga ad esecuzione già ampiamente inoltrata. GMC

 



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Inserito in data 12/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 settembre 2013, n. 4499

Ammissibilità del giudizio di ottemperanza in caso di giudicato particolarmente puntuale

I Giudici di Palazzo Spada compiono delle puntualizzazioni sul giudizio di ottemperanza.

In particolare, disconoscono la tesi secondo la quale non sarebbe ammissibile il rimedio dell’ottemperanza ogniqualvolta il giudicato abbia definito in maniera così puntuale gli obblighi dell’amministrazione da non lasciar spazio ad alcuna forma di discrezionalità.

Infatti, anche nella suddetta ipotesi, deve ritenersi possibile attivare il rimedio in esame a fronte dell’inerzia dell’Amministrazione nell’adottare provvedimenti esecutivi espressi (e, quindi, in mancanza di atti suscettibili di ulteriore eventuale impugnazione). Così induce a ritenere la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ad avviso della quale:1) “il diritto al processo di cui all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo comprende, in quanto diritto ad un giudice, il diritto all'esecuzione del giudicato; l'esecuzione del giudicato va perciò riguardata come una parte integrale del processo ai sensi dell'art. 6 (CEDU, 19 marzo 1997, Hornsby v.Grecia; CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis v. Grecia)”; 2) “il diritto al processo sarebbe illusorio se non vi fossero strumenti per dare esecuzione al giudicato (CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis v. Grecia)”; 3) “l'esecuzione di un giudicato non può essere indebitamente ritardata (CEDU, 28 luglio 1999, Immobiliare Saffi v. Italia)”. TM

 

 



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Inserito in data 12/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 settembre 2013, n. 4501

Rispetto delle distanze minime tra edifici: sostituzione di un lucernaio con un abbaino

Nella decisione in epigrafe, il Consiglio di Stato applica i principi in tema di distanze minime tra gli edifici, distanze definite dalle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del piano regolatore generale.

Innanzitutto, si rammenta che “la distanza tra gli edifici va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano”.

Secondariamente, si esclude l’applicazione retroattiva delle N.T.A. agli edifici preesistenti: “è ovvio che una disposizione (di per sé innovativa) sulle distanze non rende contra ius un manifatto realizzato in precedenza”. Tuttavia, si precisa che la sopravvenuta disciplina potrà trovare applicazione rispetto alla nuova costruzione che s’intenda realizzare sull’edificio preesistente.

Inoltre, si ricorda che, per la Corte di Cassazione, “una sopraelevazione, pur se di ridotte dimensioni, nella parte in cui determini aumento della volumetria e della superficie di ingombro, va qualificata come nuova costruzione

In considerazione di tutto ciò, si afferma l’illegittimità del permesso di costruire ”che ha consentito la creazione di una sopraelevazione, nella forma di un abbaino, in sostituzione di un preesistente lucernaio, che ha determinato, per alcune parti del tetto, una distanza inferiore a quella prevista per le nuove costruzioni dalle NTA”. TM



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Inserito in data 11/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZA NON DEFINITIVA 9 settembre 2013, n. 4469

Servizi pubblici locali: si conferma il G.A., ricordando la sentenza della  Corte Costituzionale n. 204/04

I Giudici di Palazzo Spada, concludendo con sentenza non definitiva e rimettendo parte del decisum ad un’espletanda CTU, ribadiscono un insegnamento fondamentale proprio della giurisprudenza amministrativa.

In particolare, intervenendo in un contenzioso in tema di servizi pubblici locali, il Collegio cristallizza alcuni aspetti essenziali in tema di riparto di giurisdizione, richiamando, all’uopo, la nota pronuncia costituzionale n. 204 del 2004.

Infatti, sorta la vexata quaestio in ordine al regolamento di piani tariffari - da parte di un Ente regionale a svantaggio del titolare del servizio di trasporto locale – i Giudici ricordano come, pur in presenza di un diritto soggettivo di credito – quale quello vantato dalla ditta appellata, sia corretta la devoluzione al G.A. in sede esclusiva.

La posizione giuridica lamentata dal gestore dei trasporti pubblici, pur di natura creditoria e dunque soggettiva, ha subìto, comunque, un’incisione ad opera dell’Amministrazione regionale, che ha agito nell’esercizio di propri poteri autoritativi e discrezionali.

Ciò comporta, come ribadisce il Collegio, che, laddove le condizioni del servizio di trasporto pubblico locale siano delimitate dall’adozione di un provvedimento amministrativo dell’Ente regionale, anche se i rapporti tra Amministrazione ed amministrato possano declinarsi nelle forme della relazione giuridica diritto-obbligo, come nel caso in esame, non v’è dubbio, comunque, che la controversia insorta al riguardo appartenga alla giurisdizione esclusiva del G.A.

Ricorre, infatti, l’esercizio di un potere pubblicistico, in grado di attrarre il contenzioso dinanzi all’Autorità giurisdizionale amministrativa, come correttamente ricordato dall’odierno Collegio che non esita, pur a distanza di anni e di molteplici vicissitudini normative, a richiamare un dato giurisprudenziale evidentemente ormai saldo. CC



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Inserito in data 11/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 11 settembre 2013 n. 20848

Distanze legali vedute e balconi: eccezioni in caso di pubblica via

I Giudici della Suprema Corte delimitano, con l’odierna sentenza, l’ambito di applicabilità dell’art. 905 cod. civ., confermando l’operatività della deroga in esso prevista al 3’ comma.

Infatti, accogliendo la posizione espressa dal Collegio di secondo grado, i Giudici di Piazza Cavour ritengono che “la Corte di Appello abbia correttamente applicato la deroga di cui all’ultimo comma dell’art. 905 c.c., secondo la quale le norme che prescrivono determinate distanze per l’apertura di vedute dirette e balconi non possono trovare applicazione, per la espressa previsione del terzo comma, quando tra i due fondi vicini vi sia, come accertato dalla Corte di Appello, una via pubblica; gli stessi principi valgono anche quando la strada non separa i due fondi, non essendo necessario che i due fondi si fronteggino essendo sufficiente che essi siano confinanti con la via pubblica, indipendentemente dalla loro reciproca collocazione”.

La Corte, però, in ossequio alla sacralità del diritto di proprietà che da sempre tutela, ricorda pure che: “È pacifico che l’esenzione dall’obbligo delle distanze legali … non può interferire, nei rapporti fra proprietari di fondi contigui o frontistanti rispetto alla pubblica strada, sulle pretese che all’uno derivino, ai sensi degli artt. 871 ed 872 cod. civ., dall’inosservanza da parte dell’altro delle disposizioni dei regolamenti edilizi”. CC




Inserito in data 10/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2013, n. 4473

La comunicazione dei motivi ostativi non estingue l’obbligo di provvedere

Secondo l'art. 2 della l. n. 241/1990, l'amministrazione ha l’obbligo di concludere ogni procedimento con provvedimento espresso entro un termine certo, che è quello generale fissato dal comma 3 di detto articolo o quello indicato da specifiche disposizioni.

Ciò vale anche nel caso del termine massimo di 180 giorni dalla presentazione della richiesta, entro il quale deve concludersi, ex art. 12 del d.lgs. n. 387/2003, il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica. Pertanto, la mancata adozione di un provvedimento espresso sulla richiesta autorizzazione unica nel complessivo termine perentorio di 180 giorni configura un sostanziale inadempimento.

Né può ritenersi che l’invio della comunicazione dei motivi ostativi alla conclusione del procedimento determini cessazione della materia del contendere, la quale si ha quando “nelle more del processo si verifica una modificazione della situazione di fatto o di diritto tale da comportare per il ricorrente l'inutilità dell'eventuale sentenza di accoglimento del ricorso, in quanto non è più configurabile in capo ad esso un interesse anche solo strumentale o morale rispetto alla decisione” (Cons. Stato, sentenza n. 632/2003).

Infatti, l’adempimento dell’obbligo di conclusione del procedimento con provvedimento espresso si realizza solo mediante l'adozione del provvedimento finale, entro i termini stabiliti dalla legge o dai regolamenti, in quanto è proprio l'emanazione di esso provvedimento che costituisce l'oggetto dell'obbligo di provvedere gravante sull'amministrazione e solo l'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento fa venire meno l'inerzia dell'amministrazione. Per contro, la semplice adozione di un atto endoprocedimentale, come la comunicazione dei motivi ostativi non estingue l'obbligo di provvedere e non fa venire meno l'inerzia dell'amministrazione, perché non coincide con l'emanazione del provvedimento finale, oggetto dell'obbligo di provvedere.

Sotto altro profilo si rileva che l'avviso dei motivi ostativi comunque non soddisfa la pretesa del ricorrente ad ottenere un provvedimento espresso, né rende inutile la decisione del ricorso, atteso che “solo la declaratoria giurisdizionale dell'obbligo di provvedere e dell'illegittimità del silenzio attribuisce con sicurezza al ricorrente la possibilità di ottenere, anche tramite la nomina di un commissario “ad acta”, un provvedimento espresso e motivato sull'istanza proposta”. CDC



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Inserito in data 10/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 3 settembre 2013, n. 20172

Il mutamento di giurisprudenza sull’anatocismo bancario non dà luogo a overruling

In materia di anatocismo bancario, si ribadisce che, una volta dichiarata la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, tali interessi devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione. Né ha fondamento il rilievo per cui tale tesi integrerebbe un overruling, con conseguente esigenza di rimedi a tutela dell’affidamento incolpevole della banca (secondo quanto statuito da Cass SU 15144/2011). Ai fini di tali rimedi, infatti, rileva il solo mutamento di norme di carattere processuale, mentre la sentenza n. 24418 del 2010 delle Sezioni Unite riguarda norme di carattere sostanziale. CDC




Inserito in data 09/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 6 settembre 2013 n. 20577

Rifiuto della P.A. ad autorizzare cure all’estero: spetta al G.O. la pronuncia

Il Massimo Collegio di piazza Cavour, rivendicando la propria giurisdizione, interviene sulle conseguenze relative al rifiuto di autorizzazione e rimborso di cure all’estero - da parte della P.A.

In particolare, l’ordinanza in esame è significativa giacchè la controversia sorgeva dall’avvenuta impugnazione del diniego di autorizzazione, in seno al quale – ad avviso dei sommi Giudici – parrebbe ravvedersi ugualmente l’esistenza di un diritto soggettivo e, pertanto, la spettanza all’Autorità giurisdizionale Ordinaria.

Nel rimettere la questione dinanzi al G.O., le Sezioni Unite, infatti, hanno così precisato: "Benché nella specie non sia stato chiesto il rimborso di spese affrontate per cure specialistiche praticate all’estero pur in mancanza di autorizzazione, ma invece l’annullamento dell’atto amministrativo di diniego di autorizzazione ad effettuarle, non di meno va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, essendo la domanda diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo, senza che assuma rilievo in contrario il contenuto concreto del provvedimento richiesto, il quale può implicare soltanto un limite interno alle attribuzioni del giudice ordinario, giustificato dal divieto di annullamento, revoca o modifica dell’atto amministrativo ai sensi dell’art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E - c.d. L.A.C. (ex mu!tis, Cass., sez. un., nn. 23284/2010, 4633/2007, 9005/1993).

Tale limite potenziale, peraltro, potrebbe essere aggirato ritenendo salva la possibilità per il Giudice Ordinario di interpretare la domanda di annullamento nel senso che sia in essa compresa la richiesta di declaratoria del diritto ad ottenere l’autorizzazione ad effettuare le cure all’estero.

Si tratterebbe, a quel punto, di conclusioni ottenute sulla base di valutazioni non discrezionali, ma meramente tecniche, attribuite in materia alla Pubblica Amministrazione ed in merito alle quali potrebbe ravvisarsi uno spazio di intervento del G.O.

Pertanto, sulla base di un simile percorso diventa forse più agevole comprendere la ratio seguita dal Supremo Consesso, nell’odierna sede di rimessione. CC




Inserito in data 08/09/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SENTENZA, C 414/11 del 18 luglio 2013

Diritti di proprietà intellettuale in tema di commercio internazionale

Il Collegio di Lussemburgo interviene in tema di diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (cc.dd. Trips), statuendone la competenza esclusiva dell’Unione.

Tale pronuncia, significativa proprio perchè investe un ambito estremamente delicato quale quello del commercio farmaceutico, specifica come la brevettabilità dei relativi prodotti – raggiunta a seguito di accordo cui sono tenuti gli Stati aderenti all’Accordo Trips, non copra l’eventuale prodotto successivamente ottenuto.

In particolare, sottolineano i Giudici europei: "un brevetto rilasciato prima dell'entrata in vigore dell'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio per il procedimento di fabbricazione di un prodotto farmaceutico non può garantire successivamente alla sua entrata in vigore anche l'invenzione stessa del prodotto."

L’invenzione, pertanto, può rimanere scoperta dall’eventuale brevetto sulla fabbricazione,a garanzia della proprietà intellettuale così maggiormente tutelata. CC



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Inserito in data 05/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 settembre 2013, n. 4429

Principi in tema di ripetizione di somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato aderisce ai principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza amministrativa in tema di somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente e li sintetizza in tre punti.

In primo luogo, “l’affidamento e lo stato soggettivo di buona fede del pubblico dipendente nel percepire dall’amministrazione somme a lui non dovute, nonché l’avvenuta destinazione delle somme alla soddisfazione delle esigenze della vita e gli effetti della ripetizione su tali esigenze, non costituiscono ostacolo al recupero dell'indebito, attesa la doverosità e necessarietà del comportamento dell'amministrazione nel riavere quanto erogato ma appunto non dovuto, in linea con il canone di buon andamento proprio dell’agire pubblico e nell’esercizio del potere/dovere nascente direttamente dal disposto dell'art. 2033 del cod. civ.. Sicché, una volta accertato l'indebito stesso, l’amministrazione non è tenuta a fornire alcun’altra motivazione in ordine agli elementi soggettivi in parola né ad effettuare una valutazione comparativa di tali elementi con l’interesse pubblico”.

Secondariamente, “gli elementi soggettivi predetti rilevano, semmai, soltanto ai fini della determinazione delle modalità del recupero, le quali devono essere tali da non incidere sui bisogni essenziali della vita”.

Infine, “l’anzidetta doverosità esclude, inoltre, che l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento configuri causa di illegittimità del recupero, sia ex art. 21 octies della legge 7 agosto 1990 n. 241 perché, trattandosi di atto completamente vincolato e non autoritativo, il suo contenuto non sarebbe stato diverso, sia in quanto l’eventuale mancanza del preavviso non influisce sulla debenza delle somme, né sulla possibilità di difesa del destinatario perché questi, nell'ambito del rapporto obbligatorio di reciproco dare/avere (paritetico), può sempre far valere le sue eccezioni nell'ordinario termine di prescrizione”. TM



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Inserito in data 05/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 30 agosto 2013 n. 19963

II proprietario trasportato ha diritto ad essere risarcito dal suo assicuratore RCA

Nella decisione in commento, la Corte di Cassazione afferma che “sulla base del principio solidaristico “vulneratus ante omnia reficiendus”, il proprietario trasportato ha diritto, nei confronti del suo assicuratore r.c.a., al risarcimento del danno alla persona causato dalla circolazione non illegale del mezzo, essendo irrilevante ogni vicenda normativa interna e nullo ogni patto che condizioni la copertura del trasportato all’identità del conducente (“clausola di guida esclusiva”)”.

In tale direzione depone: la L. n. 142/1992 che ha previsto la procedura di risarcimento diretto, ossia il potere di rivolgere la richiesta risarcitoria alla compagnia assicurativa con cui è stato stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato (anziché all’impresa di assicurazione cui ha fatto ricorso il proprietario dell’altro veicolo incidentato); le direttive comunitarie (nn. 72-166 CEE, 84-5 CEE e 90 -233 CEE) che hanno quale obiettivo di “di garantire che la assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli consenta obbligatoriamente a tutti i passeggeri vittime di un incidente causato dal veicolo di essere risarciti dei danni dai medesimi subiti”, e non consentono quindi di negare la tutela al terzo trasportato ancorché proprietario ma non conducente del mezzo assicurato; la pronuncia della Corte di Giustizia Europea dell’1 dicembre 2011 (causa C 442-10, Churchill contro Wilkinson), secondo la quale la normativa comunitaria impedisce di escludere in modo automatico la responsabilità dell’assicuratore nei confronti del terzo trasportato, che sia al contempo anche proprietario e assicurato, per il solo fatto che alla guida si trovava un soggetto non assicurato e indipendentemente dal fatto che il proprietario fosse o meno consapevole del fatto che il conducente non era assicurato.

In particolare, ad avviso della Corte di Cassazione, quest’ultima decisione è idonea a produrre conseguenze giuridiche nel nostro ordinamento sotto tre profili.

Innanzitutto, colpisce “il rifiuto dello assicuratore che imponga con clausola unilateralmente o convenzionalmente predisposta la c.d. clausola di guida esclusiva, che prevede la garanzia assicurativa solo se alla guida del veicolo si trovi la persona indicata in polizza. Questa clausola deve ritenersi, sulla base dei principi del nostro ordinamento, nulla per la violazione di norme di diritto comune comunitario che sono strutturalmente sovraordinate alle norme nazionali, e viene a comprimere il diritto umano inviolabile della salute, che è costituzionalmente garantito ed è principio Europeo di diritto comune, ed è diritto irretrattabile e indisponibile anche da parte dello assicuratore”.

Un secondo aspetto o effetto giuridico consequenziale è dato dal principio Europeo contenuto nell'adagio erasmiano "vulneratus ante omnia reficiendus" secondo cui la vittima trasportata ha sempre e comunque diritto al risarcimento integrale del danno, quale che ne sia la veste e la qualità, con la unica eccezione del trasportato consapevole della circolazione illegale del veicolo, come è nel caso di rapinatori, terroristi o ladri”.

Da ultimo, la rilevanza costituzionale e comunitaria del diritto alla salute condurrebbe all’affermazione della responsabilità solidale degli autori del danno e delle compagnie assicurative, con riguardo ai danni cagionati nella circolazione di veicoli, aerei e natanti. TM




Inserito in data 04/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 settembre 2013, n. 4376

Attività provvedimentale illecita: prova e quantificazione del danno risarcibile

In tema di risarcimento del danno da attività provvedimentale illecita, incombe sul ricorrente l'onere di dimostrare (oltre all'esistenza di un pregiudizio patrimoniale e alla sua riconducibilità eziologia all'adozione del provvedimento illegittimo) la sua misura. Pertanto, questi “non può limitarsi ad addurre l'illegittimità dell'atto, valendosi, ai fini della sua quantificazione, del principio dispositivo con metodo acquisitivo”, ma deve “documentare il pregiudizio patrimoniale del quale chiede il ristoro nel suo esatto ammontare”.

Quando, come nel caso di specie, la lesione concerne interessi pretensivi o procedimentali, la dimostrazione della misura del danno subito non è semplice, soprattutto per la prova del lucro cessante. A tal fine, infatti, il privato deve dimostrare che la sua sfera giuridica non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito. Poiché tale dimostrazione involge profili prognostici non facilmente apprezzabili nella loro effettiva consistenza ed attendibilità, non può che soccorrere l'applicazione di criteri presuntivi di determinazione del quantum. Si tratta di “presunzioni semplici che indicano, secondo la comune esperienza, parametri valutativi sufficientemente puntuali dell'entità della perdita economica patita dal privato per effetto dell'adozione dell'atto illegittimo ovvero della colpevole inerzia dell'amministrazione”. Quindi, affinché sia assolto l'onere della prova, è necessario che il ricorrente alleghi elementi di fatto ed indizi sulla cui base possono individuarsi i parametri presuntivi di determinazione del danno.

Quanto alla richiesta di lucro cessante, nel caso di specie il ricorrente ha dimostrato che, in mancanza dell'adozione del provvedimento illegittimo, avrebbe vinto la gara. In tal caso, non è automaticamente applicabile il criterio equitativo del 10%, desunto in via analogica dall’art. 345 della l. n. 2248/1865, all. F, poiché in questo modo si introdurrebbe una forma di indennizzo predeterminato che contrasta con i principi probatori al riguardo. Dunque, in assenza di un criterio legale di determinazione del danno e a fronte della difficoltà di determinare nel suo preciso ammontare questo tipo di pregiudizio patrimoniale, non resta che ricorrere alla valutazione equitativa.

In quest’ipotesi, comunque, il mancato utile nella misura integrale spetta al ricorrente solo se dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi e pertanto deve operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura per l' “aliunde perceptum vel percipiendum”.

Al danno da perdita di “chance”, così determinato, occorre aggiungere il danno curricolare, consistente nel “pregiudizio subito dall'impresa a causa del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale, per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto sfumato a causa del comportamento illegittimo dell'Amministrazione, laddove l'aggiornamento curriculare perduto avrebbe fatto conseguire all'impresa un vantaggio economicamente valutabile, poiché ne avrebbe accresciuto la capacità di competere sul mercato e, quindi, la possibilità di aggiudicarsi ulteriori commesse”. CDC



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Inserito in data 04/09/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 21 agosto 2013, n. 35220

La fattispecie di cui all’art. 316-ter cp ha natura di reato di pericolo

La sentenza conferma che la fattispecie di cui all’art. 316-ter cp ha natura di reato di pericolo. Essa, infatti, è integrata dalla “mera violazione di prescrizioni volte ad evitare l’adozione di sistemi che possano nascondere comportamenti fraudolenti a prescindere dalla prova di condotte di tal genere, che, se sussistenti, consentirebbero di ravvisare ulteriori figure criminose”.

Pertanto, il reato in esame è integrato dal conseguimento di pubbliche erogazioni sulla scorta di fatture falsamente quietanzate, perché così l’agente “otteneva un finanziamento sulla base di attività non realmente esplicate” e ciò non consentiva di verificare che le somme erogate fossero integralmente destinate alla realizzazione dell’opera prevista. CDC




Inserito in data 03/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 agosto 2013, n. 20

Si ha regolarità fiscale  solo dopo l’accettazione dell’istanza di rateazione

Con la suddetta pronuncia, l’Adunanza Plenaria ha chiarito i termini interpretativi del concetto di “definitività” dell’accertamento della violazione tributaria ai fini della verifica della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici.

In particolare, con la sentenza in commento, la Plenaria ha chiarito come la mera presentazione di un’istanza di rateizzazione o dilazione del pagamento del debito tributario non sia sufficiente ad elidere la condizione illecita del partecipante.

Ai sensi dell’articolo 38, comma 1, lettera g, del codice dei contratti pubblici, infatti, “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti…. che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse, secondo la legislazione italiana o quella dello Stato in cui sono stabiliti”; “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”.

Il Legislatore, attraverso la normativa appena illustrata, ha voluto garantire la pubblica Amministrazione contro eventuali problemi di solvibilità e solidità finanzia che potrebbe risultare aggiudicatario e, dunque, col quale dovrebbe contrarre.

A fronte di tre diverse e graduate ipotesi interpretative, l’Adunanza Plenaria ha preferito accogliere la tesi più rigorosa che richiede, ai fini della regolarizzazione della posizione fiscale, non solo la presentazione di un’istanza di dilazione o di rateizzazione, ma anche la positiva definizione del procedimento, con l’ accoglimento dell'istanza stessa, prima del decorso del termine fissato dalla legge che disciplina la presentazione della domanda di partecipazione.

Soluzione, tra l’altro, avallata dalla prevalente giurisprudenza e da una precedente pronuncia della stessa Adunanza Plenaria (sent. 15/2013).

A sostegno della soluzione adottata si è osservato come la rateizzazione configuri una particolare ipotesi di novazione estintiva-costitutiva dell’obbligazione principale (C.d.S. IV, 1633/2013), tal ché, prima dell’accoglimento della domanda, il debito originario (e la relativa condizione di illiceità) permane ed è riconosciuta (attraverso la stessa istanza) dal contribuente.

Non vi è dubbio, a questo punto, che il debito originario sia scaduto e presenti i requisiti di certezza ed esigibilità nel senso richiesto dal comma 2 dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici.

Si osserva, inoltre, che l’ammissione alla rateazione non costituisce  atto dovuto dall’Amministrazione, ma l’esercizio di un potere discrezionale sussistente in capo a quest’ultima, attraverso il quale la stessa valuta quell’ "obiettiva difficoltà economica" che costituisce il presupposto per la concessione del beneficio. “Ne deriva che l’ammissione alla procedura del concorrente che non abbia ancora ottenuto il provvedimento favorevole, oltre a sancire una deroga atipica al principio secondo cui i requisiti di partecipazione alle gare vanno verificati al momento della scadenza dei termini fissati per la presentazione delle domande, innesterebbe nello svolgimento della procedura di evidenza pubblica il fattore di incertezza legato all’accertamento di un requisito in fieri, collegato alla variabile della valutazione discrezionale dell’amministrazione tributaria”.

Dopo aver esposto le argomentazioni a sostegno dell’interpretazione accolta, l’Adunanza Plenaria ha precisato come non possa assumere alcun valore critico il principio del favor partecipationis.

Si afferma, infatti, che “la preferenza per un ampliamento del novero dei partecipanti non è un valore assoluto ma deve essere ricondotta nel suo alveo naturale, dato dalla sua funzione di strumento volto al conseguimento dell’ obiettivo di assicurare la scelta del miglior contraente in una gara celere e trasparente alla stregua del codice dei contratti pubblici”.

Pertanto, il suddetto principio non potrebbe essere invocato a sostegno delle tesi più elastiche che porterebbero a  giustificare l’ammissione di un contraente che risulti sprovvisto, al momento della domanda, del requisito della regolarità tributaria il quale sarebbe condizionato dallo scioglimento di una riserva. Una soluzione di questo tipo, infatti, contrasterebbe con i principi di efficienza e tempestività propri dell’azione amministrativa. Né potrebbe obiettarsi il rischio di un’esclusione dovuta ad una “tardiva” definizione della procedura di rateizzazione trattandosi, comunque, di una conseguenza del comportamenti illecito del concorrente.

“In definitiva, trova conferma l’indirizzo ermeneutico secondo cui non è ammissibile la partecipazione alla procedura di gara, ex art. 38, comma 1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, del soggetto che, al momento della scadenza del termine di presentazione della domanda di partecipazione, non abbia conseguito il provvedimento di accoglimento dell’istanza di rateizzazione”. VA



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Inserito in data 03/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 settembre 2013, n. 4344

Risarcibile il danno ingiusto cagionato dal ritardo nell’emanazione di un atto

Con la sentenza in commento, i Giudici di palazzo Spada hanno ribadito che il ritardo ingiustificato, da parte della pubblica Amministrazione, nell’emanazione di un atto comporta la lesione di un interesse pretensivo che, ove destinato ad avere un esito favorevole, si traduce in un danno ingiusto suscettibile di risarcimento.

Nel caso in esame, la sentenza impugnata verteva sul ritardo nella concessione di un’autorizzazione alla coltivazione di una cava che aveva comportato un aumento dei costi d’impresa per l’appellante.

L’Amministrazione convenuta aveva addotto a giustificazione del proprio comportamento dilatorio la mancanza di una dichiarazione di conformità paesaggistico-ambientale che, in realtà, doveva ritenersi formata già da tempo, in conseguenza del decorso del temine prescritto per l’emanazione della stessa e necessario per l’operare del silenzio-assenso.

Ciò risulta confermato dall’assenza di novità procedimentali o normative precedente alla emanazione del provvedimento autorizzatorio finale.

Ne deriva, dunque, l’illegittimità del ritardo e l’applicabilità del principio secondo cui “il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento, nel caso di procedimento amministrativo lesivo di un interesse pretensivo dell’amministrato, ove tale procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario” (C.d.S., sez. IV, 1406/2013). VA



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Inserito in data 02/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 6 agosto 2013, n. 19

Annullamento delle clausole della “lettera di richiesta di offerta vincolante”

La sentenza del Consiglio di Stato in oggetto concerne due questioni del tutto autonome riguardanti due diverse clausole della “lettera di richiesta di offerta vincolante”, con cui l’Amministrazione ha avviato due procedure concessorie concernenti la gestione degli scavi di Pompei, Ercolano, Oplonti, Boscoreale e Stabia nonché quella del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, del Complesso Vanvitelliano Reggia di Caserta, degli Appartamenti Storici di Palazzo Reale di Napoli, del Museo di Capodimonte, del Museo Pignatelli Cortes ed altri.

Il primo quesito riguarda, essenzialmente, la clausola mediante la quale si determina l’importo della garanzia a corredo dell’offerta che, alla luce dell’art. 75 del d.lgs. 163 del 2006 (Codice dei contratti pubblici), deve essere “pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell’invito”.

Secondo la ricorrente in primo grado, l’Amministrazione avrebbe dovuto assumere come parametro di riferimento della garanzia provvisoria, la somma dei valori percentuali spettanti ad essa Società a titolo di aggio per il servizio di biglietteria e per gli altri servizi e, dunque, calcolare su detta somma il 2 per cento di cui all’art. 75 sopracitato, e non rapportarlo, dunque, all’intero valore economico della concessione, come avvenuto, invece, nel caso in oggetto.

Sostenendo la tesi qui avanzata, è stato considerato, in primo grado e in appello, l’art. 29, comma 12, lett. a 2) del Codice dei contratti pubblici, secondo cui negli appalti dei servizi assicurativi e bancari, in cui l’appaltatore ritrae il proprio vantaggio economico dalla trattenuta di una percentuale derivante dallo svolgimento dei servizi in gara, la base d’asta è individuata negli “onorari, commissioni da pagare e altre forme di remunerazione” e che, in caso contrario, si verrebbe ad imporre ai concorrenti un onere partecipativo sproporzionato per eccesso rispetto all’oggetto della gara, ed è ciò che è avvenuto nel caso qui esaminato.

Inoltre, con sentenza n. 3764 del 2012, IV sezione, si fa luce sulla natura del servizio di biglietteria nel quadro complessivo della concessione. Emerge, infatti, che tale servizio è “elemento accessorio, assorbito nella gestione indiretta dei beni culturali, la cui convenienza economica risulta per i privati dal bilanciamento fra le percentuali trattenute per i diversi servizi; nelle concessioni, in quanto svincolate dagli ordinari parametri sinallagmatici, il valore complessivo è di necessità commisurato all’utilità complessiva che il bene è in grado di produrre, non essendo l’Amministrazione tenuta a versare un compenso al concessionario ma questo a versarle un canone sfruttando le potenzialità economiche del servizio concesso”.

In tale contesto, assume, altresì, rilevanza una recente deliberazione dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici, n. 10 del 6 marzo 2013, riguardo la determinazione del valore della concessione ai fini del computo della garanzia, si è ritenuto, infatti, che “il valore dell’affidamento in concessione relativo ai servizi strumentali dovrebbe corrispondere al corrispettivo del servizio reso dall’affidatario, mentre il valore dell’affidamento in concessione concernente i servizi per il pubblico dovrebbe corrispondere alla rimuneratività presunta per il concessionario, ossia alla utilità complessiva che il bene è in grado di produrre…”. Secondo l’avviso della Suprema Corte, che si esprime con sentenza 27 maggio 2009, n. 12252, la distinzione tra i contenuti tipici della concessione e quelli propri dell’appalto non è di ostacolo affinché un determinato rapporto venga considerato, a determinati fini, in modo unitario, quando, come nel caso di specie, sia la legge ad indicare la forma giuridica e, dunque, il regime cui il rapporto deve soggiacere.

La seconda clausola impugnata è quella di cui al punto 4, lett. A, della “Lettera”, che, altresì a pena di esclusione, impone ai concorrenti di rendere una dichiarazione con la quale si impegnano “a garantire la continuità dei rapporti di lavoro in essere al momento del subentro, con esclusione di ulteriori periodi di prova, di tutto il personale già impiegato nei servizi oggetto della presente concessione in esecuzione di precedenti convenzioni e riportato nell’apposito Allegato 1”.

I dubbi sono generati dal precetto di cui all’art. 69 del codice dei contratti pubblici, secondo il quale le particolari condizioni di esecuzione del contratto, attinenti anche “a esigenze sociali”, devono essere “precisate nel bando di gara, o nell’invito nel caso di procedure senza bando”.

Infine, si sottolinea che la norma in oggetto è destinata principalmente a salvaguardare il principio secondo il quale il concorrente possa essere messo nelle condizioni di conoscere, prima della presentazione dell’offerta, quali oneri assume con la partecipazione alla gara. GMC



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Inserito in data 02/09/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 luglio 2013, n. 4026

Legittimità del provvedimento con cui la stazione appaltante revoca la procedura di gara

L’Amministrazione è titolare del potere, riconosciuto dall’art. 21 quinquies della Legge n. 241/1990, di revocare, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, un proprio precedente provvedimento amministrativo.

Con riferimento ad una procedura di evidenza pubblica, si ritiene del tutto legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta prima ancora del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa. Tale disposizione, infatti, ammette, dunque, un possibile ripensamento, da parte della amministrazione, a seguito di una nuova valutazione dell’interesse pubblico originario.

Recentemente, inoltre, è stato affermato che, alla luce dell’art. 21 quinquies, è legittimo il provvedimento con cui la stazione appaltante procede, in autotutela, alla revoca della intera procedura di gara dopo averne individuato i presupposti nei sopravvenuti motivi di pubblico interesse di natura economica, derivanti da una forte riduzione dei trasferimenti finanziari, nonché da una nuova valutazione delle esigenze nell’ambito dei bisogni da soddisfare, a seguito di una accurata valutazione da cui emerge la non convenienza di procedere all’aggiudicazione sulla base del capitolato predisposto inizialmente.

Nel caso qui in oggetto, sussistevano le ragioni di pubblico interesse all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione e tali ragioni, inoltre, erano state esplicitamente indicate dalla stessa negli atti impugnati. GMC

 

 



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Inserito in data 04/08/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZA 2 agosto 2013, n. 4059

Estromissione dal rapporto di lavoro e conseguente risarcimento  del danno: giurisdizione

E’ significativa la presa di posizione del Collegio in ordine ad una questione a lungo dibattuta, quale quella relativa ai profili di giurisdizione in caso di estromissione dal rapporto di lavoro e successive conseguenze in sede risarcitoria.

Nella fattispecie in esame, gli appellanti contestano la decisione con cui il Giudice amministrativo di primo grado aveva escluso la propria giurisdizione, ritenendo che la controversia dovesse essere inoltrata dinanzi al G.O.

In sede di gravame, invece, i Giudici respingono le istanze dei ricorrenti, confermando la posizione assunta dal Collegio territoriale.

Più nel dettaglio, con riguardo alla avvenuta estromissione dal rapporto di lavoro, i Giudici non vi ravvedono alcuna indole provvedimentale.

Si tratta, infatti, di un atto meramente ricognitivo di un vizio radicale del contratto individuale di lavoro, conseguente all’annullamento giurisdizionale della graduatoria concorsuale (peraltro, sancita in primo grado e confermata dal medesimo Collegio), che forniva il titolo giuridico di legittimazione agli odierni istanti.

Pertanto, si tratta di un atto avente natura paritetica, di mera gestione del rapporto di lavoro: tanto, come è noto, vale a spiegare la devoluzione al G.O., in sintonia, del resto, con il dettato normativo di cui all’art. 63 – D. Lgs. 165/01 – T.U. Pubblico Impiego.

Stessa posizione con riguardo alle domande risarcitorie susseguenti alle aspettative lese degli odierni appellanti, ormai estromessi.

Il Collegio, infatti, rammenta giurisprudenza ormai costante, secondo cui in tema di risarcimento per lesione di affidamento generato nel privato dalla legittimità di atti amministrativi di cui quest’ultimo sia beneficiario e che poi sono annullati, in sede giurisdizionale o anche in autotutela, tale domanda appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto tale giudizio si incentra sulla violazione del dovere del “neminem laedere”, che prescinde dalla natura pubblica o privata dell’agente e della sua attività, e per questo non giustifica la concentrazione della tutela risarcitoria di fronte al giudice dell’annullamento.

A maggior ragione, insistono i Giudici del gravame, laddove si consideri che la giurisdizione amministrativa in sede di Pubblico Impiego – ex articolo 63 – 4’ co. D. Lgs. 165/01 – nei limiti della residualità che la connota, è pur sempre una giurisdizione di annullamento, non operante in sede esclusiva.

Pertanto, non vi sarebbe spazio alcuno perché il Collegio di Palazzo Spada potesse esprimersi sulle pretese risarcitorie, oggi avanzate.

Sulla base di tali considerazioni, appare, dunque, fondata la devoluzione al G.O. – come affermata in primo grado e riconfermata in sede di gravame. CC

 

 



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Inserito in data 02/08/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 31 luglio 2013, n. 4037

Obbligo di seduta pubblica per l’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche

Il Consiglio di Stato ribadisce l’obbligo di seduta pubblica per quanto concerne la fase di apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, obbligo ritenuto operativo esclusivamente per le gare indette dopo l’entrata in vigore dell’art. 12 del decreto legge 7 maggio 2012 n. 52.

Si rileva, infatti, che le buste contenenti le offerte tecniche, presentate dai concorrenti nelle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, vadano sempre aperte dalla Commissione di gara in seduta pubblica.

Il principio della pubblicità della seduta di apertura delle offerte tecniche è stato, in passato, affermato, a più riprese, dalla Giurisprudenza Amministrativa (si consideri, a titolo esemplificativo, la sentenza del Consiglio di Stato, in Adunanza Plenaria, n. 13 del 28 luglio 2011).

Tale fondamentale principio è stato, in seguito, introdotto a livello normativo dall’art. 12 del decreto legge n. 52/2012, il quale ha modificato gli articoli 120 e 283 del D.P.R. 207/2010 (Regolamento Appalti), configurando l’obbligo, in capo alle commissioni giudicatrici, di aprire “in seduta pubblica i plichi contenenti le offerte tecniche al fine di procedere alla verifica della presenza dei documenti prodotti”.

Nel caso in cui dovesse esservi la inosservanza di tale obbligo, si produrrà l’invalidità e, dunque, la possibilità di annullamento dell’intera proceduta di aggiudicazione.

Successivamente all’apertura, in seduta pubblica, delle buste contenenti le offerte tecniche per la verifica dei requisiti formali, la Commissione giudicatrice potrà procedere, tramite delle sedute riservate, alla valutazione comparativa delle offerte tecniche ammesse, nonché all’attribuzione dei punteggi predefiniti dall’Amministrazione nel bando di gara o nella lettera d’invito.

Dal punto di vista temporale, sulla questione concernente l’applicazione, anche alle procedure che si erano svolte prima della decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 13 del 28 luglio 2011, e dell’emanazione dell’art. 12 del decreto legge 7 luglio 2012 n. 52, del principio secondo cui anche l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche deve avvenire con seduta pubblica, si è inoltre recentemente espressa l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato la quale, con le decisioni n. 8 del 22 aprile 2013 e n. 16 del 27 giugno 2013, ha affermato l’ulteriore principio secondo cui l’obbligo di seduta pubblica deve ritenersi operativo solo per le gare indette dopo l’entrata in vigore dell’art. 12 del decreto legge 7 maggio 2012 n. 52, convertito dalla legge 6 luglio 2012 n. 94, non potendo assolutamente ritenersi applicabile alle gare indette prima di tale data.

L’art. 12 in questione, infatti, non riveste alcuna portata ricognitiva del principio affermato con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 13 del 2011, ma ha semplicemente la funzione, transitoria, di salvaguardare gli effetti di quelle procedure concluse o, comunque, pendenti alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si sia proceduto all’apertura dei plichi in seduta riservata, rivestendo, in tal senso, una funzione sanante.

Come direttamente chiarito dall’Adunanza Plenaria, il riconoscimento della natura sanante dell’art. 12 “è diretto a contenere gli oneri amministrativi ed economici che deriverebbero della caducazione, altrimenti inevitabile, di centinaia di gare che, diversamente, sarebbero di fatto travolte per il mero mancato rispetto dei canoni di pubblicità dell’apertura dei plichi contenenti le offerte tecniche, in assenza di qualsivoglia indizio circa la manomissione o l’occultamento degli stessi da parte dell’amministrazione”. GMC



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Inserito in data 02/08/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I BIS, 25 luglio 2013, n. 7636

Domande di partecipazione alle gare presentabili anche per telefono o via elettronica

Con tale sentenza, il TAR del Lazio si sofferma sulle modalità di presentazione delle domande di partecipazione alle procedure di gara.

Tali domande di partecipazione, infatti, possono validamente essere presentate anche per telefono o per via elettronica. A tal proposito, dall’esame delle disposizioni contenute negli artt. 73 e 77 del d.lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), non è configurata, nella fase di presentazione delle domande di partecipazione alla procedura di gara, alcun tipo di formalità da rispettare, dunque la domanda potrebbe essere presentata anche per telefono o per via elettronica.

Occorre, inoltre, osservare che in sede di valutazione delle domande di partecipazione, oggetto di esame è soltanto la documentazione diretta a dimostrare la capacità tecnica, la capacità economica ed i requisiti morali dei partecipanti, i quali possono essere semplicemente dichiarati, venendo valutati dalla stazione appaltante, ai fini dell’eventuale ammissione alle offerte, in modalità non pubblica. GMC



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Inserito in data 01/08/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 31 luglio 2013, n. 4034

Sulla legittimazione delle associazioni ambientaliste rispetto ai beni culturali

Nella pronuncia in esame, il Consesso amministrativo nega la legittimazione del Codacons, quale associazione ambientalista, ad impugnare gli atti del Commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica e, in particolare, la stipulazione di un contratto di sponsorizzazione col gruppo TOD’s per la ristrutturazione del Colosseo.

In particolare, ad avviso del Consiglio di Stato, deve essere chiarito l’indirizzo giurisprudenziale che legittima le associazioni ambientaliste a ricorrere in sede giurisdizionale rispetto ai beni culturali ed agli strumenti urbanistici, in forza della nozione allargata di ambiente come complesso dei valori che connotano il territorio. A tal fine occorre considerare, tra l’altro, che: alla tutela dell’ambiente e dei beni culturali sono preposti plessi amministrativi diversi; la rispettiva disciplina è contenuta in distinti codici; l’ambiente è definito dalla giurisprudenza costituzionale come bene immateriale unitario sebbene a varie componenti. Di conseguenza, i Giudici di Palazzo Spada distinguono l’ipotesi in cui un’associazione ambientalista agisce a tutela dell’ambiente inteso unitariamente e comprensivo della componente culturale (la legittimazione sussiste), da quella in cui siffatta associazione intende tutelare il singolo bene culturale considerato isolatamente e separatamente (la legittimazione manca). Poiché il caso de quo rientra nella seconda ipotesi, si conferma la sentenza di primo grado che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione a ricorrere. TM

 

 



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Inserito in data 01/08/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 31 luglio 2013, n. 4033

È sufficiente la motivazione per relationem se la PA si conforma al parere della CPPO

La controversia conosciuta dai Giudici di Palazzo Spada riguarda il mancato riconoscimento ai fini dell’equo indennizzo della dipendenza di una malattia da causa di servizio; in particolare, nel negare il riconoscimento, l’Amministrazione datrice di lavoro si era conformata al parere (negativo) espresso dalla C.P.P.O. e discostata dal parere (favorevole al riconoscimento) della C.M.O.

Ad avviso del Consiglio di Stato, la delibera di rigetto è legittima.

Come chiarito dopo iniziali oscillazioni dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, il Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie (C.P.P.O.) esprime un giudizio conclusivo che rappresenta il momento di sintesi e di finale ponderazione dei giudizi espressi da altri organi precedentemente intervenuti, quale la Commissione medica ospedaliera, e costituisce un parere di carattere più articolato e complesso, sia per la sua composizione, essendo presenti nel Comitato soggetti con professionalità mediche, giuridiche ed amministrative, sia per la più completa istruttoria esperita, non limitata soltanto agli aspetti medico-legali”.

Pertanto l'amministrazione datrice di lavoro è tenuta a motivare le ragioni per le quali, eventualmente, decide di discostarsi dal parere del C.P.P.O., ma ben può rinviare per relationem al parere espresso dal Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie, mentre una motivazione specifica e puntuale è dovuta nei soli casi in cui l'amministrazione, in base ad elementi di cui disponga e che non siano stati vagliati dal C.P.P.O. ovvero in presenza di evidenti omissioni e violazioni delle regole procedimentali, ritenga di non poter aderire al parere del predetto consesso”. TM



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Inserito in data 31/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 25 luglio 2013, n. 18079

Contratti bancari: ammesso interrogatorio formale per prova simulazione relativa

Nei contratti bancari la forma scritta è richiesta ad substantiam, a pena di nullità relativa, e quindi rilevabile solo dal cliente. Questo si ricollega a finalità di protezione esclusiva di uno dei contraenti, esposto alle conseguenze di una condizione di asimmetria informativa e di disequilibrio contrattuale desumibili in via generale dalla natura del contratto, dall'elevato tasso tecnico delle pattuizioni e dalle condizioni soggettive dei contraenti.

Da ciò consegue l'inapplicabilità dell'orientamento che esclude l'ammissibilità dell'interrogatorio formale ai fini della prova dell'accordo dissimulato nella simulazione relativa in ordine a contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam. Infatti, ove, come nella specie, non si applichi il rigoroso regime giuridico derivante dalla necessità della forma scritta ad substantiam, le limitazioni poste dal secondo comma dell'art. 1417 cc non riguardano l'interrogatorio formale, ma sono limitate alla prova testimoniale e a quella per presunzioni, essendo l'interrogatorio formale un mezzo di prova diretto ad ottenere l'effetto legale tipico della confessione. È stato poi precisato che, attraverso le risposte date dall'interessato in sede di interrogatorio formale, può essere utilmente acquisita sia la prova piena che un principio di prova, nel caso in cui le risposte siano tali da rendere verosimile la simulazione, con la conseguenza di rendere ammissibile la prova testimoniale in deroga al normale divieto. CDC




Inserito in data 31/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 luglio 2013, n. 4016

Irrilevanza dell’esiguità dei tempi di valutazione dei candidati

Con la sentenza è stato rigettato, fra i motivi del ricorso, quello relativo all’esiguità dei tempi di valutazione dei profili curriculari dei candidati ad un concorso pubblico. Ciò si fonda sull’orientamento giurisprudenziale che esclude il carattere di per sé invalidante della brevità dei tempi con cui la commissione d’esame abbia svolto le valutazioni, quantomeno nei casi in cui la tempistica risultante dai verbali non sia palesemente incompatibile con un esame esaustivo e approfondito dei profili curriculari dei candidati.

In particolare, si è affermato che non è sindacabile la congruità del tempo dedicato dalla commissione giudicatrice alla valutazione delle prove d'esame dei candidati. Manca, infatti, una predeterminazione, sia pure di massima, ad opera di legge o di regolamento, dei suddetti tempi; inoltre, non è possibile, di norma, stabilire quali concorrenti abbiano fruito di maggiore o minore considerazione e se, quindi, il vizio dedotto infici in concreto il giudizio contestato; infine, i calcoli sono scarsamente significativi se effettuati in base ad un computo meramente presuntivo, derivante dalla suddivisione della durata di ciascuna seduta per il numero dei concorrenti o dei titoli o delle pubblicazioni esaminate. CDC



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Inserito in data 30/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 29 luglio 2013, n. 17

Revoca finanziamenti non riconosciuti direttamente dalla legge: giurisdizione G.A.

Il giudice remittente aveva ipotizzato una rimeditazione dell’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, che attribuisce al giudice ordinario la giurisdizione per la revoca dei provvedimenti con i quali siano concesse delle agevolazioni finanziarie.

Con l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria, il giudice a quo rilevava che “il potere di autotutela dell’amministrazione, esercitato con un atto di revoca (o di decadenza), in base ai principi del contrarius actus, incide di per sé su posizioni d’interesse legittimo (come si evince dalla pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato attinente ai casi in cui una concessione di un bene pubblico o di un servizio pubblico sia ritirata per qualsiasi ragione, anche nell’ipotesi d’inadempimento del concessionario”, inoltre, “l’art. 7 c.p.a. dispone che il giudice amministrativo ha giurisdizione nelle controversie “riguardanti provvedimenti, atti … riconducibili anche mediatamente all’esercizio” del potere pubblico (e non è dubbio che il provvedimento di ritiro di un precedente atto autoritativo a sua volta abbia natura autoritativa)”.

Nonostante l’indubbia rilevanza e le suggestive argomentazioni prospettate, l’Adunanza Plenaria ha omesso di pronunciarsi sulla questione dichiarandola non rilevante ai fini del giudizio in questione.

Invero, è stato precisato che occorre operare una distinzione tra le agevolazioni la cui concessione è puntualmente regolata dalla legge, dovendo la p.a. limitarsi a verificare la sussistenza dei requisiti dai quali la legge fa discendere il diritto stesso (attività del tutto carente di discrezionalità) e “quelle in cui la legge attribuisce invece alla p.a. il potere di riconoscere l'ausilio, previa valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati in relazione all'interesse pubblico primario apprezzando discrezionalmente l'an, il quid ed il quomodo dell'erogazione”.

A seconda che si rientri nella prima o nella seconda ipotesi, infatti, la giurisdizione in materia spetterà al giudice ordinario ovvero al giudice amministrativo.

Con riguardo al caso specifico si trattava di finanziamenti, previsti dal D.L. 22 ottobre 1992, n. 415, art. 1, comma 2, la cui concessione non era riconosciuta direttamente dalla legge, in conformità a criteri puntualmente individuati, pertanto la controversia apparteneva alla giurisdizione del giudice amministrativo, a nulla rilevando, dunque, la questione, rimessa con ordinanza, con la quale si metteva in discussione la validità dell’assunto con quale si attribuiscono al giudice ordinario le controversie concernenti la revoca della concessione di sovvenzioni a seguito d’inadempimento del concessionario.

La P.A., infatti, nel caso oggetto d’esame, avrebbe rilasciato il provvedimento definitivo di concessione della sovvenzione solo a seguito della valutazione della rendicontazione di spesa, operando una scelta discrezionale sull’ammissibilità di alcune spese rendicontate. VA



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Inserito in data 30/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 luglio 2013, n. 3977

L’applicazione dell’art. 84, u.c. Codice Appalti è facoltativa

Il Consiglio di Stato., pronunciandosi in merito all’impugnazione di una sentenza che aveva ritenuto illegittima la decisione di rinnovo della commissione giudicatrice di una gara di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ha fornito un’interpretazione elastica dell’art. 84, u.c. del D.lgs n. 163/2006.

La norma in questione prescrive che <<in caso di rinnovo del procedimento di gara a seguito di annullamento dell’aggiudicazione o di annullamento dell’esclusione di taluno dei concorrenti, è riconvocata la medesima commissione>>.

I giudici di Palazzo Spada, tuttavia, hanno affermato che la scelta di riconvocare la medesima commissione costituisce una mera facoltà della stazione appaltante, e non un obbligo, invocando a sostegno di tale assunto la ratio sottesa alla norma stessa.

Il dettato normativo sopra esposto, infatti, “ha tra i suoi scopi quello di tutelare il buon andamento e la celerità delle operazioni valutative della amministrazione là dove la conoscenza degli atti e delle operazioni già effettuate potrebbe giovare alla celere rinnovazione del procedimento […]sempre che ciò non si risolva nella compromissione della garanzia di imparzialità” (cfr. C.d.S. III n.1409 del 13.3.2012). […] La finalità della attribuzione alla stessa commissione delle operazioni da rinnovare è quindi quella di evitare che venga disperso […] il patrimonio di conoscenze e valutazioni legittimamente maturate dalla commissione nella fase pregressa in nome di un principio di economicità e di efficienza dell’azione amministrativa anche al fine di evitare giudizi differenziati nei confronti dei concorrenti, ma la disposizione non vieta la sostituzione della commissione là dove la nomina di una nuova sia garanzia di serenità di giudizio”.

Pertanto, seguendo l’esposto iter argomentativo, e in considerazione della situazione di fatto caratterizzata dall’assenza di un provvedimento di annullamento e dal marcato clima di sfiducia generato dalle numerose anomalie dell’operato della prima commissione, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima ed adeguatamente giustificata la scelta di procedere ad una nuova e diversa nomina della commissione giudicatrice. VA



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Inserito in data 29/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 luglio 2013, n. 3979

Rigetto istanza di rinnovo della licenza all’uso delle armi; giudizio di affidabilità

Il Collegio conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consueto in tema di uso delle armi.

Ritiene, infatti, che la relativa licenza possa essere negata anche in assenza di sentenza di condanna per specifici reati, quando, per circostanze legate alla condotta dell’istante, manchi la presumibile certezza della completa affidabilità dello stesso.

Si tratta di una valutazione tendente a valorizzare, il più possibile, l’oggettività dei fatti che, pur privi di un’estrema rilevanza penale, siano tali da far desumere una potenziale pericolosità sociale del soggetto e, pertanto, un possibile non corretto uso delle armi.

In considerazione di ciò, quindi, non appare sproporzionato, né inconferente il giudizio posto alla base del diniego al rinnovo, emesso dall’Amministrazione, odierna appellante.

Riguardo al caso di specie, infatti, la valutazione è comunque correlata a comportamenti precedenti dell’istante, che hanno spinto a pensare ad una condotta di vita non del tutto regolare, poco improntata alla osservanza delle norme penali e di tutela dell’ordine pubblico.

Ben si comprende, quindi, l’accoglimento dei motivi di gravame, in sintonia con un giudizio di inaffidabilità, correttamente supportato e non inficiato da vizi logici. CC



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Inserito in data 27/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 24 luglio 2013, n. 236

Illegittimità costituzionale art.9, c.4, d.l. 95/2012 sulla soppressione di enti strumentali

È stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.9, comma 4, del decreto legge 6 luglio 2012 n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito dalla Legge 7 agosto 2012 n. 135, poiché, contemplando l’automatica soppressione di tutti gli enti strumentali degli enti locali, impedisce che questi possano essere in grado di svolgere anche le funzioni eventualmente conferite ai medesimi dal legislatore regionale.

Il legislatore statale, infatti, decorso il termine di nove mesi dalla data di approvazione del decreto legge, sopprime indistintamente tutti gli enti strumentali che svolgano funzioni fondamentali o comunque conferite di Province e Comuni, senza che questi possano essere esattamente individuati.

I soggetti destinatari di tale norma, da quanto emerge, sono connotati da un alto grado di incertezza.

Difatti, lo stesso legislatore statale ha considerato necessario un procedimento concertato per la complessiva ricognizione degli enti, delle agenzie e degli organismi, comunque denominati e aventi qualsiasi natura giuridica, da sopprimere o accorpare, individuando altresì dei criteri ben precisi nonché le tempistiche ai fini dell’attuazione della norma.

Emerge, dunque, la vasta contraddittorietà della disposizione in oggetto che, infatti, da un lato prevede la soppressione ex lege di tutti gli enti, qualsiasi forma essi posseggano, allo scadere del termine di nove mesi dall’approvazione del decreto legge; dall’altro non tiene in considerazione la previsione di cui ai commi 2 e 3, essenzialmente diretta ad istituire un procedimento volto alla ricognizione di tali enti ed alla individuazione dei criteri e della tempistica per attuare la norma coinvolgendo le autonomie locali.

Infine, alla luce di quanto argomentato, emerge che la difficoltà nell’individuazione di quali siano gli enti strumentali effettivamente soppressi, nonché la necessità, per gli enti locali, di riorganizzare i servizi e le funzioni che vengono svolte, rendono l’art.9, c.4, del d.l. n. 95 del 2012, una disposizione palesemente irragionevole. GMC

 

 



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Inserito in data 27/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 23 luglio 2013, n. 17869

Quietanza di pagamento: natura giuridica e regime di efficacia probatoria

La questione in oggetto concerne una problematica inerente alla quietanza di pagamento. Ci si domanda, infatti, se, ai fini della ammissibilità della prova per testi, la quietanza di pagamento possa o meno essere assimilabile, quanto alla sua natura giuridica ed al regime di efficacia probatoria, alla disciplina della simulazione o dell’atto avente natura confessoria.

Infatti, a seconda della natura che essa riveste, se viene ricondotta alla simulazione, la caducazione dell’atto potrebbe avvenire solamente alla luce degli artt. 1414 (Effetti della simulazione tra le parti) e 1417 (Prova della simulazione) del codice civile; se si considera la quietanza, invece, come avente natura di confessione stragiudiziale, è possibile far valere, invece, i limiti di impugnativa stabiliti dall’art. 2732 c.c.

Alla questione della qualificazione in senso stretto, la quale riveste una preminente importanza alla luce di una possibile classificazione, si ricollega altresì quella riguardante l’individuazione delle prove che possono essere richieste dalle parti ed ammesse dal giudice ai fini dell’accertamento della non veridicità della quietanza. GMC




Inserito in data 25/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 24 luglio 2013, n. 237

È illegittima per eccesso di delega la soppressione del Tribunale di Urbino

Nella sentenza in epigrafe, la Corte costituzionale è stata chiamata a verificare la legittimità costituzionale sia della disposizione di delega contenuta nell’art. 1, comma 2, della legge n. 148 del 2011, che dei decreti legislativi che vi hanno dato attuazione, nella parte in cui hanno disposto la soppressione dei alcuni uffici giudiziari. La ratio di tale intervento legislativo era riorganizzare la distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari allo scopo di realizzare risparmi di spesa e incremento di efficienza.

In primo luogo, si esclude l’illegittimità costituzionale ex artt. 70, 72 e 77 Cost., addotta per il fatto che la delega è stata aggiunta nella legge di conversione n. 148/11, mentre non era presente nel decreto legge originario. Infatti, la giurisprudenza costituzionale ammette gli emendamenti al decreto legge, operati in sede di conversione e in mancanza dei presupposti di necessità e urgenza, purché omogenei rispetto allo scopo o all’oggetto dell’atto normativo in cui s’inseriscono; nel caso di specie, la legge delega è omogenea alla ratio del decreto legge oggetto di conversione, poiché quest’ultimo era teso alla stabilizzazione finanziaria e, in particolare, alla razionalizzazione e monitoraggio della spesa pubblica.

Secondariamente, si esclude l’illegittimità costituzionale ex art. 72, c. 4 Cost., atteso che i regolamenti parlamentari prevedono la cd. riserva di Assemblea oltre che per le leggi delega, anche per le leggi di conversione.

Inoltre, non convince il Giudice delle Leggi neppure la censura di violazione dell’art. 72 Cost. per mancata discussione e votazione articolo per articolo della legge delega, a causa dell’apposizione della questione di fiducia: infatti, la Corte costituzionale ha già chiarito che il precetto costituzionale risulti soddisfatto sebbene la discussione e la votazione si siano concentrate sull’unico articolo del disegno legge di conversione.

In terzo luogo, la Corte costituzionale reputa fondata una delle censure sollevate, tra quelle motivate sull’eccesso di delega legislativa: id est, la soppressione del Tribunale ordinario di Urbino ad opera dell’art. 1, allegato A, del d.lgs. n. 155/2012. In particolare, ad avviso della Corte, “La norma impugnata, nello stabilire la soppressione di tale tribunale, ha violato il criterio direttivo di cui all’art. 1, comma 2, lettera a), che stabilisce la necessità di garantire la permanenza del tribunale ordinario nei circondari di comuni capoluogo di provincia alla data del 30 novembre 2011. Tale è la condizione del Tribunale e il contrasto non può essere superato in via interpretativa, come erroneamente prospettato nella scheda tecnica allegata alla relazione allo schema del decreto legislativo n. 155 del 2012, atteso il chiaro tenore inderogabile della delega”. Viceversa, la scelta di eliminare altri uffici giudiziari (Tribunali ordinari di Pinerolo, Alba, Montepulciano, Sala Consilina e Sulmona) è costituzionalmente legittima, in quanto espressione dell’esercizio ragionevole della discrezionalità che la legge delega attribuiva al governo e conforme ai criteri e ai principi dettati dalla legge delega.

Infine, la Corte costituzionale respinge le censure di incostituzionalità delle leggi impugnate nel loro complesso, per violazione degli artt. 3. (stante ragionevolezza sia della delega, i cui criteri sono chiari e uniformi per tutto il territorio nazionale, che dei d.lgs., le cui scelte sono motivate in base alle differenti situazioni degli uffici giudiziari interessati), 24 (attesa la mera compressione del diritto alla tutela giurisdizionale giustificata dalle preminenti esigenze di risparmio di spesa pubblica), 25 (atteso che è giudice naturale quello precostituito dalla legge), 27 (poiché permangono le preesistenti garanzie per le persone detenute), 97 (considerato che scopo della legge impugnata è proprio il buon andamento dell’amministrazione), 81 Cost. (posto che la legge impugnata espressamente stabilisce che da essa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e anzi detta legge è tesa alla realizzazione di risparmi di spesa). TM



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Inserito in data 25/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 22 luglio 2013, n. 17781

L’istanza di mediazione impedisce la decadenza del diritto all’equo indennizzo ex Legge Pinto

La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla corretta interpretazione dell’art. 4, L. n. 89/01 (Legge Pinto), disposizione che prevede un termine semestrale, decorrente dalla definizione del processo durato per tempo irragionevole, entro cui proporre la domanda di riparazione del danno da irragionevole durata del processo.

Anzitutto, chiarisce che, ex art. 2969 c.c., il giudice può rilevare d’ufficio il mancato rispetto di tale termine, poiché esso è espressamente qualificato come termine di decadenza e concerne l’azione a tutela del diritto indisponibile alla ragionevole durata del processo.

Poi, stante la natura processuale della decadenza de qua, la Cassazione afferma che per tale termine trova applicazione la sospensione feriale prevista dalla L. n. 742/1969.

Infine, la Corte di Cassazione statuisce l’applicabilità della mediazione alle cause in tema di risarcimento del danno da irragionevole durata del processo, ex art. 2, c.1, d.lgs. n. 28/10; infatti, le predette controversie non hanno ad oggetto diritti indisponibili, stante la necessita di non confondere il diritto alla durata ragionevole del processo (indisponibile) dal diritto all’equo indennizzo del danno da irragionevole durata del processo (diritto patrimoniale e disponibile). Pertanto, a mente dell’art. 5, c.6, del d.lgs. n. 28/10 (disposizione non dichiarata incostituzionale dalla sentenza n. 272/12 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del d.lgs. n. 28/10 laddove prevedeva ipotesi di mediazione obbligatoria), l’istanza di mediazione impedirà per una sola volta la decadenza dall'azione a tutela del diritto su cui si è tentata la conciliazione, con conseguente onere di proporre la domanda giudiziale entro sei mesi dal deposito del verbale negativo di conciliazione presso la segreteria dell’organismo.

In risposta all'apposito quesito posto dall'ordinanza della sezione semplice, si afferma, perciò, il seguente principio di diritto: “anche se la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 5 primo comma del D.Lgs. n. 28 del 2010, di cui alla sentenza del 6 dicembre 2012 n. 272 della Corte Costituzionale ha escluso la obbligatorietà della mediazione in ogni controversia civile e commerciale vertente su diritti disponibili e se la mediazione non costituisce più condizione di proponibilità della domanda, resta fermo l'effetto della istanza di mediazione d'interruzione della prescrizione e di impedimento per una sola volta della decadenza dal diritto di agire per equa riparazione, essendo rimasta ferma l'applicazione del D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 6, che non è stato dichiarato in contrasto con la carta costituzionale ed è coerente agli intenti deflattivi del contenzioso giudiziario della disciplina legale della mediazione stessa”. TM




Inserito in data 24/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 23 luglio 2013, n. 232

Illegittimo imporre custodia cautelare in carcere per violenza sessuale di gruppo

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, cpp, nella parte in cui impone l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per il delitto di violenza sessuale di gruppo (art. 609-octies cp).

Si premette che, alla luce dei principi costituzionali di riferimento (inviolabilità della libertà personale e presunzione di non colpevolezza), la disciplina delle misure cautelari deve essere ispirata al criterio del minore sacrificio necessario. Ciò impegna il legislatore a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della pluralità graduata, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, ed a prefigurare criteri per scelte individualizzanti del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. Per contro, le presunzioni assolute di adeguatezza di un tipo di misura cautelare violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati; l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.

Dalle coordinate appena esposte si discosta la disciplina in esame, che pone una presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. Infatti, sebbene nel delitto di violenza sessuale di gruppo vi sia una particolare intensità della lesione del bene della libertà sessuale, ciò non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata. Invero, la presunzione assoluta di cui si discute non è rispondente ad un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura ed alle connotazioni criminologiche della figura criminosa, non trattandosi di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente ad un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità, vincolo che solo la misura della custodia cautelare in carcere risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere.

Tuttavia, ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che nega la rilevanza del principio del minore sacrificio necessario. Invece, una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria non eccede i limiti di compatibilità costituzionale; non sarebbe dunque censurabile l’apprezzamento legislativo circa la configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso.

Pertanto, si dichiara l’illegittimità costituzionale della norma censurata, per contrasto con gli artt. 3, 13 e 27 Cost, “nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 609-octies cp, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. CDC



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Inserito in data 24/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, 19 luglio 2013, n. 17773

Disconoscimento di paternità: ammissibilità delle testimonianze de relato

Preliminarmente, la Suprema Corte precisa che occorre distinguere l’azione di disconoscimento di paternità da quella di dichiarazione giudiziale di paternità (e maternità). In quest’ultima, il favor veritatis “sorregge un nucleo di diritti inviolabili della persona umana, quali quello alla genitorialità e ad uno dei profili costitutivi della propria identità personale del quale il richiedente è stato privato per effetto del mancato riconoscimento”. Nell'altra azione, invece, in caso di esito positivo si determina l'eliminazione di uno status e di un complesso di diritti. Dunque, mentre in un caso la condizione filiale viene fortemente potenziata, nell’altra si determina la privazione sopravvenuta dello status di figlio legittimo ex patre per cause estranee alla sfera di volontà e responsabilità del soggetto destinato a subire gli effetti dell'azione.

Da ciò deriva che non può esservi una perfetta coincidenza dei requisiti probatori delle due azioni, pur dovendosi dare atto del progressivo, crescente rilievo che i mezzi di prova univocamente indicativi della discendenza biologica, ed in particolare la prova ematologica, hanno assunto in entrambe le azioni.

In particolare, la sentenza n. 266 del 2006 della Corte Costituzionale ha escluso la necessità della pregiudiziale prova dell'adulterio al fine di accedere alla prova ematologica e ha così fortemente valorizzato la rilevanza e la preminenza di tale accertamento probatorio. Pertanto, la prova ematologica ha acquisito un rilievo crescente in giurisprudenza, in considerazione del suo alto grado di affidabilità. Si è affermato, dunque, che il giudice di merito deve procedere agli accertamenti genetici anche in mancanza di prova dell'adulterio, traendo argomenti di prova ex art. 116 cpc dall'eventuale rifiuto di una parte di sottoporsi al prelievo.

Ciò non esclude, tuttavia, l'esigenza di “procedere all'accertamento istruttorio dell'intervenuto adulterio, essendo l'azione di disconoscimento di paternità consentita soltanto in presenza di condizioni tipizzate e non suscettibili d'interpretazione analogica”. Al riguardo, le circostanze di fatto afferenti la sfera intima dei rapporti interpersonali, quali quelle riguardanti relazioni esclusive a carattere sentimentale e sessuale, sono difficilmente accertabili mediante prova diretta. Pertanto, è particolarmente ampio il ricorso alla prova presuntiva, ma anche alle deposizioni testimoniali che abbiano ad oggetto fatti acquisiti de relato, che sono idonee ad integrare, unitamente ad altri elementi di prova indiziari valutabili ex art. 116 cpc, il quadro probatorio "utilizzabile" dal giudice del merito. CDC




Inserito in data 23/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 luglio 2013, n. 223

Le regole sulla riassunzione sono applicabili anche agli arbitrati

La Corte Costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 813-ter comma 2 c.p.c. nella parte in cui prevede che l’art. 50 c.p.c., il quale fa salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda originariamente proposta al giudice incompetente, non trovi applicazione nei rapporti tra arbitrato e processo.

A giudizio della Corte, infatti, la norma in questione, sì come descritta, violerebbe gli art. 3, 24 e 111 Cost.

Nel fornire le argomentazioni a sostegno della propria decisione il Giudice della Corte Costituzionale ha ripercorso brevemente l’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’arbitrato, anche attraverso il richiamo a precedenti pronunce della medesima.

In particolare la Corte ha rilevato come “l’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto l’aspetto considerato, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie […[ ed è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione» (sentenza n. 376 del 2001).

Da queste considerazioni conseguirebbe l’applicazione dei principi generali del nostro ordinamento anche a quest’ultimo rimedio giustiziale e, per quanto interessa nel caso specifico, della tutela del diritto di difesa e del giusto processo (rispettivamente artt. 24 e 111 Cost.). Pertanto “l’individuazione del giudice munito di giurisdizione non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa. Da tale constatazione discende, tra l’altro, la conseguenza della necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione” ed essendo, come già detto, l’arbitrato un rimedio previsto dall’ordinamento italiano e rimesso alla libera scelta delle parti, non si può escludere l’applicazione dell’art. 50 c.p.c. senza introdurre un potenziale rischio del diritto di difesa delle situazioni giuridiche soggettive quale, ad esempio, proprio la mancata conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

Priva di merito, dunque, appare anche l’ isolata interpretazione unidirezionale della Cassazione secondo la quale l’art. 819-ter secondo comma c.p.c. riguarderebbe solo il caso in cui siano gli arbitri ad escludere la loro competenza ed a riconoscere quella del giudice ordinario e non la diversa ipotesi in cui sia il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza a beneficio di quella degli arbitri (v. ordinanza n. 22002 del 2012). VA



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Inserito in data 23/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 19 luglio 2013, n. 17713

Illegittimo licenziamento per rifiuto di svolgere mansioni superiori

La Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla legittimità del licenziamento del dipendente che si sia rifiutato di svolgere mansioni superiori, esulanti dalla propria qualifica, a causa delle maggiori responsabilità, anche in ambito penale, che da queste derivavano.

Il Supremo Consesso ha affermato che, nel valutare la legittimità o meno del provvedimento disciplinare, sfociato nel licenziamento del dipendente, si deve tenere in debita considerazione il comportamento complessivo da questi tenuto.

Invero, laddove  il rifiuto opposto sia supportato da valide motivazioni e, come nel caso di specie, dipenda anche dal comportamento scorretto del datore di lavoro (che nel caso de quo aveva omesso di specificare le ragioni che giustificavano il trasferimento del dipendente) non può essere addotto come valido motivo di licenziamento in tronco.

Più precisamente, il collegio ha affermato che “il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di essere addetto a mansioni non spettanti può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive […] sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede”.

Il riscontro di quanto affermato in via di principio era stato rinvenuto nelle molteplici sollecitazioni mosse dal dipendente al fine di ottenere dei chiarimenti in merito alle cause che rendevano necessario lo svolgimento delle mansioni superiori, nonché dei maggiori rischi di responsabilità penale (considerati gli avvenimenti pregressi che lo avevano visto parte di procedimenti penali e la normativa vigente nel settore alimentare in seguito all’adeguamento alle direttive comunitarie). VA




Inserito in data 22/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 19 luglio 2013, n. 3924

Assegnazione alloggi di edilizia residenziale pubblica. Profili di giurisdizione

Il Collegio sancisce il proprio difetto di giurisdizione in ordine alla regolarizzazione ed alla corresponsione del canone locatizio, sia pure sorto nell’ambito di un contratto proveniente da un Ente di assistenza.

In particolare, ripercorrendo l’iter logico – argomentativo seguito dalla nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 204 del 6 luglio 2004, i Giudici evidenziano come in tale sede si versi, comunque, nell’oggettivo schema civilistico della locazione e le controversie da esso insorgenti spettino, pertanto, alla giurisdizione ordinaria.

Si tratta, infatti, di vicende successive allo schema di assegnazione dell’alloggio popolare ove, come è noto, non si configura alcun atto autoritativo in presenza del quale sarebbe stato corretto il radicarsi della giurisdizione amministrativa, come addotto dal primo Collegio.

Si tratta, infatti, di beni appartenenti al patrimonio disponibile di un Ente, il cui godimento è stato concesso a terzi dietro un corrispettivo (nella specie: canone locativo), del quale, peraltro, si è disposto l’aumento. E’ evidente, dunque, la natura assolutamente negoziale della vicenda contestata e, pertanto, la corretta devoluzione all’AGO.

Infatti, indipendentemente del nomen iuris che le parti abbiano dato al rapporto e a parte ogni indagine soggettiva sull’effettiva natura di un’istituzione pubblica di assistenza e beneficienza come quella in esame (Cfr. Corte cost., 7 aprile 1988, n. 396 e d. lgs. 4 maggio 2001, n. 207), il Collegio ribadisce come si versi, ugualmente, nell’oggettivo schema civilistico della locazione e l’appartenenza, quindi, della presente controversia alla giurisdizione ordinaria. CC



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Inserito in data 22/07/2013
CORTE DI GIUSTIZIA UNIONE EUROPEA - CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE, CAUSE RIUNITE C-199/12, C-200/12, C-201/12, 11 luglio 2013

Vessati per omosessualità: diritto ad asilo

Importante e degna di nota la posizione cui giunge l’Avvocato generale nelle proprie conclusioni, dinanzi alla Corte di Giustizia di Lussemburgo, in merito a questioni sorte ai fini dell’ottenimento dello status di rifugiato.

Più nel dettaglio, la vicenda sorge dal fatto che singoli soggetti, tutti di differente provenienza, lamentino atti persecutori a proprio carico in ragione del proprio orientamento sessuale.

L’Avvocato specifica che non è persecutorio il fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali nel Paese d'origine dei richiedenti, bensì invita le Autorità nazionali a vagliare la probabilità che ciascuno possa essere sottoposto ad atti qualificabili come persecutori, proprio in considerazione di scelte appartenenti esclusivamente alla propria sfera privata.

Tanto è accaduto nelle vicende in esame. Infatti i richiedenti, effettivamente vessati nei Paesi di appartenenza, hanno diritto ad ottenere lo status di rifugiato, giacchè costituiscono un "particolare gruppo sociale" ai sensi della normativa Ue, e quindi ne hanno diritto. CC



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Inserito in data 21/07/2013
TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZ. I, 17 luglio 2013, n. 3726

Confermato il rilievo del principio ex art. 38 DLgs. 163/06, anche post DL 70/11

I Giudici partenopei, richiamando giurisprudenza ormai costante, confermano ulteriormente l’importanza ed il rilievo da attribuire all’articolo 38 del Codice De Lise.

Ricordano, in particolare, come la regolarità contributiva dell’impresa aggiudicataria debba essere costante per tutta la durata della gara, fino al momento dell'aggiudicazione, nonché al momento della stipula del contratto, sussistendo l'esigenza per la stazione appaltante di verificare l'affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa.

Sottolineano, peraltro, l’irrilevanza di un eventuale adempimento tardivo, cui attribuire efficacia retroattiva: si tratterebbe, infatti, di una regolarizzazione postuma che, integrando e modificando l’offerta, finirebbe con il violare il principio della par condicio nei riguardi degli altri concorrenti.

Ed ancora, basandosi su un’interpretazione letterale dell’articolo in esame, il Collegio campano sottolinea l’assoluta ininfluenza circa l’entità del debito contributivo, eventualmente maturato dall’aggiudicataria.

Occorre, in sostanza, perchè si configuri la sanzione espulsiva di cui all’articolo oggi censurato, che sussista una violazione fiscale, prescindendo dall’entità dell’inadempimento tributario contestato; né, tra l’altro, apparirebbe congruo dare spazio alla stazione appaltante circa l’individuazione dell'ammontare dello stesso, oltrechè in merito all’elemento psicologico che ne costituirebbe il fondamento.

Una conferma in tal senso proviene dal Legislatore che  – con il DL. 70/11, conv. con L. 106/11 -  ha statuito l'inserimento del requisito della "gravità," accanto a quello confermato della "definitività" della violazione fiscale, tra i caratteri chiesti al fine di cui all’articolo 38  - 1' co. lett. g) - D.Lgs. 163/06.

Al di là della inapplicabilità ratione temporis – al caso di specie - dello ius superveniens del 2011, quel che è possibile desumere, sia pure indirettamente, è la non rilevanza dell'entità dell'inadempimento tributario.

Ciò che occorre, infatti, è la sussistenza di un debito, indipendentemente dalla consistenza dello stesso, il cui accertamento, peraltro, non spetta alla stazione appaltante, che finisce con il ricavarne solo l’indice di una carente serietà ed affidabilità della ditta in gara.

Sulla base di tutte le suddette argomentazioni, il Tribunale campano esclude l’originario aggiudicatario e, pertanto, dà titolo alla ditta ricorrente, che ha presentato la seconda migliore offerta, di aggiudicarsi l'appalto, alle condizioni di legge. CC



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Inserito in data 21/07/2013
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. III, ORDINANZA 17 luglio 2013, n. 828

Aggiudicazione, aderenza progettazione presentata e diritto ad essere o meno esclusi

Il Collegio lombardo, respingendo la domanda di sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di gara impugnati, evidenzia la carente certezza in ordine all’affidamento dell’incarico di progettazione definitiva ed esecutiva al Raggruppamento ricorrente.

Più nel dettaglio, i Giudici ricordano come non si possa richiedere la perfetta corrispondenza al Documento Preliminare di Progettazione dell’elaborato progettuale – come lamentato dal ricorrente; è possibile, semmai, esigerne una stretta aderenza, trattandosi pur sempre di una progettazione di carattere preliminare.

E’, pertanto, una doglianza non fondata; quindi l’offerta del Raggruppamento aggiudicatario non doveva, né poteva essere necessariamente esclusa dalla procedura, come chiesto dall’odierno ricorrente.

Peraltro, dovendosi tenere conto anche “del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera”, certamente sussistente nel caso di specie in ragione della tempistica legata all’esecuzione delle opere oggetto di progettazione, il Collegio milanese respinge la domanda di sospensiva. CC



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Inserito in data 21/07/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA n. 3896/10, 9 luglio 2013

Ergastolo: è pena degradante e brutale, viola i diritti fondamentali

La Corte di Strasburgo, con la pronuncia in esame, compie un importante passo avanti nella tutela dei diritti fondamentali.

Infatti, accogliendo il ricorso di tre detenuti, i Giudici della Grande Camera sanciscono le condizioni di assoluto degrado e disumanità proprie di chi è condannato ad una pena a vita, senza alcuna speranza di liberazione.

Si tratta, in sostanza, di condizioni di vita inammissibili, specie in un contesto – quale quello attuale - che costantemente si evolve in vista di una tutela piena dei diritti umani fondamentali, riconosciuti e garantiti da una giurisprudenza della Corte EDU ormai costante.

Si aspetta, adesso, che i singoli Stati aderiscano ad una posizione simile, di indubbia portata storica. CC




Inserito in data 19/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 luglio 2013, n. 3917

Lo straniero irregolare che impugna il diniego di emersione ha diritto al gratuito patrocinio

Il Consiglio di Stato s’interroga sulla corretta interpretazione dell’art. 119, d.p.r. n. 115/2002, disposizione che assicura il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, oltre che al cittadino italiano, “allo straniero regolarmente soggiornante sul territorio nazionale al momento del sorgere del rapporto o del fatto oggetto del processo da instaurare”.

Per una parte della giurisprudenza, l’art. 119 predetto non consente di assimilare lo straniero irregolare emerso a quello regolarmente soggiornante; conseguentemente, si ritiene che lo straniero irregolare emerso non abbia diritto al gratuito patrocinio per l’impugnazione del diniego di emersione. Questa lettura è apparsa talmente insuperabile ad alcuni giudici da spingerli a sollevare la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost., questione giudicata inammissibile per difetto di rilevanza dal Giudice delle Leggi.

Invece, un altro orientamento ammette al patrocinio a spese dello Stato lo straniero che impugna il diniego di emersione; ciò in quanto il mancato accoglimento dell’istanza di emersione implica l’espulsione dello straniero istante e, quindi, si rientra nell’ipotesi eccezionale di ammissione al gratuito patrocinio dello straniero irregolare prevista dall’art. 142 d.p.r. n. 115/02 (“processo avverso il provvedimento di espulsione”).

Il Consiglio di Stato propende per questa seconda lettura, in quanto l’unica compatibile con la Costituzione.

In particolare, l’opposta lettura si porrebbe in contrasto con “l’art. 3 della Costituzione:

a) per violazione del principio di ragionevolezza, in quanto scelta irragionevole, che determinerebbe un grave pregiudizio alle concrete possibilità di difesa in giudizio;

b) per violazione del principio di uguaglianza, poiché determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei cittadini extracomunitari i quali si trovino a dover contrastare provvedimenti negativi incidenti sulla possibilità di permanere nel territorio italiano (impugnazione dei dinieghi di rilascio o di rinnovo, nonché di revoca del permesso di soggiorno), giovandosi di una situazione di soggiorno regolare”.

Sarebbe poi in violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, perché in queste norme il diritto alla difesa, declinato tanto in generale quanto in particolare dinanzi agli organi della giustizia amministrativa, è riconosciuto, testualmente, a “tutti”, laddove altre disposizioni costituzionali riconoscono altri diritti fondamentali (solo) al “cittadino”… ne consegue che, se il legislatore ha ritenuto che l’approntamento di una forma di sostegno economico al non abbiente sia un complemento indispensabile del diritto alla difesa, identico trattamento deve essere assicurato allo straniero”. TM



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Inserito in data 19/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 19 luglio 2013, n. 223

La translatio iudicii opera anche nei rapporti tra arbitrato e processo

La Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 819-ter, c. 2, c.p.c. Quest’ultima diposizione prevede che nei rapporti tra arbitrato e processo non si applica, tra l’altro, l’art. 50 c.p.c., ossia la norma che consente di proseguire il processo, inizialmente instaurato dinanzi a giudice incompetente, di fronte a quello dichiarato competente e, quindi, di valutare la tempestività della domanda in base alla data dell’ originario atto introduttivo della lite (piuttosto che facendo riferimento alla data dell’atto di riassunzione).

Preliminarmente, la Corte chiarisce che l’art. 819-ter inibisce l’applicazione dell’art. 50 c.p.c. tanto nei casi in cui è il giudice togato a dichiarare la propria incompetenza in favore dell’arbitro, quanto nell’ipotesi inversa in cui è l’arbitro a dichiararsi incompetente a beneficio dell’autorità giurisdizionale statale.

Nel merito, il Giudice delle Leggi ritiene fondata la q.l.c. sollevata.

Come già riconosciuto da questa Corte (sentenza n. 77 del 2007) gli artt. 24 e 111 Cost. attribuiscono all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ed impongono che la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi si ispiri al principio secondo cui l’individuazione del giudice munito di giurisdizione non deve sacrificare il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa. Da tale constatazione discende, tra l’altro, la conseguenza della necessità della conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda nel caso in cui la parte erri nell’individuazione del giudice munito della giurisdizione”.

Ad avviso della Corte costituzionale, tali principi devono trovare applicazione anche nei rapporti tra arbitri e giudici, perché altrimenti l’opzione legislativa di prevedere il giudizio degli arbitri come un meccanismo di risoluzione delle controversie fungibile con quello giurisdizionale andrebbe a detrimento delle situazioni giuridiche soggettive oggetto delle controversie stesse. TM



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Inserito in data 19/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE PRIMA CIVILE, SENTENZA 17 luglio 2013, n. 17467

Sulla simulazione dell’atto di conferimento di beni in una società di capitali

La pronuncia in esame trae origine dal simulato conferimento di un’azienda in una società di capitali, con contestuale simulata deliberazione di aumento di capitale.

Anzitutto, la Suprema Corte nega l’assimilabilità della fattispecie de qua a quella della simulazione dell’atto costitutivo di società, poiché non si pone un problema di esistenza della società stessa. Ne consegue l’impossibilità di estendere automaticamente l’indirizzo giurisprudenziale che reputa inammissibile la simulazione dell’atto costitutivo delle società di capitali.

Secondariamente, si ricostruisce la fattispecie negoziale sub iudice come un contratto di scambio, ancorché peculiare, in cui il conferimento del bene in società è funzionale al conseguimento (o all’ampliamento) della partecipazione sociale; di conseguenza, affinché vi sia simulazione, non solo deve essere simulata la volontà del conferente che compie l’atto di conferimento, ma anche la volontà della società manifestata con la delibera di aumento di capitale. Pertanto, l’accordo simulatorio deve intervenire tra società e conferente, in quanto parti del negozio simulato.

Poiché il negozio in esame ha delle ripercussioni sull’organizzazione della società, l’organo legittimato ad esprimere (o a simulare) la volontà della società è l’assemblea dei soci, salvo che l’atto costitutivo non attribuisca espressamente tale potere all’amministratore. Di conseguenza, deve escludersi che l’amministratore di una società di capitali possa concludere, nell'esecuzione della delibera di aumento di capitale, un accordo con il socio o il terzo diretto a simulare il conferimento; perciò, l’eventuale controdichiarazione sottoscritta dal conferente e dall'amministratore di società, relativa alla simulazione del conferimento, non sarà opponibile alla società.

In conclusione, la Corte di Cassazione afferma i seguenti principi di diritto:

1) “il conferimento in una società capitalistica già costituita è un atto con il quale il socio o il terzo, sul presupposto di una deliberazione di aumento del capitale sociale, approvata dall'organo competente della società, realizza la sua volontà di partecipare o, se già socio, di aumentare il valore della sua partecipazione alla medesima società, e trova nel collegamento essenziale con quella deliberazione la sua causa negoziale, sicchè le condizioni di validità del conferimento sotto il profilo della sussistenza della volontà non possono essere esaminate indipendentemente da quelle della deliberazione medesima”;

2) “in tema di aumento di capitale deliberato dall'assemblea di una società capitalistica, non è configurabile la simulazione del conferimento in forza di un accordo simulatorio concluso tra il conferente e l'amministratore della società, che, anche qualora sia delegato al compimento delle operazioni necessarie all'esecuzione della deliberazione, non avendo poteri legali di rappresentanza della società medesima negli atti di gestione attinenti all'organizzazione della società, non è legittimato a rappresentarla nella stipulazione di accordi diretti a simulare i conferimenti”. TM




Inserito in data 18/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 luglio 2013, n. 3795

Specificità e precisione delle censure dedotte nei ricorsi elettorali

La sentenza in esame ribadisce che, in materia elettorale, risultano più stringenti le esigenze di specificità e precisione delle censure dedotte con ricorso giurisdizionale amministrativo, a salvaguardia dell’effettiva garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa, nonché della precisa ed univoca individuazione del thema decidendum.

Sono pertanto inammissibili quei ricorsi elettorali che “si limitino ad una formulazione di censure del tutto sfornite di qualsiasi riscontro attendibile, chiamando il giudice ad una verifica dell’intera operazione di scrutinio senza che sia offerto un serio e concreto principio di prova, trasformando impropriamente il ruolo del sindacato giurisdizionale in una mera funzione di ripetizione dello scrutinio elettorale”.

Peraltro, il principio della specificità dei motivi di censura e dell’onere della prova in materia elettorale è attenuato in considerazione della situazione di obiettiva difficoltà in cui si trova il soggetto che ha interesse a contestare le operazioni elettorali illegittime sulla base di dati informativi di carattere indiziario. Pertanto, ai fini dell’ammissibilità del ricorso o delle singole censure, è necessario e sufficiente che “l’atto introduttivo indichi, non in termini meramente astratti, ma con riferimento a fattispecie concrete, la natura dei vizi denunciati, il numero delle schede contestate e le sezioni cui si riferiscono, mentre sono inammissibili le azioni esplorative volte al mero riesame delle operazioni svolte”. CDC



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Inserito in data 18/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 luglio 2013, n. 3802

Limiti al sindacato sui criteri valutativi dell’offerta economicamente più vantaggiosa

Secondo la sentenza, nelle gare pubbliche la formula per la valutazione dell'offerta economica può essere scelta con ampia discrezionalità; di conseguenza, la stazione appaltante dispone di ampi margini nella determinazione non solo dei criteri da porre quale riferimento per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ma anche nella individuazione delle formule matematiche. Da ciò deriva che il sindacato giurisdizionale nei confronti di tali scelte, tipica espressione di discrezionalità tecnico-amministrativa, può essere consentito unicamente in casi di abnormità, sviamento e manifesta illogicità.

Ai sensi dell'art. 83 cod. contr., nonché della direttiva CE 18/2004, il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa non può prescindere dal prezzo. Pertanto, è illegittimo un criterio di valutazione dell'offerta prezzo che, mediante una formula aritmetica, proceda ad uno svuotamento dell’efficacia sostanziale della componente economica dell'offerta. Tuttavia, ciò non può comportare che la circostanza di aver presentato un’offerta economica migliore possa da sola giustificare l’aggiudicazione dell’appalto; infatti, nel metodo di scelta del contraente con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa deve tenersi conto anche dell’offerta tecnica e ben può accadere che possa risultare economicamente più vantaggiosa anche un’offerta che non sarebbe tale se si considerasse solo l’elemento economico. CDC



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Inserito in data 18/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 11 luglio 2013, n. 29789

Distinzione fra il reato di traffico di influenze illecite e quello di corruzione

Secondo la pronuncia, il delitto di traffico di influenze (art. 346-bis cp) si differenzia dal delitto di corruzione perché punisce un comportamento propedeutico alla commissione di un’eventuale corruzione. Pertanto, esso non è ipotizzabile quando sia già stato accertato un rapporto paritario tra il pubblico ufficiale ed il privato.

Ciò si desume dalla clausola di esclusione di cui al primo comma dell’art. 346-bis cp, che pone la condotta dei due soggetti attivi del traffico di influenze illecite (mediatore e compratore di influenze) prima ed al di fuori del patto corruttivo. La condotta sanzionata assume quindi un autonomo rilievo penale, in ragione di una soglia anticipata di tutela voluta dal legislatore.

Inoltre, sul piano strutturale, ulteriore elemento differenziale è la connotazione causale del prezzo, che è destinato nel traffico di influenze a retribuire l’opera di mediazione, non potendo detto prezzo essere destinato, neppure in parte, all’agente pubblico; altrimenti, infatti, si avrebbe un concorso nella corruzione attiva. CDC




Inserito in data 17/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 luglio 2013, n. 3856

Irretroattività della decadenza da carica elettiva per annullamento elezioni

Con la pronuncia in commento i giudici di Palazzo Spada hanno dichiarato l’infondatezza delle censure sollevate dall’appellante, con ricorso ex art. 82 del d.p.r. n. 570 del 1960, avverso la sentenza di primo grado con la quale si dava esecuzione alla sentenza della Cassazione che  acclarava la posizione incompatibilità dell’eletto. La sentenza impugnata aveva preso atto della decadenza del consigliere a partire dalla data di pubblicazione della sentenza, provvedendo alla surrogazione del seggio vacante mediante proclamazione e relativa convalida del primo dei non eletti. L’appellante, tuttavia, sosteneva l’incompletezza e non conformità della stessa al giudicato. Secondo quanto sostenuto dall’appellante, infatti, il giudice avrebbe dovuto dichiarare l’efficacia retroattiva della pronuncia, con relativa corresponsione degli emolumenti previsti per la carica elettiva.

Il Consiglio di Stato, nel respingere il ricorso, ha addotto plurime e consistenti motivazioni.

Il Collegio ha, innanzi tutto, confermato l’assunto del giudice di primo grado con il quale si era rilevato come “non è fissata nel decisum ne é contemplata…la statuizione concernente la decorrenza (retroattiva o meno) della surrogazione ovvero il diritto, che costituisce il punto focale della domanda di giustizia introdotta col corrente giudizio, al trattamento economico previdenziale non fruito dalla sostituita..”, aggiungendo che “quand’anche debba riconoscersi alla surrogazione sancita dalla Suprema Corte naturale valenza retroattiva (…), in ogni caso, resterebbe al di fuori degli effetti dello spettro del giudicato né potrebbe ad esso ricollegarsi in via diretta ed immediata, la definizione della posizione retributiva previdenziale dell’interessata…comportando un’attività interpretativa/integrativa degli obblighi direttamente rivenienti dal giudicato non consentita”.

Ne consegue che il giudice dell’ottemperanza non avrebbe potuto estendere la portata della decisione la quale, peraltro, aveva natura meramente dichiarativa.

Infatti, sebbene il giudice amministravo disponga di poteri più ampi in sede di ottemperanza, potendo in qualche modo sostituirsi al giudice di primo grado, questi sono limitati all’ambito della propria giurisdizione, non potendo esercitare poteri di integrazione “allorché la sentenza sia stata adottata da un giudice appartenente ad un diverso ordine giurisdizionale nell’affrontare una questione rientrante nella giurisdizione di quest’ultimo (cfr., C.g.a. n. 172 del 2012)”.

Il Consiglio di Stato, inoltre, rileva l’eventuale affermazione dell’irretroattivita della decisione contrasterebbe con il principio di conservazione degli atti posti in essere dal consigliere nel periodo precedente la dichiarazione dell’illegittimità delle elezioni. Il consigliere, infatti, si troverebbe in una posizione di “rapporto organico di fatto”  i cui atti posti in essere non sarebbero passibili di nullità ma di conservazione “(v. Tribunale Palermo 21 settembre 2000 che esclude anche l’effetto retroattivo dell’indennità corrisposta a chi ricopre la carica elettiva)”. VA



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Inserito in data 17/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 luglio 2013, n. 3852

Accesso ad atti di affidamento in concessione del servizio gestione rifiuti

Ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. e), l. n. 241/1990 il concetto di pubblica amministrazione ricomprende anche i soggetti di diritto privato “limitatamente alla loro attività di pubblico interesse” tra le quali vi rientra, indubbiamente la gestione dei rifiuti urbani.

Laddove, infatti, a dispetto della veste privatistica del soggetto, una società benefici di “diritti esclusivi” ai sensi dell’art. 106 T.F.U.E., come quello derivante dall’affidamento in via diretta ed in regime di concessione amministrativa del servizio di gestione dei rifiuti urbani, “la strumentalità dell’esonero dalle regole comunitarie in materia di concorrenza rispetto all'adempimento delle missioni di interesse generale, che da tale posizione deriva, è l’indice della “pubblicità” sostanziale dell’ente privato […] in relazione all’attività oggetto di detti diritti esclusivi è infatti configurabile una posizione di supremazia pienamente assimilabile a quelle delle pubbliche amministrazioni tradizionali”

Da queste considerazioni consegue l’applicabilità anche a questi soggetti della normativa in materia di accesso.

Pertanto, dopo aver enunciato il principio generale sopra esposto, il C.d.S. ha analizzato l’eventuale presenza degli elementi fondanti il diritto d’accesso, che ha individuato nelle esigenze di organizzazione della propria attività imprenditoriale (ex art. 41 cost), la quale “non può prescindere dalla previa conoscenza del mercato di riferimento e dagli sbocchi da esso concessi”  ritenendo, di contro, insussistente il rischio di un vantaggio concorrenziale in considerazione dell’esistenza del medesimo diritti in capo alle altre aziende operanti nel settore trattandosi “di atti relativi nel loro complesso a conoscere “gli affidamenti in essere” e dunque i settori astrattamente contendibili, ma non già le future scelte del monopolista”.

Conclude il collegio precisando che l’interesse conoscitivo deve ritenersi attuale anche dopo l’intervento della normativa di liberalizzazione del settore in quanto questa non determina una immediata e generalizzata apertura del mercato, data la permanenza dei rapporti affidati ancora in corso e la possibilità di mantenere l’internalizzazione di alcuni servizi. VA



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Inserito in data 17/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 luglio 2013, n. 3849

Natura prestazioni di attività di studio e valutazione della vulnerabilità sismica

La controversia sulla quale è stato chiamato a pronunciarsi il C.d.S. ha ad oggetto la prestazione di attività di relazione sommaria sulle criticità strutturali degli edifici ospedalieri e conseguente redazione di schede tecniche e relazioni strutturali sulle diagnosi di vulnerabilità sismica e delle relative opere di adeguamento necessarie.

Più specificamente il Collegio ha dovuto esaminare la natura delle prestazioni dedotte in contratto al fine di stabilire se quest’ultimo configurasse un affidamento diretto di appalto pubblico di servizio da assoggettare alle norme di evidenza pubblica e, in particolare, di un contratto avente ad oggetto prestazioni qualificabili come servizi di ingegneria di cui alle voci 8 e 12 dell’allegato II-A al d.lgs. n. 163/2006, nonché la riconducibilità del suddetto contratto allo schema dell’accordo tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 l. n. 241/1990.

Il summenzionato articolo, infatti, “contempla una delle possibili forme di cooperazione tra enti pubblici, comunque imperniato sul carattere “comune” delle attività il cui svolgimento viene con essa disciplinato […]Visti nel prisma del diritto europeo, quindi, gli accordi tra pubbliche amministrazioni previsti dalla legge generale sul procedimento amministrativo sono necessariamente quelli aventi la finalità di disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni elencate nell’allegato II-A alla direttiva 2004/18 di coordinamento degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture”.

Il Collegio, sul punto, ha ricordando le precisazioni con cui la Corte di Giustizia (C 305/08), ha risolto il contrasto tra i principi comunitari ed alcune pronunce del C.d.S. che hanno reputato legittimo l’affidamento a titolo oneroso tra pubbliche amministrazioni di un servizio ricadente tra i compiti di uno degli enti: non è possibile parlare di cooperazione tra enti pubblici per il perseguimento di funzioni di servizio pubblico comune, ma di scambio, laddove l’amministratore si comporti come un operatore economico e percepisca un utile, non limitandosi, dunque, alla rifusione dei costi.

Questo caratteristica costituirebbe l’elemento distintivo tra i c.d. contratti ad oggetto pubblico e contratti privatistici disciplinati ex art. 1321 c.c.

Nel caso sottoposto all’attenzione del C.d.S. il Collegio, dopo aver esaminato le caratteristiche delle prestazioni dedotte in contratto, nonché i termini di quest’ultimo, ha concluso nel senso contrario alla natura di attività comune agli enti e della presenza della logica dello scambio economico: “ne consegue che lo strumento impiegato è estraneo alla logica del coordinamento di convergenti attività di interesse pubblico di più enti pubblici, ma vede uno di questi fare ricorso a prestazioni astrattamente reperibili presso privati; […] notazione fondamentale per escludere, dal punto di vista europeo, che il contratto in contestazione dia luogo ad “una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi”, giacché amministrazione si pone rispetto ad essa nella veste di operatore economico privato, in grado di offrire al mercato servizi rientranti in quelli previsti nell’allegato II-A alla direttiva 2004/18”. VA

 

 



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Inserito in data 16/07/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II TER, 3 luglio 2013, n. 6571

D.I.A. – S.C.I.A.: le forme di tutela

Secondo l’art. 19, comma 6-ter, della Legge n.241/1990, che recita che: “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività si riferiscono ad attività liberalizzate e non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art.31, comma 1, 2 e 3 del D.Lvo 2 luglio 2010, n. 104”, è inammissibile il ricorso avverso la D.I.A. e S.C.I.A.

La prima forma di tutela sancita dall’art.19, comma 6-ter, è rappresentata dalla possibilità che il controinteressato procedimentale all’attività oggetto della D.I.A./S.C.I.A. possa formalmente, in via stragiudiziale, sollecitare la Pubblica Amministrazione al fine che la stessa eserciti i suoi poteri di controllo, verifica, vigilanza, inibizione. Affinché tale circostanza avvenga, il controinteressato, percepita l’immutazione dello stato dei luoghi, deve essersi attivato prontamente presso l’Amministrazione per conoscere il contenuto degli atti inerenti l’esecuzione dei lavori e per segnalare, inoltre, le circostanze che si considerano incompatibili con la pianificazione comunale.

Quanto alla seconda forma di tutela, prevista dall’art.19, secondo cui, dinnanzi all’inerzia dell’amministrazione, il privato può esperire davanti al g.a. un’azione avverso il silenzio-rifiuto ai sensi dell’art.31 c.p.a, è sufficiente la presenza, nell’atto che introduce il giudizio, di tutti gli elementi sostanziali dell’azione volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità della condotta omissiva dell’amministrazione, nonché la declaratoria dell’obbligo di provvedere, così da poter qualificare tale azione ai sensi dell’art.31 c.p.a.

Infine, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 29 c.p.a. in relazione all’art. 111 Cost., il dies a quo del termine per la proposizione del ricorso impugnatorio ricorrerà dalla data in cui il ricorrente sia stato messo nelle condizioni di avere conoscenza degli atti concernenti la pratica del controinteressato, momento in cui è possibile percepire la reale lesività, tenendo in considerazione gli sviluppi procedimentali, il comportamento delle parti, nonché i principi di leale collaborazione, giusto processo e tutela piena ed effettiva che la giurisdizione amministrativa è tenuta a garantire alla luce della Carta Costituzionale e del diritto europeo. GMC



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Inserito in data 16/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 4 luglio 2013, n. 170

Retroattività delle fonti normative non deve contrastare coi valori costituzionalmente protetti

Con tale sentenza, la Corte Costituzionale si sofferma sulla possibilità, per il Legislatore, di ascrivere efficacia normativa alla legge, sottolineando, però, la necessità che la retroattività “non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti”.

Alla luce di quanto premesso, la Corte individua “una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi attinenti alla salvaguardia di principi costituzionali e di altri valori di civiltà giuridica, tra i quali sono ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario”.

Con riferimento, specificamente, alla sentenza qui presa in riferimento, viene dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 37, ultimo periodo, e comma 40, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, riguardante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”, convertito, con successive modifiche, dalla legge n. 111 del 2011, nella parte in cui estende il privilegio, prima concernente solo le imposte dovute per l’anno in corso al tempo del fallimento, nonché per l’anno precedente, anche all’IRES e alle sanzioni, senza limiti temporali e con applicazione retroattiva.

Tale disciplina è stata dichiarata illegittima tanto per la violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza ai sensi dell’art. 3 della Carta Costituzionale, quanto per la violazione dell’art. 117, primo comma, in relazione all’art. 6 della CEDU, a causa del grave pregiudizio che essa arreca alla tutela dell’affidamento legittimo e alla certezza delle situazioni giuridiche, in assenza di motivi imperativi di interesse generale costituzionalmente rilevanti.

Il divieto di retroattività della legge, sancito dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, nonostante rappresenti principio cardine di civiltà giuridica, non nutre quella tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost., che viene riservata, ad esempio, all’ambito penale.

Il legislatore, infatti, nel rispetto di questa previsione, potrebbe emanare delle norme aventi efficacia retroattiva purchè, però, la retroattività possa trovare una consona ed adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale.

La norma retroattiva non può tradire, infine, l’affidamento del privato, a maggior ragione in quei casi in cui viene maturato con il consolidamento di situazioni sostanziali, nonostante la disposizione retroattiva sia dettata, ad esempio, dalla necessità di contenere la spesa pubblica. GMC



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Inserito in data 15/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 9 luglio 2013, n. 182

Illegittimità art. 3 L.R. Abruzzo n. 28/2013 per contrasto coi principi fondamentali in materia di energia

La Corte Costituzionale ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della l. R. Abruzzo n. 28 del 2012 per violazione dell’art. 117, comma 3 della Costituzione, nonché del principio di leale collaborazione.

Prevedendo, infatti, l’incompatibilità a priori tra le zone sismiche del territorio regionale classificate di prima categoria, la localizzazione, nonché realizzazione, dei gasdotti di maggiori dimensioni, viene totalmente sottratta la scelta al confronto, che risulta essere necessario, tra Stato e Regione, pregiudicando il fondamentale principio della intesa e ponendosi, altresì, in contrasto coi principi previsti all’art. 1, comma 7, lettera g), e comma 8, lettera b), n. 2, della l. n. 239 del 2004.

Sono stati dichiarati, inoltre, costituzionalmente illegittimi anche i commi 2 e 3 dell’articolo sopracitato poiché il Legislatore regionale ha negato l’intesa in modo automatico, trascurando le possibili, nonché differenziate, valutazioni che devono essere compiute caso per caso, ed impone il ricorso sistematico alla procedura aggravata, contemplata al comma 6, solamente nel caso di mancato raggiungimento dell’intesa.

Le norme regionali impugnate determinano, in tal modo, una procedura di cooperazione, contraddistinta dalla prevalente volontà di una parte, distinta dall’intesa ed individuata in via ordinaria, invece, dal legislatore statale, quale presupposto necessario ai fini del contemperamento degli interessi dei vari, e diversi, livelli territoriali, che violano l’art. 117, comma 3, Cost. nonché il principio di leale collaborazione.

Con riferimento alla materia, di potestà concorrente, riguardante la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” è stato affermato che “la previsione dell’intesa, imposta dal principio di leale collaborazione, implica che non sia legittima una norma contenente una “drastica previsione” della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso”, ma che siano invece necessarie delle “idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze”, affinché sia possibile rispettare totalmente il principio di leale collaborazione. GMC



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Inserito in data 15/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 10 luglio 2013, n. 17073

Sull’approvazione scritta di clausole vessatorie per contratto redatto da entrambi i contraenti

La Suprema Corte ha stabilito che, nella predisposizione delle condizioni generali del contratto, nonché nella conclusione di contratti mediante moduli e formulari, la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie non è necessaria ogni qualvolta il contratto venga redatto da entrambi i contraenti.

Infatti, alla luce di una giurisprudenza oramai consolidata (ad esempio, Cass. n. 4531/1999, Cass. n. 15385/2000, Cass. 11757/2006, ed altre), la predisposizione unilaterale da parte di un solo contraente del contenuto contrattuale è, secondo lo scopo previsto dagli artt. 1341 e 1342 del codice civile, insufficiente a giustificare, in modo automatico, la loro applicazione al regolamento del negozio giuridico, essendo necessario che questo venga predisposto per essere adottato per una serie indeterminata di rapporti.

La norma prevista all’art. 1341 c.c. non è applicabile nel caso in cui il contratto si sia formato mediante una valutazione compiuta volta per volta dalle parti, di modo che il contenuto di esso rappresenti il risultato di trattative svolte tra le parti stesse al fine di determinare i loro contrapporti interessi. Né tantomeno, si rileva, per configurare l’ipotesi contemplata dalla norma, basta che uno dei contraenti abbia predisposto l’intero contenuto del contratto così che l’altra parte possa solamente accettare o rifiutare senza poter concorrere alla sua formazione, ma è indispensabile che lo schema venga predisposto (così come le condizioni generali) per poter servire ad una serie “indefinita” di rapporti.

Inoltre, è da tenere ben distinta l’attività di formulazione del regolamento contrattuale dalla predisposizione delle condizioni generali di contratto, non potendo considerarsi tali le clausole contrattuali elaborate da uno dei contraenti in previsione e con riferimento ad uno specifico negozio, ed a cui l’altro contraente possa legittimamente richiedere di poter apportare le necessarie modifiche, dopo averne apprezzato liberamente il contenuto.

Infine, possono qualificarsi come contratti per adhaesionem, contratti in cui sussiste l’obbligo della approvazione per iscritto delle relative clausole vessatorie, soltanto quei negozi giuridici destinati a regolare una seria indefinita di rapporti, mentre non sono da considerarsi come tali quelli che vengono predisposti da uno dei due contraenti in previsione ad una specifica vicenda negoziale né tantomeno quelli in cui il contratto venga concluso a seguito di trattative svoltesi tra le parti. GMC




Inserito in data 12/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 luglio 2013, n. 3707

Decadenza e annullamento d’ufficio: la distinzione tra i due istituti

La decadenza è una sanzione che può, e deve, essere applicata a prescindere da ogni valutazione dell’interesse dell’amministrazione; anche se tale interesse dovesse essere inesistente (la falsa documentazione, ad esempio, potrebbe riguardare elementi necessari ai fini dell’ammissione al concorso, ma tuttavia irrilevanti riguardo all’idoneità del soggetto a svolgere le sue mansioni).

Al contrario l’annullamento in autotutela prevede, invece, che venga apprezzato discrezionalmente l’interesse attuale dell’amministrazione ma prescinde, tuttavia, dalla circostanza che al soggetto sia addebitabile o meno una condotta illecita.
Occorre rilevare, infatti, che i presupposti della decadenza non coincidono necessariamente con quelli dell’autoannullamento, e viceversa, che i due istituti presentano delle particolarità proprie e caratterizzanti.

Tuttavia, potrebbe anche accadere che vi siano i presupposti di entrambi; in tale ultima ipotesi non verrà, per tal ragione, meno la doverosità (o, comunque, l’automatismo) della decadenza.
Nel caso di specie, il principio per il quale le graduatorie concorsuali non hanno, in genere, valore a tempo indeterminato, ma possono essere utilizzate solo entro un termine determinato, viene dettato principalmente a tutela dell’interesse dell’amministrazione affinché possano essere assunti dipendenti la cui idoneità all’impiego venga accertata entro un intervallo di tempo particolarmente ristretto.

Rientra, infatti, nelle comuni esperienze, che un candidato, che pure in origine sia stato giudicato idoneo, ma non sia stato assunto e dunque non abbia dato effettiva prova delle sue capacità, non dia più affidamento, quanto meno con uguale certezza, a distanza di un certo lasso di tempo.

Per tal ragione, infatti, la utilizzazione plurima delle graduatorie, peraltro estranea alla disciplina generale del pubblico impiego, t.u. n. 3/1957, anche quando è ammessa, lo è sempre entro margini di tempo ben determinati. GMC



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Inserito in data 12/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 8 luglio 2013, n. 3609

Non è atto politico quello con cui un Comune si esprime circa un progetto di housing sociale

Il Consiglio di Stato ha stabilito che l’atto con il quale un Comune si esprime in ordine ad un progetto di “housing sociale” non è considerabile come atto politico, e dunque svincolato da ogni obbligo di motivazione e sottratto al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo.

Infatti, a tal proposito, un atto soggettivamente e formalmente amministrativo gode di natura politica quando costituisce espressione della fondamentale funzione di direzione nonché di indirizzo politico.

È stato rilevato che alla nozione legislativamente considerata di “atto politico” concorrono due requisiti, uno soggettivo ed uno oggettivo. Occorre, infatti, che si tratti di un atto o, comunque, di un provvedimento emanato dal Governo, e quindi dall’Autorità amministrativa alla quale spetta espletare la funzione di indirizzo politico e di direzione, e che si tratti di un atto emanato nell’esercizio del potere politico, e non nell’esercizio di un’attività meramente amministrativa. Deve concernere, infatti, la costituzione, la salvaguardia ed il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro applicazione.

La manifestazione di interesse relativa ad un progetto di housing sociale non può, di fatto, rientrare tra gli atti politici; pur, infatti, provenendo da un organo di vertice del Comune, esso concerne la localizzazione di un intervento edilizio, ovvero un atto che rientra nella competenza amministrativa dell’Ente.

Questo atto, dunque, per quanto abbia un ambito discrezionale particolarmente elevato, concernendo anche il governo del territorio, è comunque soggetto all’obbligo di motivazione ed al normale regime di legittimità degli atti amministrativi, in quanto l’azione amministrativa deve sempre svolgersi nel rispetto dei principi di buona amministrazione, mediante scelte logiche e razionali che siano oltretutto sempre motivate. Anche se la discrezionalità amministrativa, come detto, dovesse essere ampia, il sindacato del giudice amministrativo potrà censurare i profili di irrazionalità, irragionevolezza, arbitrarietà, travisamento dei fatti e difetto di motivazione. GMC



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Inserito in data 11/07/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. X, C 100/12 del 4 luglio 2013

L’accoglimento del ricorso incidentale non osta all’esame di quello principale

Con la decisione in epigrafe, la Corte di Lussemburgo si pronuncia sulla questione pregiudiziale relativa all’interpretazione della direttiva 89/665/CEE concernente le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori (così come modificata dalla direttiva 2007/66/CE).

In particolare, il giudice del rinvio ha chiesto di valutare la compatibilità dell’orientamento espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/11 in tema di ricorso incidentale coi principi di parità di trattamento, non discriminazione, libera concorrenza e tutela giurisdizionale effettiva, quali recepiti negli articoli 1, paragrafo 1, e 2, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 89/665. Ciò in quanto detto indirizzo giurisprudenziale attribuirebbe all'aggiudicatario un vantaggio ingiustificato rispetto a tutti gli altri operatori economici che hanno preso parte alla procedura di aggiudicazione, qualora risulti che l'appalto gli è stato aggiudicato illegittimamente.

Com’è noto, ad avviso dell’Adunanza Plenaria, “l'esame di un ricorso incidentale diretto a contestare la legittimazione del ricorrente principale, in quanto illegittimamente ammesso a partecipare alla procedura di aggiudicazione controversa, deve precedere l'esame del ricorso principale, anche nel caso in cui il ricorrente principale abbia un interesse strumentale alla rinnovazione dell'intera procedura di aggiudicazione e indipendentemente sia dal numero dei concorrenti che vi hanno preso parte, sia dal tipo di censura prospettata con il ricorso incidentale, sia infine dalle richieste dell'amministrazione interessataIl Consiglio di Stato ritiene infatti che la legittimazione a ricorrere contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico spetti soltanto al soggetto che abbia legittimamente partecipato alla procedura di aggiudicazione. Secondo tale giudice, l'accertamento dell'illegittimità dell'ammissione del ricorrente principale alla procedura avrebbe una portata retroattiva e l'esclusione definitiva di quest'ultimo dalla suddetta procedura comporterebbe che esso si trovi in una situazione che non gli permette di contestare l'esito della procedura stessa. ….Secondo questa giurisprudenza del Consiglio di Stato, l'interesse pratico alla rinnovazione della procedura di aggiudicazione invocato dalla parte che abbia proposto ricorso contro la decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico non attribuisce a quest'ultima una posizione giuridica fondante la legittimazione al ricorso. Tale interesse non si distinguerebbe infatti da quello di qualsiasi altro operatore economico del settore che aspiri a partecipare ad una futura procedura di aggiudicazione.”.

Al fine di risolvere la questione pregiudiziale sollevata, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea adatta i principi di diritto già contenuti in una sua precedente decisione (sentenza HackermUller); in questa decisione si è ritenuto inaccettabile negare all’offerente escluso dal procedimento di aggiudicazione la legittimazione a ricorrere contro il provvedimento di esclusione, dovendosi invece riconoscere lui il diritto di contestare le ragioni dell’esclusione. Analogamente, laddove la mancanza dei requisiti di partecipazione sia contestata con ricorso incidentale proposto dall’aggiudicatario, va esaminato il ricorso principale con cui l’offerente contesta per motivi identici la legittimità della partecipazione dell’aggiudicatario: infatti, ciascun concorrente vanta un interesse legittimo all’esclusione dell’offerta altrui.

Tenuto conto di ciò, la Corte afferma che: “l'articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che se, in un procedimento di ricorso, l'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto e proposto ricorso incidentale solleva un'eccezione di inammissibilità fondata sul difetto di legittimazione a ricorrere dell'offerente che ha proposto il ricorso, con la motivazione che l'offerta da questi presentata avrebbe dovuto essere esclusa dall'autorità aggiudicatrice per non conformità alle specifiche tecniche indicate nel piano di fabbisogni, tale disposizione osta al fatto che il suddetto ricorso sia dichiarato inammissibile in conseguenza dell'esame preliminare di tale eccezione di inammissibilità senza pronunciarsi sulla compatibilità con le suddette specifiche tecniche sia dell'offerta dell'aggiudicatario che ha ottenuto l'appalto, sia di quella dell'offerente che ha proposto il ricorso principale”. TM



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Inserito in data 11/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 luglio 2013, n. 3638

Invalidità ad effetto caducante VS invalidità ad effetto viziante

Per dirimere la controversia sottoposta al suo esame, il Consesso amministrativo si rifà all’indirizzo giurisprudenziale che distingue gli atti amministrativi, facenti parte di un medesimo procedimento e collegati da un nesso di presupposizione, in base all’intensità del nesso di presupposizione; l’intensità del collegamento rileva poiché si riflette in una diversa modalità di propagazione dei vizi di legittimità dall’atto presupposto all’atto conseguenza, potendosi distinguere tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante.

Nel caso dell’invalidità ad effetto caducante, “l’annullamento dell’atto presupposto determina l’automatico travolgimento dell’atto conseguenziale, senza bisogno che quest’ultimo sia stato autonomamente impugnato e siano state vagliate positivamente le censure proposte”.

Invece, nel caso di invalidità ad effetto viziante, ”l’atto consequenziale diviene invalido per vizio di invalidità derivata, ma resta efficace salva apposita ed idonea impugnazione, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto”.

Non è pertanto necessario impugnare l’atto finale, allorché sia stato già impugnato quello preparatorio, solo quando fra i due atti esista un rapporto di presupposizione - consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti; per contro, quando l’atto finale, pur facendo parte della stessa sequenza procedimentale in cui si colloca l’atto preparatorio, non ne costituisca conseguenza inevitabile perché la sua adozione implica nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, anche di terzi soggetti, la immediata impugnazione dell’atto preparatorio non fa venir meno la necessità di impugnare l’atto finale”.

Deve inoltre escludersi il fenomeno della caducazione automatica tra due atti adottati da amministrazioni diverse…, così come la possibilità che gli effetti del giudicato incidano su soggetti che non abbiano partecipato al relativo giudizio perché formalmente non potevano assumere la veste di parte necessaria”.

Trasponendo tali principi al caso di specie, ii Consiglio di Stato ha ritenuto che tra la delibera di Giunta della Regione Campania, con cui erano stati individuati i volumi finanziari massimi delle strutture provvisoriamente accreditate per le diverse branche ambulatoriali e per le case di cura provvisoriamente accreditate, e il provvedimento l’A.S.L. n. 3 di Napoli, che aveva fissato il tetto finanziario per gli anni 2002-2003 per le strutture accreditate, non sussistesse un rapporto di consequenzialità necessaria (invalidità ad effetto caducante); infatti, per un verso, il primo atto lasciava ampia discrezionalità all’ASL nella valutazione degli interessi pubblici sottostanti, per altro verso, tale atto presupposto non era stato integralmente travolto dal giudicato di annullamento. Anzi, poiché la ricorrente non aveva allegato e provato se e in quale misura lo squilibrio tra i tagli nel settore pubblico e in quello privato, causa di annullamento giurisdizionale dell’atto presupposto, si fosse riflesso sul tetto di spesa fissato dall’A.S.L. nell’atto finale, si è ritenuto non ravvisabile neppure un nesso di invalidità derivata (invalidità ad effetto viziante). TM



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Inserito in data 11/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 luglio 2013, n. 3640

L’aliunde perceptum comprende anche le somme percepite a titolo di pensione

La sentenza in esame precisa i diritti spettanti al dipendente pubblico il cui rapporto di lavoro sia stato illegittimamente interrotto o risolto dall’Amministrazione, con atto poi annullato in sede giurisdizionale.

Costituisce jus receptum che, laddove venga annullato in sede giurisdizionale l’atto con il quale l’Amministrazione abbia illegittimamente interrotto o risolto il rapporto di impiego, al dipendente vincitore spetta l’integrale restitutio in integrum nel rapporto medesimo, ai fini sia giuridici che economici, e quindi anche la corresponsione delle competenze retributive relative al periodo di illegittima interruzione del rapporto”.

Peraltro, ciò che è dovuto a titolo di restitutio in integrum sono solo gli emolumenti derivanti da prestazioni ordinarie di lavoro aventi natura di indennità fissa, obbligatoria e continuativa, restando esclusa ogni competenza accessoria che presuppone l’effettività della prestazione di lavoro”.

D’altro canto, il pubblico dipendente, che aspira alla restitutio in integrum agli effetti economici, di un rapporto illegittimamente interrotto, ha l’onere di fornire la prova della mancata percezione di redditi da lavoro da altre fonti nel periodo di illegittimo allontanamento dal servizio …, posto che dall’importo della somma da liquidare a titolo di restitutio in integrum vanno detratti eventuali proventi di altre attività lavorative svolte dal dipendente nel periodo di sospensione…, sia in quanto dette attività siano state rese possibili unicamente dall'interruzione del rapporto stesso, sia in considerazione dell'esigenza di evitare indebite locupletazioni della parte ricorrente vittoriosa”.

Le medesime ragioni, ad avviso del Collegio, inducono a considerare l’aliunde perceptum, se univocamente riconducibile all’illegittima interruzione del rapporto di lavoro, anche qualora derivi non da un’attività lavorativa alternativa ma dal collocamento in pensione”.

Infine, “Ai fini della corretta liquidazione degli importi (cfr. Cons. Stato, A.P., 13 ottobre 2011, n. 18; 5 giugno 2012, n. 18), gli interessi legali e la rivalutazione dovranno essere calcolati separatamente sull'importo nominale del credito retributivo, al netto delle ritenute fiscali e previdenziali, escludendo sia il computo degli interessi e della rivalutazione monetaria sulla somma dovuta quale rivalutazione, sia il riconoscimento di ulteriori interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di interessi”. TM

 

 



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Inserito in data 10/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 luglio 2013, n. 3634

Non c’è obbligo di risposta all’istanza di riesame di provvedimento inoppugnabile

Nella pronuncia in esame si ribadisce che “i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale che l’Amministrazione non ha alcun obbligo di attivare e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse pubblico che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita con provvedimento inoppugnabile”.

Pertanto, quando il privato, o per aver esaurito i mezzi di impugnazione, o per aver lasciato trascorrere senza attivarsi il termine previsto a pena di decadenza, si trovi di fronte ad un provvedimento inoppugnabile, può solo sollecitare l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, che non ha alcun obbligo di rispondere all’istanza di riesame.

Quindi, non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio-rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela. Tale divieto si fonda sull’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. CDC



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Inserito in data 10/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 luglio 2013, n. 3636

Riedizione del potere regolatorio di AAI e teoria dei poteri impliciti

Secondo giurisprudenza costante, il giudice amministrativo può differire gli effetti di annullamento degli atti impugnati, risultati illegittimi, ovvero non disporli affatto, statuendo solo gli effetti conformativi, volti a far sostituire il provvedimento risultato illegittimo. Pertanto, con precedente pronuncia, era stata autorizzata un’Autorità Indipendente, in via interinale e “straordinaria”, al mantenimento degli effetti di una delibera annullata.

Tale eccezionale deroga all’efficacia ex tunc dell’annullamento, con la previsione del mantenimento interinale degli effetti dell’atto impugnato, si giustificava con la necessità di sottoporre la determinazione di una tariffa ad un nuovo esercizio del potere regolatorio, da parte della competente Autorità.

L’esigenza che sia proprio l’Autorità a rinnovare il procedimento è tanto più significativa quanto più si consideri la peculiare natura del suo potere regolatorio. Anche tale potere, definito come “atipico” o “acefalo”, deve essere ricondotto e deve sottostare, come ogni altro, ad un principio di legalità sostanziale. Ciò impone al giudice amministrativo di assicurare che la legittimazione di tale potere rinvenga la sua fonte, al di là delle garanzie partecipative che agli operatori del settore sono attribuite, a livello procedimentale, nella corretta e coerente applicazione delle regole che informano la materia sulla quale incide.

La correttezza, la coerenza, l’armonia delle regole utilizzate, il loro impiego da parte dell’Autorità iuxta propria principia, secondo un’intrinseca razionalità, pur sul presupposto e nel contesto di scelte ampiamente discrezionali, “garantiscono e, insieme, comprovano che quel settore dell’ordinamento non sia sottoposto all’esercizio di un potere “errante” e sconfinante nell’abuso o nell’arbitrio, con conseguenti squilibri, disparità di trattamento, ingiustizie sostanziali, anche e soprattutto nell’applicazione di principi o concetti che, proprio in quanto indeterminati ed elastici, in gran parte reggono, per la loro duttilità, ma condizionano fortemente, per la loro complessità, vasti e rilevanti settori sociali” (Cons. St., sez. III, 2.4.2013, n. 1856). CDC



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Inserito in data 10/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 3 luglio 2013, n. 16630

Giudicato esterno implicito e rilievo officioso della nullità

L’ordinanza affronta il tema dei rapporti tra giudicato implicito e rilievo officioso della nullità, attraverso il seguente ragionamento.

La teoria del giudicato implicito si basa sulla ritenuta sussistenza di un ordine logico-giuridico precostituito di formulazione del giudizio, stabilito caso per caso dal giudice sulla base delle questioni da trattare. Essa comporta che la sentenza con la quale viene deciso il merito reca in sé necessariamente anche l'accertamento implicito di tutte le questioni preliminari di merito che rappresentano le premesse logiche indispensabili della pronuncia conclusiva di merito.

Nei processi di impugnativa negoziale, oggetto del processo dovrebbe essere, in ogni caso e prima di tutto, la validità (o l'invalidità) del contratto impugnato. In tal senso viene a risultare piuttosto sminuita, in virtù del ritenuto effetto preclusivo del giudicato implicito, la portata della rilevabilità d'ufficio della nullità del contratto, ai sensi dell'art. 1421 cc. Pertanto, “il convenuto in un causa di risoluzione, ove soccombente, non potrebbe più ottenere una declaratoria di nullità del contratto risolto per inadempimento, malgrado l’imprescrittibilità della relativa azione, poiché si dovrebbe ritenere che il giudicato sulla risoluzione si sia implicitamente esteso anche alla validità ed efficacia del contratto stesso”.

Qualora, invece, si pervenga all'emissione di una sentenza di rigetto della domanda di risoluzione per motivi diversi dal rilievo della nullità, l'attore dovrebbe conservare il diritto di poter proporre l'azione di accertamento della nullità, risultando impregiudicata la questione dal diverso oggetto del giudicato di rigetto.

In tal senso si era pronunciata anche la sentenza della Cassazione n. 11356 del 2006, secondo cui "la pronunzia di rigetto (nella specie, della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento) non più soggetta ad impugnazione non costituisce giudicato implicito […] laddove del rapporto che ne costituisce il presupposto logico-giuridico non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice le questioni concernenti l'esistenza, la validità e la qualificazione. Ne consegue che la sentenza di rigetto […] non preclude la successiva proposizione di una domanda di nullità del contratto […] in quanto in tal caso si fanno valere effetti giuridici diversi e incompatibili”.

In questo quadro, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 14828 del 2012, da un lato, hanno escluso che, senza espressa domanda di parte, la rilevazione officiosa della nullità importi efficacia di giudicato sulla "non validità" del titolo, mentre, dall'altro lato, hanno ammesso la formazione di un giudicato implicito sulla validità del titolo allorché, omessa l'indicazione prevista dall'attuale art. 183, comma 4, cpc, il giudice pervenga al rigetto della domanda di risoluzione. In altri termini, secondo tale impostazione, in quest'ultima eventualità si verrebbe a formare un giudicato implicito sulla "non nullità" del contratto, con conseguente preclusione dell'esercizio di successive azioni dirette alla declaratoria della nullità del titolo tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito.

Pertanto, secondo la pronuncia in esame, non può essere pienamente condiviso il principio di diritto (e le relative motivazioni a sostegno) della sentenza delle Sezioni unite, nella parte in cui, per un verso, si afferma che, poiché la risoluzione contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere, previa provocazione del contraddittorio sulla questione, di rilevare ogni forma di nullità del contratto stesso (salvo che non sia soggetta a regime speciale) e, per altro verso, si asserisce che il medesimo giudice di merito accerta la nullità "incidenter tantum" senza effetto di giudicato, a meno che non sia proposta la relativa domanda, pervenendosi, tuttavia, alla conclusione che il giudicato implicito sulla validità del contratto si forma tutte le volte in cui la causa relativa alla risoluzione sia stata decisa nel merito (anche nell'ipotesi di suo rigetto).

La questione in discorso, quindi, è stata rimessa al Primo Presidente affinché ne valuti la sottoposizione alla decisione delle Sezioni Unite. CDC

 

 




Inserito in data 09/07/2013
TAR LAZIO - ROMA. SEZ. I, 8 luglio 2013, n. 6668

Leso diritto alla tariffazione trasparente per ritardato adeguamento disciplina

Il Tar laziale, pronunciandosi sulla legittimità o meno del provvedimento emesso dall'autorità per le garanzie nelle comunicazioni con il quale è stata accertata la mancata ottemperanza, da parte di un gestore telefonico, all'articolo 2 della delibera n. 326/10/Cons (la quale mirava ad assicurare agli utenti le garanzie previste dalla normativa in tema di bill shock), ha affermato che il mancato adeguamento dei sistemi di controllo e di allerta entro i termini stabiliti comporta una lesione del diritto ad una tariffazione trasparente.

Invero, con delibera n. 326/10/Cons l’Autorità ha introdotto misure volte a fronteggiare il fenomeno del “bill shock” nella trasmissione dati in mobilità (fenomeno consistente nella ricezione da parte dell'utente di una bolletta di importo assolutamente eccessivo rispetto ai propri consumi abituali, la cui anomalia dipende “dall’onerosità di determinati tipi di utilizzo del traffico dati e dalla mancanza di trasparenza nelle condizioni contrattuali”.

Data la rilevanza del fenomeno, infatti, il legislatore comunitario è intervenuto, a tutela dell’utente, con molteplici normative (si veda il regolamento n. 544/2009 ed il nuovo “regolamento roaming” n. 531/12).

La nuova disciplina risulta particolarmente garantista della posizione del consumatore imponendo agli operatori mobili l'uso di sistemi di allerti di limiti di spesa sul traffico dati ed ulteriori strumenti di tutela.

Alla luce del nuovo quadro normativo, il mancato adeguamento degli operatori di telefonia mobile, entro i termini previsti, comporta una lesione di diritti sottesi alla nuova disciplina in quanto violerebbe il diritto degli utenti ad una tariffazione trasparente siccome descritta.

A nulla rilevando, secondo il Tar Lazio, l'asserita incongruità del termine e le molteplici istanze con le quali non era stata richiesta la proroga: è indubbio, infatti, che <<nella palmare evidenza dell’insuscettibilità di tutte le predette iniziative, isolatamente e complessivamente considerate, a determinare ex se la modifica ovvero la paralisi della delibera n. 326/10/Cons o di alcuna delle sue prescrizioni – l’Autorità non ha ritenuto di accogliere né le richieste di modifica della disciplina per cui è causa né la richiesta di spostamento del termine per l’adozione da parte degli operatori delle misure di cui trattasi a tutela dell’utenza>>. VA



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Inserito in data 09/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 5 luglio 2013, n. 179

Incostituzionale limitazione territoriale per esecuzione lavoro di pubblica utilità

La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale dell’art 54 d.lgs. 274/2000, nella parte in cui impone il servizio di pubblica utilità della stessa provincia di residenza del condannato, ovvero nella parte in cui non si prevede la possibilità che il giudice lo ammetta, ove lo richieda, a svolgere il medesimo lavoro presso un ente appartenente ad una diversa pronuncia.

Il chiaro significato letterale del dettato normativo, infatti, non lascerebbe spazio ad eventuali soluzioni interpretative costituzionalmente orientate.

Nello specifico, la formulazione censurata violerebbe l'art. 3 cost. sotto il profilo del principio di uguaglianza. Quanto detto si paleserebbe laddove, nella provincia di residenza, non fossero presenti convenzioni, ai sensi dell’art. 54 d.lgs. 274/2000, in quanto risulterebbe preclusa, per il condannato ivi residente, la possibilità di accedere alla sanzione sostitutiva di cui si discute il cui esito positivo comporta ulteriori benefici premiali.

Da quanto appena affermato si può dedurre anche la violazione dell’art. 27 cost., in quanto il vincolo territoriale impedirebbe la realizzazione degli obiettivi di rieducazione e di integrazione del condannato, nonostante la sua disponibilità.

La norma in questione risulterebbe, altresì, posta in violazione del principio di ragionevolezza soprattutto laddove risulti irrispettosa delle esigenze di tutela di interessi costituzionali.

La norma, infine, sarebbe relativa dell'art. 29 Cost., in quanto <<l’espiazione del lavoro di pubblica utilità, esclusivamente nell’ambito della Provincia di residenza del reo, non terrebbe conto delle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato cui, invece, si dovrebbe assegnare indubbia prevalenza>>.

Nel pronunciarsi definitivamente sulla questione la Corte Costituzionale ha avallato gli osservatori proposte del giudice rimettente dichiarando la parziale incostituzionalità della norma nella parte in cui non preveda la possibilità, su richiesta del condannato, di prestare il servizio di pubblica utilità presso un ente appartenente ad una provincia diversa da quella di residenza.

Nel far ciò il collegio ricorda come <<nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione secondo cui la funzione rieducativa della pena e la risocializzazione del condannato devono avvenire sulla base di criteri individualizzanti e non su rigidi automatismi>>.

Lo stesso dato letterale dell’art. 54 del d.lgs. n. 274 del 2000, nel disciplinare il lavoro di pubblica utilità, lascia al giudice una certa flessibilità nella scelta dei modi e dei tempi di svolgimento della pena comminata. La norma in questione, infatti, al comma 3 dispone che «L’attività viene svolta nell’ambito della Provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali». Il comma successivo, poi, dispone che «La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore».

Alla luce di quanto detto, non può non rilevarsi la palese ragionevolezza del vincolo risultante dal dettato normativo, risultando irrilevante anche la ratio sottesa alla disposizione in esame (da individuarsi nell'esigenza di evitare eccessivi spostamenti territoriali del condannato): l'applicazione della pena del lavoro di pubblica utilità, invero, risulta applicabile solo su richiesta dell'imputato o in mancanza di opposizione dello stesso, la quale, pertanto, potrebbe anche fondarsi sulla incompatibilità della suddetta pena con le proprie esigenze. VA



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Inserito in data 09/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 5 luglio 2013, n. 16884

Non può impugnarsi in modo autonomo l’avvio di un’azione disciplinare

Secondo i giudici: <<Il fatto che l’atto di apertura del procedimento disciplinare disposto dal Consiglio dell’ordine territoriale a carico di un avvocato non costituisca una decisione ai sensi dell’ordinamento professionale forense, bensì sia da qualificarsi come mero atto amministrativo, il quale non incide, in maniera definitiva, sul relativo status professionale, e non decide questioni pregiudiziali a garanzia dei corretto svolgimento della procedura (così S.U. n. 28335 del 2011 ) - e come tale non è autonomamente impugnabile davanti al Consiglio nazionale forense - , non determina automaticamente la sua impugnabilità davanti al giudice amministrativo>>.

A sostegno della decisione adottata si è ricordato che, ai sensi dell’art. 56 r.g.l. 1578/1933, il provvedimento emesso dal consiglio dell’ordine potrebbe essere impugnato esclusivamente dinanzi al Consiglio Nazionale forense e solo laddove si tratti di un provvedimento avente carattere definitivo.

Tuttavia, qualora si facesse derivare dall’impossibilità di impugnare autonomamente l’atto che dà il via al procedimento disciplinare l’impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo, si violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per legge, con conseguente doppia violazione del dettato normativo.

Inoltre, ad ulteriore conferma di quanto asserito, i giudici della Suprema Corte evidenziano la natura endoprocedimentale dell’atto di avvio del procedimento disciplinare, incapace di incidere in maniera definitiva sullo status professionale di un soggetto e, come tale, inidoneo ad assumere rilevanza esterna. VA




Inserito in data 08/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 luglio 2013, n. 3590

Prestazioni ospedaliere e tetti massimi di spesa, fissati dalle Regioni. Diritti delle ASL

I Giudici, ricordando quanto già statuito – in parte  - dall’Adunanza Plenaria con le sentenze n. 3 e n. 4 del 12 aprile 2012, intervengono ancora una volta in tema di prestazioni ospedaliere e ottemperanza dei relativi contratti di esecuzione.

In particolare, accogliendo le doglianze di una ASL in merito ad un contratto concluso con una casa di cura, il Collegio ribadisce l’ampia discrezionalità di cui godono le Regioni nel ripartire i tetti massimi di spesa e le disponibilità economiche in tema di sanità.

Nell’esercizio di tale funzione programmatoria, infatti, gli Enti regionali sono tenuti a rendere conto dei bisogni esistenti in un ambito talmente delicato – quale quello sanitario; della contingenza di talune spese, oltrechè dell'efficienza delle strutture pubbliche, delle legittime aspettative degli operatori privati che operano secondo logiche imprenditoriali e, infine, dell'interesse pubblico al contenimento della spesa.

Fatte tali premesse, ben si comprende lo stretto alveo entro cui si muovono le ASL che, dando applicazione ai piani di spesa approvati dalle Regioni, provvedono a siglare i contratti con i vari operatori economici esistenti sul mercato.

In questo quadro si muove la vicenda oggetto dell’odierna censura, in cui la casa di cura appellata non può lamentare l’illegittimità di tetti di spesa retroagenti; è possibile, infatti, che in un comparto estremamente delicato quale quello sanitario, determinate condizioni contrattuali possano incidere anche su prestazioni già eseguite.

Parimenti, l’ultrattività di talune clausole contrattuali, si giustifica in ragione di salvezza per l’eventuale periodo di incertezza contrattuale.

Si comprende, quindi, come in un sistema nel quale è fisiologica la sopravvenienza dell'atto determinativo della spesa solo in epoca successiva all'inizio di erogazione del servizio, gli interessati, fino a quando non risulti adottato un provvedimento formale, potranno aver riguardo all'entità delle somme contemplate per le prestazioni dei professionisti o delle strutture sanitarie dell'anno precedente, diminuite della riduzione della spesa sanitaria contemplata dalle norme finanziarie dell'anno in corso.

Tanto è accaduto nella vicenda in esame, in cui il Collegio ritiene opportuno rimuovere le censure dell’operatore economico, a favore di un’Azienda sanitaria limitata, pur sempre, da molteplici vincoli di spesa. CC



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Inserito in data 08/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 luglio 2013, n. 3585

Aggiudicazione appalto di servizi: estremi di legittimità contratto di avvalimento

Il Collegio ribadisce gli estremi del contratto di avvalimento, rigettando le doglianze della ditta esclusa dalla gara.

Ricorda, in particolare, come l’avvalimento non debba essere inteso come totale messa a disposizione di tutte le risorse economiche, tecniche e finanziarie dell’impresa ausiliaria; si tratta, come nel caso di specie, di un ausilio proveniente dall’esterno per oggettiva carenza dell’aggiudicataria.

Inoltre, anche riguardo alla sussistenza delle dichiarazioni ex articolo 38 D. Lgs. 163/06, i Giudici d’appello ribadiscono la spettanza solo a coloro i quali abbiano la rappresentanza della società, e non a chiunque possa essere stato delegato, anche per esigenze momentanee e contingenti dell’azienda, dal relativo consiglio di amministrazione.

In guisa di ciò, quindi, si percepisce la legittimità del contratto di avvalimento quivi censurato e le motivazioni contrarie, ribadite in sede di gravame. CC

 

 



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Inserito in data 08/07/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, QUARTA SEZIONE, C 312/11 del 4 luglio 2013

Equo trattamento per i disabili nel diritto del lavoro: Italia condannata

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea condanna l’Italia per non aver ottemperato ai molteplici vincoli provenienti dalla Direttiva UE in tema di impiego.

In particolare, spiega il Collegio del Lussemburgo, “l'Italia è venuta meno ai propri obblighi, poiché non ha imposto a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili”, secondo quanto previsto dal diritto Ue e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.

Quel che si condanna, più nel dettaglio, è che il Legislatore italiano non abbia posto condizioni paritarie per tutti i datori di lavoro e, peraltro, a fronte di ogni tipo di disabilità.

Ovviamente, considerato il tenore dell’omissione compiuto dal nostro Stato, è inevitabile la condanna ed il monito da parte delle competenti Autorità europee. CC



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Inserito in data 07/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 4 luglio 2013, n. 171

Illegittimità costituzionale art. 1 L.R. Liguria n. 24/2012 sulla proroga di concessioni marittime

È stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1 della Legge della Regione Liguria 30 luglio 2012 n. 24, recante “Modifica della legge regionale 28 aprile 1999, n. 13 per la salvaguardia dei litorali erosi dalle mareggiate”, secondo la quale, a determinate condizioni, è prevista una proroga automatica delle concessioni del demanio marittimo, a favore del soggetto già titolare della concessione, ma tuttavia senza che se ne determini la durata temporale.

In tali casi, il rinnovo o la proroga automatica delle concessioni, dunque, violerebbe l’art. 117, comma 1, Cost., per contrasto con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario in tema di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza, determinando, inoltre, una disparità di trattamento tra operatori economici, in violazione dell’art. 117, comma 2, lett. e.

Infatti, alla luce di quanto esposto, coloro che in precedenza non gestivano il demanio marittimo non nutrono alcuna possibilità, alla scadenza della concessione, di sostituire il precedente gestore, tranne nel caso in cui questi non chieda la proroga o la chieda senza alcun valido programma di investimenti.

Allo stesso tempo, urge mettere in luce che la disciplina regionale impedisce l’ingresso di altri potenziali operatori economici nel mercato, ponendo delle barriere, all’ingresso, che potrebbero ledere ed alterare la concorrenza. GMC



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Inserito in data 07/07/2013
TAR EMILIA ROMAGNA - BOLOGNA, SEZ. I, 28 giugno 2013, n. 484

Attivazione del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta

Con riguardo alla mancata attivazione del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, è stato stabilito che non si può chiedere che il giudice compia, in giudizio, tale verifica, in sostituzione dell’amministrazione.

Il giudice, infatti, è possibile che si sostituisca all’amministrazione pronunciandosi sulla fondatezza della pretesa solo se ricorrono alcune condizioni: a) l’inerzia dell’amministrazione deve essere illegittima (art. 31, comma 1, c.p.a.), b) non devono residuare ulteriori margini di esercizio della discrezionalità, c) non devono essere necessari adempimenti istruttori che l’amministrazione deve compiere ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.p.a.

Inoltre, all’art. 34, comma 2, c.p.a., è presente una clausola di chiusura del sistema, secondo la quale “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. In vista di tale considerazione, il giudice potrà validamente accertare la legittimità della verifica di anomalia già compiuta dall’amministrazione ma, nel giudizio di cognizione, non potrà mai sostituirsi alla stessa compiendo, per la prima volta, tale verifica. GMC

 

 



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Inserito in data 07/07/2013
TAR PIEMONTE - TORINO, SEZ. I, 27 giugno 2013, n. 787

Casi in cui non sussiste l’obbligo della comunicazione di avvio

È stato stabilito che non sussiste l’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento nel caso di adozione del provvedimento di revoca, in presenza di un’informativa prefettizia antimafia sfavorevole.

Infatti, il sistema delle informative, ispirato alla logica della massima anticipazione della soglia di difesa sociale, non deve collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo, ma può essere comunque sostenuta da elementi chiari e sintomatici.

L’adozione del provvedimento di revoca di un’aggiudicazione, in presenza di un’informativa prefettizia antimafia sfavorevole, rappresenta un provvedimento non soltanto fortemente caratterizzato nel profilo contenutistico ma anche connotato dalla urgenza del provvedere.

In tali casi, l’obbligo della previa comunicazione di avvio del procedimento è escluso grazie al carattere fondamentalmente cautelare della misura, la quale fa emergere quelle esigenze di celerità che rendono giustificata l’omissione della notizia partecipativa altrimenti prescritta.

Nel caso specifico, deve essere respinta la doglianza svolta con riguardo alla asserita violazione delle garanzie di comunicazione e partecipazione al procedimento, poiché priva di valido fondamento giuridico.

Come rilevato, il sistema delle informative è ispirato alla logica della massima anticipazione della soglia di difesa sociale, finalizzata ad assicurare una tutela avanzata nel campo del contrasto alle attività della criminalità organizzata, la misura interdittiva, in tal caso, non si collega obbligatoriamente ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi circa l’esistenza della contiguità dell’impresa con delle organizzazioni malavitose, ma potrebbe essere pacificamente sostenuta da elementi sintomatici da cui possano emergere elementi che rappresentino il pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale a causa della criminalità organizzata. GMC

 

 



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Inserito in data 05/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 luglio 2013, n. 3576

Presupposti informativa antimafia: parentele, rapporti di affari e contesto geografico

Oggetto della presente decisione sono i presupposti legittimanti l’informativa antimafia del prefetto.

In premessa, occorre ricordare che “le informative prefettizie in materia di lotta antimafia, in quanto afferenti alla prevenzione del crimine e al contrasto amministrativo preventivo delle organizzazioni di criminalità organizzata, possono essere fondate su fatti e vicende aventi valore meramente sintomatico e solo indiziario, giacché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico imprenditoriale”.

Tra le circostanze aventi valore indiziario più frequentemente contestate si annovera il legame parentale con elementi di spicco della criminalità mafiosa. Però, ad avviso della giurisprudenza del Consiglio di Stato, “il semplice rapporto di parentela non è di regola sufficiente per giustificare la interdittiva antimafia essendo comunque necessari altri elementi, sia pure indiziari, tali che dal loro complesso possa derivarne il convincimento che la attività di impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata”.

Ulteriori elementi indiziari spesso rilevati sono costituiti dalle relazioni di affari con soggetti coinvolti in indagini giudiziarie.

Infine, è interessante osservare che i Giudici di Palazzo Spada attribuiscono valore indiziario anche al contesto geografico e socio-economico in cui le predette relazioni si radicano e si sviluppano (“un contesto geografico drammaticamente noto come Casal di Principe, a forte presenza di clan familiari legati con la camorra e con attività specifica proprio nel campo dei lavori pubblici”).

Poiché nel caso esaminato concorrono tutte queste circostanze indizianti, emerge la non irragionevolezza della valutazione prognostica compiuta dal Prefetto e, pertanto, è stata affermata la legittimità dell’informativa antimafia impugnata. TM



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Inserito in data 05/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 luglio 2013, n. 3568

I contratti di radio-diagnostica in favore dell’utenza sono esentati dallo standstill

Nella sentenza in esame, il Consiglio di Stato si sofferma sui presupposti per l’irrogazione delle sanzioni alternative ex art. 123 c.p.a. previste per il caso in cui le violazioni riscontrate nel procedimento di aggiudicazione dell’appalto non siano così gravi da giustificare la dichiarazione d’inefficacia del contratto o, perlomeno, la dichiarazione d’inefficacia ex tunc del medesimo.

In prima battuta, viene evidenziato che dette sanzioni sono irrogate d’ufficio al ricorrere dei presupposti di legge, costituiti nel caso di specie dalla violazione dell’obbligo di standstill processuale ex art. 11, c. 10ter, d.lgs. n. 163/06 (divieto di stipulare il contratto nei 20 giorni successivi alla presentazione di un ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva con contestuale istanza cautelare); di conseguenza, non rileva la circostanza che il ricorso giurisdizionale sia poi stato giudicato infondato o sia stato dichiarato inammissibile.

In seconda battuta, si pone l’accento sull’esistenza di una causa esonerativa dell’osservanza dello standstill e il cui inverarsi determina il venir meno dei presupposti per l’irrogazione della sanzione alternativa: ex art. 11, c. 9, d.lgs. 163/06, è ammessa l’esecuzione di urgenza, in deroga tanto allo standstill sostanziale che a quello processuale, “nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all’interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari”. Tale causa di esonero ricorre nel caso di specie, non potendosi dubitare del “carattere essenziale delle prestazioni di radio diagnostica per la cura di specifiche e gravi patologie, da erogarsi nei confronti dell’utenza in via continuativa e stabile del tempo”. TM



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Inserito in data 05/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 28 giugno 2013, n. 28243

Compatibilità dell’attenuante del danno di speciale tenuità col tentativo di furto

Con la decisione in epigrafe, le Sezioni Unite risolvono la seguente questione di diritto: "se, nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità possa, o meno, applicarsi anche al delitto tentato".

Si trattava, infatti, di questione controversa in giurisprudenza, sebbene l’orientamento quantitativamente prevalente si schierasse per la compatibilità dell’attenuante del danno di speciale tenuità col tentativo di reato contro il patrimonio e, in particolare, col delitto tentato di furto.

Le Sezioni Unite prendono le mosse dalla distinzione dottrinale tra “delitto circostanziato tentato” e “delitto tentato circostanziato”: il primo “è il tentativo di un delitto che, se fosse giunto a consumazione, sarebbe apparso qualificato da una o più circostanze”; “il secondo …si realizza quando, nella fase esecutiva del tentativo, risultino integrate circostanze attenuanti o aggravanti, anche se il delitto avuto di mira non giunge a consumazione”. Risulta chiaro che pone problemi di compatibilità  solo il delitto circostanziato tentato poiché “la circostanza, pur inerente alla condotta dell'agente, non è stata posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza potesse essere realizzata”. “Trattasi, ad evidenza, del caso in esame, in quanto, come è ovvio, il danno patrimoniale (di speciale tenuità) postula la consumazione del furto: evidentemente, se la res non viene sottratta, il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale diretto”.

Tuttavia, ad avviso del Supremo Consesso, anche le circostanze non realizzatesi incidono sul disvalore sotteso ai delitti tentati; ciò in quanto “la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possano essere presenti nel momento ideativo e volitivo del delitto, come modalità e/o finalità dell'azione che si intende compiere”; occorrerà, però, verificare in concreto che la condotta presentasse i segni visibili della circostanza e fosse quindi diretta in modo idoneo e univoco alla commissione del delitto circostanziato.

Pertanto, le Sezioni Unite confermano l’orientamento prevalente e ribadiscono che “ai fini dell'applicabilità della diminuente di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, il giudice deve avere riguardo alle concrete modalità del fatto e deve accertare che il reato, ove fosse stato consumato, avrebbe cagionato, in modo diretto e immediato, un danno di speciale tenuità; deve cioè aversi riferimento al danno ipotetico che il reato avrebbe cagionato, qualora fosse stato consumato”. Tale conclusione non contrasta col principio di legalità, poiché si ritiene che l’art. 56 c.p. faccia rinvio non solo al reato base, ma anche al reato circostanziato; inoltre, tale conclusione s’impone alla stregua del principio di eguaglianza. TM

 

 




Inserito in data 04/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 luglio 2013, n. 3570

Applicazione del principio del favor voti in materia elettorale

La sentenza, resa in materia elettorale, applica il principio del “favor voti”, il quale impone di interpretare, per quanto possibile, l’espressione della volontà dell’elettore in termini tali da assicurarne la validità. Esso implica, come affermato in una precedente pronuncia (Consiglio di Stato, 18 gennaio 2006, n. 109), la nullità del voto elettorale solo quando esso sia espresso con incertezze grafiche o collocazioni di nomi o segni in spazi diversi da quelli a ciò riservati, tali da denotare una precisa volontà dell'elettore di ricondurre alla sua persona la manifestazione del voto e costituire in tal modo un segno di riconoscimento; peraltro, tale volontà deve essere interpretata in senso oggettivo, nel senso che le scritte e i segni devono risultare estranei al contenuto proprio della scheda e alle modalità con cui l'elettore esprime normalmente il suo voto.

Nel caso in esame, invece, la scheda presentava un crocesegno, usuale forma di espressione del voto, con mere deviazioni ed arricciature, agevolmente spiegabili con le conseguenze di un’incapacità fisica dell’elettore a mantenere salda la propria mano. Pertanto, il voto doveva considerarsi validamente espresso. CDC



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Inserito in data 04/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 1 luglio 2013, n. 167

Limiti alle deroghe al pubblico concorso

Oggetto del giudizio di legittimità costituzionale è una legge regionale che disponeva il trasferimento delle funzioni di due società in house a strutture organizzative regionali, con inquadramento del personale in servizio a tempo indeterminato delle due società in ruoli speciali ad esaurimento presso articolazioni della Regione.

Nelle more del giudizio, le norme sono state modificate e l’inquadramento nei ruoli regionali è stato subordinato all’esito positivo di procedura selettiva. La nuova disciplina è sostanzialmente omogenea a quella precedente, dato che autorizza il trasferimento di personale, in mancanza di concorso aperto al pubblico, esclusivamente sulla base di una prova attitudinale riservata al personale già assunto presso le società in house.

Potendosi considerare la nuova disciplina non satisfattiva rispetto alle doglianze sollevate, viene disposto il trasferimento della questione sulla nuova norma.

La Corte ribadisce che le deroghe al principio del pubblico concorso possono ricorrere solo in determinate circostanze: la legge deve stabilire preventivamente le condizioni per l’esercizio del potere di assunzione, subordinare la costituzione del rapporto a tempo indeterminato all’accertamento di specifiche necessità funzionali dell’amministrazione e prevedere procedure di verifica dell’attività svolta; i soggetti da assumere devono aver maturato tale esperienza all’interno della pubblica amministrazione, e non alle dipendenze di datori di lavoro esterni; infine, la deroga deve essere contenuta entro determinati limiti percentuali, per non precludere in modo assoluto la possibilità di accesso della generalità dei cittadini ai detti posti pubblici.

La legge censurata è in contrasto con i predetti principi, in quanto individua solo in modo generico le ragioni giustificatrici della deroga sul piano della funzionalità e non prevede meccanismi di verifica dell’attività professionale svolta, né limiti percentuali all’assunzione senza concorso.

Peraltro, le modifiche successivamente apportate alla legge regionale non possono dirsi risolutive. Infatti, la circostanza che il trasferimento sia stato condizionato al previo superamento di un test attitudinale non rende la disposizione meno lesiva degli invocati principi costituzionali. Non si pone, infatti, in tal modo, alcun rimedio al carattere “chiuso” dell’individuazione degli aspiranti titolari dei nuovi posti di ruolo resi disponibili, dal momento che la partecipazione alle prove selettive è chiaramente riservata ai soli dipendenti delle società partecipate. CDC



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Inserito in data 04/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 26 giugno 2013, n. 16111

Diritto ad oblio è limitato da diritto di cronaca solo se c’è interesse effettivo e attuale

Il fondamentale presupposto in presenza del quale il diritto di cronaca può prevalere rispetto al diritto alla riservatezza è costituito dall’essenzialità dell’informazione oggetto di cronaca rispetto all’interesse pubblico relativo alle notizie divulgate.

La riemersione di fatti molto lontani nel tempo (come quelli del caso, relativi alle vicende degli anni di piombo), che pure rivestivano all’epoca un sicuro interesse pubblico, non si traduce nella permanenza dell’interesse pubblico anche al momento attuale. Dunque, poiché è il principio di correttezza a fondare l’esigenza del bilanciamento in concreto degli interessi, il diritto dell’interessato ad essere dimenticato può cedere il passo rispetto al diritto di cronaca solo in quanto sussista un interesse effettivo ed attuale alla diffusione della notizia; altrimenti, si riconoscerebbe un’automatica permanenza dell’interesse alla divulgazione anche in un contesto storico completamente mutato.

Quindi, “in tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità”; altrimenti, il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni si traduce in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza. CDC




Inserito in data 03/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 1 luglio 2013, n. 3533

Il ristoro del richiedente è subordinato al prognostico favorevole del procedimento

La vicenda prende le mosse da un ricorso presentato avverso una decisione del Tribunale di primo grado che aveva escluso il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno derivato dall’omessa previsione, nel bando di concorso, dei diritti di esclusiva a favore di terzi.

I Giudici di Palazzo Spada, ricordano il dettato dell’art. 30 c.p.a. comma 2, che riconduce la risarcibilità degli interessi legittimi all’alveo generale proprio dell'art. 2043 c.c., da cui deriva la necessità di dimostrare la natura antigiuridica della condotta, e dunque l’ingiustizia del danno (economicamente valutabile), nonché l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta illecita e il nocumento patrimoniale.

Si avrà, dunque, un danno risarcibile solo “in presenza di un evento ingiusto, consistente nella lesione di un interesse legittimo giuridicamente meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, ricollegabile, con nesso di causalità immediato e diretto, all’illegittimità del provvedimento impugnato (C.d.S 1957/2012)”.

Nel caso di specie, il danno oggetto della pretesa risarcitoria era derivato, non già da una lesione di un interesse legittimo e giuridicamente tutelato ma, bensì, dall’annullamento di un bando illegittimo e dalla rimozione degli ingiustificati benefici da questo scaturiti in capo all’appellante.

“Il risarcimento del danno non consegue, infatti, alla lesione di qualunque “interesse di fatto” o “di un interesse illegittimo”, e, in ogni caso, non è una conseguenza automatica e costante di un qualunque annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo”, dovendo sempre essere provato l’esito favorevole del procedimento.

Nel caso sottoposto al Consiglio di Stato, dunque, la precedente inerzia dell’appellante, consistita nell’omessa impugnazione del bando di gara illegittimo, sebbene non possa costituire una preclusione all’ammissibilità della domanda risarcitoria, assume rilevanza sotto il profilo della sussistenza o meno di un nesso di causalità tra il comportamento illecito o illegittimo dell'Amministrazione e la produzione del danno, avendo comportato la decadenza da tutte le pretese connesse al procedimento, comprese quelle risarcitorie. VA



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Inserito in data 03/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 1 luglio 2013, n. 3534

Lo scioglimento di una società non esclude l’abusivo intento lottizzatorio

La fattispecie di lottizzazione abusiva, prevista dall’art. 18 della l. 47/1985, risulta integrata quando questa sia posta in essere mediante la stipulazione di atti negoziali di compravendita che abbiano comportato un frazionamento del terreno e la conseguente insistenza di uno svariato numero di proprietà, anche di superficie ridotta. Più specificamente si ha lottizzazione abusiva quando “il frazionamento dei terreni in lotti per le relative caratteristiche (numero, dimensioni, natura del terreno, ubicazione, presenza di opere di urbanizzazione) rivelava in modo non equivoco la destinazione d'uso a scopo edificatorio dello stesso.

Risulterà, pertanto, necessario procedere all’accertamento degli elementi dai quali possa desumersi la suddetta inequivoca destinazione a scopo edificatorio degli atti compiuti delle parti.

Il Collegio ha, tuttavia, affermato che a tal fine non è necessaria la dimostrazione della contemporanea esistenza di tutti gli indici rilevatori indicati nella norma citata, potendo essere sufficienti anche il solo frazionamento e le modalità secondo le quali si è svolta l’attività negoziale strumentale al perseguimento della lottizzazione (v. C.d.S. 2937/2011).

Seguendo quest’orientamento il C.d.S. ha rigettato le argomentazioni dell’appellante secondo cui i fatti oggetto di censura avrebbero trovato la loro giustificazione nell’esigenza di provvedere alla ripartizione tra i soci, a seguito della messa in liquidazione della società, dei beni dell’azienda, originariamente appartenente a un unico soggetto.

Come rilevato dai giudici di Palazzo Spada, infatti, “la lottizzazione abusiva cartolare può, essere esclusa, ai sensi dell'art. 30 comma 10° del d.P.R. n. 380 cit., solamente per i casi concernenti (…) le divisioni ereditarie, le donazioni fra coniugi e fra parenti in linea retta”… i “ .. testamenti, nonché agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia e di servitù”.

Ne consegue che “la mancata previsione nella legge della cessione frazionata di terreni in conto liquidazione delle quote societarie esclude che comunque sia possibile giustificare la lottizzazione cartolare realizzata con tale artificio”.

Risulta, dunque, legittima la decisione del giudice di primo grado, il quale ha affermato che anche il semplice frazionamento connesso alla liquidazione di un’azienda possa essere considerato un indice sufficiente dell’inequivoca volontà degli appellanti di destinare aree agricole a edificazione in immediata. VA

 

 



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Inserito in data 03/07/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 28 giugno 2013, n. 16305

Sindacabile il diniego di aperture delle trattative ex art. 8 Costituzione

Non può essere considerato atto politico, dunque non sindacabile, quell’atto con il quale si neghi la natura confessionale di un’organizzazione (nel caso di specie l’UAAR: Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti).

Ricordando l’orientamento della Corte Costituzionale, contenuto nella sentenza 103/93, con la quale si precisava la rigorosità dei limiti entro cui ricondurre le aree sottratte al sindacato giurisdizionale e, nel far ciò, si teneva ben presente la distinzione tra atti politici e atti di alta amministrazione che, sebbene caratterizzati da ampia discrezionalità, rimangono soggetti a tale sindacato. I primi, infatti, sono caratterizzati dalla residualità e, nel caso di specie, non sembra sufficiente sottolineare il carattere politico del soggetto di provenienza.

Deve, peraltro, affermarsi la natura di atto rientrante nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell'istante come confessione religiosa.

A sostegno di quanto detto i Giudici di legittimità affermano che “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’atto di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell'atto, sindacabile nelle sedi appropriate (Corte Cost. 5 aprile 2012 n.81)".

Ne discende che, qualora si negasse la sindacabilità degli atti in questione, si violerebbero gli artt.  24 e 113 Cost.

Infatti, nonostante manchi ancora una legge che disciplini i rapporti tra le varie religioni e lo stato italiano, laico per definizione, deve, comunque, assicurarsi il «pluralismo confessionale e culturale» e il principio di uguaglianza sotto il profilo della libertà di professare la propria religione.

La S.C., citando ancora la Corte Costituzionale (sent. 346/02), ricorda che, data l’assenza di criteri legali precisi che possano guidare l’interprete nell’individuazione delle confessioni religiose, si può sopperire a tale lacuna con criteri diversi quali, ad esempio, l’autoqualificazione ed il precedente riconoscimento pubblico o da parte di altre organizzazioni o, ancora, dallo statuto. Ne discende, come logico corollario che “Negare la sindacabilità del diniego di apertura della trattativa per il fatto che questa é inserita nel procedimento legislativo significa privare il soggetto istante di tutela e aprire la strada, come ha indicato il Consiglio di Stato, a una discrezionalità foriera di discriminazioni”. VA

 

 




Inserito in data 02/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 27 giugno 2013, n. 161

Provvidenze abitative per alienazione alloggi popolari. Diritti a favore dei profughi

I Giudici della Consulta, intervenendo su una parentesi legislativa molto significativa – risalente al nostro secondo dopoguerra, intervengono in materia di attribuzione di alloggi popolari a favore dei cc.dd. profughi.

In particolare, l’oggetto del sindacato costituzionale riguarda talune disposizioni legislative regionali, nella parte in cui adoperano il regime di favore – originariamente previsto per i soli profughi assegnatari di alloggi realizzati in base agli artt. 18 e seguenti della legge n. 137 del 1952, estendendolo a tutti i profughi assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica.

La Consulta, invero, condivide le doglianze di incostituzionalità sollevate dal Governo remittente, posto che il trattamento di favore fu inizialmente contemplato in favore di quelle categorie di cittadini rientrati in Italia, a seguito delle esperienze neo colonialiste, realizzatesi nel Nord Africa nei primi decenni del ‘900.

Si spiegano, in tal guisa, le agevolazioni economiche loro concesse, a dispetto di altri soggetti – pure essi profughi, parimenti destinatari del diritto all’abitazione, sempre consacrato, dalla nostra giurisprudenza costituzionale, quale diritto primario ed inviolabile.

Tuttavia, pur seguendo quest’ottica, appare irragionevole la scelta odierna del legislatore regionale di continuare a stabilire, a distanza di tanto tempo, un trattamento di favore che, tra gli assegnatari di alloggi popolari, privilegia la categoria dei profughi post secondo conflitto mondiale e, in concreto, i loro discendenti.

Peraltro, sottolineando la qualifica di profugo, il legislatore regionale, quivi contestato, ha omesso di valorizzare il dato oggettivo, ossia la corresponsione di un canone di locazione effettivamente maggiorato a favore degli Enti gestori di tali immobili, che fungeva, storicamente, da presupposto per l’agevolazione in sede di ripartizione di alloggi popolari.

Di conseguenza, il Collegio non può che ravvisare una disparità di trattamento non fondata né più giustificabile; e, pertanto, una evidente violazione dell’articolo 3 della Costituzione, posta l’irragionevolezza sia del criterio prescelto per l’estensione del beneficio, sia della parificazione di situazioni eterogenee.

Accoglie, pertanto, la doglianza – come sollevata in sede di ordinanza di rimessione. CC



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Inserito in data 02/07/2013
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 27 giugno 2013, n. 165

Conferimento incarichi e costante priorità del concorso pubblico

Il Collegio ribadisce, ancora una volta, che il concorso pubblico, in quanto meccanismo strumentale al canone di efficienza della Pubblica Amministrazione, costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego.

Sulla scorta di simili valutazioni, i Giudici della Consulta dichiarano l’illegittimità costituzionale di talune disposizioni regionali, che statuivano l’inserimento – nella classe dirigenziale – di soggetti cui incarichi di quel rango erano stati conferiti per brevi lassi di tempo.

I Giudici ricordano, pertanto, come il concorso pubblico – ai fini del reclutamento del personale - sia finalizzato a garantire equità in sede di selezione e l’eventuale inosservanza, come nel caso di specie, finirebbe con il procurare un’ingiustificata disparità di trattamento, censurabile sotto il profilo dell’articolo 3 della Costituzione.

Nella stessa ottica di massimizzare l’efficienza amministrativa – ex articolo 97 della Costituzione, il Collegio riafferma, confermando ancora propri precedenti, come la facoltà del legislatore di introdurre deroghe a tale principio vada «delimitata in modo rigoroso, considerando legittime tali deroghe solamente nel caso che risultino funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle» (Cfr. n. 195, n. 150 e n. 100 del 2010 e n. 293 del 2009). CC



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Inserito in data 01/07/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 27 giugno 2013, n. 16

Art. 12 DL 52/12: natura sanante del principio siglato dalla Plenaria n. 13/11

Il Massimo Consesso amministrativo torna, ancora una volta, sulla portata del principio di cui all’articolo 12 del DL. n. 52 del 7 maggio 2012, convertito in Legge n. 94/12 – in tema di pubblicità delle operazioni di gara in sede di offerta tecnica.

In particolare, riepilogando quanto già espresso nella propria pronuncia n. 8 dello scorso 22 aprile, i sommi Giudici ricordano come tale norma abbia natura sanante di quanto espresso dalla Plenaria n. 13 del 2011, a proposito della pubblicità della gara anche al momento della valutazione tecnica.

Tale principio, come positivizzato nella norma oggetto dell’odierna vicenda, è vigente, infatti, dal 9 maggio 2012 in poi; riguardo alle gare antecedenti a tale data, invece, l’apertura in seduta riservata delle buste contenenti le offerte tecniche deve continuare a ritenersi perfettamente valida ed efficace.

In tal modo, quindi, vengono salvaguardati principi fondamentali, quali l’affidamento e la buona fede di quegli operatori che avevano preso parte alla gara ritenendo, presuntivamente, la vigenza di talune regole piuttosto che di altre; e, peraltro, si contribuisce alla deflazione di un contenzioso amministrativo che, altrimenti, sarebbe stato estremamente in crescita.

E’ proprio in considerazione del rilievo dei principi di diritto appena richiamati che si comprende la reiterazione di un simile assunto, da parte del Massimo Collegio amministrativo, a distanza di pochi mesi dalla precedente pronuncia avente contenuto analogo. CC

 

 



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Inserito in data 01/07/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, PRIMA SEZIONE, C 575/11 del 27 giugno 2013

Violata la libertà di stabilimento in vista della tutela di altri diritti

Il Collegio ricorda come escludere il riconoscimento di un titolo di studio che, invero, consentirebbe all’istante di esercitare una professione autonoma nello Stato presso cui lo ha conseguito, ma non lo stesso nell’ambito dello Stato di sua provenienza, finirebbe con il comportare un ostacolo alla libertà di stabilimento – siglato dai principi comunitari di massima cooperazione.

Infatti, ad avviso dei Giudici europei, la necessità di tutelare i diritti dei consumatori o la salute – quali beni primari di una Nazione – non può far venir meno la formazione professionale dell’odierno ricorrente.

Al più, precisa la Corte, perché gli interessi dei potenziali consumatori possano essere adeguatamente tutelati, evitando il rischio di esporli ad una formazione professionale presuntivamente ritenuta non adeguata, si potrebbe statuire l’obbligo di utilizzare il titolo professionale sia nella forma originale nella lingua in cui è stato ottenuto che nella lingua ufficiale dello Stato membro ospitante; o provvedere eventuali forme di compensazione che sarà cura delle competenti Autorità nazionali predisporre. CC



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Inserito in data 28/06/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER, 18 giugno 2013, n. 6094

Concessioni servizi: concessionario secondo principi desumibili dal Trattato UE

Secondo quanto previsto all’art. 30, comma 3, del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), nelle gare indette per la concessione di servizi, la scelta del concessionario deve avvenire nel pieno rispetto dei principi derivanti dal Trattato nonché dei principi generali relativi ai contratti pubblici, quali il principio di trasparenza, non discriminazione, adeguata pubblicità, parità di trattamento, proporzionalità, mutuo riconoscimento, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi.

Per verificare la effettiva capacità tecnica, l’elenco previsto agli artt. 41 e 42 del Codice dei contratti pubblici non rappresenta, per la stazione appaltante, un vincolo diretto, tuttavia in relazione al richiamo dei principi del Trattato UE, le determinazioni concernenti i requisiti soggettivi di partecipazione alle gare non devono essere arbitrarie, illogiche, inutili o superflue e devono sempre rispettare il fondamentale “principio di proporzionalità”.

Questo, infatti, esige che ogni requisito individuato sia essenziale ed adeguato rispetto agli scopi che devono essere perseguiti.

Il concreto esercizio del potere discrezionale, dunque, deve essere coerente con il complesso degli interessi pubblici, ma anche privati, che sono coinvolti nel procedimento del pubblico incanto e deve, altresì, rispettare i principi contenuti nel Codice dei contratti pubblici. GMC



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Inserito in data 28/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 giugno 2013, n. 3516

Si all'esclusione concorrente per tardivo deposito della campionatura oggetto di offerta

Con tale sentenza, il Consiglio di Stato ha stabilito la legittimità dell’esclusione di un concorrente a causa del tardivo deposito di una parte della campionatura oggetto di fornitura, in quanto questa era funzionale alla valutazione delle offerte da parte della commissione di gara.

La campionatura, infatti, era indicata quale elemento da produrre a corredo della relazione tecnica, a sua volta da introdurre all’interno del plico contenente l’offerta tecnica e che, dunque, solamente per ovvie ragioni di spazio questa non doveva essere inserita nei plichi contenenti le offerte, pur dovendosi rispettare comunque, ai fini del deposito, la stessa scansione temporale fissata per la presentazione delle offerte.

A conferma di quanto affermato è, infatti, lo stesso art. 42, comma 1, del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici) a prevedere, nell’ambito degli appalti di forniture, il deposito di campioni quale ordinaria modalità di prova del requisito di capacità tecnica, la clausola del bando risulta dunque coerente con la richiamata previsione, sia con riferimento alla natura dell’incombente posto a carico degli offerenti, che in relazione alla necessità di fissare un termine perentorio per il deposito dei campioni di fornitura.

Nel caso di specie, quindi, va ritenuta senz’altro immune da vizi la determinazione di esclusione assunta dall’Università degli studi di Torino in danno della originaria ricorrente la quale, avendo prodotto tardivamente la campionatura oggetto di offerta, era da escludere dalla selezione, soprattutto nel rispetto del principio della par condicio competitorum. GMC



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Inserito in data 28/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II, SENTENZA 24 giugno 2013, n. 15786

Compenso professionale determinato in base alla tariffa e all’importanza dell’opera

La Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che il compenso per le prestazioni professionali vada determinato in base alla tariffa, e sia altresì adeguato alla importanza dell’opera ed al decoro della professione, solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito tra le parti.

Alla luce di quanto stabilito, infatti, anche l’art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere “preferenziale” tra i vari criteri di determinazione del compenso, conferendo rilevanza, in primo luogo, alla convenzione intervenuta tra le parti e poi, esclusivamente in mancanza di quest’ultima, e quindi in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, per ultimo, alla determinazione del giudice.

In tali casi, dunque, non trovano applicazione i criteri previsti dall’art. 36, primo comma, della Costituzione, in quanto questi sono applicabili solamente ai rapporti di lavoro subordinato.

Nel caso in cui dovesse esservi la violazione delle norme che impongono la inderogabilità dei minimi tariffari, non vi sarà nullità, ai sensi dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., del patto in deroga, poiché si tratta di precetti normativi che non sono riferibili ad un interesse generale riguardante l’intera collettività, ma ad un interesse che riguarda propriamente una determinata categoria professionale. GMC




Inserito in data 27/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 giugno 2013, n. 3477

Va confermato il decreto di perenzione emesso per negligenza del domiciliatario

Il Consiglio di Stato individua i presupposti di accoglibilità dell’opposizione al decreto di perenzione emesso a seguito della mancata proposizione di una nuova istanza di fissazione dell’udienza a fronte della comunicazione della segreteria ex art. 82, c.1, CPA.

Detti presupposti vanno ravvisati nella presenza di irregolarità nella comunicazione dell’avviso della segreteria, non rilevando, invece, quale errore scusabile, l’omessa comunicazione da parte dell’avvocato domiciliatario dovuta al caos creatosi in ragione del trasloco dello studio. Ciò in quanto, “l’elezione di domicilio serve ad individuare un luogo certo dove si possa ritenere che le comunicazioni effettuate dalla segreteria del giudice adito e delle altre parti abbiano raggiunto lo scopo; il domicilio si deve intendere eletto, pertanto, fino a nuova elezione, di talché il mutamento d’indirizzo del domicilio stesso può rilevare solo a seguito della comunicazione alle altri parti e all’ufficio, irrilevante appalesandosi la comunicazione resa, per altri fini, a soggetti diversi”. TM



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Inserito in data 27/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 giugno 2013, n. 3478

Si esclude il sindacato intrinseco sugli accertamenti psicoattitudinali dei concorrenti

La sentenza de qua si sofferma sulla spinosa questione dell’intensità del sindacato giurisdizionale sugli accertamenti psicoattitudinali compiuti dalle commissioni di concorso.

Com’è noto, a partire dalla storica sentenza n. 601/99, il Consiglio di Stato ammette il sindacato intrinseco sulle valutazioni tecniche compiute dall’amministrazione.

Tuttavia, l’orientamento predetto registra delle battute di arresto a fronte degli accertamenti psicoattitudinali, rispetto ai quali si ammette solo un sindacato cd. “estrinseco”. Difatti, la stessa sentenza in esame afferma che “L’attività delle Commissioni di concorso in sede di accertamenti medico-legali (tra cui rientra quello psico-attitudinale) si articola in due momenti (tra loro inscindibilmente connessi, sì che in alcuni casi non è possibile distinguerli): l’uno, consistente nell’acquisizione di fatti il cui svolgimento è documentato dalla verbalizzazione; l’altro, nella espressione di un giudizio, sulla base degli elementi acquisiti, che attiene all’esercizio di discrezionalità tecnica, laddove una siffatta valutazione può essere censurata solo per abnormità, travisamento del fatto e illogicità …, vizi che nella specie non si possono rinvenire”. In applicazione delle summenzionate coordinate teoriche, il Supremo Consesso amministrativo conferma la legittimità dell’accertamento tecnico compiuto dalla Commissione di concorso, essendosi questo svolto secondo le modalità prescritte dal disciplinare dell’Amministrazione (id est, mediante questionario scritto e successiva intervista orale del candidato). TM



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Inserito in data 27/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 10 giugno 2013, n. 14501

Giurisdizione sul risarcimento dei danni da violazione dei diritti del rifugiato

Ritenendo la questione sollevata di particolare importanza ex art. 363, c. 3, c.p.c., le Sezioni Unite enunciano il principio di diritto secondo cui “la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal ritardo nell'adozione del rinnovo del permesso di soggiorno richiesto da titolare dello status di rifugiato, proposta in epoca anteriore all'entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 7, che ha aggiunto alla L. n. 241 del 1990, art. 2 bis, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario”.

A tale conclusione si giunge rilevando, innanzitutto, che è stata la L. n. 69/09 a prevedere la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine alle controversie risarcitorie per l’inosservanza dei termini di conclusione del procedimento da parte delle Amministrazioni, aggiungendo l’art. 2bis nella L. n. 241/90. Detta disciplina è stata poi trasfusa nell’art. 133 del d.lgs. n. 104/10. Di conseguenza, per le controversie instaurate prima dell’entrata in vigore della L. n. 69/09, opera l’ordinario criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla natura della situazione giuridica dedotta in giudizio (cd. criterio della causa petendi). 

Secondariamente, la Cassazione afferma che “la fonte del pregiudizio lamentato dal privato nel caso di ritardo nell'adozione del provvedimento richiesto non è tanto la violazione dei termini (perentori o ordinatori) previsti per la conclusione del procedimento amministrativo, quanto il ritardo nell'attribuzione del "bene della vita"”. Quest’ultimo nel caso di specie è costituito dal diritto dello straniero riconosciuto come rifugiato all’ottenimento e al rinnovo del permesso di soggiorno; trattandosi di diritto fondamentale, insuscettibile di essere degradato dalla pubblica amministrazione, le Sezioni Unite ritengono che la sua cognizione spetti alla giurisdizione ordinaria, perlomeno in assenza di norme che stabiliscano una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. TM

 




Inserito in data 26/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 giugno 2013, n. 3402

Partecipazione procedimentale, comunicazione avvio procedimento e vizio di motivazione

Si ribadisce l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui “le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo non devono essere applicate meccanicamente e formalisticamente, dovendo essere invece essere interpretate in senso sostanziale, coordinando in modo ragionevole e sistematico principi di legalità, imparzialità e buon andamento ed i corollari di economicità e speditezza dell’azione amministrativa”.

Da ciò deriva che la mancata comunicazione di avvio del procedimento ed anche la mancata nomina del responsabile del procedimento non possono determinare sic et simpliciter l’annullamento del provvedimento, allorquando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza dei fatti posti a fondamento del provvedimento sfavorevole ai suoi interessi ed abbia avuto la possibilità di svolgere osservazioni e controdeduzioni.

Sotto altro profilo, si è confermato anche che il difetto di motivazione sussiste quando non è dato comprendere in base a quali dati specifici, fattuali e normativi sia stata operata la scelta della PA e non è pertanto possibile ricostruire l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla decisione contestata. Deve quindi escludersi la ricorrenza del vizio quando, anche a prescindere dal tenore letterale dell’atto finale, i documenti dell’istruttoria offrano elementi sufficienti ed univoci dai quali possano ricostruirsi le concrete ragioni e l’iter motivazionale a sostegno della determinazione assunta.

Del resto, nell’adottare un provvedimento la PA non è tenuta a riportare nelle premesse e nella motivazione il testo integrale delle controdeduzioni del destinatario del provvedimento stesso, essendo invece sufficiente che le valuti nel loro complesso o per questioni omogenee, senza necessità di disattenderle in maniera analitica, salvo che non sia provato che l’amministrazione non abbia neppure esaminato le osservazioni e le controdeduzioni formulate, respingendole con una mera formula di stile. CDC



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Inserito in data 26/06/2013
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. II, 24 giugno 2013, n. 1622

Nuovo ultimo comma dell’art. 19 l. 241/90 non si applica ai giudizi in corso

In tema di dia (o scia), con d.l. 138/2011 (conv. con l. 148/2011), è stato modificato l’ultimo comma dell’art. 19, l. 241/90, così rendendo non più praticabile la tecnica di tutela del terzo, danneggiato dalla dia (o scia), elaborata dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 15 del 2011 nei confronti.

Tale norma, secondo la pronuncia in esame, non può però applicarsi ai giudizi in corso per ragioni di carattere pratico, “dovute all’incertezza normativa e giurisprudenziale imperante prima del suo intervento ed alla considerazione che tale incertezza non possa andare a discapito della parte che chiede tutela giurisdizionale”. Devono dunque applicarsi a tali giudizi i principi elaborati dalla giurisprudenza nel vigore del precedente regime normativo ed, in particolare, proprio i principi sanciti dall’Adunanza Plenaria.

Pertanto, poiché, secondo la ricostruzione dell’Adunanza Plenaria, il silenzio, serbato dall’amministrazione nel termine dei trenta giorni successivi alla presentazione della dia, è assimilabile ad un provvedimento tacito negativo, impugnabile dal terzo con azione da proporre nell'ordinario termine decadenziale, è ammissibile l’azione impugnatoria proposta nel caso. CDC

 

 



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Inserito in data 26/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 17 giugno 2013, n. 15108

Caratteristiche del contratto autonomo di garanzia e differenze con la fideiussione

La sentenza in esame condivide la qualificazione, effettuata dai giudici di merito, di alcune polizze fideiussorie come appartenenti al genus del contratto autonomo di garanzia piuttosto che a quello del contratto di fideiussione.

In particolare, si valorizzano l'esclusione della legittimazione del debitore principale a chiedere che il garante opponga al garantito le eccezioni scaturenti dal rapporto principale e la rinuncia ad opporre eccezioni di sorta al garante che, dopo il pagamento, agisca in regresso. Esse, infatti, costituiscono un sicuro indice di una deroga alla normale accessorietà della garanzia fideiussoria.

Viene dato rilievo anche all'indagine, svolta dal giudice di merito, riguardo alla comune intenzione dei contraenti di apprestare una garanzia 'sostitutiva' della cauzione e come tale comportante per l'ente appaltante la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme del tutto simile a quella dell'incameramento di una somma di denaro a titolo di cauzione.

Del resto, anche Cass. SU n. 3947/2010, ha valorizzato, nel contratto autonomo di garanzia, la funzione satisfattiva delle ragioni della stazione appaltante, alla quale viene attribuito il potere di escutere la garanzia in via di autotutela, per incamerarne l'importo, all'esito di un accertamento da essa condotto in senso esclusivo, perché unilaterale e insindacabile, in ogni caso d'insolvibilità del debitore e, comunque, in caso d'inadempimento ancorché incolpevole. CDC




Inserito in data 25/06/2013
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. I, 21 giugno 2013, n. 1392

L’accertamento della “sdemanializzazione tacita” appartiene al G.O.

La sezione distaccata di Salerno del Tar Campania ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, per carenza di giurisdizione, presentato avverso un’ordinanza di sgombero di un terreno del quale si deve accertare la natura giuridica.

Nel caso di specie, infatti, il ricorrente asseriva di essere divenuto proprietario del terreno, oggetto del provvedimento amministrativo, in seguito ad un fenomeno di “alluvione impropria”. Più precisamente, a detta del ricorrente, lo spontaneo abbandono dell’alveo da parte del corso d’acqua avrebbe comportato un’acquisizione dello stesso a titolo originario ex art. 942 c.c., come originariamente formulato: “in caso di abbandono spontaneo e lento dell’alveo da parte di un corso d’acqua, quest’ultimo appartenesse al proprietario della riva scoperta”.

I fatti su cui si fonda la pretesa, infatti, si sarebbero verificati in un’epoca antecedente alle modifiche normative intervenute a seguito della promulgazione della l. n. 37/1994, la quale stabilisce che il terreno abbandonato dalle acque correnti, che insensibilmente si ritirano da una delle rive portandosi sull’altra, appartiene al demanio pubblico.

Da quanto affermato conseguirebbe l’appartenenza del bene alla sfera giuridica del privato, con esclusione di ogni potere della p.a. di dare o negare concessioni demaniali sullo stesso. Pertanto, il provvedimento di diniego risulterebbe viziato da carenza di potere/incompetenza assoluta.

Sulla base di tali osservazioni, il TAR Campania-Salerno, avallando un precedente orientamento espresso dalla sezione di Napoli con sentenza 15 ottobre 2012, n. 4124, ha affermato che “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia che, per quanto formalmente presentata come contestazione di una ordinanza di sgombero, presuppone la corretta qualificazione giuridica di una porzione di suolo e postula, prima di tutto, la corretta delimitazione del demanio (omissis) e verte perciò su diritti soggettivi” (si veda anche C.d.S. sent. 8.07.2011, n. 4110)”.

A ben vedere, infatti, il ricorso avrebbe ad oggetto l’accertamento della proprietà del terreno, essendo contestata alla base l’esistenza di un potere della p.a. nel caso in esame.

Alla luce di quanto detto il Giudice di primo grado ha ritenuto di dover dichiarare la carenza di giurisdizione, in linea con le precedenti pronunce nelle quali si è sostenuto che “la controversia tra privato e p.a. concernente la proprietà di un immobile, sia quando se ne debba accertare la natura demaniale, sia quando si contesti il potere dell'amministrazione di modificarla, è devoluta alla giurisdizione del g.o., a nulla rilevando che le doglianze del privato siano dirette ad impugnare i relativi provvedimenti, oppure a denunciarne i vizi procedurali per carenza o incompletezza dell'attività istruttoria o errori di valutazione” (TAR Salerno, sentenza 18 marzo 2013, n. 351). VA



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Inserito in data 25/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 21 giugno 2013, n. 152

E' costituzionalmente illegittima l’automatica decadenza del direttore ASL

La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 5, della legge della Regione Campania 3 novembre 1994, n. 32 (Decreto legislativo 20 dicembre 1992, n. 502 e successive modifiche ed integrazioni, riordino del servizio sanitario regionale),  limitatamente alle parole «che decadono dopo sessanta giorni dalla pubblicazione del disciplinare».

La norma in esame, infatti, sarebbe contraria all’art. 97 e 117 comma 2 lett. l)  Cost.  sotto molteplici aspetti.Inizio modulo

La disposizione regionale, infatti, avrebbe introdotto una fattispecie di cessazione anticipata dell’incarico che si pone in contrasto con la normativa nazionale vigente la quale prescrive la sottoposizione del rapporto di lavoro del direttore generale alle norme di diritto privato e ne limita la durata ad un tempo non inferiore a tra anni e non superiore a cinque. Le ipotesi di decadenza, al di fuori dei limiti temporali appena descritti, sono regolate dalla stessa legge ed attengono esclusivamente ad ipotesi in cui ricorrano gravi motivi o gravi disavanzi nella gestione o, ancora, in caso di violazioni di legge o dei principi di buon andamento ed imparzialità che regolano l’agere amministrativo.

A seguito della decadenza automatica del direttore generale dell’ASL che, in virtù della natura tecnico-gestionale del suo incarico, deve presentare particolari requisiti di qualità e capacità professionale, verrebbe, dunque, leso il principio di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa in quanto “il carattere automatico della decadenza dall’incarico del direttore, previsto dalla disposizione impugnata[…]esclude una valutazione oggettiva dell’operato del funzionario (sentenze n. 34 e n. 224 del 2010)” e “pregiudicherebbe la continuità dell’azione amministrativa, che viene interrotta dalla decadenza dell’incarico”. VA

 



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Inserito in data 25/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 21 giugno 2013, n. 15711

Vizi di progettazione: appaltatore responsabile anche per il progetto altrui

La S.C. ha affermato l’esistenza di una responsabilità dell’appaltatore per i vizi dell’opera anche quando questi si sia limitato a dare esecuzione al progetto presentato dal committente.

A giudizio dei giudici della Cassazione, infatti, il rispetto delle regole d’arte da parte dell’appaltatore è dovuto anche durante la realizzazione di un progetto altrui. Pertanto, anche in caso di ingerenza del committente, l’appaltatore è tenuto al risarcimento del danno qualora, accortosi dei vizi esistenti nella progettazione o nella direzione dei lavori, non ne abbia dato tempestiva comunicazione al committente, manifestando formalmente il proprio dissenso.

Infatti, “sebbene l’obbligazione dell’appaltatore sia di risultato, la sua responsabilità non è oggettiva ma è commisurata alla diligenza e alla perizia necessarie nel caso concreto e secondo il parametro di cui all’art. 1176 c.c.”.

La S.C. ha, inoltre, escluso l’intervenuta prescrizione a seguito della precisazione delle differenze esistenti tra il momento della consegna dell’opera e quello dell’accettazione della stessa: la prima consiste in un atto materiale compiuto mediante la messa a disposizione del bene nei confronti del committente; la seconda, invece, esige che il committente esprima, anche per facta concludentia, il gradimento dell’opera e la conformità della stessa al progetto e all’utilizzo cui è diretta, da tale accettazione deriverebbe l’esclusione di ogni responsabilità in capo all’appaltatore. Nel caso di specie, dunque, non potrebbe affermarsi l’avvenuta accettazione dell’opera, considerati i numerosi solleciti per l’attivazione ed il completamento dell’impianto.

Infine, in merito alla legittimità o meno della richiesta di restituzione del prezzo versato anche per le prestazioni già eseguite, i giudici hanno stabilito che  “l’appalto, anche nei casi in cui la sua esecuzione si protragga nel tempo, e fatte salve le ipotesi in cui le prestazioni in esso dedotte attengano a servizi o manutenzioni periodiche, non può considerarsi un contratto ad esecuzione continuata o periodica e, pertanto, non si sottrae, in caso di risoluzione, alla regola generale, dettata dall’art. 1458 cc., della piena retroattività di tutti gli effetti, anche in ordine alle prestazioni già eseguite”. VA




Inserito in data 24/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 giugno 2013, n. 3433

Requisiti dell’errore di fatto che può dar luogo a revocazione

E’ opportuno ricordare, invero, che l'errore di fatto che può dar luogo alla revocazione si sostanzia in una falsa percezione, da parte del giudice, della realtà risultante dagli atti di causa, consistente in una svista materiale che lo abbia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto incontestatamente inesistente, oppure a considerare inesistente un fatto la cui verità risulti, al contrario, positivamente accertata.

In ambo i casi ciò vale solo se il fatto (erroneo) sia stato un elemento decisivo della pronuncia revocanda : l’errata percezione deve, cioè, aver rivestito un ruolo determinante rispetto alla decisione, nel senso che occorre un rapporto di necessaria causalità tra l'erronea supposizione e la pronuncia stessa ... E vale purché il fatto non attenga ad un punto controverso sul quale la sentenza abbia pronunciato, perché in tale diverso caso sussisterebbe, semmai, un errore di diritto ..., e con la domanda di revocazione si verrebbe a censurare, in sostanza, l'interpretazione e la valutazione delle risultanze processuali ... L’errore rispondente a tali requisiti, inoltre, deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche. Esso non può consistere, perciò, in un –preteso- inesatto od incompleto apprezzamento delle risultanze e documenti processuali, ovvero in un'anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, vertendosi, in questo caso, in un'ipotesi di errore di giudizio attinente all'attività valutativa del giudice, che come tale esula dall'ambito della revocazione, pena la trasformazione dello strumento revocatorio in un inammissibile terzo grado di giudizio ... Donde la pacifica inammissibilità anche della domanda di revocazione che si fondi sull'erroneo apprezzamento delle risultanze del fatto stesso, e quindi su di una inesatta sua valutazione o interpretazione ... In conclusione, perciò, come ha recentemente ricordato l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 1 del 10 gennaio 2013), l'errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione è configurabile solo nell'attività preliminare del giudice di lettura e percezione degli atti acquisiti al processo, quanto alla loro esistenza e significato letterale, e deve derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del loro contenuto meramente materiale.

Tanto premesso in via generale, quel che nella fattispecie è accaduto è che il giudicante, senza che vi fosse controversia sul punto, e senza svolgere alcuna attività valutativa (né in fatto, né in diritto), ha trattato sic et simpliciter una notifica eseguita presso la sede reale dell’Amministrazione come se la stessa fosse stata effettuata presso il domicilio eletto dall’Amministrazione per il giudizio. Travisamento, questo, che non può che risalire, in concreto, ad una mera svista materiale, verosimilmente scaturita dalla mancata percezione del fatto storico dell’avvenuta costituzione della Provincia (anche con elezione di domicilio) nell’ambito del giudizio di primo grado. E’ evidente, inoltre, sia l’immediata rilevabilità della suddetta svista dalla lettura degli atti di causa, sia il ruolo determinante rivestito da tale errore nella decisione di irricevibilità dell’appello. CC

 

 



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Inserito in data 24/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 10 giugno 2013, n. 14506

In merito ad illeciti commessi dall’amministrazione finanziaria

E' vero, come ha rilevato il giudice a quo, che successivamente all'entrata in vigore del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 26 quinquies, (introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248) - che ha ampliato la categoria degli atti impugnabili dinanzi alle commissioni tributarie - le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione del provvedimento d'iscrizione di ipoteca sugli immobili, al quale l'Amministrazione finanziaria può ricorrere in sede di riscossione delle imposte sui redditi, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, sono devolute alla giurisdizione del giudice tributario (Cass. S.U. n. 7034 del 2009; nn. 13930 e 14501 del 2010).

Tuttavia, è altrettanto vero, che la domanda proposta dal S. nei confronti del concessionario non concerneva il rapporto tributario, bensì l'illecito comportamento - causa del danno lamentato e del conseguente risarcimento preteso - che a giudizio del contribuente il concessionario avrebbe tenuto nel procedere all'iscrizione di ipoteca: sicchè l'indagine sulla legittimità di tale comportamento integrava una mera questione pregiudiziale e non comportava una causa di natura tributaria avente carattere pregiudiziale, che dovesse essere decisa dal giudice giurisdizionalmente competente per materia.

Sul punto queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di precisare che: 'Qualora la domanda di risarcimento dei danni sia basata su comportamenti illeciti tenuti dall'Amministrazione Finanziaria dello Stato o di altri enti impositori, la controversia, avendo ad oggetto una posizione sostanziale di diritto soggettivo del tutto indipendente dal rapporto tributario, è devoluta alla cognizione dell'autorità giudiziaria ordinaria, non potendo sussumersi in una delle fattispecie tipizzate che, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, rientrano nella giurisdizione esclusiva delle Commissioni Tributarie; infatti, anche nel campo tributario, l'attività della P.A. deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, per cui è consentito al giudice ordinario - al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato - accertare se vi sia stato, da parte dell'Amministrazione, un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. (Nella specie, è stata dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda con cui l'attore aveva chiesto il risarcimento dei danni derivanti dalla notificazione di una cartella esattoriale relativa a tassa automobilistica risultata non dovuta perchè già pagata)' (Cass. S.U. n. 15 del 2007). CC




Inserito in data 21/06/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SECONDA SEZIONE, C 219/12 del 20 giugno 2013

Impianti fotovoltaici: sì alla detrazione Iva per il privato che riacquista dalla rete

Con la sentenza in commento, la Corte Ue ha ammesso la detrazione dell’Iva pagata per l’acquisto dell’impianto fotovoltaico da parte del privato che cede stabilmente alla rete una quota di energia prodotta (non potendo immagazzinarla) al prezzo di mercato, riconoscendo, dunque, la natura “economica” dell’attività di cui trattasi.

La Corte ha deciso in merito ad un caso avente come protagonista un signore austriaco che aveva installato un impianto fotovoltaico sul tetto della propria abitazione, poiché, però, tale impianto non aveva capacità di immagazzinamento, il ricorrente era costretto a cedere in rete l’energia elettrica prodotta sulla base di un contratto a tempo indeterminato con una società austriaca, tali cessioni erano remunerate al prezzo di mercato e assoggettate ad Iva.

Nel corso dell’anno, egli riacquistava l’energia elettrica necessaria per le proprie esigenze domestiche al medesimo prezzo al quale l’aveva ceduta alla rete. Il privato ha, dunque, chiesto il rimborso dell’Iva assolta al momento dell’acquisto dell’impianto fotovoltaico ma, si rileva, tuttavia, che il rimborso era stato rifiutato in quanto la sua non era da considerarsi “un’attività economica”.

Soffermandosi sul punto, la Corte ha chiarito che “lo sfruttamento di un impianto fotovoltaico installato sopra o nelle vicinanze di un edificio privato ad uso abitativo e strutturato in modo tale che la quantità di energia elettrica prodotta, da un lato, sia costantemente inferiore alla quantità complessiva di energia elettrica consumata per uso privato dal gestore dell’impianto e, dall’altro, sia ceduta in rete a fronte di un corrispettivo, con la realizzazione di introiti aventi carattere di stabilità, rientra nella nozione di attività economiche”.

Dunque, seguendo la logica propria del sistema dell’Iva, il soggetto passivo può detrarre l’imposta cha ha gravato a monte sui beni (o, comunque, sui servizi) da lui impiegati per le sue operazioni. La detrazione “a monte”, infatti, è connessa alla riscossione delle imposte “a valle”. La soluzione in oggetto sembra, infatti, essere una misura necessaria al fine evitare una doppia imposizione. GMC



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Inserito in data 21/06/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II, 13 giugno 2013, n. 1393

Potere sostitutivo della regione nell'individuazione delle nuove sedi farmaceutiche

Con tale sentenza, viene stabilito che non occorre una particolare motivazione da parte dell'amministrazione per istituire un nuovo esercizio farmaceutico in presenza del parametro demografico fissato dal Legislatore nazionale.

Infatti, l'art. 11, comma 3 del d.l. n. 1/2012, convertito in legge n. 27/2012, stabilisce che "le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano provvedono ad assicurare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, la conclusione del concorso straordinario e l'assegnazione delle sedi farmaceutiche disponibili di cui al c. 2 e di quelle vacanti".

Al successivo comma 9, la medesima disposizione prevede che "qualora il comune non provveda a comunicare alla regione o alla provincia autonoma di Trento e di Bolzano l'individuazione delle nuove sedi disponibili entro il termine di cui al c. 2 del presente articolo, la regione provvede con proprio atto a tale individuazione entro i successivi sessanta giorni".

Dunque, nel caso preso in oggetto, non avendo il Comune completato quell'iter procedimentale di cui al comma 2 della citata disposizione, con l'invio del provvedimento alla regione, questa ha esercitato il proprio potere sostitutivo in modo del tutto legittimo.

Il Legislatore, si badi, nell'individuare il parametro numerico in presenza del quale è consentita l'apertura di un nuovo esercizio farmaceutico, ha effettuato "a monte" una valutazione di opportunità e di adeguatezza rispetto all'obiettivo che mira alla realizzazione del potenziamento della rete farmaceutica e l'accesso alla titolarità delle farmacie, in modo tale che in base al dato della popolazione residente, è possibile giustificare la scelta amministrativa di istituire una ulteriore sede farmaceutica nell'ambito comunale considerato, senza che possa essere altresì necessario motivare sulle ulteriori ragioni che hanno indotto a tale scelta. GMC



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Inserito in data 21/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 giugno 2013 n. 15305

Risarcimento, anche in forma specifica, a carico del notaio se non fa le visure

La Corte di Cassazione, constatando il mancato rispetto dei canoni della diligenza ex articolo 1176 comma 2 c.c. e della buona fede, ha stabilito che: “L’opera professionale del notaio non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti e di direzione nella compilazione dell’ atto, ma si estende alle attività preparatorie e successive”. Dunque, il notaio, quand’anche sia stato esonerato dalle visure, risponde, comunque, per inadempimento della obbligazione di prestazione di opera intellettuale.

Infatti, chiarisce a tal proposito la Corte “la lesione del diritto dell’acquirente in relazione alla certificazione dello stato dell’immobile da parte del notaio proprio perché costituisce colpa contrattuale per inadempimento comporta che il notaio deve fare tutto quanto è dovuto al fine di redigere un atto da cui risulti effettivamente la liberazione da ogni vincolo dell’immobile oggetto della compravendita, ossia è il notaio e non altri a dovere rispondere del suo inadempimento”.

Viene puntualizzato altresì che: “Una volta affermato che l’obbligazione assunta dal notaio relativa alla libertà dell’immobile deve essere da lui adempiuta, indipendentemente da ogni dichiarazione di esenzione manifestatagli dalle parti, ne discende che l’obbligo del risarcimento può essere disposto anche in forma specifica mediante la condanna alla cancellazione del vincolo con il pagamento della somma necessaria a tal fine per il compimento delle richieste formalità, oltre che per equivalente ex art. 2058 c.c., limitando il risarcimento in forma specifica alla sua possibilità in tutto o in parte e alla non eccessiva onerosità per il debitore, da valutarsi da parte del giudice del merito”. GMC




Inserito in data 20/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 giugno 2013, n. 3342

In tema di ottemperanza: termine, nomina commissario ad acta, chiarimenti e astreintes

La presente pronuncia segue ad una precedente sentenza resa in sede di ottemperanza e rimasta ineseguita.

Accogliendo alcune delle richieste del ricorrente e a completamento della precedente decisione, il Consiglio di Stato definisce il termine entro il quale l’Amministrazione deve provvedere e individua nel Prefetto del luogo o in un funzionario da lui delegato, il Commissario ad acta che interverrà in caso di persistente inerzia.

Disattendendo l’altro motivo di ricorso, invece, i Giudici di Palazzo Spada dichiarano l’inammissibilità della richiesta di chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza ex art. 112, c.5, CPA, presentata dalla parte privata vittoriosa. Innanzitutto, perché legittimata a proporre a tale domanda sarebbe solo la parte pubblica soccombente o, a mente dell’art. 114, c. 7, CPA, il commissario ad acta; infatti, “quest’ultima azione, ancorché inquadrata nell’ambito del giudizio di ottemperanza, presuppone la soccombenza e la volontà di attuare la sentenza, essendo conseguentemente finalizzata ad ottenere dal giudice “i chiarimenti di punti del decisum che presentano elementi di dubbio o di non immediata chiarezza””. Secondariamente, la domanda esaminata è inammissibile perché tesa al conseguimento di un bene della vita esulante dal titolo formatosi all’esito del giudizio di cognizione, a sua volta circoscritto in forza del principio della domanda; né in senso contrario depone la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013, invocata dal ricorrente, ”giacché in tale pronuncia si è chiarito che il giudizio di ottemperanza non è equiparabile ad una mera azione di esecuzione delle sentenze, presentando plurimi profili cognitori, connotati dall’esigenza di dare compiuta attuazione al giudicato”, così ribadendosi che “il rimedio dell’ottemperanza è necessariamente delimitato dal giudicato, il quale a sua volta si forma sulla base della pretesa azionata, ma non può da esso esorbitare”.

Infine, il Collegio accoglie pure la richiesta di astreintes ex art. 114, c. 4, lett. e, CPA, trattandosi di rimedio esperibile anche in caso di condanna pecuniaria, poiché la penalità de qua non svolge una funzione risarcitoria, bensì sanzionatoria del comportamento inottemperante al decisum e di incentivo del debitore all’adempimento. TM

 

 



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Inserito in data 20/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 giugno 2013, n. 3343

L’AGA deve accertare in modo oggettivo e rigoroso la sopravvenuta carenza d’interesse

Con la sentenza in epigrafe, il Consiglio di Stato dichiara l’improcedibilità del ricorso per la sopravvenuta carenza d’interesse del ricorrente.

A tal fine ricorda che “la valutazione di sopravvenuta carenza di interesse non è rimessa alla esclusiva valutazione del ricorrente, ma deve essere accertata dal Collegio obiettivamente e con il dovuto rigore, al fine di evitare che la conseguente dichiarazione di improcedibilità si risolva in una elusione dell'obbligo di pronunciare sulla fondatezza della domanda proposta”. Nel caso di specie, essendo stata accertata la conformità, negata dal provvedimento originariamente impugnato, del sistema di gestione della sicurezza dell’azienda della ricorrente, tali presupposti sussistono.

Tuttavia, tale dichiarazione non implica l’annullamento senza rinvio della sentenza di primo grado, poiché, in casi consimili e in assenza di dichiarazione di carenza d’interesse della parte vittoriosa in primo grado, “prevale l’interesse obiettivo alla conservazione della pronuncia di primo grado che ha statuito nel senso della legittimità del provvedimento impugnato, che dunque deve continuare a regolare il rapporto amministrativo in esso contenuto”. Questa conclusione vale anche nel caso sub iudice, atteso che il provvedimento sopravvenuto ha verificato una conformità del sistema di sicurezza postuma rispetto a quella alla base del provvedimento impugnato. TM



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Inserito in data 20/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE CIVILE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 5 giugno 2013, n. 14206

L’onere della prova della lavoratrice discriminata è solo “alleggerito”

La Corte di Cassazione si esprime in ordine all’estensione dell’onere della prova gravante sul lavoratore che agisce per ottenere tutela contro una discriminazione per ragioni di sesso.

Preliminarmente, si ricostruisce il panorama normativo (artt. 3, 37 e 51 Cost.; art. 15 L. n. 300/70; artt. 1-5, 13, 15 L. n. 903/77; art. 4 L. 125/91; d.lgs. 198/06 - cd. codice delle pari opportunità tra uomo e donna).

Dall’esame emerge che la tutela antidiscriminatoria si declina in due azioni ordinarie (l’una individuale e l’altra collettiva), cui corrispondono altrettante procedure d’urgenza.

Sotto il profilo dell’onere della prova, l’art. 40 del Codice sancisce una presunzione semplice dell’esistenza della discriminazione, laddove il ricorrente alleghi elementi di fatto precisi e concordanti in ordine ai comportamenti discriminatori lamentati; detti elementi di fatto possono essere desunti pure da dati statistici. Detta disciplina, coerente con la normativa comunitaria (cfr. art. 19 direttiva n. 2006/54 CE), è stata oggetto di due diverse opzioni interpretative (inversione dell’onere della prova o attenuazione?); in proposito, si è pronunciata la Corte di Giustizia dell’Unione europea (decisione n. 104 del 21/7/11, causa C-104/10), propendendo per la tesi della mera attenuazione dell’onere della prova e, correlativamente, affermando che il lavoratore deve dimostrare i fatti che consentono di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta o indiretta. Stante la lettera della norma e l’autorevole opinione del Giudice comunitario, la Cassazione conclude nel senso che l’art. 40 de quo ha solamente “alleggerito l’onere probatorio a carico del ricorrente anche rispetto alla regola di cui all’art. 2729 cod. civ., in quanto non ha richiesto il requisito di gravità della presunzione, ma solo che la discriminazione si fondi su presunzioni precise e concordanti… rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. In sintesi: dimostrati i fatti che fanno ritenere probabile la discriminazione, spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza”. Si puntualizza, inoltre, che i fatti che il ricorrenti deve dimostrare per beneficiare della presunzione devono essere ben determinati nella loro realtà storica (“precisi”), convergenti nella prova della discriminazione (“concordanti”) e seri (in quanto “desumibili da dati statistici”, ovvero da una prova connotata per l’esplicitazione delle modalità di rilevazione dei risultati, per il fondarsi su misurazioni oggettive dei fenomeni e per la chiarezza espositiva delle informazioni ottenute). TM

 

 




Inserito in data 19/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2013, n. 3327

Legittimità del sistema di regressione tariffaria per le prestazioni sanitarie

Si ribadisce che, nel vigente quadro normativo, spetta alle Regioni provvedere, con atti autoritativi e vincolanti di programmazione, alla fissazione del tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario regionale e distribuire le risorse disponibili per singola istituzione o per gruppi di istituzioni, nonché provvedere alla determinazione dei preventivi annuali delle prestazioni, assicurando l'equilibrio complessivo del sistema sanitario. Nell'esercizio di tale funzione, le Regioni hanno un ampio potere discrezionale nello stabilire come le risorse disponibili debbano essere utilizzate ed esercitano tale potere tenendo conto di molteplici esigenze, quali il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, l'efficienza delle strutture pubbliche, le legittime aspettative degli operatori privati che operano secondo logiche imprenditoriale, l'interesse pubblico al contenimento della spesa.

In tale quadro, anche il sistema di regressione tariffaria per le prestazioni sanitarie che eccedono il tetto massimo prefissato deve ritenersi espressione del potere autoritativo di fissazione dei tetti di spesa e di controllo pubblicistico della spesa sanitaria.

Come affermato anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenze n. 3 e n. 4 del 2012), l’attività di pianificazione delle risorse da parte delle Regioni, in quanto necessaria, può essere esercitata anche nel corso dell'anno di riferimento e “la fissazione, in corso d'anno, di tetti che dispieghino i propri effetti anche sulle prestazioni già erogate non può considerarsi, in quanto tale, illegittima atteso che la retroattività dell'atto di determinazione della spesa non vale ad impedire agli interessati di disporre di un qualunque punto di riferimento regolatore per lo svolgimento della loro attività”. Infatti, in un sistema nel quale è fisiologica la sopravvenienza dell'atto determinativo della spesa solo in epoca successiva all'inizio di erogazione del servizio, gli interessati, fino a quando non risulti adottato un provvedimento formale, potranno aver riguardo all'entità delle somme contemplate per le prestazioni dei professionisti o delle strutture sanitarie dell'anno precedente, diminuite della riduzione della spesa sanitaria contemplata dalle norme finanziarie dell'anno in corso.

Poiché, dunque, l'autonomia dei vari soggetti ed organi operanti nel settore non può prescindere dalla limitatezza delle risorse e dalle esigenze di risanamento del bilancio nazionale, deve ritenersi legittimo il metodo di una remunerazione definibile con esattezza solo a consuntivo e in relazione alla conoscenza dei dati di superamento del budget regionale. È quindi legittimo il metodo della regressione tariffaria che, pur preventivamente disposta, diventi certa nel suo ammontare definitivo solo successivamente alla erogazione delle prestazioni, senza che ciò sia irragionevole o lesivo delle prerogative imprenditoriali. CDC



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Inserito in data 19/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 13 giugno 2013, n. 137

Illegittime leggi di stabilizzazione precari e di indizione di concorsi riservati

Contrastano con gli artt. 3 e 97 Cost le disposizioni regionali che consentono all’amministrazione regionale di stabilizzare lavoratori precari o di indire concorsi interamente riservati. Esse violano, infatti, i principi del pubblico concorso e quelli di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.

È irrilevante, sul punto, il fatto che i lavoratori precari da stabilizzare siano stati “assunti” mediante avviso di selezione pubblica per titoli ed esami. Ciò, infatti, per effetto della diversità di qualificazione richiesta delle assunzioni a termine rispetto a quelle a tempo indeterminato, non offre adeguata garanzia né della sussistenza della professionalità necessaria per il suo stabile inquadramento nei ruoli degli enti pubblici regionali, né del carattere necessariamente aperto delle procedure selettive.

Occorre quindi ribadire che “il principio del pubblico concorso ha un ampio ambito di applicazione tale da ricomprendere non solo le ipotesi di assunzione di soggetti in precedenza estranei all’amministrazione, ma anche casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo”. Deroghe a tale principio sono legittime solo in quanto siano funzionali al buon andamento dell’amministrazione e solo ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico. CDC



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Inserito in data 19/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 11 giugno 2013, n. 14648

Giudice non può pronunciare risoluzione del contratto in favore di entrambe le parti

Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando le parti si addebitino inadempimenti reciproci, proponendo vicendevolmente l'una contro l'altra domande contrapposte, come anche nel caso in cui il convenuto si limiti a contrastare la domanda di risoluzione o di adempimento giustificando la propria inadempienza con l'inadempienza dell'altro contraente, il giudice del merito deve procedere ad una valutazione unitaria e comparativa dei rispettivi inadempimenti e comportamenti dei contraenti, che, al di là del pur necessario riferimento all'elemento cronologico degli stessi, li investa nel loro rapporto di dipendenza (causale) e di proporzionalità, nel quadro della funzione economico-sociale del contratto, in modo da consentire di stabilire su quale dei contraenti debba ricadere l'inadempimento colpevole che possa giustificare l'inadempimento dell'altro.

È possibile che tale accertamento dia esito negativo per entrambe le domande o le eccezioni vicendevolmente proposte, nel senso che gli inadempimenti dedotti non sussistano o non siano connotati dalla gravità richiesta dall'art. 1455 cc per la risoluzione del contratto, sicché le contrapposte domande o eccezioni debbano essere respinte. Non è inverabile, al contrario, l'ipotesi opposta, perché nei contratti a prestazioni corrispettive il giudice non può pronunciare la risoluzione del contratto o ritenere la legittimità del rifiuto di adempiere ex art. 1460 cc in favore di entrambe le parti. Infatti, la valutazione della colpa nell'inadempimento ha carattere unitario e l'inadempimento deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente, abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell'altra parte. CDC




Inserito in data 18/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 giugno 2013, n. 3324

Non è legittimato ad impugnare il precedente fornitore se non partecipa alla gara

I Giudici di Palazzo Spada, facendo applicazione dei principi espressi dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 7 aprile 2011, hanno dichiarato “fondata l’eccezione di inammissibilità dell’impugnativa dell’esito della gara formulata dalla resistente […] per l’assenza in capo alla stessa di una posizione legittimante alla proposizione del ricorso, non avendo la società ricorrente a suo tempo avanzato domanda di partecipazione alla gara di cui si contesta l’esito”.

La sentenza sopra citata, infatti, ha ribadito la spettanza della legittimazione al ricorso esclusivamente in capo a quanti abbiano partecipato alla gara, fatta eccezione per le ipotesi tassativamente individuate dalla legge (contestazione della scelta della stazione appaltante di indire una procedura di gara; giudizi avverso un affidamento diretto da parte dell’operatore economico di settore e ricorso avverso clausole escludenti dalla gara stesso).

L’impugnativa, infatti, è un mezzo di tutela strumentale al soddisfacimento del bene della vita, non potrebbe, pertanto, ritenersi ammissibile laddove proposta solo al fine di assicurare la regolarità e la legittimità dell’azione amministrativa.

Nel caso in esame la Corte ha rilevato che non ricorreva nessuna delle tre ipotesi sopra elencate né, a giudizio del collegio potrebbe ritenersi sussistente una legittimazione all’impugnazione in considerazione della qualità di precedente fornitore del prodotto “in una sorta di diritto di insistenza a conservare la qualità di affidatario; ciò anche alla luce dell’art. 57, ultimo comma, del d.lgs. n. 163 del 2006, che preclude ogni rinnovo del contratto oltre i termini stabiliti nell’ iniziale procedura di affidamento”. VA



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Inserito in data 18/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 giugno 2013, n. 3314

Le tabelle ministeriali sul costo lavoro: funzione “indicativa” di anomalie

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato avverso l’aggiudicazione di una gara di appalto che si svolgeva con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

I Giudici di Palazzo Spada, infatti, hanno ritenuto inammissibile la censura con la quale l’appellante lamentava che l’aggiudicazione fosse avvenuta da parte dell’offerta più onerosa.

A parere del Consiglio di Stato la scelta era avvenuta sulla base dei criteri perfettamente individuati e descritti nel bando di gara, il quale prevedeva una ponderazione differenziata dei vari servizi oggetto di gara.

Pertanto la società appellante, laddove ritenesse illegittima e violativa dei principi di economicità ed efficienza l’applicazione del suddetto criterio, invece della valutazione complessiva dell’offerta, ben avrebbe potuto impugnare il bando di gara, infatti “non è possibile impugnare un’offerta “in sé e per sé considerata”, ma solo la clausola del bando che ha consentito che tale offerta potesse essere presentata, ovvero la decisione di ritenere l’offerta ammissibile […]Non sussiste quindi alcuna violazione del criterio di aggiudicazione previsto dall'art. 83 del d.lgs. n. 163/2006 e della “lex specialis”, che consentiva la presentazione di offerte come quella di cui trattasi”.

Parimenti priva di fondamento è stata ritenuta l’accusa di anomalia dell’offerta sulla base del forte scostamento del costo del lavoro indicato rispetto alle tabelle ministeriali.

Tali tebelle, infatti, non hanno valore cogente, ma svolgono una funzione indicativa di una possibile anomalia. Ne consegue la possibilità di discostarsi dai parametri ivi contenuti indicando i venefici che consentono di disporre di costi inferiori (art. 87, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 163/2006 e dall’art. 2 del D.M. 8.7.2009).

Precisa, inoltre, il Consiglio di Stato che la suddetta norma “nella versione in vigore all’epoca dei fatti di causa, non prevedeva che l’offerta anomala dovesse essere giustificata mediante puntuale indicazione dei benefici giustificanti i minori costi, limitandosi ad indicare le materie che le giustificazioni potevano riguardare, tra cui, alla lettera g), il costo del lavoro. A sua volta l’art. 2 del D.M. 8.7.2009 contiene una elencazione di benefici di tipo esclusivamente esemplificativo.

Nel formulare le proprie giustificazioni, quindi, la impresa de qua ben poteva far libero ricorso a tutti gli elementi di fatto o di diritto che avevano consentito di formulare l’offerta nei termini oggetto di verifica di anomalia”. VA

 

 



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Inserito in data 18/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 13 giugno 2013, n. 25939

Reato continuato: violazione più grave individuata in concreto

Le Sezioni Unite sono state interpellate per risolvere il contrasto giurisprudenziale formatosi in merito ai criteri da utilizzare per l’individuazione della “violazione più grave” da applicare al reato continuato.

Infatti, posta la concezione unitaria del reato continuato, limitatamente agli effetti presi in considerazione dalla legge, l’art. 81 c.p. prescrive l’applicazione della pena prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo (nel rispetto del limite massimo stabilito dalle norme sul cumulo materiale).

Invero, sul punto, si sono formati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma in questione: un primo indirizzo, che può considerarsi maggioritario, sostiene che, ai fini dell’individuazione della “violazione più grave”, si debba fare riferimento alla pena comminata in astratto, tenendo conto del genere e dell'entità della sanzione comminata, con le conseguenti ricadute.

E’ tuttavia precisato che il “giudice non può irrogare una sanzione che risulti inferiore a quella minima stabilita per uno dei reati-satellite rispetto ai quali venga ravvisata la continuazione” (Sez. U, n. 15 del 26/11/1997); il secondo indirizzo, invece, ritiene che l’individuazione della violazione più grave debba essere effettuata in concreto. Per meglio dire, a seguito delle valutazioni effettuate dal giudice, tenuto conto anche delle varie circostanze che possono trovare, secondo i criteri indicati nell'art. 133 c.p.  

In ogni caso, l'individuazione del reato ritenuto in concreto più grave avrebbe come limite invalicabile l’impossibilità di applicare una pena inferiore a quella che sarebbe stata irrogabile per un reato concorrente, sanzionato con pena edittale maggiore nel minimo.

La Suprema Corte, nel porre fine all’annosa questione, hanno avallato l’orientamento maggioritario osservando come “qualora si attribuisse rilievo alla decisione adottata in concreto dal giudice in relazione alla singola fattispecie sottoposta al suo esame, si invaderebbe uno spazio riservato alla competenza esclusiva del legislatore, al quale soltanto spetta stabilire se una condotta contraria alla legge debba essere qualificata più o meno grave di un'altra e configurare come delitto anziché come contravvenzione una determinata condotta contra ius. Inoltre la determinazione giudiziale caso per caso della violazione più grave in concreto potrebbe essere foriera delle soluzioni più disparate con conseguente possibile lesione dell'affidamento in una parità di trattamento di situazioni analoghe”.

La soluzione adottata risulta ancor più convincente se si pone l’attenzione sul dato letterale della norma: l'espressione "violazione", infatti, infatti, rappresenta un concetto distinto dalla nozione di pena.

Tuttavia, osservano gli Ermellini, la nozione di “violazione più grave” è un concetto complesso che implica anche una valutazione delle concrete modalità di manifestazione del fatto di reato: la sanzione edittale, infatti, è intesa come la pena prevista in astratto con riferimento al reato contestato tenendo conto delle singole circostanze, salvo le ipotesi tassative in cui ne viene esclusa la rilevanza.

Inoltre, “fermo restando il criterio di individuazione della violazione più grave sopra enunciato, qualora il giudice intenda graduare al livello più basso la dosimetria della pena, non gli è tuttavia consentito applicare una pena-base inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati dall'identità del disegno”, assunto, peraltro condiviso da entrambi gli orientamenti interpretativi. VA




Inserito in data 17/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 giugno 2013, n. 3196

Conferma il recente revirement sull’interpretazione dell’art. 49 cod. nav. 

L’art. 1, comma 251 della legge finanziaria 2007, nel rideterminare la misura dei canoni dovuti per le concessioni demaniali, differenzia le opere insistenti sull’area demaniale in “impianti di facile rimozione”, “impianti di difficile rimozione” (secondo la distinzione già operata dal Codice della navigazione, r.d. 30 marzo 1942 , n. 327), ovvero “pertinenze”. Un primo evidente effetto ne consegue: non tutti i manufatti insistenti su aree demaniali partecipano della natura pubblica – e dell’inerente qualificazione demaniale della titolarità del sedime, poiché solo ad alcuni, nella stessa dizione della legge, appartiene la natura pertinenziale. Per gli altri (che la legge indica come impianti di difficile o non difficile rimozione: definizione che appare inadatta a stabilire una differenza di categoria, dato che anche gli immobili pertinenziali possono essere, di per sé, rimovibili con facilità o con difficoltà) si deve allora riconoscere, per esclusione, la qualificazione di cose immobili di proprietà privata fino a tutta la durata della concessione, evidentemente in forza di un implicito diritto di superficie , così come sostenuto dall’appellante.

Tale conclusione è avvalorata dall’art. 49 del Codice della navigazione che, per le opere non amovibili, prevede, salvo che non sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, l’acquisizione allo Stato solo al momento della cessazione della concessione “senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato”: è quindi solo con la cessazione del rapporto nascente dalla concessione che si verifica, con l’accessione al demanio, l’espansione all’impianto sovrastante della natura pubblica del suolo, e perciò, viene a sussistere il presupposto per la sua qualificazione funzionale come pertinenza demaniale.

Applicando i suesposti principi al caso di specie, vale evidenziare come la concessione ... concerne l’uso di “una zona demaniale marittima”, ha cioè ad oggetto un’area, e il manufatto sovrastante realizzato dopo il rilascio della concessione, ne costituisce lo scopo, e non l’oggetto. Il manufatto, invero, nasce come proprietà privata superficiaria acquisita a titolo originario dal concessionario del sedime, sebbene il suo diritto sia di durata temporanea e pari a quella della concessione ... Come tale, del resto, è stato sempre considerato (“opera di non facile rimozione” e cioè, secondo l’imperfetta definizione della legge, non pertinenziale) nei provvedimenti determinativi del canone, fino al provvedimento impugnato in primo grado. Perché se ne verifichi il mutamento del titolo e della titolarità (e perciò l’assunzione quale elemento su cui parametrare l’entità del canone concessorio) è dunque necessaria la cessazione della concessione, evento al quale è collegato con effetto legale automatico, ma che non coincide con la semplice scadenza della concessione: effetto, questo, che non si è ancora verificato ...

Come questo Consiglio di Stato ha osservato, infatti, (sez. VI, 26 maggio 2010, n. 3348) il principio dell'accessione gratuita di cui al ricordato art. 49 Cod. nav. non trova applicazione quando il titolo concessorio è stato oggetto di rinnovo automatico prima della data di naturale scadenza della concessione -nel caso di specie, in forza di una espressa norma di legge- tanto da configurare il rinnovo stesso, al di là del nomen iuris, come una piena proroga dell’originario rapporto e senza soluzione di continuità. CC



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Inserito in data 17/06/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II QUATER, 11 giugno 2013, n. 5861

Atti amministrativi generali-regolamentari: inammissibile rimedio avverso silenzio

Tanto per gli atti amministrativi generali quanto per gli atti regolamentari è esclusa l’ammissibilità dello speciale rimedio processuale avverso il silenzio inadempimento della PA, in quanto tale rimedio va strettamente circoscritto alla sola attività amministrativa di natura provvedimentale, ossia finalizzata all’adozione di atti destinati a produrre effetti nei confronti di specifici destinatari. 

Se il criterio con cui viene ammessa l’impugnazione dinanzi al TAR di un atto regolamentare o generale è l’attitudine di detto atto o in via diretta, per il contenuto auto-applicativo della disposizione, o per tramite di un atto applicativo a ledere immediatamente la sfera giuridica di un soggetto, allo stesso modo il ricorso avverso il silenzio deve essere ammesso qualora l’inerzia nell’adozione di un atto regolamentare o amministrativo produca effetti lesivi non su di una pluralità indifferenziata di destinatari ma nella sfera giuridica di singoli amministrati specificamente individuati, giacché in questo caso esso ha gli stessi effetti di un atto di natura provvedimentale. CC



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Inserito in data 17/06/2013
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. III, SENTENZA NON DEFINITIVA 5 giugno 2013, n. 901

Ripudio dell’accessione invertita e risarcimento per occupazione illegittima

La c.d. accessione invertita (o occupazione appropriativa o acquisitiva) non ha più base legale nel nostro ordinamento, dal quale detto istituto risulta espunto. Il trasferimento della proprietà privata alla mano pubblica può avvenire soltanto attraverso lo strumento negoziale, l’usucapione, il procedimento espropriativo ordinario o in via eccezionale attraverso lo strumento dell’art. 42-bis del DPR n. 327 del 2001. In tutti gli altri casi l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione si configurano come un illecito di diritto comune, ovvero come un comportamento “mero”, insuscettibile di determinare il trasferimento della proprietà in suo favore, fermo il diritto al risarcimento dei danni arrecati anche in forma specifica.

L’evoluzione subita dall’istituto della occupazione acquisitiva, e il suo superamento da parte dell’ordinamento, portano al risultato che le occupazioni illegittimamente disposte o proseguite dall’Amministrazione, per quanto accompagnate dalla irreversibile trasformazione dei beni occupati, funzionale alla realizzazione dell’opera pubblica, non comporta la perdita della proprietà in capo ai privati e la sua acquisizione alla mano pubblica.

I privati i cui beni siano stati illegittimamente occupati dall’Amministrazione non possono chiedere il risarcimento del danno collegato alla perdita della titolarità del bene, giacché tale perdita, sotto il profilo dominicale, non vi è stata, la proprietà degli stessi permanendo in capo ai privati medesimi. Ne discende l’inammissibilità della domanda che miri ad ottenere il risarcimento dei danni subiti per perdita dei beni, pari al valore venale degli stessi.

In presenza di occupazione illegittima spetta al privato il risarcimento del danno da perdita di possesso del bene per il periodo che ha come termine iniziale lo scadere del termine di occupazione legittima mentre il termine finale deve essere individuato nel momento in cui la pubblica amministrazione acquisterà legittimamente la proprietà dell’area. CC



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Inserito in data 14/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2013, n. 3231

Divieto per le PP.AA. di richiesta di atti concernenti stati, fatti e qualità personali già acquisiti

L’azione amministrativa deve ispirarsi al fondamentale principio del buon andamento, alla luce dell’art. 97, secondo comma, della Costituzione. La P.A., infatti, in virtù di tale canone costituzionale, non può richiedere ai privati atti o certificati riguardanti stati, qualità personali e fatti attestati in documenti già in possesso della stessa o di altra Amministrazione.

Emerge, infatti, dal testo della sentenza che “in particolare, ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. 445/2000 nel testo previgente, “le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi non possono richiedere atti o certificati concernenti stati, qualità personali e fatti che risultino elencati all’art.46, che siano attestati in documenti già in loro possesso o che comunque esse stesse siano tenute a certificare. In luogo di tali atti o certificati i soggetti indicati nel presente comma sono tenuti ad acquisire d’ufficio le relative informazioni.”

Nel caso specifico, si rileva che il DURC (documento unico di regolarità contributiva), rientra, infatti, tra i certificati di cui all’art. 46, comma I, lett. p) (“assolvimento di specifici obblighi contributivi con l’indicazione dell’ammontare corrisposto”), come è stato altresì ribadito dalla recente giurisprudenza amministrativa.

Tale documento, attestante l’assolvimento, da parte dell’impresa, degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti di INPS, INAIL e Cassa Edile, serve per tutti gli appalti e subappalti di lavori pubblici (verifica dei requisiti per la partecipazione alle gare, aggiudicazione alle gare, aggiudicazione dell’appalto, stipula del contratto, stati d’avanzamento lavori, liquidazioni finali), per i lavori privati soggetti al rilascio della concessione edilizia o alla DIA, per le attestazioni SOA.

Esso contiene, essenzialmente, il risultato delle verifiche effettuate, parallelamente, da INAIL, INPS e Cassa Edile, sulla posizione contributiva dell’impresa. Nel caso in cui il DURC sia negativo, ovvero nel caso in cui si attesti una posizione di irregolarità contributiva dell’impresa, oltre alle ordinarie azioni di recupero del credito da parte degli enti, tra le varie conseguenze, l’impresa perderà l’aggiudicazione dell’appalto, non potrà stipulare contratti di appalto o subappalto, non avrà diritto al pagamento dei SAL o delle liquidazioni finali. GMC



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Inserito in data 14/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 11 giugno 2013, n. 3228

Il responsabile del procedimento è deputato alla verifica dell’anomalia

Il responsabile del procedimento è il dipendente, appartenente alla pubblica amministrazione, a cui è affidata la gestione del procedimento amministrativo.

È una figura introdotta nell’ordinamento giuridico italiano grazie alla Legge 241/1990, nel pieno rispetto del principio di trasparenza dell’attività amministrativa.

Ai sensi dell’art. 4 della citata legge, si rileva, infatti, che: “ove non sia già direttamente stabilito per legge o per regolamento, le pubbliche amministrazioni sono tenute a determinare per ciascun tipo di procedimento relativo ad atti di loro competenza l’unità organizzativa responsabile dell’istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell’adozione del provvedimento finale”. Il dirigente dell’unità organizzativa interessata deve, dunque, assegnare a sé, ovvero a un altro dipendente dell’unità, il ruolo di responsabile del procedimento.

L’introduzione di tale fondamentale figura, dagli anni novanta in poi del secolo scorso, ha fatto in modo che si rivoluzionasse totalmente il rapporto tra cittadino e P.A., dunque tra amministrati ed amministratori, eliminando quel modello, inizialmente concepito, in cui il privato si trovava dinnanzi ad un soggetto indistinto, teso a frazionarsi in una serie di interlocutori di volta in volta diversi tra loro.

L’obbligo di individuare il responsabile del procedimento rientra, altresì, all’interno delle situazioni di vantaggio insopprimibili, ricomprese tra i cc.dd. LEP (ovvero livelli essenziali di prestazioni), di cui all’art. 117, comma 2, lett. m., della Costituzione.

Il responsabile del procedimento, tra i compiti a lui spettanti, è altresì investito della funzione di svolgere la verifica dell’anomalia, potendosi avvalere anche, nel caso in cui sia costituita, di una apposita Commissione.

Alla luce di tali considerazioni, l’art. 284 del D.P.R. n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione del Codice dei Contratti pubblici) nel dare attuazione all’art. 88 del Codice in relazione agli appalti di servizi, rinvia all’art. 121 del D.P.R. n. 207, il quale, al comma 10, con riferimento al procedimento per la verifica dell’anomalia per le gare da aggiudicare mediante il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, prevede che nel caso in cui vi siano offerte da sottoporre alla verifica di congruità (art. 86, comma 2), “qualora il punteggio relativo al prezzo e la somma dei punteggi relativi agli altri elementi di valutazione delle offerte siano entrambi pari o superiori ai limiti indicati dall’art. 86, comma 2, del codice, il soggetto che presiede la gara chiude la seduta pubblica dandone comunicazione al responsabile del procedimento. Quest’ultimo deve procedere alla verifica delle giustificazioni presentate dai concorrenti ai sensi dell’art. 87, comma 1, del codice, avvalendosi degli uffici o organismi tecnici della stazione appaltante ovvero della commissione di gara, ove costituita”. GMC



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Inserito in data 14/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 giugno 2013, n. 3133

Sorte del contratto e nullità per violazione o elusione del giudicato

In tale sede, si affronta il tema dell’annullamento dell’aggiudicazione. Questo, infatti, implica la caducazione automatica del contratto, poiché la fase di evidenza pubblica ne rappresenta un requisito legale di efficacia.

Per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, dunque, si determina un travolgimento automatico del contratto, in virtù del principio generale del simul stabunt, simul cadent, il quale caratterizza anche i negozi giuridici privati collegati in via necessaria. Nonostante ciò, in seguito al recepimento della c.d. “Direttiva ricorsi” (Dir. n. 66 del 2007, recepita con il d. lgs. n. 53 del 2010) dovranno comunque ritenersi applicabili le regole contenute negli artt. 121 e ss. del c.p.a.

Occorre rilevare che le condizioni di validità, efficacia, nullità o annullabilità del contratto, siano esse inerenti, estranee o sopravvenute alla struttura del contratto, nonché le fattispecie di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica o sussistente di vizi che ne affliggono i singoli atti, possono essere accertate incidentalmente dal giudice amministrativo nel caso in cui la loro determinazione possa considerarsi funzionale all’accertamento rimesso alla cognizione del giudice amministrativo medesimo.

Alla luce dell’art. 8, comma 1, c.p.a., il G.A. ha, infatti, il potere di decidere, senza efficacia di giudicato, tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria ai fini della pronuncia sulla questione principale.

Nonostante l’art. 21-septies della legge 241\1990 disponga la nullità dell’atto che viola o elude il giudicato, e non della pronuncia del giudice che non possegga, ancora, il carattere della definitività, sulla base di una probabile equivalenza tra il giudicato ed il giudicato cautelare, emerge la nullità dei provvedimenti amministrativi dell’ordinanza cautelare divenuta inoppugnabile. Ciò accade, fondamentalmente, in virtù di una nozione di giudicato più ampia, che ricomprende tutte le pronunce immediatamente esecutive, contraddistinte, appunto, per la loro stabilità. Si rileva che tale possibilità interpretativa è suffragata dall’art. 114, comma 4, c.p.a. che, alla lett. c), prevede che in caso di accoglimento del ricorso, il giudice possa pronunciare l’inefficacia degli atti emessi in violazione od elusione di sentenze non passate in giudicato o di altri provvedimenti.

Quanto all’indennità contemplata all’art. 2041 c.c., questa deve essere liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale patita dall’esecutore della prestazione fornita in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe potuto percepire a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto, non si potrà fare utilizzo della revisione dei prezzi, la quale tende, fondamentalmente, a far sì che il richiedente ricevi quanto si riprometteva di ricavare dalla esecuzione del contratto. Questa non potrà, inoltre, rappresentare neanche un parametro di riferimento, poiché si tratta di un meccanismo sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, pur sempre a fronte di un valido contratto di appalto. GMC



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Inserito in data 13/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 giugno 2013, n. 3246

Caso esemplificativo di giurisdizione dell’AGO in tema di servizi pubblici

Con la decisione in commento, i Giudici di Palazzo Spada individuano il giudice avente giurisdizione rispetto ad alcuni provvedimenti dell’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, tesi ad ottenere il versamento di penali ed interessi per il preteso ritardato pagamento da parte del concessionario di somme dovute in ragione di una convenzione di concessione.

Preliminarmente, si evidenza che l'attività di raccolta delle scommesse e di organizzazione/esercizio di concorsi pronostici è riservata allo Stato e alle sue articolazioni per un duplice fine: ottenere un congruo flusso di entrate all'erario e, soprattutto, garantire l'interesse pubblico alla regolarità e moralità del servizio, prevenendo la sua possibile degenerazione criminale.

Poi, conformemente alla giurisprudenza unanime, il Consiglio di Stato qualifica quale servizio pubblico, suscettibile di concessione in gestione a terzi, l’attività di raccolta di scommesse sportive; conseguentemente, deduce la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie sorte rispetto alla predetta attività, con esclusione di quelle aventi ad oggetto indennità, canoni ed altri corrispettivi che, alla stregua della sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, sono conosciute dal giudice ordinario. Tale esclusione è oggi positivizzata nell’art. 133, c.1, lett. C, C.P.A.

Poiché la controversia sub iudice attiene ad aspetti esclusivamente patrimoniali del rapporto concessorio (a corrispettivi la cui determinazione nell’an e nel quantum non necessita dell’intermediazione del potere pubblico), il Consiglio di Stato afferma la giurisdizione del giudice ordinario e, di conseguenza, il proprio difetto di giurisdizione.

Né in senso contrario depone la circostanza che l’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato abbia parzialmente annullato il provvedimento originariamente emesso sul punto, stante la possibilità di esercitare poteri di rettifica del quantum debeatur anche nell’ambito di rapporti paritetici, ove il soggetto passivo dell’obbligazione dimostri che il conteggio delle spettanze sia errato.

Atteso l’unanime rigetto del criterio del petitum formale, non rileva neppure la circostanza che il ricorrente abbia impugnato la concessione, in quanto l’automaticità del calcolo degli importi ivi contenuta non è direttamente censurabile alla luce dello jus superveniens. TM

 

 



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Inserito in data 13/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 giugno 2013, n. 3248

Non retribuibilità delle prestazioni dei laboratori accreditati, in assenza di contratto

La pronuncia del Consiglio di Stato trae origine dal mancato rinnovo ad opera dell’ASL BAT del rapporto contrattuale con il laboratorio di analisi appellante per l’acquisto di prestazioni in regime convenzionale.

La scelta di non rinnovare era stata motivata sulla base del rinvenimento nello stabile del laboratorio di reagenti scaduti.

Sebbene il Giudice penale abbia, poi, assolto i membri del laboratorio dall’accusa di truffa e false forniture all’ASL, stante la mancata dimostrazione dell’effettivo uso dei reagenti scaduti, a giudizio del Consiglio di Stato, non può comunque dirsi insufficientemente motivato il mancato rinnovo. In particolare, “L’accertata presenza sugli scaffali del laboratorio (ed anche in frigorifero) di numerose confezioni di reagenti scaduti, deve ritenersi, come pure sostenuto dal T.A.R., per la sua oggettiva gravità, comunque sufficiente a giustificare la disposta interruzione del rapporto contrattuale in essere con il Laboratorio appellante, per la violazione delle regole che non consentono anche la sola custodia promiscua dei reagenti, al fine di evitare il pericolo che, anche solo per errore, tali reagenti possano essere utilizzati con grave rischio sulla correttezza delle analisi effettuate e quindi per la salute pubblica”. 

Premesso ciò, il Supremo Consesso amministrativo respinge le istanze di pagamento avanzate dal laboratorio appellante in relazione a prestazioni rese all’ASL BAT dopo l’accertamento delle predette inadempienze e, perciò, in assenza di contratto.

A tal fine si precisa che l’accreditamento istituzionale, nuovamente ottenuto dal laboratorio appellante, costituisce solo un presupposto per la sottoscrizione di un contratto con l’Azienda sanitaria; infatti, mediante l’accreditamento si verifica soltanto la sussistenza dei requisiti tecnici necessari per poter erogare prestazioni per conto del servizio sanitario.

Viceversa, solamente il contratto dà diritto ad erogare dietro corrispettivo le prestazioni, nei limiti quantitativi ed economici assegnati. In definitiva, si conferma il principio della non retribuibilità delle prestazioni rese alle ASL in assenza di contratto, alla stregua del quale “i soggetti accreditati con il servizio sanitario nazionale non hanno alcun diritto all’erogazione di somme per le prestazioni erogate in assenza di contratto con le Aziende sanitarie”.

Così dicendo, però, non si esclude la possibilità che il giudice ordinario riconosca il diritto al pagamento ex art. 2041 c.c. delle prestazioni effettivamente rese agli assistiti per conto del SSN dal laboratorio appellante, né che l’ASL possa legittimamente retribuire le prestazioni rese da altre strutture sanitarie accreditate pur in mancanza (momentanea) di contratto, considerate le specifiche ragioni che avevano indotto l’amministrazione ad interrompere il rapporto contrattuale in essere con il laboratorio appellante. TM



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Inserito in data 13/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 10 giugno 2013, n. 25401

Anche dopo la L. n. 49/06, è penalmente lecito il consumo di gruppo di stupefacenti

La questione di diritto che le Sezioni Unite hanno risolto con la sentenza in epigrafe consiste nello stabilire “se, a seguito della novella introdotta dalla L. n. 49 del 2006, il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, nella duplice ipotesi di mandato all'acquisto o dell'acquisto comune, sia o meno penalmente rilevante”.

In premessa, la Suprema Corte compie un’interessante e approfondita ricostruzione dell’evoluzione del diritto vivente in ordine alla rilevanza giuridica del consumo, personale e di gruppo, di stupefacenti.

A fronte della formulazione originaria del T.U. in materia di stupefacenti si considerava penalmente rilevante sia l’acquisto su mandato di terzi, che l’acquisto congiunto di sostanze stupefacenti (ossia entrambe le modalità attraverso cui si realizza l’uso di gruppo); in particolare, si riteneva che “la ripartizione dello stupefacente tra i codentori importasse una reciproca cessione di parti del quantitativo codetenuto, simile ad ogni altra forma di cessione”.

A seguito del referendum abrogativo, divenne penalmente irrilevante tutta l’area del consumo personale, senza che a tal fine vi fosse più la necessità di rispettare il limite quantitativo della dose non superiore a quella media giornaliera.

Ciò influì sulla stessa considerazione giuridica dell’uso di gruppo: dopo un iniziale dibattito giurisprudenziale, le Sezioni Unite virarono verso la non punibilità, purché fosse certa fin dal principio l’identità dei soggetti nell’interesse dei quali l’agente agiva, nonché la loro volontà di procurarsi le sostanze destinate al proprio consumo (sentenza Iacolare, n. 4 del 28/05/1997); alla stregua dell’omogeneità teleologica tra la condotta di chi acquista per mandato altrui e la volontà dei mandanti, la sostanza acquistata diventava proprietà indivisa del gruppo e, di conseguenza, il successivo frazionamento non integrava cessione o spaccio, bensì mera attività esecutiva tesa alla spartizione del bene comune.

La sentenza Iacolare è stata seguita pacificamente dalla giurisprudenza successiva, che si è limitata a compiere delle precisazioni (Es. l’uso di gruppo non si realizza quando il mandatario acquista per gli altri senza essere a sua volta assuntore).

Per effetto della L. n. 49/2006, “l'acquisto e la detenzione di sostanze stupefacenti integrano un illecito amministrativo quando le stesse, sulla base dei criteri indicati, non "appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale", dovendo perciò ritenersi destinate ad un uso esclusivamente personale”; precisamente, “il superamento dei limiti quantitativi massimi detenibili, previsti ora dall'art. 73, comma 1 bis, lett. a… impone soltanto al giudice un dovere di rigorosa motivazione quando ritenga che dagli altri parametri normativi si debba escludere una destinazione ad un uso non esclusivamente personale, pur in presenza del superamento dei suddetti limiti massimi”.

Tale novella legislativa ha determinato il sorgere di nuovi contrasti giurisprudenziali sulla rilevanza penale dell’uso collettivo, risolti dalla sentenza in commento nel senso che “il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nel caso di acquisto in comune sia in quello del mandato all'acquisto collettivo ad uno degli assuntori e nell'originaria conoscenza dell'identità degli altri, continua a costituire, anche dopo le modifiche apportate dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, una ipotesi di uso esclusivamente personale dei partecipanti al gruppo, e quindi integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 75, e non già il reato di cui all'art. 73, comma 1 bis”.

Nel motivare la propria tesi, la Cassazione ribatte a tutti gli argomenti addotti dall’orientamento avverso. Innanzitutto, si afferma che non convince la tesi secondo cui si sarebbe avuta una nuova incriminazione di condotte prima lecite (id est del cd. uso collettivo) per effetto dell’aggiunta dell’avverbio “esclusivamente”: ad avviso delle Sezioni Unite, tale aggiunta evidenzierebbe che “per escludere il reato è necessario che la droga sia destinata totalmente, per intero, ossia appunto "esclusivamente", all'uso personale e neppure in parte alla cessione a soggetti terzi estranei all'acquisto ed alla detenzione”. Né possono portare ad una rimeditazione del diritto vivente gli argomenti già accantonati dalla sentenza Iacolare (es. nullità per illiceità del mandato collettivo all’acquisto). Non è decisivo neppure l’argomento fondato sul tenore dei lavori preparatori, poiché l’intenzione soggettiva manifestata da alcuni parlamentari non si è comunque tradotta in legge. Va respinto anche l’argomento fondato sull’inversione dei rapporti tra illecito penale e amministrativo, nel senso della residualità del primo, atteso che ciò che conta è che nella sostanza l’area dell’illiceità penale è rimasta invariata.

Poi, le Sezioni Unite enucleano gli argomenti su cui in positivo si fonda la tesi della liceità dell’uso collettivo: i principi espressi nella sentenza Iacolare; l’esigenza di interpretazione restrittiva della novella del 2006 connessa al principio di legalità in materia penale; la necessità di procedere ad un’interpretazione costituzionalmente conforme della novella, alla luce del principio dell’illegittimità costituzionale delle norme introdotte in sede di conversione di un decreto legge ove del tutto estranee alla matteria e alle finalità del medesimo (circostanze che si verificherebbe nel caso di specie ove si ritenesse che l’aggiunta in sede di conversione dell’avverbio esclusivamente ha determinato la creazione di un nuovo reato in contrasto con lo scopo del decreto legge, ossia favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi). TM




Inserito in data 12/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2013, n. 3216

Inquadramento dipendenti pubblici: impugnazione provvedimenti nei termini di decadenza

Il Consiglio di Stato ribadisce che la materia dell'inquadramento nel pubblico impiego si connota per la presenza di atti autoritativi e, quindi, ogni pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse legittimo, può essere azionata soltanto mediante tempestiva impugnazione dei provvedimenti che si assumono illegittimamente incidenti su tali posizioni. Ne consegue che “il pubblico impiegato, che contesti il proprio inquadramento in una data qualifica o con determinate modalità, temporali, giuridiche o patrimoniali che siano, ha l'onere di impugnare il relativo provvedimento entro il termine perentorio di decadenza, anche quando egli assume che gli spetta un determinato inquadramento”.

Infatti, i provvedimenti d'inquadramento giuridico ed economico dei dipendenti pubblici non contrattualizzati, così come i provvedimenti d’inquadramento nel pubblico impiego anteriori alla contrattualizzazione, sono atti provvedimentali tout court, soggetti ai comuni termini decadenziali d'impugnazione. Pertanto, non sono proponibili azioni di accertamento, ma solo domande di impugnazione degli atti autoritativi che assegnano una qualifica funzionale ed un corrispondente livello retributivo. CDC



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Inserito in data 12/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 giugno 2013, n. 3214

Appalti pubblici: non opera la teoria del falso innocuo

In tema di appalti pubblici, la sentenza esclude l’applicabilità alle dichiarazioni ex art. 38 codice appalti della teoria del “falso innocuo”, secondo la quale il falso è innocuo (e quindi giuridicamente irrilevante) quando non incide neppure minimamente sugli interessi tutelati. Nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni è già di per sé un valore da perseguire, perché consente (in ossequio al principio di buon andamento e di proporzionalità) la celere decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara.

Conseguentemente, una dichiarazione inaffidabile (perché falsa o incompleta) è già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l’impresa meriti sostanzialmente di partecipare alla gara, e anche qualora la documentazione corretta sia prodotta nel corso del giudizio davanti al giudice di primo grado. Se così non fosse, del resto, qualsiasi deficienza delle dichiarazioni ex art. 38 Codice appalti potrebbe essere surrogata in giudizio, in contrasto con il principio della par condicio dei concorrenti, che deve essere assicurato nel procedimento amministrativo di selezione e non nell’eventuale procedimento giurisdizionale, a posteriori. CDC



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Inserito in data 12/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 3 giugno 2013, n. 13905

Art. 30 Tuf si applica anche a servizi diversi dal collocamento in senso stretto

La questione affrontata dalle Sezioni Unite investe l’art. 30 del t.u.f., il cui sesto comma prevede che l’efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi al di fuori della sede dell’intermediario sia sospesa per sette giorni e che entro lo stesso termine l’investitore possa recedere senza spese. Tale facoltà di recesso deve essere indicata nei moduli o formulari consegnati all’investitore ed il successivo settimo comma prevede la nullità dei contratti che non rechino questa indicazione.

L’interrogativo è se la nozione di “contratti di collocamento” (art. 30 tuf) debba essere circoscritta ai contratti strettamente connessi e conseguenti alla prestazione del “servizio di collocamento” (art. 1, comma 5, lett. c, tuf) o se invece comprenda qualsiasi operazione in virtù della quale l’intermediario offra in vendita agli investitori strumenti finanziari al di fuori della sede, anche nell’espletamento di servizi diversi, quali la “negoziazione” o “esecuzione” di ordini (art. 1, comma 5, lett. a e b, tuf). In altre parole, occorre capire se la parola “collocamento” sia da intendere in un’accezione restrittiva ovvero più ampia, come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari.

Secondo le Sezioni Unite, una risposta soddisfacente non può essere ricavata né dal dato letterale, né dal dato storico, né dalla lettura delle direttive comunitarie. Conviene guardare, invece, alla ratio legis della disciplina. È la circostanza che l’operazione d’investimento si sia perfezionata al di fuori della sede dell’intermediario a rendere necessaria una speciale tutela per l’investitore. Infatti, in questi casi, l’investimento potrebbe non essere conseguenza di una premeditata decisione dell’investitore, ma costituire invece il frutto di una sollecitazione esterna che potrebbe averlo colto impreparato. Il differimento del’efficacia del contratto con possibilità di recesso serve allora a ripristinare quella mancanza di adeguata riflessione preventiva. È arduo, a questo punto, negare che tale esigenza si ponga non soltanto per le operazioni compiute nell’ambito della prestazione di un servizio di collocamento in senso proprio, ma anche per qualsiasi altra ipotesi in cui l’intermediario venda fuori sede strumenti finanziari ad investitori al dettaglio. Ciò comporta che la parola “collocamento” deve essere intesa in senso ampio, come sinonimo di atto negoziale mediante il quale lo strumento finanziario viene fatto acquisire al cliente ed inserito nel suo patrimonio, a prescindere dalla tipologia del servizio d’investimento.

Pertanto, il diritto di recesso e la previsione di nullità di cui al citato art. 30 tuf trovano applicazione non solo quando la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento, ma anche quando abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d’investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela. CDC

 

 




Inserito in data 11/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 giugno 2013, n. 3174

Le rivendite speciali sono sottratte ai criteri di rilascio propri di quelle ordinarie

Il Consiglio di Stato, riaffermando un già consolidato orientamento, ha stabilito che il rilascio di una rivendita speciale, in presenza di particolari esigenze di servizio, non risulta lesivo dei diritti del titolare di una circostante rivendita di monopolio.

Ai sensi degli artt. 22 della l.1293/57 e 53 d.p.r. 1074/58, infatti, le rivendite speciali sono “istituite per soddisfare particolari esigenze del pubblico servizio anche di carattere temporaneo quando, a giudizio dell'Amministrazione, mancano le condizioni per procedere alla istituzione di una rivendita ordinaria, ovvero al rilascio di un patentino”  nei luoghi indicati dal citato art. 53 “nonché ovunque siano riconosciute necessità di servizio alle quali non possa sopperirsi mediante rivendita ordinaria o patentino”.

In virtù delle particolari pubbliche esigenze, alla cui soddisfazione sono tese, le rivendite speciali non sono assoggettate ai criteri stabiliti per il rilascio delle rivendite ordinarie: in particolare non risulta essenziale il rispetto dei requisiti minimi di distanza, salvo il caso in cui, a seguito di una valutazione discrezionale dell’amministrazione, questo aspetto assuma un rilievo tale da rendere inconciliabile la coesistenza delle due rivendite.

Nel caso specifico, oltre alla sussistenza delle esigenze di servizio di cui sopra, veniva evidenziata la diversità del bacino di utenza dei due rivenditori.

I Giudici di Palazzo Spada, infine, ritengono che le considerazioni effettuate nelle precedenti pronunce risultino, oggi, ulteriormente rafforzate dalla normativa di liberalizzazione.

Invero, l’art. 83 bis, comma 17, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e soprattutto l'art. 3, comma 7, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148 stabiliscono che “le disposizioni vigenti che regolano l'accesso e l'esercizio delle attività economiche devono garantire il principio di libertà di impresa e di garanzia della concorrenza. Le disposizioni relative all'introduzione di restrizioni all'accesso e all'esercizio delle attività economiche devono essere oggetto di interpretazione restrittiva... ".

L’applicazione di questa norma, inoltre, avendo natura interpretativa, è suscettibile di applicazione retroattiva e “costituisce un argomento ulteriore per negare che il puro vincolo al rispetto della distanza, recato dalla circolare richiamata in narrativa, possa da solo rappresentare fatto impeditivo al rilascio dell'autorizzazione richiesta (cfr. Cons. Stato 12 luglio 2012, n. 4119). VA

 

 



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Inserito in data 11/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 giugno 2013, n. 3146

Non è causa di esclusione non utilizzare moduli predisposti da stazioni appaltanti

In seguito alla pronuncia del Tar friuli-venezia-giulia con cui è stata dichiarata illegittima l’esclusione da una gara a partecipazione ristretta di una società a causa del mancato utilizzo dei moduli predisposti dalla stazione appaltante, quest’ultima aveva proposto appello avverso la suddetta decisione.

Il C.d.S., tuttavia, ha ritenuto di dover confermare la decisione del giudice di primo grado in considerazione dell’espresso dettato normativo di cui all’art. 74 co. 3 del d.lgs. 163/2003, il quale esclude che possa considerarsi causa di esclusione il mancato utilizzo dei moduli predisposti dalle stazioni appaltanti, salva l’ipotesi in cui i dati che avrebbero dovuto essere contenuti nel suddetto modello non fossero ricavabili altrimenti dai documenti presentati.

Alla luce del chiaro dispositivo normativo non può assumere rilevanza la precisazione della lettera di invito che considerava obbligatorio l’uso di tali moduli.

Invero, “l’unica mancanza sostanziale era quella relativa alla parola “dichiara”. A siffatta omissione, la stazione appaltante, secondo il Tar, poteva sopperire mediante il soccorso istruttorio (ex art. 46 del codice appalti)”.

Il C.d.S., inoltre, precisa, ad abundantiam, che la lettera di invito, in una nota a piè asseriva che “il modello 1 prevede in alcuni casi gli inserimenti di dati oppure una scelta alternativa le cui omissioni equivarranno a dichiarazioni incomplete fatto salvo il caso in cui…b) la dichiarazione mancante sia sostituita dal corrispondente certificato; c) il dato mancante sia comunque rinvenibile nelle forme richieste nel complesso dei documenti inseriti nella busta A-documentazione”.

La dichiarazione presentata dalla società, dunque, non poteva neanche considerarsi incompleta (rendendo superfluo il c.d. soccorso istruttorio di cui sopra).

Parimenti, non degna di rilievo appare la mancata prova della possibilità di vittoria della gara da parte dell’appellata, infatti “chi partecipa ad una gara ha un interesse legittimo a che la sua offerta sia presa in esame in condizioni di parità, e pertanto, se escluso, ha titolo e interesse a ricorrere al solo scopo di ottenere detto esame (ossia l’apertura della relativa busta), senza bisogno che dia la prova che la sua offerta sia la migliore”. VA



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Inserito in data 11/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 giugno 2013, n. 135

Conflitto di attribuzione tra Ministro della giustizia e magistrato di sorveglianza  

La Corte Costituzionale si è espressa in merito alla spettanza o meno in capo al Ministro della giustizia del potere di non dare esecuzione ad un’ordinanza di un Magistrato di sorveglianza.

Nel formare la propria decisione, la Corte Costituzionale ha ricordato le numerose pronunce intervenute in ordine alla necessità, costituzionalmente garantita, di fornire una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria ritenuti lesivi dei diritti dei detenuti (v. sent. 26 del 1999 e n. 526 del 2000).

In particolare, è stato osservato come qualora il reclamo abbia ad oggetto la lesione di diritti, il procedimento assume natura giurisdizionale.

Da tale affermazione ne deriva, come logico corollario, la necessità di assicurare l’effettività di questa tutela ed escluderne il condizionamento dalla volontà discrezionale delle autorità.

Nello specifico caso esaminato dalla sentenza in questione il problema si era posto in ordine al presunto potere del Ministro della giustizia o di un altro organo di Governo di disporre la non esecuzione di un provvedimento del magistrato di sorveglianza, assunto a norma degli artt. 14-ter, 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354, con il quale era stato ripristinato il diritto di un detenuto, sottoposto al regime del 41-bis, di assistere ai programmi trasmessi da note emittenti televisive.

Il provvedimento restrittivo, infatti, era stato considerato illegittimo dal giudice del reclamo, in quanto emanato in assenza dei presupposti cautelari necessari, e lesivo del diritto all’informazione (costituzionalmente tutelato ex art. 21 cost.).

Vertendosi in materia di diritti soggettivi il reclamo ha carattere di rimedio generale teso a rendere effettiva la tutela giurisdizionale, “le decisioni del magistrato di sorveglianza, infatti, … devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria o di altre autorità.

A giudizio della Corte Costituzionale “il confronto tra le conclusioni ricavabili dalle norme e dalla giurisprudenza costituzionale prima richiamate e gli atti che hanno dato origine al presente conflitto non può che avere l’esito di una dichiarazione di non spettanza al Ministro della giustizia del potere di non dare esecuzione all’ordinanza del Magistrato di sorveglianza”, l’Amministrazione penitenziaria , infatti, preferendo la via della non applicazione e proponendo un diniego esplicito di ottemperanza al Ministro della giustizia, ottenendo il suo assenso “ha conseguentemente vanificato un provvedimento di un giudice, adottato nei limiti e con le forme previsti dall’ordinamento. La menomazione delle attribuzioni di un organo appartenente al potere giudiziario ha avuto il risultato di rendere ineffettiva una tutela giurisdizionale esplicitamente prevista dalle leggi vigenti e costituzionalmente necessaria, secondo la giurisprudenza di questa Corte”.  VA



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Inserito in data 10/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 giugno 2013, n. 130

Assunzioni di personale oltre limiti di spesa; q.l.c. di una legge regionale

I Giudici della Consulta dichiarano fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito a talune disposizioni di una legge regionale in materia di nuove assunzioni e contratti di lavoro.

Il Collegio ricorda come, benché resti salda l’autonomia organizzativa degli Enti regionali – nei limiti dei propri “tetti massimi” di spesa, rimane altrettanto ferma la competenza dello Stato che, in merito, è intervenuto con finalità di contenimento delle casse.

Le previsioni regionali impugnate, in sostanza, comporterebbero deroghe all’articolo 14, comma 9, del D.L. n. 78 del 2010 - che consente assunzioni di personale nel limite del 20% della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.

A nulla è valsa la difesa regionale circa il presunto mancato aggravio arrecato da talune tipologie contrattuali sul bilancio regionale e, di conseguenza, sulle casse dello Stato; né, la natura fiduciaria degli incarichi, tale da giustificare la deroga  ai principi fondamentali dettati dal legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, tra i quali va ricompreso anche l’articolo 14, comma 9, del Decreto-legge n. 78 del 2010 – qui richiamato.

Il Legislatore piemontese, prevedendo simili eccezioni rispetto ai tetti massimi di spesa previsti dallo Stato, ha superato i principi di coordinamento in materia di finanza pubblica, oltreché i canoni fondamentali in tema di ordinamento civile – spettante alla competenza legislativa esclusiva; è evidente, pertanto, il vulnus arrecato ai commi 2’ lett. e) e 3’ dell’articolo 117 della Costituzione, come sollevato dal Rimettente.  CC



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Inserito in data 10/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 giugno 2013, n. 133

Illegittime erogazioni servizi assistenziali agli extra comunitari sub condicione

I Giudici della Consulta, ribadendo orientamenti già espressi in passato riguardo argomenti simili, sanciscono l’illegittimità costituzionale di norme regionali per violazione dell’articolo 3 della Costituzione.

In particolare, il fatto che il Legislatore sud – tirolese abbia subordinato l’erogazione di taluni benefici assistenziali, a favore degli extra comunitari, alla sussistenza di particolari condizioni, procura inevitabilmente le basi per una forte diseguaglianza nel tessuto sociale.

In dettaglio, il fatto che – quale criterio determinante – sia richiesto il protrarsi della residenza dell’istante per un certo lasso di tempo produce, ad avviso dei Giudici costituzionali, un elemento di distinzione arbitrario, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto di fruibilità delle provvidenze in questione.

Prosegue il Collegio, richiamando propri precedenti giurisprudenziali, che non è, infatti, possibile presumere, in termini assoluti, che gli stranieri immigrati nel territorio regionale o provinciale «da meno di cinque anni, ma pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da più anni» (Cfr. sentenza n. 2 del 2013; in prospettiva similare, sentenza n. 4 del 2013).

In ragione di ciò, è fondata la declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni normative altoatesine, come richiesta in sede di giudizio a quo. CC
 

 



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Inserito in data 10/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 7 giugno 2013, n. 14471

Non è costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie per condizioni psico-fisiche

La Suprema Corte, alla luce di un comportamento contrattuale improntato ai principi di buona fede e correttezza reciproca, riconosce la possibilità per il dipendente di ottenere la sostituzione del periodo di malattia con quello corrispondente alle ferie non godute, senza che – in tal guisa – questi possa rischiare di superare il periodo di comporto.

Ricorda il Massimo Collegio che, invero, non è costituzionalmente corretto precludere il diritto alle ferie in ragione delle condizioni psico-fisiche inidonee al loro pieno godimento.

Il criterio della sospensione delle stesse e del loro spostamento al termine della malattia, infatti, non può operare a causa della probabile perdita del posto di lavoro conseguente al superamento del comporto, perché si renderebbe così impossibile la effettiva fruizione delle ferie.

Spetterà, semmai, al datore di lavoro, cui è generalmente riservato il diritto di scelta del tempo delle ferie, dimostrare - ove sia stato investito di tale richiesta - di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto”. CC




Inserito in data 09/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 giugno 2013, n. 3126

Contratto di lavoro sorto al di fuori delle procedure: rapporto invalido e riconoscimento

I Giudici di Palazzo Spada intervengono con una pronuncia significativa in tema di rapporti di lavoro c.d. di fatto, ovvero sorti al di fuori delle ordinarie procedure e dei termini di legge.

In particolare, a fronte dell’istanza di parte appellante – riguardo ad una presunta progressiva assimilazione al rapporto di pubblico impiego, i Giudici richiamano la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 1992 che, con riguardo a simili tipologie lavorative, aveva provveduto ad inquadrarle quali rapporti di fatto, assimilabili a quelli dei dipendenti di ruolo solo nei limiti dei profili di giurisdizione e dei corrispettivi previdenziali ed economici.

In guisa di ciò, derivandone l’annullamento del contratto ex articolo 2126 cod. civ. – in quanto invalido, il Giudice non può, tuttavia, non tener conto dei diritti, di natura meramente economica, pur sempre in misura non superiore a quanto previsto dal corrispettivo c.c.n.l., frattanto maturati a favore del lavoratore appellante.

Infatti, evidenzia il Collegio, l’art. 2126 cod.civ. costituisce un precipitato diretto dell’articolo 36 della Costituzione: il Giudice, pertanto, sarà tenuto a disporre la condanna dell’Amministrazione ad integrare la retribuzione, nei limiti di quanto attiene alla corresponsione di un compenso proporzionato e sufficiente all’attività effettivamente prestata dall'odierno istante. CC



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Inserito in data 09/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 giugno 2013, n. 3137

Diniego accesso: occorre provare la rigida "necessità" e non mera "utilità" documento"

I Giudici di Palazzo Spada ricordano l’esegesi cui è rigorosamente approdata la giurisprudenza in merito al comma 7’ dell’articolo 24 L. 241/90.

L’istanza di accesso ai documenti amministrativi, infatti, non può compiersi per mero intento emulativo, o al fine di attuare un controllo generalizzato e indiscriminato sull’agere pubblico; occorre, invece, che a fondamento vi sia un interesse diretto, concreto ed attuale dell’istante, supportato dalla prova circa la rigida "necessità" e non mera "utilità" del documento" cui si chiede di accedere.

Il Collegio, in sostanza, avalla posizioni ormai salde circa la strumentalità del diritto di accesso alla tutela di situazioni giuridicamente valide, non finalizzate ad un monitoraggio sull’operato discrezionale dell’Amministrazione. CC



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Inserito in data 07/06/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, C 300/11 del 4 giugno 2013

Diritto alla tutela giurisdizionale dei singoli e sicurezza degli Stati membri

I Giudici di Lussemburgo, ricordando la Direttiva 2004/38, ribadiscono come una decisione di diniego di ingresso debba essere notificata all'extracomunitario interessato per iscritto, oltrechè in condizioni che gli consentano di comprenderne il contenuto e le conseguenze.

Difatti, in un’ottica di adeguata tutela dei diritti dei singoli, la Corte evidenzia l’opportunità di un adeguato controllo giurisdizionale in merito alla fondatezza della decisione di diniego di ingresso, in modo tale che la giusta cura che ogni Stato dedica alla propria sicurezza non faccia, comunque, venir meno il diritto di difesa di ciascun individuo.

In sostanza, avendo modo di conoscere i  motivi ostativi all’ingresso, il soggetto istante che ha subìto il rifiuto, avrà modo di predisporre eventualmente la propria difesa.

In tal guisa, pertanto, il Collegio consente di far contemperare le presunte ragioni di sicurezza nazionale con la necessità di un equo contraddittorio tra le parti coinvolte dal procedimento di asilo, senza che si vanifichi, al contempo, il diritto alla tutela giurisdizionale che ciascun singolo può vantare. CC



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Inserito in data 06/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 5 giugno 2013, n. 15

Regolarità fiscale ex art. 38 D.lgs. n. 163/06 e rateizzazione del debito tributario

L’Adunanza Plenaria è stata chiamata ad individuare l’esatta portata del concetto di definitività dell’accertamento della violazione tributaria, ex art. 38, c.1, lett. g, del codice dei contratti pubblici, nel caso di rateizzazione del debito tributario.

Occorre premettere che la disposizione predetta definisce come causa di esclusione dalle procedure di evidenza pubblica l’aver commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse. Con d.l. n. 16/12, convertito in L. n. 44/12, è stato stabilito che l’accertamento può dirsi definitivo quando concerne l’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili. La ratio della disciplina in esame consiste nel “garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae”.

Sulla base delle suddette coordinate normative e della ratio che le ispira e conformemente alla prevalente giurisprudenza, l’Adunanza Plenaria ritiene che il concorrente debba entro il termine di presentazione delle offerte non solo aver presentato istanza di rateazione del debito tributario, ma anche aver ottenuto l’accoglimento della propria richiesta. Si respinge, quindi, la tesi secondo cui sarebbe sufficiente che nel termine di presentazione delle offerte venga presentata domanda di rateazione, eventualmente condizionata alla positiva conclusione del procedimento tributario nelle more della procedura di gara.

I principali argomenti addotti dal Consiglio di Stato a sostegno della sua tesi sono: a) la rateizzazione determina una novazione dell’obbligazione originaria, che pertanto è certa, scaduta ed esigibile (ossia definitiva) finché non si conclude favorevolmente il procedimento di rateizzazione; b) il principio della certezza delle regole e dei tempi delle procedure di gara impone che i requisiti di partecipazione vengano verificati al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte, mentre il contribuente che presenta istanza di dilazione non può vantare il requisito della regolarità fiscale, né sa se lo potrà vantare in seguito stante la natura discrezionale del procedimento di rateizzazione. TM



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Inserito in data 06/06/2013
CORTE COSTITUZIONALE, 5 giugno 2013, n. 120

Azione popolare ex art. 70 TUEL per l’incompatibilità tra sindaco e parlamentare

La sentenza in epigrafe costituisce il prolungamento del ragionamento logico iniziato con la decisione n. 277/11, nella quale il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 15 febbraio 1953, n. 60, nella parte in cui non prevedono l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti.

Precisamente, è apparso incoerente il sistema in quanto proibiva ai sindaci dei grandi comuni di essere eletti parlamentari, ma nel contempo non disponeva nulla, in termini di incompatibilità, per chi già parlamentare fosse divenuto sindaco in costanza di mandato. In tal senso si è addotto il “«naturale carattere bilaterale dell’ineleggibilità», il quale inevitabilmente «finisce con il tutelare, attraverso il divieto a candidarsi in determinate condizioni, non solo la carica per la quale l’elezione è disposta, ma anche la carica, il cui esercizio è ritenuto incompatibile con la candidatura in questione»“. Si è quindi ritenuto che il sistema, facendo dipendere la cumulabilità o meno delle cariche dalla circostanza casuale della cadenza temporale delle tornate elettorali, ledesse il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, nonché la libertà di elettorato attivo e passivo.

Attesa l’identità di ratio fondata sul naturale carattere bilaterale della causa di incompatibilità e la stessa necessità di rimediare ad una omissione, la Corte costituzionale dichiara l’incostituzionalità dell’art. 60 del d.lgs. n. 267/2000 (cd. T.U.E.L.) “nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti” e, conseguentemente, impedisce di far valere tale specifica incompatibilità mediante l’azione popolare di cui all’art. 70 del medesimo decreto. TM

 

 



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Inserito in data 06/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 17 maggio 2013 n. 12106

Interpretazione restrittiva dei motivi di giurisdizione ex art. 111, ult. c., Cost.

Le Sezioni Unite ridefiniscono in senso restrittivo i “motivi inerenti alla giurisdizione” in forza dei quali esse possono sindacare le sentenze del Consiglio di Stato, ex artt. 362, c.1, c.p.c., 110 c.p.a. e 111, ult. c., Cost.

“E' vero che, in base ai principi affermati da Sez. un. 23 dicembre 2008, n. 30254, ai fini dell'individuazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa, che tradizionalmente delimitano il sindacato consentito alla Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato, si deve tenere conto dell'evoluzione del concetto di giurisdizione, in forza della quale il giudizio sulla giurisdizione non è più riconducibile ad un'operazione di pura qualificazione della situazione soggettiva dedotta, alla stregua del diritto oggettivo, nè è soltanto rivolto al semplice accertamento del potere di conoscere date controversie attribuito ai diversi ordini di giudici di cui l'ordinamento è dotato, ma si estende a sino a garantire che non sia denegata l'effettività della tutela che l'ordinamento chiede a quei giudici di erogare: sicchè rientra nello schema logico del sindacato per motivi inerenti alla giurisdizione l'operazione che consiste nell'interpretare la norma attributiva di tutela, onde verificare se il giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 8, la abbia concretamente assicurata e non sia venuto meno al rispetto del contenuto essenziale della giurisdizione”.

“Questo, tuttavia, all'evidenza non può significare che ogni pretesa deviazione dal corretto esercizio della giurisdizione, sotto il profilo interpretativo ed applicativo del diritto sostanziale o di quello processuale, si risolve in un difetto di giurisdizione sindacabile ad opera della Corte di cassazione. E' naturale che qualsiasi erronea interpretazione o applicazione di norme in cui il giudice possa incorrere nell'esercizio della funzione giurisdizionale, ove incida sull'esito della decisione, può esser letto in chiave di lesione della pienezza della tutela giurisdizionale cui ciascuna parte legittimamente aspira, perchè la tutela si realizza compiutamente soltanto se il giudice interpreta ed applica in modo corretto le norme destinate a regolare il caso sottoposto al suo esame. Non per questo, però, ogni errore di giudizio o di attività processuale imputabile al giudice è qualificabile come un eccesso di potere giurisdizionale assoggettabile al sindacato della Corte di cassazione, quale risulta oggi delineato dalle citate disposizioni dell'art. 362 c.p.c. e dell'art. 110 c.p.a., in conformità al dettato del pure citato art. 111 Cost., comma 8. Ne risulterebbe altrimenti del tutto obliterata ogni distinzione tra limiti interni ed esterni della giurisdizione ed il sindacato di questa corte sulle sentenze del giudice amministrativo verrebbe di fatto ad avere una latitudine non dissimile da quella che ha sui provvedimenti del giudice ordinario: ciò che le disposizioni processuali e costituzionali dianzi richiamate non sembrano invece consentire. Infatti, questa corte in ripetute occasioni non ha mancato di avvertire che anche gli eventuali errores in procedendo riscontrabili in sentenze del giudice amministrativo, quando non costituiscano un aprioristico diniego di  giustizia  o non implichino un così radicale stravolgimento delle norme di rito da comportare la configurabilità di un siffatto  diniego, ma siano soltanto espressone di un possibile errore di diritto, non ne giustificano la cassazione per eccesso di potere giurisdizionale (si vedano, tra le altre, Sez. un. 21 giugno 2012, n. 10294; e 14 settembre 2012, n. 15428)”.

Così, ad esempio, le Sezioni Unite escludono che la cognizione di una domanda inammissibile perché tardiva integri un diniego di giustizia, trattandosi eventualmente di error in procedendo che mina la correttezza ma non il fondamento della tutela giurisdizionale. TM




Inserito in data 05/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 giugno 2013, n. 3048

Illegittimità del provvedimento espropriativo per omessa comunicazione di avvio del procedimento

La sentenza si occupa, fra l’altro, dell’istituto della comunicazione di avvio del procedimento nelle procedure espropriative.

Si premette, riprendendo le posizioni già espresse dal Consiglio di Stato, che “le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua – con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativo – quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti”.

Ciò vale, in generale, anche per l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo, che è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e di partecipazione all’azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l’atto conclusivo è destinato ad incidere. Pertanto, l’omissione di tale formalità non vizia il procedimento nelle ipotesi in cui il contenuto di quest’ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.

Tuttavia, un ragionamento parzialmente diverso deve svolgersi per le procedure espropriative. Infatti, il corretto provvedimento espropriativo postula un contraddittorio al quale la comunicazione di avvio del relativo procedimento è indefettibilmente funzionale, sicché, in mancanza di comunicazione al privato potenzialmente leso dal provvedimento finale, quest’ultimo si rivela illegittimo e dev’essere annullato. CDC



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Inserito in data 05/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 giugno 2013, n. 3049

Quantificazione del danno da omessa o ritardata assunzione

In caso di quantificazione per equivalente del danno da omessa o ritardata assunzione, esso non si identifica nella mancata erogazione della retribuzione e della contribuzione. Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti, l’interessato, per il periodo di mancata assunzione, ha potuto rivolgere le proprie energie lavorative alla cura di altri interessi, sia sul piano lavorativo, che del perfezionamento culturale e professionale per potere accedere ad altro impiego. Pertanto, in applicazione degli artt. 2056 e 1226 cc il danno sofferto va determinato in una somma pari al 50% delle retribuzioni previste per la qualifica da conferire, detratto ogni eventuale periodo di attività lavorativa svolta ad altro titolo.

Non spettano somme a titolo di festività e ferie non godute, nonché per indennità di servizio esterno, trattandosi di istituti retributivi che, nel loro ruolo compensativo ed indennitario, presuppongono l’effettività del servizio.

È stato escluso nel caso in esame anche il risarcimento del danno biologico, non potendo considerarsi tali il solo turbamento interiore e lo stato di ansia e di disagio che ineludibilmente accompagna eventi che incidono negativamente nelle aspettative di vita, ma che non superano la soglia di tollerabilità. CDC



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Inserito in data 05/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, 21 maggio 2013, n. 21701

Nuova concussione: i dubbi interpretativi non escludono la continuità normativa

La nuova disciplina, che ha comportato lo “spacchettamento” della concussione nelle due figure della concussione (art. 317 cp) e dell’induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater cp) non ha comportato l'irrilevanza penale delle condotte oggetto di contestazione ai sensi del precedente art. 317 cp. Infatti, già la mera constatazione che le due norme attuali ripetono la lettera della precedente disciplina unitaria attesta che lo “spacchettamento” non ha portato ad alcuna modifica delle condotte astrattamente considerate penalmente rilevanti. Né a diversa conclusione può condurre la constatazione del sussistente contrasto di giurisprudenza sull'individuazione dei criteri interpretativi che debbono guidare la sussunzione delle fattispecie concrete nelle nozioni di costrizione e induzione.

Infatti, le condotte di costrizione e di induzione, sono solo state oggetto di un diverso apprezzamento legislativo in ordine alla rispettiva gravità, non già di una radicale rivalutazione in termini di rilevanza o irrilevanza penale della condotta dell'autore. Né l'incriminabilità di chi, vittima dell’induzione, “ceda” o “non resista” all'induzione ha effetti sulla rilevanza penale della condotta di induzione dell'autore del reato proprio, rispondendo questa nuova e ulteriore incriminazione ad autonome e diverse ragioni della discrezionalità legislativa, che nulla operano sul piano della permanente rilevanza penale della condotta di chi “induce”.

In conclusione, la successione normativa tra il vecchio testo dell'art. 317 cp e la nuova disciplina introdotta dalla legge 190/2012 si colloca all'interno del fenomeno di successione di leggi penali disciplinato dal quarto comma dell'art. 2 cp. CDC

 

 

 




Inserito in data 04/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 giugno 2013, n. 3022

Applicabilità art. 13 d.l. 223/2006 anche alla partecipazione pubblica indiretta

Il Consiglio di Stato, facendo applicazione dell’art. 13 del c.d. decreto Bersani, ha respinto l’appello presentato da una società avverso l’esclusione dalla partecipazione ad una gara d’appalto per la fornitura del servizio di energia-calore con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

I giudici di Palazzo Spada, nell’argomentare la propria decisione, hanno ricordato come la norma in questione sia stata prevista al fine di garantire la salvaguardia della libera concorrenza del mercato e della par condicio degli operatori del settore.

L’art. 13 d.l. 223/2006, infatti, dispone che “…, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti”; “le società di cui al comma 1 sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1 […]”.

Tale funzione, peraltro, non sarebbe sufficientemente garantita, comportando un’elusione del divieto posto dalla norma, laddove, aderendo all’interpretazione prospettata dal ricorrente, la norma in questione non trovasse applicazione anche nei confronti delle società controllate da società strumentalo costituite il capitale di queste ultime (v. Ad. Pl. 17/2011).

Come già precedentemente affermato, infatti, il divieto di cui all’art. 13 del Decreto Bersani “deve estendersi a tutte quelle forme di collegamenti societari, non necessariamente simulatorie, che in concreto alterano la genuinità del mercato nella fase nevralgica della partecipazione concorrenziale” ( Sez. V , 21 giugno 2012, n. 3668 ).

Il Collegio ha poi chiarito che le società multiutilities non devono essere automaticamente escluse dal divieto di cui al citato art. 13, dovendosi, piuttosto, procedere alla verifica dell’effettivo rapporto instaurato tra queste e gli Enti locali di riferimento: “ (…)diversamente opinando si perverrebbe ad un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della disposizione, in quanto sarebbe sufficiente contemplare nello Statuto un oggetto sociale plurimo … per scongiurare la sua applicazione..”. VA



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Inserito in data 04/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 31 maggio 2013, n. 2979

Presupposti per la retribuibilità delle mansioni superiori svolte in ambito sanitario

Il Consesso è tornato a pronunciarsi sulla vexata questio della retribuzione delle mansioni superiori eventualmente svolte all’interno del settore sanitario.

In particolare l’appellante aveva invocato l’applicazione in suo favore dell’art. 29 co 2 del d.p.r. 761/1976, dell’art. 36 cost e 2126 c.c. (come interpretati dalla Corte Cost. con le sentenze 57/89 e 296/90).

Nel confermare la decisione con cui il TAR Campania ha respinto il ricorso, i giudici di Palazzo Spada hanno ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale amministrativa secondo il quale “con riguardo al personale del comparto della sanità (…) ammette la retribuibilità delle stesse, ai sensi dell’art. 29, comma 2, del d.P.R. 761/1979, in presenza di tre contestuali condizioni: esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello; previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione delle mansioni superiori da parte dell'organo a ciò competente (potendosene prescindere solo nel caso di sostituzione nell'esercizio delle funzioni primariali); espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell'anno solare (cfr., tra le tante, Cons. Stato, III, 21 giugno 2012, n. 3661; 20 giugno 2012, n. 3581…).

Il Collegio ha precisato che, in caso di carente provvedimento di assegnazione da parte dell'organo competente, tale atto non può essere sostituito da altro atto proveniente da un organo privo di competenza funzionale; in ragione di ciò, quindi, rigetta le richieste dell'istante. VA



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Inserito in data 04/06/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 31 maggio 2013 n. 23866

Mancata corresponsione dell’assegno all’ex coniuge, pena ex art. 570 co 1 c.p.

Le Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto interpretativo in merito all’applicazione quoad poenam dell’art. 570 c.p. hanno abbandonato l’orientamento maggioritario formatosi in seno alla Corte di Cassazione, affermando che il rinvio operato dall’art. 12-sexies L. 898/70 all’art. 570 c.p., in caso di omesso conferimento dell’assegno di mantenimento all’ex coniuge, debba intendersi riferito al comma 1 c.p. (con applicazione alternativa della pena della reclusione o della multa) e non al comma 2.

In passato, infatti, la Suprema Corte aveva sostenuto che l’art. 12-sexies avesse introdotto un’autonoma fattispecie di reato avente ad oggetto la violazione di un obbligo di natura economica (art. 570 co 2 c.p.) e non di assistenza morale (art. 570 co 2 c.p.).

Le Sezioni Unite, tuttavia, hanno evidenziato come, al di là della limitazione del rinvio dell’art. 12-sexies ai soli fini dell’applicazione pena (essendo il soggetto attivo esattamente individuato dalla norma in questione), il concetto di assistenza, cui fa riferimento il comma 1, debba essere inteso in senso ampio, ricomprendendovi anche gli oneri economici che vanno al di là dei livelli minimi di sussistenza.

A voler avallare il precedente orientamento, dunque, si introdurrebbero delle disarmonie di trattamento tra la tutela offerta al coniuge separato (tutelato solo nel caso in cui versi in stato di bisogno) e quella data al coniuge divorziato, punendo in maniera omogenea fatti aventi una differente gravità.

Inoltre, “in mancanza di sicuri elementi testuali orientativi scaturenti dal testo legislativo, siffatto rinvio deve intendersi riferito - in sintonia con il rapporto di proporzione e con il criterio di stretta necessità della sanzione penale - al primo comma dell’art. 570 cod. pen., che costituisce l’opzione più favorevole all’imputato”. VA




Inserito in data 03/06/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 maggio 2013, n. 2976

Divieto di introdurre clausole specifiche; par condicio dei partecipanti alla gara

Con tale sentenza, il Consiglio di Stato esamina il divieto di introdurre, nelle clausole contrattuali, delle specifiche tecniche che indichino prodotti di una determinata provenienza o fabbricazione.

Le specifiche tecniche devono, infatti, poter consentire pari accesso agli offerenti, non potendo comportare la creazione di ostacoli ingiustificati all’apertura dei contratti pubblici alla concorrenza.

Con riguardo alle gare d’appalto, opera, infatti, il principio della libera concorrenza che trova applicazione, fondamentalmente, nella fase della determinazione del contenuto del contratto oggetto di gara, con particolare riferimento all’individuazione delle prestazioni richieste.

Specificamente, in caso di gara per l’affidamento di un appalto di fornitura, sussiste il divieto di introdurre, nelle clausole contrattuali, specifiche tecniche che indicano prodotti di una determinata fabbricazione o provenienza (art. 68, comma 3, lett., d.lgs. n. 163/2006); tuttavia, esso può essere derogato inserendo, all’interno del bando, la menzione “o equivalente”. Quest’ultima è autorizzata solamente nel caso in cui le Amministrazioni non possano fornire una descrizione dell’oggetto dell’appalto mediante specifiche tecniche sufficientemente precise, ovvero formulando la “lex specialis” in termini funzionali (art. 68, comma 3, lett. b e c, d.lgs. 163/2006).

È stato altresì affermato che, nel caso in cui le specifiche tecniche siano plasmate su quelle del prodotto coperto da un brevetto e sia, inoltre, carente l’indicazione della summenzionata espressione, avrà luogo una palese violazione dei principi in materia di par condicio e di non discriminazione nelle gare, con conseguente annullamento, per illegittimità, del provvedimento di esclusione della concorrente il cui prodotto non possegga quelle determinate caratteristiche menzionate.

L’art. 68 del Codice dei contratti, infatti, rappresenta una norma di estrema importanza poiché ha come principale obiettivo quello di tutelare la concorrenza e la par condicio dei partecipanti alle gare fin dal momento in cui v’è la determinazione del contenuto del contratto.

È proprio a tal fine che “le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazione di ostacoli ingiustificati all’apertura dei contratti pubblici alla concorrenza”.

Secondo quanto affermato, il divieto di “riferimento” o, comunque, di “menzione” ad “un marchio, a un brevetto o a un tipo, a un’origine o a una produzione specifica che avrebbero come effetto di favorire o eliminare talune imprese o taluni prodotti”, rappresenta sicuramente l’attuazione del principio generale presente all’art. 68, comma 2. GMC

 

 



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Inserito in data 03/06/2013
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. I, 21 maggio 2013, n. 613

Atti persecutori e ammonimento da parte del Questore

In tale sede, è precisato che l’omessa audizione del destinatario del provvedimento di ammonimento rende illegittimo il provvedimento medesimo, per insufficienza ed incompletezza dell’istruttoria. Tale carenza, infatti, si traduce in una violazione dei principi di imparzialità e buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.) che ispirano tutta l’attività dell'amministrazione. 
Nonostante, in via generale, la comunicazione di avvio del procedimento non sia dovuta nel caso in cui sussistano particolari ragioni di urgenza, correlate all’atteggiarsi particolarmente odioso o pericoloso delle molestie, ovvero nelle ipotesi in cui non sussista alcuna incertezza in ordine agli episodi di stalking, o, ancora, se sia riscontrabile un evento inequivocabilmente riconducibile alla fattispecie di cui si tratta, della necessità di omettere il contraddittorio procedimentale deve darsi atto nell’ammonimento, mediante un’adeguata motivazione sul punto. 

Nel caso in oggetto, la ricorrente impugna il provvedimento di ammonimento, assunto ex art.8 D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazione in legge 23 aprile 2009, n. 38, dal Questore della Provincia di Cosenza in data 12 gennaio 2012, per aver, essa stessa, posto in essere condotte di stalking nei confronti di un collega.

In particolare, la donna denuncia la mancata comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente mancata partecipazione procedimentale, non essendo stata mai avvisata, né sentita, né invitata ad esporre le proprie ragioni.

Dal testo della sentenza emerge che: “Dispone l’art. 8, comma 2 del D.L.23 febbraio 2009, n. 11 che il Questore, ove ritenga fondata l’istanza, adotta l’ammonimento “assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti”, previsione inserita al chiaro scopo di consentire al Questore stesso di formare il proprio prudente convincimento circa la fondatezza dell'istanza, anche attraverso e, comunque, tenendo conto delle risultanze dell'audizione del destinatario del provvedimento di ammonimento, con la conseguenza che l’omessa audizione rende illegittimo il provvedimento medesimo”.

Atteso, quindi, che la ricorrente non sia stata preventivamente convocata per essere sentita quale persona informata dei fatti e non abbia, dunque, potuto esporre le proprie ragioni a sua discolpa, adducendo nuovi e diversi elementi di valutazione che, invece, avrebbero dovuto essere presi in considerazione in sede di assunzione del provvedimento impugnato, è stata ribadita la illegittimità del provvedimento impugnato per violazione delle prescritte e specifiche regole di partecipazione procedimentali approntate dal legislatore. Il provvedimento di ammonimento è, dunque, illegittimo e, pertanto, il ricorso è stato accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato. GMC



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Inserito in data 03/06/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 23 maggio 2013, n. 1210

Informativa prefettizia e recesso dal contratto della stazione appaltante

Con specifico riferimento al contratto di appalto, si precisa che l’atto con cui la stazione appaltante, successivamente all’informativa prefettizia, recede dal contratto, rappresenta espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica. Tale potere è diretto, principalmente, ad evitare la costituzione, od il mantenimento, di rapporti contrattuali con delle imprese nei cui confronti possano emergere dei sospetti di legami con la criminalità organizzata.

Si tratta di un atto del tutto estraneo alla sfera del diritto privato, poiché è espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente.

L’esercizio di tale potere è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto e la relativa controversia appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, così come enunciato da Cass. Civ., Sez. Un., 29 agosto 2008, n. 21928.

Alla luce di tali considerazioni, viene dichiarata la giurisdizione di tale giudice dal momento in cui la controversia del caso specifico concerne un provvedimento fondato sull’esistenza di una interdittiva antimafia e, in quanto tale, posto a tutela di un interesse pubblico.

Si rileva che: “L’art. 133, primo comma, lett. b, attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative ad atti e provvedimenti attinenti a rapporti di concessione di beni pubblici e che l’art. 12 della legge n. 241/1990 ricomprende nell’ambito dell’istituto concessorio l’attribuzione “di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, risolvendo così il dubbio in ordine alla qualificazione come bene pubblico del denaro dell’erario”.

La giurisprudenza amministrativa ha, altresì, rilevato che “In tema di provvedimenti a contenuto revocatorio incidenti su contributi, finanziamenti o sovvenzioni erogati da pubbliche amministrazioni, il criterio generale in tema di riparto di giurisdizione, in un contesto di non sempre agevole demarcazione tra situazioni di diritto soggettivo e di interesse legittimo, si fonda sull’individuazione del tratto interessato dal provvedimento di revoca, tenendo conto della c.d. causale del provvedimento stesso. Viene così ascritto alla giurisdizione amministrativa il ritiro del finanziamento, anche susseguente alla relativa erogazione, ove costituisca manifestazione di autotutela amministrativa in vista della tutela dell’interesse pubblico, con ponderazione dell’interesse pubblico sottostante all’erogazione del contributo. Spetta, invece, alla giurisdizione ordinaria, secondo il criterio di riparto fondato sulla distinzione della posizione soggettiva, il vaglio di provvedimenti di ritiro, comunque denominati, assunti in funzione della negativa verifica in ordine al raggiungimento dello scopo che si è voluto agevolare, ossia a situazioni riconducibili alla fase esecutiva del rapporto ed attinenti alle modalità di utilizzazione del contributo e al rispetto degli impegni assunti dal beneficiario” (Cons. St., sez. VI, 18 maggio 2012, n. 2900). GMC



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Inserito in data 31/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 maggio 2013, n. 91

Avvocati e dipendenti pubblici part-time, illegittimità della norma regionale

Con una sentenza di grande interesse in materia di professioni, la Corte Costituzionale interviene sul punto dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, commi 1 e 2 della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1.

La fondatezza della questione è stata rilevata con la sentenza 20 maggio 2013, n. 91, con cui la Consulta ha riconosciuto che la normativa regionale censurata, che consente agli avvocati regionali di svolgere attività di patrocinio in giudizio e di consulenza anche a favore di enti strumentali della Regione e di società il cui capitale sociale sia interamente sottoscritto dalla Regione, abbia ampliato la deroga al principio di incompatibilità prevista dal legislatore statale esclusivamente con riferimento agli affari legali propri dell’ente pubblico di appartenenza.

Infatti, la norma secondo cui gli avvocati dipendenti possono patrocinare per l’ente di appartenenza, e solo per esso, non è suscettibile di estensione da parte del legislatore regionale, rientrando nell’ambito dei principi fondamentali della materia delle professioni, affidato alla competenza del legislatore statale.

In tal caso, la questione di illegittimità costituzionale era stata sollevata con ordinanza dal T.A.R. per la Campania, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione alla materia professioni, dell’articolo 29 della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1, che abilita l’avvocatura regionale a svolgere attività di consulenza, nonchè a patrocinare in giudizio anche per gli enti strumentali della Regione.

A tal riguardo, la Consulta ha osservato che la disciplina delle incompatibilità della professione forense, oggetto di legislazione statale sin dall’art. 3, secondo comma, del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, risulta rigorosamente descritta ed è sostanzialmente derogabile, con riguardo agli avvocati afferenti agli uffici legali degli enti pubblici, solo per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la propria opera e a condizione, inoltre, che siano iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali.

Si badi che in tal senso si è espressa anche la Corte di Cassazione, che ha consolidato un orientamento interpretativo che attribuisce alla deroga prevista dal richiamato art. 3, quarto comma, lettera b del regio decreto-legge già citato, carattere di norma eccezionale, stante la sua natura derogatoria rispetto al principio generale di incompatibilità.

La Corte Costituzionale ha, inoltre, osservato che il legislatore è intervenuto in linea con tali orientamenti con la Legge 31 dicembre 2012, n. 247, che ha ridisciplinato la professione forense, riconfermando il regime di incompatibilità della professione d’avvocato con qualsiasi attività di lavoro subordinato, anche se con orario limitato, e precisando le condizioni nel rispetto delle quali, in deroga al principio generale di incompatibilità, sia consentito agli avvocati, degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici, svolgere attività professionale per conto dell’ente di cui sono dipendenti. GMC



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Inserito in data 31/05/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III TER, 22 maggio 2013, n. 5128

Obbligo di dichiarazione dei requisiti di moralità e professionali ex art. 38 d.lgs. 163/2006

Il possesso del requisito della moralità professionale è indispensabile per le imprese che vogliano partecipare alle procedure di gara concernenti l’affidamento dei pubblici appalti, secondo quanto è stato stabilito dall’art. 38, c. 1, lett. c) del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), e dall’art. 45 della direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE, concernente il coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e di servizi.
Tale requisito consiste, fondamentalmente, nell’insussistenza in capo al soggetto concorrente di comportamenti penalmente rilevanti, accertati giudizialmente, in via definitiva, riguardanti i reati enunciati dai citati articoli 38 del decreto e 45, paragrafo 1, della direttiva, ovvero riconducibili a fattispecie gravi in danno dello Stato o della Comunità.

In sostanza, si tratterebbe di situazioni, fatti e circostanze che risultano essere idonei ad incidere negativamente sul rapporto fiduciario con la stazione appaltante, in relazione alla specifica obbligazione dedotta in contratto.
L’impresa può essere esclusa dalla procedura di affidamento nel caso in cui venga accertato che i provvedimenti di condanna, ovvero sentenza passata in giudicato, decreto penale divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del c.p.p., siano stati adottati nei confronti del titolare, dei soci delle società in nome collettivo, dei soci accomandatari, se si tratta di società in accomandita semplice, degli amministratori muniti di potere di rappresentanza, se si tratta di altri tipi di società o di consorzio, e dei direttori tecnici.
A prescindere dai reati specificamente elencati da tali disposizioni e, dunque, partecipazione a un’organizzazione criminale, corruzione, frode e riciclaggio, che rappresentano in ogni caso causa di esclusione dalla gara o per i quali vige una preclusione assoluta alla conclusione del contratto, le condanne comminate agli esponenti dell’impresa devono: possedere il requisito della gravità, incidere sulla moralità professionale ed essere stati commessi in danno dello Stato o della Comunità.

La sentenza in oggetto pone in luce che l'obbligo di dichiarazione sul possesso dei requisiti di moralità e professionali ex art. 38 (Requisiti di ordine generale) del d.lgs. n. 163/2006, si applica ai soli amministratori della società, e non anche ai procuratori speciali, con esonero dalle indagini sull'ampiezza dei poteri del procuratore.

Sul tema, la giurisprudenza amministrativa ha, quindi, affermato che: “il punteggio numerico può essere considerato sufficiente a motivare gli elementi dell'offerta economicamente più vantaggiosa soltanto nell'ipotesi in cui il bando di gara abbia espressamente predefinito “specifici, obiettivi e puntuali criteri di valutazione”, visto che tale criterio di aggiudicazione svincola l'amministrazione da una valutazione meccanica, attribuendole un potere “fortemente discrezionale” e che “tale esigenza risponde al principio di correttezza dell'azione amministrativa, ineludibile per tutte le procedure ad evidenza pubblica, a garanzia dell'imparziale svolgimento di tali procedimenti ed al fine di consentire la verifica dell'operato della p.a. sia da parte del privato interessato che del giudice amministrativo, il quale deve poter ricostruire l'iter logico seguito dalla stazione appaltante”. GMC

 

 



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Inserito in data 31/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 23 maggio 2013, n. 12828

Immissioni intollerabili, artt. 844 e 2043 cod.civ.

Per “immissioni” si intendono tutte quelle intrusioni di tipo immateriale (fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili) che derivano direttamente o indirettamente dall'attività (emissioni rumorose) del proprietario di un fondo e che finiscono per interferire e, dunque, confliggere in senso deteriore col diritto di proprietà del vicino limitando, se non addirittura impedendo, il legittimo e pieno godimento del fondo stesso. L'art 844 del codice civile contiene il cosiddetto divieto di immissioni, secondo cui è interdetta, al proprietario di un fondo, la possibilità di determinare immissioni nel fondo del vicino ove superino la normale tollerabilità o, per converso, in un’accezione positiva, il proprietario di un fondo può dar corso ad immissioni nella proprietà del vicino solamente a condizione che rientrino nella normale tollerabilità.

L'azione prevista all’art. 844 codice civile e quella di responsabilità aquiliana, per la lesione del diritto alla salute, rappresentano due azioni distinte in materia di immissioni ma, nonostante questo, sono da considerare pacificamente cumulabili tra loro.

L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato, al fine di conseguire l'eliminazione delle cause di immissioni, rientra tra le c.d. azioni negatorie, aventi natura reale e sono poste a tutela della proprietà.

L’azione di cui trattasi, è volta a far accertare, in via definitiva, l'illegittimità delle immissioni e ad ottenere, inoltre, il compimento delle modifiche strutturali del bene che si reputano indispensabili per ottenerne la cessazione.

Nondimeno, l'azione inibitoria, ex art. 844 cod. civ., può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l'azione per la responsabilità aquiliana prevista dall'art. 2043 cod. civ., nonché la domanda di risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 cod. civ.

Si sottolinea che il limite di tollerabilità delle immissioni non presenta carattere assoluto, ma è, invece, relativo alla situazione ambientale, che si presenta variabile da luogo a luogo, tenendo presenti le caratteristiche della zona, nonchè le abitudini proprie degli abitanti.

Spetterà, dunque, al giudice di merito accertare, in concreto, il superamento della normale tollerabilità ed individuare gli accorgimenti idonei al fine di poter ricondurre le immissioni nell'ambito di quest’ultima. Le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche, inoltre, determinano un'attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d'essere l'imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all'altrui diritto di proprietà o di godimento, in tali casi, non essendo applicabili i criteri dettati dall'art. 844 cod. civ., viene in considerazione esclusivamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, secondo lo schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'art. 2043 cod. civ. Allo stesso tempo, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non avrà alcun rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica.

Tali disposizioni, infatti, non escludono l'applicabilità né dell'art. 844 c.c., né tantomeno dei principi che tutelano la salute nei rapporti tra privati, che richiedono, infatti, l'accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività. GMC

 

 




Inserito in data 30/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 29 maggio 2013, n. 103

Requisiti acustici compravendite tra privati: norma innovativa, non interpretativa

Con la presente sentenza, questo Collegio è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 15 comma 1 lett. c) L. 96/2010 che ha provveduto alla sostituzione dell’art. 11 comma 5 L. 88/2009.

Con la norma asseritamente interpretativa in esame, il legislatore ha provveduto ad estendere retroattivamente il divieto di applicazione della normativa in materia di requisiti acustici passivi nella contrattazione tra privati, in particolare tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi fin tanto che non siano emanati i d.lgs. di cui all’art. 3 comma 1 L. 447/95.

La questione di legittimità prende le mosse da una domanda risarcitoria promossa ai sensi dell’art. 1669 c.c. da parte del compratore nei confronti del venditore-costruttore e dell’appaltatore per violazione dei requisiti acustici di cui sopra che, peraltro, la nuova normativa avrebbe reso inapplicabile al giudizio.

A giudizio della Corte Costituzionale, a dispetto dell’autoqualificazione come norma interpretativa, ci si trova di fronte ad un intervento novativo, non essendovi alcun dubbio sull’interpretazione del disposto legislativo. Pertanto l’applicazione retroattiva della stessa deve essere giustificata dall’esigenza di tutela di principi, diritti e beni di rilievo costituzionale.

La Corte, inoltre, “ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia (…) di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza (…); la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010)”.

Al termine del giudizio di legittimità costituzionale il Collegio ha stabilito che tali limiti risultano travalicati dalla norma censurata, infatti “la norma impugnata, oltre a ledere il legittimo affidamento sorto nei soggetti suddetti, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 2 dicembre 1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995”.  VA



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Inserito in data 30/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 maggio 2013, n. 2895

Scioglimento Consiglio comunale: presupposti e limiti della sindacabilità in sede giurisdizionale

A seguito dell’emanazione di atti di custodia cautelare in carcere nei confronti di alcuni parenti del sindaco eletto la nominata Commissione di accesso, verificata la sussistenza dei presupposti elencati dall’art. 143 commi 2 e 3 TUEL, provvide allo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, essendo emersi elementi di collegamento fra gli amministratori dello stesso ed esponenti della criminalità organizzata locale.

Il C.d.S., pertanto, è stato chiamato a pronunciarsi in ordine al ricorso presentato dal sindaco avverso la decisione del Tar Lazio per violazione o falsa applicazione dell’art. 143 del D.lg. 267/2000 sotto il profilo dell’eccesso di potere e dei principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa, nonché per lo sviamento dalla causa tipica.

In particolare l’appellante metteva in luce lo scarso rilievo dato al risultato archiviatorio del procedimento penale, nonché “l’rregolare” composizione della Commissione (includente anche soggetti che avevano partecipato alla fase investigativa).

Sotto il primo profilo, il Supremo Consesso ha rigettato l’appello sottolineando la natura preventiva e non sanzionatoria dello scioglimento del consiglio comunale da cui conseguirebbe la sufficienza della presenza di “elementi relativi alle collusioni o alle forme di condizionamento da parte dell’organizzazione criminale, che consenta di individuare la sussistenza di un rapporto tra quest’ultima e gli amministratori dell’ente reputato infiltrato” anche meramente indiziari.

Ciò che conta, infatti, è la significatività e la concludenza delle circostanze le quali vanno considerate nel loro complesso (v. C.d.S. 1547/2011).

Per quanto concerne, invece, i limiti cui è sottoposto il Giudice in sede di giudizio il C.d.S. sottolinea la natura di atto di alta amministrazione del DPR il quale attribuisce prevalenza all’esigenza di contrastare la mafia, rispetto al rispetto delle consultazioni elettorali: “tra i due valori, entrambi costituzionalmente rilevanti, non si può conservare questo senza che sia pienamente realizzato quello, ossia senza che il dato elettorale non sia genuino. (…) Da ciò discende che a questo Giudice spetta un sindacato di legittimità di tipo estrinseco, senza possibilità di valutazioni che, al di là della repressione del travisamento dei fatti, si muovano sul piano del merito (C.d.S. 1266/2012).

Alla luce di quanto detto i giudici di Palazzo Spada, ribadendo la necessità dell’imparzialità e completezza dell’istruttoria procedimentale, ritengono che gli obblighi di imparzialità, legalità ed efficacia dell’azione amministrativa, “sono più propriamente invocabili verso l’organo che concentra in sé la potestà decisoria (…) di talché non v’è ragione legittima di escludere, nella conduzione di tal istruttoria, i dati e le esperienze maturate dal personale in altro, ma non confliggente contesto giuridico”. VA



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Inserito in data 30/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 24 maggio 2013, n. 12899

Posizione paritaria delle parti in controversie per sanzioni pecuniaria, G.O.

Con questa pronuncia le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso dal novero delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del G.A. le controversie concernenti il diritto alla ripetizione delle somme versate a titolo di sanzione amministrativa.

Più specificamente, gli Ermellini hanno precisato come ogni qual volta il diritto alla ripetizione delle somme versate a titolo di sanzione amministrativa sia qualificabile come indebito oggettivo (per meglio dire, derivi da un provvedimento emesso sine causa, dunque nullo) la P.A. ha esaurito il proprio potere autoritativo e, di conseguenza, si viene a trovare in una posizione paritaria rispetto al privato.

Logico corollario di tale assunto è che “l’interpretazione costituzionalmente orientata (alla luce dell’art. 103, primo comma, della costituzione, il quale richiede che la P.A. abbia agito nella veste di autorità) dell’art. 38 del d.p.r  6 giugno 2001, n. 380 (…), non consente di ricomprendere nella giurisdizione esclusiva attribuita al Giudice amministrativo in tema di sanzione pecuniaria le controversie nelle quali, essendo assente ogni profilo riconducibile all’esercizio di poteri autoritativi, le parti vengono a porsi in una posizione sostanzialmente paritaria.

In particolare mentre rientrano nella giurisdizione esclusiva quelle concernenti la regolarità del procedimento di sanatoria dell’abuso edilizio, e quelle aventi ad oggetto il diritto dell’interessato a giovarsi del procedimento ex art. 38 cit. e ad ottenere il rimborso delle somme di cui risulta creditore a seguito della determinazione definitiva dell’importo della sanzione pecuniaria da parte del dirigente dell’ufficio competente, diversamente deve essere affermato quanto alle somme versate, nel caso in cui sia divenuta definitiva la sentenza di annullamento del provvedimento in autotutela , che annullava il permesso di costruzione, e sul quale ultimo si fondava il procedimento di cui all’art. 38 T.U. n. 380 /2001 e la conseguente sanzione pecuniaria irrogata”.

A nulla rileva, infatti, ai fini della riconducibilità della materia alla giurisdizione del G.A. che la P.A. abbia, in un primo momento, esercitato un’attività discrezionale che abbia inciso sulle posizioni giuridiche soggettive del privato. VA




Inserito in data 29/05/2013
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. III, ORDINANZA 23 maggio 2013, n. 816

Scommesse, competenza TAR Lazio. Impossibilità di pronuncia, qustione di legittimità costituzionale

I Giudici pugliesi, chiamati a decidere su un diniego emesso dalla Questura in merito ad un’autorizzazione ex art. 88 R.d. n. 773/31 (TULPS) - in ossequio al disposto degli artt. 46-47 d.P.R. n. 445/2000 – richiesta dal ricorrente al fine di dedicarsi all’attività di scommesse e raccolta di denaro a seguito di giochi pubblici, si imbattono dinanzi alla propria sostanziale impossibilità di emettere un giudizio.

Partendo, infatti, dal dato letterale di cui all’art. 135 co. 1 lett. q-quater) C.p.a., nella parte in cui devolve alla competenza funzionale e inderogabile del TAR Lazio, sede di Roma, “le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti … emessi dall'Autorità di polizia relativi al rilascio di autorizzazioni in materia di giochi pubblici con vincita in denaro”, il Collegio barese ravvede il proprio difetto di competenza e, di conseguenza, l’impossibilità di pronunciarsi sia con sentenza abbreviata ex art. 60 C.p.a - stante la propria incompetenza funzionale a decidere il merito della controversia, che in sede cautelare.

In forza di simile previsione, discende l’interdizione a carico del Tribunale pugliese, oltreché  l’impossibilità di risolvere il giudizio ad esso sottoposto, se non sollevando l’incidente di costituzionalità, oggetto dell’odierna ordinanza.

In particolare, le doglianze sono mosse riguardo ad un presunto vulnus agli artt. 3 e 125 della Costituzione.

Riguardo al primo parametro, il TAR barese ritiene che, per quanto ampia possa essere la discrezionalità del Legislatore ad intervenire anche in tema di competenze processuali, l’ultima aggiunta legislativa – oggetto di tale censura – parrebbe configurare una deroga immotivata all’articolo 13 C.p.A.

Quest’ultima norma, infatti, consacrando la competenza territoriale dei Giudici amministrativi sulla base dell’allocazione dell’Autorità – i cui provvedimenti si impugnano, può essere superata – secondo principio ormai costante – solo limitatamente a taluni ambiti meritevoli di una giurisprudenza omogenea su tutto il territorio nazionale; tanto non parrebbe necessario, ad avviso del Collegio rimettente, in merito ad un’autorizzazione all’attività di scommesse.

A fortiori, considerando la competenza – in merito – delle Questure: Organi periferici dotati, in quanto tali, di una propria discrezionalità, eventualmente sindacabile a livello locale.

Per tali ragioni, la deroga in esame si pone in termini del tutto distonici rispetto all’ordinario sistema di riparto delle competenze tra i vari Tribunali amministrativi regionali; valutando, peraltro, l’estremo aggravio di lavoro, da ultimo concretizzatosi a carico del TAR capitolino.

Parimenti infondato appare il richiamo allo stato di assoluta emergenza e necessità – cfr. Corte Cost. 237/07, che la giurisprudenza costituzionale ha individuato quale possibile ratio giustificatrice di una deroga al criterio generale di riparto della competenza, sancito (ora) dall’art. 13 1° co 1° parte C.p.a.

Non si comprende, infatti, quale estrema eccezionalità ed emergenza possa ravvisarsi in un’attività libera, oltreché costituzionalmente garantita, quale quella al cui esercizio è finalizzato il provvedimento oggi impugnato.

In ultimo, i Giudici pugliesi richiamano la medesima, suddetta pronuncia costituzionale, ravvisando un’effettiva alterazione del sistema di giustizia dei Tribunali amministrativi regionali ed il conseguente vulnus all’articolo 125 della Costituzione.

Occorrerebbero, infatti, “ragioni idonee a giustificare la deroga agli ordinari criteri di ripartizione della competenza tra gli organi di primo grado della giustizia amministrativa”; presupposti che, come è evidente, non si ravvedono nel caso concreto, al punto da giustificare il richiesto spostamento di competenza.

Per tali ragioni, ad avviso di questo TAR, sono maturi i tempi per una rimeditazione del dettato normativo e del pregresso insegnamento, in parte proveniente dal Giudice delle Leggi, culminati nella concentrazione di gran parte del contenzioso dinanzi al Collegio romano; si attende, pertanto, la pronuncia della Consulta. CC

 

 



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Inserito in data 29/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 maggio 2013, n. 2920

Diniego concessione cittadinanza italiana. Ragionevolezza e proporzionalità  

I Giudici di Palazzo Spada ricordano come l’esercizio della potestà discrezionale dell’Amministrazione, in sede di rilascio della cittadinanza, incontri i ben noti limiti della ragionevolezza e proporzionalità.

Infatti, nell’accogliere l’appello di un cittadino ghanese in Italia da oltre vent’anni, il Collegio evidenzia come la sussistenza di un pregresso illecito, a carico dell’istante, abbia estremamente condizionato la valutazione ostativa dell’Amministrazione.

Essa, infatti, ha fondato la propria statuizione unicamente, ed in modo generico, su un decreto penale di condanna (peraltro, per un reato contravvenzionale – quale la guida in stato d’ebbrezza), frattanto pure estinto e sicuramente scarsamente indicativo di una presunta pericolosità sociale dell’odierno appellante.

Pertanto il Collegio ne accoglie le doglianze, invitando l’Amministrazione a pronunciarsi nuovamente sulla pratica, esercitando l’inerente discrezionalità e valutando i fatti alla luce dello stato attuale. CC
 



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Inserito in data 29/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 29 maggio 2013, n. 13457

Diritto dei genitori al risarcimento per danno subito dalla figlia minorenne, all’interno della scuola

Gli Ermellini intervengono con una pronuncia dal contenuto estremamente delicato, dato il tenore degli interessi coinvolti, ribadendo i principi in tema di responsabilità dell’Amministrazione scolastica, per aver omesso gli obblighi di vigilanza sulla stessa incombenti.

In particolare, ricorda la Suprema Corte, ricadono sotto la responsabilità del Ministero dell'Istruzione i "danni di qualsiasi genere" subiti dagli studenti "durante il tempo in cui dovrebbero essere sorvegliati dal personale della scuola".

E, posto che quanto più piccoli sono gli alunni, "crescente deve essere la vigilanza”, si avalla ulteriormente la condanna a carico del Ministero – in un caso, come quello oggetto dell’odierno scrutinio, di violenza sessuale a danno di una minore.

Infatti, l’obbligo di sorveglianza, contrattualmente gravante sull’Amministrazione, è stato – nella specie – disatteso; conseguentemente è fondata la pretesa risarcitoria avanzata dai genitori della parte lesa, vittima di una negligenza dell’apparato scolastico tenuto, a seguito dell’avvenuta iscrizione, ad evitare il ricorrere di episodi pericolosi. a danno dei soggetti che finiscono col farne parte. CC

 

 




Inserito in data 28/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 24 maggio 2013, n. 2825

Incompatibilità tra retrocessione ex artt. 46 e 47 DPR 327/01 e accessione invertita

Il Consiglio di Stato statuisce l’incompatibilità tra l’istituto della retrocessione (artt. 46 e 47 DPR 327/01) e l’accessione invertita, confermando il precedente orientamento giurisprudenziale

In particolare, l’elemento di incompatibilità logico-giuridica è ravvisabile nel compimento o meno di un valido procedimento espropriativo: infatti, la retrocessione “presuppone il valido compimento di un procedimento espropriativo, fino alla sua corretta conclusione con il decreto di esproprio”, come si ricava tra l’altro dall’uso di termini quale “espropriato” e “soggetto beneficiario dell’espropriazione”; l’accessione invertita “presuppone, invece, proprio una occupazione di un bene da parte della Pubblica Amministrazione (quantomeno) in assenza di legittima conclusione del procedimento espropriativo entro i termini previsti dalla dichiarazione di pubblica utilità”.

Pertanto: “se si ritiene configurarsi accessione invertita non vi è stata espropriazione e, quindi, non può esservi retrocessione (l’area non può non essere stata dichiarata come “irreversibilmente trasformata”); se invece si richiede la retrocessione, non si può che essere in presenza di un bene in precedenza espropriato e, in tutto o in parte, non utilizzato per le finalità di interesse pubblico legittimanti la precedente espropriazione”.

Né è possibile estendere analogicamente la retrocessione ai casi di accessione invertita, atteso che il legislatore ha esplicitato le ipotesi cui la retrocessione era estensibile (cfr. art. 45 c. 4 DPR 327/01, ove si prevede l’operare della retrocessione in relazione a procedimenti espropriativi non conclusisi con il decreto di esproprio ma per mezzo di cessione volontaria). TM

 

 



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Inserito in data 28/05/2013
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA 10 maggio 2013, n. 462

Rimette all’A.P. la precisazione dell’ampiezza del principio dell’anonimato concorsuale

Desta interesse la presente pronuncia del C.G.A.R.S. nella misura in cui ribadisce principi consolidati e tenta di risolvere una volta per tutte delle questioni controverse.

Sotto il primo profilo, si segnala l’adesione al pacifico indirizzo giurisprudenziale, a mente del quale “in presenza di un rapporto di congruità fra le strutture dell’Università ed il numero complessivo programmato per le iscrizioni al corso di laurea in medicina e chirurgia, la garanzia del diritto allo studio sancita dall’art. 34, primo comma, della Costituzione - che si qualifica come diritto della persona e non soffre di limitazioni in relazione al grado di istruzione - porta a privilegiare la tesi volta ad assicurare lo scorrimento degli studenti comunitari, utilmente collocati in graduatoria, nei posti assegnati agli studenti extracomunitari restati non utilizzati”.

Sotto il secondo profilo, il Giudice siciliano prende atto di un conflitto giurisprudenziale sull’estensione del principio di anonimato nelle procedure concorsuali e rimette la soluzione dello stesso all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Precisamente: mentre in un parere reso dal Consiglio di Stato ai fini della definizione di un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica si è dato rilievo anche alla mera possibilità astratta che la prova del candidato sia riconosciuta, altre decisioni intendono il principio dell’anonimato in modo meno assoluto e tassativo. Emerge un ulteriore elemento d’interesse allorché si rinviene un contrasto giurisprudenziale, quale presupposto del deferimento all’Adunanza Plenaria ex art. 99 c. 1 C.P.A., tra una decisione di un T.A.R. e un parere reso ai sensi dell’art. 14 D.P.R. n. 1199/71: il che viene motivato in forza della natura giurisdizionale oggi assunta dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. TM



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Inserito in data 28/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 22 maggio 2013, n. 94

La concorrenza impone l’estraneità tra SOA e organismi di certificazione

La Corte costituzionale si pronuncia nel senso della costituzionalità rispetto agli artt. 41 e 3 Cost. dell’art. 40 c. 3 del D.Lgs. 163/2006.

I rimettenti avevano censurato il citato art. 40, comma 3, “chiedendo l’eliminazione sia del divieto per gli organismi di certificazione di possedere, a qualsiasi titolo, direttamente o indirettamente, una partecipazione al capitale sociale di una SOA, sia del divieto per uno stesso soggetto di svolgere attività di attestazione e di certificazione, salva la preclusione del congiunto espletamento di entrambe nei confronti di un medesimo soggetto”.

In via preliminare, la Corte dichiara inammissibili le censure relative al contrasto con il diritto dell’UE e, di conseguenza, in riferimento a parametri costituzionali (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), in quanto proposte dalle parti private ma non riproposte dal Giudice rimettente. Difatti, per la costante giurisprudenza costituzionale, “l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è… limitato alle norme ed ai parametri fissati nell’ordinanza di rimessione e non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste indicati, ulteriori questioni o profili dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze”; né l’operatività di questo principio è messa in discussione dalla circostanza che la parte privata deduca un contrasto tra norma nazionale e norme dell’UE, come nel caso di specie.

Nel respingere il contrasto tra l’art. 40 de quo e l’art. 41 Cost., il Giudice delle Leggi osserva che quest’ultima norma costituzionale ”è un parametro che garantisce non solo la libertà di iniziativa economica, ma anche l’assetto concorrenziale del mercato di volta in volta preso in considerazione; ed è, altresì, questo che il divieto di partecipazione in esame concorre soprattutto a tutelare. Qualora, infatti, fosse permesso, è palese che il possesso da parte di un organismo di certificazione di partecipazioni sociali in una SOA può favorire la concentrazione delle due distinte verifiche in capo a soggetti sostanzialmente unitari (nella specie, poi, la partecipazione è praticamente totalitaria), anche senza ipotizzare condotte in concreto necessariamente scorrette, ma con pregiudizio per l’assetto concorrenziale del mercato. Ciò vale anche a respingere l’ipotesi, suggerita dai rimettenti e dalle Società, di limitare i divieti contestati a quella di certificazione e attestazione di una medesima impresa. Il rischio di un vulnus all’assetto competitivo dei due mercati coinvolti va evitato già a monte. L’esigenza di garantire gli assetti concorrenziali dei mercati richiede l’eliminazione di ogni possibile contesto o pratica facilitante la collusione o anche la semplice confusione di interessi; ed in tali ipotesi rientra sicuramente anche la partecipazione azionaria di una società operante in un mercato in una diversa società attiva nel mercato contiguo o a valle. Tale partecipazione può almeno favorire quello scambio di informazioni tra operatori dello stesso mercato o di mercati contigui che si trova spesso alla base di condotte anticoncorrenziali in funzione della fonte, del tasso di elaborazione, del vantaggio per gli operatori e per gli utenti e che pertanto può di per sé costituire un cartello illecito, per il suo oggetto o per i suoi effetti”.

Si esclude anche il contrasto con l’art. 3 Cost., ritenendosi che la norma non sia irragionevole, né realizzi una disparità di trattamento in danno degli organismi di certificazione. “La situazione di detti organismi, alla luce dell’attività svolta, della finalità della norma censurata e degli interessi dalla stessa tutelati è, infatti, evidentemente diversa e non comparabile con quella di tutti gli altri «operatori economici» …, rispetto ai quali non sussistono quelle situazioni in grado di vulnerare l’esigenza di indipendenza, neutralità ed imparzialità della SOA”. TM

 

 



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Inserito in data 27/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 maggio 2013, n. 2858

Concorsi universitari: criteri valutativi e cause di incompatibilità

Nei concorsi di professore o ricercatore universitario, la commissione esaminatrice può elaborare criteri valutativi anche riproduttivi di quelli contenuti nell’art. 4, dpr n. 117/2000. Tale disposizione, infatti, lì dove stabilisce che le commissioni “predeterminano” i criteri di massima e le procedure di valutazione comparativa dei candidati, impone soltanto l’onere della preventiva enunciazione di tali criteri, ma non contiene prescrizioni conformative riguardo al loro contenuto. La riproduzione pedissequa dei criteri normativi non è quindi in sé illegittima, atteso che la possibilità d’integrare o specificare quei criteri costituisce una facoltà per le commissioni esaminatrici.

Nella sentenza si ribadisce, inoltre, che la semplice sussistenza di rapporti accademici tra commissario e candidato non è idonea a determinare incompatibilità. Infatti, la conoscenza personale e/o l'instaurazione di rapporti lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali.

In particolare, non comporta l'obbligo di astensione di un componente della commissione la circostanza che il commissario ed uno dei candidati abbiano pubblicato insieme una o più opere; tenuto conto che si tratta d’ipotesi ricorrente nella comunità scientifica (talvolta caratterizzata da un numero contenuto di componenti), rispondendo alle esigenze dell'approfondimento di temi di ricerca sempre più articolati e complessi, sì da rendere, in alcuni settori disciplinari, estremamente difficile, se non impossibile, la formazione di commissioni esaminatrici in cui tali collaboratori non siano presenti e, ancora, la mera esistenza di rapporti di collaborazione scientifica, tra taluno dei commissari e qualcuno dei candidati, non costituisce di per sé causa di astensione né vizio del procedimento. CDC

 

 



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Inserito in data 27/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 maggio 2013, n. 2873

L'ordine di demolizione è un atto vincolato alla constatata abusività

La sentenza, fra l’altro, ribadisce che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato alla constatata abusività. Pertanto, esso “non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d’illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”.

Inoltre, il fatto che l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisca manifestazione di attività amministrativa doverosa comporta che per l’adozione dell'ordinanza di demolizione, quale atto vincolato, non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto. CDC



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Inserito in data 27/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, 14 maggio 2013, n. 20804

Chiamata in correità o reità de relato: unico riscontro può essere un’altra chiamata

Alle Sezioni Unite è stata sottoposta la seguente questione di diritto: “se la chiamata in reità o in correità de relato, in assenza della possibilità di esaminare anche la fonte diretta, possa avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell’accusato, un’altra chiamata de relato”.

Le Sezioni Unite risolvono la questione ripercorrendo (e precisando) i criteri di valutazione della chiamata in correità o in reità de relato. Come affermato da Cass SU n. 1653 del 1993, bisogna valutare tre aspetti: a) credibilità del dichiarante, desunta dalla sua personalità, dalle sue condizioni socio-economiche e familiari, dal suo passato, dai rapporti col chiamato, dalla genesi remota e prossima delle ragioni che lo hanno indotto all’accusa; b) attendibilità intrinseca della chiamata, in base ai criteri della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità; c) verifica esterna dell’attendibilità della dichiarazione, attraverso l’esame di elementi estrinseci di riscontro alla stessa.

A ciò si aggiunge, però, che occorre verificare anche l’attendibilità della fonte primaria di conoscenza e la genuinità del suo narrato. Pertanto, si deve indagare sulle circostanze concrete di tempo e di luogo in cui avvenne il colloquio tra chiamante e chiamato, nonché sulla natura dei loro rapporti.

Tale operazione necessita, infine, di “convergenti e individualizzanti riscontri esterni in relazione al fatto che forma oggetto dell’accusa e alla specifica condotta criminosa dell’incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa” (Cass SU n. 45276 del 2003). I riscontri possono essere di qualsiasi tipo e natura, ma devono essere caratterizzati dall’estraneità (nel senso di provenienza ab externo) rispetto alle dichiarazioni, così da scongiurare una verifica tautologica ed autoreferenziale.

Deve però escludersi che i riscontri debbano essere di natura diversa rispetto alla categoria probatoria considerata (nel caso, le dichiarazioni de relato). Pertanto, non può ritenersi che una chiamata de relato sia inidonea a riscontrarne altra avente la stessa natura. Tale limitazione probatoria, infatti, non è legittimata da alcuna norma e si pone in contrasto con il principio di libero convincimento del giudice.

In conclusione, il giudice deve sottoporre la dichiarazione accusatoria utilizzabile come riscontro di altra di analogo tenore allo stesso controllo di attendibilità intrinseca che vale per quest’ultima. Deve poi procedere a verificare i seguenti parametri: a) convergenza delle chiamate in ordine al fatto materiale oggetto di narrazione; b) indipendenza da suggestioni o condizionamenti inquinanti; c) specificità; d) autonomia genetica, cioè derivazione non “ex unica fonte”, per evitare il rischio di circolarità della notizia. CDC




Inserito in data 24/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2013, n. 2614

Decorrenza termine decadenziale a prescindere da comunicazione ex art. 79 Codice dei contratti

Il Consiglio di Stato, con tale pronuncia, giunge ad affermare che la piena conoscenza delle motivazioni dell’atto di esclusione dalla gara, comporta la decorrenza del termine decadenziale, a prescindere dall’invio di una formale comunicazione ex art. 79, comma 5, del Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (D.lgs. n. 163/2006), il quale recita che: “L’amministrazione comunica d’ufficio: a) l’aggiudicazione definitiva, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione, o sono in termini per presentare dette impugnazioni, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se dette impugnazioni non siano state ancora respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva, b) l’esclusione ai candidati e agli offerenti esclusi, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni dall’esclusione; b-bis) la decisione, a tutti i candidati, di non aggiudicare un appalto ovvero di non concludere un accordo quadro, b-ter) la data di avvenuta stipulazione del contratto con l’aggiudicatario, tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, ai soggetti di cui alla lettera a) del presente comma”.

A sostegno di quanto affermato, l’art. 120, comma 5, c.p.a., infatti, non prevede forme di comunicazione “esclusive” e “tassative”, non incidendo, dunque, sulle regole processuali generali del processo amministrativo, con particolare riferimento alla possibilità che la piena conoscenza dell'atto, al fine del decorso del termine di impugnazione, venga acquisita, come accaduto nel caso di specie, con forme diverse rispetto a quelle previste dall’art. 79 sopracitato. GMC



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Inserito in data 24/05/2013
TAR LOMBARDIA - BRESCIA, SEZ. II, 8 maggio 2013, n. 438

Istituzioni di nuove sedi farmaceutiche ex art. 11 D.l. 1/12

Con riferimento all’istituzione di nuove sedi farmaceutiche in zone già presidiate da altre farmacie, con lo specifico fine, dunque, di individuare il parametro numerico alla presenza del quale è consentita l’apertura di un nuovo esercizio farmaceutico, il legislatore ha eseguito “a monte” una valutazione di opportunità e di adeguatezza rispetto all’obiettivo di realizzare il potenziamento della rete e l’accesso alla titolarità delle farmacie, cosicché, sulla base del dato della popolazione residente, è possibile giustificare la scelta amministrativa di istituire una o più ulteriori sedi nell’ambito comunale considerato (entro il parametro normativo), senza che vi sia la necessità di motivare le ragioni che hanno condotto a tale scelta.

È da rilevare, comunque, che i nuovi esercizi aventi ad oggetto l’attività farmaceutica, devono esser posti nelle condizioni, al pari di quelli già esistenti, di contare su un’utenza che ne possa permettere una dignitosa sopravvivenza in termini economici e finanziari.

Alla luce di tale presupposto, emerge che non è indispensabile distribuire le nuove sedi esclusivamente in zone disabitate o, comunque, totalmente sprovviste di farmacie, né che debba essere evitata la sovrapposizione demografica con le zone di pertinenza delle farmacie già precedentemente esistenti.

Il fondamentale parametro della “popolazione”, nel caso in cui possa consentire l’apertura di una o più nuove farmacie, si affianca al criterio c.d. “topografico”, che riesce a mantenere una sua autonomia, in presenza dei presupposti di legge correlati alle singole conformazioni territoriali.

L’art. 380 T.U. L.S., secondo comma, recita che “Le farmacie risultanti in soprannumero alla pianta organica saranno gradatamente assorbite nella pianta stessa con l’accrescimento della popolazione e per effetto di chiusura di farmacie che vengano dichiarate decadute”, tale norma deve essere letta coerentemente con la ratio della riforma legislativa, ovvero in modo tale da permettere – e non, dunque, imporre – l’applicazione del meccanismo dell’assorbimento purché, comunque, siano riscontrabili le esigenze sottese all’applicazione del criterio “topografico”. GMC

 



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Inserito in data 24/05/2013
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. I, 15 maggio 2013, n. 813

Applicazione della normativa della concorrenza nel settore dell’acqua

Con tale sentenza, il TAR Toscana pone chiarezza con riguardo all’applicazione della normativa a tutela della concorrenza nel settore dell’acqua, che si applica anche agli appalti o ai concorsi riguardanti lo “smaltimento” o il “trattamento” delle acque reflue.

A tal proposito, l’art. 209 D.lgs. n. 163/2006 riproduce fedelmente l’art. 4 della Direttiva 2004/17/CE, secondo cui la normativa a tutela della concorrenza nel settore dell’acqua si applica anche agli appalti o ai concorsi riguardanti lo smaltimento o il trattamento delle acque reflue, qualora siano attribuiti o organizzati da un ente appartenente al settore speciale dell’acqua; lo stesso principio vale, altresì, anche per quanto concerne lo smaltimento dei fanghi prodotti dalla depurazione.

Tale orientamento, si rileva, non comporta che qualsiasi affidamento, avente ad oggetto lo smaltimento di fanghi da depurazione, debba obbedire, necessariamente, alla disciplina prevista dall’art. 209, posto che questa riguardi i soli affidamenti attribuiti od organizzati da enti che esercitano le attività di produzione, trasporto, distribuzione di acque potabili ovvero di alimentazione delle reti con acqua potabile.

Con riferimento al caso in oggetto, deve riconoscersi ad un’impresa operante nel settore dei rifiuti speciali non pericolosi - titolare dell’affidamento di numerosi servizi di prelievo e smaltimento di fanghi da depurazione - un interesse qualificato ad accedere a tutti gli atti e documenti riguardanti l’affidamento a terzi, poiché la essa riveste la qualità di organismo di diritto pubblico.

L’infrazionabilità dei reflui, si sottolinea, implica l’attrazione dell’intero affidamento del servizio di prelievo e smaltimento dei fanghi nella sfera pubblicistica dell’attività dell'affidataria; non si potrebbe garantire, in diverso modo, alcuna tutela ai fondamentali principi di libera concorrenza, parità di trattamento, imparzialità, pubblicità e trasparenza. GMC



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Inserito in data 23/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 3 maggio 2013 n. 10300

La chiamata di terzi in manleva della PA spetta alla stessa A.G. della causa principale

Con la presente pronuncia la Cassazione si occupa di individuare l’autorità giurisdizionale cui spetta conoscere le cause che hanno ad oggetto la chiamata di terzi in manleva dalla P.A.

Il giudizio principale verteva su una richiesta di risarcimento danni a titolo di responsabilità precontrattuale promossa dall’impresa aggiudicatrice nei confronti dell’Amministrazione appaltante, per avere questa “determinato, con le sue inerzie e omissioni, ritardi nell'esecuzione dei lavori in violazione degli obblighi sorti dall'appalto e di quelli generali di buona fede nei rapporti tra le parti nella esecuzione di qualsiasì contratto (art. 1375 c.c.), con incremento dei lavori previsti e prolungamento degli stessi”.

La stazione appaltante, dal canto suo, ha chiamato in garanzia degli ulteriori soggetti e ne ha chiesto la condanna “per avere concorso, con le loro omissioni e ritardi, anche nella mancata emissione di atti espressione dei loro poteri autoritativi e discrezionali, a determinare l'allungamento della esecuzione dei lavori produttivo dei danni a base dell'azione risarcitoria e delle chiamate in manleva”.

Ad avviso delle Sezioni Unite, il riferimento fatto dal convenuto al cattivo uso di poteri autoritativi da parte dei terzi chiamati in manleva non modifica la giurisdizione, atteso che “la giurisdizione si determina in base alla domanda e non in rapporto alle eccezioni o deduzioni dei convenuti che non possono incidere su essa (cfr. S.U. ord. 12 novembre 2012 n. 19600)”.

In conclusione, si enuncia il seguente principio di diritto: “Le cause che hanno ad oggetto la chiamata di terzi in manleva della P.A. convenuta in una azione risarcitoria del privato nei suoi confronti per inadempimento degli obblighi di collaborazione sorti da un contratto di appalto da essa stipulato con l’attore ovvero dei doveri di buona fede e correttezza nell’esecuzione dei lavori per conto dell’amministrazione pubblica, prolungati a causa della condotta inerte o omissiva di quest’ultima, sono di regola soggette alla stessa giurisdizione della causa in cui si inseriscono”, ossia alla giurisdizione dell’A.G.O. TM




Inserito in data 23/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 20 maggio 2013, n. 14

Non va escluso dalla gara il Consorzio aggiudicatario colpevole di designazione a catena

L’Adunanza Plenaria si pronuncia sull’interpretazione da dare all’art. 37, c.7, del Codice dei contratti, secondo cui “i consorzi di cui all’articolo 34, comma 1, lettera b) sono tenuti ad indicare, in sede di offerta, per quali consorziati il consorzio concorre”.

Non discostandosi dal precedente orientamento della giurisprudenza amministrativa, si è ritenuto che siano inammissibili le designazioni a catena, ovvero sia precluso alla società consorziata indicata per l’esecuzione dei lavori dal consorzio aggiudicatario di affidare le opere ad un diverso soggetto non consorziato, né legato al consorzio da alcun diverso rapporto. Ciò in quanto la disciplina in commento mira a salvaguardare la specifica categoria delle imprese consorziate e ad incentivarne la mutualità: per cui, non può trovare applicazione a beneficio di soggetti esterni al Consorzio concorrente.

In definitiva, a giudizio del Supremo Consesso amministrativo, tale disposizione “consente… al Consorzio concorrente ed aggiudicatario di avvalersi delle prestazioni di un’impresa cooperativa in esso associata e specificamente designata in sede di gara; e, in tal caso, l’impresa indicata può eseguire i lavori pur essendo priva, per le ragioni dianzi indicate, dei requisiti di qualificazione tecnica”.

L’Adunanza Plenaria precisa poi che l’indicazione di una sub-affidataria dei lavori, seppur inammissibile, “vitiatur sed non vitiat, nel senso che non impedisce di conservare legittimamente l’aggiudicazione in capo al Consorzio, purché questo abbia provveduto … ad indicare in sede di offerta l’impresa consorziata da cui sarebbero stati eseguiti i lavori stessi.

E’ questo, infatti, l’unico specifico adempimento imposto dall’art. 37, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006, con conseguente irrilevanza dei comportamenti posti in essere sul punto dalla consorziata designata”. In questo senso depone la circostanza che le imprese cooperative in esso associate costituiscano delle mere articolazioni del Consorzio, nonché la facoltà riconosciuta in via pretoria al Consorzio aggiudicatario di indicare, quale esecutore, una diversa propria consorziata, quando, per motivi sopravvenuti, la prima designata non sia in condizione di eseguire adeguatamente la prestazione. TM



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Inserito in data 23/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 maggio 2013, n. 2740

Il proprietario dell’area inquinata “deve” adottare le misure di messa in sicurezza?

Nella sentenza in epigrafe, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato rimette all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99 c.p.a., il quesito di diritto se “in base al principio di matrice comunitaria compendiato nella formula ‘chi inquina, paga’ – l’amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche l’autore dell’inquinamento, l’obbligo di porre in essere le misure di messa in sicurezza di emergenza di cui all’articolo 240, comma 1, lettera m) del decreto legislativo 152 del 2006 (sia pure, in solido con il responsabile e salvo il diritto di rivalsa nei confronti del responsabile per gli oneri sostenuti), ovvero se – in alternativa - in siffatte ipotesi gli effetti a carico del proprietario ‘incolpevole’ restino limitati a quanto espressamente previsto dall’articolo 253 del medesimo decreto legislativo in tema di oneri reali e privilegi speciali”.

La scelta di devolvere la questione all’Adunanza Plenaria è motivata in ragione della delicatezza della questione, che ha dato e potrà dare anche in futuro adito a contrasti giurisprudenziali.

1) In particolare, un primo orientamento ha dato risposta positiva al quesito; “i principali argomenti a sostegno della tesi in questione risultano:

- la valorizzazione del dato testuale sul coinvolgimento (anche su base volontaria) del proprietario nell’adozione delle misure di cui agli articoli 240 e segg.;

- la lettura dei princìpi comunitari di precauzione, dell’azione preventiva e del ‘chi inquina paga’, sulla base dell’esigenza che le conseguenze dell’inquinamento (a seguito delle alienazione tra privati delle aree) ricadano sulla collettività;

- la sussistenza di specifici doveri di protezione e custodia ricadenti sul proprietario dell’area (peraltro riconducibili ai codici civili del 1865 e del 1942, oltre che alle tradizioni giuridiche degli Stati), a prescindere dal suo coinvolgimento diretto ed immediato nella determinazione del fenomeno di contaminazione;

- la sottolineatura della particolare posizione del proprietario, il cui coinvolgimento nei più volte richiamati obblighi sarebbe svincolato da qualunque profilo di colpa, essendo qualificabile quale responsabilità ‘da posizione’, derivante in ultima analisi: i) dalla mera relazione con la res; ii) per di più dall’esistenza di un onere reale sul sito (di fonte normativa); iii) dall’essere (o dall’essere stato) in condizione di realizzare ogni misura utile ad impedire il verificarsi del danno ambientale”.

2) In senso opposto, un altro indirizzo giurisprudenziale esclude che al proprietario possa imporsi l’adozione delle misure di bonifica necessarie al recupero del sito; “i principali argomenti a sostegno della tesi in questione sembrano essere i seguenti:

- l’indagine testuale delle disposizioni del d.lg. n. 152 del 2006, interpretate nel senso che delineano una precisa scansione nell’individuazione dei soggetti di volta in volta chiamati ad adottare le misure di protezione e ripristino ambientale, senza possibilità di individuare in modo diretto ed immediato in capo al proprietario ‘incolpevole’ alcuno degli obblighi di cui agli articoli 240 e seguenti, salvi gli effetti dell’imposizione ex lege di particolari oneri reali e di privilegi speciali per far fronte all’ipotesi di inadempimento da parte del soggetto responsabile;

- un approccio concettuale il quale declina le conseguenze del principio comunitario ‘chi inquina paga’ secondo le categorie tipiche del canone della responsabilità personale, con l’esclusione del ricorso ad indici presuntivi o a forme più o meno accentuate di responsabilità oggettiva”.

Sul finire, il Collegio indica una serie di argomenti letterali e sistematici a sostegno di ambo le tesi, che rendono palese la complessità della questione e la necessità dell’intervento autorevole dell’Adunanza Plenaria. TM



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Inserito in data 22/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 14 maggio 2013, n. 11523

Litisconsorzio necessario e interposizione fittizia di persone

La questione sottoposta alle Sezioni Unite consiste nell’accertare se, in caso di domanda di simulazione relativa per interposizione fittizia di persone, l’alienante sia o meno litisconsorte necessario.

Le Sezioni Unite accolgono l’orientamento (più risalente) secondo cui la presenza in giudizio del venditore non è necessaria quando il contratto sia stato integralmente eseguito nei confronti del venditore (essendo avvenuti trasferimento del bene e pagamento del corrispettivo) e non sussista alcun interesse diretto del venditore all’esito del giudizio di simulazione.

In questa situazione, infatti, soltanto il simulato ed il dissimulato acquirente sono interessati effettivamente all’esito del giudizio. Dal punto di vista di chi vende, infatti, la modificazione soggettiva della parte compratrice è irrilevante e l’accertamento giudiziale (in assenza dell’alienante, che non può trarre alcuna utilità dalla dichiarazione di simulazione relativa) rimane integralmente efficace nei confronti dell’interposto e dell’interponente, quali uniche parti vincolate.

Tale soluzione, peraltro, è coerente con i più recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di giusto processo (art. 111 Cost). In diverse occasioni, infatti, la Cassazione ha ritenuto non necessaria la rimessione del processo davanti al giudice di secondo grado per disporre l’integrazione del contraddittorio quando la partecipazione del litisconsorte pretermesso avrebbe determinato esclusivamente una diseconomia temporale, non sussistendo in capo alla parte esclusa alcun interesse attuale a partecipare al giudizio (Cass. 18410/2009, 4342/2010, 18375/2010). CDC

 

 




Inserito in data 22/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 maggio 2013, n. 2722

Caratteri del sindacato giurisdizionale sui provvedimenti delle Autorità indipendenti

La sentenza riguarda un provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per abuso di posizione dominante e ripercorre i principali caratteri del sindacato giurisdizionale di legittimità sull’operato delle Autorità indipendenti.

Esso è contenuto sul piano della legittimità e non anche del merito, tranne che per quanto riguarda le sanzioni pecuniarie, ex art. 134, comma 1, lettera c), cpa.

Quanto ai suoi limiti, occorre coordinare l’evoluzione giurisprudenziale in materia di sindacato di legittimità sugli atti discrezionali con le peculiari esigenze del giudizio sui provvedimenti delle autorità Garanti.

In via generale, infatti, è pacificamente affermata la cognizione piena del giudice amministrativo anche in rapporto all’esercizio di discrezionalità tecnica, dovendosi essa esercitare in rapporto a fatti che devono risultare sussistenti, a seguito delle acquisizioni probatorie emerse nel corso del procedimento. Pertanto, se il giudice non può sostituirsi all’Amministrazione, tuttavia non può esimersi dal valutare l’eventuale manifesta erroneità dell’apprezzamento dell’Amministrazione. Più in dettaglio, il sindacato di legittimità del giudice si estrinseca nella possibilità di accertare se l’atto si ponga al di fuori dell'ambito di esattezza o attendibilità, non risultando rispettati parametri tecnici di univoca lettura, ovvero orientamenti già oggetto di giurisprudenza consolidata, o di dottrina dominante in materia.

Per i provvedimenti delle Autorità Garanti, tuttavia, bisogna tener conto della specifica competenza, della posizione di indipendenza e dei poteri esclusivi, spettanti alle medesime: quindi, non è consentito per il giudice l’esercizio di un potere sostitutivo, salvo che per le sanzioni pecuniarie; infatti, il giudizio dell’Autorità trova come parametri di riferimento non regole scientifiche non opinabili, ma valutazioni, anche di natura prognostica, a carattere economico, sociologico, o comunque non ripercorribile in base a dati univoci.

Alla luce di quanto appena detto, la legittimità del provvedimento impugnato deve quindi essere rapportata ai seguenti parametri: a) corretta rappresentazione dei fatti, in base a valutazione sia degli elementi di prova raccolti dall’Autorità Garante che delle prove a difesa fornite; b) coerenza e attendibilità dell’istruttoria espletata, nonché delle conseguenti iniziative, indirizzate a reprimere le condotte risultate devianti e ad assicurare il ripristino di corrette regole di mercato; c) congruità e ragionevolezza della motivazione in base a parametri di comune esperienza, con riferimento a tutte le figure sintomatiche di eccesso di potere; d) sussistenza e corretta applicazione, o meno, di regole tecniche, la cui verifica richieda apposite conoscenze specialistiche, ma senza alcun potere sostitutivo, ove non esattamente riscontrabili ma frutto di un apprezzamento complesso (con la sola eccezione del sindacato sulle sanzioni pecuniarie, sulle quali è ammesso un sindacato esteso al merito). CDC



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Inserito in data 22/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 maggio 2013, n. 2724

Ricorso per l'ottemperanza non è utilizzabile per l'esecuzione di pronunce di rigetto

Nella sentenza si ribadisce che il ricorso per l’esecuzione del giudicato non è utilizzabile per l’esecuzione delle pronunce di rigetto, anche in mancanza di un’espressa regola che circoscriva l’ottemperanza alle sole decisioni di accoglimento.

Infatti, solo le pronunce di accoglimento fanno nascere per l’Amministrazione un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente satisfattivi rispetto a quelle statuizioni.

Pertanto, “è legittimato a chiedere le misure esecutive di una sentenza solo chi abbia proposto una domanda in sede di cognizione, quando questa sia stata accolta, e non anche il controinteressato soccombente in primo grado, che abbia ottenuto all’esito del giudizio di appello la reviviscenza dell’atto impugnato (di cui è beneficiario)”. Ciò deriva dal fatto che la pronuncia di rigetto lascia invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla proposizione del giudizio.

L’adeguamento della situazione di fatto a quella di diritto può essere dunque chiesto da chi vi abbia titolo secondo gli strumenti consentiti dal sistema (se del caso, contestando il silenzio dell’Amministrazione), ma non anche col rimedio del giudizio d’ottemperanza, che postula una statuizione del giudice che abbia innovato la sfera giuridica dell’Amministrazione, con i propri effetti d’annullamento, ripristinatori o conformativi. CDC

 

 



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Inserito in data 21/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 17 maggio 2013, n. 2682

Giurisdizione sulla legittimità del DURC

Il Consiglio di Stato si è pronunciato in merito alla sussistenza o meno della giurisdizione del G.A. sulla valutazione della legittimità del DURC.

Nel motivare la propria decisione, i Giudici di Palazzo Spada hanno posto l’accento su due distinti profili: uno soggettivo ed uno oggettivo.

Sul primo punto il Collegio ha evidenziato la natura di associazioni non riconosciute (ex. Art. 36 c.c.) delle Casse Edili, parti del procedimento in esame, e la conseguente mancanza di una giurisdizione in capo al G.A.; sul piano oggettivo, invece, ha ricordato l’orientamento, espresso più volte dalla giurisprudenza, secondo cui il DURC consisterebbe in una dichiarazione di scienza, collocandosi, pertanto, fra gli atti di certificazione o di attestazione di carattere meramente dichiarativo (C.d.S. sez. V 789/2011).

Da quanto affermato consegue che l’oggetto di valutazione, consistente nella regolarità dei versamenti effettuati dall’impresa, “… non involge un rapporto pubblicistico, bensì un rapporto obbligatorio previdenziale di natura privatistica (…) senza che su di esso vengano ad incidere direttamente o indirettamente poteri pubblicistici, per cui il sindacato sullo stesso esula dall'ambito della giurisdizione, ancorché esclusiva, di cui è titolare il giudice amministrativo in materia di appalti”. VA



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Inserito in data 21/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, SENTENZA 17 maggio 2013, n. 21192

Accertamento autonomo della responsabilità amministrativa dell’ente

Dopo aver esaminato le questioni relative all’accertamento della responsabilità penale delle persone fisiche e aver ribadito la necessità di un’attenta ed autonoma valutazione della condotta posta in essere dai concorrenti, ed in particolare dal concorrente extraneus, la S.C. ha posto l’attenzione sulla posizione degli enti.

La Corte di legittimità ha, infatti, affermato che, ai sensi dell’art. 8 comma 1 lett. b) d.lgs.231/2001, qualora il reato si estingua per una causa diversa dall’amnistia permane la responsabilità dell’ente a questo collegato.

Appare evidente, dunque, come l’intervenuta prescrizione del reato, verificatasi nel giudizio de quo, debba ricondursi all’interno della norma citata.

Ne consegue che “l’accertamento della responsabilità amministrativa della società nel cui interesse o per il cui vantaggio il reato è stato commesso può e deve proseguire attraverso un percorso processuale autonomo, pur non potendosi prescindere da una verifica quanto meno incidentale del fatto di reato”, rimanendo immutato il potere cognitivo del giudice sulla sussistenza del reato presupposto nei limiti dei fini sopra indicati. VA




Inserito in data 21/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 16 maggio 2013, n. 11968

Irrilevanza del danno da “insoddisfazione del cliente” in caso di allagamento

I giudici della Corte di legittimità nell’affermare la responsabilità condominiale per i danni prodotti ad un’attività commerciale a seguito della rottura di alcune condutture dell’acqua, hanno affermato che, in applicazione degli artt. 2056 e 1226 c.c., ai fini dell’ammissibilità della richiesta risarcitoria dei danni subiti occorre fornire la prova, anche in via presuntiva, dell’esistenza di tali danni.

Analogo onere probatorio non sussisterebbe, invece, con rifermento al quantum del danno, che, dunque,  potrà essere valutato anche in via equitativa.

Nel caso di specie la Cassazione, in applicazione dei principi sopra esposti, ha avallato il criterio seguito dal giudice della Corte d’Appello, il quale ha provveduto alla quantificazione del danno subito facendo riferimento al fatturato della società ed escludendo in assoluto la rilevanza ad ulteriori e “maggiori danni subiti da attribuirsi a perdita o insoddisfazione della clientela”. VA

 

 




Inserito in data 20/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, ORDINANZA 17 maggio 2013 n. 12060

Legge elettorale rinviata alla Consulta. Vulnus a diritti costituzionalmente rilevanti

I Giudici di Piazza Cavour sottopongono all’attenzione della Consulta la Legge elettorale attualmente in vigore – L. n. 270/05 – più comunemente nota come Porcellum. Ritengono, infatti, rilevanti e manifestamente fondate talune questioni di legittimità, sollevate da un folto gruppo di ricorrenti lombardi.

In sostanza, gli Ermellini accolgono le doglianze riguardo alla presunta incisione a parametri costituzionalmente rilevanti, quali la libertà di voto e la corretta composizione delle Camere, che parrebbe discendere dalla legge elettorale in questione che, piuttosto, sembrerebbe non costituire il risultato di un bilanciamento ragionevole e costituzionalmente accettabile tra i diversi valori in gioco".

In particolare, il Collegio punta la propria attenzione sul c.d. premio di maggioranza che, in entrambe le Camere, finirebbe con l’incentivare il raggiungimento di accordi tra le liste al fine di accedere alla c.d. soglia premiale, intaccando, pertanto, la libera formazione delle compagini governative.

Peraltro ad aggravare tale situazione, proseguono i Giudici, la possibilità che, anche immediatamente dopo le elezioni, la coalizione beneficiaria del premio si sciolga o i partiti che ne facevano parte ne escano; e che si provochi, quindi, un'alterazione degli equilibri istituzionali, tenuto conto che la maggioranza beneficiaria del premio è in grado di eleggere gli organi di garanzia che, tra l'altro, restano in carica per un tempo più lungo della legislatura".

Inoltre, con riferimento al Senato, parrebbe sussistere il temuto rischio di ingovernabilità, posto che il premio di maggioranza "essendo diverso per ogni regione, dà luogo ad un risultato che è una sommatoria casuale dei premi regionali, che finiscono per elidersi tra loro e possono addirittura rovesciare il risultato ottenuto dalle liste e coalizioni di lista su base nazionale".

Appare evidente, pertanto, l’irragionevolezza di una simile previsione, stante il vulnus procurato alla libertà di voto e di conseguente rappresentatività democratica, oltreché l’incisione arrecata al Bicameralismo perfetto – ex art. 70 della Costituzione - in tal guisa difficilmente perseguibile.

Infatti, affermano i Giudici, "si favorisce la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti, pur in presenza di una distribuzione del voto sostanzialmente omogenea tra i due rami del Parlamento, e si compromette sia il funzionamento della nostra forma di governo parlamentare nella quale, secondo i dettami del bicameralismo perfetto, il governo deve avere la fiducia delle due Camere, sia l'esercizio della funzione legislativa che l'art. 70 della Costituzione attribuisce paritariamente alla Camera e al Senato".

L’ultima censura, accolta ancora dalla Suprema Corte, riguarda la “consistenza” della c.d. libertà del voto, messa in seria crisi dalla legge quivi contestata, posto che "all'elettore viene sottratta la facoltà di poter scegliere l'eletto".

Bisognerebbe chiedersi, infatti, se "possa ritenersi realmente libero il voto quando all'elettore è sottratta la facoltà di scegliere l'eletto e se possa ritenersi 'personale' un voto che è invece 'spersonalizzato'". 

In ragione di ciò e della conseguente, seria compromissione di valori fondanti il nostro sistema costituzionale, gli Ermellini hanno deciso di rimettere la legge elettorale al Giudice delle Leggi. CC

 

 




Inserito in data 20/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 maggio 2013, n. 2699

Diritto alla retribuzione di ferie non godute: natura della pretesa, prescrizione ed interessi

In primo luogo il Collegio si avvale di tale pronuncia per rimarcare una posizione ormai consolidata, quella relativa al discrimine temporale ricorrente ai fini della individuazione della giurisdizione in materia di controversie attinenti al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti.

Correttamente, dicono i Giudici ricordando un’importante posizione della Corte Costituzionale – n. 213 del 2005, la data di inizio del presente giudizio è valutata come corrispondente a quella di notifica dei ricorsi introduttivi, e non di deposito dei medesimi; con la conseguenza, pertanto, che è fondata la giurisdizione amministrativa contestata, invece, dall’Azienda ospedaliera – in parte qua appellante.

Infatti, come assodato anche da giurisprudenza ormai certa, il richiamo contenuto nell’articolo 45, comma 17, del D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 80 alla data del 15 settembre 2000, deve considerarsi come termine di decadenza per la proponibilità della domanda giudiziale e non come limite temporale della persistenza della giurisdizione (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 4.6.2010, n. 3554; Cons. St., sez. V, 18.2.2009, n. 946; Cons. St., Sez. VI, 8.8.2008, n. 3909); pertanto, confortato da un dato giurisprudenziale così significativo, il Collegio conferma la propria giurisdizione in merito alla controversia in esame.

Proseguendo, poi, nel merito della vicenda, i Giudici di Palazzo Spada chiariscono la natura risarcitoria e non retributiva del diritto al riconoscimento di ferie non godute: si tratta, infatti, di un credito legato alla mancata fruizione, per il singolo lavoratore, di un diritto fondamentale e costituzionalmente garantito.

Ciò comporta, come è chiaro, che le somme pretese abbiano natura di debito di valore, con la conseguente assoggettabilità a rivalutazione monetaria, oltreché a prescrizione decennale, diversamente da quanto assunto dal primo Giudice.

In ultimo, il Collegio definisce gli interessi quale un criterio di commisurazione del danno da ritardato conseguimento di una somma di denaro che, all’epoca del fatto, era – per definizione – non rivalutata.

In guisa di ciò, gli interessi legali dovranno essere calcolati sulle somme via via rivalutate di anno in anno, fino all’effettivo soddisfo, secondo i criteri stabiliti dalla Corte di Cassazione nella sentenza delle Sezioni Unite n. 1712 del 17.2.1995. Sulla base di questo calcolo, pertanto, l’Azienda ospedaliera sarà tenuta al pagamento. CC



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Inserito in data 20/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 maggio 2013, n. 2701

Diniego riammissione in servizio: resta attività estremamente discrezionale

La pronuncia è significativa in quanto, intervenendo in tema di riammissione in servizio – ex art. 132 T.U. 3/57, affronta la delicata questione dei limiti che l’Amministrazione medesima appresta all’esercizio della propria discrezionalità.

Nella specie, trattandosi di un diniego di riammissione, già reiterato e giustificato, in ultimo, proprio con il riferimento ad un’età ritenuta presuntivamente avanzata, l’Amministrazione appellante evoca, in concreto, il proprio potere ampiamente discrezionale nel cui esercizio è preminente, se non esclusiva, la considerazione del proprio interesse – quale datrice di lavoro.

Non ravvisando, dunque, alcuna irragionevolezza – riscontrata dal Primo Giudice, l’Amministrazione porta avanti la propria difesa, ritenendo l’insussistenza dell’eccesso di potere, lamentato ex adverso.

Tuttavia, i Giudici del gravame, pur precisando l’estesa discrezionalità che potrà e dovrà caratterizzare il successivo provvedimento dell’Amministrazione appellante, ne bocciano le doglianze, ravvisando nel requisito dell’età, un criterio aprioristico, reso con poca pertinenza alla quotidianità.

Tenendo conto, infatti, dell’avanzare dell’età lavorativa media e del fatto che si tratterebbe di una ripresa di servizio e non di un’attività ex novo, il Collegio, con una valutazione estremamente ponderata, condivide la posizione dell’appellato, disponendone la ripresa lavorativa.

Sottolinea, infine, come l’età non sia stata espunta quale criterio di massima; occorre, semmai, che se ne compia una giusta valutazione unitamente ad altri fattori e che non diventi una causa ostativa a priori, come verificatosi, invece, nel caso di specie. CC

 

 



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Inserito in data 19/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 16 maggio 2013 n. 11833

Divieto per il dipendente pubblico di svolgere la professione forense

Le Sezioni Unite risolvono la vexata quaestio in ordine alla incompatibilità tra l’impiego pubblico e l’esercizio della professione forense, sorta con la L. n. 339 del 2003 e riproposta in occasione delle cc.dd. liberalizzazioni - di cui al D.L. 138/2011 convertito dalla legge 148/2011.

Gli Ermellini, infatti, negano una possibile abrogazione tacita, per effetto delle nuove disposizioni introdotte nel 2011, del divieto di cui alla legge del 2003 - quale presuntivamente ritenuta dal dipendente pubblico, il cui ricorso, invece, è stato respinto.

Né, proseguono i massimi Giudici, l’odierno divieto perde rilievo in considerazione del fatto che l’attività pubblica prestata dal ricorrente, invero, fosse resa in regime di part – time.

Ciò che conta, infatti, è l’inevitabile ed innegabile conflitto di interessi che sorge tra chi è portatore di un interesse privato, alla cui tutela è proteso – quale è per definizione l’Avvocato; e chi, invece, rappresenta la Nazione ed in vista della cui trasparenza e buon andamento svolge la propria attività.

Si tratta, in sostanza, di un bilanciamento tra valori di rango costituzionale – di cui agli articoli, rispettivamente, 24, 97 e 98 - che, già in passato, il Legislatore del 2003 aveva inteso suggellare e che, adesso, non subisce alcuna oscillazione per effetto del nuovo, libero mercato.

Peraltro, evidenziano i Giudici di Piazza Cavour, a conferma di ciò si pone tanto la Legge 247/12 “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, il cui articolo 18 lett. d), prevede espressamente l’incompatibilità della professione di avvocato con qualsiasi attività di lavoro subordinata, anche se con orario di lavoro limitato; quanto la Corte di Giustizia Ue che, poco tempo prima, aveva escluso qualsiasi contrasto del regime di incompatibilità italiano con i principi comunitari, fra cui quelli in materia di libera concorrenza e libertà di stabilimento. 

Confortato, quindi, dal dato normativo e giurisprudenziale, il Supremo Collegio consacra la necessaria separazione tra le due attività, in vista di un'imparzialità altrimenti difficilmente perseguibile.  CC




Inserito in data 17/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2013, n. 2602

La stipula del contratto non esclude l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione

Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ripropone il consolidato orientamento secondo il quale la stipula del contratto non esclude la legittimazione, in capo alla stazione appaltante, all’annullamento del provvedimento di aggiudicazione.

A tal proposito, viene fatto riferimento a Cons. St., sez. V., 7 settembre 2011, n. 5032, secondo il quale “il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto”.

Tale pronuncia si sofferma, altresì, sul profilo della giurisdizione, escludendo che l’intervenuta stipulazione del contratto e la sua attuale esecuzione possano essere, di per sé, sufficienti ad escludere la giurisdizione del giudice amministrativo e ad introdurre quella del giudice ordinario, dato che “di fronte all’esercizio del potere di annullamento la situazione del privato è di interesse legittimo, a nulla rilevando che tale esercizio, in ultima analisi, produca effetti indiretti su di un contratto stipulato da cui sono derivati diritti”.

Richiamando l’art. 21 octies della legge 7 agosto 1990, n. 241 si rileva, altresì, che il carattere doveroso della determinazione di annullamento d’ufficio esclude, altresì, ogni rilevanza alle censure di incompetenza e di insufficienza della comunicazione di avvio del procedimento di annullamento e di quello di revoca di un finanziamento.

È da sottolineare, inoltre, che non rileva l’affidamento ingenerato nell’aggiudicatario nel caso in cui, al momento dell’adozione del provvedimento di autotutela, il contratto definitivo non fosse stato ancora stipulato: in tal caso le rispettive posizioni, infatti, non erano ancora definitivamente consolidate.

La sentenza del Consiglio di Stato analizzata si sofferma, altresì, sull’interesse pubblico a non procedere ad illegittime attribuzioni di denaro pubblico; tale interesse, infatti, prevale sull’aspettativa di possibili destinatari ad ottenere un illegittimo beneficio, così come previsto dall’art. 1, comma 136, l. n. 311 del 2004. GMC

 

 



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Inserito in data 17/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 maggio 2013, n. 2400

Giudizio di ottemperanza: differenza tra “violazione” ed “elusione” di giudicato da parte della P.A.

Nel giudizio di ottemperanza, il giudice deve puntualmente verificare l’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformazione al giudicato, al fine di far ottenere, in concreto, all’interessato, il bene della vita o l’utilità riconosciutagli già antecedentemente in sede di cognizione.

L’organo giudicante deve, altresì, apprezzare le possibili, ed eventuali, sopravvenienze di fatto e/o diritto al fine di determinare, in concreto, se il ripristino della situazione soggettiva, poiché illegittimamente sacrificata, sia compatibile con lo stato di fatto e/o diritto che si è realizzato medio tempore.

La giurisprudenza ha rilevato che in tale giudizio possa essere dedotta come contrastante con il giudicato, non solo l’inerzia della pubblica amministrazione, cioè il non facere (inottemperanza in senso stretto), ma anche un facere, cioè un comportamento attivo, attraverso cui possa realizzarsi un’ottemperanza parziale o inesatta ovvero, ancora, la violazione o l’elusione attiva del giudicato (CdS., sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501).

Il nuovo atto emanato dall’amministrazione, dopo l’annullamento in sede giurisdizionale del provvedimento illegittimo, può essere considerato adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da quest’ultimo derivi un obbligo assolutamente puntuale e vincolato, così che il suo contenuto sia integralmente desumibile, nei suoi tratti essenziali, dalla sentenza (CdS., sez. VI, 3 maggio 2011, n. 2602; sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 70; 4 ottobre 2007, n. 5188).

In tal caso, la verifica della sussistenza del vizio di violazione o elusione del giudicato implica il riscontro della difformità specifica dall’atto stesso rispetto all’obbligo processuale di attenersi esattamente all’accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.

La violazione del giudicato è, pertanto, configurabile quando il nuovo atto riproduca gli stessi vizi già censurati in sede giurisdizionale ovvero quando si ponga in contrasto con le precise prescrizioni provenienti dalla statuizione del giudice; mentre si tratterà di elusione del giudicato allorquando l’amministrazione, pur provvedendo formalmente a dare esecuzione alle statuizioni della sentenza, persegue l’obiettivo di aggirarle dal punto di vista sostanziale giungendo, in tal modo, allo stesso esito già ritenuto illegittimo (CdS., sez. IV, 1° aprile 2011, n. 2070, 4 marzo 2011, n. 1415; 31 dicembre 2009, n. 9296).

In questo caso, è legittimo il provvedimento di revoca di una gara di appalto, disposta in una fase non ancora definita della procedura concorsuale, ancora prima del consolidarsi delle posizioni delle parti e quando il contratto non è stato ancora concluso, motivato anche con riferimento al risparmio economico che deriverebbe dalla revoca stessa. Si sottolinea, infatti, che tale disposizione ammette un ripensamento da parte dell’amministrazione a seguito di una nuova, e diversa, valutazione dell’interesse pubblico originario.

Se l’aggiudicazione non è ancora intervenuta, infatti, l’amministrazione può discrezionalmente disporre la revoca del bando di gara, e di ogni atto successivo, nel caso in cui sussistano dei concreti motivi di interesse pubblico tali da rendere fuori luogo la prosecuzione della gara.

Si rileva, a tal proposito, che profili concernenti, ad esempio, le ragioni tecniche riguardanti l’organizzazione del servizio, le concrete modalità di esecuzione, la volontà di provvedere non mediante esternalizzazione, ma in autoproduzione, ed il riassetto societario rappresentano, tutti, aspetti attinenti al merito dell’azione amministrativa e, di conseguenza, sottratti alla sfera di sindacabilità del giudice, in assenza di palesi indici di irragionevolezza.

Infine, anche il riferimento al risparmio economico, derivante dalla revoca, è stato ritenuto legittimo motivo della stessa. GMC

 



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Inserito in data 17/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 9 maggio 2013 n. 10959

Anche gli episodi non gravi, se ripetuti, integrano giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.

In materia di lavoro, la Suprema Corte ha stabilito che ogni singolo episodio, seppur non in sé e per sé tale da comportare il licenziamento del lavoratore ma, comunque, idoneo ad incidere negativamente nel rapporto lavorativo, debba essere concretamente valutato in quanto, congiuntamente ad altri comportamenti od azioni oggettivamente ininfluenti, potrebbe comportare il licenziamento del dipendente per giusta causa.

L’art. 2119 del codice civile (recesso per giusta causa) prevede, infatti, la facoltà per le parti – lavoratore e datore di lavoro – di recedere dal contratto sottoscritto qualora si verifichi una causa che determini l’impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro.

Nel caso in esame, ricorre il lavoratore avverso il licenziamento inflitto dalla società presso cui prestava servizio poiché il comportamento, a suo dire, non avrebbe integrato giusta causa di recesso unilaterale, risultando la sanzione inflitta sicuramente sproporzionata rispetto all’atteggiamento tenuto dallo stesso.

La Corte di Cassazione puntualizza che ogni situazione è da valutarsi nel contesto concreto in cui si verifica e che, inoltre, nonostante un singolo episodio possa apparire privo di significato alla luce del citato art. 2119 c.c., il susseguirsi di episodi simili, qualora congiuntamente ed in concreto esaminati, possono giustificare la correttezza di applicazione della sanzione disciplinare.

La decisione assunta dalla Corte d’Appello è stata cassata con rinvio poiché “la Corte, infatti, nell'esprimere un giudizio di sproporzione della sanzione irrogata rispetto alla condotta contestata ed accertata, ha, per un verso, del tutto omesso di valutare alcune circostanze di fatto, emerse nel corso dell'istruttoria e, per altro verso, mancato di verificare se le stesse, poste in relazione con le altre condotte accertate, fossero, ove complessivamente valutate, rivelatrici di un comportamento del dipendente che violava i doveri di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto, così giustificandone la risoluzione”. GMC




Inserito in data 16/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA 7 maggio 2013, n. 10550

Inapplicabilità della riforma Fornero (L. n. 92/12) ai processi in corso

Nella sentenza in esame, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nega l’applicabilità della riforma Fornero ai giudizi pendenti.

Precisamente, contro la sua immediata applicazione si adduce il principio della ragionevole durata del processo.

Infatti, la L. n. 92/12 ha stravolto il sistema dei licenziamenti, procedendo a una diversificazione dei regimi di tutela in ragione del tipo di illegittimità da cui è afflitto il licenziamento: di conseguenza, essa presuppone l’espletamento ad opera delle parti di un diverso onere di allegazione e di prova e, perciò, potrebbe applicarsi ai processi in corso solo ammettendone la regressione alle fasi iniziali.

A titolo esemplificativo, basti dire che a seguito della Legge Fornero il lavoratore ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro e al pieno risarcimento del danno solo quando si accerti la natura discriminatoria del licenziamento, l’inesistenza della condotta addebitata o la sua sussumibilità tra quelle punite con mere sanzioni conservative; mentre si riconosce soltanto la tutela risarcitoria nei casi in cui il licenziamento sia illegittimo per mancanza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo. TM




Inserito in data 16/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2013, n. 2616

Pure l’aggiudicazione provvisoria è idonea a far sorgere di un legittimo affidamento

Il Consiglio di Stato si sofferma sui presupposti della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione e, in particolare, sulla situazione di affidamento legittimo meritevole di tutela ai sensi degli artt. 1337 e 1338 c.c.

La controversia trae origine dall’atto di ritiro ad opera dell’Amministrazione banditrice di un provvedimento di aggiudicazione provvisoria.

In prima battuta, si respinge la tesi secondo cui un atto endoprocedimentale a carattere interinale, come l’aggiudicazione provvisoria, sia inidoneo a far sorgere un affidamento meritevole di protezione: a giudizio del Giudice amministrativo, il carattere provvisorio dell’aggiudicazione oggetto di ritiro non è decisivo in tal senso.

Successivamente, si evidenzia come debba escludersi la sussistenza di un affidamento siffatto laddove l’Amministrazione appaltante, in omaggio al canone del clare loqui, abbia subordinato l’efficacia della procedura competitiva a delle condizioni non avveratesi: ciò in quanto, in questo caso, ”I concorrenti, già all’atto della presentazione delle domande di partecipazione, hanno … accettato il rischio della possibile evoluzione negativa della procedura competitiva”.

Pertanto, ”La verificazione dei fatti impeditivi, preventivamente pubblicizzati e non addebitabili a comportamento negligente della pubblica amministrazione, esclude in radice la sussistenza di una culpa in contrahendo e osta all’emersione di una situazione di affidamento ragionevole in merito allo sbocco favorevole della procedura”. TM

 

 



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Inserito in data 16/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 maggio 2013, n. 83

Anche i docenti universitari possono restare in servizio oltre i limiti di età

La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, dell’art. 25 della l. n. 240/10; quest’ultima disposizione “esclude l’applicazione a professori e ricercatori universitari dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 503 del 1992, così precludendo a tale categoria la facoltà, riconosciuta agli altri dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici, di permanere in servizio per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsto, previa valutazione favorevole dell’amministrazione di appartenenza, secondo i criteri nel medesimo art. 16 indicati”.

Preliminarmente, si rammenta che “il legislatore ben può emanare disposizioni che vengano a modificare in senso sfavorevole per gli interessati la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, unica condizione essendo che tali disposizioni «non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto»”.

Nel caso in esame, le modifiche sfavorevoli per i professori e ricercatori universitari peccano di irragionevolezza, stante la mancanza di adeguate ragioni giustificative di tale trattamento deteriore.

Infatti, non convincono le giustificazioni addotte dalla difesa dello Stato, ossia le esigenze di contenimento finanziario e razionalizzazione della spesa pubblica, e l’interesse al ricambio generazionale del personale docente.

Sotto il primo profilo, la Corte costituzionale sottolinea come la disciplina speciale non possa incidere in maniera apprezzabile sulla finanza pubblica, poiché concerne un settore professionale numericamente ristretto e un arco di tempo contenuto. D’altro canto, pur applicando la disciplina generale di cui all’art. 16, c.1, d.lgs. n. 503/92, il trattenimento in servizio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo non riguarderebbe tutti i dipendenti ma solo quelli che ne abbiano fatto richiesta e la cui esperienza professionale appaia utile all’Amministrazione di appartenenza.

Sotto il secondo profilo, si puntualizza che l’interesse al ricambio generazionale del personale docente va bilanciato col principio del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.) e, perciò, con l’esigenza di mantenere in servizio i docenti la cui particolare esperienza professionale non sia facilmente reperibile altrove.

Infine, l’insegnamento universitario, in quanto attività intellettuale, è meno usurante di altre attività cui si applica l’art. 16 summenzionato: pertanto, una tale disciplina di sfavore non ha proprio alcuna ragion d’essere. TM



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Inserito in data 15/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2013, n. 2607

Obbligo di motivazione negli atti di macro-organizzazione

La sentenza si occupa, fra l’altro, della natura giuridica degli atti di macro-organizzazione e delle conseguenze che ne derivano in termini di disciplina, con particolare riferimento all’esistenza di un obbligo di motivazione.

Gli atti in questione (di riorganizzazione di strutture e uffici comunali) sono stati definiti come “atti amministrativi aventi natura organizzatoria non generale, in quanto non abbisognano, per esplicare i loro effetti immediati, di altri successivi provvedimenti, ma sono al contrario idonei a modificare direttamente le strutture operative dell’ente”.

Pertanto, essi sono soggetti alla disciplina pubblicistica ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 165/2001, e, se oggetto di contestazione giurisdizionale, sono rimessi alla cognizione del g.a. secondo la regola fissata dall’art. 63, d.lgs. 165/2001. Agli stessi è applicabile il comma 1 dell’art. 3, l. n. 241/1990: è necessario, quindi, che gli atti amministrativi attraverso i quali vengono organizzati gli uffici si ispirino (rendendoli conoscibili) a principi di non manifesta illogicità o incongruità dell'assetto in concreto prescelto.

In relazione a tali principi va commisurato il quantum di motivazione esigibile, imposto all’amministrazione al fine di esplicitare congruità e non irragionevolezza delle scelte operate e dei modelli organizzatori adottati. Secondo la sentenza, è sufficiente che la motivazione sia di una latitudine tale da far comprendere come logico e congruente il nuovo assetto organizzativo introdotto, senza inutili appesantimenti, e dunque sintetica ed apprezzabile dal giudice ab externo. CDC



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Inserito in data 15/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2013, n. 2618

Modalità di applicazione del premio di maggioranza nelle elezioni comunali

La sentenza riguarda le modalità di applicazione del premio di maggioranza del 60% dei seggi alla coalizione vincente previsto dall’art. 73, comma 10, tuel. In particolare, si tratta di comprendere se, nel caso di quoziente frazionario, questo debba essere arrotondato all’unità immediatamente superiore o a quella inferiore. A favore delle due diverse soluzioni militano opposte considerazioni: nel primo caso, la necessità di assicurare la stabilità della maggioranza consiliare e dunque la governabilità dell’ente locale; nel secondo, il rispetto del principio di rappresentanza democratica.

Il Collegio ha accolto la prima soluzione, la quale trova conforto nella formulazione letterale della disposizione, in cui si prevede che qualora la coalizione non abbia conseguito “almeno” il 60 per cento dei seggi, questa percentuale le deve essere comunque attribuita; inoltre, essa è coerente con la ratio del premio di maggioranza, che è quella di garantire la governabilità dell’ente.

E’ infatti indubitabile che il 60% dei seggi costituisca la soglia minima che il legislatore ha individuato al fine di assicurare una maggioranza consiliare quanto più stabile al raggruppamento di liste presentatosi in appoggio al sindaco vincente. In altri termini, la mancanza di rappresentatività della coalizione del candidato sindaco risultato eletto viene comunque surrogata dall’appoggio assicurato a quest’ultimo, in un sistema elettorale-rappresentativo caratterizzato dall’investitura popolare dell’organo di vertice dell’ente locale.

La tesi opposta, volta a dare prevalenza alle esigenze di rappresentatività del consiglio e di salvaguardia dell’espressione del voto popolare trascura che queste sono già state considerate dalla norma in esame, la quale esclude l’attribuzione del premio di maggioranza nel caso in cui le liste presentatesi in appoggio al candidato sindaco risultato sconfitto abbiano nondimeno “superato il 50 per cento dei voti validi”. CDC

 

 



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Inserito in data 15/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 8 maggio 2013, n. 10898

Responsabilità PA ex art. 2051 cc per inosservanza norme di diligenza e prudenza

La sentenza conferma che, in tema di responsabilità civile per danni cagionati da cose in custodia, per aversi caso fortuito occorre che il fattore causale abbia un'efficacia di tale intensità da interrompere il nesso eziologico tra la cosa custodita e l'evento lesivo, ossia che possa essere considerato una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento.

Si aggiunge, inoltre, che la discrezionalità (con conseguente insindacabilità da parte del giudice ordinario) dei criteri e mezzi con i quali l’amministrazione realizza e mantiene un'opera pubblica trovano un limite nell'obbligo dell’amministrazione medesima di osservare, a tutela dell'incolumità dei cittadini e dell'integrità del loro patrimonio, le specifiche disposizioni di legge e di regolamento disciplinanti quelle attività, nonché le comuni norme di diligenza e prudenza. L'inosservanza di dette disposizioni e norme comporta responsabilità dell'amministrazione per i danni arrecati a terzi. CDC




Inserito in data 14/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, SENTENZA 7 maggio 2013, n. 13

Artt. 84, 4’ c. e 10 d.lgs. 163/06: principi generali e affidamento concessione di servizi

Dopo aver ricordato la definizione di concessione di servizi data dalla direttiva 2004/18/CE, nonché dal Codice dei contratti pubblici (art. 3, comma 12) come «il contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo», l’Adunanza Plenaria è passata a dirimere il contrasto giurisprudenziale in merito alla natura delle disposizioni previste dall’art. 84 comma 4 e 10 del d.lgs 163/2006.

Affronta la questione al fine di valutarne l’applicabilità anche all’affidamento di una concessione di servizi, non ricompresa nell’elenco delle materie cui deve applicarsi il codice dei contratti pubblici.

La giurisprudenza comunitaria, infatti, ha affermato che, sebbene le direttive appalti escludano dal proprio ambito di applicazione le concessioni di servizi, queste devono sottostare ai principi generali espressi dal Trattato in tema di concorrenza, con particolare riferimento ai principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi (art. 30 comma 3).

Inoltre, “l’art.2 comma 1 del codice prevede che l’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture,…,deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nello stesso codice”.

“Nella interpretazione della giurisprudenza comunitaria la normativa di principio di derivazione comunitaria trova applicazione … pressoché generalizzata nel settore dei contratti pubblici”.

Dall’analisi della ratio sottesa alle norme in esame appare evidente rispettivamente che “la previsione di legge di cui al comma 4 (…) è evidentemente destinata a prevenire il pericolo concreto di possibili effetti disfunzionali derivanti dalla partecipazione alle commissioni giudicatrici di soggetti (…) che siano intervenuti a diverso titolo nella procedura concorsuale (…) a tutela del diritto delle parti del procedimento ad una decisione amministrativa adottata da un organo terzo ed imparziale”. “A sua volta la regola della posteriorità della nomina della commissione rispetto alla scadenza del termine di presentazione delle offerte risponde alla convinzione diffusa che tale vincolo temporale sia posto a presidio della trasparenza (intesa in senso più lato rispetto al senso della generale accessibilità alla attività amministrativa) e della imparzialità della procedura (…) tra tante, Cons. Stato, V, 29 aprile 2009, n.2738)”.

Alla luce di quanto detto non si può non concludere nel senso che, in quanto tese ad evitare il pericolo concreto di violazione della imparzialità della commissione e quindi poste a tutela della correttezza del procedimento, della trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa, tali regole possano ben essere intese come imperative e come tali inderogabili e nel sistema applicabili, perché implicitamente richiamate, anche per la disciplina delle concessioni di servizi, sulla base di canoni di interpretazione sistematica, letterale(…)e logica”.

L’art. 30, infatti, mira ad una progressiva assimilazione delle concessioni agli appalti al fine di vincolare i soggetti aggiudicatori al rispetto dei principi dell’evidenza pubblica comunitaria, “stante la tendenziale assimilazione delle diverse fattispecie, almeno sotto il profilo del procedimento di scelta dell’altro contraente, dal punto di vista sistematico, il mancato rinvio da parte della legge di gara non può quindi ritenersi decisivo al fine di escludere l’operatività di precetti che dovessero ritenersi, proprio per la loro natura di derivazione diretta da principi generali, norme imperative, espressive di principi generali e consolidati della materia e quindi come tali, in grado di integrare e sovrapporsi alla lex specialis”.

L’Adunanza Plenaria ha, inoltre, precisato che il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza risulta ancora più stringente in materia di affidamento di una concessione di servizi svolto attraverso il criterio dell’offerta più vantaggiosa a fronte del più ampio margine discrezionale nella valutazione delle offerte tecniche.

In conclusione, quindi, “in sede di affidamento di una concessione di servizi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sono applicabili le disposizioni di cui all’art. 84, comma 4 (relativo alle incompatibilità dei componenti della commissione giudicatrice) e 10 (relativo ai tempi di nomina della commissione) del d.lgs. n. 163 del 2006, in quanto espressive dei principi di trasparenza e di parità di trattamento, richiamati dall’art. 30, comma 3, del medesimo d.lgs.”. VA



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Inserito in data 14/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 maggio 2013, n. 2593

Dia: atto privato insensibile alle novità legislative intercorse nel tempo e buona fede

In riforma della sentenza confermata in grado d'appello il Consiglio di Stato evidenziava la natura di autocertificazione della d.i.a. sulla sussistenza delle condizioni necessarie per la realizzazione dell'intervento.

A dispetto di quanto ritenuto dal giudice di prime cure circa l'asserita sensibilità della d.i.a. alle modifiche legislative intervenute ratione temporis, argomentata facendo leva sulla mancanza di efficacia della stessa sino allo spirare del termine utile per l'esercizio del potere di controllo da parte dell'amministrazione, i giudici di Palazzo Spada hanno messo in evidenza i più recenti interventi giurisprudenziali.

In particolare il C.d.S. Sez, IV, 4669 e 4670 del 2012 hanno ricordato la soluzione accolta dall'Adunanza Plenaria 15/2011 dove si è affermato che “la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge” recepita dallo stesso legislatore che ha introdotto il comma 6-ter dell'art.19 L. 241/90.

Ne consegue che “il passaggio del tempo non produce un titolo costitutivo avente valore di assenso, ma impedisce l'inibizione di un'attività già intrapresa in un momento anteriore (…) l’efficacia del titolo formatosi in base all’atto del privato si determina indipendentemente dal mancato esercizio del potere di interdizione da parte della pubblica amministrazione.

(…) si ha come corollario l'immediato sorgere dell’obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione in relazione alla situazione esistente al momento della presentazione della domanda, art 42 commi 2 e 3 della legge regionale Lombardia n. 12 del giorno 11 marzo 2005 <<Legge per il governo del territorio>> (...)rendendo quindi impermeabile la disciplina ai mutamenti disciplinari successivi”.

Il Consiglio di Stato, inoltre, ha ritenuto fondato l'assunto secondo cui “la determinazione dei contributi urbanistici da parte dell’amministrazione costituisce estrinsecazione di un’attività di tipo paritetico non autoritativo e, pertanto, l’operato amministrativo che si contesta contrasta gravemente anche con i principi civilistici ed in particolare con il principio dell’affidamento secondo buona fede, su cui la parte privata deve poter contare al fine di programmare con un ragionevole margine di certezza la propria attività economico-imprenditoriale. Considerato che il momento su cui appuntare l’affidamento economico della società istante è quello della presentazione della DIA”. VA



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Inserito in data 14/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 maggio 2013, n. 85

Dichiarata la legittimità costituzionale del decreto “salva ILVA”

La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sull’eventuale conflitto della l. 231/2012, che ha convertito in legge il d.l. 207/2012 - recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale.

La doglianza è sollevata in relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione.

Sostanzialmente, nonostante i numerosi richiami normativi, si possono individuare due gruppi di problemi: la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 cost.), a seguito del diverso trattamento delle aziende e dei soggetti danneggiati dall’attività di queste a seconda che vengano o meno dichiarate di <>.

Il secondo gruppo di censure concerne la  violazioni degli artt. 101, 102, 103, 104, 107 e 111 Cost. :“La normativa in questione, infatti, sarebbe stata adottata per regolare un singolo caso concreto, oggetto di provvedimenti giurisdizionali già assunti e passati in «giudicato cautelare», con norme prive dei caratteri di generalità ed astrattezza, e senza modificare il quadro normativo di riferimento, così da vulnerare la riserva di giurisdizione ed «il principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato»”.

Infine, sarebbe eluso l’obbligo di accertamento e prevenzione dei reati: “Un ulteriore profilo «generale» di contrasto con il dettato costituzionale (ed in particolare con gli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.) è denunciato in quanto (...) annullerebbe la tutela del diritto fondamentale alla salute e all’ambiente salubre”.

 Nel dichiarare l’infondatezza delle questioni di legittimità sollevate, la Corte Costituzionale ha evidenziato come la legge in questione non abbia affatto reso lecito ciò che prima era illecito, né ha limitato il potere del P.M. alla repressione dei reati. 

Il proseguimento dell’attività, infatti, è subordinato al rilascio dell’AIA da parte dell’autorità competente (provvedimento che deve essere monitorato ed eventualmente modificato). Inoltre, in caso di violazione, è fatta salva la possibilità di applicare le sanzioni amministrative in misura crescente, in rapporto alla gravità delle violazioni accertate, “salvo che il fatto costituisca più grave reato.

“La semplice ricognizione della normativa sui controlli e sulle sanzioni, tuttora vigente ed esplicitamente richiamata dalla disposizione censurata, contraddice per tabulas l’assunto … che i 36 mesi concessi ad una impresa, che abbia le caratteristiche previste, per adeguare la propria attività all’AIA riesaminata, «costituiscono una vera e propria “cappa” di totale “immunità” dalle norme penali e processuali»”.

La  norma  “traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti”. “Il diritto dei cittadini, che si ritengano lesi nelle proprie situazioni giuridiche soggettive, di adire il giudice competente per ottenere i provvedimenti riparatori e sanzionatori previsti dalle leggi vigenti  non è inciso in senso sfavorevole dalla norma censurata, ma inserito nel contesto normativo di riferimento”.

La Corte, inoltre, opera un’importante precisazione affermando che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri (sentenza n. 264 del 2012). Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato(…)secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.

Inoltre, la norma non introduce un’ingiustificata differenziazione di trattamento attraverso un provvedimento amministrativo altamente discrezionale che, dichiarando “strategici” taluni impianti li ponga in una posizione privilegiata. Invero l’elasticità di tale definizione è dovuta al carattere mutevole proprio dell’<>.

Sull’ultimo punto, “si deve ritenere, in generale, che l’art. 1 del d.l. n. 207 abbia introdotto una nuova determinazione normativa all’interno dell’art. 321, primo comma, cod. proc. pen., nel senso che il sequestro preventivo, ove ricorrano le condizioni previste dal comma 1 della disposizione, deve consentire la facoltà d’uso, salvo che, nel futuro, vengano trasgredite le prescrizioni dell’AIA riesaminata. Nessuna incidenza sull’attività passata e sulla valutazione giuridica della stessa e quindi nessuna ricaduta sul processo in corso, ma solo una proiezione circa i futuri effetti della nuova disciplina”.

In ultimo, per quanto concerne la presunta violazione della separazione dei poteri è stato evidenziato come la normativa introdotta, non avendo abrogato, né modificato alcun reato, non sia idonea ad incidere sugli esiti del procedimento pendente; la valutazione della sussistenza di una responsabilità penale resta, dunque, di competenza del giudice. VA

 

 

 

 

 



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Inserito in data 13/05/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, PRIMA SEZIONE, 8 maggio 2013, C - 508/11P

Diritto della concorrenza: è impresa un’unità economica, al di là dei membri

I Giudici di Lussemburgo, ricordando la natura personale della responsabilità in tema di infrazioni alle regole della concorrenza, confermano la sanzione pecuniaria già inflitta in primo grado ad una nota azienda.

Questa, controllante di altre imprese più piccole, è tenuta a rispondere delle gravi violazioni da queste ultime commesse, riguardo ad accordi di non aggressione e allo scambio di segreti in merito ad informazioni riservate su prezzi ed altre concorrenti.

Infatti, partendo dalla valutazione che è impresa un’unità economica – prescindendo dalle persone fisiche o giuridiche che la compongono, il Collegio di Lussemburgo chiarisce che la controllante sia responsabile, a meno che riesca a provare la piena indipendenza ed autonomia economica delle aziende controllate, autrici delle infrazioni contestate.

Tanto non è accaduto nella vicenda in esame, con la conseguente applicazione di gravi sanzioni pecuniarie a carico dell’azienda leader, prescindendo dalla prova circa il coinvolgimento personale della stessa, in linea con il rigore proprio del diritto europeo in tema di concorrenza e libero mercato. CC

 

 

 



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Inserito in data 13/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZE 7 maggio 2013, nn. 11 e 12

Regolamento competenza e doppio grado di giudizio cautelare

Il Supremo Consesso amministrativo si pronuncia in tema di regolamento di competenza – ex art. 13 C.p.A., intervenendo, in particolare, su una pronuncia emessa in sede cautelare; affronta, contestualmente, la delicata questione del c.d. doppio grado di giurisdizione anche con riguardo a quel particolare tipo di giudizio.

Più nel dettaglio, uniformandosi alle doglianze dei Ministeri ricorrenti, i Giudici sanciscono la competenza – in tale sede – del TAR Lazio.

Infatti, trattandosi di un ricorso presentato da un Comune avverso il proprio inserimento nell’elenco degli Enti inadempienti al Patto di Stabilità interno, il Collegio riconosce la natura “sovranazionale” di tale obbligo e, pertanto, la spettanza ad un Giudice capace di esprimersi riguardo a tutto il territorio statale.

Peraltro, esaminando la questione sotto l’aspetto più tecnicamente processuale, si rileva come gli effetti direttamente prodotti dai provvedimenti impugnati, a carico del Comune appellato, non esauriscano la sfera di conseguenze rilevanti – ex art. 13 C.p.A.; con la conseguenza, pertanto, dell’erronea impostazione del giudizio innanzi al TAR territorialmente più vicino.

Del resto, il federalismo fiscale e, più in generale, gli obblighi di ripresa economica assunti nei riguardi dell’UE con il Patto di stabilità quivi contestato, non possono non conferire un rilievo costituzionale alla vicenda, con la conseguente necessaria rimessione al Collegio laziale.

Chiarita, così, la questione relativa alla competenza, i Supremi Giudici precisano, incidentalmente, la propria impossibilità di pronunciarsi riguardo alla fondatezza dell’istanza cautelare presentata dal Comune ritenuto inadempiente ed accolta dal Collegio di primo grado.

Essi, infatti, ricordano come una simile pronuncia sia destinata a perdere efficacia a seguito della declaratoria di incompetenza e, pertanto, dovrà essere riassunta dinanzi all’Organo individuato come competente.

I Giudici di Palazzo Spada, pertanto, non potrebbero pronunciarsi in tale sede, stante il vulnus al doppio grado di giudizio che, anche in sede cautelare deve essere garantito e che, in tal guisa, finirebbero, invece, con l’arrecare. CC



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Inserito in data 11/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 8 maggio 2013, n. 2488

Proprietari vicini sono sempre legittimati ad impugnare titoli edilizi pregiudizievoli

La sentenza ribadisce che “i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da una costruzione sono sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi che possono pregiudicare la loro posizione per l’incisione delle condizioni dell'area e, più in generale, per le modifiche all'assetto edilizio, urbanistico ed ambientale della zona ove sono ricompresi gli immobili di cui hanno la disponibilità, senza che sia necessaria la prova di un danno specifico, essendo insito nella violazione edilizia il danno a tutti i membri di quella collettività”.

Infatti, l'art. 31, comma 9 della legge n. 1150 del 1942 ha riconosciuto una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di “stabile collegamento” con la zona stessa. La legittimazione che discende dalla c.d. vicinitas, cioè da una situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato esime da qualsiasi indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione, atteso che l'esistenza della suddetta posizione legittimante abilita il soggetto ad agire per il rispetto delle norme urbanistiche, che assuma violate, a prescindere da qualsiasi esame sul tipo di lesione, che i lavori in concreto gli potrebbero arrecare. CDC



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Inserito in data 11/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, ORDINANZA 3 maggio 2013, n. 10299

Giurisdizione sul risarcimento dei danni subiti da società a partecipazione pubblica

La pronuncia conferma il principio, già espresso dalle Sezioni Unite, secondo cui “spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all'azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti … non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all'autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l'agente e l'ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti”. Sussiste invece la giurisdizione della Corte dei conti “quando l'azione di responsabilità trovi fondamento nel comportamento di chi, quale rappresentante dell'ente partecipante o comunque titolare del potere di decidere per esso, abbia colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti degli amministratori o dei sindaci tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell'ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l'impiego di risorse pubbliche, o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio”.

Infatti, non c’è giurisdizione della Corte dei conti in controversie che abbiano ad oggetto la responsabilità per mala gestio imputabile ad amministratori di società a partecipazione pubblica, ove il danno di cui si pretende il ristoro sia riferito al patrimonio sociale, cioè ad un patrimonio che, non potendosi quello della società confondere con quello dei soci, appartiene alla società medesima, la quale non diviene essa stessa un ente pubblico sol per il fatto di essere partecipata da un ente pubblico. CDC




Inserito in data 10/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 maggio 2013, n. 2518

Atti endoprocedimentali, prassi amministrativa e tutela praticabile

Sono oggetto della causa atti endoprocedimentali, impugnati perché ritenuti ostativi di una satisfattiva conclusione del procedimento amministrativo avviatosi con la proposta di lottizzazione. Secondo il giudice di primo grado, questi atti avrebbero determinato un arresto procedimentale, anche alla luce della prassi dell’ente di non sottoporre il piano di lottizzazione, bocciato dagli organi tecnici, alla valutazione di quelli politici; dunque, ciò sarebbe sufficiente a radicare l’interesse all’impugnazione.

Tuttavia, secondo la pronuncia, di arresto procedimentale può parlarsi ove ci si trovi dinanzi a fattispecie endoprocedimentali sostanzialmente provvedimentali, ossia preclusive delle aspirazioni dell’istante o comunque di uno sviluppo diverso e per esso maggiormente favorevole (è il caso, ad esempio, delle clausole escludenti). Esse onerano il destinatario del tempestivo esperimento dell’azione di annullamento, pena la decadenza.

Nel caso in esame, invece, difettano in concreto i presupposti per definire il parere tecnico negativo, oggetto di impugnazione, come un arresto procedimentale. Il riferimento alla “prassi” appare a tal fine dirimente. Infatti, la prassi, intesa quale “costante sperimentazione di protocolli procedimentali, praeter o addirittura contra legem, tesi ad elidere (come nel caso di specie) fasi essenziali del procedimento amministrativo, ivi compreso il provvedimento finale”, è inidonea a generare oneri di impugnazione, ponendosi piuttosto, essa stessa, come comportamento violativo dell’obbligo di concludere il procedimento.

Pertanto, dinanzi ad una siffatta prassi, l’unica tutela praticabile è l’azione di accertamento e condanna a provvedere. L’azione sul silenzio è tuttavia strumentale al provvedere e diviene recessiva, salvo ovviamente la risarcibilità del pregiudizio inferto, una volta che l’amministrazione provvede autonomamente. Ciò è avvenuto nel caso di specie: il ricorrente ha chiesto l’annullamento dell’atto istruttorio a mezzo di un’azione sostanzialmente qualificabile quale azione di accertamento e condanna, ma nel corso del giudizio è sopravvenuto il provvedimento terminativo del procedimento. Ciò ha determinato l’improcedibilità. CDC



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Inserito in data 10/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, SENTENZA 7 maggio 2013, n. 10532

La confisca penale prevale sull’ipoteca, che si estingue

La sentenza si occupa del tema dei rapporti tra confisca penale e garanzie reali, rispetto al quale sono recentemente intervenuti il d. lgs. n. 159 del 2011 e la legge n. 228 del 2012.

Le questioni sottoposte alle Sezioni Unite riguardavano, in particolare, le condizioni per l’eventuale opponibilità dell’ipoteca allo Stato, la competenza a risolvere il conflitto tra creditore ipotecario e Stato, nonché l’individuazione del soggetto su cui grava l’onere di provare l’eventuale buona o mala fede del terzo creditore ipotecario. Esse sono state risolte alla luce della legge n. 228 del 2012, la quale si applica ai beni confiscati all’esito di procedimenti di prevenzione per i quali non si applica la disciplina del d. lgs. n. 159 del 2011, in quanto antecedenti all’entrata in vigore di tale decreto.

Quanto alla prima questione, opera l’art. 1, comma 197, secondo il quale “gli oneri e pesi iscritti o trascritti anteriormente alla confisca sono estinti di diritto”. Con questa disposizione, il legislatore sembra avere risolto, nel senso della prevalenza della misura di prevenzione patrimoniale, il quesito relativo ai rapporti ipoteca-confisca. Non c’è dubbio che la norma faccia riferimento anche all'ipoteca, al sequestro conservativo ed al pignoramento, ricompresi tra i pesi e gli oneri dei quali è affermata l'estinzione. Dunque, in ogni caso, la confisca prevarrà sull'ipoteca: la salvaguardia del preminente interesse pubblico, infatti, giustifica il sacrificio inflitto al terzo di buona fede, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, ammesso ad una tutela di tipo risarcitorio.

Quanto alla seconda questione, opera il comma 199, che attribuisce la competenza al “giudice dell'esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca”. Secondo le Sezioni Unite, nonostante il non corretto riferimento al “giudice dell'esecuzione”, è intuitivo e deriva dalla stessa interpretazione giurisprudenziale che si intende indicare, quale giudice competente, il tribunale – misure di prevenzione. E ciò perché, in materia di misure di prevenzione, il giudice dell'esecuzione è lo stesso tribunale che ha disposto la confisca, cioè il tribunale - misure di prevenzione.

Rispetto alla terza questione, si afferma che le nuove norme non contengono previsioni espresse in termini di onere della prova. Deve allora ritenersi che l'elaborazione giurisprudenziale e la veste sostanziale di attore nel procedimento giurisdizionale assunta dal creditore convergano nell'addossare a quest'ultimo la prova positiva delle condizioni per l'ammissione al passivo del suo credito, fra le quali vi è la sua buona fede. Si suppone, del resto, che se il legislatore, nel disciplinare una materia, non innova le soluzioni che costituiscono l'approdo interpretativo della giurisprudenza, vuoi dire che le recepisce: cioè le fa normativamente proprie. CDC

 

 




Inserito in data 09/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 3 maggio 2013, n. 81

Rilevanza e modus operandi del principio di separazione tra politica e dirigenza

La Consulta si è pronunciata sulla compatibilità costituzionale dell’art. 48, comma 3, della legge regionale della Sardegna n. 9 del 2006, a mente del quale le procedure in materia di valutazione di impatto ambientale si concludono, sulla base dell’attività istruttoria svolta dai dirigenti regionali, con atto deliberativo assunto dalla Giunta regionale, su proposta dell’Assessore regionale della difesa dell’ambiente. Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione predetta violerebbe l’art. 97 Cost., sotto il profilo del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni di gestione amministrativa, nella misura in cui attribuisce ad un organo politico il potere di adottare un atto di gestione.

La Corte costituzionale reputa non fondata la questione di legittimità sollevata. Infatti, seppure si aderisca all’idea che il principio di separazione tra politica e amministrazione abbia rilevanza costituzionale in quanto espressione del principio costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., tuttavia si precisa che spetta al legislatore l’individuazione precisa degli atti riconducibili alle funzioni di indirizzo politico e di quelli da ricondursi alla competenza della dirigenza pubblica, col solo limite del rispetto del principio di ragionevolezza. In ordine alla disposizione censurata, si osserva che: “La scelta realizzata dal legislatore regionale determina una divisione di competenze tra la Giunta e i dirigenti regionali che non appare irragionevole, anche in considerazione della particolare complessità della VIA. In quest’ultimo atto, infatti, a verifiche di natura tecnica circa la compatibilità ambientale del progetto, che rientrano nell’attività di gestione in senso stretto e che vengono realizzate nell’ambito della fase istruttoria, possono affiancarsi e intrecciarsi complesse valutazioni che – nel bilanciare fra loro una pluralità di interessi pubblici quali la tutela dell’ambiente, il governo del territorio e lo sviluppo economico – assumono indubbiamente un particolare rilievo politico. In ragione di ciò, il riparto di competenze previsto dalla disposizione censurata, in un ambito caratterizzato da un intreccio di attività a carattere gestionale e di valutazioni di tipo politico, non viola l’art. 97 Cost.”. TM

 



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Inserito in data 09/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 2 maggio 2013, n. 19054

Se offensivo, l’uso indebito del telefono d’ufficio integra peculato d’uso

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla seguente questione di diritto: “se l'utilizzo per fini personali di utenza telefonica assegnata per ragioni di ufficio integri o meno l'appropriazione richiesta per la configurazione del delitto di peculato ex art. 314 c.p., comma 1, ovvero una condotta distrattiva o fraudolenta rispettivamente inquadrabile nel delitto di abuso di ufficio o in quello di truffa aggravata a danno dello Stato”.

Preliminarmente, la Corte individua i tratti salienti del delitto di peculato. 1) In prima battuta, si sottolinea che il peculato è delitto plurioffensivo, perché posto a protezione del buon andamento dell’attività amministrativa e del patrimonio della PA o di terzi: plurioffensività ricostruita dai più come alternativa, con la conseguente rilevanza penale delle condotte lesive di uno solo dei beni giuridici tutelati. 2) Secondariamente, si rammenta che la giurisprudenza pacifica ricostruisce la nozione del previo rapporto del pubblico agente con la res in senso più ampio del possesso civilistico, comprensiva oltre che alla detenzione materiale, anche della disponibilità giuridica della cosa. 3) Inoltre, la "cosa mobile" suscettibile di appropriazione ex art. 314 c.p. è intesa come ogni entità oggettiva materiale, fungibile o infungibile, idonea ad essere trasportata da un luogo all'altro; in forza dell’art. 624 c.p. poi, in tale nozione si annoverano anche l’energia elettrica e tutte le altre energie aventi valore economico, ossia suscettibili di appropriazione e scambio dietro compenso. 4) L’appropriazione identifica la condotta di chi fa propria la cosa altrui, mutandone il possesso, e si articola in due momenti: l’espropriazione, ossia l’indebita alterazione della destinazione del bene; l’impropriazione, ovvero la destinazione del bene a vantaggio di soggetto diverso dal titolare originario. Tale condotta costituisce peculato e non abuso d’ufficio quando le risorse distratte vengono indirizzate ad interessi privati, propri dell’agente o di terzi. 5) In ordine al peculato d’uso, la giurisprudenza lo ricostruisce come delitto autonomo rispetto al peculato ordinario, caratterizzato per poter avere ad oggetto solo cose infungibili. Tale reato si configura quando il soggetto si appropria della cosa con l’intenzione di restituirla immediatamente dopo l’uso e così in effetti fa.

Dopo aver motivatamente confutato le tesi che riconducono la fattispecie in esame al peculato ordinario (“le energie in questione non possono tecnicamente essere oggetto di appropriazione, in quanto non sono oggetto di previo possesso o disponibilità da parte dell'utente del telefono. E questo perchè non preesistono all'uso dell'apparecchio, ma sono prodotte proprio dalla sua attivazione”), alla truffa aggravata (attesa la mancanza dell’induzione in errore quale causa dell’ingiusto profitto con altrui danno) e all’abuso d’ufficio (stante la natura residuale della fattispecie in esame), le Sezioni Unite affermano l’astratta riconducibilità dell’uso indebito del telefono d’ufficio al peculato d’uso. Infatti, nell’uso indebito del telefono d’ufficio, ciò che viene in rilievo è un abuso del possesso, ossia una temporanea sottrazione del telefono alla sua destinazione pubblicistica con contestuale impiego a fini personali. Inoltre, data la struttura del peculato d’uso implicante l’immediata restituzione, le singole condotte abusive potranno rilevare ex art. 314, c.2, c.p., a meno che non siano poste in essere in un unitario contesto spazio-temporale, dando vita ad una condotta inscindibile.

Tuttavia, in base al principio di offensività, l’uso del telefono d’ufficio per fini personali non sarà penalmente rilevante laddove l’Amministrazione abbia concluso un contratto telefonico cd. “tutto incluso”: infatti, in quest’ipotesi, non si verificherebbe alcuna lesione né alla funzionalità dell’ufficio, né al patrimonio pubblico.

In conclusione, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: “La condotta del pubblico agente che, utilizzando illegittimamente per fini personali il telefono assegnatogli per ragioni di ufficio, produce un apprezzabile danno al patrimonio della pubblica amministrazione o di terzi o una concreta lesione alla funzionalità dell'ufficio, è sussumibile nel delitto di peculato d'uso di cui all'art. 314 c.p., comma 2". TM




Inserito in data 08/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 maggio 2013, n. 2396

Requisiti oggettivi, soggettivi e economici dei servizi pubblici locali

Con la decisione in esame, il Consiglio di Stato ricostruisce la nozione di servizio pubblico, al fine di qualificare il servizio di teleriscaldamento come servizio pubblico locale e, pertanto, affermare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulla controversia inerente l’approvazione dell’aumento annuale della tariffa del servizio di teleriscaldamento.

“Difettando, com’è noto, una espressa definizione del servizio pubblico locale …, la giurisprudenza ha univocamente riconosciuto la qualifica di servizio pubblico locale a quelle attività caratterizzate sul piano oggettivo dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all’ambito di intervento, e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per effetto di rapporti concessori o di partecipazione all’assetto organizzativo dell’ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico”.

e sociale della comunità locale di riferimento (C.d.S., sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369).

“La qualifica di servizio pubblico locale (in contrapposizione a quella si appalto di servizi) è stata pertanto riconosciuta a quelle attività destinate a rendere una utilità immediatamente percepibile ai singoli o all’utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante il pagamento di un’apposita tariffa…; non configurano un servizio pubblico locale le prestazioni strumentali attraverso cui l’amministrazione direttamente o indirettamente provvede ad erogare una determinata attività in favore della collettività (C.d.S., sez. V, 1° aprile 2011, n. 2012, 22 dicembre 2005, n. 7345; 16 dicembre 2004, n. 8090); è stato anche precisato che “la subordinazione al pagamento di un corrispettivo, rilevante nella prospettiva abbracciata dal codice dei contratti pubblici in sede di distinzione tra la figura dell’appalto e quella della concessione (art. 2, comma 12) dipende dalle caratteristiche tecniche del servizio e dalla volontà “politica” dell’ente, ma non incide sulla qualifica del servizio pubblico locale ai fini dell’applicazione della disciplina di cui al T.U.E.L.” e che “relativamente ai servizi pubblici locali, l’art. 117 T.U.E.L. n. 267/2000 precisa che la tariffa ne costituisce il corrispettivo ma non ne definisce il contenuto, determinato dalla possibilità concreta di dividere sui singoli l’onere della gestione ed erogazione della prestazione” (C.d.S., sez. V, 25 novembre 2010, n. 8231).”.

Alla luce di quanto detto, l’attività di teleriscaldamento costituisce certamente servizio pubblico locale: sotto il profilo oggettivo, “non può infatti ragionevolmente dubitarsi che la valorizzazione delle risorse locali, il risparmio energetico, la diminuzione dell’inquinamento dell’aria ed anche la cura e la manutenzione dei boschi costituiscono tutti altrettanti indiscutibili strumenti ed elementi (del tutto peculiari per le comunità locali ed il territorio in cui si svolge l’attività della società appellante) per la realizzazione di fini sociali e per la promozione dello sviluppo economico e civile della comunità stesse”; sotto il profilo soggettivo, si evidenzia che l’attività di teleriscaldamento è resa da una società cui partecipavano quali soci due Comuni; sotto il profilo economico, infine, si precisa che i cittadini fruiscono del servizio di teleriscaldamento uti singuli, corrispondendo una tariffa direttamente alla predetta società. TM

 

 



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Inserito in data 08/05/2013
CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza 3 maggio 2013, n. 79

Limitata potestà legislativa in materia sanitaria delle Regioni (commissariate)

Con la decisione in epigrafe, il Giudice delle Leggi dichiara l’incostituzionalità divari articoli della legge della Regione Campania n. 19/12, per violazione degli artt. 120, c.2, e 117 Cost.

Occorre premettere in fatto che la Regione Campania aveva disatteso l’Accordo sul Piano di rientro dai disavanzi sanitari 2007-2009 e che pertanto il Governo aveva esercitato i poteri sostitutivi previsti dall’art. 4, comma 2, del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159, procedendo alla nomina del Presidente della Regione quale Commissario ad acta per la realizzazione del Piano di rientro. Con le disposizioni sotto esame poi si era previsto che la gestione di ogni registro tumori sia affidata ad unità operative appositamente create e sono stati nuovi incarichi professionali: il tutto in contrasto col Piano di rientro che riservava al Commissario il potere di riassetto della rete ospedaliera, di sospendere iniziative regionali per la creazione di nuove strutture sanitarie, di contenere la spesa pubblica e di bloccare totalmente le assunzioni.

La Corte costituzionale ritiene che le norme impugnate interferiscano con le funzioni e le attività del commissario ad acta e debbano, perciò, essere dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione dell’art. 120, 2 c., Cost. La Corte conferma così il proprio precedente orientamento, secondo cui «l’operato del Commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del Piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica. È, dunque, proprio tale dato – in uno con la constatazione che l’esercizio del potere sostitutivo è, nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.), qual è quello alla salute – a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni amministrative del Commissario […] devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali» (sentenze n. 28 del 2013 e n. 78 del 2011). Segnatamente, «la semplice interferenza da parte del legislatore regionale con le funzioni del Commissario ad acta, come definite nel mandato commissariale, determina di per sé la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.» (sentenza n. 28 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 2 del 2010).

Ad avviso della Corte, le disposizione della legge regionale impugnata, prevedendo l’istituzione di nuovi uffici e dotandoli di aggiuntive risorse strumentali, umane e finanziarie, si pongono in contrasto con l’obiettivo del rientro nell’equilibrio economico-finanziario e, di conseguenza, con l’art. 117 c.3 Cost. Infatti, si è ripetutamente affermato che «l’autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell’ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa» (sentenze Corte cost. n. 91 del 2012 e n. 193 del 2007). TM



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Inserito in data 07/05/2013
TAR SICILIA - PALERMO, SEZ. II, 29 aprile 2013, n. 993

Aggiudicazione gara di appalto in favore di un R.T.I. Estremi di legittimità

I Giudici siciliani, accogliendo le doglianze di una ditta esclusa, precisano i requisiti necessari ai fini della partecipazione ed eventuale aggiudicazione di una gara in favore di un raggruppamento temporaneo di imprese.

In primo luogo, il Collegio respinge l’eccezione di inammissibilità del ricorso in ragione di un contraddittorio presuntivamente non integro, a causa della mancata evocazione in giudizio dell’azienda mandante.

Infatti, allineandosi a giurisprudenza ormai costante, i Giudici ricordano come la notificazione del ricorso alla sola impresa capogruppo e mandataria di una costituenda ATI sia sufficiente ai fini dell'adempimento delle formalità previste dall'art. 41 c.p.a., data la natura riconosciuta all'impresa mandataria, quale punto di riferimento unitario del costituendo raggruppamento.

Superata la questione di rito, il Tribunale palermitano prosegue ricordando che il dato letterale di cui all’articolo 37 – 6’ comma D. Lgs. 163/06 richiede l’effettiva e piena partecipazione di tutte le aziende partecipanti al raggruppamento; altrimenti, come nel caso di specie, verrebbe a mancare una dichiarazione di volontà essenziale per l'assunzione del vincolo contrattuale, “con conseguente compromissione della serietà ed affidabilità dell'offerta stessa”.

Sulla medesima scia si pone, ad avviso dei Giudici, l’altra disposizione – quella di cui al 13’ comma dell’articolo 37 suddetto, la cui incisione costituisce un ulteriore motivo di ricorso.

La necessaria corrispondenza tra la quota di partecipazione all’associazione temporanea e la misura in cui ciascuna delle ditte - articolazione di questa - esegue la prestazione dedotta in contratto, è valutata, altresì, quale requisito di legittimità, del quale occorre la specificazione all’atto di partecipazione alla gara.

Tanto non è ricorso nel caso in esame in cui, invece, la mancata corrispondenza tra i parametri appena descritti è, giustamente, evidenziata dai Giudici in accoglimento del gravame, giacchè incide, inevitabilmente, su quella esigenza di trasparenza propria della materia in esame. CC

 

 



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Inserito in data 07/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 6 maggio 2013, n. 10

Natura decreto reso su ricorso straordinario e giudice competente su ottemperanza

I Sommi Giudici amministrativi consacrano la natura giurisdizionale del decreto emesso a seguito di Ricorso straordinario al Capo dello Stato, confermando ulteriormente il prevalente indirizzo giurisprudenziale che, in linea con le recenti modifiche normative in tal senso, aveva già ravvisato una progressiva giurisdizionalizzazione del rimedio in esame.

In particolare, analizzando attentamente tali singole disposizioni ed allontanando l’ipotesi di una natura provvedimentale – spesso paventata, il massimo Collegio qualifica il Decreto presidenziale come una estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato.

A sostegno di tale approdo, i Giudici sottolineano l’indicazione ricavabile dall’art. 7 – 8’ co. del D. Lgs. 104/10 che delimita l’ammissibilità dell’odierno rimedio alle sole ipotesi in cui vi sia giurisdizione amministrativa. Essa diventa, quindi, presupposto generale di ammissibilità del ricorso straordinario.

In tal guisa si sancisce l’attrazione di tale mezzo nel sistema della giurisdizione amministrativa, di cui costituisce forma speciale e semplificata di esplicazione, e con riguardo alla quale si conferma, ulteriormente, l’alternatività, stante il medesimo campo su cui entrambi i rimedi – quello giurisdizionale e quello al Capo dello Stato – potrebbero estrinsecarsi.

Si ricava ulteriore conferma di tale impostazione, solo pensando all’ammissibilità, estesa anche a tale rimedio, del ricorso alla Corte di Cassazione – per i soli motivi inerenti alla giurisdizione – ex artt. 111, comma 8, Cost., 362, comma 1, c.p.c. e 110 c.p.a. – come già illustrato dalle Sezioni unite con la pronuncia del 19 dicembre 2012, n. 23464, che i Giudici di Palazzo Spada non esitano a richiamare.

Allo stesso modo, peraltro, l’assunto degli Ermellini riguardo a tale rimedio era visto come compatibile anche con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali sancito dall’articolo 102 – 2’ co. della Costituzione. Infatti, specie a seguito delle epurazioni realizzate dal Legislatore ordinario, la decisione del ricorso straordinario, nella parte in cui assume come unico sostrato motivazionale il parere del Consiglio di Stato, rientra a pieno titolo nella garanzia costituzionale dell'articolo 103 – 1’ co. Costituzione, che fa salvi, come giudici speciali, il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa.

Una volta esaurito il percorso motivazionale delle Sezioni Unite dello scorso dicembre, che il Massimo Collegio mostra di condividere – anche in ragione di un’effettività della tutela richiesta in attuazione di canoni costituzionali ed europei – ex art. 1 C.p.A. – si passa a valutare l’altro quesito, quello relativo all’individuazione del Giudice competente a pronunciarsi sul ricorso per ottemperanza.

Tale aspetto, conferendo ulteriore conferma alla natura giurisdizionale appena descritta, data la necessità di dare esecuzione satisfattoria al Decreto qui discusso, sorgeva dalla necessità di chiarire in quale novero esso dovesse catalogarsi, tra i vari provvedimenti elencati dall’art. 112 C.p.A.

Si era delineata, infatti, una netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri provvedimenti del giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e b), per i quali è prevista la competenza del giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il provvedimento, e quella che interessa le sentenze passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario o di altri giudici, nonché i lodi arbitrali divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed e)), per i quali è competente il tribunale amministrativo regionale secondo il criterio di collegamento previsto dall'art. 113, comma 2.

Sulla falsariga delle valutazioni fin qui condotte, il Consesso giunge a collocare il Decreto, trattandosi di una decisione di giustizia, nel novero dei provvedimenti del giudice amministrativo di cui alla lettera b) dell'art. 112, comma 2.

Ne consegue che il ricorso per l'ottemperanza deve essere proposto, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta".

Una simile posizione è avallata dal dato testuale di cui all’articolo 113 – 1’ co. C.p.A. che, fondando il criterio regolatore della competenza sulla base del Giudice che ha emesso la pronuncia cui dare esecuzione, finisce con l’insistere sulla posizione di indipendenza e terzietà propria del Consiglio di Stato in sede di decisione su ricorso straordinario, rinnovando, così, la natura giurisdizionale finora trattata ed ormai pienamente  riconosciuta.

D’altra parte, è fin troppo noto che il rimedio dell’ottemperanza sia finalizzato, expressis verbis all’attuazione di statuizioni costituenti esercizio di giurisdizione, pubblica o privata, mentre esulano dal raggio della sua azione iniziative finalizzate all’attuazione di determinazioni amministrative.

E’ fin troppo chiaro come, sulla base di tali valutazioni, il Massimo Organo di giustizia amministrativa abbia cristallizzato un approdo di innegabile rilievo giuridico, concretizzando le esigenze perseguite dal Legislatore.

Questi, infatti, era teso ad inserire un rito speciale e semplificato finalizzato a consentire, nell’accordo tra le parti, una sollecita definizione della controversia, in armonia a quella effettività di tutela delle posizioni giuridiche soggettive, oggi sempre più richiesta. CC

 

 



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Inserito in data 06/05/2013
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. I, 3 maggio 2013, n. 685

Aeroporti: furti, revoca aggiudicazione servizio sicurezza per culpa in eligendo

I Giudici pugliesi intervengono, in primo luogo, respingendo l’eccezione circa il proprio difetto di giurisdizione.

Riprendendo, infatti, giurisprudenza cristallizzata in una nota pronuncia delle Sezioni Unite del 2001 e ribadita in arresti più recenti del medesimo Collegio, il Tribunale barese chiarisce che il rapporto di sub concessione radica la giurisdizione del giudice amministrativo quando, alla stregua della vicenda in esame, è connotato dalla partecipazione attiva dell’Amministrazione che lo ha previsto ed autorizzato.

Pertanto, anche in linea con il dettato normativo di cui all’art. 133 – 1’ co. lett. c) C.p.A. che attribuisce alla giurisdizione amministrativa “le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi”, il Giudice territoriale conferma la propria giurisdizione, afferendo la questione concreta – ovvero la sicurezza dei voli e dei passeggeri – ad un aspetto della concessione aeroportuale che, indubbiamente, è esercizio di un pubblico servizio.

Il Collegio prosegue, poi, nel condividere la revoca, disposta in autotutela dall’Amministrazione appaltante, dell’aggiudicazione del servizio di sicurezza dei passeggeri, a causa di gravi inadempimenti commessi dalla ditta sub concessionaria, che finirebbero con il configurare l’ipotesi di esclusione di cui all’art. 38 – lett. f) del D. Lgs. 163/06.

E’, infatti, giurisprudenza pacifica – acutamente richiamata dal Collegio in questa sede – che il venir meno dell’elemento fiduciario, alla base del rapporto di concessione o sub – concessione, giustifichi il venir meno dell’aggiudicazione di una gara.

Peraltro, la natura discrezionale della valutazione compiuta, al riguardo, dalla stazione appaltante, esula ogni sindacato se non per eccesso di potere; ed è, in una simile vicenda, avallata dalla natura degli inadempimenti addebitati al soggetto sub concessionario che, colpevole di gravi mancanze nella gestione del servizio di sicurezza bagagli e passeggeri, ha indubbiamente causato, con la propria condotta, il venir meno di quella “affidabilità professionale” che è essenziale in un rapporto simile a quello quivi scrutinato.

In considerazione di ciò, è evidente l’avvenuta compromissione del rapporto di fiducia e, pertanto, la fondatezza della valutazione unilaterale della stazione appaltante, al punto da rendere legittima la decadenza dell’aggiudicatario del servizio per culpa in eligendo". Esso, infatti, in forza di una responsabilità oggettiva ex artt. 1228 e 2049 cod. civ., risponde per una presunzione assoluta di colpa che, in quanto tale, giustifica la risoluzione del contratto – epilogo di un’aggiudicazione a buon diritto revocata. CC

 

 



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Inserito in data 06/05/2013
TAR LOMBARDIA - MILANO, SEZ. I, ORDINANZA 26 aprile 2013, n. 483

Ordinanza Sindaco regolante orari attività commerciali: legittimità

Con la pronuncia in esame si ritorna sulla legittimità di provvedimenti del Sindaco, regolanti gli orari di apertura ed organizzazione delle attività commerciali, specie alla luce dell’ulteriore intervento legislativo, teso alla liberalizzazione delle stesse, di cui all’art. 31 del D.L. 201/2011, convertito nella legge 214/2011 (c.d. decreto “Salva Italia”).

Più nel dettaglio i Giudici milanesi, accogliendo l’istanza di sospensiva dell’ordinanza sindacale - promossa dai commercianti ricorrenti, sottolineano come un simile provvedimento possa trovare seguito solo nelle ipotesi di accertato pericolo per l’incolumità pubblica, per ragioni di salute o sicurezza.

Tanto non è ricorso nel caso in esame in cui l’impugnato divieto di lavoro notturno parrebbe non trovare fondamento.

Infatti, ferma restando la libertà dell’Amministrazione di intervenire – in sede inibitoria – per comprovate ragioni di interesse pubblico, nel caso concreto nessuna esigenza di tutela dell’ordine e/o della sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica, parrebbe ricorrere.

E’ conseguente, quindi, il venir meno dell’esecutività di una simile ordinanza, alla stregua di quanto richiesto, in via cautelare, dagli istanti. CC



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Inserito in data 03/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 maggio 2013, n. 2380

Svolgimento di mansioni superiori nel comparto sanitario e diritto alla retribuzione

Al personale del comparto della sanità spetta, in deroga al generale principio dell’irrilevanza ai fini giuridici ed economici dello svolgimento delle mansioni superiori nel settore del pubblico impiego, la retribuzione delle stesse, in presenza della triplice e contestuale condizione inerente: all’esistenza in organico di un posto vacante cui ricondurre le mansioni di più elevato livello; alla previa adozione di un atto deliberativo di assegnazione delle mansioni superiori da parte dell’organo a ciò competente, potendosene prescindere solo nel caso di sostituzione nell’esercizio delle funzioni primariali; all’espletamento delle suddette mansioni per un periodo eccedente i sessanta giorni nell’anno solare.

Sulle somme spettanti all’interessato devono essere calcolati gli interessi e la rivalutazione monetaria. Il divieto di cumulo fra rivalutazione monetaria e interessi, sancito per i crediti di lavoro dall’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994 n. 724, trova applicazione soltanto per gli inadempimenti successivi all’entrata in vigore di tale norma (e quindi dal 1 gennaio 1995), con la conseguenza che sui crediti retributivi maturati sino al 31 dicembre 1994 deve essere corrisposto, insieme con gli interessi legali, anche il danno da svalutazione, mentre per i crediti maturati dopo il 31 dicembre 1994 competono solo gli interessi legali, mentre la rivalutazione spetta solo nella parte in cui quest’ultima ecceda eventualmente l’importo degli interessi.

Come è stato precisato dall’Adunanza Plenaria n. 18 del 5 giugno 2012, inoltre, il calcolo di rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme dovute ai pubblici dipendenti deve essere effettuato sull’ammontare netto del credito del pubblico impiegato e non sulle somme lorde poste a base del prelievo fiscale e previdenziale. CDC

 

 



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Inserito in data 03/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 aprile 2013, n. 2363

Abusi edilizi: non c’è obbligo di motivazione dei provvedimenti sanzionatori

In caso di intervento edilizio abusivo e concessione in sanatoria, la legge provinciale invocata nel giudizio prevede l’irrogazione della sanzione pecuniaria. Tale normativa non prevede l’obbligo della motivazione dei provvedimenti sanzionatori, sempre vincolati anche ai sensi della normativa statale, neppure in ordine alla ragione della specifica determinazione della sanzione.

In questo campo, non rileva, inoltre, la tematica dell’affidamento dei privati, in quanto “il complesso di norme introdotte ai fini della sanatoria degli abusi edilizi assumono a riferimento le opere in base al loro dato oggettivo (tipologia, consistenza, momento di esecuzione, disciplina della zona interessata dall’abuso) indipendentemente dall’elemento soggettivo (consapevolezza o meno della condotta “contra legem”) che abbia accompagnato la realizzazione delle opere stesse” (Cons. Stato, 9 luglio 2012, n. 4013; 2 febbraio 2009, n. 537). Rispetto all’esercizio del potere sanzionatorio, sono infatti irrilevanti le alienazioni del manufatto (in tutto o in parte abusivo) sotto il profilo privatistico. CDC

 

 



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Inserito in data 03/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, SENTENZA 19 aprile 2013, n. 9618

Valutazione equitativa del danno morale: possibili rilievi in sede di legittimità

Secondo la sentenza, la quantificazione del danno morale derivante da reato (da intendersi come 'voce' integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale) non può che avvenire in via equitativa da parte del giudice, sulla base di regole di esperienza, trattandosi di danno privo delle caratteristiche della patrimonialità.

La valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria. CDC

 

 




Inserito in data 02/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 aprile 2013, n. 2348

Diritto vivente sullo svolgimento di mansioni superiori da parte di dipendenti pubblici

Nella sentenza in esame si ricostruisce il diritto vivente in ordine alle conseguenze dello svolgimento di mansione superiori da parte di dipendenti pubblici.

“Secondo il consolidato orientamento di questo Consiglio di Stato…, in difetto di eccezionali ed espresse previsioni normative che consentano l'utilizzo del dipendente in posizione diversa da quella formalmente rivestita ed attribuiscano a questa destinazione effetti modificativi del suo status, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, vige il principio generale di irrilevanza, sia agli effetti dell'inquadramento che della retribuzione, delle mansioni superiori (alla qualifica di appartenenza) svolte dal dipendente”. In altre parole, “la retribuzione corrispondente all'esercizio delle mansioni superiori può aver luogo non in virtù del mero richiamo all'art. 36 Cost., ma solo ove una norma speciale consenta tale assegnazione e la maggiorazione retributiva (Ad. plen. n. 22 del 1999, cit.)”.

“Detto indirizzo si collega:

a) al carattere rigido delle dotazioni di organico degli enti pubblici e dei relativi flussi di spesa;

b) all'assenza di un potere del soggetto preposto al vertice dell'ufficio di gestire in via autonoma la posizione di "status" dei dipendenti ed il relativo trattamento economico;

c) alla garanzia della parità di trattamento di tutti i soggetti che operino nella struttura organizzativa dell'ente ed aspirino ad accedere all'esercizio di mansioni di qualifica superiore, ove ne sussistano i presupposti, in condizioni di parità, trasparenza e non discriminazione”.

Il riconoscimento della rilevanza, sotto il profilo retributivo, dello svolgimento di mansioni superiori da parte di pubblici dipendenti è avvenuto con la riforma del 1998 (art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998, n.387): ad avviso della giurisprudenza amministrativa (Ad. plen. n. 11 del 2000 e da ultimo Ad. plen. n. 3 del 2006), tale norma ha carattere innovativo e, conseguentemente, produce effetti solo sulle situazioni verificatesi dopo la sua entrata in vigore, ossia dopo il 22 novembre 1998. TM



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Inserito in data 02/05/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 aprile 2013, n. 2352

Cumulo di interessi e rivalutazione monetaria su crediti da lavoro pubblico

La Sesta Sezione delinea i presupposti, le modalità esecutive e i confini temporali del cumulo di interessi e rivalutazione monetaria rispetto ai crediti da lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione.

Sotto il primo profilo, il Collegio osserva che “l'obbligo di corrispondere gli interessi e la rivalutazione monetaria consegue al fatto obiettivo del ritardato adempimento, senza che assumano rilievo la peculiarità della singola fattispecie e l’eventuale assenza di colpa della parte debitrice”.

Relativamente alle modalità esecutive del cumulo, si rammenta innanzitutto che gli interessi legali sono dovuti sull’importo nominale (non rivalutato) del credito, dalla data di maturazione fino all’avvenuto pagamento: ciò in quanto il credito da lavoro è comunque un credito di valuta, “sicché la rivalutazione monetaria …non può essere inclusa ab origine nel contenuto del diritto”. Secondariamente, si ricorda che anche la rivalutazione monetaria è dovuta dall’Amministrazione competente sull’importo nominale del credito, dalla data di maturazione fino all’avvenuto pagamento; come tutti i crediti, anch’essa produce interesse a partire dalla data della costituzione in mora, che di solito coincide con la proposizione della domanda.

Con riguardo ai confini temporali della disciplina legittimante il cumulo di interessi e rivalutazione di crediti da lavoro pubblico, si osserva che l’art. 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, che ha previsto il divieto di cumulo, è entrata in vigore il 1° gennaio 1995, applicandosi a tutti i crediti maturati a partire da quella data. Non esclude il cumulo, invece, la circostanza che crediti maturati prima dell’1.1.1995 siano stati pagati successivamente, in quanto “il tardivo pagamento non può considerarsi alla stregua di un nuovo fatto generatore di autonomi e distinti crediti retributivi accessori ma costituisce un adempimento solo parziale della precedente obbligazione, che non esclude la persistenza della mora, già in atto alla data del 31 dicembre 1994” (Cons. di Stato, Ad. Plen., 15 giugno 1998, n. 3). TM

 



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Inserito in data 02/05/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE PENALI, SENTENZA 23 aprile 2013, n. 18374

Limiti all’applicabilità dell’aggravante della transnazionalità al reato associativo

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla seguente questione di diritto: "se la circostanza aggravante ad effetto speciale della c.d. transnazionalità, prevista dalla L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4, sia compatibile con il reato di associazione per delinquere o sia applicabile ai soli reati fine".

Occorre premettere che l’art. 4, comma I, L. n. 146/06 recita come segue: “Per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato la pena è aumentata da un terzo alla metà”.

In ordine all’interpretazione della suddetta disposizione si è sviluppato un contrasto giurisprudenziale. 1) Per un primo orientamento, “la speciale aggravante è concettualmente ed ontologicamente incompatibile con l'ipotesi associativa, sul riflesso che la detta circostanza presuppone l'esistenza del gruppo criminale organizzato e può accedere, pertanto, ai soli reati costituenti la diretta manifestazione dell'attività del gruppo (c.d. reati-fine dell'associazione) ovvero di quelli ai quali il gruppo abbia prestato un contributo causale”. 2) L’orientamento prevalente, invece, sosteneva l’applicabilità dell’aggravante de qua anche al reato associativo.

Le Sezioni Unite confermano l’indirizzo maggioritario, statuendo che “Il generico riferimento normativo a qualsiasi reato, purché ad esso si accompagni la previsione sanzionatoria di cui si è detto, porta allora a ritenere che l'apporto causale di un gruppo siffatto possa spiegarsi nei confronti di qualsivoglia espressione delittuosa, e dunque anche di quella associativa”. Evidenziano, poi, che l’opinione minoritaria “risente in tutta evidenza di un equivoco di fondo, ossia del convincimento che l'associazione per delinquere si identifichi nel gruppo criminale organizzato ovvero si sovrapponga ad esso.... In tale logica, se il gruppo criminale organizzato, il cui apporto è presupposto dell'aggravante, non fosse altro che la contestata associazione per delinquere, non sarebbe ovviamente ipotizzabile l'esistenza di un gruppo criminale che contribuisca all'esistenza di se stesso; donde, la ritenuta riferibilità del contributo ai soli reati fine. Invece, la formulazione normativa dell'aggravante, nella parte in cui evoca il contributo causale, lascia chiaramente intendere che presupposto indefettibile della sua applicazione è la mancanza di immedesimazione, richiedendo - piuttosto - che associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato si pongano come entità o realtà organizzative affatto diverse. La locuzione "dare contributo" postula, infatti, "alterità" o diversità tra i soggetti interessati, ossia tra soggetto agente (il gruppo organizzato) e realtà plurisoggettiva (trattandosi, appunto, di aggregazione delinquenziale) beneficiaria dell'apporto causale… Ebbene, poiché quel contributo - ancorché realizzato in forma associativa - deve ontologicamente rappresentare una condotta materialmente scissa da quella che è necessaria per realizzare la fattispecie-base, se ne può dedurre che l'aggravante in questione non risulta compatibile con la figura della associazione per delinquere in tutti i casi in cui le due condotte associative coincidano sul piano strutturale e funzionale, dando luogo ad un'unica associazione transnazionale. Ove, invece, l'associazione per delinquere "basti a se stessa", nel senso che i relativi associati o parte di essi ed il programma criminoso posto a fulcro del sodalizio realizzino il fatto-reato a prescindere da qualsiasi tipo di contributo esterno, ben può immaginarsi che, a tale condotta, altra (e autonoma) se ne possa affiancare, al fine di estendere le potenzialità l'agere del sodalizio in campo internazionale; con la conseguenza che, ove un siffatto contributo sia fornito da persone che in modo organizzato sono chiamate a prestare tale collaborazione, non potrà negarsi che il reato-base assuma dei connotati di intrinseca maggiore pericolosità, tale da giustificare l'applicazione della aggravante in questione. Il tutto, ovviamente, a prescindere dalla circostanza che il contributo offerto dal "gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato" renda, poi, quello stesso gruppo partecipe o concorrente nel reato associativo "comune", posto che è proprio quel contributo a rappresentare il quid pluris che giustifica la ratio aggravatrice, che non può certo ritenersi assorbita dalle regole ordinarie sul concorso nei reati”.

“In conclusione, con riferimento alla questione sottoposta alle Sezioni Unite, deve essere affermato il principio di diritto secondo il quale "la speciale aggravante della L. 16 marzo 2006, n. 146, art. 4, è applicabile al reato associativo, semprechè il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l'associazione stessa". TM




Inserito in data 30/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ordinanza 23 aprile 2013, n. 1465

Appalti: prive di valore circolari contra legem. Semplificazione amministrativa

La Terza Sezione, investita della riforma di un’ordinanza cautelare in tema di appalti pubblici, precisa alcuni aspetti di indubbio spessore.

In primo luogo, il Collegio ricorda la natura dell’aggiudicazione definitiva che, quale atto conclusivo della procedura di gara, postula, quale condizione di efficacia, il precedente controllo dei requisiti richiesti dal bando.

Pertanto non avrebbe senso, come richiesto da parte appellante, contestare in via autonoma la sussistenza di taluni presupposti, poiché presuntivamente assorbiti dall’atto di aggiudicazione che, altrimenti, “verrebbe ad assumere diversa valenza provvedimentale (e lesività), il che urta contro la logica complessiva del sistema normativo in esame” (cfr., sul punto, Cons. St., sez. V, 14.2.2012, n. 1516).

Ed ancora, rinnegando il fumus boni iuris – proprio dell’appello cautelare - ravvisato in presunte irregolarità fiscali che sarebbero scaturite dal mancato rispetto di circolari emesse da Enti coinvolti nella vicenda de qua, i Giudici di Palazzo Spada negano che debba essere emesso un DURC per ogni singola procedura di selezione.

Non si tratta, invero, di un requisito richiesto da alcuna norma primaria e, in quanto tale, non necessita quell’osservanza che il ricorrente, invece, chiede.

Il Collegio, richiamando l’attenzione sulla necessaria semplificazione amministrativa che verrebbe incisa da una documentazione costantemente rinnovata, sottolinea come non si debbano applicare circolari eventualmente contrastanti con la legge, come nel caso concreto.

Tali fonti, infatti, in spregio al principio di legalità, parrebbero invadere lo spazio riservato al Legislatore e, come tali, possono non essere rispettate. CC

 

 



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Inserito in data 30/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 24 aprile 2013, n. 78

Sistema universitario ed esclusione personale amministrativo: illegittimità

I Giudici costituzionali accolgono la censura proveniente da un TAR, in merito ad una controversia sorta tra soggetti appartenenti ai ruoli del personale amministrativo di un’Università ed il Preside della stessa.

Il motivo della doglianza riguarda proprio la norma oggetto di impugnazione dinanzi al Giudice amministrativo e contemplante, in pratica, l’impossibilità di conferire incarichi destinati all’insegnamento, anche  a titolo gratuito, a soggetti estranei al ruolo dei docenti universitari.

La Corte Costituzionale, condividendo la posizione del Giudice rimettente, ritiene che la norma contestata abbia una natura iniquamente ed ingiustificatamente discriminatrice, giacchè finisce con il procurare un trattamento inspiegabilmente differenziato tra dipendenti parimenti pubblici.

Infatti, pur riconoscendo la sostanziale diversità tra personale docente e non docente all’interno dell’apparato universitario, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di tali norme, ritenute foriere di trattamenti differenziati privi di una solida e razionale giustificazione e, come tali, in aperto contrasto con il principio di ragionevolezza e di eguaglianza – ex articolo 3 della Costituzione. CC



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Inserito in data 29/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 24 aprile 2013, n. 76

Valorizzazione autonomia istituzioni scolastiche: norme regionali illegittime

I Giudici della Consulta sanciscono l’illegittimità costituzionale di talune disposizioni regionali, tese a consentire alle istituzioni scolastiche, nell’ambito delle norme generali sull’istruzione o di specifici accordi con lo Stato, di organizzare concorsi differenziati a seconda del ciclo di studi, in vista del reclutamento di personale docente con incarico annuale.

In sostanza, a parere del Rimettente, simili previsioni sarebbero in contrasto con l’articolo 117, secondo comma, lettere g), m) ed n), e terzo comma, della Costituzione, ove tali parametri della Carta Fondamentale tendono a mantenere l’ambito dell’istruzione tra i livelli essenziali delle prestazioni – cc.dd. LEP.

Il reclutamento del personale docente, infatti, rientra nell’assetto organizzativo della scuola che, quale struttura portante di una Nazione, spetta allo Stato regolamentare ed organizzare, come il suddetto referente costituzionale, effettivamente, statuisce.

La Corte Costituzionale non può non condividere un simile assunto, sulla base della necessità che l’intero “apparato” delle Istituzioni scolastiche goda di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale.

Sottolinea, peraltro, un secondo aspetto non meno importante, sempre in sintonia con il giudizio a quo.

In particolare, i Giudici notano che le modalità di reclutamento del personale, previste con legge regionale – quali quelle oggetto di tale censura, oltre ad essere assolutamente eccentriche rispetto al sistema complessivo, arrecano un serio vulnus alla Costituzione nella misura in cui parrebbero regolare una materia, quella della organizzazione amministrativa dello Stato – di competenza legislativa esclusiva ex articolo 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione.

Appare inevitabile, pertanto, la declaratoria di illegittimità costituzionale voluta dalla Consulta, posto che la valorizzazione dell’autonomia scolastica non può spingersi fino al punto di consentire a singoli istituti scolastici di disporre e decidere in merito al proprio personale docente con concorsi locali, tutti inevitabilmente diversi secondo criteri territoriali. CC



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Inserito in data 27/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2013, n. 2279

Distinzione occupazione acquisitiva-usurpativa rileva solo per dies a quo dell'illecito

La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo per il trasferimento della proprietà. Di conseguenza, negandosi tale trasferimento per effetto della irreversibile trasformazione del bene, appare palese la natura permanente dell'illecito dell'Amministrazione, finché dura l'illegittima occupazione del bene senza che vi sia un titolo idoneo a determinare il trasferimento della proprietà in capo all'Amministrazione medesima. Pertanto, non può ritenersi sussistente alcuna prescrizione del diritto al risarcimento.

Quanto al risarcimento del danno, la distinzione tra occupazione appropriativa ed usurpativa ha perso di significato sia con riferimento alla giurisdizione (residuano al giudice ordinario le sole ipotesi in cui ab origine manchi del tutto una dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) che alla decorrenza del termine di prescrizione, trattandosi nei due casi di un illecito permanente. L'unico elemento di differenziazione ancora esistente riguarda l'individuazione del dies a quo di commissione dell'illecito: in caso di occupazione usurpativa, esso va fatto decorrere dal momento dell'immissione in possesso da parte dell'Amministrazione, mentre, in caso di occupazione appropriativa, dalla scadenza del termine di occupazione legittima del terreno. Ciò rileva al fine di individuare il momento in cui misurare il valore venale ai fini della quantificazione del risarcimento del danno, ex art. 42-bis, dpr 327/2001. CDC



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Inserito in data 27/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2013, n. 2282

Precisazioni su varie questioni in tema di appalti pubblici:

1) La pre-qualificazione, eventualmente prevista dal bando, ha natura di “autonoma fase sub procedimentale funzionalmente diretta ad una prima selezione dei soggetti da invitare, con la conseguenza che l’individuazione in capo alle imprese partecipanti dei requisiti sostanziali richiesti dalla lettera di invito non può essere anticipata alla preliminare fase della preselezione, ma deve essere riferita al momento della vera e propria individuazione del contraente, ossia al momento dell’aggiudicazione dell’appalto”. Pertanto, l’esame delle richieste delle ditte di essere invitate alla gara non deve essere effettuata dalla commissione di gara, sia perché non vi è da compiere alcuna attività di valutazione delle offerte (che in realtà neppure esistono in quella fase), sia perché la commissione stessa non è stata ancora nominata. Legittimamente, invece, l’esame delle richieste delle ditte di essere invitate alla gara può essere operato dagli uffici (e dai funzionari) dell’amministrazione appaltante.

2) In presenza del generale obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante è da presumere che lo stesso sia stato assolto con l’adozione delle ordinarie garanzie di conservazione degli atti amministrativi, tali da assicurare la genuinità ed integrità dei relativi plichi. Pertanto, la generica doglianza, secondo cui le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite, è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto, quali anomalie nell’andamento della gara ovvero specifiche circostanze atte a far ritenere che si possa esser verificata la sottrazione o la sostituzione dei medesimi plichi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante al fine della regolarità della procedura.

3) Non sussiste un principio assoluto di unicità ed immodificabilità delle commissione giudicatrici (la cui applicazione finirebbe col negare in radice gli stessi principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, paralizzando l’attività dell’amministrazione). Detto principio recede ogni qualvolta si verifichi un'obiettiva situazione di indisponibilità di uno dei componenti della commissione.

4) Le garanzie di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa postulano che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che la valutazione delle offerte tecniche ed economiche debba avvenire in una sola seduta, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa. Tuttavia, tale principio è soltanto tendenziale ed è suscettibile di deroga, potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta. In questo caso deve essere minimo l’intervallo tra una seduta e occorre predisporre adeguate garanzie di conservazione dei plichi.

5) Non può dubitarsi dell’esistenza di un generale principio regolatore delle gare pubbliche che vieta la commistione fra i criteri soggettivi di qualificazione e quelli oggettivi di valutazione delle offerte (la cui ratio deve essere rintracciata nell’esigenza di assicurare la più ampia possibilità di partecipazione delle imprese alle gare attraverso la rigida separazione tra requisiti di partecipazione e requisiti dell’offerta e dell’aggiudicazione). Tuttavia, tale principio non può ritenersi eluso o violato allorché gli aspetti organizzativi non sono destinati ad essere apprezzati in quanto tali, in modo avulso dall’offerta, come dato relativo alla mera affidabilità soggettiva, ma piuttosto quale garanzia della prestazione del servizio secondo le modalità prospettate nell’offerta, come elemento cioè incidente sulle modalità esecutive dello specifico servizio e quindi come parametro afferente alle caratteristiche oggettive dell’offerta. CDC



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Inserito in data 27/04/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 17 aprile 2013, n. 9231

Esclusa la liquidazione del danno esistenziale come frazione del danno biologico

In caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascun danneggiato è titolare di un autonomo diritto al risarcimento di tutto il danno, tanto morale (sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo), quanto dinamico-relazionale o esistenziale (peggioramento delle condizioni e abitudini di vita quotidiana). Quindi, nel caso della perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto al risarcimento del danno, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto. A tal fine, si ha riguardo all'età della vittima primaria e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto, che deve esser allegata e provata, ancorché presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza.

Conseguentemente, poiché la liquidazione, necessariamente equitativa, deve esser circostanziata, se per ragioni di uniformità nazionale il giudice di merito adotti le tabelle del Tribunale di Milano, egli deve esplicitare se e come ha considerato tutte le concrete circostanze per risarcire integralmente il danno non patrimoniale subito da ciascuno. Va quindi esclusa “ogni liquidazione di tale pregiudizio in misura pari ad una frazione dell'importo liquidabile a titolo di danno biologico del defunto, perché tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito sia pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto di tutte le circostanze suindicate”; è erronea anche una liquidazione uguale per tutti gli aventi diritto o globale con successiva ripartizione interna tra costoro. CDC




Inserito in data 26/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 aprile 2013, n. 2321

Diritto di accesso dello straniero alla propria scheda dattiloscopica

Con la pronuncia in esame e con altre emesse il medesimo giorno, i Giudici di Palazzo Spada condannano la Questura di Brindisi ad esibire agli stranieri richiedenti la propria scheda dattiloscopica (ossia rappresentativa delle impronte digitali della mano), accogliendo le domande di accesso da loro presentate e tese all’uso di tali documenti in procedimenti giudiziari.

Infatti, i “rilievi dattiloscopici, avendo un’esclusiva funzione identificativa, non potevano essere ricondotti alla categoria di cui all'art. 3 del D.M. 10 maggio 1994, n. 415, … che elenca una serie di categorie di documenti sottratti all'accesso per motivi di ordine e sicurezza pubblica, ovvero a fini di prevenzione e repressione della criminalità. Tra tali atti non è espressamente contemplata la scheda dattiloscopica, né potrebbe farsi rientrare per via interpretativa in alcuna delle altre categorie espressamente elencate (es. "relazioni di servizio", "informazioni fornite da fonti confidenziali"; documenti concernenti il "funzionamento dei servizi di polizia"; atti concernenti "la sicurezza delle infrastrutture") che riguardano tutte notizie rilevanti al fine di garantire la sicurezza pubblica, la prevenzione e la repressione della criminalità. I rilievi dattiloscopici (cioè le impronte digitali) eseguiti nei confronti dell'interessato sono diretti, invece, ad accertare le esatte generalità dell'extracomunitario in quanto il suo ingresso e la sua permanenza in Italia sono subordinati ai rilievi dattiloscopici raccolti nel sistema automatizzato in uso alle forze di polizia al solo fine di identificare, pur in presenza di diverse generalità, il soggetto al quale esattamente riferire precedenti penali ovvero elementi ritenuti ostativi al rilascio od al rinnovo del permesso di soggiorno. Tali rilievi riguardano, dunque, direttamente la persona dell'interessato, la cui conoscenza è insuscettibile di arrecare nocumento agli interessi generali in materia di ordine pubblico e sicurezza e, pertanto, non possono costituire una documentazione al medesimo inaccessibile”. TM



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Inserito in data 26/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 aprile 2013, n. 2304

Disciplina transitoria sulla giurisdizione in materia di rapporti di pubblico impiego

L'articolo 69, comma 7, del D. Lgs. n. 165 del 2001 attribuisce al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all'articolo 63 dello stesso decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998, precisando che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data rimangono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.

Ad avviso della giurisprudenza unanime, ripresa dalla decisione in commento, tale disposizione non introduce un limite alla persistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, ma fissa un termine di decadenza del diritto di azione e di proponibilità della domanda giudiziale: per cui, spirato tale termine, la domanda è inammissibile e non può più essere proposta, né dinanzi al giudice amministrativo, né davanti al giudice ordinario; l’inammissibilità de qua è rilevabile d’ufficio, in quanto attiene allo stesso potere del giudice di esercitare validamente la propria funzione. TM

 

 



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Inserito in data 26/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA, 23 aprile 2013, N. 74

Sul potere delle Camere di vietare l’uso delle intercettazioni ex art. 68 della Costituzione

Con la sentenza in epigrafe, la Corte costituzionale si è pronunciata sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dall’autorità giudiziaria penale relativamente ad una deliberazione con cui la Camera dei deputati aveva negato l’autorizzazione all’uso di intercettazioni telefoniche casualmente captate e coinvolgenti l’allora deputato N.C., ex art. 6, comma 2, l. n. 140/03, e art. 68 Cost. L’esame di queste ultime norme conduce alla soluzione del caso.

Incominciando dalla disposizione costituzionale, si ritiene che essa assicuri esclusivamente che il potere giurisdizionale sia esercitato nei confronti dei Parlamentari in modo corretto e non persecutorio, ma non protegga invece i beni individuali dei componenti delle Camere, come la riservatezza, l’onore e la libertà personale.

Occorre considerare, poi, che l’art. 6, comma 2, l. n. 140/03, attribuisce alle Camere il potere di valutare che il potere giurisdizionale sia stato esercitato correttamente nei confronti dei loro membri, in base al criterio della necessità processuale; segnatamente, in forza di tale criterio, “la Camera alla quale appartiene il parlamentare le cui conversazioni siano state captate deve accertare che il giudice abbia indicato gli elementi su cui la richiesta si fonda – ovvero, «da un lato, le specifiche emergenze probatorie fino a quel momento disponibili e, dall’altro, la loro attitudine a fare sorgere la “necessità” di quanto si chiede di autorizzare» – e che la asserita necessità dell’atto sia «motivata in termini di non implausibilità»”. Inoltre, poiché la norma in esame deroga al principio di parità di trattamento dinanzi all’autorità giurisdizionale, è opinione comune che essa vada interpretata restrittivamente: ne consegue l’impossibilità per la Camera di appartenenza del parlamentare le cui conversazioni siano state intercettate di decidere su una richiesta di autorizzazione avanzata ai sensi dell’art. 6 summenzionato “alla stregua di criteri discrezionalmente scelti caso per caso o comunque diversi da quello indicato dallo stesso Parlamento in sede legislativa, nei limiti di cui all’art. 68 Cost.”.

Nel caso di specie, la Camera aveva negato l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni, sulla base di criteri differenti da quello della necessità processuale: ad esempio, adducendo che sarebbe stato contraddittorio autorizzare l’uso delle intercettazioni atteso che per fatti connessi era stato negato l’arresto del parlamentare; affermando che le intercettazioni erano di scarsa rilevanza probatoria in quanto relative a conversazioni risalenti nel tempo; sostenendo che il contenuto delle intercettazioni non era decisivo, in quanto non aggiungeva nulla al quadro probatorio sulla base del quale era stata rigetta la richiesta di arresto; concludendo nel senso della fragilità dell’impianto accusatorio.

Alla luce delle precedenti premesse di principio e di fatto, il Giudice delle Leggi ritiene che la deliberazione della Camera dei deputati esaminata trascenda i limiti del sindacato previsto dall’art. 68, terzo comma, Cost., invadendo la sfera di attribuzioni che l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 riserva in via esclusiva al giudice penale, e vada pertanto annullata. TM



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Inserito in data 24/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 15 aprile 2013, n. 2031

Contrasto esegetico sull’ art. 38, 1’ co. lett. g) Cod. App: rimessione alla Plenaria

La Quinta Sezione si unisce alle doglianze già palesate, qualche mese addietro, dalla Sesta Sezione: condivide, quindi, la rimessione della questione controversa all’esame dell’Adunanza Plenaria – ex art. 99 C.p.A., aggiungendovi qualche censura propria.

In particolare, il contrasto esegetico investe il tenore dell’articolo 38 – 1’ comma lett. g) del Codice Appalti – D. Lgs. 163/06, circa la sussistenza del requisito della regolarità fiscale di ciascun partecipante ad una gara pubblica.

Il quesito sorge, infatti, dalla doglianza di un’azienda a carico della quale era stata disposta la revoca dell’aggiudicazione di una gara, per presunte anomalie fiscali e quindi, carenza del requisito della necessaria regolarità in sede contributiva, previsto – appunto - dal summenzionato articolo 38.

Invero, l’azienda appellante contestava di aver già presentato nei riguardi dell’Amministrazione finanziaria, alla data della revoca, istanza di rateizzazione del proprio debito – piuttosto esoso e, pertanto, di poter ritenersi beneficiaria di una situazione di “regolarità retributiva” ex articolo 38.

Il dubbio investe, quindi, l’idoneità o meno, della mera presentazione dell’istanza di rateazione di un debito tributario, ad escludere la situazione di irregolarità fiscale del contribuente.

Infatti, fermo restando il principio per il quale ciascun aspirante “ad un bene della vita” - offerto dall’Amministrazione – debba possederne i necessari requisiti alla data di scadenza del termine per la presentazione delle istanze di partecipazione, ciò di cui si dubita è se l’ammissione alla rateazione rilevi – ex articolo 38 - solo ove il relativo procedimento di istanza si sia concluso - accogliendo l’istanza del contribuente - prima del termine per la presentazione della domanda di partecipazione, nella specie, alla gara di appalto. O se possa ritenersi bastevole, piuttosto, la mera presentazione dell’istanza.

A tale interrogativo, già palesato qualche settimana addietro, il Collegio della Quinta Sezione ne aggiunge un secondo, ponendo il dubbio se l’ammissione alla rateazione sia, tra l’altro, atto dovuto o, piuttosto, conferisca all’Amministrazione la discrezionalità di valutare "l'obiettiva difficoltà economica", determinante per l'eventuale concessione di un simile beneficio riguardo a somme già iscritte a ruolo – come accaduto nel caso in esame. CC



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Inserito in data 24/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 aprile 2013, n. 2234

Diniego diritto accesso alle fatture: trattasi di documenti da redigere e non già esistenti

I Giudici del gravame riformano la sentenza di prime cure, ricordando l’orientamento costante in tema di diritto di accesso e di limiti dello stesso.

In particolare, sottolineando l’incertezza che, invero, aveva già connotato la pronuncia impugnata, il Collegio rammenta come l’accesso non dovrebbe risolversi in un’attività di facere da parte dell’Amministrazione, al fine di consentirlo.

I documenti ostensibili, infatti, devono essere già formati ed esistenti e, pertanto, non richiedere un’attività preparatoria da parte dell’Amministrazione che, al solo fine di evadere la richiesta, finisca con l’elaborare dati in suo possesso, come nel caso in esame relativamente alle fatture originariamente richieste da parte appellata. CC



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Inserito in data 24/04/2013
TAR VENETO, SEZ. III, 16 aprile 2013, n. 583

Diniego emersione. Valutazione riguardo alle sopravvenienze incidenti sulla pericolosità

La pronuncia è significativa in quanto respinge l’appello di un immigrato, la cui istanza di regolarizzazione del lavoro subordinato era stata rigettata anche a seguito di un primo diniego.

Come si vede, infatti, è preminente l’interesse alla cura della sicurezza della collettività, al punto che il sindacato sulla legittimità dell’atto di diniego - quivi impugnato - si cristallizza con riferimento al momento ed alle circostanze di adozione della pena che ne costituisce il fondamento.

I Giudici veneti evidenziano, in sostanza, come le eventuali sopravvenienze riguardo al grado di pericolosità sociale del ricorrente non possano in alcun modo incidere sulla decisione di diniego, resa e in tale sede contestata.

Infatti, a fronte di un giudizio tanto grave, quale quello successivo al reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – quì attribuito all’appellante - le sopravvenienze sono comunque soggette al discrezionale apprezzamento dell’Autorità e, in nessun caso, possono far automaticamente recedere l’interesse pubblico sotteso e tutelato dalla previsione legislativa rispetto a quello individuale volto alla concessione del titolo di soggiorno.

Si comprende, pertanto, la ragione dell’ennesimo diniego a carico del ricorrente, data la necessità di postergare il giudizio sulla sua pericolosità sociale – che è circostanza introdotta solo successivamente ai fatti di causa – rispetto al prioritario interesse pubblico, che l’Autorità competente, in tal guisa, riesce  invece a salvaguardare. CC



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Inserito in data 23/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, sentenza 22 aprile 2013, n. 8

Art. 12 DL. 52/12 conv. in L. 94/12: norma transitoria rispetto al principio di diritto AP.13/11

I Massimi Giudici amministrativi risolvono la diatriba in merito alla portata della norma di cui all’articolo 12 del Decreto legge 7 maggio 2012, n. 52 - convertito in Legge n. 94 del 6 luglio 2012 che, imponendo l’apertura delle offerte tecniche in seduta pubblica, recepisce un principio interpretativo, affermato dalla medesima Adunanza Plenaria con sentenza n. 13 del 28 luglio 2011.

Oggetto del contrasto giurisprudenziale, infatti, era la ratio di una simile disposizione, nonché le conseguenze dalla stessa derivanti – sulla base del tipo di valutazione cui si fosse approdati, in merito.

L’Adunanza plenaria condivide le conclusioni già definite dallo stesso Consiglio, secondo cui il sopra citato articolo 12 non ha portata ricognitiva del principio affermato con la pronuncia n. 13 del 2011, e quindi efficacia retroattiva; ha, semmai, la specifica funzione transitoria di salvaguardare gli effetti delle procedure concluse o pendenti alla data del 9 maggio 2012, nelle quali si sia proceduto all’apertura dei plichi in seduta riservata, recando in sostanza, per questo aspetto, una sanatoria di tali procedure (Cfr. CdS - Sez. V, 18 febbraio 2013, n. 978).

In tal guisa, ritiene il Supremo Consesso, diventa possibile contemperare un principio – di chiara derivazione comunitaria e fatto proprio dall’Adunanza del 2011 – quale quello della pubblicità della gara, con uno proprio dell’esperienza giuridica interna – quale quello dell’affidamento incolpevole da parte dell’azienda aggiudicataria che avesse confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali che, nella specie, prevedevano l’apertura dei plichi in seduta riservata.

Con tale disposizione, quindi, si regola il regime intertemporale prima e dopo il 9 maggio 2012 – data della relativa entrata in vigore, salvaguardando tutti gli interessi, di inevitabile spessore economico, afferenti alle gare antecedenti alla data suddetta.

Il Collegio evita, in tal modo, di travolgere le numerosissime procedure in corso, con i conseguenti oneri amministrativi e di conflittualità che ne sarebbero potenzialmente scaturiti, come nella specie e, in tal fatta, riesce a tracciare i confini tra esperienza comunitaria e domestica proprio in un ambito di estremo rilievo e di costante incidenza. CC

 

 

 



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Inserito in data 22/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, sentenza 19 aprile 2013, n. 7

Diritto al risarcimento danno alla salute da usura psicofisica, presunzioni e poteri G.A.

Con tale pronuncia il Massimo Consesso amministrativo interviene su più punti, chiarendo, contestualmente, l’esatta natura del diritto al risarcimento del danno alla salute procurato da attività lavorativa svolta in giornate dedicate al riposo, oltrechè le relative conseguenze in sede di prescrizione della pretesa risarcitoria.

Affronta, infine, la questione in merito alle allegazioni in ambito probatorio e le capacità proprie del Giudice amministrativo, al riguardo.

Si tratta, come è evidente, di un arresto dalla portata decisiva, nella misura in cui inquadra quale inadempienza contrattuale del datore di lavoro la condotta oggetto della censura, ovvero la mancata concessione, a favore dei propri dipendenti, della possibilità di fruire del riposo settimanale e compensativo, in un arco temporale reiterato e consistente.

Ritengono i sommi Giudici che la tutela richiesta (dai lavoratori appellati) non riguarda prestazioni periodiche o aventi causa debendi continuativa, ma l’accertamento di un debito connesso e tuttavia di distinta natura, per il quale vale la regola della prescrizione nel termine ordinario (decennale) e non la disciplina della prescrizione (quinquennale) stabilita dall’art. 2948 c.c..

Pertanto, chiarito tale punto e conseguentemente inquadrata la pretesa risarcitoria degli odierni appellati come un diritto perfetto ed irrinunciabile, poiché afferente alla sfera esistenziale del singolo oltrechè costituzionalmente siglato – ex articolo 36 - il Collegio prosegue nell’accertamento circa il supporto probatorio che ne sta a fondamento e la correlata capacità del Giudice amministrativo di pronunciarsi in merito.

Trattandosi, infatti, di una pretesa patrimoniale afferente ad un danno - conseguenza, occorre che il dipendente ne fornisca la prova, anche mediante un’allegazione semplice relativa al fatto – base, dalla quale poter desumere, poi, il pregiudizio/corollario sulla base di comuni regole dettate dall’esperienza.

Ed è quanto accaduto nella vicenda in esame, in cui gli odierni appellati hanno semplicemente prodotto in giudizio la continuità del proprio orario di lavoro e, quindi, il mancato godimento del riposo settimanale compensativo.

Il Supremo Consesso, partendo da tali allegazioni e prendendo in prestito principi tratti dalla giurisprudenza civilistica, ricorda, dunque, come la necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato – ex articolo 112 c.p.c. – non venga violata dalla possibilità di desumere talune valutazioni oggettivamente connesse con il petitum o la causa petendi della questione portata in giudizio.

Tanto ricorre nel caso in oggetto, in cui è verosimile che la perdita definitiva del riposo settimanale – lamentata in ricorso - si traduca nella mancata ricostituzione delle energie psicofisiche del lavoratore, specie se reiterata nell’arco di un periodo complessivo notevole, come è nella specie.

Si configura, infatti, un dato grave, preciso e concordante che conduce incontestabilmente verso l’accertamento di un’usura psicofisica del dipendente, sulla cui gravità e consistenza anche il Giudice amministrativo può pronunciarsi.

Questi, infatti, è tenuto, al pari dell'Organo giurisdizionale civile, ad avvalersi – ex articolo 115 – 2’ co. c.p.c. - di tecniche di apprezzamento dei fatti di carattere generale, derivanti dall'osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici.

In guisa di ciò, nel caso specifico, il Massimo Collegio non può non riconoscere la pretesa risarcitoria dei dipendenti appellati, fondando la propria regola di giudizio su argomentazioni di tipo presuntivo incontestabilmente a loro favore.

Pertanto, sulla base delle considerazioni appena lette, l’Adunanza Plenaria approda ai seguenti principi di diritto:

I) Nell’ipotesi in cui il dipendente pubblico chieda in giudizio il risarcimento per danno da usura psicofisica, deducendo che tale danno sia stato provocato dal frequente mancato godimento del riposo settimanale, reiterato nell’arco di un notevole periodo complessivo di tempo, senza che egli abbia fruito di riposo compensativo ed ancorché abbia percepito le previste maggiorazioni retributive per lo svolgimento di attività lavorativa in giorno festivo, deve ritenersi soddisfatto dal ricorrente l’onere di allegazione concernente sia l’oggetto della domanda che le circostanze costituenti il fatto-base su cui essa si fonda, sicché il giudice possa far ricorso alle presunzioni, basate sulle regole di esperienza, per ritenere provato il fatto-conseguenza del pregiudizio subìto dall’istante.

II) L’attribuzione patrimoniale rivendicata da un dipendente pubblico per danno da usura psicofisica, derivante dalla perdita del riposo settimanale, ha natura risarcitoria e non retributiva, non consistendo in una voce ordinaria o straordinaria della retribuzione da corrispondersi periodicamente e destinata a compensare l’eccedenza della prestazione lavorativa, bensì essendo diretta ad indennizzare ai sensi dell’art. 2059 cod. civ. il lavoratore per il predetto danno correlato all’inadempimento contrattuale del datore di lavoro; pertanto, essa si prescrive nell’ordinario termine decennale di cui all’art. 2946 cod. civ., e non nel termine breve (quinquennale) di cui ai successivi artt. 2947, previsto per il risarcimento del danno aquiliano, e 2948, n. 4, previsto per i crediti. CC

 

 



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Inserito in data 21/04/2013
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. IV, 16 aprile 2013, n. 1104

Cure mediche all'estero, diniego diritto al rimborso spese e profili di giurisdizione

La pronuncia ripercorre indirizzi giurisprudenziali in parte ormai assestati, oltreché a lungo dibattuti, proprio per il tenore degli argomenti coinvolti.

In particolare, il Collegio etneo affronta la censura avverso un diniego di autorizzazione per visite e cure mediche da espletare all’estero e, attribuendo la consistenza di un diritto soggettivo perfetto a quello azionato dal ricorrente, sancisce il proprio difetto di giurisdizione a favore dell’Autorità giurisdizionale ordinaria.

Nel farlo, però, i Giudici siciliani ripercorrono le varie possibilità in ambito di giurisdizione suggerite da pronunce anche estremamente recenti.

Si passa, infatti, dall’orientamento che individua il discrimine fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa sulla base della genericità o meno del contenuto della domanda volta all’Amministrazione (cfr.: T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 13 aprile 2005, n. 2696; Consiglio Stato, sez. V, 10 aprile 2000, n. 2077); ovvero, distinguendo tra interesse legittimo e diritto soggettivo sulla base dell’ampiezza, quindi della discrezionalità, lasciata all’Organo competente in sede di scelta in merito alla erogazione o meno del rimborso richiesto.

O, ancora, facendo riferimento ad altra corrente che si basa sul momento in cui la domanda è azionata: sicché nel caso in cui l'azione avesse contenuto impugnatorio, riguardando il diniego di autorizzazione da parte della Regione, si tratterebbe della tutela di un interesse legittimo, azionabile dinanzi al Giudice amministrativo. Laddove, invece, la domanda giudiziale riguardasse il diniego di rimborso patrimoniale delle spese sostenute per prestazioni sanitarie di cui il privato ha già fruito, ci si troverebbe di fronte ad un diritto soggettivo perfetto, tutelabile dinanzi al Giudice ordinario (cfr.: T.A.R. Lazio Roma, sez. III, 17 luglio 2004, n. 7009).

Compiuto tale excursus, il Collegio etneo si allinea, infine, su un indirizzo ormai pienamente cristallizzato, oltreché recepito dalle Sezioni Unite di qualche anno addietro (cfr.: Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 05-12-2011, n. 25925). Giunge, infatti, alla considerazione del diritto mosso dal ricorrente quale teso alla tutela della salute e, in quanto bene di rango costituzionale, in grado di prescindere da ogni forma di discrezionalità amministrativa, anche tecnica.

Ritiene, infatti, si tratti di una posizione creditoria correlata ad un diritto soggettivo primario e fondamentale, per sua natura non suscettibile di affievolimento e giudica, altresì, l’eventuale intervento della P.A., anche in sede di valutazione circa l’urgenza o meno lamentata dall’istante, come incapace di comprimere la pretesa azionata, e quindi non espressiva di alcuna forma di supremazia.

Ne discende, pertanto, la dovuta rimessione all’AGO, con il rispetto dei termini previsti dall’articolo 11, comma secondo, C.p.a. – volutamente richiamato dai Giudici siciliani. CC



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Inserito in data 21/04/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. II BIS, 16 aprile 2013, n. 3825

Respinta q.l.c. sulla nuova disciplina in tema di riordino servizio farmaceutico

Il Collegio laziale rileva l’infondatezza del motivo con il quale è sollevata questione di incostituzionalità della nuova disciplina del servizio farmaceutico, definita dal D.L. n. 1/2012 convertito nella L. n. 27/2012, nella parte in cui è consentito ai Comuni di mantenere la titolarità di farmacie e, al tempo stesso, è ad essi attribuita la potestà di istituirne altre da assegnare a privati (in concorrenza con i punti vendita comunali).

Ad avviso dei Giudici, infatti, è previsto un vero e proprio procedimento in cui gli Enti locali sono vincolati al rispetto di distanze minime tra i vari punti vendita, oltreché di determinati parametri di congruità – eventualmente segnalati dagli Ordini professionali dei Farmacisti competenti per territorio.

Nella disciplina oggetto d’esame non si ravvede, dunque, alcuna violazione dei principi di imparzialità e di tutela della concorrenza, presuntivamente disattesi dagli Enti comunali.

Essi, infatti, operano ope legis ed il raggio di azione su cui si estende la scelta, volta all’individuazione delle nuove sedi da destinare all’attività farmaceutica, è espressione della propria discrezionalità, come tale non surrogabile da un intervento giurisdizionale, se non in caso di manifesta illogicità. Tanto non è ricorso nel caso in esame, in cui la delibera comunale impugnata si è svolta in modo congruo, esulando il sindacato giurisdizionale; oltreché operando sulla falsariga di un dettato normativo che, invero, non pare intaccare precetti fondamentali. CC

 

 



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Inserito in data 19/04/2013
CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE PENALE, 9 aprile 2013, n. 16237

Ruolo delle linee guida nel giudizio di responsabilità penale in tema di colpa medica

La sentenza analizza le conseguenze derivanti dall’innovazione introdotta con l’art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189. Secondo tale disposizione, l’esercente una professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida ed a buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve.

Tale disciplina opera una valorizzazione delle linee guida e delle buone pratiche terapeutiche. Esse non danno luogo a norme propriamente cautelari, sia per la loro varietà ed il loro diverso grado di qualificazione, sia per la loro natura di strumenti di indirizzo ed orientamento, privi della prescrittività propria della regola cautelare. Comunque, esse evitano un grave rischio, proprio dei reati colposi, cioè il fatto che si invertano i rapporti fra individuazione della regola cautelare e riscontro della sua violazione. Infatti, solo attraverso la scienza e la tecnologia, che individuano le linee guida e le pratiche terapeutiche, il giudice, consumatore e non produttore di leggi scientifiche e di prescrizioni cautelari, può rinvenire la fonte precostituita alla stregua della quale articolare il giudizio di responsabilità. Dunque, il sapere scientifico e le strategie tecniche svolgono un importante ruolo nel garantire legalità, imparzialità e prevedibilità delle valutazioni giuridiche.

Tuttavia, occorre sempre vagliare l’attendibilità delle linee guida ed, in particolare, la rigorosità e l’oggettività delle ricerche, nonché il grado di consenso raccolto nella comunità scientifica. Poiché il giudice di merito non dispone delle conoscenze per svolgere tale indagine, diventa fondamentale il ruolo dei consulenti. Essi non sono gli arbitri che decidono il processo, ma gli esperti che devono esporre al giudice il quadro del sapere scientifico nell’ambito proprio del giudizio. Da ciò risulta rafforzata la funzione del giudice, peritus peritorum, chiamato ad esplicitare le informazioni scientifiche disponibili e a fornire razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile, dell’apprezzamento compiuto.

Dunque, per evitare l’affermazione della responsabilità penale, il medico potrà invocare le linee guida, purché siano solidamente fondate e come tali riconosciute. Proprio perché le linee guida, come si è detto, propongono solo direttive generali o istruzioni di massima, può però accadere che il medico, in alcuni casi, si trovi a doverle adattare alle contingenze del caso concreto o a dovervi addirittura derogare radicalmente. È in tali ipotesi che trova applicazione la nuova normativa, per cui il medico risponderà solo per colpa non lieve quando commetta qualche errore pertinente all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze e alle peculiarità del caso concreto oppure non scorga la necessità di disattenderle per perseguire una diversa strategia che governi i rischi connessi al quadro d’insieme.

In mancanza di disposizioni legislative che chiariscano il confine tra la colpa lieve e la colpa non lieve, la Cassazione delinea quali possano essere le ipotesi di colpa non lieve nelle quali deve affermarsi la responsabilità penale del medico, alla luce della nuova normativa. Si tratta, conformemente a quanto appena detto, del caso in cui “l’erronea conformazione dell’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente”; nonché del caso in cui “i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente”. CDC

 

 




Inserito in data 19/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 aprile 2013, n. 2184

Non si impugna il provvedimento del commissario ad acta: rimedio è opposizione di terzo

La pretesa dell’appellante ha ad oggetto l'annullamento di un provvedimento emanato da un commissario ad acta, nominato in esecuzione del giudicato con cui veniva statuito l’obbligo di un Comune a dar corso ad un permesso di costruire senza necessità di alcun atto pianificatorio attuativo.

Ai sensi degli art. 21 e 114, comma 4, lett. d) cpa, il commissario ad acta è un ausiliare del giudice e titolare di un potere che trova diretto fondamento nella pronuncia giurisdizionale da portare ad esecuzione. Ne deriva che egli è legittimato, anche al di fuori delle norme che governano l'azione ordinaria degli organi amministrativi sostituiti, ad adottare ogni misura conforme al giudicato che si appalesi, in concreto, idonea a garantire alla parte ricorrente il conseguimento effettivo del bene della vita di cui sia stato riconosciuto titolare nella sentenza da attuare.

Negata la valenza amministrativa dell’attività svolta dal commissario ad acta, in favore della sua natura di organo ausiliario del giudice esplicante attività giurisdizionale, va sottolineata la conseguente esclusione dell’impugnabilità in sede di giurisdizione generale di legittimità dei suoi provvedimenti.

Piuttosto, occorre evidenziare che l'appellante riveste la posizione di controinteressato in senso sostanziale, quale proprietario di area ricadente nella stessa maglia oggetto dell’impugnato titolo edilizio e quindi di titolare di interesse qualificato ed attuale al mantenimento dell’atto di diniego di permesso a costruire, originariamente impugnato ed annullato. Dunque, quale terzo controinteressato sostanziale rimasto estraneo nel giudizio amministrativo sull’annullamento del diniego di titolo edilizio, ha il potere di contestare quanto dedotto nel giudicato di annullamento, non gravando il provvedimento emesso dal commissario ad acta, ma esclusivamente valendosi del rimedio dell’opposizione di terzo ordinaria ex art 108 cpa. CDC



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Inserito in data 19/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 aprile 2013, n. 2192

Diritto al risarcimento dei costi sostenuti per partecipazione a gara annullata in autotutela

Nel caso affrontato, si esamina una richiesta di risarcimento del danno, formulata da una società costretta a partecipare ad una gara illegittimamente indetta, in evidente violazione di un precedente giudicato, per non rischiare di essere esclusa dalla selezione. La stessa società deduceva di aver rinunciato a partecipare ad altre gare e a stipulare ulteriori contratti, con spese inutili, in quanto l'amministrazione aveva poi annullato la suddetta gara e indetto una nuova gara, con conseguenti ulteriori costi di partecipazione, risorse imprenditoriali e tempo da impiegare.

Secondo la sentenza, è vero che, di regola, si nega il risarcimento dei costi sostenuti per la partecipazione alle gare, costi che restano a carico delle imprese, sia in caso di aggiudicazione, sia in caso di mancata aggiudicazione. Tuttavia, il caso in esame presenta evidenti peculiarità, atteso che la società riveste una posizione differenziata rafforzata rispetto alle altre partecipanti, essendo stata costretta, quanto meno per finalità prudenziali, a partecipare alla nuova gara e investire in tale attività di partecipazione, tempo e denaro, pur a fronte di un bando meramente reiterativo di altro già annullato.

Pertanto, la responsabilità precontrattuale risiede nel contegno violativo del giudicato della stazione appaltante che indiceva per mera negligenza una gara ab origine illegittima, tale da essere costretta poi ad esercitare lo ius poenitendi, non improntata quindi ai canoni di correttezza e buona fede nelle trattative, costringendo la società ad uno spreco di risorse per potere partecipare, del tutto vano ed inutile.

Conseguentemente, per tale voce deve essere riconosciuto il risarcimento del danno prendendo a base la misura delle spese di partecipazione indicata dalla stessa società che, a mezzo di un perito, ha documentato puntualmente l’impegno lavorativo complessivo. CDC

 

 



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Inserito in data 18/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2013, n. 2095

Sulla legittimazione ad impugnare i provvedimenti amministrativi lesivi dell’ambiente

Il Consiglio di Stato si sofferma sui soggetti legittimati ad impugnare i provvedimenti amministrativi lesivi dell’ambiente.

In primo luogo, sono legittimate le Associazioni individuate dal Ministro dell’Ambiente ex artt. 13 e 18 della l. n. 349/86 e artt. 309 e 310 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

In seconda battuta, “continuano ad applicarsi, a tutte le associazioni sprovviste della suddetta legittimazione legale i criteri, da tempo elaborati dalla giurisprudenza, fondati sull'effettivo e non occasionale impegno a favore della tutela di determinati interessi diffusi o superindividuali, sull'esistenza di una previsione statutaria che qualifichi detta protezione come un istituzionale compito dell'associazione e delle sue articolazioni territoriali nonché sulla vicinanza spaziale della fonte del paventato pregiudizio agli interessi giuridici protetti al centro principale dell'attività dell'associazione o della sua specifica struttura periferica”; a tali requisiti, la Quinta sezione ne aggiunge un altro, ossia “la rappresentatività della collettività locale di riferimento (requisito quest'ultimo, che non può prescindere dalla considerazione, quanto meno indiziaria, del numero delle persone fisiche costituenti l'associazione).”. “Quindi il G.A. può riconoscere, caso per caso, la legittimazione ad impugnare atti amministrativi incidenti sull'ambiente ad associazioni locali”. Dette associazioni ambientalistiche “possono impugnare qualunque atto amministrativo, ma la specialità della loro legittimazione a ricorrere, condizionata a monte dagli scopi da esse perseguiti, consente loro unicamente la deduzione di censure funzionali al soddisfacimento di interessi ambientali”. Pertanto, il Giudice amministrativo nega la legittimazione attiva dell’associazione ricorrente, i cui scopi statutari sembrano “volti più a tutelare gli specifici interessi dei componenti che quelli generali alla tutela dell’ambiente”, la cui attività “appare essere stata prevalentemente strumentale alla proposizione di precise e specifiche iniziative di contrasto alla cava per cui è controversia” e che è “costituita con solo 18 persone, il che denota quindi l'assenza del fondamentale requisito di una adeguata rappresentatività della collettività locale di riferimento”.

Con riguardo alla legittimazione dei privati a proporre azioni tese alla tutela dell’ambiente, si ricorda che “la “vicinitas” costituisce elemento in grado di conferire posizione differenziata a coloro che possono farla valere e costituisce, dunque, elemento qualificante della legittimazione ad agire di costoro (cfr., “ex multis”, Consiglio di Stato, sez. IV, 11 novembre 2011n. 5986), ma, secondo la più recente e consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, essa non è sufficiente, occorrendo anche la prova di uno specifico e concreto pregiudizio derivante dall’opera contrastata, anche in termini di semplice deprezzamento delle proprietà limitrofe, per effetto dell’atto impugnato, diversamente potendo dirsi dimostrata soltanto una astratta legittimazione “ad causam”, ma non anche quella lesione concreta e attuale che giustifica la sussistenza dell'interesse a ricorrere (cfr., “ex plurimis”, Cons. Stato, sez. IV, 15 novembre 2011, nr. 6016; 24 gennaio 2011, n. 485; 29 dicembre 2010, n. 9537; 30 novembre 2010, n. 8364; 6 novembre 2007, n. 6619)”. Coerentemente, nel caso di specie, si nega la legittimazione dei ricorrenti privati, i quali si erano limitati ad affermare e provare la loro “qualità di proprietari e/o residenti nel territorio del Comune di Loria”, senza però allegare e dimostrare la vicinatas alla cava di cui si tratta e l’esistenza dell’interesse ad agire. TM



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Inserito in data 18/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2013, n. 2107

Dies a quo del termine per impugnare i provvedimenti di concessione edilizia

In riforma della sentenza di primo grado, i Giudici di Palazzo Spada giudicano in parte tardivo e, quindi, irricevibile il ricorso introduttivo. All’uopo si rammentano i criteri attraverso cui la giurisprudenza individua il dies a quo per la proposizione dell’azione di annullamento avverso i provvedimenti di concessione edilizia.

“Secondo l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria n. 15/2011, il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata … Una simile prova va addossata a chi eccepisce la tardività del ricorso, e può essere desunta anche da elementi presuntivi … Inoltre, la stessa non appare necessaria quando si deducono censure di inedificabilità assoluta, potendosi presumere la stessa dall’avvenuta affissione del provvedimento nell’albo pretorio, dall’affissione dei cartelli e dal concreto inizio dei lavori”.

“Il necessario contemperamento, infatti, tra il principio di certezza dell’azione amministrativa e di effettività della tutela giurisdizionale deve essere rinvenuto sul crinale della manifestazione della lesione dell’interesse legittimo, che impone al suo titolare di attivarsi per chiederne tutela innanzi alla giurisdizione amministrativa al momento in cui la lesione della posizione giuridica diviene attuale e manifesta. Appare, infatti, evidente che la titolarità della posizione di interesse legittimo si origina nel momento in cui l’amministrazione intraprende l’esercizio del potere per il soddisfacimento dell’interesse pubblico, quindi con l’apertura del procedimento. Mentre, l’onere per il privato, il cui interesse sia stato leso dall’amministrazione, di attivarsi in sede giurisdizionale si manifesta quando la lesione al bene della vita diviene chiaramente percepibile o perché il provvedimento lesivo entra nella sfera giuridica del destinatario o perché gli effetti materiali dell’attività assentita dalla p.a. a favore del terzo beneficiario si palesano all’interno della sfera di conoscenza del futuro ricorrente. Il dies a quo per impugnare decorre, quindi, dalla piena conoscenza dell’effetto lesivo dell’atto amministrativo che va determinata in relazione alle ragioni che a giudizio del ricorrente concretizzano una lesione giuridicamente tutelabile del bene della vita sotteso all’interesse legittimo di cui è titolare”.

Tanto esposto, il Consiglio di Stato considera tardivi i motivi di ricorso basati sull’inedificabilità assoluta, atteso che il termine per far valere tali censura decorre fin dall’inizio dei lavori piuttosto che dal loro completamento. TM



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Inserito in data 17/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 16 aprile 2013, n. 70

Reviviscenza norme abrogate: la discrezionalità legislativa non leda l’articolo 97 della Costituzione

I Giudici della Consulta sanciscono l’illegittimità costituzionale di una norma regionale che, originariamente abrogata, viene poi fatta “rivivere” da un intervento ondivago del Legislatore locale.

Una simile tecnica di produzione normativa produce, ad avviso del Giudice delle Leggi, un’incertezza chiaramente non auspicabile, perchè foriera di un potenziale cattivo esercizio della funzione pubblica, con conseguente vulnus al principio del buon andamento dell’attività amministrativa – costituzionalmente siglato all’articolo 97.

Con tale, significativa pronuncia, i Giudici della Consulta ricordano, infatti, la necessaria chiarezza che dovrebbe esser propria dell’attività normativa sulla cui base si svolgono, poi, i procedimenti amministrativi.

Tanto non è accaduto nel caso in esame in cui, invece, una discrezionalità legislativa tanto mutevole ha procurato un’indubbia incertezza nell’attività dell’Ente locale, a detrimento delle posizioni giuridiche alla cui tutela il principio costituzionale del buon andamento amministrativo è, incontestabilmente, rivolto. CC



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Inserito in data 16/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 aprile 2013, n. 1883

Concorsi pubblici: sindacato di legittimità G.A. solo per vizio di eccesso di poter per illogicità manifesta

In base ad un consolidato orientamento sui giudizi afferenti prove di esame o di concorso, il sindacato di legittimità del giudice amministrativo è limitato al riscontro del vizio di eccesso di potere per illogicità, con riferimento ad ipotesi di erroneità o irragionevolezza riscontrabile ictu oculi dalla sola lettura degli atti.

Pertanto, solo in siffatte ipotesi è ammissibile il sindacato del giudice in subiecta materia, senza che si verifichi uno sconfinamento nel merito amministrativo e, quindi, una non ammessa sostituzione di una valutazione propria del giudice a quella rientrante nelle competenze proprie della Commissione di concorso. SL



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Inserito in data 16/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 marzo 2013, n. 1835

Accesso ai documenti: Aeroporto di Roma, quale concessionario pubblico, deve garantirlo anche in merito a documenti la cui ostensione sia riconducibile a disciplina privatistica

Come ha evidenziato da tempo la giurisprudenza amministrativa (v. le decisioni nn. 4, 5 e 16 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato), l’ambito di applicazione delle norme in materia di accesso involge non solo l’attività puramente autoritativa, ma tutta l’attività funzionale alla cura degli interessi pubblici, inclusi gli atti di diritto privato, posti in essere dalle pubbliche amministrazioni o da soggetti privati, gestori di pubblici servizi.

E’ noto che l’accesso ai documenti è stato introdotto "al fine di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e di favorirne lo svolgimento imparziale" (art. 22, comma 1, l.n. 241/1990) e dunque in attuazione del principio di rango costituzionale di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.). Il ‘diritto’ di accesso ai documenti amministrativi previsto dagli artt. 22 e 23 l. 7 agosto 1990, n. 241, la cui applicabilità riguarda non solo la pubblica amministrazione in senso stretto ma anche tutti i soggetti di diritto pubblico e di diritto privato, comprese le società commerciali (v., ad esempio, con riferimento alla società Poste Italiane s.p.a , Cons. Giust. Amm. Sic. 4 febbraio 2010, n. 108 e Cons. Stato, VI, 25 gennaio 2010, n. 252), limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario, è correlato non soltanto all’attività di diritto amministrativo, ma anche a quella di diritto privato posta in essere dai soggetti gestori di pubblici servizi che, pur non costituendo direttamente gestione del servizio stesso, sia collegata a quest’ultima da un nesso di strumentalità (cfr. Cons. Stato, VI, 2 maggio 2012, n. 2516, e 26 gennaio 2006, n. 229).

Soggetti legittimati passivi dell’istanza di accesso, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lett. e) della legge n. 241 del 1990 sono le pubbliche amministrazioni intese come "Tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario": l’art. 1, comma 1 ter, della stessa legge prevede che i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei principi generali dell’azione amministrativa, tra cui sono inclusi quelli della pubblicità e della trasparenza.

L’ambito dei soggetti tenuti sul piano sostanziale al rispetto dei sopra citati art. 22 e ss. è stato tenuto bel presente dal legislatore delegato, in sede di redazione del codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 2, stabilisce che "Per pubbliche amministrazioni ai fini del presente Codice, si intendono anche i soggetti ad esse equiparati o comunque tenuti al rispetto dei principi del procedimento amministrativo": i soggetti privati, gestori di un servizio pubblico (siano o meno essi concessionari in senso tecnico), per il fatto che sono a contatto col pubblico e con gli utenti, vanno qualificati come titolari di poteri pubblicistici nei casi previsti dalla legge, tra cui rientra quello dell’esame delle domande d’accesso, ai sensi degli artt. 22 ss. della legge n. 241 del 1990, che ha tenuto conto delle normative di settore che – sulla base dei princupi comunitari e costituzionali - consentono a soggetti privati di svolgere attività di natura imprenditoriale, caratterizzate dalla gestione di interessi pubblici e comunque superindividuali.

Correlativamente i documenti ostensibili – come già rilevato dalla richiamata giurisprudenza della Adunanza Plenaria - devono concernere attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblica o privata della loro disciplina sostanziale.

Soggetti legittimati all’accesso sono, ai sensi dell’art. 22 della legge citata, "i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso". Il collegamento, ossia il rapporto di strumentalità, tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza deve essere inteso in senso ampio (col solo limite del non trasmodare in uno strumento surrettizio di sindacato generalizzato sull’attività del soggetto cui è rivolta), ossia nel senso che la documentazione richiesta deve costituire un mezzo potenzialmente utile alla tutela (non necessariamente giudiziale) della situazione giuridicamente rilevante, non richiedendosi che essa sia idonea a costituire strumento di prova diretta della lesione dell’interesse tutelato (in tema cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 24 aprile 2012, n. 7 e, fra le tante, Cons. Stato, Sez. III 13 gennaio 2012, n. 116; Sez. IV 30 agosto 2011, n. 4883; Sez. V, 14 maggio 2010, n. 2966); l’interesse all’accesso ha, inoltre, consistenza autonoma e va considerato in astratto, escludendosi che in relazione ai casi specifici competa all’amministrazione compiere apprezzamenti in ordine alla fondatezza della pretesa sostanziale sottostante e così alla fondatezza o all’ammissibilità delle eventuali domande giudiziali ipoteticamente proponibili dal soggetto che ha chiesto l’accesso documentale (v., per tutte, la già richiamata sentenza della Sezione n. 2516 del 2012).

Impostati in tal modo i termini concettuali della questione, ne consegue l’infondatezza dell’odierno appello. La veste privatistica di Aeroporti Di Roma, così come l’addotta riconducibilità alla disciplina privatistica degli atti richiesti in ostensione, non sono di per sé sufficienti ad escludere l’obbligo di trasparenza e l’applicabilità della disciplina in tema di accesso. L’assunto dell’appellante della non afferenza di detta documentazione ad un tratto della sua azione di rilevanza pubblica non persuade, in quanto la sub concessione di aree all’interno dell’aeroporto – proprio perché costituisce un titolo legislativamente ammesso per attribuire la disponibilità e comunque l’utilizzo del sedime aeroportuale - è espressione di potere pubblicistico (mutuando la natura autoritativa della concessione che ne è il necessario antecedente), mentre non rilevano gli accenni alla non esclusività dell’utilizzo consentito ad Alitalia così come quelli al miglior perseguimento delle finalità della gestione aeroportuale, non venendo qui in discussione la legittimità degli atti di disposizione posti in essere da ADR e la scelta o i criteri di scelta di assegnazione di tali aree, ma unicamente la sussistenza dei presupposti per l’esercizio - da parte delle richiedenti operatrici del settore dell’handling - del diritto di conoscere il contenuto di tali atti, ossia le ‘condizioni’ giuridiche ed economiche dell’utilizzo delle aree aeroportuali sub concesse. SL



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Inserito in data 16/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ, V, 27 marzo 2013, n. 1829

Conoscenza dell'atto quale percezione dello stesso, interesse e termine per impugnare

Negli ultimi anni la giurisprudenza amministrativa ha mostrato maggiore sensibilità nella lettura della nozione di conoscenza dell’atto dalla quale decorre il termine per impugnare, sposando un approccio più attento alle ragioni del ricorrente, che deve poter essere in grado di apprezzare l’esercizio del potere dell’amministrazione e valutare anche le possibilità dell’esito favorevole del rimedio giurisdizionale.

Tutte le pronunce richiamate dall’appellante ribadiscono un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza di questo Consiglio: la conoscenza dell’atto non può essere separata dalla piena conoscenza della lesività dell’atto e dai possibili vizi che hanno inficiato l’agere dell’amministrazione (sul tema da ultimo la rimessione operata all’Adunanza Plenaria da Cons. St., sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 790).

Così, pronunce chiariscono che: "Il concetto di "piena conoscenza" — il verificarsi della quale determina il dies a quo per il computo del termine decadenziale per la proposizione del ricorso giurisdizionale — è integrato dalla percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l'attualità dell'interesse ad agire contro di esso, mentre la conoscenza "integrale" del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi" (Cons. St., 2974/2012). Nella fattispecie la piena lesività dell’atto era già conoscibile nel momento della lettura dello stesso, atteso che l’attività sostanzialmente vincolata dell’amministrazione di inquadramento secondo le tabelle contenute nella l. regionale 8/1979, sin da subito evidenziava la portata lesiva degli effetti ed i possibili vizi di legittimità che sulla stessa potevano gravare, che non a caso sono stati indicati dall’odierno appellante sin dall’atto introduttivo nel giudizio di prime cure. In questo senso non appare convincente sostenere che il difetto di motivazione, ossia la doglianza principale portata contro l’atto gravato, sia indicato quale ragione dell’assenza di quella piena conoscenza utile a far decorrere il termine decadenziale e vizio di legittimità che comporterebbe la caducazione dell’atto di inquadramento.

Lesività ed eventuale illegittimità dell’atto di inquadramento, infatti, si colgono all’unisono al momento del controllo circa l’inquadramento in concreto operato dall’amministrazione nel fare applicazione della disciplina contenuta nella citata legge regionale. SL



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Inserito in data 15/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 aprile 2013, n. 1996

ATI costituenda, fideiussione: garanzia anche per inadempimento propedeutico delle mandanti 

In presenza di una Ati costituenda «il soggetto garantito non è la Ati nel suo complesso (non essendo ancora costituita) e non è neppure la sola capogruppo designata».

Si è ritenuto che «garantite sono tutte le imprese associande, che durante la gara operano individualmente e responsabilmente nell’assolvimento degli impegni connessi alla partecipazione alla gara, ivi compreso, in caso di aggiudicazione, quello (per le future mandanti) di conferire il mandato collettivo alla impresa designata capogruppo, che stipulerà il contratto con l’amministrazione». Ne consegue che il fideiussore deve «garantire la stazione appaltante non solo per l’inadempimento del soggetto divenuto mandatario, e cioè in caso di mancata stipulazione per fatto ad esso imputabile, ma deve anche garantire l’eventuale inadempimento propedeutico delle offerenti - mandanti e cioè deve garantire l’amministrazione anche nel caso in cui, per fatto imputabile a tutti, o anche soltanto a taluno degli offerenti, il mandato non venga rilasciato e, di conseguenza, non emerga un mandatario comune e, quindi, il contratto non possa essere stipulato».

In definitiva, «le obbligazioni, ad attuazione congiunta, da garantire con la cauzione provvisoria, quanto alle ATI costituende sono dunque quella finale della capogruppo (la sottoscrizione del contratto) e quella propedeutica delle mandanti di conferire il mandato».

Alla luce di quanto esposto, «nel caso di ATI costituende, la garanzia deve essere intestata a tutte le associate, che sono individualmente responsabili delle dichiarazioni rese per la partecipazione alla gara», altrimenti «verrebbe a configurarsi una carenza di garanzia per la stazione appaltante, quante volte l’inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma dalle mandanti». Per assicurare, pertanto, «in modo pieno l’operatività della garanzia di fronte ai possibili inadempimenti (coperti dalla cauzione provvisoria), il fidejussore deve richiamare la natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese, identificandole singolarmente e contestualmente e deve dichiarare di garantire con la cauzione provvisoria non solo la mancata sottoscrizione del contratto, ma anche ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara» FT



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Inserito in data 15/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 aprile 2013, n. 2012

Permesso di soggiorno, condanne ostative: casi in cui il diniego diventa discrezionale

Non si possono sollevare seri dubbi riguardo al carattere tassativamente ostativo delle condanne penali riportate dall’interessato, per il combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del t.u. n. 286/1998, tenuto conto dei titoli di reato. Vengono in rilievo, piuttosto, quelle peculiari circostanze che nel sistema della normativa in materia introducono un temperamento, trasformando da vincolato in discrezionale il diniego del permesso di soggiorno pur quando, come nella specie, vi siano quei presupposti che, in linea generale, sarebbero tassativamente ostativi.

In questo caso, la circostanza rilevante a questi fini è la presenza di tre figli minori, nati in Italia e conviventi con il padre. La disposizione applicabile è l’art. 5, comma 5, del t.u., e più precisamente l’ultima parte del comma, introdotta nella legge dal decreto legislativo n. 5/2007, emesso a sua volta per l’attuazione della direttiva comunitaria sulla tutela dell’unità familiare dei migranti. E’ vero che la disposizione ora citata si riferisce, testualmente, gli stranieri che abbiano esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o siano essi stessi familiari ricongiunti; mentre nel caso in esame, a quanto pare, non vi è stata alcuna procedura di ricongiungimento. Ma la giurisprudenza di questa Sezione è consolidata nel senso che le agevolazioni a tutela dell’unità familiare, di cui al d.lgs. n. 5/2007, spettano anche ai nuclei familiari che abbiano la stessa composizione che, occorrendo, legittimerebbe una procedura di ricongiungimento, ma che non abbiano avuto bisogno di ricorrervi, in quanto riuniti ab origine; come nel caso in esame, in cui il nucleo familiare si è costituito per effetto delle nascite dei tre figli legittimi (ancorché i genitori non siano coniugati) tuttora minorenni e conviventi con i genitori. La norma sarebbe infatti palesemente irragionevole ed iniqua, se, a parità di ogni altra condizione, subordinasse, in via esclusiva, i benefici, all’esistenza di una pregressa procedura formale di ricongiungimento. FT



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Inserito in data 15/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 aprile 2013, n. 2019

Ripartizione sedi farmaceutiche sul territorio, sovrapposizioni: disciplina e conseguenze

Ad avviso del Collegio, le nuove disposizioni non cambiano realmente il quadro, per quanto qui interessa. E’ vero, infatti, che sono state soppresse le disposizioni che prevedevano la formazione e la revisione periodica delle piante organiche comunali, a cura di un’autorità sovracomunale (da ultimo, la Regione o la Provincia, a seconda delle norme regionali). Tuttavia rimane invariato l’impianto generale della disciplina, a partire dal “numero chiuso” delle farmacie, pur se i criteri per la determinazione di tale numero sono alquanto modificati. Peraltro, il “numero chiuso” implica logicamente che la distribuzione degli esercizi sul territorio sia pianificata autoritativamente. E in effetti, il nuovo testo dell’art. 2 della legge n. 475/1968, come modificato dal d.l. n. 1/2012, dispone: «Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate». Non si parla più di “sedi” ma di “zone”; ma questo mutamento non è rilevante, perché la giurisprudenza aveva già da tempo avvertito che quando la normativa previgente usava il termine “sede” si doveva intendere “zona”, perché questo era il significato che si desumeva dal contesto. Peraltro usa il termine “zona” anche l'art. 1, comma settimo (originariamente comma quarto) della legge n. 475/1968, del seguente tenore: «Ogni nuovo esercizio di farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona».

A sua volta il regolamento approvato con d.P.R. n. 1275/1971, art. 13, secondo comma, dispone: «Il locale indicato per il trasferimento della farmacia deve essere situato (...) in modo da soddisfare le esigenze degli abitanti della zona». E’ vero che la nuova formulazione dell’art. 2 sembra riferirsi esplicitamente solo all’assegnazione delle “zone” alle farmacie di nuova istituzione, tacendo delle altre; ma stanti il contesto e la finalità dichiarata dalla legge, è ovvio che anche le farmacie preesistenti conservano il rapporto con le “sedi”, ossia “zone”, originariamente loro assegnate; e questo appunto dispone esplicitamente l’art. 13 del regolamento, che del resto esprime una implicazione naturale del sistema. Ed è nella logica delle cose che questo potere-dovere di pianificazione territoriale non si eserciti una tantum ma possa (e se del caso debba) essere nuovamente esercitato per apportare gli opportuni aggiornamenti, e che ciò venga fatto nel quadro di una visione complessiva del territorio comunale. In conclusione, benché la legge non preveda più, espressamente, un atto tipico denominato “pianta organica”, resta affidata alla competenza del Comune la formazione di uno strumento pianificatorio che sostanzialmente, per finalità, contenuti, criteri ispiratori, ed effetti corrisponde alla vecchia pianta organica e che niente vieta di chiamare con lo stesso nome.

E’ vero che, in linea di principio, la pianta organica dovrebbe essere formulata in modo tale da non lasciare né spazi vuoti né sovrapposizioni. Ma se questa è la regola (si ripete, non enunciata dalla legge, ma invalsa nella prassi e confortata dalla giurisprudenza), è umanamente possibile che venga alla luce una pianta organica che contiene spazi vuoti e/o sovrapposizioni, e che (come nella specie) non vi siano margini interpretativi per superare l’impasse. Potranno soccorrere semmai gli strumenti dell’impugnazione (che in questo caso non vi è stata) o dell’intervento d’ufficio di autoannullamento o di modifica (in questo caso vi è stata una proposta di rettifica, ma non è approdata alla conclusione).

E’ dunque giocoforza concludere che nella pianta organica del Comune ... vi è una limitata area di sovrapposizione fra le sedi n. ... e n. ... corrispondente al tratto di corso ... a nord dell’intersezione con via ... fino al civico n. ... incluso; e che pertanto il ripetuto n. ... appartiene a pari titolo alla zona della sede n. ... e a quella della sede n. ... In quest’area di sovrapposizione si trovano i locali nei quali la Farmacia ... si è trasferita.

Ciò posto, ci si chiede quali conseguenze giuridiche derivino dal fatto che in concreto i locali de quibus sono di pertinenza di due diverse sedi farmaceutiche, a pari titolo. In particolare ci si chiede se: ciascuno dei due farmacisti possa esercitare la facoltà di prescegliere quella ubicazione per il proprio esercizio, o al contrario nessuno dei due possa esercitarla, escludendosi reciprocamente. Il Collegio ritiene preferibile la prima soluzione, in quanto la normativa afferma positivamente ed esplicitamente la libertà (sia pure non incondizionata) del farmacista di ubicarsi a sua discrezione all’interno del perimetro che gli è assegnato; non gli attribuisce, invece, altrettanto esplicitamente e positivamente un “diritto di esclusiva” (ius excludendi). L’esclusiva, semmai, sorge di riflesso, in quanto, essendo ciascun farmacista vincolato al proprio territorio, gli altri farmacisti sono legittimati ad impugnare il provvedimento che autorizzi un trasferimento in violazione tale vincolo. D’altra parte, la soluzione contraria è appropriata al caso inverso, e cioè quello della “zona bianca”: se una determinata porzione di territorio non è assegnata ad alcuna sede, nessuno è autorizzato ad insediarvisi. Infine, nei casi dubbi, deve prevalere la libertà dell’iniziativa economica.

Riassumendo, nel caso di sovrapposizione di sedi, ciascuno dei farmacisti interessati è libero (in linea di massima, e subordinatamente all’autorizzazione dell’autorità sanitaria) di trasferirsi nella porzione di territorio assegnata a più sedi; varrà, in tal caso, il criterio della prevenzione oltre alla regola generale della distanza minima fra un esercizio e l’altro. FT



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Inserito in data 13/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2013, n. 1912

Permesso di costruire, interventi in parte difformi: limiti sanzione pecuniaria sostitutiva

L’art. 34 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), prevede, al primo comma, che «gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso» entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio, con l’aggiunta che «decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del Comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso». Il secondo comma dispone che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, (…), della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale».

La norma, da ultimo riportata, deve essere interpretata – in conformità alla natura di illecito posto in essere e alla sua valenza derogatoria rispetto alla regola generale posta dal primo comma – nel senso che si applica la sanzione pecuniaria soltanto nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione. Deve, pertanto, risultare in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso (cfr., con riferimento a fattispecie analoghe, Cons. Stato, V, 29 novembre 2012, n. 6071; Cons. Stato, V, 5 settembre 2011, n. 4982). Non possono, pertanto, venire in rilievo aspetti relativi alla “eccessiva onerosità” dell’intervento. Se si potessero prendere in esame anche questi profili si rischierebbe di trasformare l’istituto in esame in una sorta di “condono mascherato” con incidenza negativa grave sul complessivo assetto del territorio e in contrasto con la chiara determinazione del legislatore, che ha imposto che abbia luogo la demolizione parziale, tranne il caso in cui la relativa attività materiale incida sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque anche nell’ipotesi in cui nella parte da demolire siano stati realizzati strumenti o impianti più o meno costosi. FT



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Inserito in data 13/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 aprile 2013, n. 1913

Superamento dei tetti di spesa e legittimità dei provvedimenti di regressione tariffaria

Nel vigente quadro normativo, spetta alle Regioni provvedere con atti autoritativi e vincolanti di programmazione, alla fissazione del tetto massimo annuale di spesa sostenibile con il fondo sanitario regionale e di distribuire le risorse disponibili per singola istituzione o per gruppi di istituzioni, nonché di provvedere alla determinazione dei preventivi annuali delle prestazioni, assicurando l'equilibrio complessivo del sistema sanitario dal punto di vista organizzativo e finanziario (fra le più recenti: Consiglio di Stato, Sez. III, 30 gennaio 2013, n. 598). Anche l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, chiamata ad affrontare la questione della legittimità degli atti di programmazione delle risorse, con la fissazione dei tetti di spesa, intervenuti in corso d’anno, ha affermato che «alle Regioni è … affidato il compito di adottare determinazioni di natura autoritativa e vincolante in tema di limiti alla spesa sanitaria, in coerenza con l'esigenza che l'attività dei vari soggetti operanti nel sistema sanitario si svolga nell'ambito di una pianificazione finanziaria» (decisioni n. 3 e n. 4 del 12 aprile 2012). Ed ha aggiunto che tale attività di pianificazione delle risorse, in quanto necessaria, può essere esercitata anche nel corso dell’anno di riferimento. Si è poi precisato che l’osservanza del tetto di spesa rappresenta un vincolo ineludibile che costituisce la misura delle prestazioni sanitarie che il servizio sanitario nazionale può erogare e può quindi permettersi di acquistare da ciascun erogatore privato (Consiglio di Stato, Sez. III, 14 dicembre 2012, n. 6432). Anche la Corte Costituzionale, nel sottolineare l'importanza del collegamento tra responsabilità e spesa, ha evidenziato che l'autonomia dei vari soggetti ed organi che operano nel settore, deve essere necessariamente correlata alle disponibilità finanziarie e non può prescindere dalla limitatezza delle risorse e dalle esigenze di risanamento del bilancio nazionale (Corte Costituzionale 28 luglio 1995, n. 416).

Nell’esercizio della indicata funzione programmatoria le Regioni hanno quindi un ampio potere discrezionale nello stabilire come le risorse disponibili per il sistema sanitario debbano essere utilizzate, ed esercitano tale potere tenendo conto di molteplici esigenze quali il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, l'efficienza delle strutture pubbliche, le legittime aspettative degli operatori privati che operano secondo logiche imprenditoriale, l'interesse pubblico al contenimento della spesa (Consiglio di Stato, Sez. III, 14 gennaio 2013 n. 134). In tale quadro anche il sistema di regressione tariffaria per le prestazioni sanitarie che eccedono il tetto massimo prefissato, deve ritenersi espressione del potere autoritativo di fissazione dei tetti di spesa e di controllo pubblicistico della spesa sanitaria e si giustifica sia con la considerazione che, ove venisse consentito lo sforamento dei tetti complessivi di spesa fissati, il potere di programmazione regionale ne risulterebbe vanificato, sia con l’ulteriore considerazione che i soggetti erogatori delle prestazioni possono effettuare le opportune programmazioni della rispettiva attività sulla base delle risorse loro assegnate (Consiglio di Stato, Sez. III, 5 febbraio 2013 n. 679). FT

 

 



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Inserito in data 12/04/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 9 aprile 2013, n. 8571

Diritto al risarcimento del danno subito dal promittente venditore per occupazione sine titulo

La Suprema Corte ribadisce il principio secondo cui “il promissario acquirente di un immobile che, immesso nel possesso all'atto della firma del preliminare, si renda inadempiente per l'obbligazione del prezzo, da versarsi prima del definitivo, e provochi la risoluzione del contratto preliminare, è tenuto al risarcimento del danno in favore della parte promittente venditrice”.

Ciò si fonda sul fatto che la legittimità originaria del possesso viene meno a seguito della risoluzione, per cui l'occupazione dell'immobile si configura come sine titulo. Da ciò consegue che i danni, consistenti nel lucro cessante per il danneggiato, il quale non ha potuto trarre frutti né dal pagamento del prezzo né dal godimento dell'immobile, sono liquidati con riferimento all'intera durata dell'occupazione e, dunque, non solo a partire dalla domanda giudiziale di risoluzione contrattuale.

In ipotesi, come quella appena descritta, di occupazione senza titolo di un immobile altrui, il danno per il proprietario è in re ipsa, ricollegandosi al semplice fatto della perdita della disponibilità del bene da parte del proprietario usurpato ed all'impossibilità per costui di conseguire l'utilità normalmente ricavabile dal bene medesimo in relazione alla natura normalmente fruttifera di esso. Pertanto, la determinazione del risarcimento del danno ben può essere, in tal caso, operata dal giudice sulla base di elementi presuntivi semplici, con riferimento anche al c.d. danno figurativo e, quindi, con riguardo anche al valore locativo del bene usurpato. CDC




Inserito in data 12/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 aprile 2013, n. 1970

Estinzione giudizio per riesame e riemanazione provvedimento dopo ordinanza cautelare

La sentenza si occupa, fra l’altro, dell’attività amministrativa effettuata in esecuzione di un’ordinanza cautelare del giudice amministrativo.

Si afferma che, di norma, il provvedimento amministrativo adottato in esecuzione di un’ordinanza cautelare del giudice amministrativo non implica di per sé il ritiro dell’atto impugnato. Del resto, il suddetto provvedimento ha una rilevanza solo provvisoria, in attesa che la decisione di merito accerti se l'atto stesso sia, o no, legittimo; infatti, la misura cautelare non configura di norma una radicale consumazione della potestà amministrativa e l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si estende comunque a tutti gli ulteriori atti adottati dalla PA a seguito dell’adozione dell’ordinanza cautelare.

Tuttavia, in taluni casi, l’attività di riemanazione del provvedimento impugnato, conseguente in modo inderogabile all’ordine cautelare del giudice di riesaminare la vicenda e di provvedervi, può determinare una fattispecie estintiva della controversia cui la cautela accede. Ciò, infatti, si verifica non se la PA emani l’atto richiesto anche a seguito dell’obbligatoria istruttoria che il procedimento amministrativo sostanziale richiede, ma se siffatta statuizione intervenga senza riserve e senza condizioni, cioè alla luce d’una valutazione autonoma e non collegata all’oggetto del giudizio di merito. CDC

 

 



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Inserito in data 12/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 aprile 2013, n. 1974

La falsità delle dichiarazioni è idonea a giustificare l’esclusione da una gara

Con questa sentenza, si afferma che la rilevata falsità in calce all’autentica di una convenzione è idonea a pregiudicare, alla stregua di una clausola del bando, la necessaria fiducia nei confronti della aggiudicataria provvisoria, fiducia su cui si deve fondare il rapporto contrattuale con l’ente.

Infatti, nell’ambito dei procedimenti selettivi rigorosamente disciplinati dalla lex specialis e dalla disciplina legislativa, l’elemento fiduciario “non si presta ad essere liberamente valutato dalla stazione appaltante, in quanto trova oggettiva concretizzazione nelle regole disciplinatrici della gara, il cui puntuale rispetto consente di individuare l’impresa che oggettivamente offra, per i requisiti posseduti e l’offerta presentata, le migliori garanzie di realizzazione dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione aggiudicatrice”.

Peraltro, l’ipotesi di falsità delle dichiarazioni è idonea a giustificare l’esclusione dalle gare d’appalto anche in costanza del principio di tassatività delle cause di esclusione, codificato dall’art. 46, comma 1-bis, del codice appalti, poiché costituisce sicuramente elemento essenziale dell’offerta la veridicità delle dichiarazioni che ne fanno parte. CDC



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Inserito in data 11/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2013, n. 1932

Anche le Regioni possono emanare leggi retroattive, in deroga all’art. 11 delle preleggi

Confermando i precedenti arresti giurisprudenziali (Cass. civ., SS.UU., 1 giugno 2010, n. 13338; Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 giugno 2006, n. 3977), la Quinta Sezione del Consiglio di Stato riconosce la natura innovativa e retroattiva della L.R. n.12/97, con cui la Regione Calabria ha modificato il meccanismo di calcolo dei contributi concessi alle aziende esercenti i servizi di trasporto pubblico locale; in particolare, in forza di tale legge, i finanziamenti regionali sono parametrati ai costi e ricavi effettivi, come dichiarati negli stessi bilanci delle imprese concessionarie del trasporto pubblico locale, anziché ai costi medi sopportati dalle stesse imprese.

Detto ciò, i Giudici di Palazzo Spada respingono la tesi, sostenuta dall’appellante, secondo cui la L.R. n. 12/97 summenzionata sarebbe incostituzionale, stante l’inderogabilità del principio dell’irretroattività della legge (art. 11 disposizioni preliminari del Codice civile, cd. preleggi) da parte del legislatore regionale. Infatti, la Corte Costituzionale ritiene che il principio di irretroattività della legge sia stato costituzionalizzato solo in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.) e riconosce che l'art. 11 delle preleggi “non può assumere per il legislatore regionale altro e diverso significato da quello che esso assume per il legislatore statale, con la possibilità per l'uno e per l'altro di emanare fuori della materia penale norme legislative alle quali possa essere attribuita efficacia retroattiva” (Corte cost., sentenza n. 19 del 24 gennaio 1989; Corte cost. ordinanza n. 713 del 1988).

Di conseguenza, ad avviso del Consiglio di Stato, “anche alle Regioni è consentito, senza preclusioni assolute, emanare leggi aventi efficacia retroattiva, anche ove non qualificabili come di interpretazione autentica”. TM



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Inserito in data 11/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2013, n. 1933

Conseguenze (extrapenali) dell’accertamento della falsità dell’autocertificazione

L’art. 75 del d.p.r. n. 445/2000 prevede che il dichiarante, che ha reso una dichiarazione sostitutiva di certificato (art. 46 d.p.r. n. 445/2000) o di atto di notorietà (art. 47, ibidem) risultata non veridica nell’ambito dei controlli di cui all’art. 71 del medesimo d.p.r., “decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.

“La norma… si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui il dovere del dichiarante di affermare il vero”.

“In tale contesto normativo, in cui la “dichiarazione falsa o non veritiera” opera come fatto, perde rilevanza l’elemento soggettivo ovvero il dolo o la colpa del dichiarante”.

“Ne consegue che … la comminatoria di decadenza è la naturale conseguenza dell’inidoneità della dichiarazione non veritiera a raggiungere l’effetto cui era preordinata”.

Attesa l’irrilevanza dell’elemento psicologico dell’agente e considerato che la norma intende tutelare l’interesse alla veridicità della dichiarazione sostitutiva, “deve ritenersi che il beneficio rispetto al quale opera la decadenza ai sensi dell’art. 75. l. n. 445 del 2000 è da individuarsi nell’utilitas diretta e immediata acquisita con la falsa dichiarazione. Restano, invece, estranee alla fattispecie dell’art. 75, ricadendo nella disciplina positiva di settore le ulteriori conseguenze connesse alla decadenza dal “beneficio”, ovvero alla dichiarazione non veritiera”.

In applicazione del principio suesposto, il Consiglio di Stato ritiene che l’accertamento della falsità del certificato di iscrizione alla Camera di Commercio del rappresentante legale della società ricorrente non implichi la decadenza dal beneficio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande, bensì solo la decadenza dal requisito di cui è stato falsamente dichiarato il possesso (ossia dall’attestazione di iscrizione alla camera di commercio). La mancanza del suddetto requisito, conseguente all’applicazione dell’art. 75 d.p.r. n. 445/00, deve poi essere valutata alla luce dell’art. 32 L. R. Veneto n. 29/07 che per tali infrazioni prevede sanzioni sia di tipo pecuniario, sia di sospensione e chiusura dell’esercizio, ma precisa che “non dovrà darsi luogo all’esecuzione dell’ordine di sospensione nel caso in cui l’interessato dimostri di aver sanato la violazione”. Poiché nel caso di specie la società appellante aveva provveduto tempestivamente alla sostituzione del rappresentante legale colpevole della falsificazione, il Supremo Consesso amministrativo ritiene che ad essa vada applicata la norma di favore che esclude la più grave sanzione della sospensione o chiusura dell’esercizio. TM



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Inserito in data 11/04/2013
CASSAZIONE PENALE SEZIONI UNITE, SENTENZA 29 marzo 2013, n. 14978

Sorte della sentenza d’appello priva della sottoscrizione del presidente del collegio

Le Sezioni Unite sono state chiamate a dirimere il contrasto sorto all’interno della Cassazione in ordine alle conseguenze della mancanza nella sentenza di appello della sottoscrizione del presidente del collegio.

1) Secondo un primo indirizzo, la sentenza di appello priva della sottoscrizione del presidente del collegio e firmata dal solo giudice estensore è affetta da una mera irregolarità rimediabile con il procedimento di correzione dell'errore materiale. Ciò in quanto l’art. 546 c.p.p. statuisce la sanzione della nullità della sentenza se manca la sottoscrizione del giudice e questa previsione va riferita alla mancanza completa della sottoscrizione; per cui, laddove la sottoscrizione sia incompleta, si ricorrerà una mera irregolarità ex art. 547 c.p.p. Quest’orientamento si scinde in due ulteriori correnti, a seconda se si ritenga il procedimento di correzione utilizzabile sempre o solo fino al momento dell’impugnazione della sentenza; in favore della tesi restrittiva si allega che, ai sensi dell’art. 547 c.p.p., la correzione può essere operata solo dal giudice che ha emesso la sentenza e, di conseguenza, il giudice dell’impugnazione non potrebbe correggere la sentenza e la mancanza della sottoscrizione diverrebbe causa di annullamento della sentenza.

2) Altra giurisprudenza ritiene che la mancanza della sottoscrizione del presidente del collegio determini la nullità relativa ex art. 546 c.p.p. della sentenza di appello, con conseguente annullamento con rinvio al medesimo collegio affinché provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento. Il che si spiegherebbe considerando che la sottoscrizione del presidente garantisce la conformità della motivazione a quanto deliberato in camera di consiglio: per cui, in mancanza di tale sottoscrizione, non si potrebbe verificare se tale funzione di garanzia sia stata espletata o no. Non è invece necessaria la rinnovazione del giudizio, atteso che la nullità di un atto invalida gli atti successivi ma non si ripercuote sugli atti antecedenti ex art. 185 c.p.p. In senso parzialmente difforme, alcune pronunce hanno ritenuto che in questi casi la Corte di cassazione debba cassare senza rinvio e contestualmente ordinare la trasmissione degli atti allo stesso giudice a quo ai fini della rinnovazione della sentenza-documento.

3) Un’altra corrente giurisprudenziale sostiene che la nullità investa non solo la sentenza di appello bensì l’intero giudizio: perciò, andrebbe disposto l'annullamento con rinvio ad altro collegio ai fini la rinnovazione del giudizio medesimo (piuttosto che al limitato scopo di integrare la relativa omissione). A sostegno di quest’orientamento si evidenzia che l’art. 546 c.p.p. non prevede la possibilità di disporre il rinvio al giudice a quo per l’integrazione degli elementi mancanti e causativi di nullità. In seno a quest’orientamento, una corrente minoritaria afferma che la Cassazione debba annullare senza rinvio ma trasmettendo gli atti al fine della celebrazione di un nuovo giudizio.

Le Sezioni Unite aderiscono alla seconda tesi e affermano il seguente principio di diritto: “La sentenza di appello mancante della sottoscrizione del presidente del collegio non giustificata espressamente da un suo impedimento legittimo e firmata dal solo giudice estensore configura una nullità relativa che comporta l'annullamento senza rinvio e la restituzione degli atti affinché si provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento”.

Segnatamente, trattasi di nullità relativa, perché attiene alla fase della documentazione e non a quella della decisione e, pertanto, non è sussumibile tra quelle assolute inerenti la capacità costituzione del giudice di cui agli art. 178 e 179 c.p.p. Ne discende la sua deducibilità, a pena di decadenza, nell’atto di gravame.

Contro la tesi della mera irregolarità, le Sezioni Unite osservano che l’art. 546 c.p.p. stabilisce la sanzione della nullità per l’ipotesi della sentenza priva di sottoscrizione, senza distinguere tra sentenza del giudice monocratico e del giudice collegiale. Per cui, è arbitraria la differenziazione delle conseguenze dell’assenza della sottoscrizione nella sentenza collegiale, a seconda se la sottoscrizione manchi del tutto o solo in parte: in entrambi i casi la sentenza sarà nulla e perciò non emendabile ex art. 547 c.p.p. Questa conclusione è corroborata considerando l’importante funzione di garanzia svolta dalla sottoscrizione del presidente e la sua necessarietà ex art. 546 c. 2 c.p.p.

Infine, la Corte di Cassazione sottolinea come la tesi della nullità dell’intero giudizio debba essere ripudiata alla luce del disposto dell’art. 185 c.p.p. (specialmente del comma 3°, a tenore del quale, “la dichiarazione di nullità comporta le regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo”) e del generale principio di conservazione e di economia processuale. TM




Inserito in data 10/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2013, n. 1905

Annullamento ministeriale autorizzazione paesaggistica: divieto nuove valutazioni di merito

L’art. 159 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), applicabile ratione temporis, prevede che, in presenza di beni ed aree di interesse paesaggistico, la realizzazione di opere, quale quello che viene in rilievo in questa sede [un villaggio composto da 44 unità abitative suddivise in undici corpi di fabbrica], deve essere autorizzata dall’amministrazione competente che «dà immediata comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall’interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti». La Soprintendenza, se ritiene l’autorizzazione non conforme alla normativa sulla tutela del paesaggio, «può annullarla, con provvedimento motivato, entro i sessanta giorni successivi alla ricezione della relativa, completa, documentazione». La giurisprudenza di questo Consiglio è costante nel ritenere che il potere di annullamento ministeriale dell’autorizzazione in esame non comporta un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente «tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione, ma si estrinseca in un vaglio di legittimità che si estende a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere» (Cons. Stato, Sez. VI, 14 agosto 2012, n. 4562). Il divieto di effettuare valutazioni di merito sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario gli organi ministeriali possono annullare il provvedimento adottato per difetto di motivazione e indicare – anche per evidenziare il vizio di eccesso di potere dell’atto esaminato – le ragioni di merito, sorrette da un puntuale indicazione degli elementi concreti della specifica fattispecie, che concludono per la non compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati (tra gli altri, cfr. Cons. Stato, VI, 18 gennaio 2012, n. 173; VI, 28 dicembre 2011, n. 6885; VI, 21 settembre 2011, n. 5292). FT



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Inserito in data 10/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 aprile 2013, n. 1909

Domanda di sanatoria: non causa carenza di interesse ad impugnare ordine di demolizione

Il primo e il secondo motivo di ricorso, con i quali si è chiesta la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso proposto ... avverso l’ordine comunale di demolizione, vanno accolti nei sensi di seguito indicati. Al riguardo il Collegio ritiene che – come ha correttamente evidenziato l’appellante – non vi è alcuna disposizione di legge, tanto meno nel testo unico n. 380 del 2001, per la quale la presentazione di una domanda di sanatoria di abusi edilizi renderebbe irrilevanti i precedenti ordini di demolizione e gli altri atti sanzionatori. Al riguardo, va osservato che alcune disposizioni del passato (riconducibili alla legge n. 47 del 1985 e aventi portata eccezionale) hanno previsto la sospensione dei giudizi pendenti e la mancata eseguibilità di atti di natura sanzionatoria, riguardanti i manufatti oggetto delle cd istanze di condono straordinario. Quando invece vi è l’impugnazione di un atto avente natura sanzionatoria in materia edilizia e vi è la proposizione di una domanda di accertamento di conformità, in base alla legislazione vigente nessuna disposizione prevede che il giudice amministrativo debba sospendere il giudizio, ovvero che l’amministrazione o il giudice debbano rilevare la sopravvenuta carenza di effetti dell’atto sanzionatorio in precedenza emesso. In materia, rileva il principio di tipicità del provvedimento amministrativo: la legge – così come determina gli effetti dell’atto – allo stesso modo può individuare le circostanze che incidano sui suoi effetti e sulla sua idoneità ad essere posto in esecuzione materiale. Ciò comporta che, quando è emesso un ordine di demolizione o un altro atto di natura sanzionatoria, impugnato in sede giurisdizionale, e l’interessato proponga una istanza di sanatoria o di accertamento di conformità, l’atto impugnato in sede giurisdizionale (salvo l’esercizio del potere cautelare del giudice) continua a produrre effetti, sicché: da un lato, il ricorrente mantiene l’interesse alla definizione del giudizio proposto avverso l’atto sanzionatorio (che potrebbe, in ipotesi, anche risultare illegittimo); l’amministrazione può portare senz’altro ad esecuzione il proprio provvedimento (e mantiene la qualità di proprietaria, quando ciò sia previsto dalla legge nel caso di inutile decorso del termine di novanta giorni, successivo alla notifica dell’ordine di demolizione), anche se costituisce una regola di buona amministrazione (per evitare responsabilità ove sia demolito un manufatto invece assentibile ex post) che l’esecuzione materiale dell’atto sanzionatorio sia preceduta – con la conseguente necessaria sollecitudine - dalla reiezione dell’istanza di sanatoria o di accertamento di conformità. In altri termini, salvo che la legge disponga altrimenti, la proposizione di una domanda di sanatoria o di accertamento di conformità non comporta la sopravvenuta inefficacia di un atto che l’ordinamento tipizza quanto ai suoi effetti (se del caso, anche di natura acquisitiva della proprietà), con la conseguenza che in sede giurisdizionale non si può constatare una sopravvenuta inefficacia, che non è disposta da alcuna legge. Ciò non toglie che, a seconda dei casi, il giudice amministrativo possa coordinare l’esercizio dei propri poteri con quelli di cui è titolare l’amministrazione, disponendo incombenti istruttori o, anche, la sospensione del giudizio, in attesa che l’istanza sopravvenuta sia rapidamente definita: ciò che non è consentito – in sede amministrativa o giurisdizionale - è ravvisare una sopravvenuta mancanza di effetti di un atto che, invece, continua ad avere i propri effetti tipici stabiliti senza eccezioni dalle legge di settore. FT



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Inserito in data 10/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 aprile 2013, n. 1921

Ricorso per ottemperanza: ammissibile anche in mancanza di attestazione del giudicato

Erroneamente, il TAR ha ritenuto inammissibile il ricorso per l’ottemperanza sull’asserita mancanza della certificazione del passaggio in giudicato della sentenza azionata. Invero, la ricorrente ... aveva prodotto nel ricorso di primo grado copia conforme all’originale della sentenza del ... Tribunale ..., con apposita dichiarazione del Cancelliere del Tribunale ... che certificava che avverso la sentenza non era stato proposto appello o ricorso per cassazione, né istanza di revocazione ai sensi degli artt. 4 e 5 dell’art. 305 c.p.c., con ciò intendendosi in sostanza il passaggio in giudicato della sentenza. Inoltre, la sentenza era stata in precedenza notificata a [controparte] ai sensi degli artt. 114 del d. lgs. n. 104 del 2010, munita di formula esecutiva e la certificazione del cancelliere era stata apposta ... a distanza di 2 anni e nove mesi dalla pubblicazione della sentenza e dopo 2 anni e sette mesi dalla notificazione della sentenza munita di formula esecutiva. Tali elementi sono probanti, ove sussistessero dubbi, del passaggio in giudicato della sentenza azionata con ricorso per l’ottemperanza. Orbene, al giudice dell’ottemperanza, incombe, pur in mancanza di formale attestato della cancelleria del passaggio in giudicato della sentenza, verificare sulla base della documentazione agli atti, se la sentenza azionata sia passata in giudicato (cfr. Cons. Stato, terza sezione, n. 1464 del 16 marzo 2012: << Il Collegio ricorda che l’art. 124, cit., è del seguente tenore: «[I]. A prova del passaggio in giudicato della sentenza il cancelliere [del giudice che l’ha pronunciata] certifica, in calce alla copia contenente la relazione di notificazione, che non è stato proposto nei termini di legge appello o ricorso per cassazione, né istanza di revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5 dell'articolo 395 del codice. [II]. Ugualmente il cancelliere certifica in calce alla copia della sentenza che non è stata proposta impugnazione nel termine previsto dall'articolo 327 del codice». Queste disposizioni conseguono a quelle dell’art. 123, il quale fa onere all’ufficiale giudiziario che notifica un atto d’impugnazione di darne avviso alla cancelleria del giudice a quo (si tratta peraltro di una mera comunicazione, la cui eventuale omissione non produce effetti rilevanti). Come si vede, al cancelliere non compete certificare che la sentenza sia passata in giudicato, bensì che non siano state proposte impugnazioni. E’ vero che tale certificazione ha lo scopo di fungere da prova del passaggio in giudicato; ma ai fini del relativo accertamento non è una prova risolutiva, e neppure indispensabile. E’ ovvio, infatti, che il cancelliere registra fatti, non esprime giudizi; e non può attestare altro, che ciò che risulta agli atti del suo ufficio. Tutto ciò che egli abbia certificato (o in senso positivo, o in senso negativo) è suscettibile di prova contraria, non perché abbia attestato il falso, ma perché vi sono elementi che sfuggono alla sua conoscenza ed alla sua competenza. E’ possibile che una impugnazione sia stata proposta, senza che il cancelliere del giudice a quo ne abbia avuta notizia; così come, al contrario, pur quando il cancelliere abbia ricevuto la comunicazione, e lo attesti, è possibile che poi l’appello non sia stato depositato, ovvero che l’appellante vi abbia rinunciato, etc. Ancora: il cancelliere può certificare che nessuna impugnazione è stata proposta nel termine di cui all’art. 327 c.p.c. (termine c.d. lungo) e tuttavia è possibile che taluno sia ancora in termini per proporla, come previsto dal secondo comma dello stesso art. 327. Non è certamente compito del cancelliere del giudice a quo darsi carico di tutti questi aspetti. Ma vi è di più: un atto di appello può essere stato ritualmente notificato e anche depositato, ed il relativo giudizio può essere effettivamente pendente, e nondimeno è possibile che questo o quel capo della sentenza di primo grado sia passato in giudicato perché non investito dall’atto di appello. Tutto ciò comprova che la certificazione di cui all’art. 124 disp. att. non è inoppugnabile, e non è neppure indispensabile: se rilasciata, può essere data la prova contraria; se non rilasciata, la prova può essere data in altro modo ... Spetta al giudice, davanti al quale venga dedotta l’esistenza di un giudicato per basarvi una domanda o un’eccezione, accertare pregiudizialmente se in realtà un giudicato vi sia e quali ne siano il contenuto e gli effetti sulla materia del contendere nell’ambito di quel processo. S’intende che se vi è una impugnazione pendente, il giudice davanti al quale viene dedotto il giudicato non può che prenderne atto, senza sostituirsi al giudice dell’impugnazione nel valutarne l’ammissibilità, la ritualità e la fondatezza. Ma può tuttavia giudicare se la pendenza di quel processo (quale che possa esserne l’esito futuro) abbia o meno l’effetto di precludere la formazione del giudicato sulle questioni a lui sottoposte >>). Risulta di conseguenza erronea la statuizione di inammissibilità del ricorso del giudice di primo grado, che si è attestato su posizioni meramente formali, lesive dei principi di effettività della tutela e del giusto processo di cui agli artt. 1 e 2, c.p.a. FT



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Inserito in data 09/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 aprile 2013, n. 1886

Rigore negli illeciti edilizi: natura permanente ed assenza di ogni forma di affidamento

La pronuncia, confermando il decisum del Giudice di prime cure, sancisce il carattere permanente dell’illecito edilizio e, di conseguenza, la continuità dello stesso anche a fronte di mutamento nel titolare del diritto reale – come nel caso di specie.

L’atteggiamento della giurisprudenza amministrativa è, infatti, estremamente rigoroso nei riguardi di chi commetta un abuso edilizio e proceda, poi, ad alienare ad altri l’immobile iniquamente modificato. Il nuovo titolare, subentrando nella posizione del dante causa, merita di essere soggetto alle sanzioni previste ope legis.

Infatti, i Giudici d’appello ricordano, allineandosi anche a recentissimi arresti (cfr. Cons. Stato, VI, 4 marzo 2013, n. 1268), l’irrilevanza del decorso del tempo dalla realizzazione dell’abuso, stante il già evidenziato carattere permanente dell’illecito sotto il profilo edilizio.

E, cosa ancor più importante, sottolineano come non possa ingenerare alcun affidamento meritevole di tutela il mancato esercizio, fino ad allora, dei doverosi poteri repressivi da parte dell’Amministrazione eventualmente competente. CC



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Inserito in data 09/04/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III QUATER, 4 aprile 2013, n. 3393

Mantenimento in servizio oltre limite d’età: decide il G.O.

I Giudici laziali ribadiscono, uniformandosi a giurisprudenza costante sul punto, la spettanza al Giudice Ordinario di controversie attinenti l’ineleggibilità, l’incompatibilità e la decadenza da cariche elettive.

Nel caso di specie, veniva impugnata la deliberazione con cui il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria aveva sancito la destituzione dalla carica, per sopraggiunto limite d’età, di un Magistrato – ancor prima della scadenza naturale originariamente statuita per il ruolo conferitogli in seno all’Organo.

Al di là della doglianza, il Collegio romano accoglie l’eccezione attinente al proprio difetto di giurisdizione – come sollevato dal controinteressato.

Si tratta, infatti, di una censura avente ad oggetto un diritto soggettivo perfetto, quale è quello inerente all’elettorato passivo.

Nel richiamare principi ormai cristallizzati dalle Sezioni Unite, il TAR ricorda che la giurisdizione del giudice ordinario non incontra limitazioni o deroghe anche nel caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento del Consiglio sulla convalida degli eletti, ovvero attraverso contestazione dell’atto di proclamazione o del provvedimento di decadenza, poiché anche in siffatte ipotesi la decisione verte non sull’annullamento del provvedimento amministrativo, bensì sul diritto perfetto relativo all’elettorato attivo o passivo.

Tanto è accaduto nel caso di specie, con conseguente invito – rivolto al Magistrato ricorrente – di rivolgere la propria doglianza all’AGO, nel rispetto dei limiti e delle modalità – ex articolo 11 D.Lgs. 104/10. CC



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Inserito in data 08/04/2013
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, SEZ. II, nn. 25851, 29284 e 64090/09 del 2 aprile 2013

Università e numero chiuso: garantito il diritto allo studio

Il Collegio di Strasburgo interviene con una pronuncia significativa, destinata ad avere forti ripercussioni sul panorama universitario italiano.

A fronte di più ricorsi, presentati da un gruppo di studenti non ammessi alle Facoltà universitarie di Medicina e Odontoiatria, i Giudici francesi ritengono che il meccanismo selettivo dei cc.dd. test di ingresso, adoperato quale presupposto del numero chiuso volutamente mantenuto in tali contesti accademici, non violi il diritto allo studio – siglato all’articolo 2, Protocollo 1 della Convenzione EDU.

Un sistema simile, infatti, è giudicato, non solo in linea con un principio di tale rango, ma anche conforme all'ampio margine di discrezione che gli Stati hanno in questo ambito.

Inevitabilmente una decisione simile ha trovato, da subito, una chiara opposizione da parte della ricorrente Associazione a tutela dei diritti dei Consumatori che, invece, aveva ravvisato nella prassi universitaria italiana un’evidente contrarietà sia rispetto ai principi costituzionali – di cui agli articoli 3, 33 e 34 – sia in merito al libero accesso alle professioni, inciso da un ingresso presso le suddette Facoltà, “strozzato” a monte.

Il CodaCons, attendendo - frattanto - l’esito dinanzi alla Consulta per la medesima questione, condanna apertamente il decisum della Corte di Strasburgo ed invita il Governo, piuttosto, a seguire le indicazioni dell’AntiTrust in tema di libero accesso alle professioni, altrimenti osteggiato da una consuetudine universitaria ritenuta ingiustamente ostruzionistica. CC



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Inserito in data 06/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 aprile 2013, n. 1895

Sul diritto dei dipendenti sanitari a differenze retributive per mansioni superiori svolte

La sentenza affronta il tema dell’esercizio di fatto di mansioni superiori nel comparto sanitario.

Si premette, sul punto, che l’istituzione dei posti in organico deve avvenire in tale settore a mezzo di un atto amministrativo, ed in particolare di un provvedimento di macro-organizzazione, unilaterale ed autoritativo, adottato in ottemperanza a norme di legge.

Pertanto, l'esercizio di fatto di mansioni superiori che non corrispondano ad alcun posto nella pianta organica dell’amministrazione è, in via di principio, improduttivo di conseguenze giuridiche ai fini del riconoscimento delle differenze retributive. Piuttosto, la preposizione di un pubblico dipendente ad un posto apicale ha rilevanza, sotto il profilo giuridico, solo se detto posto è stato istituito mediante un idoneo provvedimento di organizzazione e la sua titolarità è stata conferita dagli organi competenti nel rispetto della legge e mediante i procedimenti previsti dalle norme.

Ne consegue che “il diritto dei dipendenti sanitari al trattamento retributivo differenziato per lo svolgimento di mansioni superiori sorge esclusivamente se queste ultime corrispondono ad un posto istituito e vacante nella pianta organica della PA datrice di lavoro”. È irrilevante che questa sia definitiva o provvisoria, in quanto la giustificazione delle mansioni superiori si fonda nella temporanea assenza del titolare del posto che si sostituisce e non già su una mera scelta organizzatoria della PA stessa, ossia sulla convenienza di essa di utilizzare i propri dipendenti per compiti diversi da quelli che a costui possono essere richiesti in ragione della qualifica funzionale rivestita.

È stata rigettata, quindi, la pretesa relativa al conseguimento delle differenze retributive. CDC



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Inserito in data 06/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 aprile 2013, n. 1879

Applicabilità ai rapporti di lavoro con l'ISVAP dei principi del d. lgs. 165/2001

Preliminarmente, si rileva nella sentenza che il rapporto di lavoro instaurato con l'ISVAP ha natura pubblicistica ed è regolato dall'art. 20 della legge istitutiva dell'ISVAP. Esso prevede che “il trattamento giuridico ed economico dei dipendenti dell’ISVAP … e l’ordinamento delle carriere sono stabiliti dal consiglio con proprio regolamento, con riferimento ai criteri fissati dai contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti nel settore assicurativo, tenuto conto delle specifiche esigenze funzionali ed organizzative dell’ISVAP”.

Nonostante il rapporto di lavoro con l'ISVAP sia regolato autonomamente, l’organizzazione degli uffici ed il conferimento di incarichi dirigenziali non sono comunque sottratti alle disposizioni di principio contenute nel d.lgs. n. 165/2001, recante “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”. Rileva, in particolare, l’art. 19, nel quale si dettano regole applicabili per l’assegnazione degli incarichi di funzione dirigenziale in tutte le “amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo”. Non sarebbe ragionevole, infatti, ritenere che alle stesse regole alcune amministrazioni possano sottrarsi, per ragioni che dovrebbero renderne, invece, anche più stringente l’applicazione, ovvero per la più forte connotazione pubblicistica delle funzioni svolte, ritenute tali da sottrarre il personale alla privatizzazione, disposta per altri settori.

Pertanto, deve essere assicurato anche nell'ambito dell'ISVAP il rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento, di cui all’art. 97 Cost, che debbono comunque estrinsecarsi nell’obbligo di valutazioni comparative per l’individuazione del soggetto più idoneo all’espletamento delle funzioni da svolgere, con forme di partecipazione degli interessati ai processi decisionali e con l’esternazione delle ragioni giustificatrici delle scelte.

Quando pertanto, al comma 12 dell'art. 19 si rinvia agli ordinamenti di settore per gli incarichi del personale non privatizzato, ciò non implica certamente deroga ai principi generali, cui deve comunque ispirarsi l’esercizio di funzioni pubbliche.

L’autonomia organizzativa conferita all’ISVAP non esime, pertanto, quest’ultimo dallo scindere la fase di individuazione delle esigenze operative, da soddisfare con l’istituzione di un nuovo ufficio, dall’individuazione del personale più idoneo a dirigere lo stesso o ad esservi addetto. CDC



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Inserito in data 06/04/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, 27 marzo 2013, n. 7791

Principio di conservazione del contratto non può operare contro la volontà delle parti

La sentenza si occupa del principio di conservazione del contratto, dettato dall’art. 1367 cc, secondo il quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

La Suprema Corte ribadisce che il criterio contenuto nell'art. 1367 cc non deve essere inteso nel senso che è sufficiente il conseguimento di qualsiasi effetto utile per una clausola, per legittimarne una qualsivoglia interpretazione, pur contraria alle locuzioni impiegate dai contraenti. Piuttosto, esso opera nei casi dubbi, nei quali, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse; in tali ipotesi, occorre evitare di adottare una soluzione che la renda improduttiva di effetti. Ne consegue che detto criterio, anzitutto, è sussidiario rispetto al principale criterio di cui all'art. 1362, primo comma, cc; inoltre, esso condivide il limite comune agli altri criteri sussidiari, per cui la conservazione del contratto non può essere autorizzata attraverso una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice evitarla e dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto. CDC




Inserito in data 05/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ordinanza 2 aprile, 2013, n. 6

Ex art. 13 c. 1 CPA il TAR Lazio conosce le sanzioni a tutela del patto di stabilità interno

Le Amministrazioni resistenti (Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero dell’Interno) hanno proposto ricorso per regolamento di competenza ex art. 16 c.p.a., avverso l’ordinanza con la quale il T.A.R. Catania aveva sospeso i provvedimenti impugnati dal ricorrente (comune di Messina). Detti provvedimenti annoveravano la parte ricorrente tra i comuni inadempienti al patto di stabilità interno per il 2011 e, conseguentemente, lo sanzionavano.

“Orbene, … questa Adunanza plenaria condivide l’avviso della difesa erariale secondo cui le ricadute, pur estremamente rilevanti, che tali atti hanno nei confronti del Comune di Messina non esauriscono gli “effetti diretti” che essi producono, ai fini della determinazione della competenza territoriale ex art. 13, comma 1, cod. proc. amm.

Ed invero, certamente l’irrogazione delle sanzioni ha un’immediata incidenza sulle finanze del Comune ricorrente, il quale per effetto della riduzione dei trasferimenti erariali dovrà rivedere tutta la propria politica finanziaria...

Tuttavia, non può sottacersi che le predette sanzioni costituiscono parte di una manovra finanziaria unitaria, le cui ripercussioni sulla finanza pubblica statale non possono in alcun modo qualificarsi quali effetti indiretti non rilevanti ai fini suindicati.

In primo luogo, la stessa esistenza del patto di stabilità interno … deriva dagli impegni che lo Stato italiano ha assunto in sede europea per la riduzione e il contenimento del debito pubblico, impegni la cui violazione espone a sua volta l’Italia a conseguenze e sanzioni sul piano comunitario indipendentemente dall’ascrivibilità della violazione stessa alle Regioni o ad altre articolazioni territoriali interne...

In secondo luogo, è del tutto evidente che l’individuazione di un minor importo di risorse finanziarie da trasferire ai sensi della normativa sul federalismo fiscale incide direttamente sul complessivo equilibrio finanziario dello Stato, sotto il profilo della generale disponibilità di risorse da destinare agli altri obiettivi della più generale politica economica e finanziaria.

Infine, è vero anche che esiste una correlazione tra l’entità delle sanzioni irrogate agli enti inadempienti e l’importo complessivo delle premialità da riconoscere”: difatti, l’art. 1, c. 122, L. n. 220/2010 stabilisce che le misure premiali da riconoscere ai Comuni virtuosi siano determinate commisurandole agli “effetti finanziari derivanti dall’applicazione delle sanzioni”.

“In definitiva, il ricorso va accolto per la parte che qui rileva e va individuato come competente il T.A.R. del Lazio, dinanzi al quale la causa dovrà essere riassunta”.

L’Adunanza Plenaria dichiara inammissibile, invece, la domanda di riforma dell’ordinanza cautelare. Ciò in quanto, se intesa come richiesta di pronuncia omisso medio sull’istanza cautelare, l’esame della predetta domanda presuppone la tacita abrogazione dell’art. 15, c.7 e 8 c.p.a. (secondo cui la misura cautelare disposta dal T.A.R. dichiarato incompetente perde efficacia dopo 30 giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza che regola la competenza, salva la sua riproponibilità dinanzi al T.A.R. indicato come competente), la cui ratio è assicurare il doppio grado di giudizio pure in sede cautelare; se considerata quale richiesta di riesame della precedente ordinanza, impone di dar rilievo al provvedimento emesso dal giudice incompetente, in contrasto con la proclamazione dell’inderogabilità della competenza per territorio. TM



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Inserito in data 05/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 aprile 2013, n. 1868

Lo status di soggiornante di lungo periodo si acquista con provvedimento discrezionale

Il Consiglio di Stato fa il punto sulle ragioni che possono giustificare il mancato rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

In primis, osta al rinnovo del permesso di soggiorno l’essere stati condannati per reati in materia di stupefacenti (cfr. artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del t.u. n. 286/1998).

Trascorso lungo tempo, la condanna penale è ritenuta non decisiva e, perciò, il mancato rinnovo è legittimo solo se motivato in base alla pericolosità sociale del soggetto secondo i criteri di cui alla legge n. 1423/1956.

Viceversa, depongono nel senso del rinnovo del permesso di soggiorno l’esistenza di legami familiari in Italia e la qualità di soggiornante di lungo periodo; sotto quest’ultimo profilo, la “normativa …è chiara nel senso che lo status di soggiornante di lungo periodo non si acquista ope legis, bensì per effetto di un atto di “conferimento” che ha natura costitutiva implicando anche valutazioni discrezionali”. TM



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Inserito in data 05/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 aprile 2013, n. 1856

Sindacato intrinseco, non sostitutivo e di legalità sostanziale sui giudizi tecnici

Allo scopo di pronunciarsi sull’adeguatezza dei prezzi, determinati dall’AGCOM, che Fastweb deve pagare a Telecom Italia (TI), per la compravendita dei servizi di accesso fisico e virtuale alla rete fissa, il Giudice amministrativo si sofferma sul fondamento e sul limite del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica.

Innanzitutto, “questo Consiglio, dopo un’iniziale autolimitazione del proprio scrutinio al solo profilo estrinseco dell’iter logico seguito dalla p.a. nella motivazione del provvedimento, ha riconosciuto successivamente la possibilità di un sindacato intrinseco sulla c.d. discrezionalità tecnica, al fine di vagliare la correttezza del criterio tecnico e del procedimento applicativo prescelto dall’amministrazione (Cons. St., sez. IV, 9.4.1999, n. 601). A questo approdo ermeneutico la giurisprudenza è giunta sulla base del dato obiettivo, difficilmente contestabile, che la p.a., anche nell’accertamento di fatti complessi alla stregua … di “regole tecnico-scientifiche opinabili”, debba ispirarsi ad un rigore metodologico e ad una coerenza applicativa che non possono non essere suscettibili di verifica e di controllo da parte del giudice amministrativo, nel loro intrinseco svolgimento, al fine di evitare che la discrezionalità tecnica trasmodi in arbitrio specialistico”.

“Fermo questo presupposto, … gli interpreti si sono poi interrogati e divisi sull’intensità di questo sindacato intrinseco, se, cioè, debba essere “forte”, sino al punto che il giudice pervenga a sostituire la propria all’erronea valutazione tecnica della p.a., come ha sostenuto una parte della dottrina, o sia invece “debole”, nella misura in cui impedisca un potere sostitutivo del giudice, ... potendo questi solo verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione, secondo un orientamento che questo Consiglio ha avuto modo di esprimere in diversi arresti (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 21.3.2011, n. 1712)”.

“Più di recente, … la giurisprudenza di questo Consiglio, … si è attestata su una linea ermeneutica secondo la quale ciò che rileva non è tanto la qualificazione del controllo come “forte” o “debole”, ma “l’esercizio di un sindacato comune a livello comunitario, in cui il principio di effettività della tutela giurisdizionale sia coniugato con la specificità di controversie, in cui è attribuito al giudice il compito non di esercitare un potere, ma di verificare – senza alcuna limitazione – se il potere a tal fine attribuito all’Autorità antitrust sia stato correttamente esercitato” (Cons. St., sez. VI, 20.2.2008, n. 595)”.

“La sterilità della rigida contrapposizione sindacato forte-sindacato debole… si avverte tanto più in una materia, come quella presente, che interseca la problematica, altrettanto spinosa, del potere regolatorio dell’Autorità amministrativa indipendente”.

“L’esigenza che questo pubblico potere, da taluni definito anche “atipico” o “acefalo”, sia ricondotto e sottostia, come ogni altro, ad un principio di legalità sostanziale, non trovando esso un’espressa copertura costituzionale e suscitando, quindi, non poche riserve in ordine al fondamento della sua legalità formale, impone al giudice amministrativo di assicurare che la legittimazione di tale potere rinvenga la sua fonte, al di là delle garanzie partecipative che agli operatori del settore sono attribuite, a livello procedimentale, nella fase della consultazione, proprio o almeno nella corretta e coerente applicazione delle regole che informano la materia sulla quale incide”.

“La correttezza, la coerenza, l’armonia delle regole in concreto utilizzate, il loro impiego da parte dell’Autorità iuxta propria principia, secondo, quindi, un’intrinseca razionalità, pur sul presupposto e nel contesto di scelte ampiamente discrezionali, garantiscono e, insieme, comprovano che quel settore dell’ordinamento non sia sottoposto all’esercizio di un potere “errante” e sconfinante nell’abuso o nell’arbitrio”.

“Il limite del sindacato giurisdizionale… deve attestarsi sulla linea di un controllo che, senza ingerirsi nelle scelte discrezionali della pubblica autorità, assicuri la legalità sostanziale del suo agire, per la sua intrinseca coerenza, anche e, vien fatto di dire, soprattutto in materie connotate da un elevato tecnicismo, per le quali vengano in rilievo poteri regolatori con i quali l’autorità detta, appunto, “le regole del gioco”.

Sono proprio queste brevi considerazioni, che riconducono direttamente al centro della problematica qui esaminata, a lumeggiare il senso e il limite del sindacato giurisdizionale sulla c.d. discrezionalità tecnica anche nella presente controversia, dove il controllo, invocato dall’appellante, sulla correttezza del modello economico in concreto applicato dal AGCOM sul piano regolatorio non mira, in alcun modo, a sostituire la valutazione del giudice a quella della competente Autorità, ma solo a verificare se tale modello, una volta adottato, sia stato coerente nei suoi sviluppi proprio alla luce delle finalità che la scelta regolatoria, nel suo complesso, mira a perseguire”.

Così, ad esempio, poiché l’AGCOM intende incentivare gli operatori a procedere con investimenti infrastrutturali (a creare una loro rete di rame), il Consiglio di Stato ha ritenuto coerente la delibera impugnata nella parte in cui commisura i prezzo da corrispondere a Telecom Italia agli elementi di costo correnti, ossia a quanto costerebbe oggi realizzare la rete in rame. Viceversa, sono state giudicate illegittime per eccesso di potere le delibere n. 731/097CONS e n. 578/10/CONS, perché indicavano i prezzi praticati da Telecom Italia nel 2009 ai clienti finali come base per il calcolo dei prezzi dei servizi WLR e WBA sul versante wholesale, senza motivare sufficientemente, logicamente e coerentemente tale scelta e senza basarsi su un’adeguata istruttoria; di conseguenza, spetterà all’AGCOM valutare nuovamente se la scelta fatta in precedenza fosse quella preferibile alla luce delle finalità che essa persegue e motivare adeguatamente la nuova valutazione tecnica. TM



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Inserito in data 04/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 marzo 2013, n. 1632

Supplisce l’art. 5 L. 241/90 in caso di omesse indicazioni sull’attività procedimentale

Nella sentenza in esame il Consiglio di Stato enuncia i seguenti principi:

- la mancata indicazione del termine di conclusione del procedimento non costituisce vizio invalidante, applicandosi in tale ipotesi il termine "suppletivo" fissato in via generale dall’art. 2 della legge nr. 241 del 1990;

- neanche l’inosservanza di detto termine determina l’illegittimità del provvedimento, essendo pacifico che la scadenza dello stesso non consuma il potere di provvedere dell’Amministrazione, potendo determinare bensì conseguenze in termini di legittimazione dell’interessato all’esercizio del rimedio processuale avverso il silenzio-inadempimento, di responsabilità del dirigente proposto etc.;

- l’omessa indicazione della struttura amministrativa competente e del responsabile del procedimento non dà luogo a vizio di legittimità, salvo che sia dimostrato un concreto pregiudizio (ciò che nella specie non è), applicandosi la norma suppletiva di cui all’art. 5 della citata legge nr. 241 del 1990, a tenore della quale nella prospettata ipotesi è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all’unità organizzativa competente. SL



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Inserito in data 04/04/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 marzo 2013, n. 1581

La prescrizione crediti di lavoro di un dipendente pubblico non può essere eccepita, per la prima volta in appello, dalla P.A.

La giurisprudenza più recente applica anche al processo amministrativo l’art. 345, comma 2, del codice di procedura civile.

Di conseguenza, la prescrizione del credito di lavoro del pubblico dipendente non può essere eccepita, per la prima volta, in appello dalla pubblica Amministrazione. SL

 



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Inserito in data 04/04/2013
Tar Lazio Roma, Sez. III bis, 14 marzo 2013, n. 2669

Legittimità provvedimenti sulle graduatorie finalizzate all’assunzione: G.O.

La decisione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 11 del 4 luglio 2011 ha definitivamente risolto il contrasto giurisprudenziale ed ha avuto modo di ribadire in via definitiva che: "la questione sottoposta va decisa confermando la tesi della giurisdizione del giudice ordinario, per le ragioni fondate sulla base della situazione giuridica protetta, della natura della attività esercitata dall’amministrazione e della assenza, nella fattispecie, di una procedura concorsuale in senso stretto; si verte in tema di accertamento di diritti di docenti già iscritti e deve ritenersi esclusa la configurabilità di una procedura concorsuale." "infatti, da un lato, si tratta di atti gestiti dal datore di lavoro pubblico; dall’altro lato, non è configurabile la procedura concorsuale diretta all’assunzione in un impiego pubblico, per la quale sola vale la regola residuale (e speciale) della giurisdizione del giudice amministrativo…".

Preso atto che dal richiamato orientamento giurisprudenziale emerge chiaramente che i provvedimenti concernenti le graduatorie finalizzate a fini assuntivi (e nel caso di specie anche l’impugnato D.M. che detta disposizione per le graduatorie per il 2009/2011) non assumono vere e qualificazioni di atti di diritto pubblico espressione di esercizio di poteri organizzatori autoritativi ma di atti"… che non possono che restare compresi tra le determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato… di fronte ai quali sono configurabili solo diritti soggettivi, avendo la pretesa ad oggetto la conformità a legge degli atti di gestione della graduatoria utile per l’eventuale assunzione. SL

 



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Inserito in data 03/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 28 marzo 2013, n. 50

In house: illegittimo prevedere il rispetto dell’autonomia gestionale dell’affidatario

La Corte di giustizia dell’Unione europea ha riconosciuto che rientra nel potere organizzativo delle autorità pubbliche degli Stati membri “autoprodurre” beni, servizi o lavori, mediante il ricorso a soggetti che, ancorché giuridicamente distinti dall’ente conferente, siano legati a quest’ultimo da una “relazione organica” (cosiddetto affidamento in house). Allo scopo di evitare che l’affidamento diretto a soggetti in house si risolva in una violazione dei principi del libero mercato e quindi delle regole concorrenziali, che impongono sia garantito il pari trattamento tra imprese pubbliche e private, la stessa Corte ha affermato che è possibile non osservare le regole della concorrenza a due condizioni. La prima è che l’ente pubblico svolga sulla società in house un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; la seconda è che il soggetto affidatario realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente pubblico (sentenza 18 novembre 1999, in causa C-107/98, Teckal). Tale impostazione è costantemente richiamata dalla giurisprudenza di questa Corte (explurimis, sentenza n. 439 del 2008).

La norma regionale impugnata prevede che il controllo analogo sia esercitato – dall’ERSI ovvero dal Commissario unico straordinario (CUS) – sugli affidatari in house del servizio idrico integrato «nel rispetto dell’autonomia gestionale del soggetto gestore», attraverso «parere obbligatorio» sugli atti fondamentali di quest’ultimo. Si deve in proposito ricordare che l’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (...), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 20 novembre 2009, n. 166, novellando l’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (...), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, stabiliva: «Tutte le forme di affidamento del servizio idrico integrato, di cui all’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 […] devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore […]». A seguito dell’esito positivo della consultazione referendaria ammessa con sentenza n. 24 del 2011 di questa Corte, l’art. 23-bis del d.l. n. 112 è stato abrogato, mentre l’art. 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (...), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 settembre 2011, n. 148, sostanzialmente riproduttivo della norma abrogata, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 199 del 2012, per violazione del divieto di ripristino di normativa abrogata a seguito di referendum, e quindi dell’art. 75 Cost. La conseguenza delle vicende legislative e referendarie brevemente richiamate è che, attualmente, si deve ritenere applicabile la normativa e la giurisprudenza comunitarie in materia, senza alcun riferimento a leggi interne.

Alla luce di quanto sinora esposto, il comma 16 dell’art. 1 della legge reg. Abruzzo n. 9 del 2011 deve ritenersi costituzionalmente illegittimo sia per la previsione del rispetto dell’autonomia gestionale del soggetto affidatario in house, sia per la prescrizione di pareri obbligatori, ma non vincolanti, sugli atti fondamentali del soggetto gestore. Per il primo profilo, si deve ricordare che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che sul soggetto concessionario deve essere esercitato «un controllo che consente all’autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti» (sentenza 13 ottobre 2005, in causa C-458/03, Parking Brixen). Ciò non significa che siano annullati tutti i poteri gestionali dell’affidatario in house, ma che la «possibilità di influenza determinante» è incompatibile con il rispetto dell’autonomia gestionale, senza distinguere – in coerenza con la giurisprudenza comunitaria – tra decisioni importanti e ordinaria amministrazione. Anche con riferimento al secondo profilo, è appena il caso di osservare che il condizionamento stretto, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria, non può essere assicurato da pareri obbligatori, ma non vincolanti, resi peraltro – come esplicitamente prevede la norma impugnata – «sugli atti fondamentali del soggetto gestore in house». FT



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Inserito in data 03/04/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 29 marzo 2013, n. 57

Aggravante metodo mafioso, custodia cautelare: presunzione adeguatezza solo relativa

Particolarmente significative, ai fini dello scrutinio delle questioni in esame, risultano due indicazioni offerte dagli orientamenti della giurisprudenza comune. Per un verso, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha fatto riferimento, nell’individuazione della ratio dell’art. 7, a un intento legislativo «teso a colpire qualsiasi manifestazione di attività mafiosa, dalla partecipazione all’associazione, al favoreggiamento ed al semplice impiego di metodo mafioso o di isolata e minima agevolazione» (sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 28 marzo 2001, n. 10); per altro verso, è consolidato l’indirizzo secondo cui la circostanza aggravante in esame, in entrambe le forme in cui può atteggiarsi, «è applicabile a tutti coloro che, in concreto, ne realizzano gli estremi», sia che essi siano «partecipi di un sodalizio di stampo mafioso sia che risultino ad esso estranei» (sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 2 aprile 2012, n. 17532). Le indicazioni della giurisprudenza comune appena richiamate mettono in luce come la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale non risponda, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Infatti, la possibile estraneità dell’autore di tali delitti a un’associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un «reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel territorio, intensità dei collegamenti personali e forza intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di interrompere» (sentenza n. 164 del 2011).

Se, come si è visto, la congrua “base statistica” della presunzione in questione è collegata all’«appartenenza ad associazioni di tipo mafioso» (sentenza n. 265 del 2010), una fattispecie che, anche se collocata in un contesto mafioso, non presupponga necessariamente siffatta “appartenenza” non assicura alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere un fondamento giustificativo costituzionalmente valido. Il semplice impiego del cosiddetto “metodo mafioso” o la finalizzazione della condotta criminosa all’agevolazione di un’associazione mafiosa (la quale, secondo la giurisprudenza di legittimità, «non richiede anche che il fine particolare, perseguito con la commissione del delitto, debba in qualche modo essere realizzato»: sentenza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, 19 settembre 1996, n. 9691) non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all’associazione, ed è a questa partecipazione che è collegato il dato empirico, ripetutamente constatato, della inidoneità del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere il vincolo associativo e a far venir meno la connessa attività collaborativa, sicché, una volta riconosciuta la perdurante pericolosità dell’indagato o dell’imputato del delitto previsto dall’art. 416-bis cod. pen., è legittimo presumere che solo la custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente.

Deve, pertanto, concludersi che le norme censurate sono in contrasto sia con l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia con l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Come è stato già precisato, ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del «minore sacrificio necessario». La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentenze n. 110 del 2012, n. 331, n. 231 e n. 164 del 2011, e n. 265 del 2010). FT



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Inserito in data 30/03/2013
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 27 marzo 2013, n. 279

Nomina assessori; è diritto delle donne far parte dell’Esecutivo locale

I Giudici laziali, accogliendo il ricorso presentato da una lista civica, annullano il provvedimento con cui un Sindaco ha nominato, quali componenti della Giunta, solo cittadini di sesso maschile.

Infatti, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante sul punto, il Collegio ricorda la prioritaria necessità di garantire il principio delle pari opportunità nell’ambito delle Istituzioni, anche locali.

Tutto questo, ricordano i Giudici, non solo in ossequio al dettato costituzionale di cui all’articolo 51 ed alla norma primaria di cui all’articolo 6 TUEL, ambedue statuenti la necessità di garantire e favorire la partecipazione femminile; ma anche in vista di un superiore interesse, quale quello del buon andamento dell’attività amministrativa che, invero, un’articolata e diversificata dimensione dell’Organo, in ragione proprio della diversità del genere di appartenenza, può consentire.

E' proprio la necessità di acquisire quella varietà culturale e sociale, che solo una compagine mista può garantire, che diventa ancora più rilevante in un Organo di vertice, caratterizzato da una spiccata connotazione politica – quale la Giunta comunale oggetto dell’odierna censura, pienamente accolta e condivisa dai Giudici latinensi. CC



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Inserito in data 30/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 marzo 2013, n. 1688

Diniego rilascio permesso di soggiorno e sussistenza di una sentenza penale condanna

Il Collegio, ricordando un recente arresto dei Giudici costituzionali, annulla il provvedimento con cui l’Amministrazione ha rinnegato il rilascio del permesso di soggiorno sulla base di una presunta pronuncia penale incombente sullo straniero.

Difatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 6 luglio 2012, n. 172, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, lettera c) – L. 102/09, nella parte in cui fa derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381, c.p.p. permette l’arresto facoltativo in flagranza.

In tal guisa, si finirebbe con il non consentire alla pubblica Amministrazione di accertare che lo straniero rappresenti o meno una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, come effettivamente accaduto nel caso in esame.

Pertanto, l’appello dello straniero va accolto e condiviso, data la ricorrenza di una situazione assimilabile a quella oggetto della suddetta declaratoria di incostituzionalità. CC



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Inserito in data 30/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 marzo 2013, n. 1692

Controversie in tema di P.I. Lo spartiacque della giurisdizione e il diritto al risarcimento

La pronuncia ricorda come l'articolo 69, comma 7, del D.Lgs. 165/2001 - secondo cui «sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all'art. 63 del presente decreto, relative alle questioni attinenti al periodo di lavoro successivo al 30 giugno 1998», mentre «le controversie relative a questioni attinenti al periodo di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000» segni lo spartiacque tra i due rami della giurisdizione, al fine unico di regolare un trapasso che, altrimenti, avrebbe procurato un serio nocumento alla tutela di situazioni giuridiche soggettive di estremo rilievo.

Precisa, inoltre, come il termine di decadenza previsto da tale norma abbia natura sostanziale, il cui infruttuoso decorso cagionerebbe, dunque, la perdita del diritto, oggetto di eventuale pretesa, e la cui perentorietà si giustifica alla luce di un necessario contemperamento di differenti esigenze organizzative, scaturite dal passaggio da un potere giurisdizionale ad un altro, quale quello accaduto in materia di Pubblico Impiego.

Fatta una simile premessa, i Giudici non condividono la censura dell’appellante che, lamentando un danno per il comportamento illegittimo dell’Amministrazione in sede di utilizzo delle graduatorie, avrebbe potuto chiedere il risarcimento delle proprie pretese economiche derivanti dalla mancata assunzione.

Tanto non è accaduto in primo grado; né è ugualmente ripetibile in sede di gravame, stante il decorso del suddetto termine decadenziale appena esaminato.

In ragione di ciò si giustifica la reiezione dell’appello, e si ribadisce, comunque, la giurisdizione amministrativa in sede esclusiva riguardo a simili pretese risarcitorie, atteso che la causa petendi si collega pur sempre, e non occasionalmente, al pubblico impiego e non afferisca, invece, ad un diritto patrimoniale conseguenziale, come paventato nelle censure. CC



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Inserito in data 29/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 22 marzo 2013, n. 4542

Risarcimento del danno non patrimoniale per lesione del diritto all’immagine degli enti

La sentenza ribadisce che anche nei confronti degli enti è risarcibile il danno non patrimoniale quando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione. Fra tali diritti rientra l'immagine dell'ente: pertanto, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi e dimostrato, il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali l'ente di norma interagisca.

Infatti, anche le persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, quale un Comune, possono essere lesi in quei diritti immateriali della personalità, che sono compatibili con l'assenza di fisicità, quali i diritti all'immagine, alla reputazione, all'identità storica, culturale, e politica costituzionalmente protetti ed in tale ipotesi ben possono agire per il ristoro del danno patrimoniale.

Nell'ipotesi di lesione dell'immagine della persona giuridica, il danno non patrimoniale, in quanto tale, deve essere necessariamente liquidato in via equitativa, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. CDC

 




Inserito in data 29/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 marzo 2013, n. 1833

Irrilevanza della colpa nella responsabilità aquiliana dell’amministrazione

Anzitutto, la sentenza respinge la tesi, sostenuta in primo grado, secondo la quale, nel caso si avanzi richiesta di risarcimento del danno per la mancata aggiudicazione, si è in presenza di un contatto sociale che genera una responsabilità contrattuale. Infatti, chi avanza in quest’ipotesi l’istanza di ristoro patrimoniale tutela, a ben vedere, il proprio interesse legittimo all’aggiudicazione della gara d’appalto. In questo senso, il presunto danneggiato non si duole dell’inottemperanza ad un preesistente obbligo, fondato sul rapporto tra amministrazione e cittadino e gravante in capo all’amministrazione, quanto di un comportamento consistente nello scorretto esercizio del potere amministrativo.

Occorre quindi ricondurre la questione nell’ambito della disciplina dell’illecito aquiliano, anche se con le peculiarità di regime che derivano dall’influsso del diritto dell’Unione Europea. Com’è noto, la giurisprudenza europea ha affermato l’irrilevanza dell’elemento della colpa nell’ambito della responsabilità dell’amministrazione in materia di affidamento di appalti pubblici (CGE, 30 settembre 2010, Graz Stadt). Com’è stato affermato anche da Cons Stato, 8 novembre 2012, n. 5686, ciò si fonda sul fatto che, di norma, la via del risarcimento per equivalente viene percorsa qualora risulti preclusa quella della tutela in forma specifica. Quest’ultima costituisce l'obiettivo tendenzialmente primario da perseguire e il risarcimento per equivalente costituisce invece una misura residuale, di norma subordinata all'impossibilità parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo. Attraverso il risarcimento per equivalente, quindi, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira, ossia la riedizione della gara o l'aggiudicazione definiva, può aspirare alla monetizzazione del pregiudizio subito. Se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro fosse resa impraticabile o assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di qualsiasi forma di tutela (come può accadere quando una normativa nazionale subordini il risarcimento del danno al positivo riscontro della colpa della stazione appaltante). CDC



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Inserito in data 29/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 marzo 2013, n. 1828

Non serve impugnare aggiudicazione definitiva se si contesta scelta di bandire la gara

Il Consiglio di Stato afferma l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità del ricorso, fondata sul fatto che non era stata impugnata l’aggiudicazione definitiva, ma solo quella provvisoria.

È vero che l'aggiudicazione provvisoria di una gara d'appalto, avendo natura di atto endoprocedimentale ad effetti ancora instabili e del tutto interinali, è inidonea a produrre la definitiva lesione, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva, per cui di norma l’impugnazione dell’aggiudicazione provvisoria è comunque condizionata, ai fini della sua procedibilità, alla tempestiva impugnazione con motivi aggiunti anche dell'aggiudicazione definitiva. Tuttavia, la problematica è diversa quando l’impugnazione provenga da un soggetto che contesti in radice la scelta della stazione appaltante di bandire la procedura di gara.

Nel caso in questione, infatti, l’originario ricorrente contesta non l’esito della gara, ma la possibilità stessa della gara, in quanto il bene della vita fatto valere è quello relativo alla possibilità di risultare affidatario diretto del servizio, senza gara. In questo senso il rapporto tra gli atti di indizione della gara, ritualmente impugnati, e l’aggiudicazione definitiva si pone nel senso di un rapporto di consequenzialità immediata, diretta e necessaria. L’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono da compiere nuove e ulteriori valutazioni discrezionali in merito alla scelta di affidare il servizio mediante gara pubblica. Ne consegue che non occorre impugnare gli atti di aggiudicazione ove siano impugnati quelli di indizione del procedimento di gara. Infatti, l’annullamento del bando di gara travolge il provvedimento di aggiudicazione, sicché la mancata impugnazione di quest’ultima non determina l’improcedibilità del ricorso. CDC



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Inserito in data 28/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, Sentenza 25 marzo 2013, n. 7371

La sezione disciplinare del CSM deve assumere d’ufficio nuove prove ex art. 507 cpp

Con la sentenza de qua, le Sezioni Unite verificano la legittimità della sentenza della sezione disciplinare del CSM, con cui era stata negata la responsabilità disciplinare dell’incolpato per assenza di prove.

Preliminarmente, si sottolinea l’applicabilità dell’art. 507, c.1, c.p.p. (a mente del quale “Terminata l’acquisizione delle prove, il giudice, se risulta assolutamente necessario, può disporre anche di ufficio, l’assunzione di nuovi mezzi di prova”) al procedimento disciplinare riguardante i magistrati, stante il rinvio che l’art. 18 del d.lgs. n. 106/98 fa alle norme del codice di rito. Anzi, quest’ultima disposizione sembra riconoscere alla sezione disciplinare un potere ufficioso ancora più ampio, statuendo che essa può "assumere, anche di ufficio, tutte le prove che ritiene utili", e, quindi, non richiedendo che tali prove siano assolutamente necessarie.

Le Sezioni Unite individuano la ratio della suddetta disciplina nella circostanza che “il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, così come quello penale, non soggiace alla regola dell'onere probatorio, e recepisce invece il principio della prevalenza del primato della ricerca della verità su ogni preclusione processuale” (cfr. Cass., S.U., n. 252 del 1999).

Ad avviso della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., S.U., pen., n. 41281 del 2006), il potere previsto dall’art. 507 c.p.p. sussiste pure in relazione a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto. Ciò è corroborato da svariati argomenti: a) “il nuovo codice, pur richiamandosi ad un modello processuale che fa riferimento al c.d. "processo di parti" non ha tuttavia inteso accogliere integralmente il principio dispositivo che pur caratterizza questo tipo di processo”, come risulta dall’art. 507 c.p.p.; b) si esclude che “sull'assetto codicistico abbia influito la riforma dell'art. 111 della Costituzione, che ha accentuato esclusivamente quello che costituisce il principio fondante del processo accusatorio - la formazione della prova nel contradditorio delle parti - ma nulla ha innovato sul principio dispositivo”; c) né il principio di terzietà del giudice, consacrato dalla predetta riforma costituzionale, è scalfito dall’art. 507 c.p.p., poiché questa norma è tesa solo a “salvaguardare la completezza dell'accertamento probatorio sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti”; d) “Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l'esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pubblico ministero”.

Così chiarita l’estensione del potere ex art. 507 c.p.p., la Cassazione individua un limite al suo esercizio: “Il potere del giudice dovrà comunque essere esercitato nell'ambito delle prospettazioni delle parti e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare”.

Da ultimo, si precisa che l’art. 507 c.p.p. conferisce al giudice un “potere-dovere”, essendo obbligato il giudice a disporre l’acquisizione di nuovi mezzi di prova quando ciò sia indispensabile per decidere. Conseguentemente, il giudice ha un obbligo specifico di motivare il mancato esercizio di tale potere-dovere, pena la nullità della sentenza.

Nel caso di specie, la sentenza della Sezione disciplinare si pone in violazione dell’art. 507 c.p.p. e va annullata, atteso che nel capo d’incolpazione erano indicati nel dettaglio i documenti utili a valutare la colpevolezza dell’imputato, ma il Decidente non li aveva acquisiti d’ufficio, né aveva motivato sul punto.

In conclusione, le Sezioni Unite civili formulano il seguente principio di diritto: “nel giudizio disciplinare attribuito alla sua competenza, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura può esercitare il potere di disporre d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall'art. 507 c.p.p., applicabile al giudizio disciplinare in virtù del rinvio di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto e, ove non si avvalga di tale potere, ha uno specifico obbligo di motivazione in ordine al mancato esercizio dello stesso”. TM

 

 




Inserito in data 28/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 marzo 2013, n. 1698

Le terre soggette ad usi civici sono concesse a terzi con procedure d’evidenza pubblica

La pronuncia in esame tratta, tra l’altro, la questione della disciplina applicabile agli usi civici.

“Come è noto, gli "usi civici" sono diritti reali millenari di natura collettiva, volti ad assicurare un’utilità o comunque un beneficio ai singoli appartenenti ad una collettività”. Essi spettano alle collettività, sia nel loro insieme, a ciascuno dei loro componenti singolarmente considerati.

“Essi sono disciplinati, in linea generale, dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766 … e del relativo regolamento di cui al r.d. n. 332/1928.”.

“Il legislatore, nel disciplinare la destinazione delle terre sulle quali gravano usi civici all’art. 12, II° co. della L. n.1766 cit, ha sancito, in via di principio, l’inalienabilità e l’impossibilità di mutamento di destinazione, dei terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente e -- solo in via di eccezione-- salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione (oggi di competenza della Regione in luogo del Ministero) a derogare dai predetti limiti”.

Dalla succitata norma si ricava, in primo luogo, la sostanziale riconducibilità degli usi civici al regime giuridico dei beni demaniali.

In secondo luogo, risulta che tali diritti sono esercitati dalla collettività, che ne è titolare, e dal Comune, che li amministra in nome proprio, quale ente esponenziale della collettività, sotto il controllo della Regione.

Per cui, “Quando il mutamento di destinazione “in deroga” delle terre sottoposte ad uso civico si risolve in un’attribuzione a terzi di diritti spettanti alla collettività, l’iter per il rilascio della relativa autorizzazione deve … essere necessariamente ricondotto all’ambito proprio dei procedimenti di concessione dei beni demaniali, in quanto ha l’identico effetto di privare i componenti della collettività (che ne sono i veri titolari) del beneficio, per trasferirlo a soggetti privati che richiedono l'utilizzazione imprenditoriale del terreno a fini di lucro personale per un consistente lasso di tempo”. Segnatamente, “La natura comunque “pubblica” dei diritti di uso civico comporta, in linea generale, l’applicazione dei principi di derivazione comunitaria, di concorrenza, parità di trattamento, trasparenza, non discriminazione, e proporzionalità, di cui all'articolo 1 della legge n. 241 del 1990 e s.m.i, i quali non solo si applicano direttamente nel nostro ordinamento, ma debbono informare il comportamento della P.A., anche quando, come nel caso di concessioni di diritti su beni pubblici, non vi è una specifica norma che preveda la procedura dell'evidenza pubblica“.

Di conseguenza, “l’interpretazione costituzionalmente orientata ai cardini di cui all’art. 97 Cost. impone che le procedure concernenti le richieste di autorizzazione al mutamento di destinazione debbano anche rispettare le regole di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, e s.m.i. ed in particolare i principi generali:

-- del contraddittorio, di informazione e di partecipazione pubblica…;

-- di trasparenza, pubblicità ed imparzialità….

Sotto altro profilo poi, …quando… la richiesta di mutamento di destinazione comporti una rilevante e permanente alterazione dello stato dei luoghi non è escluso che -- a maggior garanzia dell’eventuale ripristino dei luoghi e del rispetto delle regole per la definizione dei rapporti giuridici successivi alla scadenza del periodo tra affidatari e collettività -- il beneficiario dell’autorizzazione per lo sfruttamento “in deroga” ex art. 12 della L. n.1766 di terreni gravati da usi civici possa essere individuato attraverso l’esperimento di una procedura di "project financing", ex art. 153, del d.lgs. 12/04/2006, n. 163 e s.m.i.( “ Codice dei contratti”)”.

L’onere della procedura ad evidenza pubblica, in una delle due forme ora ricordate, dovrà fare capo al Comune che amministra gli usi civici. Successivamente, si svolgerà una fase integrativa dell’efficacia del provvedimento comunale, costituita dal controllo della Regione, relativamente all’ “an” (rispetto della disciplina regionale in materia di usi civici), al “quid” (la nuova destinazione deve rappresentare un reale beneficio, non necessariamente economico, per la collettività) ed al “quomodo” (legittimità del procedimento svolto dal comune, veridicità e congruità degli elementi allegati a dimostrazione dell’utilità effettiva, fissazione di un termine di scadenza dell’autorizzazione al mutamento di destinazione, garanzie concrete di restituzione e di ripristino dei terreni concessi, indicazione delle nuove finalità cui destinare i terreni al momento della scadenza della deroga in caso di impossibilità di ripristinare la destinazione originaria).

Pertanto, dall’esame della disciplina applicabile agli usi civici e contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti emerge che, nella fattispecie esaminata, la Regione aveva legittimamente negato l’autorizzazione all’eliminazione del vincolo di uso civico e, conseguentemente, alla costruzione e all'esercizio di un impianto da fonte eolica, stante il mancato preventivo espletamento di una procedura di evidenza pubblica per l’assegnazione dell’area. TM



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Inserito in data 27/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 marzo 2013, n. 1654

Legittimo il ticket sui medicinali di classe A surrogabili con medicinali più economici

La Terza Sezione del Consiglio di Stato sancisce la legittimità dei provvedimenti regionali impositivi di ticket con riguardo ai farmaci collocati in classe “A” nel prontuario farmaceutico e, quindi, definiti come essenziali per malattie croniche.

Sullo sfondo s’intravede lo scontro tra il principio secondo cui l’erogazione dei farmaci rientra nei livelli essenziali di assistenza LEA), da assicurarsi in condizioni di uguaglianza su tutto il territorio nazionale (Corte cost., sentenza n. 271/11.4.2008 ), e l’esigenza di contenimento della spesa sanitaria regionale.

A sostegno della tesi del Consiglio di Stato milita: 1) “L’art. 4, comma 3, lett. a) del D.L. n. 347/2001 ha conferito alle Regioni il potere-dovere di coprire gli eventuali disavanzi di gestione mediante l’introduzione di “misure di compartecipazione alla spesa sanitaria”, senza individuare alcuna eccezione a tale possibilità, fondata sulla particolare classificazione dei farmaci”; 2) l’art. 6, c. 1, del medesimo decreto legge, che attribuisce alla Commissione unica del farmaco il potere di selezionare “i farmaci che, in relazione al loro ruolo non essenziale, alla presenza fra i medicinali concedibili di prodotti aventi attività terapeutica sovrapponibile secondo il criterio delle categorie terapeutiche omogenee, possono essere totalmente o parzialmente esclusi dalla rimborsabilità”; 3) l’art. 6, c. 2, del d.l. n. 347/01 che recita “la totale o parziale esclusione della rimborsabilità dei farmaci di cui al comma 1 è disposta, anche con provvedimento amministrativo della Regione, tenuto conto dell’andamento della propria spesa farmaceutica rispetto al tetto di spesa programmato”.

Ad avviso del Consiglio di Stato, nell’art. 6 predetto, il legislatore ha inteso riferirsi ai farmaci di categoria A, così da escludere la loro piena rimborsabilità laddove essi non assumano in concreto un ruolo essenziale perché sovrapponibili per efficacia terapeutica a medicinali di minor prezzo.

In conclusione, “Un tale quadro normativo rende, quindi, evidente che il legislatore nazionale non esclude che, nell’ambito dei LEA, che pure hanno una generale finalizzazione di tipo egualitario, una Regione possa differenziare per il suo territorio il livello di rimborsabilità dei farmaci, purché la eventuale determinazione amministrativa regionale sia preceduta dal procedimento individuato nel primo comma dell’art. 6 del decreto-legge n. 347 del 2001 e la Regione operi al fine del contenimento della propria spesa farmaceutica.”. TM



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Inserito in data 27/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 marzo 2013, n. 1675

È inammissibile il ricorso in ottemperanza di una pronuncia di rigetto

Il Supremo Consesso amministrativo ribadisce l’inammissibilità del ricorso in ottemperanza delle pronunce di rigetto.

Secondo l’orientamento pacifico del Consiglio di Stato, “il ricorso per l’esecuzione del giudicato […] non è utilizzabile per l’esecuzione delle pronunce di rigetto, anche in mancanza di un’espressa regola che circoscriva l’ottemperanza alle sole decisioni di accoglimento”.

“E’ stato, infatti, chiarito, a tale riguardo, che, relativamente alle decisioni del giudice amministrativo, sono le statuizioni preordinate ad una pronuncia di accoglimento a far nascere per l’amministrazione destinataria un obbligo di ottemperanza, che può dirsi adempiuto solo se vengono posti in essere atti completamente sattisfattivi rispetto a quelle statuizioni.

Viceversa, la pronunce di rigetto lasciano invariato l’assetto giuridico dei rapporti precedente alla radicazione del giudizio, rimanendo indifferente che la sentenza di rigetto sia stata pronunciata in primo grado ovvero in appello, con una sentenza di riforma della pronuncia di accoglimento emessa dal primo giudice”.

Peraltro, “non assume rilievo, in senso contrario, il principio desumibile dall’articolo 336, comma 2, cod. proc. civ. secondo cui “la riforma o la cassazione della sentenza estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti dalla sentenza riformata o cassata”, in quanto la disposizione […] riguarda i provvedimenti e gli atti del giudice e comunque non fornisce alcuna indicazione riguardante le modalità attraverso le quali far valere gli effetti della riforma sui provvedimenti amministrativi (ovvero sugli adempimenti di obbligazioni pecuniarie), posti in essere in esecuzione della sentenza di primo grado”.

Al fine di comprendere come e quando possa porsi un problema di ottemperanza ad una pronuncia di rigetto, è opportuno riportare, schematicamente, la vicenda processuale da cui è scaturita la pronuncia in epigrafe: in primo grado il Tribunale amministrativo aveva condannato l’Amministrazione al pagamento di una certa somma di denaro in favore dei ricorrenti; tale decisione era stata riformata dal Consiglio di Stato, con conseguente obbligo di restituzione delle somme percepite dai ricorrenti in esecuzione della prima sentenza; in attuazione del giudicato, l’Amministrazione aveva ripetuto oltre al capitale, anche gli interessi; ì gli originari ricorrenti avevano, perciò, proposto nuovamente ricorso, lamentando la violazione del giudicato, atteso che nella sentenza del Consiglio di Stato non si parlava di interessi. TM



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Inserito in data 26/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 marzo 2013, n. 1633

Valutazione congruità offerta: il costo tabellare del lavoro non è un limite inderogabile

I valori del costo del lavoro risultanti dalle tabelle ministeriali non costituiscono un limite inderogabile, ma semplicemente un parametro di valutazione della congruità dell’offerta sotto tale profilo, ai sensi dell’art. 86 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163: di modo che l’eventuale scostamento da tali parametri delle relative voci di costo non legittima ex se un giudizio di anomalia, potendo essere accettato quando risulti puntualmente (e rigorosamente) giustificato ... Del pari consolidato è l’indirizzo secondo cui la verifica di anomalia dell’offerta deve avere a oggetto la congruità dell’offerta economica non con riferimento a ciascuna singola voce di essa, ma nella sua interezza e globalità, servendo le giustificazioni dell’impresa, e il contraddittorio che su di esse s’instaura ai sensi del citato art. 86, ad accertare l’effettiva sostenibilità e affidabilità dell’offerta nel suo complesso.

Tutto ciò premesso, risulta dagli atti che l’accoglimento delle giustificazioni presentate ... è stato determinato dall’avere la stazione appaltante acclarato che non vi era stata, nella specie, alcuna omissione del necessario calcolo delle ore di assenza del personale per ferie e per riposo festivo, in quanto di tali ore si era tenuto conto in altra parte dell’offerta economica, e segnatamente sotto la voce “costi differiti”, dunque portando in detrazione le ore de quibus in sede di detrazione dei costi rispetto al monte ore computato con riferimento al valore medio sopra indicato: siffatta particolare formulazione dell’offerta, tale da comportare all’esito – come già evidenziato – un forte ridimensionamento dell’apparente scostamento rispetto alle tabelle ministeriali, era dovuta alle specificità del rapporto d’impiego del personale di vigilanza, tale da contemplare tempi e modalità di prestazioni di lavoro (turni festivi, orario notturno etc.) che impongono una peculiare modulazione della fruizione dei riposi e delle ferie. Detta circostanza non implica ex se un’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione, atteso che certamente non sono previsti particolari moduli o formulari che i concorrenti siano necessariamente tenuti a rispettare per l’indicazione dei costi del lavoro, ovvero per l’esposizione delle giustificazioni ex art. 86, d.lgs. n. 163/2006 su questa come su altre voci dell’offerta economica, e ciò che conta è unicamente che alla stazione appaltante siano rappresentati in modo chiaro ed esaustivo tutti gli elementi dell’offerta medesima, in modo da fugare ragionevolmente gli eventuali sospetti di anomalia (e ferma restando l’impossibilità che in sede di giustificazioni tali elementi siano “corretti” o alterati, ciò che peraltro non è stato lamentato nel presente giudizio). FT



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Inserito in data 26/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 marzo 2013, n. 1633

Art 38 co 1 let g dlgs 163/06: le irregolarità fiscali non determinano sempre esclusione

L’esame della documentazione relativa alla verifica del possesso dei requisiti dichiarati dalla aggiudicataria, eseguita dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 11, comma 8, del d.lgs. n. 163 del 2006 avrebbe fatto emergere il mancato possesso ... del requisito soggettivo di cui all’art. 38, comma 1, lettera g), del medesimo decreto, a causa di due irregolarità fiscali a carico della predetta società ... Tuttavia, la Sezione ritiene che l’appellata ... abbia adeguatamente dimostrato (dapprima alla stazione appaltante, e quindi nella presente sede giurisdizionale) che le dette situazioni non sono tali da integrare la causa di esclusione di cui alla precitata lettera g) del comma 1 dell’art. 38, non trattandosi di “violazioni definitivamente accertate” alle norme fiscali.

Ed invero, con riguardo alla prima delle due cartelle suindicate risulta che già in epoca anteriore alla presentazione della domanda di partecipazione alla gara per cui è causa ... ne aveva ottenuto in parte lo sgravio, essendone stata accertata la non debenza, e in parte la rateizzazione, con provvedimento dell’Agenzia delle Entrate ... Sul punto, la Sezione ritiene di non doversi discostare dal prevalente indirizzo giurisprudenziale secondo cui la presenza di provvedimenti del fisco di rateizzazione dei debiti tributari, purché anteriore alla presentazione dell’offerta, determina una sostanziale novazione dell’obbligazione tributaria, in modo da escludere che possa trattarsi di violazione “definitivamente accertata” ... Quanto alla seconda delle due pretese irregolarità innanzi richiamate, risulta per tabulas che la cartella di pagamento, pervenuta all’impresa in corso di gara, è stata tempestivamente impugnata e cautelarmente sospesa: ciò che già di per sé consente di escludere che la stessa potesse qualificarsi come riferita a violazione definitivamente accertata ... Inoltre, è documentato che con provvedimento ... anteriore alla stipulazione del contratto di appalto, l’impresa ha ottenuto lo sgravio totale del debito de quo, è cioè il riconoscimento della sua non debenza: di modo che può richiamarsi l’orientamento per cui, anche in chiave di corretta applicazione delle regole comunitarie in subiecta materia, deve escludersi la rilevanza di situazioni di irregolarità le quali, non dichiarate perché non note al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara, siano sopravvenute nel corso di essa e siano state rimosse prima della sua conclusione con la sottoscrizione del contratto. FT



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Inserito in data 26/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 marzo 2013, n. 1609

Sanzioni disciplinari e valutazioni ingiustificatamente peggiorative: non è mobbing

Per aversi mobbing è richiesto l’azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica e frequente, posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi ( Cass. Sezione lavoro n.4774/2006; Trib. Roma 7marzo 2008 n.69). Di contro non si ravvisano gli estremi del mobbing nell’accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell’ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro.

Se quelli testè esposti sono rispettivamente i parametri del mobbing e la linea di demarcazione della nozione giuridica di siffatto fenomeno, nella fattispecie è da escludere che nei confronti dell’appellante sia sta posta in essere da parte dell’Amministrazione penitenziaria , quale datrice di lavoro, provvedimenti, atti e/o comportamenti di tipo mobizzante. Indubbiamente la sig.ra C. è stata destinataria di una serie di provvedimenti che hanno inciso negativamente sulle sue posizioni giuridiche soggettive e alcuni dei quali il Tar ha correttamente censurato come illegittimi, ma tutto ciò non vale a far configurare la sussistenza di una condotta di mobbing suscettibile di una pretesa risarcitoria. Invero, i provvedimenti recanti sanzioni disciplinari e l’attribuzione di una valutazione in sede di rapporto informativo ingiustificatamente peggiorativa , non rivelano alcun indizio sintomatico del mobbing e cioè l’esistenza di un atteggiamento sistematicamente persecutorio o vessatorio a nulla rilevando che l’interessata abbia avuto un aspecifica “ percezione “che tali vicende manifestino l’ intento dell’Amministrazione di emarginarla ed essendo gli episodi sottesi ai provvedimenti adottati a suo carico unicamente riconducibili al clima di conflittualità esistente tra il personale di custodia all’interno della struttura carceraria. Ne deriva cha alcun fondamento può rivestire la richiesta di risarcimento del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniali sotto le varie forme di danno avanzata dall’interessata : se mobbing non sussiste, parimenti non vi può essere danno ( risarcibile ) da mobbing, sotto nessuna delle voci di danno dedotte in giudizio, per l’assenza materiale e giuridica del titolo cui far scaturire l’invocato ristoro. FT



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Inserito in data 26/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 marzo 2013, n. 1605

Annullamento in autotutela: onere di motivazione e insufficienza clausole di stile

Parte appellante deduce la sussistenza a carico dell’atto impugnato del vizio di violazione dei principi che regolano l’esercizio del potere di autotutela con riferimento alla insufficiente motivazione resa in ordine alla sussistenza dell’ interesse pubblico all’annullamento Per costante orientamento giurisprudenziale , l’annullamento d’ufficio è il risultato di un’attività discrezionale dell’Amministrazione e non deriva in via automatica dall’accertata originaria illegittimità dell’atto essendo altresì necessaria una congrua motivazione in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico alla reintegrazione del preesistente stato di legalità. In particolare, la giurisprudenza amministrativa è assolutamente granitica nel precisare che l’interesse alla reintegrazione dell’ordine pubblico deve essere specificato e dimensionato in relazione alle esigenze concrete ed attuali, avuto riguardo anche gli interessi privati che militano in senso opposto , senza peraltro ricorrere in sede di motivazione a clausole di stile (ex multis, Cons. Stato VI 17 febbraio 2006 n.671 ). Ebbene, non pare che il provvedimento di autotutela qui in discussione sia rispettoso dei parametri giurisprudenziali sopra ricordati, se è vero che nella parte narrativa dell’atto si fa lapidariamente accenno alla necessaria prevalenza, nella valutazione comparativa, dell’interesse pubblico alla conservazione dello stato dei luoghi, nel che è ravvisabile una semplicistica formula stereotipa. Ora che nella specie a carico dell’amministrazione vi fosse un ben più pregnante onere di motivazione, non adeguatamente assolto dall’utilizzo di una clausola di stile apposta a sostegno della determinazione assunta, è un dato agevolmente rilevabile dalla circostanza per cui l’annullamento viene adottato a distanza di oltre otto anni dal rilascio dell’autorizzazione al restauro rilasciata in favore del sig. Viola senza che sia stata presa in considerazione la posizione del beneficiario del titolo ad aedificandum in questione. L’assenza di una idonea motivazione conforme ai principi ripetutamente sanciti dalla giurisprudenza rende invalido l’atto di annullamento d’ufficio qui in contestazione fatta salva, s’intende, l’adozione da parte dell’intimato Comune di ogni ulteriore provvedimento. FT



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Inserito in data 25/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 marzo 2013, n. 1603

Decreto di esproprio tardivo: inapplicabile rito accelerato a domanda risarcitoria

Si ritiene ... che prevalenti ragioni sistematiche inducano ad escludere l'applicazione del rito accelerato di cui all'art. 23bis, l. T.A.R. quante volte (come nel caso di specie) non venga in contestazione in sede giudiziaria la legittimità in se del provvedimento di acquisizione [coattiva sanante disciplinata dall’art. 43 d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327], quanto piuttosto (e in modo esclusivo) i connessi profili risarcitori ... Una volta chiarito che la controversia in questione riguarda unicamente i profili risarcitori connessi alla illegittima occupazione del fondo e alla successiva adozione del decreto , si ritiene che la questione possa essere risolta facendo applicazione del consolidato orientamento secondo cui il giudizio risarcitorio non rientra tra quelli tassativamente enumerati al comma 1 dell'art. 23 bis, l. 6 dicembre 1971, n. 1034, le cui disposizioni acceleratorie, nella misura in cui derogano incisivamente all'ordinario regime processuale, devono essere considerate di stretta interpretazione e non possono perciò essere applicate estensivamente al di fuori delle ipotesi specificamente individuate dal legislatore, solo per queste ultime sussistendo, secondo il suo discrezionale e non irragionevole giudizio, speciali esigenze, in ragione degli interessi pubblici coinvolti, di contenimento dei tempi dell'azione giudiziaria ... Concorre peraltro a rafforzare il convincimento che la censura sia infondata la disamina delle disposizioni processuali che governano il giudizio di ottemperanza. Si rammenta in proposito che per espressa previsione del cpa i termini dei giudizi di ottemperanza sono dimezzati ai sensi dell'art. 87, comma 2 lett. d e 3, c.p.a. Né detti términi possono ritenersi ulteriormente dimezzabili per effetto della disposizione dell'art. 119, comma 2, c.p.a. (anche laddove si volesse ritenere che la controversia de qua rientri nel novero dei giudizi indicati al relativo comma 1), giacché la citata norma, laddove prevede il dimezzamento di "tutti i termini processuali ordinari", fa appunto riferimento ai termini del rito ordinario e non anche a quelli previsti per i riti speciali (cui è riconducibile il giudizio di ottemperanza), sì che non è ad avviso del Collegio ipotizzabile, per effetto del combinato disposto delle indicate norme, un ulteriore dimezzamento dei già dimezzati termini dell'ottemperanza sol perché si rientra in una delle materie indicate al comma 1 dell'art. 119; del resto, sia il "rito abbreviato" di cui all'art. 119 che il "giudizio di ottemperanza" di cui all'art. 112 e ss. c.p.a. sono disciplinati al Libro quarto del Codice del processo amministrativo e la previsione del dimezzamento dei termini ordinari recata dal citato art. 119 (che ha di per sé carattere eccezionale ed è perciò di stretta interpretazione), non può intendersi riferita ad un rito già speciale (quale quello di ottemperanza) la cui specifica disciplina già risponde alla finalità specifica di accelerazione del processo, propria di alcuni riti speciali, che un tale dimezzamento persegue. FT



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Inserito in data 25/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 marzo 2013, n. 1603

Decreto di esproprio tardivo: applicabile l’art. 42 bis T.U. n. 327/2001

Risulta inammissibile ... e comunque infondata nel merito la tesi ... dell’amministrazione, secondo cui, a cagione della circostanza che si era comunque al cospetto di un decreto di esproprio (seppur asseritamente tardivo) il Tar non avrebbe potuto fare applicazione del disposto di cui all’art. 42 bis del TU n. 327/2001 onerando l’Amministrazione ad emettere un provvedimento di acquisizione sanante. Al contrario, proprio la constatata tardività dello stesso ... legittima l’applicazione della disposizione di cui all’art. 42 bis citato ... Ciò in quanto (e l’affermazione costituisce anche il presupposto dell’attribuzione della giurisdizione al plesso amministrativo in ipotesi di decreto di esproprio tardivo) “rispetto al diritto reale vantato dal proprietario, nel caso in cui il decreto di esproprio è mancante o tardivo perché emesso dopo la scadenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità, si è in presenza di un potere validamente sorto ma, in relazione alla sua struttura essenzialmente di durata, colpito da nullità sopravvenuta che va a sanzionare ex nunc una disfunzione dell'andamento amministrativo per il suo cattivo esercizio, non essendo stati rispettati i termini e operando dunque essa inefficacia sugli effetti futuri o meglio sulla operatività dei suoi presupposti -vincolo urbanistico e/o dichiarazione di p.u.- : in altri termini, la nullità "funziona" soltanto come nell'inefficacia originaria, ma con il limite dell'interesse tutelato e dei relativi meccanismi di consolidazione.”(Cons. Stato Sez. IV Sent., 19-12-2007, n. 6560). L’accertamento contenuto nella sentenza ottemperanda della tardività del decreto di esproprio implica senz’altro la possibilità che il primo giudice potesse applicare l’art. 42 bis, il cui primo comma è inequivoco nello stabilire che la disposizione trova applicazione in assenza di valido ed efficace provvedimento di esproprio, mentre l’ultimo comma espressamente vi ricomprende i fatti occupativi pregressi all’entrata in vigore del medesimo. FT



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Inserito in data 25/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 marzo 2013, n. 46

Gare evidenza pubblica: legittimo uso come parametro per valutare virtuosità enti

Innanzitutto, in relazione alla violazione degli artt. 117, comma secondo, lettera e), e 118 Cost., sembra opportuno premettere alcune considerazioni di massima, estensibili anche alle censure mosse dalla ricorrente Regione al successivo comma 4 del medesimo art. 3-bis del d.l. n. 138 del 2011 per violazione dell’autonomia finanziaria regionale, di cui all’art. 119 Cost. L’intervento normativo statale, con il d.l. n. 1 del 2012, si prefigge la finalità di operare, attraverso la tutela della concorrenza (liberalizzazione), un contenimento della spesa pubblica. Per quello che qui interessa, con la norma impugnata, il legislatore statale ritiene che tale scopo si realizzi attraverso l’affidamento dei servizi pubblici locali al meccanismo delle gare ad evidenza pubblica, individuato come quello che dovrebbe comportare un risparmio dei costi ed una migliore efficienza nella gestione. Da qui l’opzione – in coerenza con la normativa comunitaria – di promuovere l’affidamento dei servizi pubblici locali a terzi e/o a società miste pubblico/private e di contenere il fenomeno delle società in house. Le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, secondo consolidata giurisprudenza della Corte, attengono alla materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale, tenuto conto della sua diretta incidenza sul mercato e «perché strettamente funzionale alla gestione unitaria del servizio» (ex plurimis:sentenze n. 62 e n. 32 del 2012; n. 339, n. 320, n. 187 e n. 128 del 2011; n. 325 e n. 142 del 2010; n. 246 e n. 148 del 2009). Peraltro, per pervenire a questo obiettivo, il legislatore si è trovato di fronte al problema di coordinare la competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» con le competenze concorrenti regionali. Da qui l’opzione, già sperimentata in altri contesti, di utilizzare una tecnica «premiale», dividendo gli enti pubblici territoriali in due classi, secondo un giudizio di “virtuosità” ai sensi dell’art. 20, commi 2 e 2-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, «sulla base della valutazione ponderata» di parametri di virtuosità, ai fini del rispetto del Patto di stabilità (sentenza n. 8 del 2013).

Nel caso di specie, «l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi ad evidenza pubblica da parte di regioni, province e comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino», previsto dalla disposizione impugnata, è stato inserito dal legislatore statale – quale ulteriore elemento di valutazione di “virtuosità” degli enti che ad esso si adeguano, al fine di consentire a questi ultimi di sottostare a vincoli finanziari meno pesanti rispetto agli altri enti – tra quelli già previsti dal citato art. 20, comma 2, del d.l. n. 98 del 2011. Secondo questa tecnica, dunque, riguardo al tema in esame, risultano più virtuosi gli enti che si conformano alle indicazioni del legislatore statale (indicazioni fornite in virtù della competenza esclusiva in materia di concorrenza) nell’affidamento dei servizi pubblici locali tramite gare ad evidenza pubblica. Questa tecnica ha, in generale, il pregio di non privare le Regioni e gli altri enti territoriali delle loro competenze e di limitarsi a valutare il loro esercizio ai fini dell’attribuzione del «premio», ovvero della coerenza o meno alle indicazioni del legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di concorrenza. Infatti, «grazie alla tecnica normativa prescelta i principi di liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitano ad esercitare le proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche». Ne consegue, dunque, che le Regioni «non risultano menomate nelle, né tantomeno private delle, competenze legislative e amministrative loro spettanti, ma sono orientate ad esercitarle in base ai principi indicati dal legislatore statale, che ha agito nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia della concorrenza» (sempre sentenza n. 8 del 2013). FT



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Inserito in data 25/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 marzo 2013, n. 46

Società in house: modalità assoggettamento a Patto di stabilità definibili con D.M.

Per la difesa regionale, anche il comma 5 dell’art. 3-bis, così come inserito nel d.l. n. 138 del 2011 [articolo 25, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 1 del 2012, quale convertito dalla legge n. 27 del 2012], stabilendo l’assoggettamento delle società affidatarie in house al Patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112 del 2008, violerebbe l’art. 117, commi terzo e sesto, Cost. (...) Se il comma 5 dell’art. 3-bis , norma in esame, si leggesse nel senso che lo Stato avesse previsto l’utilizzazione della sua potestà regolamentare (e non quella legislativa) per assoggettare le società affidatarie in house al Patto di stabilità interno o avesse previsto, come nel precedente giurisprudenziale sopra richiamato, l’uso dello strumento regolamentare per intervenire nella suddetta materia, dovrebbe concludersi per la fondatezza della questione. Ma non è questa la corretta interpretazione da attribuire alla disposizione impugnata. (...) [Nella sentenza n. 325 del 2010] esclusa, quindi, qualunque possibile violazione della disciplina comunitaria, che potesse venire a vulnerare il comma primo dell’art. 117 Cost., questa Corte inquadra la disposizione nell’ambito della materia, di competenza concorrente, del «coordinamento della finanza pubblica» e, poiché il comma 10 del più volte citato art. 23-bis prevedeva che il Governo, su proposta del Ministro per i rapporti con le regioni e sentita la Conferenza unificata, adottasse «uno o più regolamenti, ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, al fine di: a) prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari cosiddetti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», ha sancito l’illegittimità costituzionale di quest’ultimo periodo. Infatti la disposizione legislativa, prevedendo l’adozione, da parte del Governo, di un atto regolamentare in una materia di legislazione concorrente violava il comma sesto dell’art. 117 Cost. Ma, ed è questa l’erronea prospettazione della ricorrente, con la citata sentenza non si è certo affermato che, in mancanza del previsto regolamento, le società in house non fossero assoggettate al patto di stabilità interno (...). Chiariti, quindi, il percorso motivazionale della sentenza n. 325 del 2010 e la portata della declaratoria di illegittimità costituzionale in essa contenuta, occorre valutare se analogo vizio è riscontrabile nella disposizione legislativa attualmente impugnata (...) Al riguardo, il punto di partenza della ricorrente (cioè che con tale disposizione si è prevista la sottoposizione delle società in house al patto di stabilità interno) è esatto, ma sono errate le conclusioni. Con tale disposizione si è, infatti, reso legislativamente esplicito un adempimento di origine comunitaria rientrante in quei contenuti minimi non derogabili cui fa riferimento la sentenza n. 325 del 2010 e proprio la mancata estensione ad essa della pronuncia di illegittimità di parte del comma 10 dell’art. 23-bis dimostra che questa Corte, già dalla citata sentenza, ha ben differenziato tra l’assoggettamento delle società in house al patto di stabilità interno, che era fuori dal giudizio, e gli strumenti per renderlo normativamente o amministrativamente più facilmente gestibile che costituivano, invece, l’oggetto della pronuncia. È a tali strumenti, o, per meglio dire, alla loro natura, che occorre fare riferimento, dato che la materia cui le due disposizioni legislative attengono è la stessa, vale a dire quella del «coordinamento della finanza pubblica» di cui al comma terzo dell’art. 117 Cost., nella quale lo Stato non può ricorrere alla potestà regolamentare. Nel comma 10 dell’art. 23-bis si prevedeva il ricorso, da parte del Governo, ad uno o più regolamenti di cui all’art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1988, cioè ad un atto di normazione secondaria generale ed astratto, idoneo a determinare, nel rispetto dei principi che regolano la gerarchia delle fonti di produzione del diritto, innovazioni nella materia. Invece, nella disciplina legislativa attualmente impugnata ed in quella cui questa fa riferimento si prevede il ricorso ad un decreto ministeriale che, per quello che costituisce il suo oggetto, ha la natura di atto non regolamentare. Mentre, difatti, nel comma 10 dell’art. 23-bis si precisava che il regolamento avrebbe avuto come oggetto quello di «prevedere l’assoggettamento dei soggetti affidatari così detti in house di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno», con possibilità, quindi, di dettare regole che disciplinassero anche nel merito questo assoggettamento o che, in ogni caso, potessero, nel limite del rispetto di quanto contenuto nella legge che lo prevedeva, determinare innovazioni normative, nella disposizione legislativa cui rinvia il censurato comma 5 dell’art. 3-bis è previsto che il decreto ministeriale definisca esclusivamente le «modalità e la modulistica» dell’assoggettamento al patto di stabilità. Si tratta, quindi, di un atto che non ha contenuti normativi, ma che adempie esclusivamente ad un compito di coordinamento tecnico, volto ad assicurare l’uniformità degli atti contabili in tutto il territorio nazionale. (...) Con la norma impugnata, pertanto, il legislatore statale non ha oltrepassato i limiti posti dall’art. 117, comma terzo, Cost., né è venuto a ledere la competenza regolamentare della Regione, di cui al comma sesto dell’art. 117 Cost. FT



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Inserito in data 22/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 marzo 2013, n. 1625

Il dolo revocatorio deve essere tale da aver leso il diritto di difesa della controparte

Anche nel processo amministrativo, il dolo di una delle parti in causa in danno dell'altra costituisce causa di revocazione della sentenza solo ove il comportamento della parte e dei suoi difensori sia così fraudolento da precludere al giudice l'accertamento corretto dei fatti allegati, configurando una situazione diversa da quella reale. Pertanto, non sono ricompresi in questa situazione “l'omessa allegazione di circostanze o documenti utili alla difesa avversaria, la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti”. Si tratta, infatti, di comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, i quali, però, non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità. Il dolo che dà luogo a revocazione, quindi, deve essere tale da aver leso o comunque gravemente compromesso il diritto di difesa dell’altra parte.

Comunque, non può esserci revocazione quando il comportamento asseritamente doloso della parte poteva desumersi dalla stessa lettura della sentenza di primo grado e doveva quindi essere fatto valere come motivo di appello. CDC



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Inserito in data 22/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 marzo 2013, n. 1627

Dare prevalenza alle espressioni letterali nell'interpretazione di clausole del bando

Nell’interpretazione delle clausole del bando per l’aggiudicazione di un contratto d’appalto, laddove tali clausole abbiano un senso inequivocabile, deve darsi prevalenza alle espressioni letterali in esse contenute, escludendo ogni procedimento ermeneutico in funzione integrativa diretto ad evidenziare pretesi significati e ad ingenerare incertezze nell’applicazione.

Nel caso, il tenore letterale della lex specialis, chiaro e inequivocabile, impone una lettura del bando tale da richiedere la sussistenza di una sede operativa, da parte dell’impresa concorrente, in Aosta, al momento di presentazione dell’offerta, e non già il mero impegno a porre tale sede in Aosta.

Tale lettura del bando è ancor più necessitata, sul piano logico, dalla considerazione che non avrebbe ragionevole significato e sarebbe anzi fonte di insindacabile arbitrio in sede di attribuzione del punteggio tecnico valutare non una situazione di fatto già esistente, ma l’impegno a realizzare tale situazione, preferendo una mera intenzione o un generico impegno ad un dato di fatto oggettivamente accertabile già al momento della valutazione dell’offerta.

Un simile ipotetico criterio di valutazione, oltre ad essere irragionevole ed arbitrario, porrebbe la stazione appaltante nell’impossibilità di verificare ex ante la serietà e la realizzabilità dell’impegno, sicché essa potrebbe sanzionare soltanto ex post il mancato rispetto di quest’obbligo, con la revoca o la decadenza dell’aggiudicazione. CDC



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Inserito in data 22/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE CIVILE, 18 marzo 2013, n. 6734

Sulla sproporzione fra le prestazioni nella revocatoria fallimentare

La sentenza si occupa della sproporzione fra le prestazioni, che costituisce presupposto dell'azione revocatoria fallimentare di cui all'art. 67, primo comma, n.1, legge fallim.

La ratio della revocatoria consiste nel ricostituire non solo il patrimonio del debitore, ma anche la par condicio creditorum. In questo contesto, la sproporzione fra le prestazioni dedotte in contratto rileva quale prova della partecipatio fraudis del terzo, a prescindere dal danno effettivamente procurato al patrimonio del fallito. Pertanto, sono irrilevanti, ai fini della valutazione dei presupposti della revocatoria, gli eventuali vizi della cosa venduta non dedotti in contratto, in quanto inidonei ad escludere la partecipatio fraudis.

Si precisa, inoltre, che la sproporzione delle prestazioni va valutata ex ante, con riferimento al momento della conclusione del contratto e non ex post, al momento della revocatoria. CDC




Inserito in data 21/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 marzo 2013, n. 1576

Il decreto di estradizione è atto di alta amministrazione e, perciò, sindacabile dal GA

Il Consiglio di Stato s’interroga sulla natura del decreto di estradizione e, conseguentemente, sulle forme di tutela concesse al privato che ne sia destinatario.

Ad avviso del Supremo Consesso amministrativo, “il provvedimento con il quale il Ministro della Giustizia […] concede l’estradizione è un provvedimento di alta amministrazione, come tale caratterizzato da ampia discrezionalità, ma non sottratto al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute dall’autorità politico-amministrativa in ordine alla concessione “in concreto” dell’estradizione”.

In particolare, “il Ministro della Giustizia, preso atto delle determinazioni dell’autorità giudiziaria in ordine alle condizioni legittimanti l’estradizione, è tenuto a valutare, nell’esercizio del suo potere latamente discrezionale, quali siano in concreto le condizioni dell’estradando, anche in considerazione del reato per il quale l’estradizione viene richiesta, le condizioni soggettive dell’interessato (in particolare, il suo stato di salute), la quantità e qualità della pena che, in caso di condanna, verrebbe concretamente erogata, a fronte di quanto già scontato in Italia dall’interessato”.

“In definitiva, la valutazione del Ministro della Giustizia, lungi dall’ancorarsi a mere considerazioni di “opportunità politica”, deve conseguire a parametri oggettivi (quali quelli sopra indicati), da verificare nel caso sul quale occorre provvedere”.

Nel caso in esame, il decreto di estradizione è illegittimo e va annullato, poiché il Ministro della Giustizia non ha tenuto conto di alcuni elementi ostativi alla sua concessione, ossia: l’impossibilità di sottoporre negli U.S.A. l’estradando agli arresti domiciliari disposti dal Giudice italiano a causa delle sue condizioni di salute (bene costituzionalmente tutelato ex art. 3 Cost.), atteso che il sistema giudiziario statunitense non prevede tale beneficio; l’impossibilità di sottrarre il periodo scontato agli arresti domiciliari in Italia dalla pena inflitta in caso di condanna definitiva (con conseguente temporanea incisione della liberta personale priva di giustificazione, in violazione dell’art. 13 Cost.), stante la diversità della disciplina vigente negli Stati Uniti rispetto a quella italiana. TM

 

 




Inserito in data 21/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 15 marzo 2013, n. 39

L’intesa è costituzionalmente imposta nei casi d’intreccio tra funzioni statali e regionali

Il Giudice delle Leggi accoglie i ricorsi presentati da alcune Regioni con cui si lamentava l’illegittimità costituzionale dell’art. 61 c.3 del d.l. n. 5/2012. La norma impugnata dispone che, fatta salva la competenza legislativa esclusiva delle Regioni, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa richiesta con una o più Regioni per l’adozione di un atto amministrativo da parte dello Stato, il Consiglio dei ministri – ove ricorrano gravi esigenze di tutela della sicurezza, della salute, dell’ambiente o dei beni culturali o si debba evitare un grave danno all’Erario – può, nel rispetto del principio di leale collaborazione, deliberare motivatamente l’atto medesimo, anche senza l’assenso delle Regioni interessate, nei sessanta giorni successivi alla scadenza del termine per la sua adozione da parte dell’organo competente. Poi, l’art. 61, c.4 del d.l. n. 5 del 2012 stabilisce che la disciplina predetta non si applica «alle intese previste dalle leggi costituzionali, alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano».

Secondo la giurisprudenza costante della Corte costituzionale, nelle ipotesi in cui è prescritta un’intesa in senso forte tra Stato e Regioni (ossia quando l’intesa è imposta dalla Costituzione, da leggi costituzionali o in base al principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost. per l’esercizio unitario statale di funzioni attribuite alla competenza regionale o, infine, dall’intreccio tra funzioni statali e regionali, che rende impossibile o dannosa una netta separazione e impone un’armonica composizione dei rispettivi interessi costituzionalmente tutelati), vengono in rilievo atti a struttura necessariamente bilaterale. Pertanto, per il caso di mancato raggiungimento dell’accordo, devono essere previste delle procedure di reiterazione delle trattative, con l’impiego di specifici strumenti di mediazione. Viceversa, il mancato accordo non legittima l’assunzione unilaterale dell’atto da parte dello Stato, in violazione della sfera di competenza della Regione e del principio di leale collaborazione. Si ritiene, inoltre, che l’esercizio delle funzioni amministrative non possa essere legittimamente accentrato da parte dello Stato sulla base del mero rilievo nazionale degli interessi coinvolti, essendo costituzionalmente imposto il dialogo con gli enti originariamente titolari. Infine, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che neppure la congiuntura economico-finanziaria permette allo Stato di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali, dovendosi affrontare la crisi col ricorso ai rimedi ammessi dall’ordinamento costituzionale.

Detto ciò, la norma impugnata legittima l’esercizio del potere sostitutivo sulla base del mero decorso del tempo, a meno che l’intesa sia prescritta da leggi costituzionali.  “Con un certo sforzo ermeneutico si potrebbe ritenere che il riferimento alle leggi costituzionali comprenda anche quello alla stessa Costituzione, e che siano pertanto salvaguardate le sfere di competenza delle Regioni a statuto speciale (previste da leggi costituzionali) e le competenze residuali delle Regioni ordinarie (previste dalla stessa Costituzione), pur in presenza dell’esercizio, da parte dello Stato, di funzioni regionali, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, primo comma, Cost.). Non è possibile invece dedurre dalle disposizioni citate l’esclusione del potere di decisione unilaterale dello Stato nelle variegate ipotesi di collaborazione necessaria Stato-Regioni sopra richiamate, che possono coinvolgere tutte le competenze (esclusiva, concorrente e residuale) dello Stato e delle Regioni a causa dell’impossibilità di ricondurre un dato oggetto nell’ambito di una sola di esse, senza arrecare danno agli interessi sottostanti alle altre, che godono di eguale tutela costituzionale. Rimarrebbero, in ogni caso, ampi margini di incertezza, incompatibili con le norme sul riparto delle competenze e con il principio di leale collaborazione, così come emergono dalla giurisprudenza di questa Corte”.

“L’insufficienza dell’interpretazione adeguatrice prospettata dalla difesa statale rende inevitabile la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata per violazione dell’art. 117 Cost. e del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni”. TM



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Inserito in data 21/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 15 marzo 2013, n. 40

Indennità d’accompagnamento e pensione d’inabilità anche senza carta di soggiorno

Sottoposto al sindacato della Corte costituzionale è l’art. 80, c. 19, della legge finanziaria del 2001, a mente del quale le provvidenze costituenti diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concesse ai soli stranieri titolari della carta di soggiorno.

A seguito dell’art. 2, c. 3, d.lgs. n. 3/2007, l’istituto della carta di soggiorno è stato sostituito dal permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Il conseguimento del nuovo permesso di soggiorno è subordinato al possesso di tre requisiti, ovverosia: a) la disponibilità di un reddito adeguato, secondo i parametri legislativamente fissati; b) la disponibilità di un alloggio idoneo, sempre in base ai presupposti di legge; c) il possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità.

Di conseguenza, l’accesso degli stranieri alla pensione di inabilità e all’indennità di accompagnamento è divenuto ancor più difficile.

Tale limitazione (ratione temporis, così come ratione census) dei diritti sociali degli stranieri è inaccettabile perché colpisce dei soggetti portatori di handicap, in contrasto col riconoscimento del diritto alla salute in capo ad ogni individuo (art. 32 Cost), col dovere di solidarietà sociale nei confronti dei malati e delle loro famiglie (art. 2 Cost.) e col principio di non discriminazione ex art. 14 CEDU.

 “La normativa impugnata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno – ora permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo – la concessione ai cittadini extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di accompagnamento e della pensione di inabilità”. TM

 

 



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Inserito in data 20/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 marzo 2013, n. 1331

Lavoratore extracomunitario ha diritto ad essere regolarizzato benché immigrato clandestino

Il reato di immigrazione clandestina, di cui sopra, non può più ritenersi ostativo ai fini della procedura di emersione dal lavoro irregolare dei cittadini extracomunitari dopo la direttiva U.E. n. 115 del 2008 che, essendo di immediata applicazione secondo l'interpretazione datane con sentenza 28 aprile 2011 della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, è entrata in vigore anche prima di essere recepita, trascorsi tre anni dalla sua adozione e ha determinato l'abolizione del suddetto reato, come anche riconosciuto dal Consiglio di Stato con le sentenze dell'Adunanza Plenaria 10 maggio 2011, n. 7 e n. 8 e da ampia giurisprudenza successiva (da ultimo Cons. Stato Sez. III, 17 gennaio 2013 n. 271);

In seguito, nell'ambito di una serie di modifiche di adeguamento alla direttiva CE n. 115/2998, il decreto legge 89/2011, art. 3, co. 1, lettera d), n. 6, ha sostituito il precedente testo dell'art. 14, comma 5 ter, citato, con un nuovo testo che prevede una multa nella misura massima di 20.000 euro.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 172/2012 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di ragionevolezza, dell'automatismo tra la condanna penale per uno dei reati di cui all'art. 381 c.p.p. e il diniego dell'istanza di regolarizzazione. SL



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Inserito in data 20/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 marzo 2013, n. 1323

Precisato l’eccesso di potere per disparità nelle scelte discrezionali della P.A.

La censura di eccesso di potere per disparità di trattamento a fronte di scelte discrezionali dell'Amministrazione è riscontrabile soltanto in caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità del trattamento riservato.

Trattasi di situazioni la cui prova rigorosa deve essere fornita dall'interessato, con la precisazione che la legittimità dell'operato della P.A. non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione. SL



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Inserito in data 20/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 marzo 2013, n. 1295

Difetto di giurisdizione: rilevabile in appello solo se dedotto come specifico motivo di gravame

Il Consiglio di Stato ha chiarito che:

- ai sensi dell’art. 9 del codice del processo amministrativo, che ha recepito una regola già immanente nel sistema, quanto meno a far data dalla sentenza della Corte di Cassazione sez.un., 9 ottobre 2009, n. 24833, il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio mentre, in secondo grado, è rilevato solo se dedotto con specifico motivo avverso il capo della sentenza impugnata che, in modo esplicito o implicito (come nella specie), ha statuito sulla giurisdizione (Sez. VI, 23 aprile 2012, n. 2390);

- questa regola opera immediatamente sui processi in corso, in quanto norma processuale, nella parte in cui esclude che il giudice di impugnazione possa rilevare il difetto di giurisdizione se non eccepito, mentre si applica all’attività processuale delle parti secondo il principio tempus regit actum; - per i giudizi d’appello pendenti alla data di entrata in vigore del codice del processo amministrativo, l’eccezione di difetto di giurisdizione, riproposta dalla parte con memoria, è perciò ammessa se era stata presentata prima della detta data, poiché in precedenza poteva essere riproposta in appello anche con semplice memoria, mentre, se prima non era stata in alcun modo riproposta, non può essere ammessa, poiché lo stesso principio tempus regit actum impedisce al giudice di appello di rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione (Sez. VI, 18 dicembre 2010, n. 8925; Sez. III, 13 marzo 2012, n. 1415);

- la pronuncia dell’Adunanza plenaria n. 11 del 2011 (che si è occupata di una questione di giurisdizione ritualmente sollevata con l’atto d’appello) non può valere, inoltre, a scalfire la regola della perpetuatio iuridictionis di cui all’art. 5 c.p.c., per la quale sono rilevanti "solo i sopravvenuti mutamenti legislativi e non gli indirizzi della giurisprudenza, interpretativi delle norme sul giudice competente: diversamente, si vincolerebbe il giudice al precedente giurisprudenziale e si limiterebbe il diritto di difesa nel prospettare una diversa interpretazione" (VI, 8 marzo 2012, n. 1308).

Ne consegue che nel caso di specie l’eccezione, formulata con una memoria difensiva non notificata e non con l’atto d’appello, è inammissibile. SL



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Inserito in data 19/03/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, Cause riunite C 399/10 P e C 401/10 P del 19 marzo 2013

Caso France Telecom: aiuto di Stato

I Giudici del Lussemburgo hanno invalidato la sentenza del Tribunale che aveva annullato la decisione della Commissione che qualificava come aiuti di Stato le dichiarazioni di sostegno e il prestito d’azionista dello Stato francese a favore di France Télécom.

In data odierna, in sostanza, la Corte Europea ha precisato, con una pronuncia recepita da un significativo plauso mediatico generale, la portata dell’aiuto di Stato, ravvisandolo persino nell’ipotesi in cui, come nel caso concreto, uno Stato si professi pronto ad intervenire in favore di una società di cui sia anche il proprietario.

Difatti, ritengono i Giudici, anche se poi, concretamente, in favore della società telefonica non fu eseguito alcun prestito – le dichiarazioni rese a suo tempo dal Ministro francese dell’Economia, delle Finanze e dell’Industria (che affermava che, qualora la società avesse dovuto avere problemi di finanziamento, lo Stato francese avrebbe preso le decisioni necessarie per superarli) hanno conferito a France Telecom un vantaggio, non ammissibile in un sistema di libera concorrenza quale quello che connota il mercato europeo, oggi sempre di più. CC



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Inserito in data 18/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 15 marzo 2013, n. 1540

Diniego permesso di soggiorno: il ricorrente deve provare la fondatezza della propria pretesa

Il Collegio, traendo spunto da una doglianza avverso un diniego del permesso di soggiorno richiesto da un cittadino cinese ex lege n. 102/2009, ricorda come anche nel giudizio amministrativo sia onere della parte che agisce in giudizio fornire la prova in merito alla fondatezza della propria pretesa, ogni qual volta possa ritenersi che tale prova sia nella sua piena disponibilità (artt. 63, co. 1, e 64, co. 1, c.p.a.) e non vi sia quindi bisogno di acquisire d’ufficio informazioni e documenti nella disponibilità (invece) della Pubblica Amministrazione.

In ragione di ciò, infatti, l’appellante avrebbe dovuto dare piena prova circa l’esistenza e la prosecuzione di un proprio rapporto di lavoro, riguardo al quale, invece, non ha conferito alcun supporto probatorio.

Rimangono, pertanto, poco significative le censure – dal medesimo sollevate - in merito ad una mancata comunicazione di atti procedimentali la cui tempestiva conoscenza, comunque, non avrebbe potuto influenzare l’esito del procedimento (cfr. art. 21 octies, co. 2, l. 241/1990); né  riguardo ad un possibile onere a carico dell’Amministrazione di provare quanto, invece, sarebbe spettato al ricorrente, le cui doglianze vengono, pertanto, respinte, sulla falsariga di quanto già avvenuto in primo grado. CC



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Inserito in data 18/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 marzo 2013, n. 1569

Demolizione opere abusive, atto vincolato e diniego del diritto al ripristino dello stato dei luoghi

La pronuncia ricorda la natura vincolata dei provvedimenti amministrativi in tema di demolizione di opere abusive e la conseguente impossibilità di intervenirvi secondo criteri o tempi diversi, stante la doverosità ex lege di un tale intervento repressivo, da parte dell’Amministrazione che abbia acclarato la sussistenza dell’abuso edilizio.

Pertanto, è infondato l’appello della proprietaria di un simile immobile, stante la non modificabilità – ex art. 21 octies L. 241/90 - del provvedimento impugnato, nonchè l’impossibilità, comunque, di soddisfare l’interesse della ricorrente, anche laddove fossero state maggiormente rispettate delle forme di partecipazione procedimentale.

Infatti, trattandosi di provvedimento vincolato, la relativa immodificabilità è in re ipsa – poiché imposta dalla legge, con la conseguente presunzione di conoscenza da parte dell’appellante e rigetto del relativo mezzo di gravame, come accaduto nell’odierna vicenda. CC



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Inserito in data 18/03/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, SENTENZA 14 marzo 2013, C - 420/11

La Corte delimita il diritto al risarcimento dei singoli in assenza di VIA

I Giudici del Lussemburgo chiariscono la portata della Direttiva 85/337 che, pur imponendo una valutazione dell'impatto ambientale per i progetti pubblici o privati, non produce in via automatica la responsabilità dello Stato in caso di omesso controllo, ma ne richiede il doveroso accertamento caso per caso, in modo da vagliarne la sussistenza della necessaria causalità.

Nel caso concreto, l’avvenuto ampliamento dell’aeroporto viennese ed il diminuito valore patrimoniale di un immobile ad esso adiacente – ritenuto dalla proprietaria ricorrente quale possibile conseguenza – non conferisce ad essa, ipso iure, una pretesa risarcitoria, quale quella in questa sede avanzata.

Infatti, benchè siano minuziosamente indicate le norme di accurato controllo che la Direttiva comunitaria prescrive in tema di impatto ambientale, è pur vero che spetta a ciascun Giudice nazionale acclarare l’esistenza di un nesso causale diretto tra la violazione lamentata e i danni subiti.

La Fonte comunitaria, infatti, lascia impregiudicate le norme dei singoli Stati che eventualmente intervengano in merito, anche in senso eventualmente meno restrittivo.

Essa, altresì, non enuncia le regole sostanziali relative ad una ponderazione dell'impatto ambientale con altri fattori, né vieta la realizzazione dei progetti atti ad avere un impatto negativo sull'ambiente.
Di conseguenza, ritiene la Corte europea, l’omessa VIA non produce automaticamente un diritto al risarcimento da parte del singolo, né una responsabilità dello Stato, tranne nel caso in cui sia causalmente accertata la connessione tra l’impatto ambientale, eventualmente trascurato, e l’avvenuta diminuzione del valore patrimoniale del bene immobile – come in questa sede escluso. CC



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Inserito in data 15/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, PRIMA SEZIONE CIVILE, 8 marzo 2013, n. 5848

Prova del danno da concorrenza sleale per denigrazione: serve gravità della lesione

La sentenza in esame affronta il tema del risarcimento del danno nel caso di concorrenza sleale per denigrazione.

Occorre precisare, anzitutto, che la concorrenza sleale per denigrazione (art. 2598, n. 3, cc), consistente nel diffondere notizie ed apprezzamenti sui prodotti altrui in modo idoneo a determinare il discredito, richiede un’effettiva divulgazione ad un numero indeterminato, o quanto meno ad una pluralità di soggetti, cioè ad un pubblico indifferenziato. Pertanto, essa non è configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell'ambito di separati e limitati colloqui.

Una volta provata la lesione della reputazione professionale ovvero commerciale, poiché il danno risarcibile a norma dell'art. 2043 cc è il danno-conseguenza patrimoniale, bisogna provare che la lesione abbia cagionato una perdita patrimoniale. A tal fine, è necessario dimostrare la gravità della lesione e la non futilità del danno, anche mediante presunzioni semplici, fermo restando l'onere del danneggiato di allegare gli elementi di fatto dai quali possa desumersi l'esistenza e l'entità del pregiudizio. CDC




Inserito in data 15/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 marzo 2013, n. 1534

Riemanazione dell'atto a seguito di ordinanza cautelare può estinguere controversia

Il provvedimento adottato in esecuzione di un’ordinanza cautelare non implica di per sé il ritiro dell’atto impugnato ed oggetto della pronuncia stessa e ha una rilevanza solo provvisoria, in attesa che la decisione di merito accerti se l'atto stesso sia o meno legittimo.

La misura cautelare, infatti, non configura una radicale consumazione della potestà amministrativa e l'effetto caducante dell'eventuale sentenza definitiva si estende agli ulteriori atti adottati dalla PA a seguito dell’adozione dell’ordinanza cautelare. Ciò non vuol dire che l’attività di riemanazione, conseguente all’ordine cautelare di riesaminare la vicenda e di provvedervi, non possa determinare una fattispecie estintiva della controversia. Tuttavia, ciò non si verifica per il semplice fatto che la PA emani l’atto richiesto, anche a seguito dell’obbligatoria istruttoria che il procedimento richiede, ma solo se la statuizione intervenga senza riserve e senza condizioni, alla luce d’una valutazione autonoma e non collegata all’oggetto del giudizio di merito. CDC



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Inserito in data 15/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 marzo 2013, n. 1533

Documento contenuto anche in un'altra busta non integra inadempimento del bando di gara

Fra i motivi di appello, viene esaminato quello della violazione della lex specialis della procedura negoziata in esame, in quanto la “domanda di autorizzazione di commercio all’ingrosso di farmaci” era stata rinvenuta nella busta della documentazione amministrativa, e non in quella della documentazione tecnica, come era invece richiesto dal bando.

Tuttavia, secondo la sentenza, ciò non integra affatto un inadempimento della legge di gara, perché lo stesso seggio di gara ha dato atto che, nella busta della documentazione tecnica dell’aggiudicataria, era pure presente il predetto documento.

Inoltre, il documento in questione era obbligatorio in sé e non nella sua collocazione specifica, in un luogo piuttosto che in un altro. Infatti, la collocazione del documento si palesa irrilevante, a causa della non assoggettabilità di detto documento a qualunque punteggio. In altre parole, esso serve a dimostrare un requisito inderogabile, ma non è in grado d’alterare né la par condicio tra le imprese, né la valutazione complessiva delle offerte di tutti e di ciascun partecipante.

Peraltro, l’interpretazione delle clausole munite di sanzioni espulsive va condotta necessariamente alla luce dell’art. 46, c. 1-bis, d. lgs. n. 163 del 2006, che fa riferimento ai casi “di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte”. Poiché nella specie, i plichi erano integri, completi, sicuramente provenienti e sottoscritti dalla controinteressata e non mancava l’atto richiesto, non è possibile interpretare la vicenda in esame fuori dal principio di tassatività delle cause d’esclusione indicate dalla norma. CDC

 

 



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Inserito in data 14/03/2013
CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, sentenza 21 febbraio 2013, n. 4283

Il conferimento d’incarichi esterni è sindacabile sul piano della giuridicità sostanziale

Le Sezioni Unite negano che la pronuncia, con la quale la Corte dei Conti condanna dei pubblici amministratori al pagamento di una somma a titolo di responsabilità amministrativa per l’illecito conferimento di incarichi esterni, sia lesiva della riserva di amministrazione. Quest’ultima è prevista dall’art. 1, comma 1, L. n. 20/1994 ("...ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali...") e va intesa come “preferenza tra alternative, nell'ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell'interesse pubblico”.

A sostegno della propria tesi, la Suprema Corte allega che la discrezionalità riconosciuta agli amministratori pubblici nell’individuazione della scelta più idonea, nel caso concreto, per il perseguimento del pubblico interesse è esercitata legittimamente solo quando si conforma ai criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità (ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di efficacia (idoneità dell'azione amministrativa alla cura effettiva degli interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale) e di buon andamento delineati nell’art. 97 della Costituzione, codificati nell’art. 1, comma 1, L. n. 241/90 e ribaditi nell’art. 1, D.Lgs. n. 29/93 e nell’art. 1, comma 1, L. 30 luglio 1999, n. 286. Pertanto, la scelta degli amministratori di conferire incarichi esterni è soggetta al controllo della Corte dei Conti, in quanto assume rilievo già sul piano della legittimità e non della mera opportunità.

Di conseguenza, la Corte dei Conti non viola il limite giuridico della riserva di amministrazione, non solo quando verifica se l’amministrazione ha compiuto l’attività per il perseguimento dei fini istituzionali dell’ente, bensì anche quando controlla la giuridicità sostanziale - e cioè il rispetto dei criteri di razionalità, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e risultati conseguiti - dell'esercizio del potere discrezionale.

Sulla scorta di quanto detto, la Suprema Corte ribadisce il principio secondo cui “l'insindacabilità "nel merito" delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte al sindacato giurisdizionale di conformità alla legge formale e sostanziale che regola l'attività e l'organizzazione amministrativa, e quindi il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione quando sottopone a giudizio di responsabilità per danno erariale gli amministratori che hanno conferito incarichi professionali senza determinazione specifica di contenuto, durata, criteri, compenso, in contrasto con il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 7, u.c., secondo il quale "per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di provata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione", e dunque il conferimento dell'incarico è legittimo solo in ipotesi di impossibilità oggettiva, da rappresentare nella delibera di far fronte all'esigenza richiesta con personale interno all'organizzazione (Sezioni Unite 25 gennaio 2006 n. 1376), la cui qualificazione professionale l'amministrazione ha infatti l'obbligo di verificare periodicamente ed incrementare”. TM




Inserito in data 14/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 marzo 2013, n. 1354

Va esclusa la lista elettorale che mira a ricostituire il partito fascista

Il Consiglio di Stato si pronuncia sui casi in cui la Commissione elettorale può disporre la ricusazione delle liste e dei contrassegni elettorali.

Contrariamente a quanto affermato dal Primo Giudice, i casi di esclusione non sono tassativamente indicati negli artt. 30 e ss. del d.P.R. n. 570/1960, dovendosi verificare anche la legittimazione costituzionale del partito politico, ai sensi della XIII disposizione di attuazione e transitoria della Costituzione.

Tale precetto costituzionale vieta la riorganizzazione del disciolto partito fascista e, perciò, impedisce ai movimenti politici formatisi in violazione dello stesso di prender parte alla vita politica. Ne consegue, implicitamente ma necessariamente, il potere della Commissione di escludere le liste o i simboli attraverso i quali si persegue il fine vietato dalla Carta costituzionale.

Pertanto, il Supremo Consesso respinge la tesi, sostenuta dal Giudice di prime cure, secondo cui l’attuazione del precetto costituzionale predetto si realizzerebbe esclusivamente attraverso la repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione dell’associazione vietata.

Detto ciò, il Consiglio di Stato conclude “per la legittimità del provvedimento impugnato con cui la Commissione elettorale, facendo uso di un potere attribuito dal sistema normativo, ha disposto l’esclusione della lista sulla scorta di un’adeguata motivazione in merito al contrasto con la disciplina costituzionale, in ragione del simbolo del movimento (il fascio), della dizione letterale (acronimo di Fascismo e Libertà) e del richiamo ideologico al disciolto partito fascista”. TM



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Inserito in data 14/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 6 marzo 2013, n. 33

L’art. 38 Cost. tutela il diritto a lavorare fino alla pensione, ma non oltre i 70 anni

Secondo l’orientamento costante della Corte costituzionale, rientra nella discrezionalità del legislatore l’individuazione dei limiti massimi di età per il collocamento a riposo.

Detta discrezionalità legislativa può essere limitata, attraverso lo strumento della deroga ai limiti di età ordinari, al solo fine di garantire il conseguimento del minimo della pensione. Viceversa, non si ritiene costituzionalmente tutelato il raggiungimento di trattamenti pensionistici e benefici ulteriori.

Peraltro, la stessa deroga ai limiti di età al fine del conseguimento del bene costituzionalmente protetto del minimo pensionistico incontra un limite fisiologico nella persistenza di energie compatibili con la prosecuzione del rapporto, in mancanza delle quali l’attività lavorativa non può in nessun caso essere proseguita.

Col passare del tempo detto limite fisiologico è stato spostato in avanti, in considerazione dei riflessi positivi prodotti sulla capacità di lavoro dei lavoratori dal miglioramento delle condizioni di vita e di salute. Segnatamente, nel 1990 tale limite è stato modificato dai 65 ai 70 anni di età.

Il legislatore ha stentato a conformarsi all’orientamento giurisprudenziale in esame, dimenticando di prevedere, con riguardo a svariate fattispecie, la permanenza in deroga fino al compimento del settantesimo anno di età allo scopo del conseguimento del minimo pensionistico.

Tale sorte è toccata pure alla disposizione sottoposta al controllo di costituzionalità, ossia al combinato disposto degli artt. 15-nonies, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 e 16, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 503 del 1992 – nel testo vigente fino all’entrata in vigore dell’art. 22 della legge n. 183 del 2010; infatti, in forza di tali norme, il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti medici del S.S.N. era stabilito al compimento del 65° anno di età, fatta salva la possibilità di rimanere in servizio per un periodo massimo di un biennio; perciò, il legislatore comprimeva entro i 67 anni di età la possibilità di rimanere in servizio al fine di raggiungere i requisiti per l’ottenimento della pensione, anziché entro i 70 anni indicati dalla Corte costituzionale. La normativa sopravvenuta ha posto rimedio a tale vizio legislativo, ma ciò non esclude la rilevanza della questione in esame, in quanto detta disciplina non si applica all’atto di cessazione dal rapporto di lavoro sub iudice perché ormai consolidatosi.

Sulla scorta di quanto detto, il Giudice delle Leggi ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 38, comma 2, Cost., “limitatamente alla parte in cui non consente al personale ivi contemplato che al raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo non abbia compiuto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione, di rimanere, su richiesta, in servizio fino al conseguimento di tale anzianità minima e, comunque, non oltre il settantesimo anno di età”.

Da ultimo, la Corte costituzionale precisa che, nei casi in cui è stata illegittimamente disposta la collocazione a riposo prima della maturazione del diritto alla pensione e del compimento dei 70 anni di età, il pubblico impiegato non ha diritto ad essere reintegrato nel medesimo incarico ricoperto all’atto di cessazione del servizio, attesa la necessità di tener conto dei principi di buon andamento e ragionevolezza ex artt. 97 e 3 Cost. (ad esempio, il dipendente potrebbe non essere più reintegrato nel medesimo ufficio perché privo dei requisiti richiesti al momento della reintegrazione o perché il posto da lui ricoperto non è più disponibile). TM



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Inserito in data 12/03/2013
TAR CALABRIA - CATANZARO, SEZ. II, 7 marzo 2013, n. 270

L’art 42 bis TUE opera anche se un giudicato possessorio ordina la restituzione

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 42 bis d.p.r. n.327/2001 in quanto tale norma non potrebbe trovare applicazione nell’ipotesi di un giudicato statuente la restituzione al proprietario del bene interessato dall’illegittima esecuzione di un’opera pubblica, come avvenuto nel caso di specie. Il motivo è infondato e pertanto deve essere rigettato. La locuzione “non retroattivamente” introdotta nella nuova versione dell’art. 42 bis, deve essere interpretata nel senso che l’atto di acquisizione ha effetti ex nunc senza cioè retroagire al momento dell’emanazione del provvedimento annullato o dell’occupazione illecita che abbia prodotto la trasformazione irreversibile. Ma esso tuttavia può riguardare anche fatti anteriori alla sua entrata in vigore anche se vi è stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato. L’intento del legislatore è di attribuire al nuovo provvedimento non solo una funzione sanante di un precedente comportamento illecito, bensì una propria finalità ablatoria ancorata a precisi requisiti espressamente previsti dalla norma. Il primo di questi è certamente l’utilizzazione sine titulo del bene immobile che, anche nell’attuale quadro normativo, l’amministrazione ha l’obbligo giuridico di far venir meno adeguando la situazione di fatto a quella di diritto. L’amministrazione deve restituire il terreno al titolare demolendo quanto realizzato e disponendo la riduzione in pristino, oppure deve attivarsi perché vi sia un titolo di acquisto dell’area da parte del soggetto attuale possessore. Ciò premesso non vi è dubbio che dal giudicato possessorio è disceso l’obbligo dell’amministrazione di restituire l’area occupata sine titulo al ricorrente ma è altrettanto indubbio che è proprio tale situazione di fatto illecita che l’amministrazione, con il provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis, intende sanare acquisendo il relativo titolo di legittimazione. L'ordine giudiziale di restituzione, in buona sostanza, non incide sulla struttura dell'istituto che presuppone l'assodata lesione del diritto di proprietà altrui; la restituzione, infatti, è la conseguenza dell'accertamento del possesso del bene e non implica effetti costitutivi; il giudice che la dispone non modifica la situazione giuridica precedente l'abusiva detenzione del bene ma semplicemente l'accerta; il suo ordine, pertanto, non è idoneo a paralizzare un atto di autorità che, consapevolmente, viola il diritto di proprietà senza contestarne la titolarità secondo uno schema reso possibile dall'art. 42, co. 3, Cost. (in termini cfr. Cons. Stato sez. V 11 maggio 2009 n.2877). La natura del provvedimento di sanatoria è dunque tale da porre nel nulla la precedente condanna giudiziale (passata o meno in giudicato) alla restituzione del fondo occupato sine titulo. Una volta adottato il provvedimento di sanatoria, tutte le aspettative di tutela del privato, restitutorie e risarcitorie, si canalizzano nell'eventuale contenzioso avente ad oggetto il provvedimento in questione e ben possono essere integralmente soddisfatte a conclusione del relativo giudizio. FT

 

 



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Inserito in data 11/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 8 marzo 2013, n. 36

Requisiti imprese: illegittime norme regionali contrastanti col dlgs 163/06 

L’art. 4, comma 48, della legge impugnata proroga al 31 dicembre 2012 il termine di vigenza del regime transitorio previsto dall’art. 35 della legge regionale n. 14 del 2002, inizialmente fissato al 30 giugno 2003 e già in precedenza prorogato al 30 giugno 2004. In base a tale disposizione, possono partecipare alle procedure di affidamento di lavori pubblici che si eseguono nel territorio della Regione Sardegna anche le imprese che non dispongano della qualificazione attestata in conformità alla legge regionale n. 14 del 2002 stessa, a condizione di possedere alcuni requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi elencati dal medesimo articolo 35. Con la sentenza n. 328 del 2011, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna n. 14 del 2002, perché tali norme hanno dettato una «disciplina dei sistemi di qualificazione delle imprese per la partecipazione alle gare per gli appalti di lavori pubblici di interesse regionale difforme da quella nazionale» – prevista dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce) – «alla quale avrebbero invece dovuto adeguarsi», così incidendo «sul livello della concorrenza, garantito dalla normativa statale, strumentale a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti (sentenza n. 114 del 2011)». Come gli artt. 1 e 2 della legge regionale n. 14 del 2002, dichiarati illegittimi da questa Corte, anche l’ulteriore proroga della disciplina transitoria prevista dal citato art. 35, che, dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 163 del 2006, consente alle imprese – seppure in via provvisoria – di partecipare ad appalti di lavori pubblici effettuati nel territorio della Regione Sardegna in assenza dei requisiti di qualificazione previsti dalla disciplina nazionale, interferisce con la tutela della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

L’art. 3, lettera e), dello Statuto speciale attribuisce alla Regione la competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di esclusivo interesse regionale. Tale tipo di competenza deve essere esercitato «in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali […], nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali» (art. 3 dello Statuto speciale di autonomia). Per costante giurisprudenza costituzionale, «le disposizioni del Codice degli appalti» – d.lgs. n. 163 del 2006 – «per la parte in cui sono correlate all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ed alla materia “tutela della concorrenza”, vanno […] “ascritte, per il loro stesso contenuto d’ordine generale, all’area delle norme fondamentali di riforme economico-sociali, nonché delle norme con le quali lo Stato ha dato attuazione agli obblighi internazionali nascenti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea” (sentenza n. 144 del 2011), che costituiscono limite alla potestà legislativa primaria della Regione» (sentenza n. 184 del 2011). La disposizione in esame, discostandosi da quanto previsto dal d.lgs. n. 163 del 2006 circa i requisiti di qualificazione delle imprese, non rispetta i limiti posti dallo Statuto speciale all’esercizio della competenza legislativa primaria della Regione autonoma. FT



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Inserito in data 11/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 marzo 2013, n. 1406

Danno da ritardo: colpa della PA e necessità di provarne l’atteggiamento dilatorio

La richiesta di accertamento del danno da ritardo ovvero del danno derivante dalla tardiva emanazione di un provvedimento favorevole, se da un lato deve essere ricondotta al danno da lesione di interessi legittimi pretensivi, per l'ontologica natura delle posizioni fatte valere, dall'altro, in ossequio al principio dell'atipicità dell'illecito civile, costituisce una fattispecie sui generis, di natura del tutto specifica e peculiare, che deve essere ricondotta nell'alveo dell'art. 2043 c.c. per l'identificazione degli elementi costitutivi della responsabilità. Di conseguenza, l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda ... In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero “superamento” del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma non integra “piena prova del danno”. La valutazione è di natura relativistica, deve tenere conto della specifica complessità procedimentale, ma anche – in senso negativo per le ragioni dell’amministrazione intimata- di eventuali condotte dilatorie: si è detto pertanto che “il ritardo della P.A. non può essere giustificato con esigenze di sentire e risentire gli addetti ai lavori. La mancata organizzazione dell'ufficio e il ritardo nelle risposte alle legittime esigenze del privato comporta una responsabilità del Comune che ritarda il rilascio del permesso di costruire in variante con il risarcimento a favore del privato non solo del dannopatrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale.”

Secondo l’appellante, l’approdo reiettivo del primo giudice sarebbe errato in quanto il procedimento sotteso alla variante presentata non era complesso; i termini di definizione del procedimento furono abbondantemente superati; l’Amministrazione andrebbe censurata anche per il suo indulgere in atteggiamenti dilatori. Il Collegio non condivide tali valutazioni e non ritiene ravvisabile alcuna colpa nell’operato dell’amministrazione comunale appellata. La tempistica procedimentale ... consente agevolmente di comprendere che la pluralità di modifiche presentate, i successivi esami che si resero necessari, le integrazioni documentali predisposte dalla società richiedente escludono alcun atteggiamento dilatorio in capo al comune. Il Collegio condivide la tesi per cui il danno da ritardo potrebbe in via teorica sussistere anche nel caso di riscontrata legittimità della statuizione finale reiettiva o parzialmente reiettiva: senonchè in un caso quale quello all’esame dal Collegio, caratterizzato dalla continua interlocuzione tra le parti (come è bene che sia, al fine di evitare il proliferare di inutili e dispendiosi contenziosi) non può certo affermarsi la speciosità o dilatorietà delle richieste di chiarimenti del Comune, sol che si consideri che taluni di essi erano diretti a provvedere a richieste dell’impresa appellante che hanno poi formato oggetto di domanda giudiziale e che sono state in parte respinte dal Tar e da questo Collegio. Né dicasi – come sostiene parte appellante- che dalla circostanza che il progetto di variante riguardava soltanto il 10% della superficie complessiva dell’immobile, e che tratta vasi di semplice variante di completamento possa inferirsi la circostanza che ci si trovava al cospetto di una pratica “facile da adempiere”. Al contrario, il progetto era ben complesso, e presupponeva il necessario esame di molti dettagli: né appare ex se censurabile il metodo seguito dalla competente Amministrazione riposante nella parziale disamina delle singole parti del progetto, apparendo lo stesso semmai, manifestazione di accurata attenzione ...  In considerazione di quanto fin qui esposto, appare evidente che, tenuto anche dei tempi tecnici legati all’esame del progetto nonché alle attività istruttorie necessarie per provvedere sull'istanza (attività anch'esse, per quanto sopra evidenziato, tali da rendere congrui i tempi impiegati), davvero non si ravvisa nella condotta dell'Amministrazione la sussistenza di manifeste violazioni di legge colposamente commesse, il che esclude la risarcibilità del danno lamentato (ex multis: “la domanda di risarcimento del danno da ritardo, azionata ex art. 2043 c.c. , può essere accolta dal giudice solo se l'istante dimostra che il provvedimento favorevole avrebbe potuto o dovuto essergli rilasciato già ab origine e che sussistono tutti i requisiti costitutivi dell'illecito aquiliano, tra i quali elementi univoci indicativi della sussistenza della colpa in capo alla pubblica amministrazione.”-Cons. Stato Sez. IV, 29-05-2008, n. 2564-). FT



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Inserito in data 10/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 marzo 2013, n. 1372

Inquinamento acustico in danno di un unico soggetto, competenza ad ordinarne cessazione

Con il primo motivo di appello è stato dedotto che ... la accertata sussistenza di un fenomeno di inquinamento in danno di un unico soggetto comportava l’individuazione della Autorità competente ad ordinare l’abbattimento delle emissioni dannose non nel Sindaco, ex art. 9, comma 1 della l. n. 447/1995, ma nella Autorità giudiziaria ordinaria, ex art. 844 del c.c. Erroneamente avrebbe invece ritenuto il T.A.R. che l'accertata presenza di un fenomeno di inquinamento acustico (pur se non coinvolgente l'intera collettività) giustificava l'eccezionale ed urgente necessità di intervenire a tutela della salute pubblica con lo strumento previsto dall'art. 9, comma 1, di detta l. n. 447/1995.; ciò in quanto la tutela della salute pubblica non presuppone necessariamente che la situazione di pericolo involga l'intera collettività, ben potendo richiedersi tutela alla P.A. anche ove sia in discussione la salute del singolo.

La Sezione condivide la tesi fatta propria dal primo Giudice, che il potere di cui al richiamato art. 9 della l. n. 447/1995 non va riduttivamente ricondotto al generale potere di ordinanza contingibile ed urgente in materia di sanità ed igiene pubblica, dovendo piuttosto essere qualificato quale ordinario rimedio in tema di inquinamento acustico; ciò perché, in assenza di altri strumenti a disposizione delle amministrazioni comunali, la presenza di una accertata situazione di inquinamento acustico rappresenta di per sè una minaccia per la salute pubblica, anche se in concreto è offeso un solo soggetto. Aggiungasi che mentre quella riconosciuta dal Codice Civile al privato interessato di adire l'Autorità Giudiziaria Ordinaria per far cessare le immissioni dannose che eccedano la normale tollerabilità è una mera facoltà, il potere del Sindaco di emanare la ordinanza ex art. 9 della l. n. 447/1995 è un dovere connesso all’esercizio delle sue pubbliche funzioni, al quale non può sottrarsi, anche se è leso un solo soggetto, spogliandosi del potere, di valore pubblicistico, di reprimere l’inquinamento acustico e attribuendolo al privato, cui il codice civile riconosce la facoltà di esercitare il diritto a non subire le emissioni dannose e non il dovere, se eccedenti i valori massimi consentiti. Deve quindi ritenersi che le facoltà concesse al privato dall’art. 844 del c.c. e i doveri della P.A. previsti dalla normativa in materia di attività produttive, laddove fissa le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti massimi di tollerabilità, hanno finalità e campi di applicazione distinti, atteso che la norma civilistica tutela il diritto di proprietà ed è finalizzato a disciplinare i rapporti di natura patrimoniale tra i privati proprietari di fondi vicini, mentre l’altra normativa ha carattere pubblicistico, dal momento che persegue finalità di interesse pubblico ed è volta a regolare i rapporti tra i privati e la P.A. Deve quindi ritenersi che condivisibilmente il Giudice di primo grado ha ritenuto competente il Sindaco del Comune di cui trattasi ad esercitare i poteri di cui all’art. 9 della l. n. 4471995 ordinando l’abbattimento delle emissioni dannose in questione. FT



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Inserito in data 10/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 marzo 2013, n. 1373

Segnalazione esclusione all’AVCP: non produce direttamente un effetto lesivo

Quanto alla segnalazione all’Autorità, l’appellante sostiene che anche la sola sua trasmissione ha un effetto lesivo del suo interesse ... Il Collegio non condivide l’orientamento sul quale si basa la tesi dell’appellante ... La segnalazione all’Autorità di vigilanza dell’esclusione di un’impresa da una gara non produce direttamente un effetto lesivo, ma costituisce l’atto di promovimento di un procedimento in contraddittorio. Nel caso di esclusione per motivi diversi dal fatto di aver reso dichiarazioni false (art. 8, comma 2, lett. r) del d.p.r. n. 207 del 2010), essa stessa costituisce avviso di procedimento che consente all’impresa di presentare all’Autorità proprie deduzioni, ad esempio circa l’avvenuta impugnazione del provvedimento di esclusione (cfr. AVCP, determinazione n. 1 del 2008). Nel caso di esclusione per dichiarazioni false (art. 8, comma 2, lett. s) del d.p.r. n. 207 del 2010), è l’Autorità stessa che comunica all’impresa l’avviso di procedimento ai fini dell’iscrizione nel Casellario informatico e dell’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria (cfr. AVCP, determinazione n. 1 del 2010). La lesione si determina, dunque, con l’iscrizione della notizia nel casellario informatico (o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria da parte dell’Autorità) e a seguito di un procedimento in contraddittorio nel quale l’impresa può presentare proprie deduzioni. Il fatto che la misura di pubblicità incida su un interesse oppositivo, come quello concernente l’onore della persona, la cui lesione richiede come misura riparatoria la reintegrazione, non può sovvertire il principio processuale secondo cui l’interesse a ricorrere deve essere attuale. Afferma, in conclusione, il Collegio che la mera segnalazione di un comportamento all’Autorità da parte della stazione appaltante è priva di efficacia lesiva; la sua impugnazione è quindi inammissibile per carenza di interesse. FT



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Inserito in data 10/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 marzo 2013, n. 1380

Sui limiti alla derogabilità del principio di pubblicità delle gare ex art 17 Codice Contratti

L’art. 17 d. lgs. n. 163/2006 (che disciplina i “contratti segretati o che esigono particolari misure di sicurezza” - nell’ambito del Titolo II della Parte I del Codice, relativa a “Contratti esclusi in tutto o in parte dall’ambito di applicazione del Codice” - pur oggetto di diverse modifiche ad opera del legislatore, ha costantemente consentito (sia prima che dopo le modifiche apportate dal d. lgs. n. 208/2011), che le opere afferenti – tra le altre – all’amministrazione della giustizia, possono essere eseguite in deroga alle disposizioni relative alla pubblicità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici “nei casi in cui sono richieste misure speciali di sicurezza o di segretezza in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti o quando lo esiga la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato”. Anche il testo attualmente vigente dell’art. 17, sia pure senza alcun riferimento soggettivo a specifiche amministrazioni pubbliche consente la deroga alle disposizioni del Codice relative alla procedura di affidamento sia per quei contratti al cui oggetto è attribuita una classifica di segretezza, sia a quelli “la cui esecuzione deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza, in conformità a disposizioni legislative, regolamentari o amministrative”.

Orbene, da quanto sin qui esposto appare innanzi tutto evidente: per un verso, che il principio enunciato dall’Adunanza Plenaria n. 13/2011, se costituisce certamente principio generale della pubblicità e trasparenza che devono governare le procedure di affidamento, ben può, al tempo stesso, essere derogato, laddove specifiche esigenze lo impongano, ai sensi dell’art. 17 d. lgs. n. 163/2011; né l’Adunanza Plenaria, con la sua interpretazione, ha inteso agire anche in senso limitativo della facoltà dell’amministrazione, sussistendone i presupposti normativamente previsti, di derogare alle disposizioni in tema di procedure di affidamento; per altro verso, lo stesso legislatore, in attuazione del principio giurisprudenzialmente affermato (ed in disparte gli effetti di “interpretazione autentica” rinvenibili nella novellazione degli artt. 120 e 283 del Regolamento), ha modificato articoli – quali quelli ora citati – che si riferiscono espressamente ai “settori ordinari”, senza nulla aggiungere a quanto già disposto (in senso derogatorio) dall’art. 17 del Codice dei contratti.

Le considerazioni ora espresse consentono quindi di affermare che né dalla elaborazione giurisprudenziale (Ad. Plen. n. 13/2011 cit.), né dal diritto positivo è dato rinvenire una limitazione alla derogabilità, ex art. 17 d. lgs. n. 163/2006, dell’obbligo, gravante sulla commissione di gara, di procedere all’apertura in seduta pubblica dei plichi contenenti le offerte tecniche.

Né può essere condiviso quanto affermato dall’appellante, secondo il quale l’art. 17 non ammette “una generale disapplicazione delle regole sulla pubblicità delle gare di appalto, bensì permette la deroga delle stesse in via eccezionale, solo ove la mancanza di secretazione potesse concretamente e seriamente dare luogo alla compromissione della difesa e sicurezza nazionale”. Ed infatti: per un verso, non vi è certamente una “generale disapplicazione” delle regole, per effetto dell’art. 17, ma solo la necessità di espressa indicazione – da parte dell’amministrazione con gli atti di disciplina della gara - delle regole cui si intende derogare (come avvenuto nel caso di specie), essendo ovviamente sottoposta tale decisione dell’amministrazione al normale sindacato giurisdizionale, anche sotto il profilo della ragionevolezza; per altro verso, non è possibile limitare (come affermato dall’appellante) la”secretazione” (ovvero, nel caso di specie, in modo più limitato, l’apertura delle buste non in seduta pubblica), solo ai casi di “compromissione della difesa e della sicurezza nazionale” (concretamente accertate), posto che il dato normativo (pur nel succedersi delle modifiche) fa riferimento anche ad ipotesi di “particolari” o “speciali” misure di sicurezza, che certamente non si iscrivono nel più alto e generale concetto di “sicurezza nazionale”, ma, più limitatamente, richiamano quella “sicurezza” che deve presiedere allo svolgimento di taluni servizi e funzioni pubbliche e nell’approntamento dei mezzi necessari al loro svolgimento. Nel caso di specie, la natura e destinazione dell’opera a istituto di reclusione rende ex se evidenti le ragioni di sicurezza che fondano la possibilità di deroga ad alcune disposizioni in tema di procedure di affidamento, ai sensi dell’art. 17 d. lgs. n. 163/2006. FT



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Inserito in data 08/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 marzo 2013, n. 1411

Obbligo di dichiarazione ex art 38 cod appalti anche per amministratori di società fuse

Nel caso in esame, il bando di gara aveva previsto, pena l’esclusione, l’obbligo di rendere la dichiarazione ex art. 38, comma 1, lett. c, d. lgs. 163/2006 per gli amministratori con potere di rappresentanza cessati dalla carica nel triennio. Tuttavia, esso non aveva previsto espressamente il medesimo obbligo a carico degli amministratori di società fuse per incorporazione.

Secondo la sentenza, però, essi devono ritenersi inclusi tra gli “amministratori cessati nel triennio” considerato il profilo della sostanziale continuità del soggetto imprenditoriale risultante dalla fusione societaria a cui si riferiscono. Difatti, nelle ipotesi di fusione o di incorporazione di società, ancorché venute in essere antecedentemente all'avvio della gara, si realizza, anche se non la fattispecie di successione a titolo universale, “l'integrazione reciproca delle società partecipanti all'operazione, ossia una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo” (Cass. civ. sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637). Ritenuta la continuità nel nuovo soggetto, perdura, per le società che proseguono sotto la nuova identità della società incorporante l'onere di rendere la dichiarazione relativa ai propri amministratori cessati.

In altri termini, la società incorporante o risultante dalla fusione, non è un soggetto "altro" e "diverso", ma semmai un soggetto composito in cui proseguono la loro esistenza le società partecipanti all'operazione di incorporazione e, per l'effetto, non si possono considerare "altrui" gli amministratori che sono amministratori di un soggetto che è parte del tutto e che conserva la sua identità originaria sotto una diversa forma giuridica. CDC



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Inserito in data 08/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 marzo 2013, n. 1410

Art 129 cpa non opera per omessa correzione di errore materiale su manifesti elettorali

La formulazione letterale dell'art. 129 cpa rende evidente come la possibilità di impugnazione immediata riguardi esclusivamente e specificatamente “i provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni”, come quelli di formale esclusione di liste o di candidati. Ciò costituisce peculiare disciplina derogatoria rispetto alla regola per la quale ogni provvedimento relativo al procedimento, anche preparatorio, per le elezioni amministrative, è impugnabile soltanto alla conclusione del procedimento elettorale, unitamente all'atto di proclamazione degli eletti. Pertanto, i casi di applicazione del rito speciale previsto dall'art. 129 cpa sono di stretta interpretazione.

È quindi evidente come l'onere di spiegare le impugnative introduttive del giudizio di specie, non rientrando esso nel nucleo di ipotesi contemplate dall'art. 129 cpa, non poteva sorgere se non alla conclusione del procedimento elettorale. Infatti, il ricorrente aveva chiesto l’annullamento non di veri e propri atti di esclusione dal procedimento preparatorio dalle elezioni regionali, ma delle “determinazioni omissive e soprassessorie assunte dai Presidenti dei seggi elettorali della circoscrizione elettorale della Provincia di Milano a fronte dell’ordine di correzione dell’errore materiale riportato sui manifesti elettorali consistente nell’erronea indicazione” del suo nome.

Le omissioni dei Presidenti di seggio concretamente impugnate non possono infatti assolutamente ritenersi, non essendo ammissibile il ricorso all’istituto della analogia, coincidenti con atti immediatamente comportanti l'impedimento alla partecipazione al procedimento elettorale. CDC



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Inserito in data 08/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, QUINTA SEZIONE PENALE, 27 febbraio 2013, n. 9937

Giornalismo di denuncia: giornalista scriminato se c'è interesse pubblico alla notizia

Il giornalismo di denuncia è tutelato dal principio costituzionale in materia di diritto alla libera manifestazione del pensiero, quando indichi motivatamente ed argomentatamente un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione di indagine agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure.

Quindi, quando una notizia sia riferita in forma dubitativa, esclusi i casi in cui il sospetto sia obiettivamente assurdo e sempre che sussista l'interesse pubblico all'oggetto dell'indagine giornalistica, l'operato del giornalista è destinato a ricevere tutela primaria rispetto all'interesse del soggetto su cui il sospetto ricade; ciò affinché il risvolto del diritto all'espressione del pensiero del giornalista, costituito dal diritto della collettività ad essere informata su temi di rilievo generale, sia operativo in concreto.CDC




Inserito in data 07/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 marzo 2013, n. 1302

Negli scioperi brevi la trattenuta è pari alla reale durata dell’astensione dal lavoro

Il Collegio si pronuncia sull’ammontare della trattenuta da operare sugli stipendi dei personale statale nell’ipotesi di scioperi cd. “brevi”, ossia di durata inferiore alla giornata lavorativa. In particolare, oggetto della diatriba è se l’Amministrazione possa decurtare dallo stipendio una somma corrispondente all’intera giornata lavorativa, seppure lo sciopero sia stato breve nel senso anzidetto.

All’uopo si richiama l’art. 171 della L. 11 luglio 1980, n. 312, ove è contenuta sia la regola che l’eccezione. Segnatamente, la regola generale è che “Per gli scioperi di durata inferiore alla giornata lavorativa le relative trattenute  sulle  retribuzioni  possono  essere  limitate all'effettiva  durata  dell'astensione  dal  lavoro” (art. 171, c. 1, prima parte, L. n. 312/1980). L’ipotesi eccezionale in cui l’Amministrazione datrice di lavoro può operare una decurtazione pari all’intera giornata lavorativa a fronte di uno sciopero breve è costituita dai casi in cui “trattandosi di lavoro basato sull'interdipendenza funzionale di settori, reparti,  servizi  e  uffici  oppure  riferito  a  turni od attività   integrate,  lo  sciopero  limitato  ad  una  o  più  ore lavorative  produca  effetti  superiori o più prolungati rispetto a quelli derivanti dalla limitata interruzione del lavoro”.

Nel caso di specie, poiché in primo grado non era stato dimostrato che lo sciopero avesse procurato disagi maggiori di quelli corrispondenti alla durata dell’astensione dal lavoro, né era più facilmente dimostrabile stante il decorso di oltre 25 anni dal momento in cui la predetta astensione dal lavoro si era verificata, il Consiglio di Stato conferma la sentenza impugnata che aveva annullato il provvedimento con cui l’Amministrazione operava una trattenuta pari all’intera giornata lavorativa in relazione a uno sciopero breve. TM



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Inserito in data 07/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 5 marzo 2013, n. 1343

L’episodica detenzione di stupefacenti rivela l’inidoneità all’arruolamento nella GDF

Requisito per l’arruolamento nelle forze di polizia (art. 26, L. n. 53/89), così come per essere ammessi alla magistratura, è il poter vantare una “condotta incensurabile”.

Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la valutazione sul possesso di tale condizione si compie mediante un giudizio prognostico: si deve valutare se il comportamento censurato è talmente grave da far ritenere che l’aspirante poliziotto/magistrato non darà affidamento per il futuro, considerati i delicati compiti che sarà chiamato a svolgere. La valutazione di incensuratezza deve basarsi su elementi di fatto concreti (piuttosto che su dicerie o sospetti) e inerenti alla persona dell’aspirante o alle sue frequentazioni. Trattasi di giudizio ampiamente discrezionale, sindacabile dall’A.G.A. esclusivamente sotto il profilo dell’eccesso di potere (es. mancanza e insufficienza della motivazione posta a fondamento del provvedimento; contraddittorietà e irragionevolezza della valutazione effettuata; illogicità della misura assunta).

Tra i fatti che possono deporre nel senso della mancanza del requisito delle qualità morali e di condotta si annovera la detenzione di sostanze stupefacenti. In alcune decisioni (cfr. sentenza 31 dicembre 2007 n. 6848), il Consiglio di Stato ha puntualizzato che “un unico, singolo episodio di detenzione di sostanze stupefacenti non può essere considerato di per sé ostativo al possesso della condotta incensurabile di soggetti candidati all’arruolamento nelle Forze armate e nei corpi di polizia”.

Di diverso avviso è il Consiglio di Stato nella decisione in commento. Si afferma, infatti, che non è viziata la decisione della Guardia di Finanza con cui è stato escluso dalla procedura selettiva, in considerazione di un singolo episodio di possesso di hashish, un aspirante allievo maresciallo, che aveva superato tutte le fasi concorsuali. Ciò in quanto “quell’unico episodio appare decisivo ed essenziale ai fini del giudizio prognostico di carattere negativo formulato dall’Amministrazione a mezzo del provvedimento impugnato […] in ordine alla futura tenuta comportamentale di chi rivestendo lo status di Maresciallo della G.d.F deve assolvere, quale ufficiale di polizia giudiziaria, a rilevanti e delicati compiti di contrasto e repressione dei fenomeni legati proprio all’uso di sostanze stupefacenti”. TM



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Inserito in data 07/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 marzo 2013, n. 1259

Pratiche commerciali scorrette: servizi falsamente reclamizzati per gratuiti e opt out

La Sesta Sezione del Consiglio di Stato esamina due differenti pratiche commerciali sospettate di scorrettezza: la reclamizzazione come gratuiti di prodotti che tali non sono; il metodo di adesione ai servizi aggiuntivi dell’opt out (che impone di deselezionare per non acquistare).

1) Il Supremo Consesso ricorda che una pratica commerciale è scorretta se idonea ad indurre il consumatore medio ad una scelta economica che altrimenti non avrebbe compiuto (art. 20 d.lgs. n. 206/05). Ciò si verifica, tra l’altro, quando la pratica commerciale: interferisce sulle caratteristiche principali del prodotto, sul modo di calcolo del prezzo (art. 21, c.1, lett. a) e b), ibidem); omette o presenta in forma poco chiara o incompleta informazioni rilevanti (art. 22, c.1 e 2, ibidem); non dà certezza sulla garanzia del prezzo offerto (art. 23, c.1, lett. e), ibidem); descrive il prodotto come gratuito pur gravando il consumatore di oneri ulteriori (art. 23, c.1, lett. v), ibidem). 

Alla luce dei premessi richiami legislativi, il Consiglio di Stato reputa di particolare gravità l’ingannevolezza dei messaggi pubblicitari sulle offerte di viaggi da e per la Sardegna e la Corsica sub iudice, conformemente a quanto affermato dall’AGCM. Infatti, tali messaggi pubblicitari ponevano l’accento sulla gratuità del viaggio di ritorno (offerta “Vai in Sardegna o Corsica. TORNI GRATIS*”) e non enfatizzavano in modo eguale, sotto il profilo grafico, la circostanza che il viaggiatore avrebbe comunque dovuto pagare tasse, diritti e supplementi; la particolare gravità della pratica scorretta de qua risulta pure dalla limitazione dell’offerta alla sottoscrizione di una specifica tariffa per il viaggio di andata (tariffa BEST PRICE A) meno conveniente di altre (tariffa SUPER BEST PRICE), con la conseguente possibilità che la tariffa complessiva risultasse maggiore di altre non oggetto di promozione, come accertato dall’AGCM. Per cui, sebbene il consumatore avrebbe potuto individuare compiutamente il contenuto dell’offerta e il suo prezzo complessivo, il messaggio pregiudizialmente determinato dal segno della gratuità era fuorviante. Precisa, infine, il Consiglio di Stato che non rileva in senso contrario la circostanza che l’obbligo di indicazione del prezzo onnicomprensivo per il trasporto marittimo, a pena di ingannevolezza della relativa pubblicità, è stato introdotto successivamente allo svolgimento del procedimento de quo (con l’art. 22bis del d.lgs. n. 206/2005 del consumo entrato in vigore il 15 agosto 2009) poiché, come già evidenziato, la fattispecie esaminata appare illecita anche a fronte della normativa previgente.

2) In ordine al secondo profilo, la Sesta sezione aderisce all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la previsione dell’adesione del consumatore all’offerta dei servizi aggiuntivi con meccanismo di opt out anziché di opt in non è di per sé idonea ad incidere sulla consapevolezza e volontarietà della decisione commerciale del consumatore; ciò in quanto tale metodo di espressione del consenso non esclude che il contenuto della proposta sia chiaramente determinato, sotto il profilo del tipo dei servizi accessori offerti, della loro facoltatività e del loro prezzo; d’altro canto, il meccanismo dell’opt out riflette anche la normale prassi negoziale in cui a fronte dell’offerta del venditore consegue il rifiuto del consumatore che ritenga non conveniente l’offerta. Pertanto, fino al 2008, la pratica dell’opt out non era necessariamente considerata ingannevole.

Poi, il regolamento CE n. 1008 del 2008 ha innovato sul punto, stabilendo la regola della scorrettezza in sé della pratica dell’opt out. Così si è inteso eliminare la discrezionalità della giurisprudenza nella valutazione in concreto della scorrettezza del meccanismo della deselezione, al fine di eliminare in radice il rischio che un consumatore possa essere costretto a pagare per un servizio aggiuntivo non realmente voluto. Tuttavia, tale regolamento non trova applicazione nel procedimento de quo, essendo entrato in vigore dopo lo svolgimento dello stesso (1/11/2008). TM



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Inserito in data 06/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 febbraio 2013, n. 1137

Atto illegittimo per difetto di motivazione: risarcimento del danno e riedizione del potere

Deve escludersi che l'annullamento di un atto illegittimo per difetto di motivazione possa ex se comportare il diritto al risarcimento dei danni subiti, in quanto tale vizio non esclude (ma, anzi, consente) il riesercizio del potere, con la conseguenza che la domanda di risarcimento non può essere valutata che all'esito del nuovo eventuale esercizio del potere. SL



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Inserito in data 06/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 febbraio 2013, n. 1095

Accesso ai documenti: inammissibile nel caso di controllo generalizzato sugli atti

A norma dell'art. 24, comma 7 della legge n. 241/1991, "deve…essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici"; nel caso di "documenti contenenti dati sensibili e giudiziari", poi, la medesima norma precisa che l’accesso è consentito solo "nei limiti in cui sia strettamente indispensabile" (in esito ad un sostanziale bilanciamento di interessi, operato già a livello legislativo).

Il tenore letterale e la ratio della disposizione legislativa in questione impongono un’attenta valutazione – da effettuare caso per caso – circa la stretta funzionalità dell’accesso alla salvaguardia di posizioni soggettive protette, che si assumano lese, con ulteriore salvaguardia, attraverso i limiti così imposti, degli altri interessi coinvolti, talvolta rispondenti a principi di pari rango costituzionale rispetto al diritto di difesa. In tale ottica solo una lettura rigorosa – che escluda la prevalenza acritica di esigenze difensive genericamente enunciate, ma riconosca tali esigenze come prevalenti, ove realmente funzionali al diritto di difesa – appare idonea a sottrarre la medesima norma a dubbi di costituzionalità, per irragionevole sacrificio di interessi protetti di rilevanza costituzionale e comunitaria. SL



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Inserito in data 06/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 febbraio 2013, n. 1097

Appello: inammissibili le perizie tecniche depositate per la prima volta in secondo grado

Costituisce ormai jus receptum che le perizie di parte, essendo mezzi di prova, non possono essere prodotte per la prima volta in grado di appello, ostandovi il divieto di nova oggi contenuto nell’art. 104, comma 2, cod. proc. amm. SL



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Inserito in data 05/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 4 marzo 2013, n. 1270

Il coniugio quale situazione genetica di incompatibilità. Lex minus dixit quam voluit

La pronuncia è singolare nella misura in cui, intervenendo in un ambito estremamente controverso quale quello afferente al mondo accademico e relativo accesso, il Collegio riscontra un caso peculiare in cui la lex minus dixit quam voluit.

Più nel dettaglio, oggetto della doglianza è la mancata previsione, in ordine alle cause di esclusione da una selezione pubblica destinata all’attribuzione di assegni per la ricerca universitaria, del rapporto di coniugio di uno dei potenziali aspiranti, con taluno dei membri del Dipartimento sede dell’eventuale attività di ricerca  – come accaduto nel caso in esame.

I Giudici, condividendo la posizione dell’Organo di primo grado, riconoscono il rapporto di coniugio quale situazione genetica di incompatibilità; non vi è dubbio alcuno, infatti, per cui una circostanza di chiara “vicinanza”, quale quella derivante dal matrimonio, dettata anche dall’obbligo della coabitazione – ex art. 143 – 2’ co. cod. civ. - non possa non sfociare in un familismo universitario che va combattuto, anziché istituzionalizzato.

Il Collegio, pertanto, ritenendo questa un’ipotesi di carenza del dettato legislativo, insiste per un’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame; la sola in grado, in sostanza, di consentire il superamento della palese irragionevolezza, ritenendo esteso il precetto limitativo anche ai coniugi, come già previsto nel primo grado di giudizio.

La Sezione specifica, altresì, che una simile affermazione è condivisa alla luce del rilievo costituzionale attribuibile al principio di eguaglianza.

Infatti, un’incompatibilità, quale quella prevista dalla norma censurata, riferita a “un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso” si fonda sul possibile affievolimento del principio di eguaglianza e della conseguente par condicio dei candidati, che deriva dalla familiarità tra giudicante e giudicato.

Questa familiarità, proseguono i Giudici del gravame, è certamente della massima intensità nel caso del coniuge e non vi è ragione alcuna, pertanto, per discostarsi dalla posizione assunta già dal Tribunale amministrativo locale. CC



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Inserito in data 05/03/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. II, 1 marzo 2013, n. 458

Modificazioni soggettive esecutore contratto d’appalto e Giudice competente

Il TAR leccese ripercorre l’iter argomentativo, già pienamente avallato e condiviso dai due Massimi Collegi, riguardo al definitivo chiarimento circa la devoluzione, in sede giurisdizionale, di controversie pari a quella oggetto della vicenda in esame.

Le modificazioni soggettive dell’esecutore di un contratto di appalto, alla stregua di quanto accaduto in tale sede, costituiscono, infatti, mere vicende rientranti nella fisiologica esecuzione di un’ordinaria attività negoziale, come tale suscettibile di essere rimessa al Giudice Ordinario.

Ciò che si verifica, infatti, è un semplice accertamento circa la ricorrenza dei requisiti – ex art. 38 D. Lgs. 163/06 – in capo alla nuova ditta subentrante; non vi è alcuna valutazione discrezionale, né alcuna rinnovazione delle procedure di gara da parte della stazione appaltante – come paventato dalla ricorrente, all’atto di giustificare la devoluzione al Giudice amministrativo locale, per l’appunto adito.

L’attività ispettiva, attribuita alla stazione appaltante in vicende simili – ex art. 116 D. Lgs. 163/06, costituisce, piuttosto, un evidente potere di verifica, a fronte del quale la posizione del cessionario ha natura e consistenza di diritto soggettivo, con conseguente devoluzione all’AGO, secondo l’ordinario criterio di riparto della giurisdizione basato sulla natura giuridica della posizione soggettiva azionata. CC



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Inserito in data 05/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 febbraio 2013, n. 1208

Mansioni superiori svolte dai dipendenti pubblici: il dibattito circa la riconoscibilità

I Giudici, condividendo la posizione del Collegio di primo grado, sottolineano come la maggiorazione in sede retributiva sia dovuta ai dipendenti pubblici soggetti a reinquadramento in modo contestuale allo svolgimento effettivo, da parte degli stessi, delle superiori mansioni loro affidate.

Costituisce, infatti, ius receptum il principio secondo cui le pretese economiche non possono che avere riguardo alla effettiva prestazione del servizio, in aderenza a criteri di logica e buon andamento dell’azione amministrativa.

Pertanto, posto che la delibera dell’Amministrazione appellante dava atto dell’avvenuta ricollocazione, riguardo al funzionario appellato, nei ruoli dirigenziali – sulla base di mansioni di carattere superiore dallo stesso effettivamente svolte, non vi è ragione alcuna nel non voler procedere al giusto riconoscimento, negli appositi ruoli e nelle corrispondenti voci in sede giuridica ed economica, come dal medesimo richiesto. CC



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Inserito in data 04/03/2013
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 1 marzo 2013, n. 31

Consiglieri regionali in rapporto alla popolazione. Coordinamento finanziario

I Giudici della Consulta sanciscono la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Difesa erariale in merito ad una legge regionale e ad una presunta violazione, dalla stessa arrecata, ai parametri di cui agli articoli 117 – 3’ co. e 134 della Carta Fondamentale.

In particolare, le disposizioni normative locali, sopraggiungendo rispetto alla originaria manovra di finanza pubblica – di cui al D.L. n. 138/11 convertito in Legge n. 148/11 – ne hanno rispettato le previsioni in ordine al tetto massimo previsto per il numero di consiglieri regionali, ritenuto ammissibile in ragione di esigenze di coordinamento finanziario.

La Regione resistente, infatti, avrebbe mantenuto il dettato normativo nazionale, in quanto il numero di consiglieri che risulterebbe dall’applicazione del criterio di proporzionalità previsto dalla relativa norma sarebbe rispettoso delle soglie dettate dalla disciplina statale, e perché la normativa regionale, determinando «il numero dei consiglieri regionali in rapporto alla popolazione residente» e con ciò «garantendo un buon rapporto tra rappresentanti e rappresentati», rispetterebbe il principio, contenuto nel parametro interposto, che «il numero dei seggi in Consiglio regionale sia parametrato alla popolazione residente nel territorio regionale».

Altrettanto infondata appare, ad avviso della Consulta, l’ulteriore censura riferita all’articolo 134 della Costituzione, posto che la Regione resistente ha sostenuto che, nell’emanare la legge regionale quivi scrutinata, essa «si è limitata ad esercitare, nell’ambito della propria autonomia statutaria costituzionalmente riconosciuta, le prerogative in materia elettorale del pari sancite in Costituzione».

Appare, pertanto, del tutto inconferente il parametro invocato dal Governo a quo, in quanto tale articolo disciplina le competenze della Corte costituzionale, che non sono state in alcun modo pregiudicate dall’esercizio della funzione legislativa da parte del Consiglio regionale – come in tale sede paventato. CC



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Inserito in data 04/03/2013
TRIBUNALE LAVORO - TRAPANI, sentenza 15 febbraio 2013, n. 90

Insegnante precario e abuso contratti a termine: diritto ad un maxi risarcimento

Con una pronuncia di indubbio peso sul piano sia giuridico che sociale, un Giudice del lavoro siciliano liquida una consistente cifra, anche a titolo di lucro cessante futuro, a favore di un docente precario, inserito da quasi un decennio nel mondo della scuola a mezzo di ripetuti contratti a termine.

Il Tribunale trapanese, esaminando una questione tristemente frequente nel contesto sociale odierno, sottolinea la necessità che, a soggetti che versino in situazioni analoghe a quella propria del ricorrente, si riconoscano consistenti voci retributive, comprendenti mancati scatti d'anzianità, stipendi estivi non corrisposti per gli anni passati e per quelli futuri fino alla pensione.

Infatti, prosegue il Giudice, è presumibile che l’Amministrazione scolastica continui, negli anni seguenti, ad avvalersi di una prassi – quale quella dei contratti a termine – estremamente iniqua per l’affidamento ingenerato nei vari contraenti, oltrechè per la carenza di voci pensionistiche e retributive che, altrimenti, dovrebbero essere corrisposte.

In ragione di ciò, si comprende la posizione del Tribunale siciliano che, distinguendo tra il periodo fuori graduatoria e quello all’interno della medesima, riesce ad individuare una quantificazione equitativa del danno per tutti gli anni lavorativi residui in capo all’insegnante ricorrente.

In particolare, limitatamente al periodo di mancata idoneità, è necessario riconoscere al docente le mensilità dei mesi estivi pregressi, oltrechè l’attribuzione dei punteggi frattanto maturati.

In un secondo momento, invece, raggiunta l’idoneità all’insegnamento, stante il pieno diritto del soggetto ad essere assunto a tempo indeterminato, occorre che gli “siano riconosciuti (a titolo di lucro cessante futuro) gli scatti di anzianità, la retribuzione per i mesi di luglio e agosto di ciascun anno e il relativo punteggio ai fini della graduatoria”.

Tutto ciò, insiste il Tribunale del Lavoro, in considerazione dell’erronea posizione dell’Amministrazione scolastica che, anziché abusare di contratti a termine, avrebbe dovuto porre le basi per una stabilizzazione – tanto sul piano giuridico ed economico – di migliaia soggetti aventi tutta la possibilità di potervi aspirare.

In tal guisa tale Giudice, provvedendo, a favore del ricorrente precario, al ristoro sin dalla presente pronuncia fino all’età pensionabile, statuisce la corresponsione di un maxi risarcimento – già inquadrato dai più come un equo indennizzo.

Questo rappresenta, del resto, l’epilogo di una triste vicenda in cui versa lo Stato italiano.

Infatti, l’abuso di contratti di supplenza ormai divenuti contra legem perchè stipulati a favore di soggetti invero idonei, cui la nostra Amministrazione scolastica ricorre, evidenzia un’immensa lacuna del nostro Ordinamento, esposto – ancora una volta – al probabile monito dei Giudici di Lussemburgo, da tempo, invece, intenti a dare continuità giuridica ed economica a soggetti aventi tutti i titoli richiesti ex lege. CC




Inserito in data 04/03/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA – GRANDE SEZIONE C - 617/10 del 26 febbraio 2013

Contestualità di sanzioni non viola il ne bis in idem

I Giudici europei, nella propria massima composizione, ricordano la possibile irrogazione, a carico del medesimo soggetto, di una sanzione di natura amministrativa e di una ulteriore – avente natura penale – in merito alla stessa vicenda.

In particolare, la Corte sottolinea come non sia violato il fondamentale principio giuridico del ne bis in idem laddove, come nel caso in esame, un soggetto risponda, al contempo, in ambito amministrativo ed in sede penale.

Gli Stati membri, infatti, dispongono di un’ampia libertà di scelta in merito ai tempi e ai modi delle sanzioni applicabili, nonché in ordine alla possibilità di combinare, persino, quelle di natura differente – come accaduto riguardo all’odierna doglianza.

L’unica eccezione ricorre nel caso in cui la sanzione fiscale fosse di natura penale e divenuta definitiva ai sensi della Carta; in un caso simile, il principio del ne bis in idem osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona. CC



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Inserito in data 01/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 febbraio 2013, n. 1186

Retribuibilità lavoro straordinario dei militari richiede previa formale autorizzazione

Anche nel rapporto di pubblico impiego dei militari della Guardia di finanza, la retribuibilità del lavoro straordinario è condizionata all'esistenza di una previa e formale autorizzazione allo svolgimento di prestazioni eccedenti l'ordinario orario di lavoro.

Essa svolge una pluralità di funzioni, riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, e implica la verifica in concreto della sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l'orario normale di lavoro. Ciò serve ad evitare che mediante incontrollate erogazioni di somme per prestazioni di lavoro straordinario si possano superare i limiti di spesa fissati dalle previsioni di bilancio e che i pubblici dipendenti siano assoggettati a prestazioni lavorative le quali, eccedendo quelle ordinarie individuate come punto di equilibrio fra le esigenze dell'amministrazione e il rispetto delle condizioni psico-fisiche del dipendente, possano creare nocumento alla salute e alla dignità della persona. Inoltre, la preventiva autorizzazione al lavoro straordinario deve costituire per la PA anche lo strumento per un'opportuna e adeguata valutazione delle concrete esigenze dei propri uffici quanto al loro concreto funzionamento, alla loro effettiva capacità di perseguire i compiti ed espletare le funzioni attribuite dalla legge, nonché alla organizzazione delle risorse umane ed alla loro adeguatezza.

Pertanto, deve escludersi che la PA sia tenuta a pagare le ore di lavoro straordinario prestate in eccedenza al limite massimo previsto dal monte ore autorizzato e senza che risulti comprovata l'effettiva autorizzazione preventiva a svolgere il lavoro extra orario. In tal caso, va riconosciuto il diritto del lavoratore al godimento dei riposi compensativi per il lavoro straordinario effettivamente.

Tale principio deve trovare applicazione anche per il rapporto di pubblico impiego dei militari.

Se è vero, infatti, che il particolare status di questi ultimi non consente di contestare l'organizzazione degli uffici e dei servizi cui sono addetti e le concrete modalità di svolgimento delle loro prestazioni, ma li obbliga alla effettiva e completa prestazione lavorativa loro ordinata, non può però ammettersi che mediante gli ordini di servizio siano di fatto frustrate le finalità di garanzia del buon andamento dell'Amministrazione cui indubbiamente risponde il provvedimento di previa autorizzazione. Ciò non significa, naturalmente, che il militare - tenuto in base ad ordine a prestare servizio straordinario pur avendo raggiunto il tetto orario prefissato - non abbia diritto ad una piena reintegrazione: infatti in tale ipotesi, in cui per le ragioni anzidette non può operare il sinallagma retributivo, la tutela dell'integrità psicofisica del dipendente viene assicurata dall'istituto del riposo compensativo. CDC



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Inserito in data 01/03/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 febbraio 2013, n. 1187

Insindacabili nel merito le scelte della PA in tema di strumento urbanistico generale

Con uno dei motivi di appello, si deduceva l’illegittimità (per violazione di legge) della localizzazione in zona agricola di un impianto di deposito di GPL.

Il Consiglio di Stato ritiene infondato il motivo, in quanto le uniche doglianze che i vicini possono proporre attengono alla macroscopica illogicità, irrazionalità o erroneità della scelta; in altre parole, “le scelte effettuate dalla Pubblica amministrazione in sede di formazione ed approvazione dello strumento urbanistico generale sono accompagnate da un'amplissima valutazione discrezionale per cui, nel merito, appaiono insindacabili e sono per ciò stesso attaccabili solo per errori di fatto, abnormità e irrazionalità delle stesse” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 22 maggio 2012, n. 2952).

Non è sufficiente a sostenere la macroscopica illogicità della scelta la critica secondo cui nel Comune interessato sarebbero disponibili già varie aree industriali, come tali più idonee di quelle agricole a tali insediamenti. CDC



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Inserito in data 01/03/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, 21 febbraio 2013, n. 4474

Diritto a indennizzo da durata irragionevole del processo: la parte non deve essere contumace

Il diritto all'indennizzo da durata irragionevole del processo presuppone che la parte abbia concretamente partecipato al giudizio presupposto, cioè che non sia rimasta contumace per tutta la sua durata. Qualora invece abbia assunto la posizione di contumace, non può ritenersi che essa abbia acquisito la qualità di parte danneggiata, non assumendo alcuna influenza, al riguardo, che essa sia, poi, destinataria degli effetti della sentenza, costituendo questa una conseguenza naturale del processo.

Infatti, il diritto all'indennizzo da durata irragionevole del processo implica necessariamente che la parte abbia subito, in concreto, un danno (patrimoniale o non patrimoniale) riconducibile alla protrazione intollerabile del processo oltre la sua durata ragionevole. Quindi, solo la parte che abbia attivamente partecipato al processo in quanto costituita può subire quel patema d'animo ovvero quella sofferenza psichica causata dal superamento del limite ragionevole della durata del processo e assumere la qualità di "parte danneggiata" (condizione imprescindibile tutelata dalla legge n. 89 del 2001).

Non può, invece, essere attribuita tale qualità a chi ha scelto, consapevolmente, di non costituirsi nel giudizio e, quindi, sostanzialmente, di disinteressarsi dello stesso, dimostrandosi incurante degli effetti di una possibile decisione negativa nei suoi confronti (ed insensibile ai tempi di svolgimento del processo, che, peraltro, non di rado, auspica che si protraggano oltre quella che dovrebbe essere la loro fisiologica durata). CDC




Inserito in data 28/02/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III, 26 febbraio 2013, n. 2106

Diniego accesso: segretezza sul know-how aziendale e sui rapporti commerciali

La pronuncia è significativa poiché ricorda le possibili limitazioni ed il bilanciamento di valori, applicabili in genere al diritto di accesso.

In particolare, a fronte di una richiesta, rimasta inevasa e condotta da una ditta esclusa, di poter accedere alla documentazione tecnica ed amministrativa propria dell’azienda ammessa ed afferente alla gara, il Collegio laziale ricorda come si debba adeguatamente motivare la ragione della voluta segretezza sugli atti, ex art 13, comma 5, lett. a), d.lg. n. 163 del 2006 – quale quella paventata dall’azienda resistente.

Infatti, laddove l’ostensibilità dei documenti potesse consentire un rapido approdo ai segreti industriali e commerciali propri di una ditta commerciale, diventa facile comprendere la ratio della deroga alle norme sul diritto di accesso – quale quella oggetto dell’odierna censura.

Tuttavia, posto che non è stata fornita alcuna prova circa le specifiche ragioni di tutela del segreto industriale e commerciale custodito negli atti di gara e pertinente a precisi dati tecnici, il diritto di accesso avrebbe dovuto essere consentito.

I Giudici romani, in tal guisa, avallano la posizione della ditta istante, in tale sede ricorrente. CC



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Inserito in data 28/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 febbraio 2013, n. 1180

Va annullata la prova concorsuale copiata, perché rielaborazione servile e imitativa

L’art. 23 ult. c., del r.d. n. 37/1934 impone l’annullamento della prova concorsuale e l’esclusione del candidato, qualora la commissione accerti che il lavoro sia copiato in tutto o in parte.

Secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato e condiviso dalla decisione in epigrafe, la prova deve essere annullata laddove si accerti che l’elaborato del candidato sia in tutto o in parte copiato, sia individuato il lavoro o la pubblicazione cui il candidato ha attinto e sia indicata la supposta parte copiata.

La giurisprudenza accoglie un’accezione ampia di copiatura, ricomprendendovi sia la riproduzione fedele, che la rielaborazione servile e meramente imitativa (ravvisabile nell’identità di impostazione, contenuti e forma). Ciò in quanto l’art. 23 succitato mira a garantire non solo che “la selezione dei candidati avvenga secondo l’effettivo loro merito, senza apporti estranei”, ma anche “l’originalità del prodotto intellettuale del candidato, quale elemento rivelatore del grado di maturità e di preparazione richiesto per assolvere i compiti nel posto messo a concorso”.

Inoltre, nel motivare l’annullamento, si ritiene che la Commissione sia tenuta solo ad enunciare la propria certezza circa la copiatura dell'elaborato, non essendo necessario che dia una compiuta ed esaustiva dimostrazione della fondatezza del proprio convincimento, né che indichi analiticamente tutte le corrispondenze riscontrate.

Infine, è pacifico che il giudice non possa sostituirsi alla Commissione nella valutazione del merito dei compiti presentati, ma esclusivamente sindacare sotto i profili della logica e della razionalità, la legittimità o meno dell’esclusione di un candidato.

Nel caso di specie, è stata annullata la sentenza del T.A.R. e confermato il provvedimento di esclusione del candidato, in quanto la copiatura era ictu oculi evidente per la coincidenza dei richiami giurisprudenziali e per l’impostazione complessiva dell’elaborato. TM



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Inserito in data 28/02/2013
CEDU - GRANDE CAMERA - n. 19010/07 del 19 febbraio 2013

Si al diritto di adozione della prole del partner omosessuale

I Giudici di Strasburgo, con una pronuncia inizialmente sorta con riguardo all’Austria, ma suscettibile di essere estesa a tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa, riconoscono la possibilità di adottare anche all’interno di una coppia omosessuale.

Infatti, a pena di violare gli articoli 14 e 8 della Convenzione Europea dei diritti umani, statuenti la non discriminazione e il diritto al rispetto della vita familiare, la Corte statuisce la possibilità che si adottino anche i figli, naturali o adottati, in precedenza avuti dal compagno/a.

Non c’è ragione alcuna, proseguono i Giudici di Strasburgo, per cui la necessità o l’opportunità di legalizzare un simile rapporto subisca delle limitazioni in ragione dell’orientamento sessuale proprio dei due partner - potenziali genitori.

La pronuncia, come è evidente, rispondendo ad un orientamento sempre più attuale, esprime un rigido monito nei confronti dell’Austria, così come nei riguardi degli altri Stati non contemplanti la c.d. “adozione successiva” unicamente nei riguardi delle coppie gay.

Infatti, posto che l’adozione dei figli dei compagni è possibile per le coppie eterosessuali non sposate, la Corte evidenzia come il governo austriaco non sia riuscito a dimostrare che la differenza di trattamento tra coppie gay ed eterosessuali fosse necessaria per proteggere la famiglia o gli interessi dei minori.

Finisce, dunque, con il violare quel parametro di rispetto della vita privata e familiare, particolarmente tutelato in sede CEDU. CC



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Inserito in data 28/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 febbraio 2013, n. 1190

Sul rimborso delle spese legali al dipendente prosciolto in un processo penale

“L'art. 18 d.l. n. 67/1997 conv. in l. n. 135/1997 individua i presupposti che legittimano l'amministrazione a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un processo penale: è necessario che il giudizio di responsabilità sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali, e che esso si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell'istante”.

Ai fini dell’applicazione della disposizione de qua, “la connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti siano riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto”. Per ottenere il rimborso delle spese legali, non è sufficiente, perciò, che il fatto avvenga durante e in occasione della prestazione lavorativa: del resto, altrimenti ritenendo, dovrebbero ricomprendersi nell’ambito applicativo dell’art. 18 del d.l. n. 67/97 tutte le imputazioni relative a reati propri e inerenti a condotte che trovino nel servizio la mera occasione di realizzazione.

Nella specie, legittimamente l’Amministrazione aveva rigettato l’istanza di rimborso proposta dal pubblico dipendente, poiché il fatto dal quale aveva tratto origine l’accusa di concussione esulava del tutto dal servizio pubblico e riguardava fatti privati (in particolare, la condotta contestata consisteva nell’acquisto di cellulari a titolo personale). TM



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Inserito in data 27/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 25 febbraio 2013, n. 5

I) Le parti intimate possono costituirsi nell’udienza di merito, svolgendo solo difese orali

L’Adunanza Plenaria risolve il quesito posto, così sintetizzabile: le parti intimate possono costituirsi in giudizio nell’udienza di discussione?

In proposito, era emerso un contrasto nella giurisprudenza amministrativa.

L’orientamento prevalente riteneva “possibile la costituzione fino all’udienza di discussione con svolgimento però soltanto di difese orali, restando ferma la preclusione alla produzione di documenti e memorie oltre i termini di cui all’art. 73, comma 1, del codice del processo amministrativo […] così come alla formulazione di domande che soggiacciono a termini perentori”. Esso si basava “sul presupposto della natura non decadenziale ma meramente ordinatoria del termine per la costituzione in giudizio delle parti intimate, stabilito in sessanta giorni dal perfezionamento della notificazione del ricorso dall’art. 46, comma 1, del codice”. In questa prospettiva, il termine per la costituzione in giudizio delle parti intimate aveva funzione dilatoria, essendo posto “a garanzia delle parti intimate affinché, prima del suo decorso, non siano compiuti atti per esse pregiudizievoli”.

L’orientamento minoritario reputava, invece, che le parti intimate non potessero costituirsi in giudizio nell’udienza di merito.

Ad avviso dell’ordinanza di rimessione, l’entrata in vigore del c.p.a. fornirebbe argomenti, formali e sostanziali, in favore di quest’ultimo indirizzo, sovvertendo gli equilibri precedenti. Disattendendo la posizione espressa nell’ordinanza di rimessione, l’Adunanza Plenaria conferma l’indirizzo prevalente, affermando che: “Il termine per la costituzione in giudizio delle parti intimate previsto dall’art. 46, comma 1, del codice del processo amministrativo ha natura ordinatoria; esse possono perciò costituirsi in giudizio anche nell’udienza di merito ma svolgendo solo difese orali senza possibilità di produrre scritti difensivi e documenti”.

Difatti, dal “profilo formale dalla normativa del codice si evince che:

- l’art. 46, comma 1, dispone che le parti intimate “possono” e non “devono” costituirsi entro il termine e non prevede, se il termine sia decorso, la decadenza dal potere di […];

- mentre, quando nel codice si è ritenuto l’effetto decadenziale ovvero la perentorietà dei termini, ciò di norma è stato richiamato espressamente (articoli 41, comma 2, 45, comma 1, 52, comma 1, nonché 54, comma 1, in relazione all’art. 73, comma 1), dovendosi perciò ritenere, in linea di principio, l’applicazione dell’art. 152 c.p.c. ai sensi del rinvio esterno di cui all’art. 39 del codice;

- non sembra inoltre che dalla normativa vigente risulti una disciplina nettamente diversa da quella precedente, come richiamato nella relazione finale al codice (luglio 2010), in cui si indica che “per quanto riguarda la costituzione delle parti intimate, sono stati ribaditi i termini, ordinatori, già in atto previsti…”; ed in effetti nella normativa antecedente il termine per la produzione di memorie, di cui all’art. 23, comma 4, della legge n. 1034 del 1971, era ritenuto perentorio mentre era qualificato ordinatorio quello per la costituzione delle parti intimate;

- in questo quadro la previsione espressa di cui all’art. 55, comma 7, da un lato, non vale, per sé sola, a far ritenere che la medesima possibilità sia da escludere per l’udienza pubblica e, dall’altro, si giustifica con l’esigenza di chiarire e assicurare che la rapidità dei tempi della fase cautelare non è a discapito della possibilità di difesa delle parti intimate”.

“Sotto il profilo sostanziale, poi, si osserva che il giudice per ovviare al rischio di una lesione del diritto di difesa della controparte può comunque disporre il rinvio dell’udienza a data fissa, nel termine che riterrà congruo rispetto alla rilevanza delle questioni sollevate in udienza per consentirne la valutazione a garanzia del contraddittorio sostanziale.”

“E si può anche osservare che l’eventuale privilegio difensivo di cui le parti intimate godrebbero per effetto della costituzione in udienza è bilanciato dalla perdita delle facoltà processuali nel frattempo decadute per il decorso dei relativi termini, anzitutto con riguardo alla presentazione di scritti e documenti ai sensi dell’art. 73, comma 1”.

“Sarebbero lese, per converso, le prerogative difensive delle parti intimate se fosse loro vietata la costituzione in giudizio per il solo decorso di un termine non stabilito come decadenziale; ne risulterebbe infatti che il soggetto che non ha dato impulso al processo ma che vi è stato chiamato non potrebbe assumere una partecipazione attiva al giudizio, pur non essendogli ciò precluso da alcuna norma espressa”.

Ad abundantiam, il Supremo Consesso aggiunge che non può estendersi alla costituzione in giudizio oltre il termine di trenta giorni individuato dall’art. 73, c. 1, c.p.a. per il deposito delle memorie difensive illustrative, stante la portata oggettiva, chiara e inequivoca di detta disposizione. TM

 

 

 



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Inserito in data 27/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 25 febbraio 2013, n. 5

II) È legittimo mettere a gara gli spazi pubblici disponibili per la pubblicità commerciale

Nella medesima sentenza, l’Adunanza Plenaria scioglie l’ulteriore dubbio sulla legittimità dell’indizione di un’asta con offerta economica al rialzo per l’assegnazione degli spazi pubblici disponibili per gli impianti pubblicitari ad affissione diretta.

Invero, per un primo orientamento (sostenuto dal Consiglio di Stato e dal Consiglio di Giustizia), gli imprenditori sarebbero titolari di un diritto alla libera attività di affissione diretta, sottoposto ad autorizzazione onerosa al fine di salvaguardare valori estetici, ambientali e viabilistici. Di conseguenza, sarebbe illegittimo il provvedimento comunale che subordina l’accesso alla pubblicità stradale anche a concessione, con gara per l’attribuzione dell’area.

Viceversa, per il secondo orientamento (accolto in una pronuncia del Consiglio di Stato e condiviso dai T.A.R.), l’accesso alla pubblicità stradale sarebbe contingentato, stante la limitatezza degli spazi disponibili. Onde, sarebbe legittima la concessione degli spazi pubblicitari tramite gara.

L’Adunanza Plenaria aderisce a quest’ultimo orientamento, asserendo che: “E’ legittima la previsione di una procedura competitiva ad evidenza pubblica per la concessione degli spazi pubblici da utilizzare per la collocazione di impianti pubblicitari per affissione commerciale da parte di operatori economici privati”.

“In fatto la collocazione degli impianti pubblicitari commerciali su aree pubbliche urbane […] è vincolata dalla naturale limitatezza degli spazi disponibili all’interno del territorio comunale, ulteriormente ristretta per effetto dei vincoli sia di viabilità sia di tutela dei beni culturali gravanti sul territorio. Ciò motiva la statuizione di cui all’art. 3, comma 3, del citato d.lgs. n. 507 del 1993, per cui ciascun Comune “deve” determinare, oltre la tipologia, anche “la quantità” degli impianti pubblicitari e approvare un “piano generale degli impianti”, con la delimitazione della superficie espositiva massima dei diversi tipi di impianti (nella prassi ripartita tra le zone del territorio urbano), definendosi con ciò un mercato contingentato.”.

“Si configura con ciò un rapporto tra l’ente locale e il privato il cui modello di riferimento, alla luce della sua qualificazione sostanziale, è quello concessorio”.

Ciò premesso, tra i due possibili criteri di selezione dei concessionari (ossia tra il criterio dell’ordine cronologico di presentazione delle domande accoglibili e la procedura ad evidenza pubblica), l’Adunanza Plenaria preferisce il secondo, in quanto la gara è più idonea ad assicurare l’interesse pubblico all’uso efficiente del suolo pubblico e l’interesse privato al confronto concorrenziale. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, si rileva che “la procedura ad evidenza pubblica è istituto tipico di garanzia della concorrenza nell’esercizio dell’attività economica privata incidente sull’uso di risorse pubbliche”. “Quanto sopra è peraltro coerente con i principi comunitari, in particolare di non discriminazione, di parità di trattamento e di trasparenza; questo Consiglio ha infatti chiarito da tempo che, sul presupposto per cui con la concessione di un’area pubblica si fornisce un’occasione di guadagno a soggetti operanti sul mercato (come è nella specie), si impone di conseguenza una procedura competitiva per il rilascio della concessione, necessaria per l’osservanza dei ricordati principi a presidio e tutela di quello, fondamentale, della piena concorrenza”.

Infine, sotto il profilo impositivo, il Consiglio di Stato condivide l’orientamento secondo cui il titolo giuridico in base al quale i privati accedono agli spazi pubblici a fini pubblicitari non incide sull’assoggettamento o meno dell’impianto pubblicitario al canone (quale corrispettivo per la fruizione del bene pubblico) e/o alla tassa per l’occupazione di suolo pubblico (avente natura di prelievo tributario), oltreché all’imposta sulla pubblicità. TM

 

 



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Inserito in data 27/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 febbraio 2013, n. 1138

Confronto tra carenza d’interesse e cessazione della materia del contendere

Nel dichiarare l’improcedibilità del ricorso proposto, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato si sofferma sulla distinzione tra carenza d’interesse (figura di elaborazione giurisprudenziale e ora prevista dall’art. 35, c. 1, lett. c, c.p.a.) e cessazione della materia del contendere.

La figura della carenza di interesse “è accomunata a quella limitrofa della cessazione della materia del contendere per la disciplina, che determina in entrambi i casi l’improcedibilità del ricorso, e per la tipologia di fatto di origine, che è sempre un ulteriore provvedimento della pubblica amministrazione che interviene nel rapporto in contestazione”.

“Tuttavia le due figure si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell’interesse leso. La sopravvenuta carenza di interesse, infatti, opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell’assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l’amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l’operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell’interesse azionato”.

“Inoltre, proprio perché la valutazione dell’interesse alla prosecuzione dell’azione spetta unicamente al ricorrente, la sua carenza può essere conseguenza anche di una valutazione esclusiva dello stesso soggetto, in relazione a sopravvenienze anche indipendenti dal comportamento della controparte”.

“Tale ultima evenienza si realizza proprio nella fattispecie in esame, in quanto la parte ricorrente ha dichiarato di non aver più interesse alla prosecuzione dell’azione, stante la nuova regolazione degli interessi derivante dalla sentenza del T.A.R. di Bari n. 601 del 18 marzo 2009, imponendo conseguentemente la dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse”. TM



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Inserito in data 26/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 febbraio 2013, n. 965

L’ammissibilità, in via di principio, dell’avvalimento interno non implica anche quello implicito

1. L’ammissibilità in via di principio dell’avvalimento interno non implica anche l’avvalimento implicito, nel senso che il ricorso all’avvalimento possa avvenire prescindendo dalle formalità previste dalla disciplina in materia (art. 49 del d. lgs. 163/06).

Poiché, infatti, l’avvalimento integra una mera facoltà, l’impresa che ha interesse ad avvalersi dell’istituto deve far constare con la necessaria chiarezza, all’atto di partecipazione alla singola gara, tale volontà con indicazione del soggetto sulla cui capacità intende fare affidamento, come pure specificando i requisiti che di siffatto affidamento formeranno oggetto e, soprattutto, dovrà rendere di tutto ciò necessariamente edotta l’amministrazione interessata al singolo appalto.

Evidenti ragioni di certezza, quindi, non consentono che l’istituto dell’avvalimento possa operare in mancanza di dichiarazione esplicita dell’ausiliata e dell’ausiliaria, non essendo possibile un avvalimento implicito o postumo.

2. Nel caso in cui la lex specialis richieda la necessità di dimostrare il possesso dei servizi affini a quello oggetto di gara attraverso una pluralità di servizi, non può essere ammessa in gara una ditta che abbia comprovato un solo servizio che raggiunga l’importo medio richiesto dalla legge di gara

3. L’impresa concorrente, che sia stata legittimamente esclusa dalla gara, non ha legittimazione né interesse a contestare l’ammissione di altra concorrente, posto che non è titolare di una posizione maggiormente qualificata di quella che si può riconoscere in capo ad un qualunque altro soggetto che non abbia partecipato alla gara. SL

 

 

 



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Inserito in data 26/02/2013
TAR CAMPANIA, NAPOLI, SEZ. I, 6 febbraio 2013, n. 750

Bando di gara: i requisiti di partecipazione devono soggiacere ai limiti di proporzionalità e ragionevolezza

La disciplina di una gara di appalto ben può richiedere ai concorrenti requisiti di partecipazione e di qualificazione più rigorosi e restrittivi di quelli minimi stabiliti dalla legge, purché tali ulteriori prescrizioni si rivelino rispettose dei principi di proporzionalità e di ragionevolezza con riguardo alle specifiche esigenze imposte dall’oggetto dell’appalto, e comunque non introducano indebite discriminazioni nell’accesso alla procedura. SL

 

 



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Inserito in data 25/02/2013
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 21 febbraio 2013, n. 384

Usucapione in favore della P.A. sul bene del cittadino illegittimamente occupato

Il Collegio pugliese ricorda, in primo luogo, come l’avvenuta approvazione di un piano di zona per l’edilizia popolare ed economica equivalga a dichiarazione di pubblica utilità delle relative opere e, come precisa sempre più spesso l’ultima giurisprudenza, in caso di mancata fissazione dei termini per l’espropriazione e i lavori, gli stessi vadano considerati unitariamente coincidenti con quello legale di efficacia del piano.

Fatta simile premessa, pertinente al caso in esame, i Giudici leccesi riconoscono l’intervenuta usucapione del fondo a favore della P.A. occupante.

Questa, infatti, pur avendo agito inizialmente sine titulo, ha poi provveduto costruendo sul fondo occupato zone di pubblico interesse, con il conseguente venir meno dell’illiceità permanente – dati gli effetti retroattivi propri dell’usucapione - e l’ulteriore corollario dell’estinguersi di qualsivoglia credito indennitario, vantato dal proprietario inizialmente estromesso in modo illegittimo.

Appare, pertanto, incongrua ogni pretesa risarcitoria e restitutoria – quali quelle avanzate dal ricorrente, nonché consolidata l’interversione del possesso, allo spirare del ventennio, a favore del Comune espropriante, che ha agito sul fondo uti dominus, al punto da espungere ogni dubbio di paventata e permanente illiceità. CC



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Inserito in data 25/02/2013
TAR TOSCANA - FIRENZE, SEZ. II, 22 febbraio 2013, n. 282

La contestazione degli addebiti è adempimento a garanzia degli stessi destinatari

I Giudici fiorentini ribadiscono la priorità della partecipazione procedimentale, stante l’estremo rilievo degli interessi che ne stanno a fondamento, tutti convergenti in un’ottica di “bene comune” ex articolo 97 della Costituzione.

La mancata comunicazione di avvio di un procedimento, tanto più – come nel caso di specie – avente natura sanzionatoria, assolve, infatti, al duplice scopo di individuare il dies a quo del procedimento sanzionatorio e di cristallizzare il nucleo dei fatti su cui verteranno la fase istruttoria e decisoria.

Donde, come afferma giurisprudenza ormai salda, l’ineludibilità del medesimo, a garanzia del diritto di difesa dell’incolpato e dell’ottenimento, da parte sua, di un adeguato livello di conoscenza dei fatti, ai fini del contraddittorio.

Pertanto, sulla base di simili valutazioni, il Collegio annulla il provvedimento sanzionatorio impugnato dal ricorrente, avallandone le doglianze in ragione dell’evidente vulnus alle garanzie partecipative con esso procurate. CC



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Inserito in data 25/02/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 22 febbraio 2013, n. 27

Illegittimità norme regionali statuenti nuovi limiti per gli esercizi commerciali

I Giudici della Consulta, uniformandosi a proprie pronunce già rese in merito, inquadrano la materia della regolazione delle attività commerciali nell’ambito della tutela della concorrenza, come tale, rimessa alla potestà legislativa esclusiva dello Stato – ex articolo 117 – 2’ co. lett. e) della Costituzione.

In guisa di ciò, sanciscono l’illegittimità costituzionale di talune disposizioni regionali che, apportando nuovi limiti in ordine agli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, e rimettendoli, al contempo, ad una previa determinazione dell’Ente comunale di appartenenza, finirebbero con l’incidere su quell’ottica di liberalizzazione che, invece, la normativa nazionale ha inteso introdurre.

Infatti, con l’avvento della nuova disciplina – di cui all’articolo 3, comma 1, lettera d-bis), del D.L. n. 223 del 2006, come novellato dall’articolo 31, comma 1, del D.L. n. 201 del 2011 – c.d. Decreto salva – Italia, l’obiettivo del Legislatore è stato quello di uniformare l’intero spazio nazionale, in vista di una  massima apertura da destinare alle attività commerciali, ineludibile, quindi, ad opera di un dettato normativo regionale.

Si giustifica, pertanto, la declaratoria di illegittimità di simili disposizioni, quale quella resa in tale sede dai Giudici costituzionali. CC



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Inserito in data 23/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 febbraio 2013, n. 1056

Richiesta di riesame del provvedimento: non è obbligatorio il preavviso di rigetto

La sentenza affronta (insieme ad altre questioni) l'istituto della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art. 10-bis, legge n. 241/1990).

Secondo il Consiglio di Stato, l’esposto del privato che sollecita l’esercizio di poteri di autotutela si sostanzia in una richiesta di riesame, rispetto alla quale non sussiste alcun obbligo per la PA di far luogo al preavviso di rigetto qualora il successivo provvedimento sia sostanzialmente confermativo del precedente provvedimento. Infatti, l'art. 10-bis della legge n. 241/1990 “non deve essere interpretato in senso formalistico, ma si deve avere riguardo all'effettivo e oggettivo pregiudizio: la violazione dell'obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza [...] è inidonea di per sé a giustificare l'annullamento di un atto, non essendo consentito, ai sensi del successivo art. 21-octies, l'annullamento dei provvedimenti amministrativi, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. CDC



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Inserito in data 23/02/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 19 febbraio 2013, n. 4039

Responsabilità della PA ex art. 2051 cc: prova liberatoria e riduzione risarcimento

La sentenza conferma, anzitutto, l'applicabilità alla PA dell'art. 2051 cc, relativamente ai danneggiamenti subiti da privati a seguito dell'utilizzo di strade pubbliche. L'insidia ed il trabocchetto non costituiscono  condizioni necessarie per l'applicabilità della suddetta norma, che riguarda ogni tipo di danno cagionato dalla res, indipendentemente dal fatto se il rischio sia visibile o nascosto.

Si precisa, inoltre, che il dovere di custodia non viene meno per la PA in caso di lavori di manutenzione della strada affidati a terzi. Infatti, l'affidamento della manutenzione stradale in appalto alle singole imprese non sottrae la sorveglianza ed il controllo all'ente pubblico, per assegnarli all'impresa appaltatrice, in quanto il contratto d'appalto costituisce solo lo strumento tecnico-giuridico per la realizzazione del compito istituzionale, proprio dell'ente territoriale, di provvedere alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade. Pertanto, l'ente proprietario continua a rispondere come custode, atteso che deve continuare ad esercitare sull'opera l'opportuna vigilanza e i necessari controlli.

Tale responsabilità, fondata sull'art. 2051 cc, integra una “vera e propria ipotesi di responsabilità oggettiva, che trova piena giustificazione, dal punto di vista della ratio, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa attribuisce al custode”. Essa è esclusa solo dal caso fortuito, che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell'evento, riconducibile non alla cosa che è fonte immediata, ma ad un elemento esterno, recante i caratteri di inevitabilità ed imprevedibilità; in sostanza, il fortuito esclude il nesso eziologico e non la colpa.

Tuttavia, quando i danneggianti non riescano a provare l'esclusione del nesso causale, può essere applicata la regola posta dall'art. 1227, comma 1, cc, che prevede la riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato proporzionalmente all'incidenza causale di tale colpa sull'evento dannoso. Ciò accade quando, come nel caso di specie, deve ritenersi imprudente il comportamento della vittima la quale, non esperta per la giovane età, in situazione di completa oscurità si era avventurata su un tratto di strada che, per la presenza di massi, poteva ritenersi non ancora aperta al traffico, a velocità non adeguata allo stato dei luoghi. CDC

 




Inserito in data 22/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 febbraio 2013, n. 1055

Gli appalti sotto soglia non possono essere aggiudicati su base fiduciaria

La sentenza riguarda, fra l'altro, il tema degli appalti sotto soglia. Richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia,  il Consiglio di Stato ricorda che gli incarichi tecnico-professionali (compresi quelli al di sotto della soglia comunitaria) sono appalti pubblici di servizi. Pertanto, anche se i contratti sotto soglia sono esclusi dalla sfera di applicazione delle direttive comunitarie, le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute a rispettare i principi fondamentali del Trattato, quali quelli di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza.

Quindi, anche un incarico sotto soglia non può essere aggiudicato direttamente senza alcuna concorrenza sulla base della  natura “fiduciaria” dell’affidamento, atteso che una simile nozione non ha nulla di giuridicamente definito e si risolve solo nella mancanza di un reale meccanismo di confronto concorrenziale. Nella realtà delle cose, la “fiducia” comporta, nella pratica, che i singoli professionisti sono individuati solo perché intrattengono dei rapporti di conoscenza o di amicizia (quando non politici o di favore) con i vertici delle amministrazioni pubbliche. CDC



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Inserito in data 21/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 19 febbraio 2013, n. 993

Il criterio del luogo d’origine non si applica neppure ai rifiuti speciali non pericolosi

Il Supremo Consesso risolve il quesito sull’estensibilità ai rifiuti speciali del principio dell’autosufficienza locale (o criterio del luogo d’origine), a mente del quale i rifiuti prodotti all’interno della provincia devono essere smaltiti all’interno del medesimo ambito territoriale.

Sulla scorta del d.lgs. n. 22/97, recante la disciplina della gestione dei rifiuti con norme che si autoqualificano principi fondamentali della legislazione statale ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, la giurisprudenza precedente aveva applicato un diverso trattamento giuridico alle diverse tipologie di rifiuti.

Segnatamente, rispetto ai rifiuti urbani non pericolosi, si riteneva trovasse applicazione il criterio del luogo d’origine (o dell’autosufficienza locale), da intendersi alla luce dell’art. 23 del d.lgs. n. 22/97 nel senso che i rifiuti dovevano essere smaltiti all’interno dello stesso territorio provinciale in cui erano prodotti. Invece, rispetto ai rifiuti pericolosi, doveva operare il criterio della pericolosità, desumibile dall’art. 5, c. 3, lett. b e c, del d.lgs. n. 22/97, poiché, per le loro caratteristiche, appariva prevalente l’esigenza di impianti di smaltimento specializzati rispetto alla rigida predeterminazione degli ambiti territoriali ottimali per lo smaltimento. Nulla era stato detto con riguardo ai rifiuti speciali.

Secondo il Supremo Consesso, deve escludersi l’estensibilità ai rifiuti speciali, seppur non pericolosi, del criterio del luogo d’origine. In tal senso, depongono vari argomenti.

In primo luogo, la circostanza che alcuni dei rifiuti cd. speciali ex art. 7 d.lgs. 22/97 siano pericolosi.

Secondariamente, si osserva che spesso è difficile determinare lo stesso luogo d’origine dei rifiuti speciali.

Inoltre, neppure per i rifiuti speciali il legislatore predetermina un ambito territoriale ottimale teso a garantire l’autosufficienza nello smaltimento.

A quanto detto si aggiunga che l’applicazione del criterio del luogo d’origine potrebbe ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo di smaltire tali rifiuti “in uno degli impianti appropriati più vicini” (art. 5, c. 3, lett. b, d.lgs. n. 22/97).

Senza dimenticare che, altrimenti, s’introdurrebbe un ostacolo alla libera circolazione di cose tra le regioni, in assenza di adeguate ragioni giustificatrici e, quindi, in violazione dell’art. 120 Cost.

Da ultimo, si pone in luce che tale conclusione è necessitata dal principio comunitario della libertà di circolazione delle merci, applicabile anche ai rifiuti, stante la loro riconducibilità alla nozione di “prodotto”.

“Va quindi esclusa la possibilità di estensione ai rifiuti diversi da quelli urbani non pericolosi del principio specifico dell’autosufficienza locale nello smaltimento e va invece applicato anche ai rifiuti “speciali” non pericolosi il diverso criterio, pure previsto dal legislatore, della specializzazione dell’impianto di smaltimento integrato dal criterio della prossimità, considerato il contesto geografico, al luogo di produzione, in modo da ridurre il più possibile la movimentazione dei rifiuti, secondo la previsione dell’art. 22, comma 3, lettera c), del citato decreto legislativo n. 22 del 1997”.

Pertanto, è stato annullato il provvedimento amministrativo con cui era stata negata l’autorizzazione all’importazione di rifiuti speciali da altre province ad una società già autorizzata allo smaltimento dei rifiuti provinciali. TM



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Inserito in data 21/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 febbraio 2013, n. 1002

La scelta della sanzione disciplinare da irrogare al militare è ampiamente discrezionale

Il Consiglio di Stato conferma con riguardo alla sanzione della consegna di rigore il proprio pacifico orientamento secondo cui “il carattere e la misura della sanzione inflitta dall’Amministrazione militare all’esito del procedimento disciplinare risale a una valutazione ampiamente discrezionale, soggetta all’apprezzamento del giudice amministrativo solo in caso di vizio del procedimento, travisamento dei fatti o evidente irragionevolezza”.

“Se il principio è affermato con riguardo alla sanzione disciplinare massima, vale a dire quella espulsiva (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 19 dicembre 2012, n. 6540, ove riferimenti ulteriori), a maggior ragione dovrà valere nelle ipotesi in cui - come nel caso di specie – la misura adottata non rivesta un contenuto così radicale”.

Nel caso sub iudice, un maresciallo della Guardia di finanza aveva violato l’art. 33 del d.p.r. n. 545/86, che sottopone ad autorizzazione la pubblica manifestazione del pensiero dei militari su argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio; tale infrazione è punibile con la consegna di rigore (cfr. art. 65 e del n. 6 allegato C al d.p.r. n. 545/86). Ad avviso del Supremo Consesso, il provvedimento sanzionatorio impugnato non presenta manchevolezze tali da giustificare l’annullamento. TM



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Inserito in data 21/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 febbraio 2013, n. 1007

Nel riesame di un progetto edilizio, rilevano i vincoli non strettamente urbanistici

La quarta sezione del Consiglio di Stato si pronuncia sulla disciplina urbanistica applicabile in occasione del riesame di un progetto edilizio, susseguente all’annullamento del diniego di concessione o alla declaratoria del silenzio-rifiuto serbato dall’Amministrazione.

Il Giudice amministrativo reputa ancora valida la soluzione contenuta in una risalente decisione (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.1/86), tesa a contemperare il principio di effettività della tutela giurisdizionale - da cui deriva la regola della retroazione degli effetti della sentenza al momento della proposizione della domanda - con quello della prevalenza dell’interesse pubblico sugli interessi privati, sebbene meritevoli di tutela.

Precipuamente, “l’Adunanza plenaria ha ritenuto che:

restano inopponibili all’interessato le modificazioni della normativa di piano intervenute successivamente alla notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso;

quando la nuova normativa sia opponibile, deve riconoscersi al privato, che abbia ottenuto un giudicato favorevole, un interesse pretensivo a che l’Amministrazione valuti la possibilità di introdurre una variante che recuperi, in tutto o in parte, l’originaria previsione del piano abrogato, posta a suo tempo a base della domanda di concessione”.

In linea con la storica pronuncia summenzionata (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, n.1/86), il Supremo Consesso puntualizza che, nel nuovo esercizio del proprio potere, l’Amministrazione dovrà tenere conto degli eventuali vincoli e limiti diversi e ulteriori rispetto alla disciplina urbanistica in senso stretto (come le prescrizioni sanitarie, anti-sismiche, i vincoli a tutela delle bellezze naturali e di beni di interesse storico e artistico), i quali sono applicabili anche se sopravvenuti (a differenza dei vincoli urbanistici in senso stretto applicabili solo se preesistenti alla notificazione della sentenza di accoglimento del ricorso). Difatti, “va ricordato che lo jus aedificandi, quale facoltà compresa nel diritto di proprietà dei suoli rappresenta un interesse sottoposto a conformazione da parte della legge e della Pubblica amministrazione, in funzione dei molteplici interessi - pubblici e privati - diversi da quelli del proprietario del suolo, che sono coinvolti dall'edificazione privata, e che tale conformazione discende non solo dalla normativa di carattere urbanistico-edilizio, ma anche da altre normative settoriali”. TM



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Inserito in data 21/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 febbraio 2013, n. 1018

Giurisdizione del GA sugli atti dell’Agenzia delle entrate attributivi di codice fiscale

Con la pronuncia in esame, il Consiglio di Stato dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie concernenti gli atti con cui l’Agenzia delle entrate attribuisce un numero di codice fiscale a soggetti che ne sono privi (nella specie, un fondo comune di investimento immobiliare).

A tale conclusione si arriva muovendo dai tradizionali criteri della causa petendi e del petitum.

Quanto alla causa petendi, “non può innanzitutto essere posto in dubbio che l’atto attributivo del codice fiscale costituisca esercizio di un potere autoritativo, di natura discrezionale; milita in favore di questa anzitutto il tenore dell’art 3, comma 2 , del dpr n.605/1973, il quale stabilisce che il numero di codice fiscale può essere attribuito d'ufficio ai soggetti per i quali l'amministrazione finanziaria dispone dei necessari elementi di identificazione. Ed a fronte di un potere discrezionale, secondo basilari principi (cfr., ex multis, Cass, ss.uu., n. 16041/2002), sussistono normalmente “interessi legittimi”, la cui presenza pertanto radica “naturaliter” la giurisdizione amministrativa”.

Quanto al petitum, i giudici di Palazzo Spada rilevano che l’impugnazione dell’atto di assegnazione del numero di codice fiscale ha finalità annullatoria, sebbene richieda l’accertamento di alcune questioni. 

Si respingono, inoltre, gli argomenti a sostegno della giurisdizione del giudice ordinario, e, in particolare, facenti leva sulla possibilità di ricomprendere le posizioni incise nei settori dello stato e della capacità delle persone.

A tal proposito, si rileva che l’atto impugnato ha natura accertativa, non modificando la forma giuridica assunta dal destinatario in base alle norme di diritto privato ad esso applicabili.

D’altro canto, si nega anche la giurisdizione tributaria, atteso che l’atto attributivo di numero di codice fiscale è privo di carattere impositivo, in quanto non costituisce un presupposto sufficiente per avviare un procedimento tributario.

In effetti, l’atto de quo è volto a consentire l’identificazione del soggetto che ne è destinatario per esigenze amministrative di carattere procedimentale ed informativo, quantunque nella prospettiva che l’attività dello stesso debba poi essere oggetto di successiva indagine per fini tributari.

Per cui, al momento dell’emissione dell’atto di attribuzione del codice fiscale, il procedimento tributario è solo una possibilità, come si ricava dalla lettura della legge istitutiva dell’anagrafe tributaria (ex art. 1, comma 2, d.p.r. n. 605/73, lo scopo dell’anagrafe tributaria è la raccolta di dati ai fini della valutazione della complessiva capacità contributiva e degli adempimenti conseguenziali di rettifica delle dichiarazioni e di accertamento; ex art. 1, comma 3, del medesimo d.p.r., “Sulla base dei dati in suo possesso l'anagrafe tributaria provvede alle elaborazioni utili per lo studio dei fenomeni fiscali”). TM



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Inserito in data 20/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 febbraio 2013, n. 857

La dichiarazione di rispetto per la normativa a tutela dei disabili costituisce requisito di partecipazione fondamentale alla gara pubblica.

a) Il rispetto delle norme a tutela del diritto al lavoro dei disabili costituisce con tutta evidenza un requisito di partecipazione fondamentale (art. 17 l. 68 del 1999), la cui omissione costituisce causa di esclusione per la forza cogente derivante dalla legge, e perciò anche ove non richiamato dalla singola lex specialis.

b) Nel caso di omessa dichiarazione sugli obblighi di cui alla legge n. 68 del 1999, la commissione di gara non può richiedere chiarimenti ed integrazioni alla ditta interessata, sia perché ciò costituirebbe violazione dei principi di concorrenza e par condicio, ma anche perché ciò implicherebbe una conseguente indagine da parte della pubblica amministrazione di verifica sul numero dei lavoratori occupati dal soggetto interessato, tanto da esentarlo dall’assunzione dei disabili, passaggio certamente non conforme alla lettera dell’art. 17 L. n. 68/1999 e contrario ai principi di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa. SL

 



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Inserito in data 20/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 febbraio 2013, n. 842

Non è illegittima ex sé quella clausola del bando che prevede l’esclusione delle ATI c.d. sovrabbondanti

L’impresa, già in sé qualificata che volesse fornire un’offerta in ATI (c.d. ATI “sovrabbondante”) deve  chiarire che, avuto riguardo allo specifico oggetto dell’appalto, solo tal forma di aggregazione le fornisce una chance seria di ottenere un risultato positivo.

Ciò al fine di evitare un uso improprio ed anticoncorrenziale della riunione temporanea di imprese, in coerenza con le regole ed i principi costituzionali e comunitari. SL



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Inserito in data 20/02/2013
TAR MARCHE, SEZ. I, 25 gennaio 2013, n. 83

Contratti della P.A.: è illegittima la correzione materiale del bando dopo la prima seduta di gara

E’ illegittima la gara d’appalto il cui bando originariamente pubblicato dalla stazione appaltante sia stato successivamente modificato dalla P.A., a seguito di una discrasia contenuta nella lex specialis, emersa nel corso della prima seduta di gara, qualora tale correzione sia idonea a decidere l’attribuzione dei punteggi ai concorrenti.

Pur essendo apprezzabile, infatti, l’esigenza della stazione appaltante di salvaguardare l’attività amministrativa già svolta, la modifica dell’errore materiale, non immediatamente evidente, e, di fatto, potenzialmente decisivo nell’attribuzione dei punteggi, non può essere effettuata dopo la consegna delle offerte, essendo necessaria la ripubblicazione del bando, secondo il principio per cui le modifiche del bando di gara non hanno effetto nei confronti delle imprese partecipanti alla gara se non sono portate a conoscenza delle stesse nelle medesime forme attraverso le quali è stata data pubblicità al bando, o, per lo meno, l’avvio di una procedura in contraddittorio per la modifica, ove le parti potessero presentare le proprie osservazioni. SL



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Inserito in data 19/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 febbraio 2013, n. 953

Confini del potere di accertare la fondatezza della pretesa nel giudizio sul silenzio

[Ottenuto l’annullamento della deliberazione della Giunta regionale, nella parte in cui aveva disposto la revisione del nomenclatore tariffario delle prestazioni di specialistica ambulatoriale, limitatamente alla branca relativa alle analisi di laboratorio, successivamente veniva proposta un’istanza, con cui si chiedeva alla Regione, tra l’altro, l’attivazione e conclusione del procedimento di rinnovazione della revisione delle tariffe. In mancanza di risposta, veniva adito il TAR con ricorso avverso il silenzio, che veniva accolto. Nel contempo, il TAR indicava anche “i principali elementi di riferimento che si sono stratificati nel tempo, al fine di individuare i corretti parametri normativi per la futura azione dell’Amministrazione …”. La sentenza di primo grado veniva impugnata di fronte al Consiglio di Stato con riferimento a quest’ultimo profilo].

In tema di azione avverso il silenzio, l’art. 31, co. 3, cod. proc. amm. dispone: “il giudice può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione”.

Nei giudizi in parola la norma, che cristallizza l’orientamento giurisprudenziale formatosi in materia sulla base della disciplina di cui all’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241., vieta perciò al giudice amministrativo di andare oltre la declaratoria di illegittimità dell’inerzia e l’ordine di provvedere; di conseguenza, resta precluso al medesimo giudice il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all’amministrazione stessa (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 2010, n. 3270). Le uniche deroghe a siffatta regola, in cui nell'ambito del giudizio sul silenzio il giudice potrà conoscere del merito sostanziale dell'istanza restata inevasa, sono stabilite nelle ipotesi di fondatezza o infondatezza manifesta derivante dal carattere strettamente vincolato e dovuto dell’atto da adottare, ovvero quando non residuino ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione; in ogni altra ipotesi la potestà del giudice non può sovrapporsi alle valutazioni riservate a quest’ultima. A fronte di un’attività adempitiva di sentenza passato in giudicato, ogni inziativa sostitutiva dell’organo rimasto ulteriormente inerte spetta solo al commissario ad acta, da nominarsi in sede di giudizio di ottemperanza.

Il caso di specie non ricade evidentemente in alcuna di dette ipotesi, con la conseguenza che, in sede di accoglimento del ricorso – non per l’ottemperanza ma avverso il silenzio serbato dalla Regione Sardegna ed in relazione agli anzidetti limiti dell’azione proposta - al primo giudice competeva soltanto accertare la sussistenza dell’obbligo di provvedere, restandogli inibita ogni attività di concreta individuazione di contenuti ulteriori ai fini dell’adozione del nuovo provvedimento di revisione, quanto alle prestazioni di diagnostica di laboratorio del nomenclatore tariffario regionale delle prestazioni di specialistica ambulatoriale del 1998. Del resto, ai sensi del successivo art. 34, co. 2, cod. proc. amm. in sede di merito “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. FT



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Inserito in data 19/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 febbraio 2013, n. 960

Annullamento in autotutela di nomina a direttore amministrativo dell’ASL: spetta al GO

L’appello è fondato in relazione al primo mezzo di gravame, col quale si deduce difetto di giurisdizione del giudice amministrativo a conoscere dell’annullamento in via di autotutela della nomina a direttore amministrativo dell’ASL ... In fattispecie analoga, con decisione 30 ottobre 2003 n. 6750 il Consiglio di Stato, pur consapevole del diverso orientamento in precedenza emerso al riguardo, basato sulla considerazione dell’ampio potere discrezionale da parte del direttore generale che caratterizza la scelta del direttore amministrativo, si è motivatamente allineato all’opposto indirizzo espresso dalla Corte regolatrice proprio in tema di annullamento della nomina. In particolare, è stato osservato che le Sezioni Unite della Cassazione hanno ripetutamente sostenuto la devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario del giudizio promosso dal direttore amministrativo di un'Azienda sanitaria locale - il cui rapporto è regolato da contratto di diritto privato, sicché sono configurabili soltanto posizioni di diritto soggettivo e non anche di interesse legittimo - per l'annullamento della delibera della Giunta regionale e del direttore generale dell'Azienda medesima con cui rispettivamente non era stato approvato il contratto di lavoro del ricorrente, quale direttore amministrativo, ed era stata disposta la revoca della nomina a tale qualifica, atteso che si tratta di atti che si configurano come espressione di autonomia negoziale privatistica, aventi natura sostanziale di atti di recesso dal rapporto contrattuale (Cass., ss.uu, 21 marzo 1997 n. 2518 e 10 marzo 1999 n. 114). Sulla scorta di tali argomentazioni e conclusioni, dalle quali la Sezione non ha motivo di dissentire ... , appartiene al giudice ordinario la cognizione sulla determinazione in questione, che non ha riguardato profili discrezionali nella scelta del direttore amministrativo, ma si è basata sul mero riscontro della ritenuta insussistenza dei presupposti soggettivi per l'attribuzione dell'incarico. E non diversamente deve concludersi in ordine alla nomina del successore, impugnata per soli profili di illegittimità derivata. FT



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Inserito in data 19/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 febbraio 2013, n. 966

Natura oggettiva della responsabilità della PA in materia di appalti pubblici

[La sentenza del 30 settembre 2010, C314/09, della Terza Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ] ribadisce in modo chiaro e univoco che, in materia di appalti pubblici, da un lato non possa gravare sul ricorrente danneggiato l’onere di provare che il danno derivante dal provvedimento amministrativo illegittimo sia conseguenza di una colpa dell’Amministrazione; dall’altro lato, che non possa l’Amministrazione sottrarsi all’obbligo di risarcire i danni cagionati da un suo provvedimento illegittimo adducendo l’inesistenza a proprio carico di elementi di dolo o di colpa. In altre parole, la regola comunitaria vigente in materia di risarcimento dei danno per illegittimità accertate in materia di appalti pubblici per avere assunto provvedimenti illegittimi lesivi di interessi legittimi configurerebbe una responsabilità non avente natura né contrattuale né extracontrattuale, ma oggettiva, sottratta ad ogni possibile esimente, poiché derivante da principio generale funzionale a garantire la piena ed effettiva tutela degli interessi delle imprese, a protezione della concorrenza, nel settore degli appalti pubblici. Intesa in questo senso, è dunque evidente che tale regola non può essere circoscritta ai soli appalti comunitari ma deve estendersi, in quanto principio generale di diritto comunitario in materia dì effettività della tutela, a tutto il campo degli appalti pubblici, nei quali i principi di diritto comunitario hanno diretta rilevanza ed incidenza, non fosse altro che per il richiamo che ad essi viene fatto dal nostro legislatore nel Codice appalti (art 2 d. lgs. 163 / 06).

In questo modo si conferisce massima importanza ai principi di equivalenza e, soprattutto, di effettività, garantendo nel contempo in tutto il territorio dell’Unione un’uniforme disciplina degli appalti pubblici. L’effettività del comando normativo non viene perseguita attraverso prescrizioni di regolazione dei procedimenti amministrativi, ma avviene attraverso il versante delle garanzie, giurisdizionali o paragiurisdizionali: la direttiva 89/665, nei suoi considerando (e ancor più le successive direttive di codificazione attualmente vigenti, nonché la nuova direttiva ricorsi 66/2007/CE), rileva l’assenza, sia sul piano dei diritti nazionali che su quello del diritto comunitario, di adeguati strumenti di garanzia dell’applicazione effettiva della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici, determinando un freno alla partecipazione delle imprese comunitarie alle gare e, dunque, incidendo sulla libera circolazione dei servizi. Il fatto che manchino rimedi validi ed efficaci avverso le violazioni del diritto comunitario riduce la concorrenza comunitaria e determina un allontanamento dai finì del Trattato, improntata in questo settore ai principi della massima concorrenza e della non discriminazione. La disciplina comunitaria della concorrenza è rivolta, infatti, essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla Pubblica Amministrazione l’obbligo di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle gare pubbliche; tale intento rischierebbe con ogni probabilità di essere frustato da una disciplina nazionale che subordinasse l’ottenimento del risarcimento dei danni, da parte dell’offerente offeso, al previo positivo riscontro dell’elemento soggettivo della responsabilità della Pubblica Amministrazione. L’ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva é l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti da principi caratterizzati da più larga acquisizione, poiché il ravvicinamento e l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello della responsabilità piena della P.A. senza aree di franchigia.

Peraltro, l’assenza, nella disciplina comunitaria degli appalti, di qualsivoglia riferimento ad un’indagine in ordine all’elemento soggettivo della responsabilità, lungi dall’essere una dimenticanza, si spiega ponendo mente al fatto che, di norma, la via del risarcimento per equivalente viene percorsa qualora risulti preclusa quella della tutela in forma specifica; la reintegrazione in forma specifica rappresenta, peraltro, in ambito ‘amministrativo l’obiettivo tendenzialmente primario da perseguire e il risarcimento per equivalente costituisce invece una misura residuale, di norma subordinata all’impossibilità parziale o totale di giungere alla correzione del potere amministrativo, come dimostra, d’altra parte, anche la vicenda giurisprudenziale e normativa relativa alla dichiarazione di inefficacia del contratto d’appalto, come da ultimo risolta per effetto del d.lgs. n. 53/2O1O, le cui previsioni sono confluite nel Codice del processo amministrativo agli artt. 121 e ss. In tal modo, dunque, il ricorrente che non ottiene direttamente il bene della vita a cui aspira, ossia la riedizione della gara o l’aggiudicazione definiva può aspirare alla monetizzazione del pregiudizio subito; se, tuttavia, anche tale ultima via di ristoro venisse resa impraticabile o assolutamente impervia, il privato rischierebbe di restare sprovvisto di qualsiasi forma di tutela. Quanto prefigurato è esattamente ciò che accade qualora una normativa nazionale subordini il risarcimento del danno al positivo riscontro della colpa della stazione appaltante. FT



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Inserito in data 17/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 15 febbraio 2013, n. 914

Occupati spazi ultronei a quelli già compresi nella procedura ablatoria: giurisdizione

La pronuncia è significativa in quanto, ripercorrendo l’iter giurisprudenziale riguardo all’effettiva natura del potere esercitato dall’Amministrazione, a seconda della sussistenza o meno di poteri autoritativi in capo all’Autorità espropiante, consacra il definitivo superamento della distinzione tra occupazione usurpativa ed acquisitiva, quanto meno sotto il profilo della giurisdizione.

Si tratta, invero, di un fatto illecito comunque ed ugualmente ascrivibile ad un Ente pubblico espropriante, che finisce con l’incidere sui diritti dominicali altrui, tanto più ricomprendendo superfici ulteriori rispetto a quelle già previste dall’originaria procedura ablatoria e non coperte, pertanto, dalla previa dichiarazione di pubblica utilità.

In presenza, dunque, di un simile esercizio di poteri d’imperio, è corretta la giurisdizione amministrativa, come invocata da parte appellante. CC



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Inserito in data 17/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 febbraio 2013, n. 940

Distanze tra esercizi commerciali: ostacolo alla concorrenza, quindi non più tutelabile

Il Collegio, alla luce degli insegnamenti comunitari ormai imperanti in materia, rigetta per difetto di legittimazione il ricorso proposto da una società, titolare di una stazione di servizio e distribuzione di carburante.

Quest’ultima, infatti, lamentando l’eccessiva vicinanza di altro stabilimento esercente la medesima attività, aveva impugnato l’avvenuta voltura dell’autorizzazione che il Comune aveva disposto a favore della nuova azienda, subentrata nella gestione di quest’ultimo esercizio.

I Giudici amministrativi, esaminata la doglianza, non ritengono sussistenti i motivi addotti a relativo fondamento posto che le distanze minime invocate, quali quelle previste da fonti interne, sono visibilmente in contrasto con la libertà di stabilimento e di libero mercato ormai trasposti dall’esperienza comunitaria e, in quanto tali, non più suscettibili di tutela alcuna.

Né, tanto meno, possono valere motivi di interesse generale, quali la tutela dell’ambiente o della salute in genere che, se applicati solo agli impianti di nuova creazione, come è prassi che accada, perderebbero di significato e pregnanza.

Appare, pertanto, congrua la reiezione di siffatto ricorso, stante l’insussistenza di un’incisione ad interesse legittimo, alla stregua dei nuovi dettami di provenienza europea, in materia di concorrenza. CC



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Inserito in data 17/02/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 14 febbraio 2013, n. 19

Q.l.c. di una norma regionale regolante trattamento economico dipendenti regionali

I Giudici della Consulta sanciscono l’illegittimità costituzionale di una norma regionale statuente un trattamento economico per i dipendenti regionali.

Infatti, adeguandosi a precedenti pronunce, tutte uniformi sul punto, la Corte ricollega l’intera materia relativa alle condizioni economiche dei pubblici dipendenti al settore dell’ordinamento civile, come tale spettante al Legislatore statale ex art. 117 – 2’ co. lett. l) della Costituzione.

Né, prosegue la Corte, potrebbe obiettarsi che la disciplina sia riconducibile alla materia dell’organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e dello stato giuridico ed economico del relativo personale, di competenza legislativa regionale residuale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost., in quanto «il rapporto di impiego alle dipendenze di Regioni ed enti locali, essendo stato “privatizzato” ai sensi dell’art. 2 del decreto legislativo n. 165 del 2001, è retto dalla disciplina generale dei rapporti di lavoro tra privati ed è, perciò, soggetto alle regole che garantiscono l’uniformità di tale tipo di rapporti».

Pertanto, anche la norma oggetto dell’odierna censura, afferendo ad uno specifico profilo del trattamento economico del dipendente pubblico regionale, regolato dalla contrattazione collettiva nazionale, spetta, in quanto tale, all’intervento del Legislatore statale. CC

 



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Inserito in data 15/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 febbraio 2013, n. 846

Diritto d’accesso dei consiglieri comunali e provinciali non consente strategie ostruzionistiche

La sentenza ha ad oggetto il diritto d’accesso dei consiglieri comunali e provinciali. Esso consente di ottenere dagli uffici notizie ed informazioni utili all’espletamento del mandato; si fonda sul principio democratico dell’autonomia locale e della rappresentanza esponenziale ed è direttamente funzionale alla cura dell’interesse pubblico.

Non è necessaria una connessione tra la conoscenza dei dati richiesti e l’attività espletata nel mandato di consigliere, né è previsto alcun onere motivazionale. Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l’esercizio di tale diritto debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative.

Il diritto d’accesso riconosciuto ai consiglieri permette di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, nonché di esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio. Ciò vale in particolare per i consiglieri di minoranza, cui i principi fondanti delle democrazie e la legge attribuiscono compiti di controllo dell'operato della maggioranza.

Tuttavia, esso non può consentire ai consiglieri di porre in essere strategie ostruzionistiche o di paralisi dell'attività amministrativa con istanze che a causa della loro continuità e numerosità determinino un aggravio notevole del lavoro negli uffici ai quali sono rivolte e determinino un sindacato generale sull'attività dell'amministrazione vietato dall'art. 24, comma 3 della l. n. 241 del 1990. Peraltro, sulla base del modificato art. 22 della l. n. 241 del 1990, anche il consigliere deve essere portatore di un interesse diretto, concreto ed attuale corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento per il quale richiede l'accesso.

Pertanto, è legittimo il diniego opposto dall'amministrazione comunale alla richiesta rivolta dai consiglieri comunali, in presenza di numerose e reiterate istanze, che tendono ad ottenere la documentazione di tutti i settori dell'Amministrazione, al fine di compiere un sindacato generalizzato dell'attività degli organi dell'Ente, piuttosto che di esercitare il mandato politico. CDC



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Inserito in data 15/02/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SECONDA SEZIONE CIVILE, 30 gennaio 2013, n. 2202

Esecuzione in forma specifica di preliminare: non serve sottoscrizione dei due coniugi

La Suprema Corte si occupa degli effetti derivanti dalla mancata sottoscrizione del contratto preliminare da parte di uno dei coniugi, in caso di comunione legale.

Si premette che “la comunione legale tra coniugi costituisce una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei; ne consegue che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge, mentre non può disporre della propria quota, ben può disporre dell'intero bene comune [...], mentre il consenso dell'altro coniuge si configura come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell'art. 184 cc, nel termine di un anno decorrente dalla conoscenza dell'atto o dalla data di trascrizione”.

Da ciò deriva che la mancata sottoscrizione del contratto da parte di uno dei coniugi non comporta il rigetto della domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare. Infatti, in virtù dell'art. 184 cc, fondato sull'esigenza di tutelare la rapidità e la certezza della circolazione dei beni in regime di comunione legale, il contratto, in assenza del consenso del coniuge pretermesso, non è inefficace né nei confronti dei terzi, né nei confronti della comunione, ma è solo soggetto alla disciplina dell'art. 184 cc, comma 1.

Quindi, “per l'esecuzione in forma specifica di un preliminare di vendita immobiliare non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i coniugi in comunione legale, ma è sufficiente il consenso dell'altro coniuge e la mancanza del suo consenso si traduce in un vizio da far valere ai sensi dell'art. 184 cc (nel rispetto del principio generale di buona fede e dell'affidamento)”. CDC




Inserito in data 15/02/2013
CORTE DI CASSAZIONE, QUARTA SEZIONE PENALE, 29 gennaio 2013, n. 4489

Malattie multifattoriali: nesso causale va riferito anche a natura e tempi dell'offesa

La sentenza riguarda l'accertamento del nesso causale in caso di malattie multifattoriali, cioè causate da più fattori concorrenti.

In tal caso, “per poter affermare la causalità della condotta omissiva ascritta all'imputato, rispetto alla patologia sofferta dal lavoratore, è necessario dimostrare che questa non ha avuto un'esclusiva origine nel diverso fattore astrattamente idoneo e che l'esposizione al fattore di rischio di matrice lavorativa è stata una condizione necessaria per l'insorgere o per una significativa accelerazione della patologia”.

Secondo la Suprema Corte, il rapporto causale va quindi riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi, ma anche e soprattutto alla natura e ai tempi dell'offesa. Deve così riconoscersi il rapporto eziologico non solo nei casi in cui sia provato che la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell'evento verificatosi, ma anche nei casi in cui sia provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando alla condotta colposa omissiva o commissiva sia ricollegabile un'accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa.

Se l'affermazione di una relazione causale tra esposizione al fattore di rischio e malattia  richiede un elevato grado di credibilità razionale, nel caso di malattia multifattoriale quell'elevato grado può essere raggiunto solo con un'approfondita analisi del quadro fattuale, nutrito di dati relativi all'entità dell'esposizione al rischio, tanto in rapporto all'entità degli agenti fisici dispersi nell'area che in rapporto al tempo di esposizione, tenuto altresì conto dell'uso di eventuali dispositivi personali di protezione. CDC




Inserito in data 14/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 febbraio 2013, n. 863

Devono impugnarsi entro 30 gg tutti gli atti attinenti alla procedura di affidamento

La seconda classificata in una gara di appalto, avendo appreso che al momento dell’aggiudicazione l’aggiudicataria non era in regola con il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, proponeva istanza di annullamento in autotutela dell’atto di aggiudicazione.

L’amministrazione rigettava tale istanza, comunicando il rigetto a mezzo fax.

Dopo oltre trenta giorni da tale comunicazione, la società seconda classificata proponeva ricorso giurisdizionale, adducendo l’infondatezza dei motivi posti dall’amministrazione a base del rigetto della propria istanza e domandando il risarcimento del danno per la mancata percezione dell’utile derivante dall’esecuzione dell’appalto. 

Il T.A.R. adito dichiarava l’irricevibilità del ricorso ai sensi dell’art. 35, c. 1°, lett. a) e 120 d.lgs. n. 104/10, in quanto proposto più di trenta giorni dopo la comunicazione del provvedimento impugnato.

I giudici di Palazzo Spada confermano la tardività, e quindi l’irricevibilità, del ricorso di prime cure. A tal fine s’interrogano sul dies a quo del termine per ricorrere avverso al provvedimento impugnato e sull’applicabilità allo stesso della disciplina speciale ex art. 120 c.p.a.

Relativamente al primo profilo, il Supremo Consesso si allinea al pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui “in base alla più recente normativa (d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445) il fax - in quanto mezzo ordinario di comunicazione di atti e documenti, anche in materia di procedure ad evidenza pubblica (cfr. art. 77 del d. lgs. n. 163 del 2006) - costituisce strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione e, quindi, a far decorrere i termini di impugnativa, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissione e ricezione, gravando, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornirne la prova contraria (Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2012, n. 722; 18 agosto 2010, n. 5845; 24 aprile 2002, n. 2202)”. A tal proposito, il Consiglio di Stato sottolinea come la ricorrente non abbia contestato il fatto storico della regolare ricezione da parte sua del fax recante la decisione regionale impugnata, né l’attitudine di siffatta ricezione ad ingenerare la relativa piena conoscenza.

In ordine al secondo profilo, si evidenzia come, con l’atto di appello, la ricorrente non abbia confutato la circostanza che la propria impugnativa fosse stata notificata oltre 30 giorni dopo la ricezione del fax contenente il provvedimento di rigetto impugnato; la ricorrente si sarebbe limitata a negare l’applicabilità della regola sul dimezzamento dei termini ex art. 120 c.p.a. al caso di specie: ciò in quanto, ai sensi dell’art. 120, c. 5, il termine dimidiato decorrerebbe dalla ricezione di una delle comunicazione di cui all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, tra le quali non sarebbe ricompresa il rigetto di un’istanza di annullamento di un’aggiudicazione in via di autotutela.

In senso contrario, la quinta sezione del Consiglio di Stato rileva che: “anche l’impugnativa di una determinazione assunta dall’Amministrazione all’esito di un procedimento di autotutela riguardante una gara pubblica soggiace al termine di trenta giorni posto dall’art. 120, comma quinto, C.P.A.”.

Precisamente, la regola del termine dimidiato per ricorrere vale per tutti gli atti attinenti alla procedura di affidamento. In tal senso depone il dato letterale, stante l’utilizzo di espressioni -quali “atti attinenti la medesima procedura” (art. 120, c. 7, c.p.a.) e “provvedimenti concernenti le procedure di affidamento” (art. 119, c. 1, lett. a, c.p.a.) – che “fanno comprendere che ciò che è decisivo ai fini dell’applicabilità della regola speciale in discorso non è tanto l’appartenenza organica dell’atto da impugnare alla formale procedura di affidamento, quanto la sua inerenza funzionale ad essa”. Questa lettura trova conferma nella ratio della normativa speciale, consistente nell’assicurare la pronta definizione di ogni questione sulla scelta di chi debba eseguire il contratto. Né tale conclusione è contrastata dalla previsione di cui all’art. 120, c. 5, c.p.a. richiamata dall’appellante, poiché tale disposizione concerne solo una sottospecie in seno alla categoria di atti di cui si occupa l’art. 120 c.p.a. TM



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Inserito in data 14/02/2013
CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, ORDINANZA 30 gennaio 2013, n. 1713

Sussiste la giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di accordi ex art. 11 l. 241/90

Il c.p.a. (d.lgs. n. 104/2010) ha abrogato il comma quinto dell’art. 11 della l. n. 241/1990, che riservava alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sostitutivi o integrativi di provvedimenti.

Tuttavia, ad avviso delle Sezioni Unite, non è mutata la giurisdizione in tema di accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento. Detti accordi sono conclusi dall'amministrazione con i privati per il perseguimento di pubblici interessi, concorrono a definire il contenuto discrezionale del provvedimento amministrativo che integrano o sostituiscono e sono, quindi, espressione di poteri discrezionali della P.A.: per cui, devono essere conosciuti dal giudice del potere amministrativo, ossia dal giudice amministrativo.

Coerentemente, le Sezioni Unite affermano il seguente principio di diritto: “Anche dopo la soppressione del D.Lgs. 7 agosto 1990, n. 241, art. 11, comma 5, di cui all'art. 4, comma 1, dell'allegato 4 del D.Lgs. n. 104 del 2010, resta devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto l'osservanza degli obblighi sorti da una convenzione stipulata tra un comune e/o altro ente pubblico concedente con il privato concessionario, per disciplinare la concessione stessa, trattandosi di causa relativa all'esecuzione di accordo da qualificare come integrativo o sostitutivo del provvedimento amministrativo di concessione di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 133, lett. a, n. 2, che individua tali controversie tra quelle riservate per materia al giudice amministrativo”. In questo senso si era già pronunciato in precedenza il Supremo giudice della giurisdizione (cfr. S.U. ord. 9 marzo 2012 n. 3689, ord. 3 ottobre 2011 n. 20143, 2 dicembre 2010 n. 24419, e 1 luglio 2007 n. 15388). TM




Inserito in data 14/02/2013
CASSAZIONE PENALE, SEZ. VI, 23 gennaio 2013, n. 3726

Non integra peculato disporre del corrispettivo di un contratto di appalto pubblico

Con la decisione in epigrafe, la Corte di Cassazione s’interroga sulla configurabilità dei reati di peculato (art. 314 c.p.) e di malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis cp) in capo al presidente e al vicepresidente di una cooperativa aggiudicataria della gara di appalto per la gestione delle attività socio-assistenziali e la fornitura di beni e servizi a favore di immigrati clandestini; infatti, l’accusa aveva contestato loro di essersi appropriati del corrispettivo dell’appalto, seppure esso provenisse da fondi dedicati, erogati dal Ministero dell'Interno alla Prefettura.

La Suprema Corte osserva come le somme oggetto di appropriazione fossero il corrispettivo di un contratto di appalto pubblico di servizi e non contributi, sovvenzioni, finanziamenti elargiti ad uno soggetto diverso dalla pubblica amministrazione per lo svolgimento di un’attività di interesse pubblico; solo rispetto a questi ultimi sussisterebbe l'obbligo, penalmente rilevante, di destinazione alle finalità proprie dello svolgimento del servizio di pubblico interesse.

Di conseguenza, si afferma il principio di diritto secondo cui ”nel caso di contratto di appalto pubblico di servizi non è configurabile il delitto di peculato per la gestione e destinazione, da parte dell'appaltatore, di somme di provenienza pubblica la cui ricezione costituisca il pagamento, da parte dell'appaltante soggetto pubblico, del corrispettivo per l'attività di fornitura del servizio pattuito.

In tal caso, infatti, il denaro perde la propria caratteristica di altruità (data dall'appartenenza alla pubblica amministrazione) all'atto della corresponsione all'appaltatore, che ne può pertanto disporre in autonomia.” TM

 

 

 

 




Inserito in data 13/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 febbraio 2013, n. 731

E’ inammissibile il diritto di accesso esercitato in maniera generica ed indifferenziata ma…

Anche se è vero che è inammissibile il diritto di accesso esercitato in maniera generica ed indifferenziata, chiedendo all’Amministrazione di svolgere un’attività di indagine e ricerca o un'attività valutativa ed elaborativa, è altresì vero che non può considerarsi generica una richiesta di accesso che indica precisamente quale sia il contenuto degli atti, ignorandone soltanto gli estremi, ma consentendone agevolmente all’Amministrazione l’identificazione. SL



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Inserito in data 13/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 1 febbraio 2013, n. 633

Sulla responsabilità precontrattuale della P.A. e danno risarcibile; quattro spunti di riflessione 

1. La ammissibilità, anche nel processo amministrativo, dell’appello incidentale tardivo è ormai prevista espressamente dall’art. 96, comma 4, c.p.a., il quale specifica che l’impugnazione incidentale tardiva può riguardare anche capi autonomi della sentenza, con la sola precisazione che essa perde, tuttavia, ogni efficacia se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile.

2. La revoca degli atti di gara (nella specie per il venire meno delle risorse finanziarie necessarie al finanziamento dei lavori) integra un illecito precontrattuale, perché si pone in contrasto con le regole di buona fede e correttezza di cui all’art. 1337 cod. civ. riferite ad una Pubblica Amministrazione. La responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara, atteso che essa non discende dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della P.A., ma deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ.) che trattano del "comportamento" precontrattuale, ponendo in capo alla P.A. stessa doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.

3. Nel caso di responsabilità precontrattuale della P.A. da ingiustificato recesso dalla trattative, il danno va risarcito nei limiti dell’interesse negativo, che include soltanto le spese sostenute per la partecipazione alla gara ed, eventualmente, la perdita della c.d. chance contrattuale alternativa. Non meritano, quindi, risarcimento le voci che fanno riferimento all’interesse c.d. positivo (l’interesse all’esecuzione dell’appalto), che attengono, appunto, alle utilità e ai vantaggi che sarebbero derivati dall’esecuzione del contratto. In particolare, non è risarcibile il c.d. danno curriculare (e cioè quello derivante da mancato arricchimento del curriculum professionale), perché non attiene all’interesse negativo, ma, più propriamente, all’interesse positivo, derivando proprio dalla mancata esecuzione dell’appalto, non dall’inutilità della trattativa.

4. Nel caso di responsabilità precontrattuale, vanno risarcite tutte le spese documentate e specificamente sostenute per la gara. Vanno risarcite in particolare le spese inerenti la elaborazione dell’offerta, la progettazione e pianificazione della commessa nella fase precedente alla gara, le spese sostenute per la costituzione dell’associazione temporanea di imprese, le spese sostenute per le polizze fideiussorie e, più in generale, tutte le spese comunque riconducibili all’attività svolta per la partecipazione alla gara; tali spese vanno risarcite solo se, e nella misura in cui, la ditta interessata sia in grado di fornire alla stazione appaltante copia dei pagamenti effettuati per la partecipazione alla gara, non potendosi ritenere sufficiente la mera esibizione della fattura, atteso che essa non dimostra l’avvenuto pagamento e, quindi, l’effettivo sostenimento del costo da rimborsare. Devono essere risarcite anche le spese sostenute per la retribuzione del personale dipendente all’interno della società e le spese generali per il funzionamento struttura aziendale. Tale danno, non possibile da determinare nel preciso ammontare, può essere stabilito, in via forfettaria ed equitativa, nella misura del 25% dell’importo relativo alle spese sostenute per i c.d. costi vivi affrontati per la predisposizione dell’offerta e la partecipazione alla gara. SL



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Inserito in data 12/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 febbraio 2013, n. 703

Difetto di giurisdizione eccepito in appello: giudicato implicito e abuso del processo

Il Supremo collegio amministrativo ribadisce il proprio convincimento in tema di abuso del processo, con riferimento ad una fattispecie in cui il ricorrente in primo grado, a fronte di una sentenza del TAR che aveva pronunciato nel merito, aveva eccepito il difetto di giurisdizione in appello, con il deposito delle memorie. Nella specie, si afferma che “va, anzitutto, disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione presentata dall’appellante in vista dell’odierna udienza con memoria peraltro tardivamente depositata ... In primo luogo, il difetto di giurisdizione, a fronte di una sentenza di primo grado che si pronuncia nel merito o (come accaduto nella specie) su questioni di rito che logicamente presuppongono l’esistenza della giurisdizione, andrebbe fatto valere con autonomo motivo di appello, formandosi altrimenti il giudicato implicito sulla giurisdizione (cfr. ora espressamente l’art. 9 Cod. proc. amm.). In ogni caso, come recentemente chiarito dal Consiglio di Stato, alla stregua del principio del divieto di abuso del processo, precipitato del più generale divieto di abuso del diritto e della clausola di buona fede, deve considerarsi inammissibile il motivo di impugnazione con il quale il ricorrente contesti la giurisdizione da lui stesso adita al fine di ribaltare l’esito negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in palese contrasto con il divieto del venire contra factum proprium e con la regola di correttezza e buona fede prevista dall’art.1175 c.c. (cfr. , Cons. Stato, V, 7 febbraio 2012, n. 656)”. FT

 

 

 



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Inserito in data 12/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 febbario 2013, n. 709

Il ricorso per revocazione non può trasformarsi in ulteriore grado di giudizio

I Giudici di Palazzo Spada, nel dichiarare inammissibile un ricorso per revocazione, ribadiscono il loro consolidato orientamento, secondo cui “l’errore di fatto, che consente di rimettere in discussione il decisum giudiziale con il rimedio straordinario della revocazione ex art. 395, n. 4), Cod. proc. civ. ... , è solo quello che non coinvolge l’attività valutativa dell’organo decidente, ma tende a eliminare l’ostacolo materiale frapposto fra la realtà del processo e la percezione che di questa il giudice abbia avuto, ostacolo promanante da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunciato, dovendosi escludere che il giudizio revocatorio, in quanto rimedio eccezionale, possa essere trasformato in un ulteriore grado di giudizio”.

Tali affermazioni, infatti, con riguardo al caso di specie, inducono a ritenere che, in realtà, “attraverso il ricorso per revocazione, si cerca di ribaltare la conclusione cui è giunta la sentenza impugnata in ordine ad una questione che costituì un punto sul quale il Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata, si è espressamente pronunciato ala luce di una valutazione degli atti di causa: l’esistenza o meno della prova in ordine al fatto dello smarrimento da parte del Tribunale amministrativo regionale dell’avviso di ricevimento e alla circostanza che nel giudizio fosse stata fornita la prova o meno dell’avvenuta notifica. L’appello sul quale si è pronunciata la sentenza oggi impugnata per revocazione aveva ad oggetto proprio tale questione, che quindi costituì il principale punto controverso risolto espressamente dalla contestata decisione. L’errore denunciato non è quindi un errore di fatto revocatorio, ma, semmai, un errore di giudizio, non proponibile in sede di revocazione, pena, altrimenti, la trasformazione di questo rimedio eccezionale in un ulteriore grado di giudizio”. FT



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Inserito in data 12/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 febbraio 2013, n. 735

Ospedali privati classificati: non sussiste diritto a remunerazione prestazioni extra-budget  

La posizione degli ospedali privati classificati era, sotto alcuni aspetti, “equiparata” a quella degli ospedali pubblici. L’equiparazione certamente comportava, fin dalla legge 132/1968, la presenza degli ospedali classificati, al fianco di quelli pubblici, quale componente stabile del servizio sanitario, e rilevava nel momento della definizione delle aree di intervento e delle capacità operative delle strutture, assicurando ai primi una positiva considerazione ai fini del finanziamento pubblico dei necessari investimenti, a seconda del ruolo e delle funzioni rispettivamente attribuite nell’ambito della programmazione regionale. A ciò va aggiunto, con riferimento al sistema di remunerazione delle prestazioni introdotto, in attuazione dell’articolo 8 del d.lgs. 502/1992, con il D.M. 15 aprile 1994, che l’equiparazione degli ospedali privati classificati comportava il riconoscimento, per le prestazioni da essi erogate, delle medesime tariffe applicate alle aziende ospedaliere pubbliche.

La giurisprudenza ... si è incaricata di precisare ulteriormente il presupposto logico e gli effetti dell’equiparazione per quanto concerne il profilo dello svolgimento dell’attività, affermando che anche gli ospedali privati classificati hanno l'obbligo di rendere le prestazioni richieste dagli assistiti, nei limiti consentiti dalla loro capacità operativa determinata dall'assetto strutturale ed organizzativo. In particolare, si è consolidato l’orientamento secondo il quale «ai fini dell'operatività del meccanismo dei cd. tetti di spesa , da un lato stanno le strutture pubbliche e quelle ad esse equiparate (Ospedali classificati , I.R.C.C.S., etc.), dall'altro quelle private accreditate. Solo per le seconde, invero, ha senso parlare di imposizione di un limite alle prestazioni erogabili; mentre per le strutture che risultano consustanziali al sistema sanitario nazionale (Ospedali pubblici, Ospedali classificati , I.R.C.C.S., etc.) non è neppure teorizzabile l'interruzione delle prestazioni agli assistiti al raggiungimento di un ipotetico limite eteronomamente fissato»; infatti, la struttura ospedaliera «non può sottrarsi al dovere, non negoziabile, di erogare il servizio pubblico a tutti gli utenti», dovendo, dunque, ricondursi il tetto delle prestazioni erogabili al limite strutturale dell'ospedale.

Secondo la disciplina risultante dalla novella del d.lgs. 229/1999, gli accordi contrattuali dovevano individuare dei limiti di operatività delle strutture (un determinato volume per ogni tipologia di prestazioni, ed il relativo budget); ma che, tuttavia, detto limite non fosse invalicabile, posto che il corrispettivo indicato negli accordi contrattuali costituiva una sorta di “preventivo”, soggetto a verifica concreta in sede di consuntivo, in base ai risultati raggiunti ed alla attività effettivamente svolta (che poteva risultare superiore a quella massima individuata dagli accordi). La relativa “elasticità” del corrispettivo preventivato negli accordi contrattuali a fronte delle attività concordate non determinava, tuttavia, l'automatico diritto delle strutture ad essere remunerate sempre ed incondizionatamente per le prestazioni erogate oltre il volume massimo concordato; la remunerabilità di tali prestazioni, infatti, era legata ai criteri che la legislazione regionale avrebbe individuato, e quindi dipendeva da un presupposto frutto di una scelta legislativa, vale a dire da un titolo (legale) diverso dall’accordo contrattuale ... Vi era dunque, prima del decreto legge 112/2008, la possibilità che le prestazioni rese oltre i volumi predeterminati in sede di programmazione nazionale e regionale nonché negli accordi contrattuali potessero essere, in qualche misura, remunerate; anche se, sotto tale profilo, la posizione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e classificati non risultava formalmente privilegiata, rispetto a quella degli altri enti erogatori privati. Tuttavia ... , supponendo che non fossero venuti meno l’obbligo di assistenza incondizionata e la correlata equiparazione, si poteva sostenere (con l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato) che anche per gli ospedali classificati, come per le aziende ospedaliere pubbliche, le prestazioni eccedenti i tetti prefissati, non soltanto potessero, ma addirittura dovessero essere remunerate.

E’ solo con la riforma attuata dal decreto legge/2008, che la diversità di trattamento tra le strutture pubbliche e le strutture private diviene incompatibile con gli effetti che si facevano discendere dall’equiparazione. Nell'articolo 8-quinquies del d.lgs. 502/92, vengono introdotti i commi 2-quater e 2-quinquies ... Il selettivo richiamo contenuto nell’ultimo periodo del comma 2-quater comporta che agli accordi in questione non si applichi il comma 1, lettera d) - vale a dire la disposizione che consentiva di rivedere l'importo del corrispettivo preventivato in funzione del volume delle attività erogate e dei risultati raggiunti. Conseguentemente, il corrispettivo preventivato in sede di programmazione regionale e negli accordi contrattuali diventa, di fatto, un tetto di spesa invalicabile. D’altro canto, agli accordi in questione si applica la nuova disposizione del comma 2, lettera e-bis), introdotto dalla legge 31/2008, di conversione del d.l. 248/2007, ...  la modificazione, in corso di esecuzione del contratto, dei valori unitari delle prestazioni comporta automaticamente la rideterminazione del solo volume delle prestazioni contrattualmente individuato, e ciò al fine di consentire il rispetto del corrispettivo preventivato, che deve rimanere invariato. Ad ulteriore garanzia del rispetto dei volumi di prestazione e dei tetti di spesa, individuati in sede di programmazione regionale ma da recepirsi in sede contrattuale, vi è poi la previsione del comma 2-quinquies, sulla (se non automatica, comunque doverosa) sospensione dell’accreditamento, e quindi della possibilità di erogare prestazioni per conto del servizio sanitario nazionale, per l’ipotesi di mancata stipula degli accordi contrattuali. Dette nuove disposizioni riguardano tutti gli enti erogatori, ad eccezione delle aziende ospedaliere e dei presidi delle unità sanitarie locali (viceversa, chiamate a stipulare accordi contrattuali alla luce di tutti i contenuti indicati dall'articolo 8-quinquies, comma 2, compresa la lettera d), che consente la rideterminazione, a consuntivo, del corrispettivo preventivato); quindi, anche gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. A conferma di una disciplina che sembra ormai escludere per le strutture private (comprese quelle “equiparate” alle strutture pubbliche) il diritto alla remunerazione delle prestazioni rese al di fuori delle previsioni della programmazione, l'articolo 1, comma 18, ultimo periodo – anch’esso introdotto dal d.l. 112/2008 - ribadisce che «Le attività e funzioni assistenziali delle strutture equiparate di cui al citato articolo 4 comma 12, con oneri a carico del servizio sanitario nazionale, sono esercitate esclusivamente nei limiti di quanto stabilito negli specifici accordi di cui all'art. 8 quinquies». FT

 

 



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Inserito in data 10/02/2013
CORTE DEI CONTI, SEZ. GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA, 17 gennaio 2013, n. 2

Ente pubblico non economico ed azione di responsabilità

Il Collegio contabile friulano sancisce il proprio difetto di giurisdizione in ordine ad una complessa vicenda, avente ad oggetto la presunta responsabilità di un Ente pubblico non economico, quale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.

Tale Organo, infatti, chiamato ad esprimere il parere di congruità in merito a parcelle professionali rese per il rimborso di spese legali a favore di amministratori di un Ente locale, comportanti, tra l’altro, un consistente esborso di denaro a carico dell’erario comunale, era valutato quale presuntivamente responsabile.

Ad avviso della Procura regionale, infatti, si ravvedeva nell’Ente imputato una interposizione nel processo di attuazione dell’attività amministrativa che, in quanto errata, finiva con il procurarne un consistente grado di responsabilità, in sede erariale.

Ad avviso del Giudice contabile friulano, invece, pare non sussista alcun nesso causale tra il conferimento del parere e la conseguente abnormità della richiesta erariale condotta dall’Amministrazione; né, tantomeno, ricorre alcun obbligo ex lege o alcun vincolo funzionale tra l’Organo consiliare accusato e l’Ente comunale.  

Infatti, solamente con la L.R. n. 9/2008, che ne impone l’obbligatorietà, può ritenersi instaurato un rapporto diretto e funzionale tra l’ente locale e il Consiglio dell’Ordine che presenta detto parere di congruità, rendendo effettivo il rapporto di servizio necessario per ipotizzare l’eventuale responsabilità amministrativa dei componenti dell’organo di vertice del Consiglio professionale.

Tanto non è ricorso nella vicenda in esame in cui, tra l’altro, la richiesta del parere di congruità, qui lamentata, proveniva personalmente dai membri dell’Organo consiliare, senza alcun previo coinvolgimento dell’Amministrazione comunale.

Non ricorre, dunque, alcun danno erariale, né alcuna compartecipazione allo stesso da parte del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati friulano. La vicenda, pertanto, va rimessa al Giudice Ordinario, indicato dal Collegio triestino quale Organo competente per eventuali vertenze risarcitorie. CC



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Inserito in data 10/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 febbraio 2013, n. 698

Concessione bene pubblico e prosecuzione del rapporto ad essa sotteso. Giudice competente

Il Collegio, uniformandosi a giurisprudenza costante sul punto, riconferma la giurisdizione esclusiva del G.A. in merito ai rapporti concessori aventi ad oggetto la gestione di impianti sportivi il cui godimento ed utilizzo spetta alla collettività.

Si tratta, infatti, di beni appartenenti al patrimonio indisponibile del Comune e, come tali, destinati ad assolvere un pubblico servizio e, pertanto, le esigenze di ciascun cittadino.

Appare congrua, quindi, la domanda del concessionario ricorrente volta ad acclarare, in tale sede, l’inadempimento dell’Amministrazione concedente, specie riguardo alle condizioni di manutenzione del bene oggetto del rapporto qui scrutinato, oltreché la possibile prosecuzione del medesimo. Il tutto in riforma della pronuncia del giudice di primo grado che, configurando, invece, il rapporto in esame quale contratto di locazione ex art. 1615 cod. civ., aveva ritenuto competente l’Autorità giurisdizionale ordinaria. CC



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Inserito in data 10/02/2013
CORTE DI GIUSTIZIA UNIONE EUROPEA, SEZ. X, 7 febbraio 2013, C – 68/12

Non si esclude un concorrente, anche laddove svolga attività illecite

Ulteriore monito, dal Giudice del Lussemburgo, a favore della tutela della concorrenza e del libero mercato.

La Corte censura, infatti, la condotta di tre banche dell’Est europeo che, scontente dell’improvviso decremento dei propri affari, si erano accordate in vista della risoluzione di contratti di conto corrente che, ciascuna di esse, aveva instaurato con un’impresa operante in modo asseritamente illegale, al fine di poterla estromettere dal mercato.

Per i Giudici Ue, infatti, si è trattato di un vero e proprio cartello, avente specificamente ad oggetto la restrizione del gioco della concorrenza. Di conseguenza, la presunta illegalità dell’impresa osteggiata, non vale a sminuire l’irregolarità della condotta delle banche, responsabili di una vera e propria infrazione alle regole della concorrenza e, pertanto, condannate dalla Corte europea per l'evidente violazione del Trattato. CC



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Inserito in data 08/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 febbraio 2013, n. 695

Norme su incandidabilità applicabili anche per sentenze precedenti ad entrata in vigore

La normativa di cui al d. lgs. n. 235/2012 ha previsto la non candidabilità di soggetti che abbiano subito condanne in relazione a determinate tipologie di reato caratterizzate da speciale disvalore. Essa ha il fine di “allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia”.

In questo quadro la condanna penale irrevocabile costituisce il mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di "indegnità morale" a ricoprire determinate cariche elettive. Si tratta, quindi, di un “requisito negativo” o “qualifica negativa” ai fini della capacità di partecipare alla competizione elettorale e di mantenere la carica.

Pertanto, la normativa in questione non ha carattere sanzionatorio e non si può sostenere che essa sia applicabile solo con riferimento a sentenze di condanna successive alla sua entrata in vigore (secondo le disposizioni di cui all'art. 25 Cost e all'art. 7 Cedu).

Inoltre, “l’applicazione della richiamata disciplina ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore, pur se con riferimento a requisiti soggettivi collegati a fatti storici precedenti, non dà la stura ad una situazione di retroattività ma costituisce applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l’applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo”.

In virtù di tali considerazioni, può altresì considerarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale svolta con riferimento alla suddetta normativa (per violazione degli artt. 3 e 51 Cost). Infatti, costituisce una scelta discrezionale del Legislatore, certamente non irragionevole, l'aver attribuito alla condanna irrevocabile per determinati reati “una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame - connesse ai valori dell’imparzialità, del buon andamento dell’amministrazione e del prestigio delle cariche elettive - l'incidenza negativa sulle procedure successive anche con riguardo alle sentenze di condanna anteriori alla data di entrata in vigore della legge stessa”. CDC



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Inserito in data 08/02/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 31 gennaio 2013, n. 2253

Diritto al consenso informato violato anche se l'intervento è stato eseguito correttamente

La Suprema Corte dà continuità all'orientamento secondo cui “il diritto al consenso informato del paziente è un diritto irretrattabile della persona” e “al fine di escluderlo, non assume alcuna rilevanza il fatto che l'intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è stato posto in condizione di assentire al trattamento, di talché si è consumata, nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l'esistenza umana nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (confr. Cass. civ. 28 luglio 2011, n. 16543; Cass. civ. 14 marzo 2006, n. 5444)”.

Tuttavia, il ricorso viene rigettato in quanto l'inadempimento degli obblighi informativi gravanti sul medico è stato prospettato nel giudizio di merito solo in relazione alla pretesa inadeguatezza tecnica dell'intervento. La violazione del principio del consenso informato sotto il diverso profilo della lesione del diritto all'informazione e della libera e consapevole autodeterminazione (art. 32 Cost) costituisce quindi una questione nuova e da ciò deriva l'inammissibilità del ricorso.

La Suprema Corte conferma altresì che non è necessaria, ai fini della dimostrazione della sussistenza del nesso di causalità, una probabilità prossima alla certezza. Infatti, “la regola della prova 'oltre il ragionevole dubbio' vige nel processo penale, laddove quello civile è conformato sulla diversa regola della preponderanza dell'evidenza o 'del più probabile che non' (confr. Cass. civ. 26 luglio 2012, n. 13214; Cass. civ. 9 giugno 2011, n. 12686; Cass. civ. 5 maggio 2009, n. 10285)”. CDC




Inserito in data 08/02/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SESTA SEZIONE PENALE, 22 gennaio 2013, n. 3251

Continuità tra i nuovi artt. 317 e 319-quater cp ed il precedente testo dell'art. 317

Con la modifica introdotta dalla legge n. 190 del 2012, è stata estrapolata dalla struttura del reato di concussione (art. 317 cp) la condotta dell'induzione, prima alternativa alla costrizione. L'induzione è divenuta elemento costitutivo della nuova fattispecie di cui all'art. 319-quater cp, che vede tra i soggetti punibili anche il privato. Dunque, mentre l'art. 317 incrimina la condotta di costrizione, il nuovo art. 319-quater fa riferimento alla condotta di induzione.

Il termine “costringe” indica “qualunque violenza morale attuata con abuso di qualità o di poteri che si risolva in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto recante lesione non patrimoniale o patrimoniale, costituita dal danno emergente o dal lucro cessante”. Invece, rientra nell'induzione la “condotta del pubblico ufficiale che prospetti conseguenze sfavorevoli derivanti dall'applicazione della legge per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità”.

L'ambito di operatività delle due disposizioni (così ricostruite) corrisponde, se sommato, all'area del precedente art. 317 cp. Pertanto, gli attuali artt. 317 e 319-quater cp “sono in rapporto di perfetta continuità con il precedente testo dell'art. 317 cp, ex latu agente: la lettura congiunta delle due norme […] copre la medesima area in precedenza propria della concussione regolata dal precedente art. 317 cp”. CDC




Inserito in data 07/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 febbraio 2013, n. 682

Valide le regressioni tariffarie tese a garantire il rispetto dei limiti di spesa sanitaria

La decisione in esame concerne il problema del bilanciamento tra il diritto alla salute e le esigenze di equilibrio finanziario degli enti pubblici gravati dalla spesa sanitaria.

In proposito, si è già in più occasioni espressa la Corte costituzionale, sancendo l’esigenza di fare i conti con la realtà: ad avviso del Giudice delle Leggi, la spesa sanitaria non può essere commisurata soltanto ai bisogni, indipendentemente dalla loro gravità e urgenza, ma deve essere parametrata alle effettive disponibilità finanziarie.

L’applicazione pratica di tali asserzioni di principio ha portato il Consiglio di Stato ad affermare la legittimità di meccanismi di riequilibrio, che intervengano a consuntivo ed in via eventuale rispetto alla programmazione a monte, come nel caso della regressione tariffaria.

In particolare, con la sentenza n. 3 del 12 aprile 2012, l’Adunanza Plenaria ha subordinato la legittimità dei meccanismi di riequilibrio retroattivi al rispetto di tre condizioni: in primo luogo, deve essere garantita la partecipazione procedimentale; in secondo luogo, la motivazione deve essere tanto più approfondita quanto maggiore è il taglio delle spese; infine, al principio dell’esercizio finanziario, devono prevedersi dei tetti provvisori di spesa, così da orientare il privato convenzionato con l’ente pubblico nell’esercizio della sua attività imprenditoriale.  

Con la sentenza in epigrafe, la terza sezione del Consiglio di Stato conferma il proprio precedente orientamento, ritenendo che “la fissazione dei limiti di spesa e l'applicazione delle regressioni tariffarie volte a garantire l'effettività di tali limiti, anche se tardive e con sostanziale portata retroattiva, rappresentino comunque l'adempimento di un preciso ed ineludibile obbligo, che influisce sulla possibilità stessa di attingere le risorse necessarie per remunerare le prestazioni erogate”.

In relazione al caso sub iudice, il Consiglio di Stato osserva che la doglianza di violazione del principio di irretroattività non doveva neppure essere esaminata e che il ricorso di primo grado avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile sul punto; ciò in quanto il ricorrente non ha impugnato il provvedimento che estende il sistema a consuntivo alle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale (deliberazione n. 512 dell’11 giugno 2001 della Giunta regionale calabrese), bensì solo il relativo atto applicativo (deliberazione n. 460 del 28 maggio 2002 della Giunta regionale calabrese) che mutua il carattere retroattivo dal provvedimento presupposto. Secondariamente, la retroattività della misura appare nella sostanza compensata dalla circostanza che i soggetti provvisoriamente accreditati, operanti nel campo dell’assistenza specialistica ambulatoriale, fossero consapevoli fin dalla prima delibera del meccanismo stesso e che la determinazione della misura della riduzione della remunerazione fosse intervenuta tempestivamente. TM



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Inserito in data 07/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 febbraio 2013, n. 641

Riconoscimento causa di servizio non implica il diritto alla risarcibilità del relativo danno biologico

Nella pronunzia de qua, il Consiglio di Stato si concentra sulle tutele spettanti al lavoratore che riporti delle patologie in conseguenza del servizio svolto.

Precisamente, i giudici di Palazzo Spada pongono l’accento sulla differenza di presupposti esistente tra l’equo indennizzo, compensativo della diminuzione della capacità lavorativa, ed il risarcimento dell’ulteriore danno non patrimoniale. Invero, il riconoscimento dell’equo indennizzo è basato sul mero accertamento da parte della CMO del nesso eziologico tra la causa di servizio e le patologie invalidanti insorte a carico del lavoratore. Al contrario, il risarcimento del danno biologico presuppone la responsabilità organizzativa del datore di lavoro, ovverosia la violazione di specifici obblighi volti a garantire le condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro (art. 2087 c.c.). Pertanto, “il risarcimento costituisce una forma di tutela autonoma offerta dall’ordinamento, basandosi non semplicemente sul rapporto oggettivamente accertabile tra causa (o concausa) ed effetto patologico, bensì sulla dimostrazione di una specifica e diretta relazione tra responsabilità organizzativa del servizio da parte del soggetto datore di lavoro e l’ evento dannoso insorto a carico del dipendente”. TM

 

 



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Inserito in data 07/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 febbraio 2013, n. 678

La mancata assegnazione nella sede di servizio del coniuge, seppur discrezionale, va motivata

Il Consiglio di Stato rileva che il potere dell’amministrazione di appartenenza di accordare o meno, su istanza del dipendente, il beneficio dell’assegnazione nella sede di servizio ubicata nella stessa provincia o regione nella quale il coniuge esercita la propria attività lavorativa è ampiamente discrezionale.

L’Amministrazione, infatti, decide se accogliere o meno la domanda del dipendente, valutando discrezionalmente la compatibilità dell’istanza con le esigenze organizzative; segnatamente, dovrebbe comparare l’interesse specifico all’effettiva utilizzazione dell’interessato nella sede di appartenenza con l’eventualità di un suo utile inserimento nella sede richiesta, e con la serietà delle esigenze personali rappresentate. In mancanza di motivazione adeguata sul punto, il provvedimento di rigetto della richiesta di assegnazione prolungata è viziato per eccesso di potere e, conseguentemente, deve essere annullato. TM

 

 

 

 

 

 



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Inserito in data 06/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 gennaio 2013, n. 434

Il dissenso manifestato in conferenza dei servizi deve essere motivato e costruttivo

Ai sensi dell’art. 14 ter della L. n. 241/1990, nella conferenza di servizi il dissenso per essere validamente espresso deve, tra le altre cose, essere sorretto da congrua motivazione e contenere altresì la critica costruens, volta ad indicare le modifiche progettuali necessarie per il superamento del dissenso medesimo. In conformità al precetto normativo, anche la giurisprudenza del Consiglio ha più volte chiarito come il dissenso di un’Amministrazione che partecipa alla conferenza di servizi deve rispondere ai principi di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, predicato dall’art. 97 Cost., non potendo limitarsi ad una mera opposizione al progetto in esame ma dovendo essere costruttivo e motivato (cfr. per tutte Sez. V, 23 maggio 2011, n. 3099).

Privo di fondamento, pertanto, si appalesa l’assunto del Comune appellante di non aver mai espresso il proprio assenso alla realizzazione dell’impianto per cui è causa, ma di essersi limitato ad esprimere un "generico punto di vista" relativamente al profilo urbanistico. Infatti, il modulo procedimentale della conferenza di servizi ammette che l’ente regolarmente convocato possa esprimersi unicamente in uno dei seguenti modi: a) consenso espresso (art. 14-ter, comma 6, della Legge n. 241/1990); b) consenso tacito proveniente dall’ente regolarmente convocato, il cui rappresentate non abbia espresso la volontà dell’amministrazione rappresentata in modo definitivo (art. 14-ter, comma 7, della Legge n. 241/1990); c) dissenso espresso, ammissibile solo se espresso in conferenza di servizi, motivato e circostanziato (art. 14-quater, comma 7, della Legge n. 241/1990). SL



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Inserito in data 06/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 gennaio 2013, n. 339

Non è responsabilità precontrattuale P.a. in caso di mancata aggiudicazione definitiva

In tema di responsabilità precontrattuale della p.a., nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede, di cui è espressione l’art. 1337 c.c., consistono nell’obbligo di rendere al partecipante alla gara in modo completo e tempestivo tutte le informazioni necessarie e sufficienti a salvaguardare la sua posizione, circa fatti che possano far ipotizzare fondatamente la revoca dei relativi atti, in modo da impedire che si consolidi un ragionevole ed incolpevole affidamento sulla invece incerta conclusione del procedimento.

In particolare, in tema di contratti pubblici la possibilità che ad un’aggiudicazione provvisoria non segua quella definitiva del contratto di appalto è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli art. 11, comma 11, 12 e 48, comma 2, del d.lg. n. 163 del 2006, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio, qualora non sussista nessuna illegittimità nell’operato della p.a. SL



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Inserito in data 06/02/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 15 gennaio 2013, n. 1

Capo dello Stato: riserbo sulle sue conversazioni è presupposto imprescindibile per un corretto esercizio delle relative funzioni

La ricostruzione del complesso delle attribuzioni del  Presidente  della Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in  rilievo  che lo stesso e' stato collocato  dalla  Costituzione  al  di  fuori  dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che  incidono su ognuno dei citati poteri,  allo  scopo  di  salvaguardare,  ad  un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica della  posizione  del  Presidente  si  riflette  sulla natura delle  sue  attribuzioni(...) il  Presidente  della  Repubblica «rappresenta l'unita' nazionale» (art. 87, primo  comma,  Cost.)  non soltanto nel senso dell'unita' territoriale dello Stato, ma anche,  e soprattutto, nel senso della coesione e  dell'armonico  funzionamento dei  poteri,  politici  e  di  garanzia,  che  compongono   l'assetto costituzionale della Repubblica. Si tratta di organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri  poteri,  in  ipotesi  tendenti  ad esorbitanze o ad inerzia.

Tutti i poteri del Presidente della Repubblica  hanno  dunque  lo scopo di  consentire  allo  stesso  di  indirizzare  gli  appropriati impulsi ai titolari degli organi che  devono  assumere  decisioni  di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro  funzionamento,  oppure,  in  ipotesi  di  stasi  o  di  blocco, adottando provvedimenti  intesi  a  riavviare  il  normale  ciclo  di svolgimento delle funzioni costituzionali. (…) Per svolgere efficacemente  il  proprio  ruolo  di  garante dell'equilibrio costituzionale e di "magistratura di  influenza",  il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di  armonizzare  eventuali  posizioni  in   conflitto   ed   asprezze polemiche, indicare ai  vari  titolari  di  organi  costituzionali  i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il piu' possibile condivise dei  diversi  problemi  che  via  via  si pongono.

E' indispensabile, in questo quadro, che il Presidente  affianchi continuamente  ai  propri  poteri  formali,   che   si   estrinsecano  nell'emanazione  di  atti  determinati  e   puntuali,   espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che  e'  stato definito il  "potere  di  persuasione",  essenzialmente  composto  di attivita' informali, che possono precedere o seguire  l'adozione,  da parte  propria  o  di  altri  organi  costituzionali,  di   specifici provvedimenti,  sia  per  valutare,  in  via  preventiva,   la   loro opportunita' istituzionale, sia per  saggiarne,  in  via  successiva, l'impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri  dello  Stato.  Le attivita' informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.

Le suddette attivita' informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano  necessariamente  considerazioni  e giudizi parziali e provvisori da parte  del  Presidente  e  dei  suoi interlocutori. Le attivita' di raccordo  e  di  influenza  possono  e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non gia' in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed  indebite.  L'efficacia,  e  la stessa praticabilita', delle funzioni di raccordo e  di  persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e  casuale pubblicizzazione dei contenuti dei  singoli  atti  comunicativi.  Non occorrono molte parole per dimostrare che un'attivita'  informale  di stimolo, moderazione e persuasione - che  costituisce  il  cuore  del ruolo  presidenziale  nella  forma  di  governo  italiana  -  sarebbe destinata a sicuro fallimento,  se  si  dovesse  esercitare  mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e  quindi  la  riservatezza, delle comunicazioni del Presidente  della  Repubblica  sono  pertanto coessenziali al suo ruolo nell'ordinamento costituzionale.  Non  solo le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei cittadini  di  fronte  alla   legge,   ma   costituiscono   modalita' imprescindibili   di   esercizio   della   funzione   di   equilibrio costituzionale - derivanti direttamente dalla Costituzione e  non  da altre fonti normative - dal  cui  mantenimento  dipende  la  concreta possibilita' di tutelare gli  stessi  diritti  fondamentali,  che  in quell'equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare. SL



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Inserito in data 05/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 1 febbraio 2013, n. 634

Rimessione AP: impugnabilità immediata, solo clausole preclusive partecipazione gara

Il tradizionale indirizzo giurisprudenziale [prevede che] l’atto amministrativo generale, o l’atto di normazione secondaria presupposto debbono essere impugnati entro [gli ordinari] termini decadenziali – non assieme all’atto conclusivo della procedura – solo ove immediatamente lesivi di una situazione soggettiva protetta: situazione, quella appena indicata, ritenuta ravvisabile quando l’atto presupposto risulti di per sé ostativo per la realizzazione dell’interesse finale perseguito (ovvero in rapporto ad una procedura concorsuale, il cui bando sia per talune ditte preclusivo della partecipazione cfr. in tal senso Cons. St., Ad. Plen., 23.1.2003, n. 1 e successiva, pacifica giurisprudenza conforme).

Per quanto qui interessa, è dunque necessario stabilire se l’originaria ricorrente in primo grado ... dovesse impugnare immediatamente (e non dopo l’esito finale della gara, per la medesima non favorevole) una clausola del bando che – nel prevedere in modo esplicito l’apertura delle buste, contenenti l’offerta tecnica, in seduta non pubblica – la esponeva immediatamente alla violazione del principio di trasparenza procedurale, solo in un secondo tempo invocato. Una tempestiva contestazione non avrebbe potuto non ritenersi invece preferibile, essendo pacifico che la complessa ed onerosa partecipazione ad una gara, indetta dall’Amministrazione per l’affidamento di lavori, servizi o forniture – benchè conclusivamente finalizzata all’aggiudicazione – implichi per le imprese concorrenti anche un immediato interesse al corretto espletamento della procedura, sulla base di regole certe e non ulteriormente contestabili. Il Collegio ritiene quindi opportuno rimettere all’Adunanza Plenaria la questione della immediata impugnabilità del bando di gara per ogni vizio rilevato.

La sussistenza di giusti motivi per un indirizzo evolutivo, rispetto alla citata pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, [possono essere] nei termini di seguito sintetizzati: la volontà deflattiva del contenzioso, sottostante all’indirizzo di immediata impugnabilità delle sole clausole escludenti, non ha trovato rispondenza nei fatti, con reiterate impugnazioni che, dopo la conclusione delle procedure di gara, postulano l’annullamento del bando e quindi l’azzeramento delle procedure stesse, con notevole aggravio di spese per l’amministrazione e danno per le imprese aggiudicatarie incolpevoli, sulle cui offerte non fosse emerso o riconosciuto alcun vizio; i principi di buona fede e affidamento, di cui agli articoli 1337 e 1338 cod. civ., dovrebbero implicare che le imprese, tenute a partecipare alla gara con attenta disamina delle prescrizioni del bando, fossero non solo abilitate, ma obbligate a segnalare tempestivamente, tramite impugnazione del bando stesso, eventuali cause di invalidità della procedura di gara così come predisposta, anche come possibile fonte di responsabilità precontrattuale; quanto sopra, in linea con la ratio ispiratrice dell’art. 243 bis del codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006), nel testo introdotto dal d.lgs. n. 53/2010 (informativa preventiva dell’intento di proporre ricorso giurisdizionale).

Il Collegio condivide le predette osservazioni e ritiene che le imprese partecipanti a procedure contrattuali ad evidenza pubblica dovrebbero ritenersi tenute ad impugnare qualsiasi clausola del bando ritenuta illegittima, entro gli ordinari termini decadenziali. La questione sopra indicata appare connessa alla vera e propria svolta, impressa al contenzioso in materia di pubblici appalti dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4/2011, ispirata al superamento di indirizzi giurisprudenziali, che finiscono per determinare una “litigiosità esasperata”, senza garantire il soddisfacimento dell’interesse primario di ciascun concorrente (aggiudicazione dell’appalto) e rendendo “estremamente difficoltosa e spesso impossibile (si pensi alla perdita di finanziamenti comunitari) l’esecuzione dell’opera pubblica”. Fra tali indirizzi, sembra al Collegio che possa annoverarsi quello riconducibile alla ricordata sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 1/2003, limitativa dell’immediata impugnabilità dei bandi di gara (o di concorso) – senza necessità di attendere i relativi atti applicativi – solo con riferimento alle clausole impeditive dell’ammissione di soggetti interessati alla selezione, ovvero impositive di oneri sproporzionati per la partecipazione, o di condizioni non comprensibili; quanto sopra, nella presupposizione che in ogni altro caso mancherebbe una lesione diretta ed attuale dell’interesse protetto.

Tale conclusione – oltre a non condurre, come già in precedenza rilevato, ad una riduzione del contenzioso, che viene normalmente avviato su ogni questione prospettabile (con aggravata lesione degli interessi sia pubblici che privati, in caso di azzeramento dell’intera procedura dopo la conclusione della stessa) – appare non più convincente anche sul piano dei principi, regolatori dell’impugnativa di atti amministrativi generali, destinati alla cura concreta di interessi pubblici nei confronti di destinatari indeterminati, ma determinabili. Con la domanda di partecipazione alla gara, infatti, le imprese concorrenti divengono titolari di un interesse legittimo, quale situazione soggettiva protetta corrispondente all’esercizio di un potere, soggetto al principio di legalità ed esplicato, in primo luogo, con l’emanazione del bando. A qualsiasi vizio di quest’ultimo si contrappone, pertanto, l’interesse protetto al corretto svolgimento della procedura, nei termini disciplinati dalla normativa vigente in materia e dalla lex specialis; l’inoppugnabilità della disciplina di gara contenuta nel bando, alla scadenza degli ordinari termini decadenziali, appare dunque conforme alle esigenze di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, che detti termini presuppongono, affinchè l’interesse pubblico sia perseguito senza perduranti margini di incertezza, connessi ad eventuali impugnative. FT

 



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Inserito in data 05/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 1 febbraio 2013, n. 637

Rimessione AP: natura decisione ricorso straordinario e competenza ex art 113 Cpa

Nell’ordinanza del [Consiglio di Stato], sez. III, n. 4666 del 4.8.2011, ... – pur ribadendosi l’esperibilità del giudizio di ottemperanza, per la piena esecuzione del “decisum” conseguente a ricorso straordinario (in conformità alla sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 2065/2011) – si esprimeva un diverso avviso ... , per quanto riguarda l’individuazione del giudice dell’esecuzione competente, a norma dell’art. 113 c.p.a., con conclusiva riconduzione della decisione sul ricorso straordinario all’art. 112, comma 1, lettera d) c.p.a. (che sancisce la proponibilità del giudizio di ottemperanza non solo per le sentenze passate in giudicato, ma anche per “gli altri provvedimenti ad esse equiparati, per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione”). Nella citata ordinanza si sottolineava come – pur dopo le significative novità introdotte dalla legge n. 69/2009 (natura vincolante del parere del Consiglio di Stato e possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale) – l’attività consultiva del medesimo Consiglio di Stato conservasse “significativi profili” di differenza rispetto a quella giurisdizionale, organizzata “secondo i canoni più rigorosi del giusto processo (v. art. 2 c.p.a.)”, senza possibilità di integrale equiparazione del ricorso straordinario a quello giurisdizionale, tenuto conto, in particolare, della “specificità e perfettibilità del rito del ricorso straordinario….con riferimento ai nodi essenziali del contraddittorio, dell’istruzione probatoria e del doppio grado di giudizio”. Veniva altresì sottolineato come – “qualora venissero estese al procedimento straordinario tutte le garanzie e le formalità proprie del ricorso giurisdizionale, esso perderebbe le sue caratteristiche di semplicità, snellezza e concentrazione”, con sostanziale perdita di ogni relativa “ragion d’essere”. Per tali motivi si riteneva che l’atto conclusivo del ricorso straordinario dovesse identificarsi come provvedimento amministrativo, solo per certi aspetti equiparato ad una sentenza (fattispecie ricompresa nell’art. 112, comma 1 - lettera d - c.p.a.), e non come “provvedimento esecutivo del giudice amministrativo”, ovvero come atto propriamente giurisdizionale (art. 112, comma 1 - lettera b - c.p.a.). Secondo la tesi interpretativa sopra sintetizzata, pertanto, il giudice competente per l’esecuzione avrebbe dovuto essere individuato a norma non del primo, ma del secondo comma del successivo art. 113 c.p.a., ovvero con riferimento non al “giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta” (intendendo per tale, nel caso che qui interessa, il Consiglio di Stato in unico grado), ma al “tribunale amministrativo regionale, nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l’ottemperanza”. A quest’ultimo riguardo, nella citata ordinanza n. 4666/11 non si trascurava di sottolineare come il termine “giudice” dovesse ritenersi richiamato nella norma in esame “in senso ampio e necessariamente atecnico”, come dimostrato dal fatto che nella categoria sono ricompresi anche gli arbitri – ex art. 112, comma 1, lettera e) c.p.a. – con conseguente assegnazione della competenza per l’ottemperanza ai ricorsi straordinari al TAR del Lazio, nella cui circoscrizione operano il Presidente della Repubblica, il Ministro proponente ed il Consiglio di Stato in sede consultiva.

Il Collegio ritiene che le diverse linee interpretative sopra sintetizzate, per i delicati profili ordinamentali coinvolti, meritino approfondimento da parte dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ... , tenuto conto delle argomentazioni che, in ordine alla natura giuridica del ricorso straordinario, emergono dal parere emesso dall’Adunanza delle Sezioni riunite prima e seconda del Consiglio di Stato n. 2131/2012 del 7.5.2012. Da tale pronuncia emerge – dopo un interessante excursus storico – una chiara (e, si ritiene, condivisibile) presa di posizione, circa la qualificazione del ricorso straordinario come “rimedio…tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, ma formalmente amministrativo”, per ragioni che nel medesimo parere si fanno risalire alla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di effettività della tutela e, soprattutto, all’entrata in vigore della legge 18.6.2009, n. 69 ... Le decisioni rese in esito a ricorso straordinario non perderebbero il formale carattere di provvedimento amministrativo, ma risulterebbero rafforzate sul piano dell’esecutorietà (in via ordinaria – ovvero per la generalità dei provvedimenti – rimessa all’Autorità amministrativa, ma nel caso di specie affidata al Plesso giurisdizionale di riferimento, risultando già effettuata dall’Organo di vertice di quest’ultimo la richiesta valutazione di legittimità, benchè senza le integrali garanzie del processo per la valutazione della fattispecie concreta).

A sostegno della tesi anzidetta si pongono considerazioni, che attengono alla natura del giudicato, ai limiti di competenza interna delle sezioni del Consiglio di Stato e al principio generale del doppio grado di giurisdizione.

Sotto il primo profilo, infatti, suscita perplessità la piena equiparazione, che si volesse ritenere introdotta fra pronuncia – emessa in esito a ricorso straordinario – e sentenza conclusiva del processo, con anomalo riconoscimento di un “doppio binario” giurisdizionale, nell’ambito del quale potrebbero acquisire la forza propria del giudicato (indiscutibile per principio risalente al diritto romano: “facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis….”) anche pronunce non assistite dalle previe garanzie del “giusto processo”, così come oggi scolpite nell’art. 111 della Costituzione. Quanto sopra con conseguenze che – per i limiti istruttori sottolineati nel citato parere n. 2131/2012 – implicherebbero un giudizio di esecuzione vincolato non solo dai principi di diritto, espressi nel parere del Consiglio di Stato, ma anche dai presupposti di fatto, nel medesimo parere talvolta non compiutamente accertati.

Ove, inoltre, il pronunciamento emesso a seguito di ricorso straordinario avesse la medesima natura giuridica di una sentenza, non si vede perché – a livello di competenza interna – detto ricorso non potrebbe essere esaminato (anche) dalle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, così come risulta anomalo che – per l’ottemperanza al medesimo – venga chiamata a pronunciarsi una sezione giurisdizionale, anziché la sezione consultiva che abbia emesso il parere; in altri termini, la possibile configurazione del parere in questione come “ius dicere”, non distinguibile dalla pronuncia giurisdizionale, porrebbe evidenti problemi di rilevanza costituzionale e comunitaria, ove le scarne indicazioni, contenute nell’art. 112 c.p.a., fossero da considerare introduttive di una totale equiparazione fra attività consultiva di tipo giustiziale e attività giudicante in senso proprio (riconducibili, rispettivamente, agli articoli 100 e 103 della Costituzione).

Ugualmente ardua appare la riconducibilità alle medesime indicazioni codicistiche della soppressione del doppio grado di giurisdizione, pacificamente riconosciuto anche per le sentenze emesse in sede di ottemperanza quando il gravame non investa mere questioni esecutive, con effetto devolutivo pieno in relazione alla regolarità del rito instaurato, alle condizioni soggettive ed oggettive dell’azione ed alla fondatezza della pretesa azionata (cfr. in tal senso per il principio, Cons. St., sez. V, 8.7.2002, n. 3789; Cons. St., sez. VI, 27.1.2012, n. 385); quanto sopra, oltre tutto, per una decisione che non perderebbe la propria natura di provvedimento amministrativo, continuandosi a ritenere ammissibile al riguardo anche l’ordinario ricorso giurisdizionale (cfr. in tal senso il citato parere n. 2131/2012). FT

 



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Inserito in data 05/02/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ORDINANZA 4 febbraio 2013, n. 4

Giudice competente sull’impugnazione dell’informativa tipica, prima del Codice Antimafia

Le controversie ... interessano l’informativa antimafia tipica emessa dalla Prefettura di Cagliari congiuntamente agli atti applicativi adottati da amministrazioni e società pubbliche operanti nell’ambito territoriale della Regione Sicilia. Ai fini della soluzione della questione di competenza devoluta a questa adunanza assume rilievo decisivo la circostanza che l’informativa prefettizia tipica non costituisce atto a portata generale né ha efficacia sull'intero territorio nazionale ma opera in seno al singolo rapporto cui attiene e, pertanto, sortisce i suoi effetti "diretti" nell'esclusivo ambito della circoscrizione territoriale ove quest'ultimo è costituito e si svolge. A tal proposito va ricordato che, ai sensi del d.P.R. 30 giugno 1998, n. 252 (Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni e delle informazioni antimafia), le informazioni del Prefetto, richieste dall'amministrazione interessata (art. 10, comma 3), producono effetti giuridici diretti, in via esclusiva, nei confronti dell’ente istante, inibendo all’ amministrazione destinataria delle informazioni la stipulazione, l’approvazione o l’autorizzazione del contratto al pari del rilascio di concessioni e dell’autorizzazione di erogazioni (art. 10, comma 2), ovvero, ancora, innescando il dispiegarsi, da parte del medesimo ente, del potere discrezionale di revoca o recesso rispetto ai rapporti già in essere (art. 11, comma 2). Ciò non toglie, naturalmente, che il Prefetto possa corrispondere con analoghe informazioni alla richiesta di altra amministrazione pubblica o che possano intervenire informazioni di altre Prefetture che recepiscano ob relationem i contenuti dell’interdittiva originaria. In tal caso, tuttavia, verrà in rilievo un diverso provvedimento dotato di efficacia inibitoria o potenzialmente risolutoria nei riguardi di quell’ amministrazione e in relazione a quel rapporto in funzione del quale la richiesta sia stata formulata (vedi Cons. Stato, ad plen., ord. n. 34/2012, in materia di informativa atipica). La trasposizione di detti canoni interpretativi al caso di specie conduce allora all’affermazione della competenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia in quanto i ricorsi in esame hanno investito atti applicativi, adottati dagli enti destinatari dell’informativa, che spiegano effetti diretti, in via esclusiva, nell’ambito della circoscrizione di detto plesso giurisdizionale. Non è, infatti, revocabile in dubbio che l’informativa è stata oggetto di impugnazione nella parte in cui ha prodotto, attraverso la mediazione degli atti consequenziali a valle, effetti lesivi in un ambito territoriale circoscritto ai sensi dell’art. 13, comma 1, secondo periodo, cit. Di qui il corollario del radicamento della competenza territoriale del giudice periferico, id est il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia

La competenza territoriale di detto Tribunale deve essere affermata anche con riferimento al ricorso ... che ... ha investito l’informativa ex se, senza gravare i pur menzionati atti applicativi. Reputa infatti l’adunanza che l’impugnazione di un’interdittiva già investita, congiuntamente agli atti applicativi, da due precedenti ricorsi, debba essere attratta, anche in ragione di profili di connessione e del principio di prevenzione, dalla competenza già radicata con riguardo ai due gravami già incardinati. Si deve, infatti, escludere, alla stregua delle considerazioni che seguono, la sussistenza dei presupposti per la declaratoria della competenza sia del Tribunale amministrativo regionale del Lazio che del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna.

Non viene in rilievo, in primo luogo, al fine di supportare la tesi della competenza del Tribunale centrale, la disciplina dettata dall’articolo art. 13, comma 3, del codice del processo, secondo cui “negli altri casi e' inderogabilmente competente, per gli atti statali, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma e, per gli atti dei soggetti pubblici a carattere ultra regionale, il Tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il soggetto”. In disparte la questione della portata della locuzione “atti statali” e la connessa tematica del rapporto tra tale criterio di competenza e quello imperniato sulla sede dell’amministrazione, di cui al periodo iniziale del primo comma, non è ravvisabile, nel caso di specie, il profilo qualificante degli effetti ultra-regionali sortiti dell’atto impugnato. Si è già ricordato in precedenza che l’informativa antimafia non è un atto di natura generale operante su tutto il territorio nazionale in quanto la sua efficacia diretta è limitata alle amministrazioni richiedenti e ai relativi rapporti incisi dall’interdittiva. Non vale a spostare i termini della questione la dedotta circostanza fattuale della ripercussione prodotta dall’informativa in esame, anche attraverso l’intermediazione di informative rese da altri Uffici Territoriali di Governo, su ulteriori rapporti con altre stazioni appaltanti operanti nelle circoscrizioni di diversi tribunale periferici. A prescindere dalla qualificazione di detta propagazione effettuale in termini di efficacia diretta o indiretta, assume valore decisivo il principio della cd. scindibilità degli effetti, secondo cui, a fronte dell’ impugnazione di atto potenzialmente idoneo a operare in più regioni, debbono essere apprezzati, ai fini della statuizione sulla competenza territoriale, i soli effetti interessati dall’azione giudiziaria proposta e, quindi, la portata effettuale dell’ipotetica pronuncia di accoglimento (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2004, n. 8213) ... Ne deriva, anche in ragione del criterio della prevenzione temporale, la soggezione del terzo ricorso, privo di profili integrativi sul piano dell’oggetto e dell’effetto dell’impugnativa, alla vis attractiva spiegata dalla competenza operante per i primi due ricorsi.

Va altresì esclusa la competenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna in base al criterio della sede dell’amministrazione di cui al più volte richiamato articolo 13, comma 1, primo periodo, del codice del processo amministrativo. Ferme restando le assorbenti considerazioni prima esposte in merito alla prevalenza del criterio dell’efficacia territorialmente circoscritta di cui al secondo periodo di detta ultima disposizione, si deve soggiungere che la competenza del Tribunale amministrativo regionale della Sardegna va esclusa anche in base al principio della prevalenza, in caso di connessione, del criterio della competenza funzionale rispetto a quello della competenza territoriale ... Si deve allora convenire che, anche a dare seguito alla prospettazione di parte ricorrente in merito alla configurabilità ... della competenza del Tribunale amministrativo per la Sardegna in base al criterio territoriale della sede dell’amministrazione, l’applicazione del principio della prevalenza della competenza funzionale come criterio regolatore della connessione, produrrebbe in ogni caso l’estensione della competenza funzionale radicata in funzione dell’impugnazione degli atti applicativi, in materia di procedure di affidamento, al giudizio relativo all’informativa antimafia tipica già gravata con i due precedenti ricorsi. FT



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Inserito in data 02/02/2013
CORTE COSTITUZIONALE, 23 gennaio 2013, n. 8

Enti locali: è ragionevole valutarne la virtuosità in base al grado di liberalizzazione

La Regione Toscana e la Regione Veneto hanno proposto in via principale varie questioni di legittimità costituzionale, relative al d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 2012 n. 27, tra cui alcune aventi ad oggetto l’art. 1 co. 4.

Occorre, anzitutto, chiarire il significato della disposizione impugnata, alla luce del contesto normativo in cui s’inscrive. Il contenuto del censurato art. 1, comma 4, infatti, può essere compreso solo in relazione ai commi che lo precedono, dal momento che esso prevede che le Regioni e gli altri enti territoriali si adeguino ai principi desumibili dai primi tre commi del medesimo art. 1 e, al fine di incentivare gli enti territoriali ad operare nel senso indicato dal legislatore statale, il comma 4 afferma che «il predetto adeguamento costituisce elemento di valutazione della virtuosità», alla quale si connettono conseguenze di ordine finanziario, secondo quanto previsto dall’art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111. I principi contenuti nei commi 1, 2 e 3 dell’art. 1 – la cui attuazione da parte di tutti gli enti territoriali il legislatore intende incentivare con il dispositivo contenuto nel comma 4, oggetto del presente giudizio – riguardano la liberalizzazione delle attività economiche e si pongono in linea di continuità, anche attraverso richiami testuali espliciti, con l’art. 3 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148, su cui questa Corte si è pronunciata con sentenza n. 200 del 2012.

Il principale elemento di novità della disposizione impugnata, rispetto all’evoluzione normativa sopra richiamata ... , è costituito dal raccordo tra attuazione dei principi di razionalizzazione delle attività economiche e implicazioni di natura finanziaria a carico delle autonomie territoriali. Proprio in ordine a tale correlazione è stato formulato il più nutrito gruppo di censure, per violazione dell’art. 117, terzo comma, e 119 Cost., rispettivamente in materia di coordinamento della finanza pubblica e autonomia finanziaria regionale. Le questioni non sono fondate.

L’art. 1, comma 4, censurato, prevede che la Presidenza del Consiglio comunichi al Ministero dell’economia «gli enti che hanno proceduto all’applicazione delle procedure previste dal presente articolo», volte all’attuazione del principio di liberalizzazione. Tale adeguamento viene considerato tra i parametri di “virtuosità”, sulla base dei quali, ai sensi dell’art. 20, comma 2, del decreto-legge n. 98 del 2011, gli enti territoriali vengono suddivisi in due classi, ai fini del rispetto del patto di stabilità interno. Gli enti stimati complessivamente virtuosi sono chiamati a rispettare vincoli di finanza pubblica meno stringenti rispetto agli enti meno virtuosi ... Al contrario, gli enti collocati nella classe meno virtuosa subiscono una riduzione dei trasferimenti e concorrono alla realizzazione di obiettivi di finanza pubblica maggiormente onerosi ... La valutazione della “virtuosità” degli enti si basa su un complesso di parametri assai articolato (ex art. 20, comma 2, lettere da a a l, e comma 2-bis, del decreto-legge n. 98 del 2011), tra i quali la disposizione impugnata introduce anche l’adeguamento ai principi della razionalizzazione della regolazione economica, quale elemento aggiuntivo rispetto agli altri fattori già previsti dal legislatore.

Non è difficile cogliere la ratio del legame tracciato dal legislatore fra le politiche economiche di liberalizzazione, intesa come razionalizzazione della regolazione, e le implicazioni finanziarie delle stesse. Secondo l’impostazione di fondo della normativa – ispirata a quelle evidenze economiche empiriche che individuano una significativa relazione fra liberalizzazioni e crescita economica, su cui poggiano anche molti interventi delle istituzioni europee – è ragionevole ritenere che le politiche economiche volte ad alleggerire la regolazione, liberandola dagli oneri inutili e sproporzionati, perseguano lo scopo di sostenere lo sviluppo dell’economia nazionale. Questa relazione tra liberalizzazione e crescita economica appare ulteriormente rilevante in quanto, da un lato, la crescita economica è uno dei fattori che può contribuire all’aumento del gettito tributario, che, a sua volta, concorre alla riduzione del disavanzo della finanza pubblica; dall’altro, non si può trascurare il fatto che il Patto europeo di stabilità e crescita – che è alla base del Patto di stabilità interno – esige il rispetto di alcuni indici che mettono in relazione il prodotto interno lordo, solitamente preso a riferimento quale misura della crescita economica di un Paese, con il debito delle amministrazioni pubbliche e con il deficit pubblico. Il rispetto di tali indici può essere raggiunto, sia attraverso la crescita del prodotto interno lordo, sia attraverso il contenimento e la riduzione del debito delle amministrazioni pubbliche e del deficit pubblico. In questa prospettiva, è ragionevole che la norma impugnata consenta di valutare l’adeguamento di ciascun ente territoriale ai principi della razionalizzazione della regolazione, anche al fine di stabilire le modalità con cui questo debba partecipare al risanamento della finanza pubblica. L’attuazione di politiche economiche locali e regionali volte alla liberalizzazione ordinata e ragionevole e allo sviluppo dei mercati, infatti, produce dei riflessi sul piano nazionale, sia quanto alla crescita, sia quanto alle entrate tributarie, sia, infine, quanto al rispetto delle condizioni dettate dal Patto europeo di stabilità e crescita.

Complessivamente, dunque, non è irragionevole che il legislatore abbia previsto un trattamento differenziato fra enti che decidono di perseguire un maggiore sviluppo economico attraverso politiche di ri-regolazione dei mercati ed enti che, al contrario, non lo fanno, purché, naturalmente, lo Stato operi tale valutazione attraverso strumenti dotati di un certo grado di oggettività e comparabilità, che precisino ex ante i criteri per apprezzare il grado di adeguamento raggiunto da ciascun ente nell’ambito del processo complessivo di razionalizzazione della regolazione, all’interno dei diversi mercati singolarmente individuati.

Introdurre un regime finanziario più favorevole per le Regioni che sviluppano adeguate politiche di crescita economica costituisce, dunque, una misura premiale non incoerente rispetto alle politiche economiche che si intendono, in tal modo, incentivare. FT



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Inserito in data 02/02/2013
CORTE COSTITUZIONALE, 23 gennaio 2013, n. 10

Confermata applicazione rito sommario di cognizione all’opposizione alla stima

La questione sollevata è inammissibile, sotto molteplici profili ... Deve preliminarmente ribadirsi che nella disciplina degli istituti processuali vige il principio della discrezionalità e insindacabilità delle scelte operate dal legislatore, nel limite della loro non manifesta irragionevolezza ... Anche nel caso in esame, in linea di principio, esiste una pluralità di possibili soluzioni, quanto al rito con il quale trattare le controversie relative alla opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione, come nello specifico testimoniano anche le vicende che hanno condotto all’approvazione del decreto legislativo n. 150 del 2011 ... La decisione richiesta alla Corte avrebbe pertanto natura creativa e non sarebbe costituzionalmente obbligata, versandosi in materia nella quale sussiste la discrezionalità del legislatore: anche se esaminata sotto questo profilo la questione è quindi inammissibile ... In tal senso, la Corte ha affermato che non può ritenersi «che sia coperto da garanzia costituzionale, quale modello tendenzialmente vincolante per il legislatore, il processo ordinario di cognizione, i cui singoli istituti dovrebbero essere rinvenibili anche nei procedimenti di cognizione diversamente articolati dalla legge» ... Nel caso in esame, la scelta di trattare con il procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 bis ss., cod. proc. civ. le controversie richiamate, è stata motivata, nella relazione illustrativa al decreto impugnato, dalla «accentuata semplificazione della trattazione o dell’istruzione della causa, rivelata, spesso nella maggior parte dei casi, dal richiamo della procedura camerale prevista e disciplinata dagli artt. 737 ss., cod. proc. civ.. Il presupposto della semplificazione della trattazione è stato altresì rinvenuto in quei procedimenti che, nel loro pratico svolgimento, sono caratterizzati dal thema probandum semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescindere dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coinvolte o delle questioni giuridiche da trattare o decidere. Tale impostazione si evince anche dai pareri resi dalle competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, che hanno concordemente suggerito di ricondurre al rito sommario di cognizione anche i procedimenti in materia di opposizione alla stima nelle espropriazioni per pubblica utilità (…) i quali sono caratterizzati, nell’esperienza pratica, da un’attività istruttoria ridotta, a fronte di questioni giuridiche spesso non altrettanto semplici». Nel quadro descritto, deve pertanto escludersi che le disposizioni impugnate siano manifestamente irragionevoli, ponendosi invece nell’ambito di un chiaro disegno riformatore, orientato alla semplificazione dei procedimenti civili in esame. FT



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Inserito in data 31/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL'ADUNANZA PLENARIA, 28 gennaio 2013, n. 517

Revoca contributi pubblici, criteri riparto giurisdizione: rimessione alla Plenaria

Nel caso in cui sia stato emanato un atto di revoca di un provvedimento che abbia disposto un contributo pubblico, si è consolidato un risalente orientamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione, per il quale rilevano gli ordinari criteri di riparto, fondati sulla natura delle situazioni soggettive azionate, con la conseguenza che, qualora la controversia sorga in relazione alla fase di erogazione del contributo o di ritiro della sovvenzione, sulla scorta di un addotto inadempimento del destinatario, la giurisdizione spetta al giudice ordinario, anche se si faccia questione di atti denominati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'asserito inadempimento, da parte del beneficiario, quanto alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo. A tale orientamento si è adeguata la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale è configurabile una situazione soggettiva d’interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento attributivo del beneficio, o se, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse (ma non per inadempienze del beneficiario).

Ritiene al riguardo la Sezione che la consolidata giurisprudenza in materia (basata su considerazioni generali circa la nascita di un diritto soggettivo a seguito del rilascio del contributo o della sovvenzione) possa essere oggetto di una rimeditazione, ove si consideri che: a) il potere di autotutela dell’amministrazione, esercitato con un atto di revoca (o di decadenza), in base ai principi del contrarius actus, incide di per sé su posizioni d’interesse legittimo (come si evince dalla pacifica giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato attinente ai casi in cui una concessione di un bene pubblico o di un servizio pubblico sia ritirata per qualsiasi ragione, anche nell’ipotesi d’inadempimento del concessionario); b) l’art. 7 del codice del processo amministrativo dispone che il giudice amministrativo ha giurisdizione nelle controversie “riguardanti provvedimenti, atti … riconducibili anche mediatamente all’esercizio” del potere pubblico (e non è dubbio che il provvedimento di ritiro di un precedente atto autoritativo a sua volta abbia natura autoritativa).

Peraltro, la sussistenza della giurisdizione amministrativa potrebbe anche essere affermata, in via esclusiva, in considerazione dell’art. 12 della legge n. 241 del 1990, riguardante i ‘provvedimenti attributivi di vantaggi economici’, che disciplina la “concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari”, attribuendo il nomen iuris di concessione a qualsiasi provvedimento che disponga l’erogazione del denaro pubblico. Sotto tale profilo, potrebbe risultare rilevante l’art. 133, comma 1, lettera b), sulla sussistenza della giurisdizione esclusiva per le “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessione di beni pubblici”.

La portata applicativa delle disposizioni di legge sopra richiamate non sembra riducibile in via interpretativa, per il rilievo da attribuire all’art. 44 della legge n. 69 del 2009 (che ha condotto all’approvazione del codice del processo amministrativo, disponendo che il riassetto del medesimo dovesse avvenire “alfine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele”). Infatti, la finalità di adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale ha consentito l’elaborazione dell’art. 7 del codice, ripetitivo di espressioni contenute nelle sentenze della Corte stessa n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006. Inoltre, la distinta, e parimenti rilevante, finalità di “assicurare la concentrazione delle tutele” comunque può aver giustificato l’attribuzione alla giurisdizione amministrativa delle controversie riguardanti - per il tramite dell’esercizio del potere di autotutela - il ritiro dei provvedimenti “attributivi di vantaggi economici”, aventi ex lege natura concessoria, e dunque delle controversie che peraltro già di per sé potevano essere riferite ai rapporti inerenti alla concessione di un bene pubblico (il denaro), prima ancora delle modificazioni disposte dal codice del processo amministrativo. FT

 

 

 

 



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Inserito in data 31/01/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 23 gennaio 2013, n. 7

Illegittimo art 569 cp: perdita potestà non consegue di diritto a soppressione di stato

La soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolge, come è evidente, i princìpi affermati da questa Corte nella sentenza n. 31 del 2012, relativa alla finitima fattispecie del delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567, secondo comma, del codice penale ... Ebbene, tenuto conto della ratio decidendi che ha informato la richiamata pronuncia, appare evidente che lo stesso ordine di rilievi può riguardare anche il delitto di soppressione di stato, oggetto del giudizio a quo, posto che l’automatismo che caratterizza l’applicazione della pena accessoria risulta compromettere gli stessi interessi del minore che la richiamata sentenza della Corte ha inteso salvaguardare; mentre è certo che anche per la soppressione di stato valgono le stesse considerazioni di non necessaria “indegnità” del genitore che sono state evocate per la alterazione di stato. Va infatti evidenziato – come il giudice  a quo non ha mancato di sottolineare in punto di rilevanza della questione – che nella specie, una dichiarazione di nascita, seppure tardiva di oltre quattro anni, vi è stata, mentre, quanto agli interessi del minore ed alla condotta serbata dai genitori, il giudice dell’appello ha avuto modo di puntualizzare che, pur dovendosi stigmatizzare il fatto- reato loro addebitato, «non fu presente negli imputati la volontà di privare la nuova nata delle attenzioni materiali e anche dell’affetto e dell’assistenza che certamente non le sono mancate».

La nota problematica che affligge i perduranti caratteri di automatismo – e, per il caso qui in esame, anche la fissità che connota l’applicazione della pena accessoria, in perenne tensione rispetto alle esigenze di personalizzazione del trattamento sanzionatorio e della sua necessaria finalizzazione rieducativa – assume, con riferimento al quadro normativo qui coinvolto, una dimensione di particolare acutezza, proprio perché viene a proporsi in tutto il suo risalto, come necessario termine di raffronto (e, dunque, quale limite costituzionale di operatività della sanzione), la salvaguardia delle esigenze educative ed affettive del minore: esigenze che finirebbero per essere inaccettabilmente compromesse, ove si facesse luogo ad una non necessaria interruzione del rapporto tra il minore ed i propri genitori in virtù di quell’automatismo e di quella fissità: connotati, questi, in varie circostanze stigmatizzati da questa Corte, la quale, anche di recente, non ha mancato di segnalare «l’opportunità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie» (sentenza n. 134 del 2012). In sostanza, incidendo la pena accessoria su una potestà che coinvolge non soltanto il suo titolare ma anche, necessariamente, il figlio minore, è evidente che, in tanto può ritenersi giustificabile l’interruzione di quella relatio (sul piano giuridico, se non naturalistico), in quanto essa si giustifichi proprio in funzione di tutela degli interessi del minore. All’irragionevole automatismo legale occorre dunque sostituire – quale soluzione costituzionalmente più congrua – una valutazione concreta del giudice, così da assegnare all’accertamento giurisdizionale sul reato null’altro che il valore di “indice” per misurare la idoneità o meno del genitore ad esercitare le proprie potestà: vale a dire il fascio di doveri e poteri sulla cui falsariga realizzare in concreto gli interessi del figlio minore. FT         



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Inserito in data 29/01/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, 29 gennaio 2013, C - 396/11

Chiariti confini del MAE: deroghe al diritto del ricercato di essere sentito

La Corte del Lussemburgo, delimitando i confini del mandato d’arresto europeo, evidenzia come le Autorità giudiziarie non possano rifiutare l’esecuzione dello stesso, emesso ai fini dell’esercizio di un’azione penale, per via del fatto che la persona ricercata non sia stata sentita nello Stato membro prima dell’emissione di tale mandato.

Infatti, pur essendo garantito dalla CEDU e sancito dalla Convenzione dei diritti fondamentali un diritto all’audizione dei condannati, in vista di un sistema simultaneo di esercizio congiunto dell’azione penale da parte dei singoli Stati, è altrettanto vero che sussistono dei casi particolari, in cui tale meccanismo di consegne tra le rispettive Autorità giudiziarie possa essere derogato.

D’altra parte, sottolinea la Corte, la necessità di eseguire il mandato all’improvviso può anche giustificarsi, talvolta, in vista di un più efficace e corretto esercizio dell’azione penale, altrimenti vanificato dall’obbligo e dai tempi necessari per sentire il soggetto ricercato.

Pertanto, in vista della realizzazione di un unico spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, reale obiettivo della suddetta intesa tra gli Stati, il mandato d’arresto deve anche potersi giovare di un certo «effetto sorpresa», i cui confini sono pur sempre delimitati dal Legislatore europeo. CC



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Inserito in data 29/01/2013
CEDU, SEZ. II, DECISIONE n. 25704/11 del 29 gennaio 2013

Se il diritto di visita al figlio non è reso possibile, sì al risarcimento

I Giudici di Strasburgo, esprimendo un aspro monito nei riguardi dei Tribunali italiani, sottolineano come, accanto all’indicazione delle misure effettive e necessarie ai fini dell’articolarsi dei giorni di visita della prole da parte di un genitore separato, si debbano altresì fornire ulteriori segnali a favore di una rapida attuazione delle stesse.

Infatti, posto che il diritto alla vita familiare vada assicurato nella sua pienezza in sede esecutiva, la Corte invita le Autorità competenti ad adottare misure più dirette e specifiche, in modo da consentire il recupero di rapporti personali aventi un tale spessore.

Del resto, è proprio nell’ambito di questioni tanto delicate che appaiono incongrue misure stereotipate ed automatiche, quali quelle adottate dai nostri Giudici in sede di omologazione delle separazioni, ritenute tali dal Collegio di Strasburgo che, proprio in tale sede, ricorda l’avvenuta violazione dell’articolo 8 della Convenzione, ove esso sancisce il diritto al rispetto della vita in famiglia. CC

 



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Inserito in data 29/01/2013
CORTE DI CASSAZIONE, TERZA SEZIONE CIVILE, 28 gennaio 2013, n. 1871

Ustica: violata la norma cautelare. Diritto al risarcimento per i familiari delle vittime

La Suprema Corte boccia le doglianze del Ministero della Difesa e dei Trasporti, volte a contestare la pretesa risarcitoria avanzata dai familiari delle vittime del noto disastro aereo, verificatosi sui cieli di Ustica in data 27 giugno 1980.

La Terza Sezione civile, condividendo la posizione accolta dalla Corte di Appello di Palermo nel primo verdetto sui risarcimenti ai familiari delle vittime, definisce come abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile e, pertanto, ribadisce l’evidente, omessa vigilanza da parte dello Stato.

Non rileva, infatti, ai fini dell’esonero della relativa responsabilità, che quest’ultimo abbia provato la carente conoscenza in concreto circa l'esistenza del pericolo; sussisteva, a suo carico, l’obbligo di vigilare, in particolare di effettuare il controllo dei cieli, al fine di evitare episodi della gravità pari a quella oggi censurata.

Dunque, ricostruito il nesso eziologico e declarando l’infondatezza della prescrizione, quale presuntivamente ritenuta dalle Amministrazioni ricorrenti in ordine alla pretesa risarcitoria mossa dai familiari delle vittime, il Collegio provvede, invece, in ordine al riconoscimento di un simile diritto.

Ordina, pertanto, che lo Stato provveda a tale risarcimento, sul cui effettivo ammontare rinvia alla decisione della Corte d’Appello palermitana e rigetta, quindi, le posizioni sostenute dalla Difesa erariale, sancendone l’infondatezza, a fronte di una responsabilità dello Stato che, dopo più di un trentennio, viene sottolineata. CC

 

 

 




Inserito in data 27/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 gennaio 2013, n. 482

Apertura delle buste: ulteriore esegesi dell’art. 12 DL. 52/12. E’ norma di diritto transitorio

La Sezione interviene risolvendo un contrasto sorto negli ultimi mesi riguardo all’effettiva portata dell’articolo 12 del D.L. n. 52/12; norma che, entrata in vigore a far data dal 9 maggio dello scorso anno, ha novellato gli articoli 120 e 283 del D.P.R. n. 207/10 - in tema di modalità di apertura delle buste in sedute di gara.

Più nel dettaglio, questo Collegio ricorda come l’odierna disposizione avrebbe recepito la tesi della Plenaria n. 13 del 2011 – per cui la commissione giudicatrice deve procedere in seduta pubblica anche all’apertura della busta contenenti l’offerta tecnica, al fine di consentire a tutti i concorrenti di avere contezza della regolarità e completezza della documentazione prodotta.

Assodato tale punto, il Collegio delimita, altresì, la portata retroattiva della norma, incidendo, al contempo, sul correlato, eventuale tema dell’overruling giurisprudenziale.

Infatti, sancendo la capacità di tale precetto di cristallizzare un orientamento giurisprudenziale teso alla maggiore conoscibilità possibile, la disposizione in esame disciplina, altresì,  gli effetti del mutamento sui procedimenti di gara ancora in corso, facendosi carico dei delicati problemi di diritto transitorio.

In particolare, infatti, la norma interviene sulla fase inter – temporale, riconoscendo comunque validità a quei procedimenti di gara che si fossero già conclusi alla suddetta data del 9 maggio, ovvero i cui plichi fossero già stati aperti, pur pendendo tuttora le relative procedure.

 Tutto ciò al fine di sanare l’eventuale eccesso di costi che sarebbe scaturito dalla caducazione di procedimenti, altrimenti invalidi; e di salvaguardare l’affidamento di quanti avessero partecipato alla selezione, confidando nell’applicazione di regole procedimentali che, nella maggior parte dei casi, prima del pronunciamento della Plenaria 13/2011, prevedevano l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche in seduta riservata.

Chiarita tale natura transitoria, il Collegio infine giustifica la ritenuta esclusione di questioni di legittimità costituzionale o comunitaria, eventualmente afferenti la norma in questione.

In primo luogo, perché il principio di pubblicità, fatto proprio dall’Adunanza 13 del 2011 e quindi dall’odierna disposizione, non ha ancora trovato un’ampia declinazione a livello di diritto europeo, ovvero nelle direttive.

E poi perché tale principio, per quanto necessario e cogente, necessita comunque di un adeguato bilanciamento con quello altrettanto saldo dell’affidamento.

Principio, questo, avente pari rango e matrice comunitaria, alla cui tutela è appunto preordinata la declinazione della norma in esame, come voluta e giustificata dalla Sezione e come scrutinata in questa sede, ad evidente appannaggio delle stazioni appaltanti e, ancor di più, degli interessi dell’impresa aggiudicataria. CC



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Inserito in data 27/01/2013
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, T - 182/10 del 15 gennaio 2013

L’aumento dei pedaggi sul passante di Mestre non è aiuto di Stato

Il Giudice del Lussemburgo respinge il ricorso dell'Associazione italiana delle società concessionarie per la costruzione e l'esercizio di autostrade e trafori stradali, che qualificava come iniquo, quindi non dovuto, l’aumento dei pedaggi richiesti sul passante di Mestre.

Tale tratto di strada, sorto in alternativa alla tangenziale di Mestre proprio al fine di decongestionare il traffico del Nord – Est, era stato costruito pochi anni addietro da una partecipata della Regione Veneto, dietro regolare concessione.

In merito alla contestata esazione di pedaggi, peraltro presuntivamente aggravati, il Tribunale, uniformandosi ad un precedente parere della Commissione Europea che aveva già esaminato la posizione dell’odierna ricorrente, ribadisce che le somme sono riscosse dalle concessionarie che gestiscono semplicemente il pedaggio, o in loro nome da una società di Autostrade per l'Italia, per essere successivamente trasferite alla concessionaria originaria.

Le somme derivanti dall'aumento del pedaggio, dunque, circolano direttamente ed esclusivamente fra società private, senza che alcun organismo pubblico ne acquisisca, nemmeno in modo temporaneo, il possesso o il controllo. Non costituiscono, pertanto, un aiuto di Stato, come lamentato dall’Associazione ricorrente. CC



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Inserito in data 25/01/2013
CORTE COSTITUZIONALE, 18 gennaio 2013, n. 3

 Illegittimità di norme regionali che stabilizzano personale assunto a tempo determinato

Nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza in oggetto, sono state impugnate alcune disposizioni della Legge della regione Friuli Venezia Giulia n. 18 del 2011.  

In primo luogo, è stata fatta oggetto di censura quella che “prevede che il personale non dirigenziale in servizio presso le Province, alla data di entrata in vigore della legge, con un rapporto di lavoro a tempo determinato, che abbia già maturato, alla medesima data, almeno diciotto mesi di esperienza lavorativa nel settore delle politiche del lavoro, purché assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale, possa essere stabilizzato”. La disposizione, infatti, “non rispetterebbe il limite quantitativo indicato dalla legislazione statale, che consente una riserva di posti entro una soglia massima del 40 per cento, rispetto a quelli messi a concorso”.

Ha affermato la Corte che, “In effetti, la norma interposta invocata dal ricorrente (art. 17, comma 10, del decreto-legge n. 78 del 2009) prevede che, nel triennio 2010-2012, le amministrazioni pubbliche locali «possono bandire concorsi per le assunzioni a tempo indeterminato con una riserva di posti, non superiore al 40 per cento dei posti messi a concorso ... ». La norma regionale censurata, invece, consente alle Province di procedere alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio, secondo una modalità che, pur ispirandosi al procedimento delineato dalla norma interposta, nulla dice in merito alla quantificazione della riserva di posti disponibili. L’omessa indicazione di una soglia massima di posti riservati determina un contrasto con la legislazione statale e, di riflesso, con l’art. 117, terzo comma, Cost. Occorre, infatti, ricordare che l’invocato art. 17, comma 10, del d.l. n. 78 del 2009, è stato più volte qualificato da questa Corte come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, perché si ispira alla finalità del contenimento della spesa nello specifico settore del personale ... , al cui rispetto sono tenute anche le Regioni a statuto speciale ... In proposito questa Corte ha ritenuto che le previsioni della disposizione sopra citata hanno introdotto nuove modalità di valorizzazione dell’esperienza professionale acquisita dal personale precario, prevedendo l’espletamento di concorsi pubblici con parziale riserva dei posti in favore di tale personale, precludendo a tutte le pubbliche amministrazioni, a partire dal gennaio 2010, ogni diversa procedura di stabilizzazione del personale non di ruolo. A prescindere, dunque, da ogni ulteriore valutazione della disposizione censurata in relazione agli invocati artt. 3 e 97 Cost. che, a garanzia dell’uguaglianza dei cittadini e dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, esigono il pieno rispetto del principio del pubblico concorso, specie per la definizione di posizioni a tempo indeterminato ... – principio che risulterebbe menomato da procedure selettive riservate, che escludano o riducano irragionevolmente le possibilità di accesso dall’esterno – la norma censurata risulta costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione”.

In secondo luogo, è stata impugnata la disposizione che “estende, dal punto di vista temporale, la disciplina ... in base alla quale «la Regione può continuare ad avvalersi del personale, in servizio al 31 dicembre 2007, nonché alla data di entrata in vigore della presente legge, con contratto di lavoro a tempo determinato, assunto mediante utilizzo di graduatorie di concorsi pubblici per l’accesso all’impiego regionale, anche in deroga alla scadenza delle graduatorie stesse, mediante proroghe dei rispettivi contratti, al fine di definire un piano di assunzioni a tempo indeterminato […]»”.

La Corte ha affermato che “La norma impugnata delinea, dunque, un processo di stabilizzazione di personale già in servizio con contratto di lavoro a tempo determinato, prorogando indefinitamente contratti a termine già scaduti e più volte rinnovati ai sensi della normativa regionale previgente, con chiara elusione del principio del pubblico concorso – previsto dall’art. 97 Cost. a garanzia dell’eguaglianza, dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione – e dell’art. 117, terzo comma, Cost. in riferimento all’art. 17, comma 10, del d.l. n. 78 del 2009, che, come è stato poco sopra ricordato, la Corte ha qualificato principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica ... Le proroghe dei contratti a termine previste dalla disposizione impugnata sono chiaramente finalizzate a far rientrare i lavoratori titolari di tali contratti in un piano di assunzioni a tempo indeterminato. Non essendo previsto un termine finale per la proroga e neppure per la definizione del piano di assunzioni, la norma impugnata perpetua una modalità di assunzione del personale, per porre rimedio alle carenze di organico, che fa del contratto a termine un modulo ordinario di assunzione del personale della pubblica amministrazione e non già forma contrattuale riservata, come dovrebbe essere, ad esigenze eccezionali e straordinarie, in violazione, appunto dell’art. 97 Cost.

Né la circostanza che il personale titolare dei contratti a tempo determinato di cui si tratta sia stato selezionato attraverso l’«utilizzo di graduatorie di concorsi pubblici per l’accesso all’impiego regionale» vale a superare il conflitto con il principio del pubblico concorso. Anzitutto, perché la disposizione contiene un riferimento generico e indeterminato alle graduatorie per l’accesso all’impiego regionale, senza specificare né delimitare l’ambito delle graduatorie all’interno delle quali si può attingere per la stabilizzazione del rapporto di lavoro, cosicché la disposizione non offre sufficienti garanzie per assicurare che il rapporto di lavoro configurato nel contratto a termine stabilizzato riguardi funzioni corrispondenti o paragonabili a quelle per le quali era stata originariamente effettuata la selezione concorsuale. In secondo luogo, la disposizione autorizza esplicitamente l’amministrazione regionale ad attingere alle predette graduatorie anche in deroga alla scadenza delle stesse, cosicché il collegamento con l’originario concorso pubblico che ha dato luogo alla graduatoria può risultare assai remoto nel tempo. Infine, non si può ignorare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il concorso è necessario anche nei casi di trasformazione di rapporti non di ruolo in rapporti di ruolo ... Tale principio può subire limitate deroghe, giustificate dall’esigenza di garantire alla pubblica amministrazione specifiche competenze consolidatesi all’interno dell’amministrazione stessa e non acquisibili dall’esterno. Evenienza, quest’ultima, che non ricorre in ordine alla disposizione impugnata, la quale delinea una generica procedura di stabilizzazione del personale precario, del tutto priva di riferimenti alla specificità di particolari competenze e funzioni di cui l’amministrazione abbisogna.

La norma si pone, dunque, in aperto contrasto, tanto con l’art. 97 Cost., quanto con l’art. 117, terzo comma, Cost. in riferimento all’art. 17, comma 10, del decreto-legge n. 78 del 2009, le cui previsioni, come è stato poco sopra ricordato, costituiscono principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica e precludono a tutte le pubbliche amministrazioni, a partire dal gennaio 2010, ogni diversa procedura di stabilizzazione del personale non di ruolo”. FT



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Inserito in data 25/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, DISPOSITIVO DI SENTENZA, 23 gennaio 2013, n. 403

Pubblicato il dispositivo, su istanza AGCM: si cedano slot Milano Linate – Roma Fiumicino

Il Giudice d’appello, confermando la pronuncia del Collegio laziale in primo grado, respinge il gravame sollevato dall’Alitalia avverso alcune misure restrittive promosse dall’Autorità competente.

Pur dando semplice lettura del dispositivo, pubblicato in anticipo previa espressa richiesta di parte resistente, si scorge da subito l’intento del Collegio di circoscrivere il  monopolio assunto dalla Compagnia italiana, consentendo, invece, l’avvio sul mercato di nuove aziende, frattanto incaricate di intervenire su tale ambito.

Si tratta, come è evidente, di una fascia di mercato di indubbio rilievo in senso economico ed estremamente incisiva, su cui diventa importante restituire ai consumatori la facoltà di scegliere, come richiesto da molteplici istanze; le stesse, del resto, che avrebbero fondato l’intervento restrittivo dell’AGCM, alla cui censura era destinato l’odierno appello. CC



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Inserito in data 25/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, Ordinanza 11 gennaio 2013, n. 114

Danno da usura psico-fisica, prova e problemi di prescrizione: temi rimessi all’Adunanza Plenaria

La VI Sezione di questo Collegio, rilevata la diversità di orientamenti rispetto alla V Sezione, in materia di danno derivante da usura psico – fisica da prestazione lavorativa e correlati problemi di prescrizione e regime probatorio, ha ritenuto di rimettere all’Adunanza Plenaria l’esame delle odierne controversie, ai sensi dell’art. 99 C.p.A., in previsione della possibilità che in materia si possano consolidare interpretazioni atte a dare luogo a contrasti giurisprudenziali riguardo ai principi di diritto, appena richiamati.

In particolare, la diatriba vede un primo filone giurisprudenziale – quello della Sezione sesta – teso ad inquadrare il danno suddetto nella più ampia categoria del danno non patrimoniale – ex articolo 2059 cod. civ. – come riletto dall’evoluzione giurisprudenziale successiva al 2008.

Si tratterebbe, dunque, di un comune danno conseguenza, per il cui ristoro parrebbe necessaria l’allegazione di ogni supporto probatorio, tale da poter sottolineare, ad opera del lavoratore danneggiato, la sussistenza del nesso eziologico rispetto all’attività lavorativa.

Inoltre, l’esatta configurazione giuridica, ad avviso di codesto Collegio, finirebbe con il far coincidere tale presunto diritto con un comune diritto di credito legato al rapporto di lavoro – ex art. 2948 n. 4) cod. civ. – con la conseguente prescrizione quinquiennale cui, genericamente, tali pretese soggiacciono.

Diversamente, invece, si muove la V Sezione, riconducendo il danno oggi controverso nel più ampio alveo di quello esistenziale, con conseguente possibilità di darne prova mediante il ricorso a presunzioni, trattandosi di pregiudizio relativo ad un bene immateriale.

Peraltro, riconducendo il tutto nell’ambito di un’inadempienza del datore di lavoro, la Sezione Quinta evidenzia come la tutela richiesta non riguardi prestazioni periodiche o aventi causa debendi continuativa, ma l’accertamento di un debito connesso e tuttavia di distinta natura, per il quale vale, invece, la regola della prescrizione nel termine ordinario.

Si attende, quindi, l’epilogo, assegnato all’intervento del Massimo Consesso. CC



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Inserito in data 23/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 gennaio 2013, n. 220

Conferenza di servizi, art 14 quater L 241/90: sulla deliberazione Consiglio dei Ministri

Appare anzitutto evidente che, ove la deliberazione del Consiglio dei Ministri contrasti, anche in parte, l’atto di dissenso qualificato, deve fondarsi su una motivazione evidentemente divergente rispetto a quella, che dia adeguato e congruo conto delle ragioni specifiche per cui gli elementi del giudizio di compatibilità assunti dall’amministrazione dissenziente vanno, in quel concreto caso, diversamente valutati. Si tratta, è il caso di sottolineare, di una valutazione che non può disapplicare i parametri del giudizio tecnico (ad es. il vincolo, che non può per l’occasione essere messo nel nulla), che perciò non può prescindere dalla medesima natura tecnica di quella di base confutata; ma che nemmeno si esaurisce in un giudizio tecnico com’è per l’atto di base, perché comporta – in ragione dell’organo costituzionale chiamato alla decisione e della sua funzione di massima sintesi amministrativa – l’adozione, in deroga a quel dissenso, di un apprezzamento che, nei termini che si diranno, è di alta amministrazione (per quanto debba tenere in considerazione, in questa sua comparazione di interessi, l’incidenza concreta sul principio fondamentale di tutela del paesaggio da parte della Repubblica, posto dall’art. 9 della Costituzione). La deliberazione sulla “questione” da parte del Consiglio dei Ministri sintetizza cioè non un procedimento di riesame del dissenso qualificato, che resta comunque legittimamente espresso, ma un’eventuale e dominante riconsiderazione dei suoi effetti, che possono essere così impediti. In questo si realizza una manifestazione di potere governativo riferibile, se del caso, a quello sostitutivo ordinario e al rammentato art. 120 Cost.

Ove invece la deliberazione del Consiglio dei Ministri (come è nel caso presente) non contrasti l’atto di dissenso qualificato, non v’è ragione di una particolare esternazione di ragioni ulteriori di una decisione che, a sufficienza, intenda essere conforme a quel dissenso legittimamente espresso e che voglia lasciar permanere intatto negli effetti. Quel dissenso, va sottolineato, non era un semplice, vero e proprio parere (cioè un atto consultivo), ma un giudizio che di suo, fuori dello schema procedimentale della conferenza di servizi, sarebbe stato comunque ostativo all’approvazione del progetto. La sua contestualizzazione nella conferenza causava, prima di chiudere definitivamente in quella sede il procedimento, l’effetto di devolvere la “questione” al massimo livello amministrativo, con ivi - cioè nel quadro dell’attività di governo - l’eventualità di una riconsiderazione dei suoi effetti, o su intesa o su decisione autonoma del Governo, dove nel secondo caso il preliminare se procedere alla riconsiderazione è espressivo di un’insindacabile scelta governativa. Se in questa sede ultima non si assumono nuovi elementi di scelta o nuove valutazioni di alta amministrazione che conducano a un nuovo e diverso risultato, non sorge una necessità di giustificare autonomamente un non-dissenso dal dissenso, che nulla innova. È piuttosto manifesta – ed è chiara nella specie anche testualmente - la conferma delle ragioni del dissenso medesimo già congruamente motivato in conferenza dall’amministrazioni preposta alla cura degli interessi sensibili dell’art. 14-quater, comma 1. Questa decisione governativa di lata discrezionalità, che segue la mancata intesa, di non avvalersi dei poteri di alta amministrazione di deroga (al dissenso qualificato) compete alla responsabilità propria del Governo ed esprime in concreto un raccordo tra attività amministrativa e attività politica. La sua manifestazione consiste nella sua conclusione e i motivi sono per rinvio quelli del dissenso qualificato già espresso dall’organo amministrativo specificamente deputato.

Del resto, in forza del principio generale di legalità i rapporti tra interessi sono definiti in base alle leggi sostanziali e non prescindendo da quelle in nome della speditezza della decisione. Il dispositivo di semplificazione è procedimentale e non altera o inverte il rapporto sostanziale tra interessi posto dalla legge ..., sicché non impone affatto, come invece assume la sentenza gravata, “un bilanciamento tra l’interesse paesaggistico e gli altri interessi concorrenti” ... Così, nello schema complessivo dell’art. 14-quater, la semplificazione, vale a dire l’accelerazione e il coordinamento procedimentali, si manifesta essenzialmente con la formula concentrativa della conferenza di servizi (cfr. Cons. Stato, VI, 18 aprile 2011, n. 2378). La successiva devoluzione della “questione” al Consiglio dei Ministri (in luogo dell’immediata chiusura negativa del procedimento) ha solo una funzione, procedimentale anch’essa, di ultima ratio: compositiva o comunque conclusiva. Questa funzione, sempre in forza del principio di legalità, non è di deroga alle norme sostanziali ma è piuttosto di consentire – se possibile in fatto e in diritto - un’eventuale intesa tra le amministrazioni, o di risolvere definitivamente la questione stessa mediante un’eventuale riconsiderazione governativa che – come detto - è al contempo frutto di una valutazione di discrezionalità tecnica e di una valutazione di alta amministrazione. Sicché, ove il Consiglio dei Ministri, in questa sua autonomia (che non comporta un dovere di bilanciamento – cioè di composizione, o mediazione, o contemperamento - degli interessi, né di “dirimere il dissenso”), ritenga di non accedere a questa riconsiderazione e giudichi dominante ed esaustiva la valutazione negativa di base, non v’è motivo di giustificare, altrimenti che con il fatto della mancata confutazione delle ragioni del dissenso di base e il rinvio espresso a quest’ultimo e al suo contenuto valutativo, il non-dissenso governativo. FT



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Inserito in data 23/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 gennaio 2013, n. 254

Esami avvocato: idoneità a seguito di verificazione ed effetti ex art 4 co 2 bis L 168/05

Va escluso ... che nella specie l’appello sia divenuto improcedibile per effetto del più volte citato art. 4, comma 2-bis, della legge nr. 168 del 2005 (il quale, come è noto, dispone che: “…Conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”). Al riguardo, va richiamato l’orientamento di questa Sezione nel senso della permanenza dell’interesse alla decisione dell’appello proposto dall’Amministrazione avverso una sentenza che abbia annullato il giudizio negativo formulato sulle prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato sostenute dal ricorrente, qualora l’esito favorevole della rinnovata correzione delle prove scritte e di quella orale non sia sorretto da un unico provvedimento giudiziale, la cui validità ed efficacia siano perdurate per tutta la durata della procedura; ciò in quanto solo in presenza di tale presupposto si verificano gli effetti di stabilizzazione “sostanziale” dell’esito favorevole delle rinnovate valutazioni operate dall’Amministrazione previsti dalla disposizione sopra richiamata ... Nel caso di specie, la procedura di esame è proseguita sulla base di un giudizio di idoneità reso in esito a “verificazione” disposta dal primo giudice, che questa Sezione ha ritenuto impropriamente disposta per le ragioni che appresso verranno più analiticamente indicate, disponendone la revoca: con la conseguenza che la nuova correzione degli elaborati relativi alle prove scritte è venuta meno per effetto dell’ordinanza ... di questo Consiglio di Stato, che non poteva essere semplicemente ignorata in sede di definizione del giudizio di merito (come sembra aver fatto il primo giudice, al di là delle articolate motivazioni addotte a sostegno di tale posizione), in quanto ne derivava il carattere ineluttabilmente “monco” della procedura di esame che oggi l’appellato assume di aver validamente superato.

Nel caso di specie l’inapplicabilità della disposizione ex art. 4, comma 2-bis, della legge nr. 168 del 2005 discende da un’altra rilevante ragione: e, cioè, che la nuova correzione delle prove scritte risulta essere stata eseguita non già dall’Amministrazione in esecuzione di provvedimento cautelare, bensì direttamente dall’organo giurisdizionale attraverso lo strumento della verificazione. La distinzione non è di poco conto, non potendo attribuirsi rilievo ex se dirimente al fatto che nella specie la verificazione è stata svolta da un organo (la Prima Sottocommissione di Milano) in qualche modo “omologo” a quello che sarebbe stato istituzionalmente preposto a procedere al riesame degli elaborati: ciò che conta è che tutto ciò sia avvenuto in esecuzione di un’ordinanza del T.A.R. la quale a fini istruttori disponeva la detta attività di riesame, laddove il meccanismo di “stabilizzazione” introdotto dalla norma è testualmente riferito all’ammissione o alla ripetizione delle prove di esame compiute, sia pure in esecuzione di ordini del giudice, “da parte della commissione” (e, quindi, dell’Amministrazione nell’esercizio delle proprie ordinarie attribuzioni istituzionali).

Sul punto, peraltro, non è fuori luogo rilevare che, essendo all’evidenza la disposta attività finalizzata a consentire un sindacato giurisdizionale sulla valutazione tecnico-discrezionale compiuta dall’Amministrazione in ordine agli elaborati del ricorrente, ed ammesso che ciò non esorbitasse i noti limiti imposti a tale sindacato, lo strumento più idoneo sarebbe stato quello della consulenza tecnica d’ufficio piuttosto che quello della verificazione (la quale, di regola, ha lo scopo di fornire ausilio al giudice per attività meramente accertative e non involgenti valutazioni di tipo tecnico-discrezionale); che, in ogni caso, ai sensi dell’art. 19, comma 2, cod. proc. amm., l’incarico avrebbe dovuto essere affidato a soggetto “estraneo alle parti del giudizio”, prescrizione che non appare pienamente rispettata nel caso che qui occupa (per tacere della necessità di garantire a tutte le parti del giudizio il contraddittorio, anche attraverso la nomina di propri consulenti). In definitiva, la “verificazione” disposta dal T.A.R. lombardo ha costituito nulla più che un escamotage per consentire un sindacato giudiziale sul merito delle valutazioni addotte dall’Amministrazione a sostegno del giudizio di inidoneità, al di fuori dei limiti in cui un tale sindacato è ammissibile. FT



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Inserito in data 23/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 gennaio 2013, n. 258

Sull’azione di risarcimento danni davanti al giudice dell’ottemperanza ex art 112 co 3 Cpa.

L’art. 112, co. 3 Cpa prevede, tra l’altro, che “può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza ... azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione”. Orbene, la disposizione ora riportata contempla espressamente una sola “azione di risarcimento” ma, in realtà, connessa a plurimi e distinti profili di danno, cui il giudice deve apprestare riparazione per il tramite della sua pronuncia. Ed infatti, in primo luogo, i danni possono essere connessi alla “impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato”. Proprio il riferimento alle due diverse situazioni (quali la “impossibilità” o la “mancata esecuzione” del giudicato), mette in rilievo come il danno può essere effetto: a) della oggettiva impossibilità di esecuzione, dipendente da cause diverse ed (eventualmente) estranee al giudizio, in particolare non riconducibili al comportamento della P.A.; b) del comportamento attivo dell’amministrazione, in quanto essa con diverso esercizio del potere – non strettamente afferente all’esecuzione del giudicato – rende impossibile l’esecuzione; c) del comportamento omissivo dell’amministrazione, che, non eseguendo il giudicato, rende – per il tramite della sua inerzia – non più eseguibile lo stesso. In secondo luogo, i danni possono essere conseguenti alla violazione o elusione del giudicato medesimo, previa la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e possono essere derivati sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno.

Dal complessivo tenore dell’art. 112, co. 3, è possibile affermare che il Codice del processo amministrativo non considera l’ipotesi che una sentenza di accoglimento del ricorso – che, pertanto, afferma l’intervenuta lesione della posizione giuridica sostanziale (e, in particolare, dell’interesse legittimo) - possa non trovare “sbocco” in forme di riparazione, le quali possono essere sia di tipo “ripristinatorio” (a seconda dei casi, sia attraverso l’adozione di un provvedimento di contenuto favorevole all’interessato, sia attraverso il ripristino delle condizioni di esercizio del potere amministrativo), sia di tipo risarcitorio o “per equivalente”, laddove vi sia impossibilità di esecuzione del giudicato. Ne consegue che, per un verso, quale che sia la ragione dell’impossibilità di esecuzione (sia essa oggettiva, o sia essa riconducibile ad una attività o comportamento inerte dell’amministrazione), oggetto del risarcimento per equivalente monetario è la lesione stessa della posizione sostanziale accertata dal giudice del cognitorio e coperta dal passaggio in giudicato della relativa decisione. Non a caso l’art. 112, co. 3 evidenzia un danno “connesso” alla impossibilità dell’esecuzione e non già “conseguente” a tale impossibilità; dunque, non si tratta, necessariamente, di un danno “nuovo”, bensì (anche) del danno accertato con la sentenza passata in giudicato, non più riparabile nelle forme ivi indicate. Per altro verso, a questo primo aspetto del danno risarcibile, può aggiungersi (qualora questo ricorra in concreto e laddove debitamente provato), l’ulteriore danno derivante ex se dall’attività dell’amministrazione (ad esempio, derivante dal provvedimento adottato in elusione o violazione di giudicato e dichiarato nullo dal giudice dell’ottemperanza).

Quanto sin qui esposto appare a maggior ragione sostenibile laddove oggetto del giudizio amministrativo siano (come nel caso oggetto del presente giudizio), non già posizioni di interesse legittimo, bensì posizioni di diritto soggettivo. Stante la distinta natura del danno risarcibile ex art. 112, comma 3, Cpa, il Collegio osserva che nel caso in cui il danno risarcibile consista nella (originaria ed accertata in cognitorio) lesione della posizione giuridica sostanziale, il termine di prescrizione dell’azione di ottemperanza è di dieci anni (art. 114, co. 1) e decorre dal passaggio in giudicato della sentenza. Ed infatti, se il risarcimento del danno corrisponde ad una riparazione per equivalente della lesione subita dalla posizione sostanziale, per la quale non è più possibile la reintegrazione in forma specifica, non vi è alcuna ragione per ritenere che l’esercizio di tale azione risponda a termini di prescrizione diversi da quelli in generale previsti per l’actio iudicati, né che detto termine abbia diversa decorrenza. Al contrario, qualora oggetto della domanda di risarcimento, pur proposta in sede di ottemperanza, siano danni causati da attività ulteriore o inerzia dell’amministrazione (come nel caso di danno autonomamente ed ex novo derivante dal provvedimento adottato in elusione o violazione di giudicato), il termine di prescrizione per illecito (extracontrattuale) è quinquennale e non può che decorrere dall’evento causativo di danno. FT



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Inserito in data 21/01/2013
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, Cause riunite T-346/11 e T-347/11, 17 gennaio 2013

Individuati i confini dell’immunità

A fronte di un’istanza, proveniente da un noto euro deputato francese, di annullamento delle delibere con cui il Parlamento europeo aveva deciso di revocarne l’immunità e, contestualmente, di non provvedere a difenderla, i Giudici del Lussemburgo confermano la suddetta posizione, chiarendo, al contempo, i limiti entro cui si possa godere di un simile beneficio.

Infatti, seguendo la giurisprudenza della Corte di giustizia, il Tribunale ricorda che l’opinione di un deputato possa beneficiare dell’immunità soltanto allorché sia stata manifestata “nell’esercizio delle sue funzioni”, implicando pertanto un nesso necessario tra l’opinione espressa e le funzioni parlamentari.

Tanto non è accaduto nel caso in esame in cui, invece, le dissertazioni dell’odierno imputato, di chiara matrice antisemita, si svolgevano nel corso di attività in seno al gruppo politico di appartenenza e non avevano, quindi, alcun legame con l’attività di parlamentare, comunque spettantegli.

Infine il Collegio, a buon diritto intransigente, precisa come sul caso, a dispetto di quanto asserito da parte accusata, non vi sia alcun fumus persecutionis, posto che i procedimenti giudiziari sono stati avviati non da un avversario politico, ma da un'associazione autorizzata dalla legislazione francese a perseguire dinanzi ai tribunali le dichiarazioni o gli scritti razzisti o antisemiti. CC



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Inserito in data 21/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 10 gennaio 2013. n. 1

Ulteriori conferme sulla revocazione per errore di fatto; delimitata l’esperibilità

Il sommo Collegio interviene ancora una volta sui precisi confini dell’errore revocatorio – ex art. 395 n. 4 c.p.c. – come richiamato dall’art. 106 C.p.A., specie al fine di evitarne un uso distorto.

Il ricorso indiscriminato a tale rimedio, infatti, consentendo di porre in discussione il contenuto di una sentenza, parrebbe concedere un ulteriore giudizio sul merito, invero non previsto dal nostro ordinamento giuridico.

I massimi Giudici, quindi, allineandosi a pronunce ormai costanti in tal senso, ribadiscono la possibilità revocatoria solo in presenza di un’effettiva distonia tra i fatti di causa e quanto pronunciato in sede conclusiva.

Occorre, in sostanza, che si tratti di un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa: esso, insiste il Collegio, non può (e non deve) confondersi con quello che coinvolge l’attività valutativa del giudice.

Pertanto, posto che tale errore non ricorre nell’ipotesi di erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, il sommo Consesso si ritrova a declararne l’insussistenza nel caso in esame in cui, i precedenti giudici, ad avviso delle ditte ricorrenti, avevano interpretato in modo non consono i criteri di gara, previsti dalla lex specialis.

In funzione di ciò, non ricorrendo alcun abbaglio, ma solamente un eventuale ed ancora discutibile errore di valutazione o di giudizio, è opportuna la declaratoria di inammissibilità del presente ricorso, tanto più alla luce di un filone giurisprudenziale ormai saldo, quale quello qui puntualmente richiamato. CC



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Inserito in data 21/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 gennaio 2013, n. 326

Archiviazione domanda di rinnovo del permesso di soggiorno; valutazione discrezionale

Il Giudice ribadisce la necessaria valutazione comparativa tra diversi profili, tutti afferenti alla sfera umana, familiare e socio – lavorativa dell’immigrato istante.

Occorre, infatti, che in sede di diniego del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno – reso automatico al ricorrere di certe condotte penalmente rilevanti - in base al combinato disposto degli articoli 4, comma 3, e 5, comma 5, del d. lgs. n. 286 del 1998, si effettui un’attenta ponderazione, nella particolare ipotesi disciplinata dall’articolo 5, comma 5, del T.U. n. 286 del 1998, come modificato dal decreto legislativo n. 5/2007.

In tale circostanza, infatti, ricorrendo presupposti umani di un certo spessore, quali quelli sopra richiamati, occorre che si compia una valutazione discrezionale con riguardo alla personalità dell'interessato, alla gravità dei relativi precedenti penali, nonché alla lunga permanenza in Italia ed al suo inserimento, con il proprio nucleo familiare, nel contesto in cui, evidentemente, questi aspira a permanere. CC



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Inserito in data 19/01/2013
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, 15 gennaio 2013, C - 416/10

Impatto ambientale. Non si rifiuta l’accesso invocando segreto commerciale

Il Giudice europeo, richiamando le norme della Convenzione di Aarhus del 1998, sottolinea come “il pubblico interessato abbia pieno accesso ad una decisione di assenso urbanistico edilizio sin dall’inizio del procedimento di autorizzazione dell’impianto di cui trattasi”.

Infatti, considerato il notevole impatto ambientale derivante da una discarica, quale quella del caso in esame, la Corte ricorda il veto imposto alle Autorità nazionali competenti, tenute a non rifiutare al pubblico interessato l’accesso alla decisione, adducendo la tutela della riservatezza delle informazioni commerciali o industriali.

Si tratta, come è evidente, di un diritto estremamente tutelato e salvaguardato dagli Organi competenti, come dimostra il fatto, sottolineato ancora da questa Corte, che Essi siano tenuti a consentire, in qualunque momento, la sanatoria, o l’adozione di qualsivoglia misura di emergenza, o inibitoria di un provvedimento eventualmente dannoso per la collettività. CC



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Inserito in data 19/01/2013
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 18 gennaio 2013, n. 2

Questione di legittimità costituzionale di norme Provincia Bolzano. Illegittime limitazioni gravanti sugli stranieri

La Consulta boccia numerose statuizioni di una legge della Provincia Autonoma di Bolzano del 2011, rubricata  Integrazione delle cittadine e dei cittadini stranieri.

In particolare, dichiara l’illegittimità costituzionale di quelle norme che, disponendo in merito all’annoso problema relativo all’integrazione degli immigrati, subordinano la concessione di taluni benefici in campo sociale, oltreché la sovvenzione per l’accesso a strutture para – scolastiche, alla residenza degli stessi, nel territorio provinciale e regionale, da un periodo di tempo predeterminato e significativo.

Una simile condizione, ritengono i Giudici della Consulta, oltreché lasciare il campo ad un’eccessiva discrezionalità del Legislatore, finirebbe con l’arrecare evidenti disparità tra gli stranieri, violando l’indissolubile principio di eguaglianza e di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione.

Sarebbe in grado, altresì, di procurare condizionamenti indebiti al libero ingresso di tali soggetti, incidendo sul parametro costituzionale di cui all’articolo 16; oltre a contrapporsi, con piena evidenza, al principio di libera circolazione e di libertà di stabilimento, ormai cristallizzato dalla giurisprudenza comunitaria.

Infine, l’ulteriore previsione circa l’erogazione di benefici in ambito scolastico, anch’essi subordinati al requisito della permanenza, parrebbe arrecare un serio vulnus all’articolo 34 della Costituzione, laddove esso, invero, subordina simili concessioni solo al criterio della meritevolezza.

Parametro, questo, chiaramente non rispettato dal Legislatore altoatesino, le cui previsioni, pertanto, meritano tutte le censure sollevate in tale sede ed evidenziate dal Giudice delle Leggi. CC



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Inserito in data 16/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 15 gennaio 2013, n. 2

Riedizione attività amministrativa dopo giudicato: giudice naturale è il giudice dell'ottemperanza

L’ordinanza di rimessione all’esame dell’adunanza plenaria ha evidenziato l’opportunità di un esame della questione processuale di massima circa il corretto uso degli strumenti di tutela giudiziaria ove l’amministrazione, come nel caso di specie, reiteri con uguale risultato gli atti di una selezione tecnica già annullati dal giudice amministrativo. In sostanza, il collegio rimettente ritiene necessario affrontare il tema, di ordine generale, dell’oggetto, dei contenuti e dei limiti del giudizio di ottemperanza e della necessità di evitare duplicazioni di giudizi, in virtù del principio del ne bis in idem e delle esigenze di economia processuale. Osserva altresì come spesso (ciò che è avvenuto nel caso di specie) vengano affiancati due giudizi, uno ordinario e uno per ottemperanza, a fronte del rinnovo dell’attività amministrativa successivamente alla formazione di un giudicato, con conseguente aggravamento della tutela giudiziaria ed inevitabile produzione di incoerenze e di incertezze nella risposta giurisdizionale.

L’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, talaltre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto.

In via generale può ammettersi che, al fine di consentire l’unitarietà di trattazione di tutte le censure svolte dall’interessato a fronte della riedizione del potere, conseguente ad un giudicato, le doglianze relative vengano dedotte davanti al giudice dell’ottemperanza, sia in quanto questi è il giudice naturale dell’esecuzione della sentenza, sia in quanto egli è il giudice competente per l’esame della forma di più grave patologia dell’atto, quale è la nullità. Naturalmente questi in presenza di una tale opzione processuale è chiamato in primo luogo a qualificare le domande prospettate, distinguendo quelle attinenti propriamente all’ottemperanza da quelle che invece hanno a che fare con il prosieguo dell’azione amministrativa che non impinge nel giudicato, traendone le necessarie conseguenze quanto al rito ed ai poteri decisori. Nel caso in cui il giudice dell’ottemperanza ritenga che il nuovo provvedimento emanato dall’amministrazione costituisca violazione ovvero elusione del giudicato, dichiarandone così la nullità, a tale dichiarazione non potrà che seguire la improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse della seconda domanda. Viceversa, in caso di rigetto della domanda di nullità il giudice disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente per la cognizione.

Ciò appare consentito dall’art. 32, co. 2, primo periodo, cpa, in base al quale “il giudice qualifica l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali”, e la conversione dell’azione è ben possibile – ai sensi del secondo periodo del medesimo comma – “sussistendone i presupposti”. Ciò peraltro presuppone che tale azione sia proposta non già entro il termine proprio dell’actio iudicati (dieci anni, ex art. 114, co. 1, cui rinvia l’art. 31, co. 4, cpa), bensì entro il termine di decadenza previsto dall’art. 41 cpa: il rispetto del termine decadenziale per la corretta instaurazione del contraddittorio è reso necessario, oltre che dalla disciplina del giudizio impugnatorio, anche dall’espresso richiamo alla necessità di sussistenza dei “presupposti” (tra i quali occorre certamente comprendere il rispetto del termine decadenziale), effettuato dall’art. 32, co. 2, cpa. Giova osservare, infine, che la conversione dell’azione può essere disposta dal giudice dell’ottemperanza e non viceversa, perché solo questo giudice, per effetto degli articoli 21 septies l. 7 agosto 1990, n. 241 e 114, co. 4, lett. b), cpa, è competente, in relazione ai provvedimenti emanati dall’amministrazione per l’adeguamento dell’attività amministrativa a seguito di sentenza passata in giudicato, per l’accertamento della nullità di detti atti per violazione o elusione del giudicato, e dunque – come si è già evidenziato - della più grave delle patologie delle quali gli atti suddetti possono essere affetti.

Confini riedizione attività amministrativa dopo giudicato: buon andamento e buona fede

L’esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare l’effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza. La questione si pone invece ove la riedizione del potere (come nel caso in esame) si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente, siano state oggetto di esame da parte del giudice. In tal caso l’adunanza plenaria ritiene che non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice.

Ma va subito aggiunto che la riedizione del potere deve essere assoggettata a precisi limiti e vincoli. Anzitutto, poiché il cpa abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi alla esistenza dei presupposti della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3) ... Da ciò discende che l’accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell’azione amministrativa ... Ma anche là dove non siano i fatti ad essere messi in discussione bensì la loro valutazione (come nel caso in esame, in cui i dati sull’attività didattica erano incontestati ed è cambiata invece la loro valutazione), non va dimenticato che alla stregua del principio ribadito anche dall’art. 112, comma primo, del codice, su tutte le parti incombe l’obbligo di dare esecuzione ai provvedimenti del giudice; e ciò vale specialmente per la pubblica amministrazione, in un’ottica di leale ed imparziale esercizio del munus publicum, in esecuzione dei principi costituzionali scanditi dall’art. 97 Cost. e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ove il diritto alla esecuzione della pronuncia del giudice è considerato quale inevitabile e qualificante complemento della tutela offerta dall’ordinamento in sede giurisdizionale). Tale richiamo non deve apparire come un formale appello a principi inveterati ma di scarsa rilevanza effettuale, poiché l’esigenza di dare esecuzione secondo buona fede alla decisione giurisdizionale amministrativa è alla base di qualsiasi ricostruzione interpretativa della materia: la pubblica amministrazione, infatti, ha l’obbligo di soddisfare la pretesa del ricorrente vittorioso e di non frustrare la sua legittima aspettativa con comportamenti elusivi. Ed invero, occorre che la p.a. attivi una leale cooperazione per dare concreta attuazione alla pronuncia giurisdizionale anche e soprattutto alla luce del fatto che nell’attuale contesto ordinamentale la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa. E se è vero che la sua soddisfazione non può prescindere dall’ottimale assetto di tutti gli interessi coinvolti ivi compresi quelli pubblici, è anche vero che ciò non può e non deve costituire un alibi per sottrarsi al doveroso rispetto del giudicato. Consegue da tutto ciò che la nuova operazione valutativa deve dimostrarsi il frutto della costatazione di una palese e grave erroneità del giudizio precedente e non sia, invece, l’espressione di una gestione – a dir poco – ondivaga e contraddittoria del potere e in quanto tale contrastante, nella prospettiva pubblicistica, con il principio costituzionale del buon andamento e, in quella privatistica, con i principi di correttezza e buona fede. Ed è inutile dire che la relativa argomentazione deve essere tanto più esplicita e pregnante nel caso in cui il riesame sia effettuato dagli stessi soggetti del primo giudizio. FT



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Inserito in data 16/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 gennaio 2013, n. 145

Apertura in seduta pubblica plichi contenenti offerte tecniche: overruling procedimentale?

[Nella specie, i plichi contenenti le offerte tecniche delle imprese ammesse alla gara furono acquisiti e le offerte valutate in seduta riservata ossia ben prima della pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria, n. 13 del 28 luglio 2011 e dell’entrata in vigore dell’art. 12 del d.l. 7 maggio 2012 n. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 luglio 2012 n. 94].

A tal riguardo, dopo la pronunzia dell’Adunanza plenaria sulla necessità dell’apertura di tali plichi in seduta pubblica —argomento, questo, più che dibattuto prima di tal decisione—, è appunto intervenuto l’art. 12 del DL 52/2012, recependone la tesi di fondo mediante una novella gli artt. 120 e 283 del DPR 5 ottobre 2010 n. 207 che, prima di allora, non contenevano una previsione espressa in tal senso. Tal modifica ha stabilito, tra l’altro, che la regola dell’ apertura de qua in seduta pubblica vale «…anche per le gare in corso ove i plichi contenenti le offerte tecniche non siano stati ancora aperti alla data del 9 maggio 2012…», con ciò chiudendo la disputa interpretativa circa il modus operandi cui d’ora in poi si sarebbero dovuti attenere i seggi di gara. Così facendo, però, sono sorti, per una non infrequente eterogenesi dei fini sottesa ad innovazioni legislative di non felice formulazione, nuovi dubbi sugli effetti della novella stessa nei confronti delle gare già bandite e ancora in corso. In particolare, a fronte della tesi che vede nell’art. 12 nulla più che la trasformazione del diritto vivente detto dall’Adunanza plenaria in diritto positivo, v’è quella, fatta propria dalla sentenza qui appellata, che invece scorge nell’art. 12 una sorta di sanatoria dei procedimenti di gara nei quali l’apertura delle buste contenenti le offerte tecniche si sia svolta in seduta riservata. Si tratta di un avviso che, partendo dalla considerazione che l’indirizzo accolto dalla citata Adunanza plenaria fosse in precedenza incerto, se non minoritario, non nasconde il timore che un simile mutamento di giurisprudenza implicasse in concreto la caducazione per meri (e non noti a priori) vizi procedimentali di un numero rilevante di gare, da rinnovare con significativi costi amministrativi ed economici.

I predetti dubbi appunto sorgono ogni qual volta intervenga un repentino mutamento di indirizzo da parte delle Corti superiori nei confronti d’un istituto fino a quel momento definito in modo pacifico in un altro modo, costringendo la giurisprudenza ad interrogarsi se i relativi effetti si producessero nei confronti pure dei giudizi instaurati prima della pubblicazione della sentenza innovativa. Nel caso di Cass. sez. un., n. 19246/2010, prevalse la soluzione negativa, in taluni casi applicando il rimedio della rimessione in termini, in altri casi dando efficacia vincolante alla giurisprudenza precedente ed assimilando il nuovo arresto ad una sorta di jus superveniens (operante, come tale, solo pro futuro), in altri ancora ravvisando nella giurisprudenza della Corte europea, che impone la conoscibilità della regola di diritto e la ragionevole prevedibilità della sua applicazione, un ostacolo insormontabile alla retroattività del dictum innovativo. Sul punto, Cass., sez. un., n. 15144/2011 ha affermato che la scelta, se attribuire o meno effetto retroattivo al nuovo orientamento, «… ruota intorno al nodo del valore del precedente e dell’efficacia temporale della c.d. overruling: che, a sua volta, incrocia le problematiche, di più ampio respiro, della funzione, meramente dichiarativa o (concorrentemente) creativa, riconosciuta alla giurisprudenza, del suo (eventualmente possibile) inquadramento tra le fonti di implementazione e conformazione dell’ordinamento giuridico e del discrimine tra modificazione del contenuto della norma per via interpretativa e novum ius; per coinvolgere, ancor più a monte, la definizione del ruolo del giudice nel sistema costituzionale di divisione dei poteri…».

Ebbene, fermi detti principi ed assodato che nella specie si tratta del mutamento d’interpretazione di regole non processuali, ma del procedimento amministrativo —tali, di per sé, da non creare preclusioni o decadenze—, probabilmente l’Adunanza plenaria n. 13/2011 determina non una svolta inattesa e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato ma, piuttosto, il punto di arrivo di un processo di rilettura da tempo in itinere. Ciò non toglie che il legislatore abbia avvertito l’esigenza d’intervenire in questo caso ma non certo per riaffermare un precedente e prevalente indirizzo sulle modalità di apertura delle buste dell’offerta tecnica, bensì per disciplinare gli effetti del mutamento sulle gare ancora in corso. Tanto per una duplice ragione: A) – per il contenimento degli oneri amministrativi ed economici di caducazioni altrimenti inevitabili di centinaia di gare; B) – per la tutela dell’affidamento di quanti abbiano partecipato alla selezione confidando nella applicazione di regole procedimentali che, nella maggior parte dei casi, prima della sentenza n. 13/2011, prevedevano l’apertura dei plichi de quibus in seduta riservata. Da ciò discende che l’art. 12 del DL 52/2012 non ha una portata solo ricognitiva, ma salvaguarda gli effetti delle procedure già concluse alla data del 9 maggio 2012 o, se ancora pendenti a quella data, nelle quali si sia comunque già proceduto all’apertura dei plichi in seduta non pubblica.

Si tratta dunque di una soluzione normativa, come si vede transitoria o, comunque, ad esaurimento, della cui legittimità costituzionale e comunitaria il Collegio non dubita, almeno per due motivi. Per un verso, il principio di pubblicità, cui s’ispira il nuovo indirizzo interpretativo, non si è tradotto nel diritto comunitario positivo in disposizioni specifiche sulla questione, onde la soluzione non si poteva per forza considerare "obbligata" in virtù di tal diritto. Per altro verso, detto principio ha sì carattere generale e cogente, ma va pure bilanciato con principi di rango almeno equivalente, tra i quali il diritto europeo annovera quello dell’affidamento incolpevole, riferibile sia alla stazione appaltante, sia, ancora di più, all’impresa aggiudicataria della gara che abbia confidato sulla vigenza di determinate regole procedimentali. Né va sottaciuto come, pure in materia di contratti pubblici, il principio di affidamento e di buona fede è invocato proprio per salvaguardare la posizione del "terzo" contraente ignaro o non responsabile dei vizi commessi dalla stazione appaltante nel modo di condurre la gara, limitando gli effetti (invalidanti e/o caducanti) che l’annullamento dell’aggiudicazione è destinato a produrre sul contratto. FT



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Inserito in data 16/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 gennaio 2013, n. 156

Revoca illegittima atti di gara: responsabilità precontrattuale e misura danno risarcibile

Tale ipotesi [ndr l’obbligo dell’amministrazione all’indennizzo, ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990, per il caso di revoca del provvedimento amministrativo che abbia un beneficiario già individuato (ipotesi che non forma oggetto del presente giudizio)] differisce nettamente da quella risarcitoria, di modo che anche le due azioni devono essere tenute distinte, sia con riferimento alla causa petendi, sia con riferimento al petitum. La causa petendi, nel giudizio volto ad ottenere l’indennizzo, deve essere ravvisata nella legittimità dell’atto adottato dall’amministrazione, ovvero nella liceità della condotta da questa tenuta, e che ha causato il pregiudizio; mentre nel giudizio risarcitorio, essa consiste nel fatto o nell’atto produttivo del danno. Quanto al petitum, nel giudizio per responsabilità da atti legittimi o leciti, esso è limitato al pregiudizio immediatamente subito, ed è quindi limitato al cd. danno emergente, mentre nel giudizio risarcitorio esso si estende – fermi, ovviamente, i necessari presupposti probatori - a tutto il pregiudizio (danno emergente e lucro cessante), conseguente all’illegittima violazione della sfera giuridico - patrimoniale del soggetto leso.

Diversamente da quanto affermato per l’indennizzo, l’obbligazione della pubblica amministrazione per responsabilità contrattuale o extracontrattuale ha natura risarcitoria e, nel caso della responsabilità precontrattuale (che, per le ragioni di seguito esposte, il Collegio ritiene che ricorra nel caso in esame e che costituisce species della responsabilità extracontrattuale), si fonda, ai sensi dell’art. 1337 cod. civ., sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede “nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto”. Come ha chiarito anche l’Adunanza Plenaria (dec. 5 settembre 2005 n. 6), l’accertamento della eventuale responsabilità precontrattuale dell’amministrazione non è esclusa dalla dichiarata legittimità del provvedimento (di annullamento o, in particolare, di revoca) assunto in via di autotutela, posto che, se “la revoca dell'aggiudicazione e degli atti della relativa procedura (vale) a porre al riparo l'interesse pubblico dalla stipula di un contratto che l'amministrazione non avrebbe potuto fronteggiare per carenza delle risorse finanziarie occorrenti” (tale il presupposto della revoca nel caso considerato), permane tuttavia “il fatto incancellabile degli "affidamenti" suscitati nell'impresa dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi (affidamenti che sono perdurati fino a quando non è stata comunicata alla parte privata la revoca degli atti. . . .”, posto che “l'impresa non poteva non confidare, durante il procedimento di evidenza pubblica, dapprima sulla "possibilità" di diventare affidataria del contratto e più tardi - ad aggiudicazione intervenuta - sulla disponibilità di un titolo che l'abilitava ad accedere alla stipula del contratto stesso”. Precisa, inoltre, l’Adunanza Plenaria che “occorre, naturalmente, che i comportamenti predetti - per porsi quali fatti generatori di responsabilità precontrattuale - risultino contrastanti con le regole di correttezza e di buona fede di cui all'art. 1337 del c.c..”. In sostanza, ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. non si deve tener conto della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, ma della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall'Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell'obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell'art. 1337 c.c.

Così ricostruiti gli aspetti salienti della responsabilità precontrattuale, ... Il Collegio osserva, innanzi tutto, che la misura del risarcimento del danno, conseguente a responsabilità precontrattuale, non è concettualmente riducibile al solo “danno emergente”. Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale (laddove l’interesse positivo è interesse all’esecuzione del contratto). Mentre l’interesse positivo consiste nella perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al contrario il danno proprio dell’interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza l’altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni diverse. Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa, ovvero a causa dell’inutile stipulazione del contratto. A tali voci, ritiene il Collegio che possa essere aggiunto il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito. E ciò nei casi in cui la responsabilità precontrattuale della P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione delle trattative, che determina la mancata stipula del contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse, bensì laddove si era già addivenuti alla sicura individuazione del contraente, a maggior ragione se per il tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria.

In definitiva, mentre nel caso di indennizzo ex art. 21 – quinquies, la misura del medesimo è parametrata al solo “danno emergente”; nel caso di responsabilità precontrattuale, la misura del risarcimento comprende sia il danno emergente, sia (ove provato) il danno derivante dalla perdita di ulteriori favorevoli occasioni contrattuali, sia (laddove vi sia mancata stipulazione del contratto a fronte di aggiudicazione definitiva o di plausibile futura acquisizione dello status di aggiudicatario), il cd. danno curriculare. Ove si voglia diversamente considerare, appare singolare e privo di ragionevolezza che l’ordinamento riconosca due attribuzioni patrimoniali, distinte ma di identica misura, benché nel primo caso ( ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990), non vi sia alcuna attività illegittima o illecita dell’amministrazione, mentre nel secondo – in modo ben diverso e più grave - vi è un accertato illecito comportamento della medesima, tale da fondare responsabilità precontrattuale.

Già tale considerazione – afferente al titolo causale dell’attribuzione patrimoniale – induce ad una ricerca più attenta sulla esatta misura del danno risarcibile, laddove, come nel caso di specie, vi sia stata revoca (illegittima) dell’atto di aggiudicazione definitiva ... Innanzi tutto, occorre ricordare, in via generale, che, secondo il Consiglio di Stato il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile e ciò è quello che distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile. In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno cd. “da perdita di chance” a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze.

Quanto al requisito soggettivo della colpa, questa deve essere valutata tenendo conto dei vizi che inficiano il provvedimento, della gravità delle violazioni ad essa imputabili (anche alla luce del potere discrezionale concretamente esercitato), delle condizioni concrete e dell’apporto eventualmente dato dai privati al procedimento. Il requisito è inoltre integrato dalla violazione delle regole procedimentali in tema di autotutela. In ogni caso, non è configurabile un danno risarcibile per equivalente, allorché, per effetto dell’annullamento dell’aggiudicazione, vi sia ripetizione della gara d’appalto (e della connessa attività amministrativa), e quindi il ripristino della chance di aggiudicazione.

Quanto alle “voci” del danno risarcibile, esse consistono: a) nel danno emergente, costituito dalle spese e dai costi sostenuti per la preparazione dell’offerta e per la partecipazione alla procedura; b) nel lucro cessante, determinato nel 10% del valore dell’appalto, precisandosi anche che il lucro cessante è innanzi tutto determinato sulla base dell’offerta economica presentata al seggio di gara; c) una ulteriore percentuale del valore dell’appalto, “a titolo di perdita di chance, legata alla impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito”, cd. “danno curriculare”; d) il danno, equitativamente liquidato, per il mancato ammortamento di attrezzature e macchinari; e) infine, il danno esistenziale, posto che “il diritto all’immagine, concretizzantesi nella considerazione che un soggetto ha di sé e nella reputazione di cui gode, non può essere considerato appannaggio esclusivo della persona fisica e va anzi riconosciuto anche alle persone giuridiche”. FT



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Inserito in data 15/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. II - ADUNANZA DI SEZIONE, PARERE 15 gennaio 2013, n. 97

Il giudizio della commissione di concorso è caratterizzato da profili di puro merito

La ricorrente contesta il giudizio della Commissione, sostenendo che la prova, pur se contenente errori, non era affetta da tali gravi insufficienze da non consentire l’esame anche degli altri elaborati per un giudizio complessivo. Su tale supposta erroneità del giudizio espresso, occorre richiamare la costante giurisprudenza (di recente, Cons. Stato Sez. IV, 27-04-2012, n. 2484) sulla natura delle decisioni delle commissioni esaminatrici, affermandosi che esse costituiscono "atti di natura mista", come tali aventi una "duplice valenza", e cioè natura "provvedimentale", quanto all'ammissione o meno alla fase successiva della procedura; nonché natura di "giudizio", circa la sufficienza della preparazione del candidato stesso al fine di detta ammissione (Cons. Stato, sez. VI, nn. 935/2008; 689/2008; 172/2006). Quanto a quest'ultimo profilo, si è affermato che "la commissione giudicatrice di concorso esprime un giudizio tecnico-discrezionale caratterizzato da profili di puro merito . . . non sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti manifestamente viziato da illogicità, irragionevolezza, arbitrarietà o travisamento dei fatti" (Cons. Stato, sez. IV, n. 1237/2008). In sostanza, il sindacato in sede di legittimità sulle valutazioni espresse dalle commissioni giudicatrici in sede di concorso o di esame è consentito solo laddove le stesse risultino ictu oculi affette da eccesso di potere per illogicità o irrazionalità, ovvero per travisamento dei fatti. L'esame che si deve dunque compiere attiene alla coerenza logica "intrinseca" del giudizio operato dalla commissione giudicatrice, così valutandone la intrinseca logicità/ragionevolezza, non potendosi giustapporre e/o sostituire al giudizio già espresso un differente giudizio,evidentemente frutto di diversi criteri valutativi, posto che ciò rappresenterebbe una non consentita espressione di sindacato nel merito dell'attività amministrativa. FT



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Inserito in data 15/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, Ordinanza 14 gennaio 2013, n. 144

Esito incerto comunicazione ex art 82 cpa: accolta opposizione avverso perenzione

In materia di perenzione dei ricorsi ultraquinquennali le garanzie delle parti interessate debbono essere interpretate e applicate con il massimo rigore, considerato che la lunga giacenza del ricorso, pur rendendo opportuno ed utile che si proceda alla verifica della permanenza dell’interesse alla decisione, non necessariamente costituisce di per sé indizio di scarso interesse o di scarsa diligenza della parte, ma può anche essere originata (come di fatto è nella maggior parte dei casi) dalle cause obiettive e ben note che (al di là di ogni pur encomiabile sforzo delle persone addette) impediscono al sistema giudiziario di ottemperare al principio del “termine ragionevole” di cui all’art. 111, Cost., e all’art. 6, C.E.D.U.; sicché sarebbe ingiusto colpire con la perenzione la parte già sacrificata (senza sua colpa) dalla lunga giacenza del ricorso, se non quando il procedimento di verifica dell’attualità dell’interesse si sia svolto in modo tale da far ritenere con ogni ragionevole certezza che l’interesse è, in effetti, venuto meno.

In questa luce può apparire discutibile la scelta del legislatore delegato di prescrivere (art. 82) che l’avviso preordinato alla perenzione sia “comunicato”, laddove l’art. 9 della legge n. 205/2000 prevedeva che esso fosse “notificato”, considerato che la comunicazione può lasciare (come si riscontra nel caso in esame) qualche margine di incertezza sull’effettivo ricevimento dell’avviso. Tale margine di incertezza potrebbe ritenersi bilanciato e compensato dalla possibilità, per la parte interessata, di acquisire aliunde informazioni sullo stato del ricorso, impiegando la normale diligenza. Una simile possibilità potrebbe essere offerta fra l’altro dalla consultazione del sito internet www.giustizia-amministrativa.it, il quale, pur non avendo allo stato rilevanza processuale, presumibilmente rappresenta oggi lo strumento di informazione più usato dalle parti, anche per la comodità di accesso e per l’ampiezza e l’attendibilità delle informazioni acquisibili (come ad es. il testo integrale di tutti i provvedimenti ordinatori e decisori, dal momento stesso della loro formale pubblicazione). Tuttavia, a quanto il Collegio ha potuto verificare, sino a questo momento l’avvenuta emissione dell’avviso di cui all’art. 82 c.p.a. e/o la pendenza del termine per il relativo incombente non rientrano tra le informazioni acquisibili mediante la consultazione del suddetto sito internet. La mancata visualizzazione nel sito internet dell’avvenuta emissione dell’avviso di cui all’art. 82, ingenerando nella parte interessata un erroneo affidamento, e sommandosi ai margini di incertezza inerenti alle modalità della comunicazione, costituisce un elemento valutabile dal Collegio perché alla parte ricorrente si conceda il beneficio dell’ “errore scusabile”. Pertanto nella presente fattispecie, attesa la mancanza (pur non addebitabile a negligenze o errori dell’Ufficio) di una soddisfacente prova che l’avviso sia andato a buon fine, si giustifica l’accoglimento dell’opposizione sotto il profilo dell’errore scusabile. FT



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Inserito in data 13/01/2013
TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 10 gennaio 2013 n. 21

Confermata ottemperanza al decreto decisorio ex lege n. 89/01, c.d. Legge Pinto

Il Collegio abruzzese, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante sul punto, conferma l’equiparazione del decreto decisorio emanato, ex lege Pinto, ad un’ordinaria sentenza emessa da Giudice ordinario.

Infatti tale provvedimento, il cui passaggio in giudicato viene acclarato dagli atti dell’odierno giudizio, acquisisce la medesima pregnanza richiesta - dall’art. 112 comma 2 lett. c) del codice del processo amministrativo – con riguardo alle sentenze e diventa, pertanto, suscettibile di ottemperanza da parte del G.A.

L’assimilazione di tale decreto ad un più comune titolo esecutivo, con le conseguenze che ne discendono anche in tale sede, è prova dell’attenzione ormai rivolta ad un provvedimento di tale natura, da ultimo sempre più gravante sugli interessi della collettività. CC

 

 



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Inserito in data 11/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 8 gennaio 2013 n. 39

Titolarità reale dell’area: non è questione pregiudiziale alla legittimità della sanatoria

Il giudizio ha ad oggetto la legittimità o meno della concessione in sanatoria, rilasciata con riferimento ad area, per l’accertamento della reale titolarità della quale pende un processo dinanzi al tribunale ordinario. Con riferimento alla doglianza tesa ad evidenziare l’erroneità dell’impugnata decisione, laddove non aveva disposto la sospensione del giudizio, in attesa della definizione del processo volto all’accertamento della reale titolarità dell’area, il Collegio ritiene che “impropriamente sia stata invocata – quale disposizione applicabile alla fattispecie - quella di cui all’art. 295 cpc: ciò in adesione al condivisibile orientamento giurisprudenziale, secondo cui, “qualora tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità-dipendenza, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non ancora passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato è, ad ogni modo, possibile soltanto ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., giammai ai sensi dell'art. 295 c.p.c.”. ( Consiglio di Stato sez. VI 15 febbraio 2012 n. 746; Cass. civ., Sez. III, ordinanza 16 dicembre 2009, n. 26435). Ciò premesso, invero la costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha affermato (ex multis Cons. Stato, Sez. V, 14-02-1989, n. 123) che: “ ai fini dell'applicazione nel processo amministrativo dell'istituto della sospensione necessaria del giudizio disciplinata dall'art. 295 c. p. c. per i casi di pregiudizialità tra giudizi, è necessario che sussista tra i diversi provvedimenti oggetto di distinte controversie, un nesso di presupposizione o un vincolo a fronte del quale un atto –pregiudicato- sia strumento di esplicazione, attuazione o svolgimento del contenuto precettivo di un'altro oppure trovi in questo il suo supporto logico”. Tale consolidato orientamento si armonizza con la costante giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione secondo la quale, in materia di procedimento civile, “la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. è necessaria soltanto quando la previa definizione di altra controversia civile, penale o amministrativa, pendente davanti allo stesso o ad altro giudice, sia imposta da una espressa disposizione di legge ovvero quando, per il suo carattere pregiudiziale, costituisca l'indispensabile antecedente logico - giuridico dal quale dipenda la decisione della causa pregiudicata ed il cui accertamento sia richiesto con efficacia di giudicato. Al di fuori di tali presupposti, la sospensione cessa di essere necessaria e, quindi, obbligatoria per il giudice, ed è meramente facoltativa , con la conseguenza che il disporla o meno rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità.” (Cassazione civile, sez. III, 12 maggio 2003 , n. 7195). Nel caso di specie il giudizio amministrativo verteva (e verte) sulla legittimità o meno della concessione in sanatoria rilasciata: esso è un giudizio, quindi, che si appunta in via principale, se non anche esclusiva, sulla oggettiva sanabilità del manufatto in relazione al contenuto della domanda presentata, a prescindere dal soggetto realizzatore dello stesso ovvero del titolare dell’area nel quale venne realizzato. E’ evidente pertanto che né in primo grado né nell’odierno giudizio d’appello sussistono le ragioni di pregiudizialità (neppure facoltativa) per sospendere il processo”. FT

 

 

 



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Inserito in data 11/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 gennaio 2013, n. 76

Danno non patrimoniale, respinta domanda nuova in appello fondata sull’art 42 bis TU Espr

Il Collegio – ponendosi in espresso contrasto con una precedente decisione della sezione V (2 novembre 2011 n. 5844) - dichiara inammissibile la domanda di liquidazione del danno non patrimoniale, fondata sul nuovo art. 42-bis DPR n. 327/2001 (Testo Unico espropriazioni), introdotto dall’art. 34 d.l. 6 luglio 2011 n. 98, conv. in l. 15 luglio 2011 n. 111, il quale (co. 1) prevede che al proprietario venga “corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest’ultimo forfetariamente liquidato nella misura del 10 per cento del valore venale del bene”.

In primo luogo, occorre ricordare che le disposizioni di cui al’art. 42-bis del DPR n. 327/2001 (e segnatamente la norma di cui al comma 1, che introduce, appunto, anche l’ipotesi di risarcimento del “pregiudizio non patrimoniale”) sono rivolte non già al giudice, bensì alla amministrazione pubblica, e precisamente all’ “autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico”. Ne consegue che, nell’ipotesi normativamente prevista, è detta autorità che deve procedere (ovvero non procedere) a liquidare l’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale subito, potendo il giudice valutare la legittimità dell’attività amministrativa solo ex post, una volta che – richiestone dalla parte che si ritiene lesa – sia chiamato a sindacare l’operato della pubblica amministrazione. In secondo luogo, giova osservare che la previsione dell’indennizzo (anche) per il pregiudizio non patrimoniale subito dal proprietario spogliato del proprio diritto non comporta – anche nell’ipotesi normativamente prevista - alcuna automatica attribuzione di una somma a tale titolo, dovendo in ogni caso accertarsi la sussistenza e natura del detto pregiudizio, nonché la sussistenza di un nesso di causalità che consenta di attribuire il detto pregiudizio all’attività e/o ai comportamenti della pubblica amministrazione. In terzo luogo, proprio perché la previsione di indennizzo è normativamente riferita alla determinazione dell’amministrazione di acquisizione di un bene “modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità”, essa – come è evidente - non è immediatamente applicabile alla diversa ipotesi del risarcimento del danno, in ordine al quale (ed allo specifico profilo del risarcimento del danno non patrimoniale) essa può essere considerata solo come espressione di un principio generale, e non come norma comportante uno specifico riconoscimento di tale tipologia di danno risarcibile.

Pertanto, occorre innanzi tutto verificare ... la sussistenza di un pregiudizio non patrimoniale derivante da attività o comportamenti illegittimi o illeciti della P.A., ed a ciò in tanto il giudice può procedere, in quanto, nelle rituali forme processuali, ne venga investito da domanda di parte. La circostanza che il nuovo testo dell’art. 42-bis preveda anche (ed ex novo) l’indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale sofferto, se può essere utilizzato dal giudice come argomento per estendere la responsabilità risarcitoria della Pubblica Amministrazione anche ai pregiudizi non patrimoniali/danni morali patiti dall’interessato, tuttavia non può nascondere che, nel caso di specie, il giudice proceda ad esaminare la sussistenza (o meno) di una autonoma e distinta voce di danno, fondante una altrettanto autonoma e distinta obbligazione risarcitoria. Il che a tutta evidenza comporta la necessità della domanda di parte (costituendo il diritto al risarcimento del danno diritto disponibile), le prove sulle quali la domanda si fonda, nonché il rispetto del doppio grado di giudizio, anche a tutela del diritto di difesa delle altre parti evocate.

In definitiva, per un verso (nell’ipotesi normativamente prevista), non può il giudice procedere ex officio a determinare l’indennizzo per un pregiudizio non patrimoniale, in difetto di determinazione in tal senso della pubblica amministrazione e di esercizio dello specifico potere di azione da parte dell’interessato; per altro verso, non può il giudice procedere, in assenza di domanda, all’accertamento della sussistenza di un danno non patrimoniale e della relativa responsabilità risarcitoria; per altro verso ancora, e tanto meno, a ciò può provvedere il giudice di appello, posto che non vi è stato alcun contraddittorio in primo grado (stante l’assenza della relativa domanda in tale grado di giudizio), e costituendo quest’ultima, dunque, “domanda nuova”, come tale inammissibile in appello.

Né a diversa conclusione si giunge ritenendo che la estensione delle disposizioni dell’art. 42-bis anche “ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore e anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato e annullato” (comma 8), comporta una sorta di applicazione ex officio di quanto previsto dal comma 1 da parte del giudice, indipendentemente dal grado di giudizio. Ed infatti, sul punto è agevole osservare, per un verso, che il comma 1 non si riferisce espressamente all’accertamento della responsabilità risarcitoria della P.A.; per altro verso, che, anche nelle ipotesi contemplate, esso non prevede alcuna deroga alle norme processuali (né tale “deroga” può essere desunta in via interpretativa, essendo ciò impedito dalla inviolabilità del diritto di difesa, ex art. 24 Cost.).

Pertanto, la domanda di liquidazione del danno non patrimoniale deve essere dichiarata inammissibile. FT

 

 

 

 



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Inserito in data 11/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, ordinanza 7 gennaio 2013, n. 25

Procedura negoziata senza previo bando: si applica l’art 121 co 5 o l’art 122 cpa?

La vicenda in esame ha ad oggetto un appalto, per il quale si invoca l’applicazione della direttiva 2009/81/CE nei settori della difesa e della sicurezza. Tale direttiva contiene una disciplina pressoché corrispondente a quella di cui alla direttiva 89/665/CEE, per come modificata dalla direttiva 2007/66/CE. Il legislatore italiano ha recepito la direttiva 2007/66 attraverso il d.lgs. 53/2010, che ha modificato alcuni articoli del d.lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici). In seguito, con l’approvazione del Codice del Processo Amministrativo, la disciplina è confluita al suo interno, agli artt. 120-125.

Nel caso di specie, in particolare, viene in rilievo l’art. 57 co. 2 lett. b) del d.lgs. 163/2006 secondo cui, nei contratti pubblici relativi a lavori, forniture e servizi, è consentita una “procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara”, “qualora, per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla tutela di diritti esclusivi, il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato”. Con riferimento a tali ipotesi, l’art. 121 co. 5 c.p.a prevede che “La inefficacia del contratto prevista dal comma 1, lettere a) e b), non trova applicazione quando la stazione appaltante ... abbia pubblicato, rispettivamente per i contratti di rilevanza comunitaria e per quelli sotto soglia, nella Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea ovvero nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana un avviso volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell'articolo 79-bis del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, in cui manifesta l'intenzione di concludere il contratto”.

Il TAR adito, accolta la domanda di annullamento, ha ritenuto che nel caso di specie non fosse possibile pronunciare l’inefficacia del contratto ai sensi dell’art. 121 c.p.a. , dovendosi applicare il co. 5 di tale articolo. Secondo il TAR, ciò non significava che il contratto non potesse tuttavia essere dichiarato inefficace ai sensi dell’art. 122, ricorrendone le condizioni.

Il Consiglio di Stato, proprio in forza della conferma dell’annullamento dell’aggiudicazione, pronunciata in sede di sentenza parziale, ritiene di dover porre l’attenzione sulla sorte della convenzione stipulata. Da una prima disamina della disciplina comunitaria racchiusa nelle direttive, infatti, sembra potersi ricavare che:

a) in alcuni casi, corrispondenti alle violazioni più gravi, gli Stati membri debbono assicurare che (in caso di annullamento dell’aggiudicazione) il contratto sia considerato privo di effetti;

b) in altri casi gli Stati membri prevedono che questa regola (di inefficacia tendenzialmente obbligatoria) non si applichi;

c) nei restanti casi è rimessa agli Stati membri la scelta di stabilire quali effetti abbia sul contratto l’annullamento dell’aggiudicazione.

Dove il punto da chiarire, nella vicenda in esame, riguarda l’ipotesi sub b), ovvero i casi per i quali la direttiva stabilisce che gli Stati membri prevedano che la privazione di effetti (tendenzialmente) obbligatoria non si applichi. Il Collegio si chiede se tale esclusione - ovvero tale eccezione alla regola di cui alla lettera a) - debba essere interpretata in maniera assoluta, nel senso che il contratto deve essere considerato sempre e comunque efficace; oppure se non sia possibile interpretarla nel senso che il contratto non è obbligatoriamente privo di effetti ma può essere riconosciuto come tale, a discrezione del diritto nazionale e, quindi, rientrare nelle ipotesi residuali di cui alla lettera c) [ come ritenuto dal TAR nella sentenza impugnata]. Ove si accolga la prima interpretazione, la conseguenza sarebbe che in un’ipotesi di affidamento diretto illegittimo, una violazione così grave, nell’ottica della tutela della concorrenza, non sarebbe mai sanzionabile con l’inefficacia del contratto. Questo perché la stazione appaltante avrebbe provveduto a fornire, mediante l’avviso preventivo, una pubblicità ritenuta equipollente, assicurando un termine sospensivo minimo per proporre ricorso”.

Pertanto, i giudici di Palazzo Spada rimettono all’esame della Corte di Giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali, relative all’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2007/66/CE rilevanti nel caso di specie: “Dica la Corte di Giustizia se l’art. 2 quinquies, par. 4, della direttiva n. 2007/66 vada interpretato nel senso che, qualora un’amministrazione aggiudicatrice, prima di affidare il contratto direttamente ad un operatore economico determinato, scelto senza previa pubblicazione del bando, abbia pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea l’avviso di trasparenza preventiva e abbia atteso almeno dieci giorni per la stipulazione del contratto, sia automaticamente precluso – sempre e comunque - al giudice nazionale di pronunciare la privazione di effetti del contratto, anche se ravvisi la violazione delle norme che consentono, a determinate condizioni, di affidare il contratto senza l’espletamento di una gara.

[In subordine] Dica la Corte di Giustizia se l’art. 2 quinquies, par. 4, della direttiva n. 2007/66 - ove interpretato nel senso di escludere la possibilità che a norma del diritto nazionale (art. 122 del codice del processo amministrativo) sia pronunciata l’inefficacia del contratto, nonostante il giudice abbia accertato la violazione delle norme che consentono, a determinate condizioni, di affidare il contratto senza l’espletamento di una gara – sia conforme ai principi di parità delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza, nonché assicuri il diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione europea”. FT

 

 

 

 



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Inserito in data 10/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 8 gennaio 2013 n. 31

La CTU non può risolversi in una sostituzione del GA alle valutazioni della PA

La formale introduzione della consulenza tecnica nel processo amministrativo non autorizza a qualificare come diritto soggettivo la posizione (che permane di interesse legittimo) del dipendente pubblico che richiede il riconoscimento della dipendenza della patologia da causa di servizio; conseguentemente in materia non sono ammissibili azioni di accertamento.

 L’accertamento del nesso di dipendenza permane soggetto al sindacato del giudice amministrativo esclusivamente in casi di palesi illogicità o errore tecnico o fattuale (il c.d. “sindacato debole”), e al di fuori di tali ipotesi non può pertanto estendersi sino a sostituire le valutazioni di spettanza degli organi tecnici dell’amministrazione.

 Detto sindacato non esclude perciò che , sia pure nei cennati limiti, il giudice amministrativo possa far ricorso alla CTU, a norma dell’art. 67 del c.p.a., la quale deve però investire anche la attendibilità delle ragioni addotte dal Comitato di verifica per negare la dipendenza da causa di servizio. FT



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Inserito in data 08/01/2013
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 19 dicembre 2012, n. 23464

Ricorso straordinario, la Cassazione cambia idea: ha natura giurisdizionale

Alle Sezioni Unite viene chiesto di chiarire se il decreto di accoglimento del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica costituisca una decisione idonea a formare il giudicato e, pertanto, impugnabile con il ricorso straordinario di cui all'art. 111 co. 8 Cost. e art. 362 co. 1 c.p.c. per motivi attinenti alla giurisdizione.

Dopo avere delineato l’evoluzione storica dell’istituto del ricorso straordinario, il Supremo Collegio mette in evidenza i segni sintomatici di una “tendenza alla giurisdizionalizzazione” dello stesso, nonché i momenti di contrasto a tale tendenza.

A questo punto, nella sentenza viene rilevato che “successivamente, in epoca più recente, è mutato il quadro normativo di riferimento rispetto alla disciplina dell’istituto, quale recata dal cit. D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199”. Ciò induce a ritenere che il parere emesso dal Consiglio di Stato sul ricorso straordinario, e la conseguente conforme decisione del Presidente della Repubblica, abbiano natura sostanzialmente giurisdizionale.

Innanzitutto, può ricordarsi la L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 3, recante disposizioni in materia di giustizia amministrativa, che ha riformato il processo cautelare innanzi al giudice amministrativo ed in quel contesto normativo ha previsto in particolare, al comma 4, che nell'ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica può essere concessa, a richiesta del ricorrente, ove siano allegati danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, la sospensione dell'atto medesimo. La sospensione è disposta con atto motivato del Ministero competente ai sensi del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199, art. 8, su "conforme parere" del Consiglio di Stato. Quindi il ruolo del Consiglio di Stato già muta in parte: il parere, reso in una sede che può qualificarsi cautelare nel più ampio contesto della sede consultiva tipica del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ha natura vincolante dovendo il Ministro competente provvedere in modo "conforme".

(...) La riforma del 2009 (L. 18 giugno 2009, n. 69, recante nuove norme in materia di processo civile) ha apportato, all'art. 69, significative modifiche alla disciplina del ricorso straordinario, ora qualificato nella rubrica della disposizione come rimedio "giustiziale" contro la pubblica amministrazione. L'art. 69 cit., comma 2, ha infatti novellato il D.P.R. n. 1199 del 1971, art. 14, comma 1, primo periodo, con la previsione del carattere vincolante del parere reso dal Consiglio di Stato essendo ora prescritto che il decreto del Presidente della Repubblica, che decide sul ricorso straordinario, deve essere adottato su proposta del Ministero competente, "conforme al parere del Consiglio di Stato".

Conseguentemente è stata abrogata la precedente disciplina (art. 14, comma 1, secondo periodo, e comma 2, cit.) nella parte in cui consentiva la decisione del ricorso straordinario in termini "difformi" rispetto al parere, previa delibera del Consiglio dei ministri.

In tal modo è stato rimosso l'ostacolo che la giurisprudenza costituzionale ravvisava al riconoscimento della natura di "autorità giurisdizionale" al Consiglio di Stato nella suddetta sede consultiva. E quindi lo stesso art. 69 al primo comma - per fugare ogni dubbio interpretativo - ha espressamente sancito la possibilità per il Consiglio di Stato di sollevare la questione incidentale di legittimità costituzionale (ciò che peraltro finora in concreto non è ancora avvenuto). Ha infatti previsto che il Consiglio di Stato, se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l'espressione del parere e, riferendo i termini e i motivi della questione, solleva l'incidente di costituzionalità ordinando l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale nonchè la notifica del provvedimento alle parti.

(...) Il codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104) ha ulteriormente accentuato il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario in varie disposizioni. Delle quali la più significativa appare essere l'art. 7 recante la definizione e l'ambito generale della giurisdizione amministrativa. E' in questo ambito, chiaramente attinente alla giurisdizione e non già all'amministrazione, che si colloca anche la prescrizione specifica (al comma 8) secondo cui il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa e quindi nelle materie in cui il giudice amministrativo ha giurisdizione. Sicchè la "giurisdizione" diventa generale presupposto di ammissibilità del ricorso straordinario non diversamente che per il ricorso ordinario al giudice amministrativo.

E quando il successivo art. 126 contempla uno speciale ambito della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di contenzioso elettorale, che, in forza della generale prescrizione dell'art. 7 cit., avrebbe trascinato ex se anche un simmetrico allargamento dell'ambito di ammissibilità del ricorso straordinario, è necessaria una disposizione derogatoria ad hoc (l'art. 128) per escludere, come eccezione alla regola, tale allargamento.

In precedenza invece la predicata natura del ricorso straordinario come rimedio di carattere generale ... comportava non solo che la giurisdizione amministrativa non costituiva presupposto di ammissibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ma si riteneva ... essere quest'ultimo ammissibile anche a tutela di diritti soggettivi in materie estranee alla giurisdizione amministrativa e ricadenti nella giurisdizione del giudice ordinario ... sicchè in tale evenienza - salva l'ipotesi di competenza inderogabile (ma tale non era ritenuta, ad es., quella del giudice ordinario in materia di lavoro pubblico contrattualizzato) non vi era alternatività con la tutela giurisdizionale, ma al contrario vi era possibile concorrenza. Ciò che in realtà costituiva un'anomalia nella prospettiva della giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario (...).

Rimossa questa possibilità di ricorso straordinario in materie in cui il giudice amministrativo è privo di giurisdizione, ne è derivato un pieno e sistematico parallelismo tra ricorso straordinario e ricorso ordinario, anche se la simmetria non è proprio assoluta perchè la giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, sez. 3^, 15 ottobre 2010, n. 4609) ritiene una più ristretta esperibilità del ricorso straordinario quanto al novero delle azioni esercitabili in quella sede.

L'art. 48 cod. proc. amm. poi specifica in termini di maggior rigore e di accentuato parallelismo la regola dell'alternatività tra ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e ricorso ordinario al giudice amministrativo.

Innanzi tutto l'art. 48 contempla (al comma 1) la facoltà di opposizione (quella di cui al D.P.R. n. 1199 del 1971, art. 10) in favore di qualsiasi parte nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario, laddove l'art. 10 contemplava tale facoltà unicamente in favore dei controinteressati e solo a seguito della declaratoria di incostituzionalità della disposizione (Corte cost. n. 148 del 1982) la stessa facoltà era stata estesa all'ente pubblico, diverso dallo Stato, che aveva emanato l'atto impugnato.

La nozione di "parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario" è amplissima sì da comprendere i controinteressati, i cointeressati, la pubblica amministrazione che ha emanato l'atto impugnato (non più escluso lo Stato, essendo venuta meno la possibilità che il Governo interloquisca con una delibera del Consiglio dei ministri per disattendere il parere del Consiglio di Stato); ciò che assicura il pieno rispetto del contraddittorio.

Tale generalizzazione della facoltà di opposizione assicura inoltre che la natura di decisione di giustizia del decreto del Presidente della Repubblica, che qui si viene ad affermare, è compatibile con la garanzia di tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.) innanzi ad un "giudice" sia esso ordinario (art. 102 Cost.) o speciale (art. 103 Cost.). Nessuna "parte" può - per così dire, contro la sua volontà - essere evocata in una sede contenziosa in cui la lite è destinata ad essere decisa sì nel rispetto del principio del contraddittorio, ma senza il doppio grado di giurisdizione e con un'istruttoria semplificata. La "parte nei cui confronti sia stato proposto ricorso straordinario" può (nel termine perentorio di sessanta giorni dal ricevimento dell'atto di opposizione) opporsi all'iniziativa del ricorrente che abbia scelto questa strada più rapida e meno processualmente strutturata affinchè la lite sia invece trasferita e decisa nella sede ordinaria. Sicchè la concreta percorribilità della via più rapida del ricorso straordinario richiede, in sostanza, il consenso di tutte le parti secondo una ratio non dissimile da quella sottesa al ricorso per saltum ex art. 360 c.p.c., comma 2, che richiede appunto l'accordo delle parti.

Lo stesso art. 48 cod. proc. amm. prevede poi (al comma 3) una vera e propria ipotesi di translatio iudicii, non dissimile da quella generale del precedente art. 11 (tra giudice amministrativo ed altro giudice), qualora l'opposizione sia ritenuta inammissibile (ad es. perchè tardiva) dal tribunale amministrativo regionale, destinatario della stessa; prescrive infatti che quest'ultimo dispone la restituzione del fascicolo per la "prosecuzione del giudizio in sede straordinaria". Vi è quindi un'espressa ed inequivocabile qualificazione del procedimento per ricorso straordinario come "giudizio in sede straordinaria" che prosegue.

Questo accentuato parallelismo, coniugato alla regola della piena alternatività tra ricorso ordinario e ricorso straordinario, comporta che tale ultimo rimedio si è evoluto sì da poterlo considerare deputato tendenzialmente ad apprestare un grado di tutela analogo a quello conseguibile agendo giudizialmente nelle forme ordinarie.

Da ultimo, ma non ultimo tassello di questa evoluzione dell'istituto, c'è il recente arresto di queste Sezioni Unite (Cass., sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2065), che - operando un revirement del precedente orientamento che dalla natura amministrativa della decisione del ricorso straordinario faceva derivare l'inammissibilità del giudizio di ottemperanza (Cass., sez. un., 18 dicembre 2001, n. 15978) - hanno all'opposto ritenuto quest'ultimo ammissibile proprio in ragione della natura della decisione del ricorso straordinario. Hanno richiamato l'art. 112 cod. proc. amm., che nel dettare le "disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza", dispone, al comma 2, che l'azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l'attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato (lett. a) e, altresì, delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo (lett. b). In tale sistema la decisione su ricorso straordinario al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del Consiglio di Stato, si colloca - secondo questa Corte - "nell'ipotesi prevista all'art. 112, comma 2, lett. b)"; ciò che significa che la decisione del ricorso straordinario si qualifica come "provvedimento esecutivo del giudice amministrativo". Si è ritenuto quindi essere "la decisione su ricorso straordinario come provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza". Ed ha puntualizzato questa Corte che "in rapporto al decreto di accoglimento di ricorso straordinario, il configurarsi come giudicato può essere discusso in questa sede come questione di giurisdizione ai sensi dell'art. 362 c.p.c.". In breve, il modificato quadro normativo ha indotto questa Corte a rivedere la propria giurisprudenza ... , affermando che il decreto presidenziale, divenuto definitivo, è assimilabile al giudicato amministrativo e quindi è suscettibile del giudizio di ottemperanza (...).

In sintesi lo sviluppo normativo e giurisprudenziale di cui si è detto finora consente di assegnare al decreto presidenziale emesso, su conforme parere del Consiglio di Stato, nel procedimento per ricorso straordinario la natura sostanziale di decisione di giustizia e quindi natura sostanziale giurisdizionale: ossia vi è esercizio della giurisdizione nel contenuto espresso dal parere del Consiglio di Stato che, in posizione di terzietà e di indipendenza e nel rispetto delle regole del contraddittorio, opera una verifica di legittimità dell'atto impugnato con ricorso (straordinario) di una parte e senza l'opposizione (e quindi con il consenso) di ogni altra parte intimata, le quali tutte così optano per un procedimento più rapido e snello, privo del doppio grado di giurisdizione, per accedere direttamente - e quindi per saltum - al controllo di legittimità del Consiglio di Stato.

Nella forma vi è tuttora l'adozione del decreto presidenziale che potrebbe essere affetto da vizi propri del procedimento successivo all'adozione del parere. Ma questo residuo elemento formale che connota la struttura ancora composita del ricorso straordinario, radicata nelle origini storiche dell'istituto (di cui si è detto), non inficia, nè indebolisce la natura giurisdizionale sostanziale del rimedio impugnatorio nel contenuto recato dal parere del Consiglio di Stato.

La raggiunta natura di decisione di giustizia non significa anche che ogni aspetto della procedura (in particolare, l'istruttoria) sia pienamente compatibile con il canone costituzionale dell'art. 24 Cost., e con la garanzia del pieno contraddittorio, del diritto alla prova e all'accesso agli atti del procedimento; nonchè - dopo il noto nuovo corso della giurisprudenza costituzionale (Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007) - con il parametro interposto del diritto ad un processo equo ex art. 6 CEDU ... Ma laddove l'interpretazione adeguatrice non riesca a modellare il procedimento per ricorso straordinario in termini tali da renderlo pienamente compatibile sul piano costituzionale, c'è spazio per il legislatore per avanzare ulteriormente nel processo di revisione dell'istituto”.

 La conclusione raggiunta dalle Sezioni Unite viene vagliata, poi, alla luce della compatibilità con la Costituzione.

La conclusione raggiunta - che predica trattarsi nella fattispecie in esame di una decisione di giustizia e quindi di esercizio della giurisdizione che consente il sindacato sulla giurisdizione ad opera delle Sezioni Unite di questa Corte ex art. 111 Cost., comma 8, e art. 362 c.p.c. comma 1 - appare pienamente compatibile con l'art. 125 Cost., comma 2, che prevede che nelle regioni sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo grado ... Nella fattispecie ... il principio suddetto comunque non è violato perchè la generalizzata possibilità di opposizione (D.P.R. n. 1199 del 1971, ex art. 10; art. 48 cod. proc. amm.) della parte nei cui confronti è proposto il ricorso straordinario ha l'effetto di trasferire il contenzioso nella sede ordinaria del giudizio innanzi ad un t.a.r. in primo grado, sicchè la garanzia del doppio grado di giurisdizione non è affatto violata, ed anzi è pienamente assicurata nella misura in cui non siano le parti stesse ad optare per il procedimento per ricorso straordinario che consente l'accesso diretto per saltum al Consiglio di Stato (...).

Parimenti può ritenersi la compatibilita con l'art. 102 Cost., comma 2, che non consente l'istituzione di nuovi giudici speciali, salva la revisione degli organi speciali di giurisdizione esistenti al momento di entrata in vigore della Costituzione stessa (6^ disposizione transitoria e finale della Costituzione) e ferma restando (ex art. 103 Cost., comma 1) la giurisdizione amministrativa del Consiglio di Stato e degli altri "organi di giustizia amministrativa".

La giurisprudenza costituzionale in materia rifugge da un approccio formalistico e guarda alla sostanza delle cose. E' noto - in altra materia, però pure attinente alla giurisdizione - che da una parte la Corte, dopo aver ripetutamente affermato ... che le commissioni tributarie dell'epoca erano organi non già giurisdizionali ma di natura amministrativa, ha poi ritenuto ... che "fatti nuovi, in sede legislativa" (ossia la riforma del contenzioso tributario del 1972) facevano ormai propendere decisamente "nel senso della giurisdizionalità" (...).

Rileva poi anche che, in riferimento ad altra fattispecie, la Corte, per escludere che una disposizione all'epoca censurata prevedesse un giudice speciale piuttosto che una sezione specializzata del giudice ordinario, ha posto l'accento sul "nesso organico" e sulla "compenetrazione istituzionale" di quest'ultima con il giudice ordinario (Corte cost., ord., n. 424 del 1989).

Orbene, richiamati questi principi e tornando alla fattispecie del ricorso straordinario, può ora considerasi che c'era, già prima dell'evoluzione normativa più recente, sopra indicata, la decisione di un contenzioso che non era censurabile innanzi al giudice amministrativo se non sulla base di un vizio di forma o di procedimento verificatosi successivamente al parere del Consiglio di Stato ... ; decisione che quindi già si presentava come alternativa a quella del giudice amministrativo. Ossia già in origine, una volta posta la regola dell'alternatività ... , il Consiglio di Stato non poteva essere chiamato due volte a pronunciarsi sullo stesso contenzioso: prima in sede consultiva e poi in sede giurisdizionale; altrimenti ... ne conseguirebbe una duplicazione di giudizi" e "la nullificazione del principio dell'alternatività; così l'Adunanza Plenaria ha interpretato il D.P.R. n. 1199 del 1971, art. 10, u.c., cit., che prevede che, ove la controversia non sia trasferita dalla sede del ricorso straordinario all'ordinaria sede giurisdizionale, la decisione adottata con decreto presidenziale sul ricorso straordinario è impugnabile per vizi di forma o del procedimento.

Quindi la decisione del ricorso straordinario già esibiva, nel suo nucleo essenziale, la connotazione di decisione di giustizia pur se per vari aspetti, evidenziati dalla giurisprudenza di cui si è detto sopra, non poteva parlarsi di "funzione giurisdizionale" nel significato pregnante dell'art. 102 Cost., comma 1, e art. 103 Cost., comma 1.

D'altra parte, questo regime impugnatorio, che comportava che la decisione del ricorso straordinario faceva perno sulla delibazione del Consiglio di Stato in sede consultiva, rivelava anche il "nesso organico" e la "compenetrazione istituzionale" di tale decisione con il Consiglio di Stato quale organo di giustizia amministrativa ex art. 103 Cost., comma 1.

Ed allora, in sintesi, la decisione sul ricorso straordinario aveva fin dall'origine connotati di decisione di giustizia anche se non poteva parlarsi di "funzione giurisdizionale" pienamente realizzata. Ma una volta che il legislatore ordinario ne ha operato la revisione, depurando il procedimento da ciò che non era compatibile con la "funzione giurisdizionale", la decisione del ricorso straordinario, nella parte in cui prende come contenuto il parere del Consiglio di Stato, rientra a pieno titolo nella garanzia costituzionale dell'art. 103 Cost., comma 1, che fa salvi, come giudici speciali, il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa”. FT

 

 

 




Inserito in data 04/01/2013
TAR ABRUZZO - PESCARA, SEZ. I, 28 dicembre 2012, n. 576

Controversie in merito alla corresponsione canone rivendita monopoli

Il Collegio abruzzese sancisce il proprio difetto di giurisdizione in merito ad una controversia avente ad oggetto la determinazione del canone di concessione per la rivendita di generi di monopolio, spettando al Giudice ordinario - ex articolo 133 – 1’ co. C.p.A.

Nel rimettervi gli atti, ricorda, altresì, la salvaguardia degli effetti sostanziali e processuali connessi alla domanda – c.d. traslatio iudicii, a condizione che la riproposizione della stessa dinanzi al Giudice, dichiarato competente, avvenga nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza – ex articolo 11 C.p.A. CC

 



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Inserito in data 04/01/2013
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. III BIS, 31 dicembre 2012, n. 10838

Aggiornamento e integrazione graduatorie personale ATA – Giudice competente

Si ribadisce il principio secondo cui le procedure relative alla gestione ed aggiornamento di graduatorie non costituiscono espressione di poteri autoritativi, né di alcuna forma di discrezionalità dell’Amministrazione, visto che non attengono ad una procedura concorsuale.

Persino i D.M. attinenti alla gestione di tali graduatorie a fini assuntivi, come nel caso in esame, non afferiscono ad un ambito organizzatorio/autoritativo, bensì appartengono alle determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato, di fronte alle quali sono configurabili solo diritti soggettivi.

Va, pertanto, devoluta l’odierna questione all’AGO, uniformandosi a giurisprudenza ormai costante, cristallizzata anche dall’Adunanza Plenaria nella decisione n. 11 del 4 luglio 2011, puntualmente richiamata, in tale sede, dal Collegio laziale. CC



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Inserito in data 02/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 dicembre 2012. n. 6684

Giudizio di appello: espressa censura dei motivi di gravame, a pena di inammissibilità

Viene ribadito un principio di carattere processuale di estremo rilievo, riguardo alle modalità di esercizio del giudizio di appello.

Occorre, infatti, che la parte interessata al gravame sottolinei espressamente i motivi di doglianza, richiamandoli minuziosamente, in modo da poter rimettere alla cognizione del giudice di secondo grado una compiuta conoscenza delle relative questioni e conferire alle controparti la possibilità di contraddire consapevolmente sulle stesse.

Tale c.d. onere di espressa riproposizione non può definirsi soddisfatto per effetto di un indeterminato rinvio agli atti di primo grado, senza alcuna precisazione circa il relativo contenuto, quale quello quivi compiuto, con conseguente inammissibilità del relativo giudizio. CC



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Inserito in data 02/01/2013
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 dicembre 2012, n. 6708

Pagamento “monetizzazione” di aree per urbanizzazioni secondarie; debenza della somma

Il Collegio ribadisce, richiamando anche propri precedenti, la posizione assunta dal Giudice di prime cure in ordine alla natura delle somme previste ai fini dell’urbanizzazione di aree secondarie.

A dispetto dell’assunto di parte appellante, infatti, chiarisce che la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione è tale da non procurare una duplicazione del contributo concessorio, poichè viene in rilievo un obbligo diverso ed aggiuntivo.

Inoltre, ciò incide anche sotto il versante processuale, posto che la carente debenza di tali somme, come paventata dal ricorrente, andrebbe acclarata in sede di contestazione della legittimità degli atti e provvedimenti di imposizione presupposti, e non con un’azione di mero accertamento – quale quella qui esperita, sull’errato presupposto si trattasse di un ordinario diritto soggettivo.

Occorre, invece, un normale giudizio impugnatorio, soggetto ai consueti termini decadenziali, stante l’afferenza di tali oneri alla concessione edilizia, cui direttamente accedono e la cui censura va attuata nei termini previsti dal C.p.A. CC



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Inserito in data 31/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 dicembre 2012, n. 6691

Diniego regolarizzazione occupazione alloggio popolare. Inammissibili censure personali

Viene respinto, anche in appello, il ricorso proposto da un cittadino che ripropone la censura di carente istruttoria e motivazione avverso il diniego di regolarizzazione all’occupazione di alloggio popolare, oppostogli dall’Amministrazione comunale.

L’avvenuto diniego si fonda, invero, sul dato oggettivo consistente nella sussistenza di un diritto di proprietà vantato dal medesimo appellante su un altro immobile e, come tale, comportante causa di esclusione dalla facoltà di godimento dell’area residenziale pubblica.

Non può avere alcun peso, ritiene il Collegio, la censura di carattere personale/familiare che l’istante frappone all’utilizzo di tale ulteriore cespite (nella specie, il fatto che fosse stato dato in comodato al proprio figlio e relativo nucleo familiare), giacché altrimenti le esigenze di equa e razionale utilizzazione e gestione del patrimonio immobiliare residenziale pubblico verrebbero facilmente frustrate con il comodo espediente di attribuire ad altri il godimento dell’alloggio popolare. CC



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Inserito in data 31/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 dicembre 2012, n. 6700

Variante strumento urbanistico: vincolo a verde ed esatta qualificazione giuridica

Il Collegio, assestandosi sulla posizione assunta dal primo Giudice, riconosce natura conformativa all’azione mossa dal Comune resistente che, intendendo preservare le qualità e caratteristiche di un’ampia fascia territoriale, vi ha disposto un vincolo a verde pubblico.

Si tratta, sostengono i Giudici dell’appello, di un’espressione del potere pianificatorio avente ad oggetto una razionale sistemazione del territorio in zone omogenee in vista, quindi, di un preminente interesse sociale.

E’, evidentemente, un potere in radice diverso da quello ablatorio, preordinato, invece, all’adozione di provvedimenti di espropriazione.

Persino il fondamento giuridico di quest'ultimo, ravvisabile nel parametro costituzionale di cui al comma terzo dell’articolo 42 sottolinea, ancora, la carente generalità propria, invece, dell’attività conformativa, quivi esplicata.

In forza di ciò, non appaiono applicabili alla vicenda in esame le disposizioni in materia espropriativa, statuenti la decadenza del vincolo al decorso del quinquennio, come richieste dagli appellanti. CC



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Inserito in data 29/12/2012
TAR VENETO, SEZ. III, 24 dicembre 2012, n. 1596

Controversia sorta in merito alla revoca di contributi. Profili di giurisdizione

I Giudici confermano, anche in materia di sovvenzioni pubbliche, il consueto riparto di giurisdizione sulla base della situazione giuridica soggettiva azionata.

Pertanto, trattandosi, nel caso di specie, di revoca di un contributo a seguito dell’inadempimento del beneficiario rispetto alle obbligazioni previste per la concessione di un simile beneficio, sarà competente il Giudice ordinario.

Infatti, pur parlandosi di revoca o decadenza, la situazione giuridica del ricorrente è, ugualmente, di diritto soggettivo; a dispetto di un interesse legittimo che sarebbe comparso solo dinanzi ad un vizio eventualmente sorto nella fase, tutta pubblicistica, attinente al procedimento di assegnazione dell’odierno contributo.

Tanto non ricorre nel caso di specie; è opportuna, pertanto, la devoluzione all’AGO. CC



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Inserito in data 29/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 dicembre 2012, n. 6587

Difetto del G.A. in merito alla rideterminazione dei canoni demaniali marittimi

Il Collegio avalla la posizione assunta dal Giudice amministrativo di primo grado che ha declinato la propria giurisdizione in materia di rideterminazione dei canoni demaniali marittimi.

Si tratta, infatti, di controversie vertenti su questioni, quali quelle relative alla legittimità della riconduzione dei canoni per la nautica da diporto a quelli relativi a concessioni per finalità turistico-ricreative che, a buon diritto, rientrano nell’esclusione prevista dall’articolo 133 C.p.A., come richiamata dal Primo Giudice.

E’ corretta, infatti, la riconduzione dell’odierna vicenda alle questioni relative alla scelta del parametro da applicare in sede di determinazione dei canoni demaniali e, come tale, ugualmente riconducibile a valutazioni di natura meramente patrimoniale; suscettibile, pertanto, di essere rimessa al Giudice ordinario. CC



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Inserito in data 27/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 dicembre 2012, n. 287

Tirocini formativi, durata e requisiti dei promotori: illegittima disciplina statale

Alla luce del menzionato, costante orientamento di questa Corte, appare evidente che il censurato art. 11 si pone in contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., poiché va ad invadere un territorio di competenza normativa residuale delle Regioni. Il comma 1 della disposizione, infatti, interviene a stabilire i requisiti che devono essere posseduti dai soggetti che promuovono i tirocini formativi e di orientamento. La seconda parte del medesimo comma, poi, dispone che, fatta eccezione per una serie di categorie ivi indicate, i tirocini formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una durata superiore a sei mesi, proroghe comprese, e possono essere rivolti solo ad una determinata platea di beneficiari. In questo modo, però, la legge statale – pur rinviando, nella citata prima parte del comma 1, ai requisiti «preventivamente determinati dalle normative regionali» – interviene comunque in via diretta in una materia che non ha nulla a che vedere con la formazione aziendale.

D’altra parte, che la normativa in esame costituisca un’indebita invasione dello Stato in una materia di competenza residuale delle Regioni è confermato dal comma 2 del censurato art. 11, il quale stabilisce la diretta applicazione – in caso di inerzia delle Regioni – di una normativa statale, ossia l’art. 18 della legge n. 196 del 1997 – peraltro risalente ad un momento storico antecedente l’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001 – che prevede l’adozione di una disciplina volta a «realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, attraverso iniziative di tirocini pratici e stages a favore di soggetti che hanno già assolto l’obbligo scolastico».

L’art. 11 del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, pertanto, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione, rimanendo assorbiti gli ulteriori parametri richiamati. FT



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Inserito in data 27/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 dicembre 2012, n. 292

Principi in tema di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie private

La Corte dichiara l’illegittimità di diversi commi della legge della Regione Campania n. 4 del 2011, laddove essa viola i principi fondamentali, stabiliti dalla legislazione statale, in materia di autorizzazione e vigilanza sulle istituzioni sanitarie private.

In particolare, viene ribadita la distinzione, successiva al riordino del sistema sanitario, tra gli aspetti che attengono all’ autorizzazione, prevista per l’esercizio di tutte le attività sanitarie, da quelli che riguardano l’ accreditamento delle strutture autorizzate. Ai sensi del d.lgs. n. 502 del 1992, quanto all’ autorizzazione, vengono stabiliti requisiti minimi di sicurezza e qualità per poter effettuare prestazioni sanitarie. Per l’accreditamento occorrono, invece, requisiti ulteriori (rispetto a quelli necessari all’autorizzazione) e l’accettazione del sistema di pagamento a prestazione. La Corte ha riconosciuto che tali disposizioni rappresentano principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, che le Regioni devono rispettare: nel caso dell’autorizzazione,  indipendentemente dal fatto che la struttura intenda o meno chiedere l’accreditamento; con riguardo ai requisiti ulteriori, invece, non potendosi attribuire l’accreditamento ope legis a strutture di cui viene presunta la regolarità, indipendentemente dal possesso effettivo di tali requisiti. La legislazione statale, d’altra parte, ha stabilito un passaggio graduale dal sistema precedente (convenzionale, basato sul pagamento dei fattori produttivi) a quello nuovo (basato sul pagamento delle prestazioni, previo accreditamento delle strutture). Si è così previsto un accreditamento temporaneo per le strutture precedentemente convenzionate, che avessero accettato il sistema di pagamento a prestazione, nonché un accreditamento provvisorio per le strutture nuove, o per attività nuove in strutture accreditate per altre attività, in attesa della verifica del volume e della qualità delle prestazioni. Peraltro, la conseguenza della disciplina transitoria di cui sopra, è il fatto che, in attesa che si perfezioni il procedimento di verifica, potrebbero operare, addirittura in regime di accreditamento (temporaneo o provvisorio), strutture che poi si vedano negare, per mancanza dei requisiti, l’accreditamento definitivo o l’autorizzazione all’esercizio di ulteriori attività sanitarie; ciò sia in ragione di difetti strutturali, sia in conseguenza di eventuali violazioni dei tetti di spesa. Per questo, il legislatore statale ha previsto che le Regioni avviino una procedura di accreditamento (definitivo o istituzionale) anche per le strutture temporaneamente accreditate, da concludersi inderogabilmente entro un termine finale stabilito dalla legge. Anche tale termine, poi, è espressione di un principio fondamentale che le Regioni sono tenute a rispettare, dovendosi fare salve solo quelle discipline regionali di proroga che, in presenza di situazioni “eccezionali”, lungi dal costituire sanatoria di situazioni illegali, rappresentino un mezzo per consentire e promuovere la regolarizzazione delle posizioni dei soggetti privati ancora aperte, senza dover procedere alla revoca dell’autorizzazione. In ordine al termine finale per il passaggio dall’accreditamento provvisorio a quello definitivo, infine, deve rilevarsi come esso sia stato prorogato sino al 1° gennaio 2013, mantenendo però fermo per le strutture ospedaliere e ambulatoriali il termine già fissato del 1° gennaio 2011.

Sulla scorta delle predette considerazioni, tra le altre, la Corte ha dichiarato illegittime le disposizioni che “prevedono una procedura di accreditamento che si articola in due fasi. La prima è rappresentata dalla conferma dell’accreditamento provvisorio mediante decreto commissariale di presa d’atto, per le domande regolarmente ammesse sulla piattaforma informatica applicativa. La seconda è costituita dalla verifica dei requisiti di accreditamento, che avviene in un momento successivo alla presa d’atto. In tal modo si finisce per riconoscere l’accreditamento definitivo senza previa verifica dei requisiti ulteriori richiesti dal legislatore statale, la cui mancanza determina significativamente, ai sensi della normativa qui in discussione la revoca dell’accreditamento, che perciò deve intendersi già riconosciuto sin dal momento della presa d’atto”.

Inoltre, sono state oggetto di censura quelle previsioni che consentono “alle strutture di fisiokinesiterapia, già provvisoriamente accreditate, di presentare domanda di accreditamento istituzionale per l’area socio-sanitaria, cioè per un’attività più ampia e diversa da quella per la quale dette strutture sono state autorizzate e provvisoriamente accreditate”. FT



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Inserito in data 27/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 dicembre 2012, n. 301

Controllo del personale di custodia e diritto alle relazioni affettive dei detenuti

Viene dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale della disposizione dell’ordinamento penitenziario, che prevede “il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, impedendo così a questi ultimi di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza”. La Corte premette che << l’ordinanza di rimessione evoca, in effetti, una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte a restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nel già ricordato istituto dei permessi premio, previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi – resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria. Si tratta di un problema che merita ogni attenzione da parte del legislatore >>. Secondo la Corte, tuttavia, << risulta evidente come un intervento puramente e semplicemente ablativo della previsione del controllo visivo sui colloqui – quale quello in apparenza richiesto dal giudice a quo, alla luce della formulazione letterale del petitum – si rivelerebbe, per un verso, eccedente lo scopo perseguito e, per altro verso, insufficiente a realizzarlo >>. Infatti, << il controllo a vista del personale di custodia non mira, in effetti, ad impedire in modo specifico ed esclusivo i rapporti affettivi intimi tra il recluso e il suo «partner», ma persegue finalità generali di tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e di prevenzione dei reati. L’ostacolo all’esplicazione del «diritto alla sessualità» ne costituisce solo una delle conseguenze indirette, stante la naturale esigenza di intimità connessa ai rapporti in questione. L’asserita necessità costituzionale di rimuovere tale conseguenza non giustificherebbe, dunque, la caduta di ogni forma di sorveglianza sulla generalità dei colloqui >>. Al tempo stesso, << l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe comunque, di per sé, a realizzare l’obiettivo perseguito, dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto di cui si discute: in particolare, occorrerebbe individuare i relativi destinatari, interni ed esterni, definire i presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, fissare il loro numero e la loro durata, determinare le misure organizzative. Tutte operazioni che implicano, all’evidenza, scelte discrezionali, di esclusiva spettanza del legislatore: e ciò, anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte, in particolare con quelle legate all’ordine e alla sicurezza nelle carceri e, amplius, all’ordine e alla sicurezza pubblica >>. Infine, ritiene la Corte, il problema non potrebbe nemmeno essere superato ritenendo che il giudice a quo abbia richiesto una sentenza additiva “di principio che << risulterebbe, infatti, essa stessa espressiva di una scelta di fondo. Nella prospettiva del giudice a quo, il «diritto alla sessualità» intra moenia dovrebbe essere, infatti, riconosciuto ai soli detenuti coniugati o che intrattengano rapporti di convivenza stabile more uxorio, escludendo gli altri (si pensi, ad esempio, a chi, all’atto dell’ingresso in carcere, abbia una relazione affettiva “consolidata”, ma non ancora accompagnata dalla convivenza, o da una convivenza «stabile»). Detta soluzione non solo non è l’unica ipotizzabile (come di nuovo attestano i progetti di legge in materia), ma non appare neppure coerente con larga parte dei parametri costituzionali evocati dallo stesso giudice a quo: talora “per eccesso”, talaltra “per difetto” >>. FT



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Inserito in data 27/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 27 dicembre 2012, n. 316

Art 26 co 2 cpa, sanzione al soccombente in caso di orientamenti consolidati

Il TAR Lazio ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 23, 24, 97, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 246-bis del Codice dei contratti pubblici (rubricata «Responsabilità per lite temeraria»), che stabilisce, nell’ambito dei giudizi in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, che il giudice, fermo restando quanto disposto dall’articolo 26 del codice del processo amministrativo, «condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio quando la decisione è fondata su ragioni manifeste od orientamenti giurisprudenziali consolidati».

La Corte ha rilevato che << successivamente alla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione, [il primo decreto correttivo] ha determinato l’abrogazione della norma denunciata. Peraltro, lo stesso [correttivo] ha modificato l’art. 26, comma 2, del codice del processo amministrativo,  rubricato «Spese di giudizio» – e cioè la norma che il rimettente assume a tertium comparationis – nel senso del recepimento, della disciplina già oggetto della norma speciale abrogata, nella norma più generale di cui, appunto, al citato art. 26, comma 2. Pertanto, alla luce del sopravvenuto mutamento del quadro normativo sopra descritto (con incidenza non solo sulla norma denunciata, ma anche su quella assunta a tertium comparationis), gli atti devono essere rimessi al giudice a quo affinché proceda ad una nuova valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata. FT



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Inserito in data 27/12/2012
TAR SICILIA - CATANIA, SEZ. II, 24 dicembre 2012, n. 3059

Mobilità volontaria tra enti. Natura giuridica e giudice competente

Il Collegio etneo interviene in una controversia avente ad oggetto l’impugnazione degli atti di una procedura selettiva pubblica, inizialmente indetta da una Asl, ex art. 9 L. n. 150 del 2000, per il conferimento di un incarico a tempo determinato, proseguita, poi, in un’istanza di mobilità.

In merito a quest’ultima, nonché alle relative doglianze, i Giudici siciliani sottolineano la natura privatistica, con la conseguente ricaduta al cospetto dell’AGO.

Infatti, posto che per giurisprudenza ormai consolidata, spettano alla riserva residuale della giurisdizione amministrativa – ex art. 63 4’ co. T.U. 165/01 - solo le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto con la P.A., spetta, invece, al G.O. tutta la restante parte del contenzioso in tema di pubblico impiego.

In particolare, la mobilità volontaria tra enti – ex art. 30 D. Lgs. 165/01 – codificata quale fattispecie di cessione del contratto e modificazione soggettiva del rapporto di lavoro, ha una chiara indole privatistica; né può trarre in inganno, prosegue il Collegio, la posizione soggettiva di colui il quale ne fa istanza, al pari dell’odierno ricorrente.

Si tratta, infatti, di "un interesse legittimo di diritto privato", che non è altro che un diritto soggettivo perfetto; il che conferma, ancora, la necessaria devoluzione al G.O.

Appare congruo, pertanto, il difetto di giurisdizione sollevato dall’Amministrazione resistente e la necessaria rimessione all’AGO – in funzione di giudice del lavoro, data l’acclarata natura gestionale propria della procedura di mobilità, in quanto mera cessione di un contratto. CC



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Inserito in data 23/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 dicembre 2012, n. 6673

Confermata competenza TAR Lazio in caso di impugnativa silenzio in tema di cittadinanza

Il Collegio amministrativo, ripercorrendo giurisprudenza anche recente, sottolinea gli effetti non territorialmente delimitati del provvedimento in ambito di concessione della cittadinanza italiana, attribuendovi identica valenza anche in un’eventuale condotta omissiva da parte dell’Amministrazione competente.

Pertanto, l’eventuale silenzio serbato in tale ambito dovrà essere sindacato dal Giudice laziale, a nulla rilevando che eventuali lacune del procedimento possano essersi verificate in ambito locale, come l’appellato contesta.

E’ assolutamente preminente l’atto conclusivo, per l’appunto emanato dall’Amministrazione centrale; è il solo dotato di rilevanza esterna, in merito al quale, pertanto, è condivisibile la tesi dell’Amministrazione appellante che richiede l’attrazione di questioni, pari a quelle odierne, in favore del Collegio romano. CC



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Inserito in data 23/12/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, GRANDE SEZIONE, 19 dicembre 2012, C - 159/11

Obbligo della gara anche tra Enti pubblici

La Corte di giustizia, nella sua massima composizione, ribadisce il principio della priorità della gara anche nei contratti di cooperazione tra Enti pubblici.

In particolare, il Giudice europeo era stato investito dell’odierna questione da parte del Consiglio di Stato, incerto riguardo alla possibilità che la normativa comunitaria potesse o meno ostare ad una disciplina nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale due enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, quale quella controversa, rientrante nell’ambito della ricerca scientifica.

I Giudici di Lussemburgo risolvono la vicenda ricordando propria giurisprudenza ormai salda, in merito all’assoluta ininfluenza riguardante la natura dell’operatore, la mancanza di un preminente scopo di lucro, o di una struttura imprenditoriale, o di una presenza continua sul mercato.

Pertanto, trattandosi, nel caso di specie, di servizi di ricerca e sviluppo comunque contemplati dalla direttiva 2004/18, la relativa vicenda contrattuale ricade nell’alveo degli appalti pubblici e, come tale, postula l’espletamento della previa gara ad evidenza pubblica, in ossequio ai principi di libera concorrenza, perseguibili, dunque, anche nei rapporti tra più Amministrazioni. CC



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Inserito in data 20/12/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. I, 19 dicembre 2012, C - 68/11

Condannata l’Italia per violazione della normativa sulle polveri

I Giudici di Lussemburgo, affermando che la Repubblica italiana, avendo omesso di provvedere affinché le concentrazioni di PM10 nell’aria ambiente non superassero, nelle 55 zone e agglomerati italiani i valori limite fissati dall’articolo 5 della direttiva 1999/30/CE è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tale disposizione, accolgono le doglianze palesate in ricorso dalla Commissione europea.

Tale Organo, infatti, aveva già diffidato lo Stato italiano a fronte di una simile condotta, palesemente difforme rispetto alla normativa UE in materia di tutela dello spazio atmosferico e controllo dell’inquinamento.

Né era valsa, a giustificazione dell’errato contegno italiano, l’estrema complessità del fenomeno, da mantenere entro certi valori – limite, dichiarati come difficilmente controllabili; viene, pertanto, acclarata l’inadempienza dell’Italia. CC

 

 



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Inserito in data 20/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 dicembre 2012, n. 6527

Corresponsione somme per espletamento di mansioni superiori e differenze retributive

Il Collegio ricorda una posizione già assestata in merito all’eventuale espletamento, da parte di un dipendente pubblico, di mansioni avente carattere superiore rispetto alla propria qualifica di appartenenza.

Infatti, richiamando una pronuncia resa dall’Adunanza n. 3 del 2006 e recentemente confermata da altre Sezioni di codesto Organo – Sez. V, 7 novembre 2012, n. 5647, i Giudici ricordano che il diritto del dipendente pubblico che abbia svolto mansioni superiori al trattamento economico va riconosciuto solo a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387.

In data anteriore al sopravvenire dell’appena citato ius superveniens, come nel caso dell’odierno appellante, l’esercizio di simili attività erano considerate prive di ogni rilievo. Appare, quindi, un’immediata conseguenza, la necessaria reiezione di ogni pretesa risarcitoria, quale quella azionata in questa sede. CC



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Inserito in data 20/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 dicembre 2012, n. 6544

Inidoneità all’esito di accertamenti tecnici. Portata del vizio di motivazione carente

I Giudici accolgono i motivi di appello addotti dall’Amministrazione sulla base della consueta perimetrazione dei poteri spettanti all’Organo giurisdizionale.

Questi, infatti, non può sovrapporre il proprio sindacato a valutazioni tecnico – discrezionali spettanti, fisiologicamente, all’Amministrazione.

Un simile passo, alla stregua di quello compiuto – in tal caso - dal Collegio di primo grado, finirebbe con il determinare un’ingerenza eccessiva del Giudice su valutazioni esorbitanti il suo effettivo potere.

In forza di ciò, non è possibile vagliarne l’eventuale carenza in ambito motivazionale, come quivi lamentata, trattandosi di considerazioni comunque scaturenti da accertamenti tecnici, sulla cui portata e validità è dato solo all’Amministrazione il potere di intervenire.

Appare, pertanto, meritevole di accoglimento la censura mossa dall’Amministrazione, le cui risultanze, in sede di accertamenti valutativi dell’idoneità del candidato, non appaiono inficiate da incongruenze tanto grandi e manifeste; ovvero, gli unici vizi in grado di postulare una pronuncia giurisdizionale. CC

 

 

 

 



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Inserito in data 17/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. I, parere 7 dicembre 2012, n. 5218

Ricorso a mobilità esterna: non vi è onere di motivare mancato utilizzo graduatorie

In tema di utilizzazione di una graduatoria di un pubblico concorso per attribuire agli idonei i posti di organico resisi successivamente disponibili, un consolidato indirizzo giurisprudenziale ritiene che la nomina di idonei nei posti vacanti costituisce una facoltà e non un obbligo per l'amministrazione, trattandosi di un potere che rientra, di norma, nella discrezionalità dell'Ente, fatte salve situazioni particolari in cui il legislatore abbia espressamente disposto l'obbligo per l'Amministrazione di procedere allo scorrimento della graduatoria. E’ stato infatti osservato che il c.d. scorrimento della graduatoria e la successiva assunzione postula necessariamente una decisione dell'amministrazione di coprire il posto (si deve trattare di posti non solo vacanti, ma anche disponibili, e tali diventano sulla base di apposita determinazione): decisione che una volta assunta risulta equiparabile all'espletamento di tutte le fasi di una procedura concorsuale, con l'identificazione degli ulteriori vincitori. In altri termini, il diritto all'assunzione sorge con il completamento di una fattispecie complessa: perdurante efficacia di una graduatoria e decisione di avvalersene per coprire i posti vacanti (Cass. SS.UU. 18 giugno 2008, n. 16527). Con la conseguenza che il soggetto risultato idoneo ad un concorso pubblico sussiste soltanto una posizione di mera aspettativa all'utilizzo della graduatoria per scorrimento ed all'assunzione.

Va anche richiamata la decisione del Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria n. 14 del 2011 ai sensi della quale “l'Amministrazione, una volta che abbia deciso di provvedere alla copertura dei posti vacanti, è tenuta a motivare in ordine alle ragioni che la inducono ad optare per una o l'altra forma di reclutamento, e cioè il concorso pubblico ovvero lo scorrimento di graduatoria ancora efficace, ma tenendo nel debito conto che l'ordinamento attuale afferma un generale favore per l'utilizzazione delle graduatorie degli idonei, avente anche una chiara finalità di contenimento della spesa pubblica che il concorso pubblico comporta, e che recede solo in presenza di speciali discipline di settore o di particolari circostanze di fatto o di ragioni di interesse pubblico prevalenti, che devono, comunque, essere puntualmente enucleate nel provvedimento di indizione del nuovo concorso”. Tale decisione, nella specie, a fronte della decisione del Comune di riformulare il programma di assunzioni contendendo le spese, ricorrendo, fra l’altro, non alla dispendiosa scelta di indire nuove procedure concorsuali ma di fare ricorso alla mobilità o a procedure di interscambio a costo zero, si appalesa giustificata. La preferenza affermata dalla Adunanza Plenaria per il ricorso allo scorrimento della graduatoria rispetto all’indizione di una nuova procedura concorsuale, si giustifica pienamente ma non può essere riferita al diverso caso in cui allo scorrimento della graduatoria sia preferito il ricorso alla procedura di mobilità di personale proveniente da altre amministrazioni , ciò atteso il fatto che la mobilità consente varie finalità quali l’acquisizione del personale già formato, l’immediata operatività delle scelte, l’assorbimento di eventuale personale eccedentario ed i risparmi di spesa conseguenti a tutte le ricordate situazioni. Ne consegue il rigetto del ricorso. FT 

 

 

 



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Inserito in data 17/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 dicembre 2012, n. 284

Decreto Salva Italia, attribuzioni in tema di immobili degli enti territoriali

Le doglianze avanzate dalla Regione ricorrente – formalmente rivolte all’intero art. 27 [del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214] ma sviluppate, nei motivi, solo in riferimento ai commi 1 e 2 – fanno dunque leva, essenzialmente, sulla pretesa lesione della sfera delle attribuzioni legislative regionali in tema di gestione del patrimonio immobiliare delle Regioni. Si sottolinea, in particolare, come gli interventi legislativi censurati si iscrivano in un complesso di misure che, da un lato, concentrano in capo alla Agenzia del demanio un ruolo determinante nella valorizzazione, trasformazione, gestione ed alienazione del patrimonio pubblico, anche di proprietà delle Regioni e degli enti locali controllati, così da rivelare un intendimento dello Stato di pervenire ad una diretta e abnorme gestione di questi processi; dall’altro, finiscono con lo specificare nel dettaglio competenze e procedure al di là di una semplice normativa di principio, quale dovrebbe essere quella statale in materie – quali il governo del territorio e la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico – a legislazione concorrente. Entrambi i motivi di impugnazione non sono, però, persuasivi, avuto riguardo alla cornice entro la quale deve iscriversi il provvedimento legislativo oggetto di censura e, in tale ambito, alla ratio che risulta ispirare le peculiari e composite disposizioni dettate in tema di valorizzazione e gestione del patrimonio immobiliare pubblico.

Ebbene, non sembra dubbio che il nucleo della pur complessa disciplina dettata dal decreto-legge n. 201 del 2011 (e che ne ha costituito in larga misura la “giustificazione” anche sul piano dei relativi presupposti di straordinaria necessità ed urgenza) è rappresentato – come emerge dal relativo preambolo (nel quale, in sintesi, si addita il fine «di garantire la stabilità economico-finanziaria del Paese nell’attuale eccezionale situazione di crisi internazionale e nel rispetto del principio di equità, nonché di adottare misure dirette a favorire la crescita, lo sviluppo e la competitività») – dall’esigenza di introdurre meccanismi multisettoriali (misure in tema di sviluppo ed equità; in tema di rafforzamento del sistema finanziario nazionale ed internazionale; in tema di consolidamento dei conti pubblici, fra le quali quelle relative alle riduzioni di spesa, alla riduzione del debito pubblico, e, in particolare, alle dismissioni immobiliari, qui in discorso, nonché in tema di concorrenza e di sviluppo industriale ed infrastrutturale) evidentemente appartenenti al complesso dei provvedimenti riconducibili alla manovra finanziaria e, perciò, naturalmente attribuibili alla materia “coordinamento della finanza pubblica”. Si tratta, infatti, di interventi che si saldano strettamente alle misure che, nell’attuale fase, compongono il piano di stabilizzazione e che, del resto, tendono ad allinearsi alle raccomandazioni a tal proposito fornite, anche di recente, dagli organismi dell’Unione europea. La prospettiva evocata dalla Regione ricorrente appare, al contrario, ispirata  da una visione essenzialmente “patrimonialistica”, e finisce per risultare, perciò, eccentrica rispetto al contesto del provvedimento censurato: il quale, lungi dal proporre una contaminazione delle competenze circa la titolarità dei beni in questione, introduce unicamente meccanismi volti alla ottimizzazione complessiva del patrimonio immobiliare pubblico, incidendo in primo luogo sul profilo funzionale della sua destinazione ed utilizzazione economica. Il profilo, per così dire, “finanziario” appare, in altri termini, del tutto prevalente rispetto a quello meramente “patrimoniale” dei diritti, o delle competenze, che gli enti territoriali esercitano su quei beni, consentendo di ricondurre l’innesto normativo censurato nel panorama, come già detto, delle misure di coordinamento della finanza pubblica.

Sembra, anzi, potersi rilevare – tanto sul piano del linguaggio normativo quanto su quello contenutistico, desumibile dallo stratificato succedersi delle varie iniziative legislative sulla materia qui in discorso – come la legislazione statale appaia da tempo  generalmente orientata a introdurre discipline del patrimonio immobiliare “pubblico” considerato nel suo complesso, indipendentemente, cioè, dalla questione della specifica appartenenza dei singoli beni a questo o a quello tra i diversi enti pubblici territoriali coinvolti; e ciò nella ovvia prospettiva di tracciare obiettivi di “governo” rispondenti a fini e interessi generali o comuni, destinati a concorrere, ma su un piano prevalentemente finanziario, alla gestione dei beni da parte del singolo ente che ne disponga a titolo meramente “dominicale”. L’oggetto – o, se si vuole, la materia – dell’intervento finisce, quindi, per non riguardare i singoli immobili degli enti coinvolti, ma piuttosto l’insieme del patrimonio immobiliare pubblico, individuato come entità a sé stante, e rispetto al quale – quindi – i criteri di gestione ottimale, sul piano economico-finanziario, non possono che essere, per ovvie ragioni, uniformi su tutto il territorio nazionale.

D’altra parte, rispetto a materie tanto complesse ed articolate come il “coordinamento della finanza pubblica”, specie se ragguagliato ad un settore strutturalmente e funzionalmente composito come la gestione del patrimonio immobiliare degli enti pubblici, soltanto in presenza di una legislazione statale che effettivamente “esproprii” – nello specifico settore preso in considerazione e in misura inaccettabile rispetto agli obiettivi perseguiti dalla normazione di principio – gli spazi della autonomia regionale, potrà dirsi intervenuto un vulnus sul versante della relativa sfera di attribuzione legislativa. Ma perché una simile ipotesi possa risultare concretamente verificata occorrerebbero dei sicuri indici di riconoscimento, che attestassero uno sviamento della funzione normativa di “principio”, con correlativa invasione nella sfera della funzione normativa di “dettaglio”, non legittima, del resto, proprio perché non essenziale alla prima. Evenienza, questa, che, per le predette ragioni, non si è realizzata nel caso di specie. FT

 

 



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Inserito in data 17/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 dicembre 2012, n. 280

Art 30 co 5 cod proc amm: inammissibile questione di legittimità costituzionale

Il giudice a quo ha ritenuto che la domanda proposta col ricorso in esame non fosse attinente né alla esecuzione del giudicato di annullamento né ad un danno da mancata esecuzione di giudicato. Ha escluso che nel giudicato di annullamento formatosi sulla citata sentenza del TAR (e già eseguito dall’Amministrazione) fosse compresa «anche la corresponsione degli emolumenti economici per la durata dell’efficacia del provvedimento annullato», rimarcando che «tale adempimento attiene alla refusione di danno da provvedimento illegittimo e non costituisce effetto naturale del giudicato di annullamento», ed ha ritenuto che la fattispecie «si inquadra perfettamente nell’ambito precettivo dell’art. 112, comma 4, cod. proc. amm.» (norma oggi abrogata dall’art. 1, comma 1, lettera cc, n.2, del d.lgs. n. 195 del 2011, ma vigente all’epoca dell’ordinanza di rimessione).

Tuttavia, così operando, il TAR ha trascurato di considerare che non si limitava ad una semplice qualificazione giuridica della domanda, rientrante senz’altro nei poteri del giudice prescindendo dalle indicazioni di parte o dalla loro assenza, ma dava luogo ad una modifica sostanziale della causa petendi azionata dalla parte privata, così incorrendo nel vizio di extrapetizione e sostituendo la domanda proposta con una diversa, in violazione dell’art. 112 del codice di procedura civile, pacificamente applicabile anche al processo amministrativo e comunque oggetto del rinvio di cui all’art. 39 del relativo codice (Nella giurisprudenza è, infatti, costante l’affermazione del principio di diritto secondo cui il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen juris diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta né allegata in giudizio dalle parti, (ex plurimis: Corte di cassazione, sezione terza, sentenza 3 agosto 2012, n. 13945; sezione seconda, sentenza 17 luglio 2007, n. 15925; sezione prima, sentenza 12 aprile 2006, n. 8519 e sezione quinta, sentenza 1° settembre 2004, n. 17610; Consiglio di stato, sezione quinta, sentenza 27 dicembre 2011, n. 3191; sezione quinta, sentenza 17 febbraio 2010, n. 910; sezione quinta, sentenza 2 novembre 2009, n. 6713).

Sulla base dei rilievi che precedono, la valutazione di rilevanza effettuata dal giudice a quo non appare plausibile, perché egli ha  denunciato una norma – l’art. 30, comma 5, del d.lgs. n. 104 del 2010 – della quale non doveva fare applicazione, in quanto estranea al tema sottoposto al suo esame. Ne deriva l’inammissibilità della questione. FT

 

 

 



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Inserito in data 15/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 12 dicembre 2012, n. 38

Portata dell’art. 13, c. 4 bis C.p.A. introdotto dal 2’ Correttivo – D. Lgs. 160/12

Il sommo Consesso amministrativo interviene, ancora una volta, sui criteri di delimitazione della competenza per territorio, specie a seguito degli ulteriori interventi realizzati con il secondo decreto correttivo del Codice del processo amministrativo – D. Lgs. n. 160 del 14 settembre 2012.

In particolare, ricordando che l’articolo 13 C.p.A. fissa il criterio ordinario di riparto della competenza per territorio con riguardo a quello della sede dell’Autorità amministrativa cui fa capo l’esercizio del potere oggetto della controversia – come chiarito, altresì, dall’Adunanza Plenaria n. 33/12 – i Giudici sottolineano la peculiarità dell’aggiunta normativa, effettuata con il suddetto Decreto del settembre scorso – al comma 4 bis.

Quest’ultimo, infatti, disponendo che “la competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti, tranne che si tratti di atti normativi o generali, per la cui impugnazione restano fermi gli ordinari criteri di attribuzione della competenza”, intende evidentemente evitare la produzione di effetti distorsivi, sulla perimetrazione del Giudice territoriale, per effetto di atti aventi valenza meramente endoprocedimentale.

Una simile natura, per l’appunto, viene riconosciuta alle delibere dirigenziali con funzione di presupposto della vicenda oggetto dell’odierno scrutinio, con il conseguente radicarsi della competenza per territorio in capo al TAR periferico.

Si tratta, infatti, di una sequenza procedimentale i cui effetti si producono interamente in ambito regionale, con la conseguente necessità che il Giudice chiamato sia quello territorialmente più vicino, come il sommo Consesso, in tale sede, ancora una volta ricorda. CC



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Inserito in data 15/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 6 dicembre 2012, n. 273

Impignorabilità somme di Enti pubblici. Q.l.c. art. 1 l. Reg. Puglia n. 23/03

I Giudici della Consulta sanciscono l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Puglia 10 ottobre 2003, n. 23 - Disposizioni urgenti in materia di Consorzi di bonifica e di personale forestale – nella parte in cui estendeva l’impignorabilità di somme proprie di un Consorzio regionale, il cui patrimonio era soggetto ad esecuzione forzata, oltreché la rilevabilità di tale situazione ostativa, da parte del Giudice locale, secondo tempi e modi propri.

Una simile statuizione, come è evidente, finirebbe con l’incidere su circostanze – quali quelle relative alla responsabilità patrimoniale del debitore, l’impignorabilità ed insequestrabilità di taluni beni, aventi valenza nazionale e, come tali, insuscettibili di disciplina particolareggiata ad opera di un Legislatore regionale, come accaduto nel caso in esame.

Si finirebbe, infatti, con il creare una situazione di estrema eterogeneità in una materia, quale quella relativa al soddisfacimento delle ragioni dei creditori, avente come imprescindibile sottofondo talune situazioni giuridiche soggettive meritevoli, invece, di un trattamento omogeneo su tutto il territorio nazionale e, proprio perché tali, spettanti al Legislatore statale – ex art. 117 – 2’ co. lett. l) della Costituzione.

In guisa di ciò i Giudici, riecheggiando pronunce pregresse rese in situazioni simili, dichiarano l’illegittimità dell’intervento legislativo regionale, ritenendo oltrepassata una materia, quale quella dell’ordinamento del diritto privato che, per ovvie ragioni costituzionali di eguaglianza, costituisce un limite alla legislazione regionale, meritando, invece, un’unica regolamentazione a livello statale. CC



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Inserito in data 15/12/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. I, 6 dicembre 2012, C - 430/11

Portata della Direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio cittadini irregolari

La Corte UE fornisce ancora chiarimenti sulla portata della Direttiva europea del 2008, in merito al rimpatrio degli immigranti irregolari.

In particolare, intervenendo sulla vicenda di un venditore ambulante senza fissa dimora, chiamato dinanzi al Tribunale locale per il proprio soggiorno irregolare, i Giudici di Lussemburgo specificano che gli arresti domiciliari, eventualmente disposti a suo carico, non possano bloccare l’espulsione, su tale soggetto, comunque incombente.

Infatti, chiarisce la Corte, la suddetta Direttiva deve essere interpretata nel senso che osta “alla normativa di uno Stato membro che consente di reprimere il soggiorno irregolare di cittadini di paesi terzi con un obbligo di permanenza domiciliare, senza garantire che l’esecuzione di tale pena debba cessare a partire dal momento in cui sia possibile il trasferimento fisico dell’interessato fuori di tale Stato membro”.

Infatti, posto che l’obbligo di permanenza domiciliare potrebbe ritardare e ostacolare le misure di accompagnamento alla frontiera e di rimpatrio forzato per via aerea, la direttiva Ue non ammette che uno Stato membro sanzioni il soggiorno irregolare con l'obbligo di permanenza domiciliare, laddove non possa essere garantito che la pena termini non appena sia possibile trasferire l'interessato fuori dallo Stato membro.CC



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Inserito in data 13/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 11 dicembre 2012, n. 37

Limiti di applicabilità del criterio del c.d. foro speciale del pubblico impiego

Il Massimo Collegio, investendo incidentalmente una questione di peculiare interesse, quale la propria necessaria composizione ai fini della elezione di un Giudice della Corte Costituzionale, si esprime sulla portata dei criteri individuati dal C.p.A. in vista di un regolamento di competenza di tale portata.

Infatti, a seguito di un decreto del Presidente del Consiglio di Stato, con il quale era stato negato il diritto di elettorato attivo per l’elezione di un Giudice costituzionale ai componenti cc.dd. laici del C.G.A., questi ultimi provvedevano alla relativa censura dinanzi al TAR palermitano.

La Difesa erariale, rappresentando il Presidente del Sommo Consesso e ritenendo errata la designazione del Giudice siciliano, proponeva, invece, il TAR Lazio, in considerazione di vari aspetti.

Infatti, non solo valorizzando gli effetti finali che l’atto in questione era destinato a produrre, nonché l’Autorità emanante, emergeva la competenza del Collegio laziale; ma, altresì, applicando il c.d. foro speciale del pubblico impiego – ex art. 13 – 2’ co. C.p.A. – come richiamato dai ricorrenti, l’esito non sarebbe stato dissimile.

Al di là della peculiarità della vicenda, invero difficilmente inquadrabile in un rapporto di pubblico impiego, è, infatti, altrettanto indubbio che il suddetto criterio sia stato frequentemente soggetto a deroghe.

Come già espresso dall’Adunanza Plenaria n. 20 del 16 novembre 2011, infatti, «il foro speciale della sede di servizio dell’impiegato ricorrente è destinato a cedere rispetto alla regola generale della sede dell’autorità emanante quando fra gli atti impugnati ve ne sia qualcuno che sia idoneo a spiegare effetti al di fuori dell’ambito circoscrizionale del Tribunale periferico o nei confronti di altri impiegati».

Tanto, per l’appunto, ricorre nella peculiare vicenda in esame in cui è incontestabile che il provvedimento scrutinato appartenga ad una sequenza procedimentale più ampia, destinata a produrre effetti sul territorio nazionale nonché riguardante interessi pubblici di gran lunga soverchianti la sfera di un presunto rapporto d’impiego che, in tale sede, non riveste nemmeno i requisiti voluti dal suddetto articolo 13 – 2’ co. C.p.A.

In guisa di ciò, il Massimo Collegio non esita a dichiarare la competenza del TAR Lazio – sede di Roma. CC

 

 



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Inserito in data 13/12/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. I, 13 dicembre 2012, C - 215/11

La Corte fissa i parametri della c.d. domanda di ingiunzione europea

I Giudici di Lussemburgo,ricordando che “il regolamento, benché non sostituisca né armonizzi i meccanismi nazionali di recupero di crediti non contestati, intende istituire un meccanismo uniforme per il recupero di crediti”, intervengono in una controversia avente ad oggetto la portata ed i limiti di una domanda d’ingiunzione di pagamento europea. Essa, dice la Corte, deve possedere caratteri comuni, specie in merito al regime delle spese di giudizio o alla maturazione degli interessi.

Infatti, precludendo ai singoli Stati la possibilità di prescrivere, nella propria legislazione nazionale, requisiti aggiuntivi, sarebbe possibile evitare un aggravio della complessità, della durata e dei costi del procedimento europeo d’ingiunzione di pagamento – quali quelli oggetto della censura odierna.

In quest’ottica di auspicata uniformità sul piano europeo, la Corte conclude chiarendo, infine, che il creditore debba avere la possibilità di richiedere l’integralità degli interessi maturati fino alla data del pagamento dell’importo principale del credito, in modo da non penalizzare lo strumento comunitario rispetto a quelli nazionali magari a lui più favorevoli. CC

 

 

 



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Inserito in data 11/12/2012
LA NUOVA DISCIPLINA DEL CONDOMINIO

Approvato il progetto di legge di riforma del condominio: in evidenza le novità più importanti

La Commissione Giustizia del Senato, in data 20 novembre, ha approvato definitivamente in sede deliberante il progetto di legge di riforma del condominio, già passato al vaglio della Camera.

Il testo, che si propone di riformare organicamente le disposizioni del Codice Civile in materia di condominio, entrerà in vigore dopo sei mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Di seguito, vengono evidenziate le novità più importanti introdotte dalla riforma, anche attraverso l’accostamento con le precedenti disposizioni codicistiche. FT



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Inserito in data 09/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, 15 novembre 2012, n. 251

Illegittimo l’art 69 co 4 cp (divieto prevalenza attenuanti su recidiva reiterata)

L’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 ha sostituito il quarto comma dell’art. 69 cod. pen., sul giudizio di bilanciamento delle circostanze, stabilendo, tra l’altro, un divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti su quella prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., e il giudice a quo prospetta l’illegittimità costituzionale di tale norma «nella parte in cui esclude che la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5,d.P.R. 309/90 possa essere dichiarata prevalente sulla recidiva reiterata», con la precisazione che «la questione si appunta sulla sola circostanza attenuante specificamente indicata, senza carattere di generalità», perché in altri casi il divieto può trovare giustificazione.

 La manifesta irragionevolezza delle conseguenze sul piano sanzionatorio del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata è resa evidente dall’enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite dal legislatore per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione citata e dagli effetti determinati dal convergere della deroga al giudizio di bilanciamento sull’assetto delineato dallo stesso art. 73: nel caso di recidiva reiterata equivalente all’attenuante, il massimo edittale previsto dal quinto comma per il fatto di “lieve entità” (sei anni di reclusione) diventa il minimo della pena da irrogare; ciò significa che il minimo della pena detentiva previsto per il fatto di “lieve entità” (un anno di reclusione) viene moltiplicato per sei nei confronti del recidivo reiterato, che subisce così di fatto un aumento incomparabilmente superiore a quello specificamente previsto dall’art. 99, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata, che, a seconda dei casi, è della metà o di due terzi.

Le rilevanti differenze quantitative delle comminatorie edittali del primo e del quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 rispecchiano, d’altra parte, le diverse caratteristiche oggettive delle due fattispecie, sul piano dell’offensività e alla luce delle stesse valutazioni del legislatore: il trattamento sanzionatorio decisamente più mite assicurato al fatto di “lieve entità”, la cui configurabilità è riconosciuta dalla giurisprudenza comune solo per le ipotesi di «minima offensività penale» (Cass. pen., sezioni unite, 24 giugno 2010, n. 35737), esprime una dimensione offensiva la cui effettiva portata è disconosciuta dalla norma censurata, che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato. Due fatti, quelli previsti dal primo e dal quinto comma dell’art. 73, che lo stesso assetto legislativo riconosce come profondamente diversi sul piano dell’offesa, vengono ricondotti alla medesima cornice edittale, e ciò «determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale» (sentenza n. 249 del 2010) ... La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità.

È da aggiungere che, come ha rilevato il rimettente, la norma censurata dà luogo anche a una violazione del principio di uguaglianza perché il recidivo reiterato, cui siano riconosciute le attenuanti generiche, autore di un fatto “non lieve” da punire con il minimo edittale della pena stabilita dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, riceve lo stesso trattamento sanzionatorio – quest’ultimo irragionevolmente più severo – spettante al recidivo reiterato, cui pure siano riconosciute le attenuanti generiche, ma autore di un fatto di “lieve entità”.

È fondata anche la censura formulata dal giudice a quo in relazione al principio di proporzionalità della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). La disciplina censurata, nel precludere la prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, realizza, come è stato già rilevato da questa Corte con riferimento ad altra fattispecie, «una deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze» (sentenza n. 183 del 2011); nel caso in esame, infatti, il divieto legislativo di soccombenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante dell’art. 73, comma 5, deld.P.R. n. 309 del 1990 impedisce il necessario adeguamento, che dovrebbe avvenire attraverso l’applicazione della pena stabilita dal legislatore per il fatto di “lieve entità”. L’incidenza della regola preclusiva sancita dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. sulla diversità delle cornici edittali prefigurate dal primo e dal quinto comma dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, che viene annullata, attribuisce alla risposta punitiva i connotati di «una pena palesemente sproporzionata» e, dunque, «inevitabilmente avvertita come ingiusta dal condannato» (sentenza n. 68 del 2012). FT

 

 

 

 



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Inserito in data 09/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, 15 novembre 2012, n. 252

Graduabilità della confisca obbligatoria di strumenti finanziari ex art 187 sexies TUF

La Corte di appello ... dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 187-sexies, commi 1 e 2, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, anche per equivalente, degli strumenti finanziari «movimentati» tramite le operazioni integrative dell’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, «senza consentire all’autorità amministrativa prima e al giudice investito dell’opposizione poi di graduare anche tale misura in rapporto alla gravità in concreto della violazione commessa».

Nel denunciare le conseguenze ultra modum che possono scaturire, in determinati contesti, dalla previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei beni strumentali alla commissione dell’illecito, specialmente se contemplata anche nella forma «per equivalente» – problema in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore – il giudice a quo invoca, in effetti, una pronuncia che, per i suoi contenuti, esorbita dai poteri di questa Corte. Nell’attuale panorama ordinamentale, la confisca – tanto penale che amministrativa – è, infatti, sempre e soltanto una misura “fissa”. L’alternativa “di sistema” al regime dell’obbligatorietà è quella della facoltatività (è quest’ultima, appunto, la regola generale in tema di confisca amministrativa dei beni impiegati per commettere la violazione, rispetto alla quale la norma censurata assume carattere derogatorio: art. 20, terzo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, recante «Modifiche al sistema penale»): nel qual caso, peraltro, la discrezionalità della pubblica amministrazione o del giudice si esplica esclusivamente in rapporto all’an della misura. La confisca può essere disposta o meno: ma, se disposta, colpisce comunque nella loro interezza il bene o i beni che ne costituiscono l’oggetto tipico. La Corte torinese non chiede, peraltro, di trasformare, in parte qua, la confisca prevista dall’art. 187¬-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 da obbligatoria in facoltativa: chiede, invece, di introdurre un innovativo “terzo regime”, a carattere intermedio (la “graduabilità”), a fronte del quale la discrezionalità amministrativa o giudiziale si esplicherebbe in relazione al quantum. La confisca degli «strumenti finanziari movimentati» resterebbe, cioè, obbligatoria, ma non “obbligatoriamente integrale”: la CONSOB e il giudice dell’opposizione stabilirebbero, infatti, per quale parte i predetti strumenti finanziari, o il relativo controvalore, debbano essere assoggettati alla misura ablativa, sulla base del parametro costituito dalla gravità in concreto della violazione (peraltro, senza che risulti chiaro se vi sia un limite minimo oltre il quale il preconizzato potere di abbattimento del quantum non potrebbe andare, e quale esso eventualmente sia). Per questo verso, l’intervento richiesto assume, dunque, il carattere di una “novità di sistema”: circostanza che lo colloca al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, per rimetterlo alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via esclusiva alle scelte del legislatore. FT

 



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Inserito in data 09/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, 22 novembre 2012, n. 258

Notifica della cartella di pagamento agli irreperibili: disciplina applicabile

Nel merito, il rimettente deduce, tra l’altro, che la disciplina della notificazione da effettuarsi a soggetto temporaneamente assente dalla sua casa di abitazione o dal luogo in cui ha l’ufficio od esercita l’industria o il commercio è ingiustificatamente diversa (nel caso in cui non sia possibile consegnare l’atto per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone abilitate alla ricezione), a seconda che oggetto della notificazione sia un atto di accertamento oppure una cartella di pagamento. Nel primo caso, infatti, si applicherebbero le modalità di notificazione previste dall’art. 140 cod. proc. civ.; nel secondo, invece, solo quelle previste dall’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, che garantiscono al destinatario una minore conoscibilità dell’atto. La questione è fondata.

Tale peculiarità della normativa riguardante la notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile comporta che, nella notificazione di un atto di accertamento, l’avvenuto deposito di tale atto nella casa comunale viene comunicato al destinatario sia con l’affissione di un avviso alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, sia con l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento e, quindi, secondo modalità improntate al criterio dell’effettiva conoscibilità dell’atto. Viceversa, nella notificazione di una cartella di pagamento, l’avvenuto deposito di questa nella casa comunale non viene comunicato al destinatario, né con l’affissione alla porta, né con l’invio di una raccomandata informativa, ma – essendo prevista solo l’affissione nell’albo del Comune – secondo modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella. Tale disciplina, con riferimento alla cartella di pagamento, non assicura, dunque, né l’«effettiva conoscenza da parte del contribuente», né, quale mezzo per raggiungere tale fine, la comunicazione «nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della […] amministrazione» finanziaria; finalità queste fissate dal comma 1 dell’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente). Siffatta evidente diversità della disciplina di una medesima situazione (notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile) non appare riconducibile ad alcuna ragionevole ratio, con violazione dell’evocato art. 3 Cost. Per ricondurre a ragionevolezza il sistema, è necessario pertanto, nel caso di irreperibilità “relativa” del destinatario, uniformare le modalità di notificazione degli atti di accertamento e delle cartelle di pagamento. A questo risultato si perviene restringendo la sfera di applicazione del combinato disposto degli artt. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. n. 600 del 1973 alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile e, quindi, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. In altri termini, la notificazione delle cartelle di pagamento con le modalità indicate dal primo comma, alinea e lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 deve essere consentita solo ove sussista lo stesso presupposto richiesto dalla medesima lettera e) per la notificazione degli atti di accertamento: la mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario (irreperibilità “assoluta”) ... Nei casi di irreperibilità “relativa” (cioè nei casi di cui all’art. 140 cod. proc. civ.), sarà applicabile, con riguardo alla notificazione delle cartelle di pagamento, il disposto dell’ultimo comma dello stesso art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, in forza del quale – come visto – «Per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto» n. 600 del 1973 e, quindi, in base all’interpretazione data a tale normativa dal diritto vivente, quelle dell’art. 140 cod. proc. civ., cui anche rinvia l’alinea del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. FT

 

 



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Inserito in data 07/12/2012
CORTE COSTITUZIONALE, 6 dicembre 2012, n. 272

Illegittimità costituzionale per eccesso di delega della previsione del carattere obbligatorio della mediazione.

Ecco i passaggi più importanti della motivazione:

Come emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati atti dell’Unione europea non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21 maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2, della direttiva citata). Allo stesso principio, come risulta dal dispositivo, s’ispira la sentenza della Corte di giustizia richiamata nel paragrafo che precede ... Pertanto, la disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri, purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la definizione giudiziaria delle controversie. Ne deriva che l’opzione a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla normativa censurata, non può trovare fondamento nella citata disciplina. Infatti, una volta raggiunta tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il contenuto della legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria.

Si deve ora procedere all’interpretazione della legge delega (art. 60 della legge n. 69 del 2009), al fine di verificare il rispetto dei principi da essa posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010 e, in particolare, delle disposizioni oggetto di censure. Orbene, la detta legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3, non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso. Non si potrebbe ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art. 60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a carattere obbligatorio.

Il denunciato eccesso di delega, dunque, sussiste, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto di conciliazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa delegata.

Né giova il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 276 del 2000. Invero, con quella pronuncia fu dichiarata (tra l’altro) non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis cod. proc. civ. ... La Corte pervenne a tale decisione escludendo (tra l’altro) che le norme censurate fossero viziate da eccesso di delega. ... La sentenza n. 276 del 2000, per giungere alla conclusione secondo cui «L’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie ex art. 409 del codice di procedura civile ha dunque rispettato la delega» (punto 2.5. quarto capoverso, del Considerato in diritto), fece leva sia sul contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore. La fattispecie qui in esame è, invece, diversa: a parte la differenza di contesto, essa delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun ancoraggio nella legge delega. Né varrebbe addurre che l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in relazione ai quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in riferimento all’istituto in esame. Infine, quanto alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla giustizia.

In definitiva, alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione di questi [ndr nonché l’illegittimità delle altre disposizioni del d. lgs. n. 28, che si rende necessaria in via consequenziale alla decisone adottata]. FT

 

 

 

 



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Inserito in data 04/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 29 novembre 2012, n. 36

 Gara d’appalto, competenza a verificare la congruità delle offerte sospette di anomalia

Nel caso di specie, la previsione regolamentare non è applicabile ratione temporis, trattandosi di gara il cui bando è stato pubblicato anteriormente all’entrata in vigore del d.P.R. nr. 207 del 2010; è invece applicabile l’art. 88 del Codice nella versione novellata nel 2009, essendo il medesimo bando successivo al menzionato intervento riformatore. La tesi dell’odierno appellante è che, prima e indipendentemente dalle specificazioni introdotte in sede regolamentare, il comma 1-bis dell’art. 88 sia applicabile unicamente alle gare da aggiudicare con il criterio del prezzo più basso, e non anche a quelle da aggiudicare col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa: per queste ultime, sarebbe prevalente il già richiamato principio che individua nella commissione aggiudicatrice l’organo competente in via esclusiva per qualsiasi attività valutativa (e, quindi, anche per quelle connesse alla verifica di congruità delle offerte). L’adunanza plenaria ritiene di non condividere tale impostazione.

In definitiva, l’opzione interpretativa qui accolta risulta maggiormente in linea con la logica complessiva del sistema normativo in subiecta materia: è il giudizio sulla complessiva attendibilità dell’offerta economica meno agganciato a valutazioni di natura tecnico-scientifica e più direttamente connesso con scelte rimesse alla stazione appaltante, quale espressione di autonomia negoziale in ordine alla convenienza dell’offerta ed alla serietà e affidabilità del concorrente che dell’Amministrazione è destinato a divenire l’interlocutore contrattuale. Quanto sopra induce l’adunanza plenaria ad escludere che, nel caso che occupa, l’aver proceduto direttamente il R.U.P. alla verifica di anomalia possa costituire ex se un vizio di legittimità della procedura, e quindi a respingere il primo motivo di impugnazione.

Nelle gara d’appalto da aggiudicare col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa è legittima la verifica di anomalia dell’offerta eseguita, anziché dalla commissione aggiudicatrice, direttamente dal responsabile unico del procedimento avvalendosi degli uffici e organismi tecnici della stazione appaltante. Infatti, anche nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 121 del d.P.R. 5 ottobre 2010, nr. 207, è attribuita al responsabile del procedimento facoltà di scegliere, a seconda delle specifiche esigenze di approfondimento richieste dalla verifica, se procedere personalmente ovvero affidare le relative valutazioni alla commissione aggiudicatrice. FT

 

 



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Inserito in data 04/12/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 dicembre 2012, n. 6161

Lavoro domenicale senza riposo compensativo e ambito della prova per presunzioni

Il collegio non ignora che diverse sentenze di questo Consiglio di Stato (cfr. da ultimo sez. VI, 8 marzo 2012, n. 1317; 15 luglio 2010, n. 4553), modificando un precedente orientamento di segno contrario, hanno affermato, ritenendo di uniformarsi alla più recente giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione circa il danno non patrimoniale, che, nel caso in cui il lavoratore sia stato adibito ad attività lavorativa anche nel giorno destinato al riposo settimanale (senza, peraltro, aver goduto di alcun riposo compensativo), laddove il medesimo lavoratore richieda, in relazione alle indicate modalità della prestazione, il risarcimento del danno non patrimoniale per usura psicofisica, ovvero per la lesione del diritto alla salute o del diritto alla libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, questi è tenuto, comunque, ad allegare e provare in termini reali, sia nell'an che nel quantum, il pregiudizio del suo diritto fondamentale, nei suoi caratteri naturalistici nonchè nella sua dipendenza causale dalla violazione dei diritti patrimoniali di cui all'art. 36 Cost. (...) Ora, vero è che la giurisprudenza ha ripudiato il convincimento che in questi casi il danno sia in re ipsa e che non necessiti di alcuna prova. Va peraltro osservato che la predetta sentenza delle Sezioni unite ha segnalato (al p. 4.10 della motivazione), circa il pregiudizio non patrimoniale diverso dal danno biologico, che: “Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto”. Non senza ricordare che la menzionata sentenza ha segnalato, è vero, che la prova del danno biologico richiede l’accertamento medico-legale. Ma anche che, “così come è nei poteri del  giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni”.

Questo spunto argomentativo intercetta un tema fondamentale di questa controversia e del processo amministrativo in generale: l’ambito della prova per presunzioni semplici e l’allegazione dei fatti come suo limite. La prova per presunzioni semplici vale a facilitare l'assolvimento dell'onere della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l'onere della prova contraria: una volta che la presunzione semplice si sia formata, e sia stata rilevata (cioè, una volta che del “fatto base” sul quale si fonda sia stata data o risulti la prova), essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, in quanto l'una e l'altra trasferiscono a colui contro il quale esse depongono l'onere della prova contraria (Cass., 13 giugno 2006, n. 13546). Per questo, il giudice attraverso il ricorso alle presunzioni può sopperire alla carenza di prova, ma non anche al mancato esercizio dell'onere di allegazione, concernente sia l'oggetto della domanda che le circostanze in fatto su cui la stessa si fonda (Cass., 13 maggio 2011, n. 10527). Ragion per cui la prova per presunzioni semplici postula l’allegazione dei fatti della parte interessata. FT

 

 

 



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Inserito in data 02/12/2012
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, SEZ. VII, 29 novembre 2012, T 590/10

Politica economica dell’UE. Talvolta è legittimo il segreto BCE

Il Tribunale europeo, respingendo il ricorso di una nota testata giornalistica inglese, ha ritenuto legittimo il rifiuto all’accesso di propri documenti, portato avanti dalla Banca Centrale europea.

Questa, infatti, valutando la pericolosità di talune informazioni di natura finanziaria, riguardanti, nella specie, la gravissima crisi economica greca, ha giustamente ritenuto non ostensibili i relativi documenti.

E’, in primo luogo, la necessaria tutela dell’interesse pubblico, suscettibile di essere leso dalla divulgazione di informazioni così delicate, ad aver spinto la Banca europea ad una simile valutazione, adesso avallata dal Giudice, specie in vista di una valida ed efficace politica economica europea che, per la peculiarità degli interessi coinvolti, deve essere fortemente difesa. CC



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Inserito in data 01/12/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 28 novembre 2012, n. 21111

Il Consiglio di Stato ed il vizio di eccesso di potere giurisdizionale

Gli Ermellini intervengono ancora una volta, in linea con l’orientamento da ultimo sempre più diffuso, sui confini esterni dell’esercizio del potere giurisdizionale da parte del Massimo Organo di giustizia amministrativa.

Nel caso in esame, la Suprema Corte specifica la portata dell’intervento dei giudici amministrativi in materia di appalti, perimetrandone la portata del giudizio di conformità dei prodotti, oggetto della gara di cui si chiede l’odierno scrutinio.

In particolare, i Giudici affermano, infatti, che “né l’operazione, consistente nella corretta individuazione del contenuto e della portata della regola stabilita nella lex specialis del concorso, né quella risolventesi in un accertamento nei fatti, necessario al fine di applicare la suddetta regola, esulano dal normale esercizio della giurisdizione di legittimità”.

E’ possibile, infatti, che il Collegio amministrativo ponderi il contenuto, nonché la corrispondenza rispetto al capitolato di gara, delle offerte presentate dalle ditte partecipanti, senza che ciò comporti un’ingerenza del potere giurisdizionale sull’attività tecnica spettante alla stazione appaltante.

Non si tratta, dicono gli Ermellini, di incidere su una sfera di discrezionalità riservata all’Amministrazione; anche perché si tratterebbe, comunque, di un ambito connotato da un alto grado di tecnicismo, invero non pervaso da alcun merito che, altrimenti, non sarebbe ponderabile dai Giudici.

Piuttosto, si è in presenza di un accertamento di fatti rilevante ai fini del decidere sulla legittimità dell’agere amministrativo, come tale perfettamente rientrante nell’alveo della giurisdizione dell’Organo di giustizia amministrativa che, pertanto, non è suscettibile, nel caso in esame, di censura da parte del Giudice della giurisdizione. CC




Inserito in data 01/12/2012
TAR MARCHE, SEZ. I, 23 novembre 2012, n. 753

Viola la legge un’ordinanza contenente misure urgenti in tema di randagismo

Il Collegio marchigiano, dietro istanza di un’Associazione contro l’attività venatoria, sottolinea l’illegittimità di un’ordinanza emessa da un Ente locale, statuente il divieto di somministrare alimenti ad animali randagi.

Una simile previsione, infatti, parrebbe evidentemente iniqua, data la contrarietà alle norme di legge.

In particolare, tanto la legge quadro nazionale n. 281/91, dettata a prevenzione del randagismo e a tutela degli animali d’affezione, quanto la legge regionale n. 10/97, che prevede il controllo di un simile fenomeno oltre alla protezione del benessere degli animali, hanno una cogenza tale da inficiare l’attività amministrativa in tal guisa esercitata.

E’ ovvio corollario, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata, limitatamente alle parti oggetto dell’odierna censura. CC



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Inserito in data 29/11/2012
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I, 28 novembre 2012, n. 9879

Ammissibilità di un ricorso ex art. 1 D.Lgs. n. 198/09 per l’efficienza P.A.

La pronuncia in esame è significativa poiché consente, attraverso un significativo excursus in merito all’evoluzione normativa della c.d. class action per l’efficienza della P.A., di ravvisarne gli aspetti essenziali.

Nel dettaglio, infatti, i Giudici laziali, pur riconoscendo la legittimazione processuale dell’Associazione ricorrente, ravvedono un evidente limite contenutistico all’azione dalla stessa promossa.

In particolare essa, richiamando il Ministero della Giustizia affinchè si munisca, in modo più sollecito ed attento, di strutture territoriali e controlli che consentano di evitare la lesione del diritto dei minori alla bigenitorialità in sede di separazione, divorzio e verifica della potestà dei propri genitori, parrebbe fuoriuscire dall’ambito del D. Lgs del 2009 – in tema di efficienza pubblica.

In tal guisa, infatti, l’Associazione a tutela dei minori non si duole di un mancato efficientismo dell’Amministrazione, bensì finisce con l’entrare nel merito, contestando la cattiva applicazione della Legge n. 54/2006 – sulla bigenitorialità, appunto - da parte dei competenti organi giurisdizionali e, per tale via, criticando l’esercizio della stessa funzione giurisdizionale, che in qualche modo si vorrebbe reindirizzare attraverso lo stimolo di un’azione di controllo e verifica da parte del Ministero della Giustizia, quivi non comparso.

Appare evidente, quindi, come la ricorrente abbia superato, tradendola, l’impostazione del Legislatore delegato del 2009, con la conseguente inammissibilità di una simile censura, che il Collegio laziale non esita a dichiarare. CC



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Inserito in data 29/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 novembre 2012, n. 6089

Sui presupposti della misura del divieto di accesso agli impianti sportivi - DASPO

Il Collegio, confermando la pronuncia del primo Giudice ed avallando giurisprudenza ormai salda, ricorda come la misura del divieto di accesso agli impianti sportivi (c.d. "DASPO") possa essere disposta non solo nel caso di accertata lesione, ma anche in caso di pericolo di lesione dell’ordine pubblico, come nel caso di condotte che comportino o agevolino situazioni di allarme, al pari di quelle qui contestate.

Inoltre, nel sancire la regolarità del provvedimento impugnato, i Giudici sottolineano la pregnanza e l’utilità di una simile misura, in quanto rivolta essenzialmente a comportamenti collettivi sulla cui potenziale pericolosità, altrimenti, non sarebbe stato possibile agire in sede individuale. CC



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Inserito in data 27/11/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 12 novembre 2012, n. 19595

Altre conferme, in punto di giurisdizione, in tema di Pubblico Impiego privatizzato 

Il Massimo Organo di giurisdizione ordinaria interviene, ancora una volta, in materia di riparto di giurisdizione nelle controversie relative a procedure concorsuali, nell’ambito del pubblico impiego privatizzato.

In particolare, distinguendo sulla base della natura della domanda eventualmente avanzata, gli Ermellini ricordano come sia differente la pretesa al riconoscimento del diritto allo “scorrimento” della graduatoria del concorso espletato, rispetto a quella con la quale l’interessato censuri la scelta discrezionale dell’Amministrazione di provvedere alla copertura di posti dirigenziali vacanti mediante lo scorrimento della graduatoria del concorso in precedenza espletato, anziché tramite l’indizione di un nuovo concorso.

Si tratta, rispettivamente, di azionare posizioni giuridiche soggettive decisamente diverse: mentre nel primo caso, infatti, si fa valere il c.d. diritto all’assunzione, trovandosi, ormai, il candidato al di fuori della procedura concorsuale. Nell’altro caso, invece, ciò che si censura è la scelta discrezionale dell’Amministrazione, in merito alla ricorribilità o meno allo strumento concorsuale, con conseguente profilarsi di un interesse legittimo del ricorrente.

E’ immediato corollario, dunque, la corrispondente ripartizione tra G.O. e G.A., che le Sezioni Unite non esitano, in tale sede, ad evidenziare, in ossequio ai precetti costituzionali doverosamente qui richiamati.  CC




Inserito in data 27/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. I, parere 13 novembre 2012, n. 4802

Modalità attuative delle forme di esenzione IMU. Richiamo al diritto dell’UE

La Sezione Consultiva, sollecitata dal Ministero dell’Economia e Finanze, chiarisce la portata di un regolamento recante disposizioni in merito alle modalità attuative delle esenzioni IMU.

In particolare il Collegio, ricordando la pregnanza dei principi di provenienza comunitaria a proposito dei criteri di definizione degli enti commerciali e non, appare discorde rispetto a taluni settori, sulla cui natura non commerciale e conseguente esenzione, come prevista dallo schema di regolamento, appunto, Esso dissente.

Tali Giudici, infatti, osservano che anche nei settori presi in considerazione dall'art. 4 dello schema di regolamento (attività assistenziale, sanitaria, didattica, ricettiva, culturale, ricreativa e sportiva), pur svolti da operatori in apparenza "non commerciali" possono, in taluni casi, trovarsi a svolgere attività economiche in concorrenza con analoghi servizi offerti da altri operatori economici.

Pertanto occorre, dicono i Giudici, che lo Stato faccia chiarezza, allineandosi al diritto dell’Unione europea che, già da tempo,  ha inquadrato in che modo il carattere non economico debba qualificare l’attività non commerciale.

Richiamando, tra le righe, l’ormai imprescindibile dogma della neutralità della forma giuridica, codesto Collegio evidenzia, infatti, come anche enti non commerciali possano svolgere attività commerciali, assumendo, in tal guisa, necessariamente natura economica ai sensi del diritto dell’Unione europea; con la conseguenza che gli immobili destinati a tali attività saranno soggetti al pagamento dell’IMU, non potendo beneficare dell’esenzione quivi discussa.

La Sezione consultiva, pertanto, ritenendo necessario inserire e valorizzare nel testo del regolamento il concetto di attività economica, inteso in senso comunitario, invita ad una maggiore coerenza con i menzionati principi di provenienza europea, anche allo scopo di evitare il rischio di una procedura di infrazione avente ad oggetto il nuovo atto normativo, oggetto dell’odierno esame. CC



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Inserito in data 26/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 19 novembre 2012, n. 34

Competenza territoriale inderogabile del TAR estesa anche all’atto presupposto

Il Massimo Collegio amministrativo interviene in tema di competenza per territorio, chiarendo la portata dell’art. 13 C.p.A. – come da ultimo integrato dall’art. 1, lett. a), del c.d. 2’ Decreto correttivo - D.lgs. 14 settembre 2012 n. 160.

In particolare, ricordando il principio secondo cui “La competenza territoriale relativa al provvedimento da cui deriva l’interesse a ricorrere attrae a sé anche quella relativa agli atti presupposti dallo stesso provvedimento”, i Giudici attribuiscono natura endoprocedimentale e, come tale, priva di efficacia immediatamente lesiva, all’informativa prefettizia supplementare atipica antimafia.

Questa, svolgendo i propri effetti nell’ambito del diniego di autorizzazione al subappalto, di cui costituisce atto presupposto, rientra nella sfera di cognizione del T.A.R. al quale compete, data la connessione tra il potere svolto e l’ambito territoriale, di conoscere di un tale provvedimento negativo, quale quello, appunto, oggetto della vicenda in esame. CC



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Inserito in data 26/11/2012
TAR ABRUZZO - L'AQUILA, SEZ. I, 20 novembre 2012, n. 789

Sui limiti circa l’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente

A fronte di una pretesa, avanzata dall’Amministrazione comunale con il ricorso ad uno strumento straordinario – quale quello di cui all’art. 54 TUEL, volta alla rimozione di uno sbarramento che un cittadino aveva apposto ad una strada, asserendone la proprietà privata, il Collegio abruzzese oppone la carenza di fondamento.

Parrebbero non sussistere, infatti, quei presupposti di indifferibilità ed urgenza, oltreché di fondato pericolo per la pubblica incolumità, necessari a fondare il ricorso ad uno strumento extra ordinem, quale quello adottato dall’Ente resistente e quivi discusso.

Pertanto il Collegio aquilano, ricordando il possibile ricorso, da parte dell’Amministrazione, all’autotutela possessoria o ad altri strumenti maggiormente garantisti e regolari sotto il profilo procedurale, sancisce l’illegittimità ed il conseguente annullamento dell’ordinanza censurata.  CC



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Inserito in data 24/11/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. I, 22 novembre 2012, C - 136/11

Trasporto ferroviario: diritto ad una maggiore tutela a favore del passeggero

La Corte dell’Unione europea, in linea con la costante attenzione prestata a favore della libera circolazione dei cittadini, detta alcuni principi significativi anche in tema di trasporto ferroviario.

In particolare, afferma che tali passeggeri debbano essere informati dei ritardi o delle soppressioni di tutti i treni, indipendentemente dall’impresa ferroviaria che li garantisca; dispone, altresì, a carico di tutte le imprese ferroviarie, la necessità che esse rendano accessibili simili informazioni, in tempo reale e con riguardo a tutte le compagnie di viaggio.

Diversamente, infatti, affermano i Giudici europei, si rischierebbe di compromettere l’obiettivo d’informazione perseguito dal diritto dell’Unione, incoraggiando i passeggeri a preferire solo le grandi imprese ferroviarie, eventualmente già in grado di fornire loro, in tempo reale, informazioni relative a tutte le tappe del loro viaggio. CC

 



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Inserito in data 24/11/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 22 novembre 2012, n. 257

Lavoratrici dipendenti ed iscritte a gestione separata: stesso diritto all’indennità

La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 64 – 2’ co. - D.lgs. n. 151/01, come integrato dal richiamo al D.M. 4 aprile 2002 del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, nella parte in cui, relativamente alle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2 – 26’ co. - L. n. 335/95, che abbiano adottato o avuto in affidamento pre - adottivo un minore, prevede l’indennità di maternità per un periodo di tre mesi anziché di cinque.

La disparità di trattamento, rispetto a quello più favorevole previsto a favore delle dipendenti, non solo crea un’irragionevole discrasia tra le due categorie di lavoratrici, ma è foriera, altresì, di un’inadeguata assistenza al minore che, proprio per la priorità dell’interesse da tutelare, non è possibile ammettere.

Pertanto, alla luce di tale preminente interesse, specie in contesti delicati quali quello dell’affidamento e dell’adozione – come nella presente pronuncia, i Giudici costituzionali sanciscono l’iniquità di un simile trattamento differenziato. CC



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Inserito in data 24/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 novembre 2012, n. 5808

Emersione dal lavoro irregolare e caratteri del relativo provvedimento di revoca

I Giudici di appello confermano quanto già sostenuto in primo grado, a proposito della validità del decreto con cui l’Amministrazione competente ha deciso di revocare il provvedimento di emersione dal lavoro irregolare, previamente disposto a favore dell’odierno appellante.

In particolare, non può trovare accoglimento la doglianza circa una carente e valida istruttoria, nell’ambito della quale lo straniero asseriva che avrebbe potuto essere meglio difeso, al momento del rilascio delle dichiarazioni riguardo la propria condizione lavorativa, oltreché assistito da un interprete.

Il Collegio infatti, ricordando la profonda diversità del giudizio amministrativo rispetto al rito penale, sottolinea come non occorresse in sede di istruttoria l’assistenza di un difensore, né, ancor di più di un interprete, stante il contenuto delle dichiarazioni, circa la propria data di approccio al lavoro, sulla cui veridicità il medesimo appellante non discute.

Né, infine, vale la censura in merito alla mancata comunicazione di avvio del procedimento,  dal momento che il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso a norma dell’art. 21 octies, co. 2, secondo periodo, della legge n. 241/1990, come la medesima Amministrazione ha prontamente affermato e dimostrato. CC



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Inserito in data 24/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 22 novembre 2012, n. 5939

Impugnazione di sanzioni pecuniarie irrogate dalla CONSOB, post Consulta n. 162/12

Il Collegio, con tale pronuncia, conferisce immediata e chiara applicazione del suddetto arresto dei Giudici costituzionali, in tema di impugnazione di sanzioni pecuniarie irrogate dalla CONSOB.

Infatti, ricordando come ai sensi dell’art. 136 della Costituzione e 30 – 3’ co. - della legge n. 87 del 1953 (sul funzionamento della Corte Costituzionale), le norme dichiarate incostituzionali cessino di avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, con la sola eccezione dei vincoli scaturenti dal giudicato e dai rapporti esauriti, codesti Giudici sottolineano l’ormai avvenuta espunzione dal mondo giuridico delle precedenti previsioni in materia, di cui agli artt. 133, comma 1, lettera l), 135, comma 1, lettera c) e 134, comma 1, lettera c) del decreto legislativo 2 luglio 2010 n. 104 – Codice del Processo amministrativo – C.p.A.

Pertanto, sancendo la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo in merito a tale ambito, oltreché la conseguente reviviscenza delle vecchie disposizioni illegittimamente abrogate, contenute nel D.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, che restituiscono alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla Consob, il Collegio declina la propria giurisdizione, a favore di quella ordinaria.

Con tale azione, inoltre, i Giudici applicano altri importanti principi di rango processuale  posto che, annullando la pronuncia di primo grado e disponendo la rimessione all’AGO, ricordano il necessario mantenimento degli effetti processuali inizialmente collegati alla domanda – ex art. 11 – 7’ co. C.p.A. CC

 



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Inserito in data 22/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2012, n. 5902

Giudice competente ad intervenire sul diritto all’assunzione con contestazione di quello altrui

Il Collegio, avallando la pronuncia di primo grado, conferma un orientamento giurisprudenziale già assestato in tema di assunzione a pubblico impiego.

L’appellante, infatti, ha contestato la posizione assunta dal primo Giudice, ritenendo che il c.d. petitum sostanziale della propria domanda fosse riferito all’illegittimità dell’assunzione delle altre dipendenti - controinteressate, posto che l’Ente locale, in sede di assunzione, avrebbe dovuto attingere alla propria graduatoria, in cui ella era collocata in terza posizione.

Sulla base di una simile impostazione, l’appellante ravvedeva l’esercizio di un potere autoritativo da parte dell’Ente e, pertanto, giustificava così la devoluzione effettuata a favore del Giudice amministrativo.

Il Collegio, invece, unitamente ai Giudici di primo grado, collega l’interesse della ricorrente alla necessità di vedere riconosciuto il proprio diritto all’assunzione con contestazione di quello altrui; materia, questa, devoluta all’A.G.O. in funzione di Giudice del lavoro – ex art. 63 – D. Lgs. 165/01.

Trattandosi, quindi, di una doglianza avente carattere esclusivamente descrittivo, episodico e condizionale, collocata nell’ambito delle procedure di stabilizzazione degli L.S.U., è corretta la rimessione al G.O., come già previamente disposto e quivi confermato. CC



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Inserito in data 22/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 21 novembre 2012, n. 5892

Giudizio di inidoneità all’arruolamento; accertamento tecnico e carente discrezionalità

A fronte delle doglianze palesate dall’Amministrazione appellante, i Giudici ricordano come, in un contesto quale quello dell’accertamento della statura ai fini dell’arruolamento, non sia possibile replicare, in un ambito giurisdizionale, le valutazioni tecniche compiute dall’Amministrazione in sede concorsuale.

Si tratta, infatti, di mero accertamento tecnico in relazione al quale non residua alcun margine di discrezionalità all’esito del giudizio.

E’, pertanto, corretta la valutazione già compiuta dal primo Giudice, in merito alla carente plausibilità di una misurazione, potenzialmente incisa anche da fattori esogeni che, comunque, non è possibile replicare in sede di giudizio. CC

 

 



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Inserito in data 20/11/2012
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, 20 novembre 2012, T – 589/11

Confermata la validità in ambito comunitario del marchio “Pagine Gialle”

Il Tribunale europeo, respingendo il ricorso di una società francese concorrente del nostro marchio “Pagine Gialle”, ne sancisce la rilevanza in ambito comunitario.

Infatti, sostengono i Giudici, che «non ci sono prove per concludere che (esclusa l'Italia), il pubblico di riferimento dell'Unione sia in grado di comprendere il significato di "Pagine Giallé", al punto da poterlo confondere con un’espressione simile, propria di un marchio affine, alla stregua di quanto affermato dall’azienda d’oltralpe.

Questa, in particolare, non ha dimostrato che i consumatori dell'Unione possano essere in grado di stabilire una connessione tra questa espressione ed altre equivalenti in altre lingue dell'Unione; non è provato, pertanto, il rischio di confusione tra le varie sigle aziendali e, di conseguenza, appare priva di senso la correlata istanza inoltrata, dalla concorrente francese, all'UAMI (Ufficio per l'Armonizzazione nel Mercato Interno).

I Giudici europei, inoltre, confermando l’attività di registrazione ottemperata dall’azienda italiana, in linea con la prassi commerciale dell'UE, ne asseriscono, pertanto, la natura di marchio denominativo comunitario. CC



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Inserito in data 20/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 novembre 2012, n. 5870

Corresponsione di somme dovute per lavoro straordinario. Ammessa autorizzazione ex post

A fronte di una contestata autorizzazione al lavoro straordinario, sul cui carente rilascio da parte propria l’Amministrazione sanitaria di appartenenza, quivi resistente, insiste, il Collegio riconosce la validità, sia pure in via residuale, di un’autorizzazione in sanatoria, in presenza di situazioni contingenti che abbiano reso indispensabile il ricorso alle prestazioni oltre il normale orario di servizio, risolvendosi detta autorizzazione nel riconoscimento a posteriori dell'utilità delle prestazione rese.

Non è possibile porre in discussione, nel caso concreto, che le prestazioni di lavoro siano state rese e che l’Amministrazione, effettivamente, ne abbia tratto vantaggio.

E’ corretto, pertanto, riconoscere il credito preteso dal medico appellante, tenendo conto, come ricordano codesti Giudici, che gli interessi dovuti non possono produrre a loro volta interessi e come nel calcolo della rivalutazione vada applicato l’indice vigente alla data della decisione, alla luce della più recente giurisprudenza in tal senso -  cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 18 del 13 aprile 2011. CC



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Inserito in data 17/11/2012
TAR PUGLIA - BARI, SEZ. II, 9 novembre 2012, n. 842

Occorre rivedere il principio dell’anonimato in sede di concorso

Il Collegio pugliese, ridimensionando la portata del criterio dell’anonimato nei concorsi pubblici, concede la misura cautelare a favore dello studente ricorrente, il cui elaborato era stato respinto per presunta riconoscibilità e rintracciabilità dello stesso.

In particolare, affermano i Giudici, la regola dell’anonimato deve essere letta restrittivamente, ovvero nella misura in cui il segno oggetto di esame assuma un carattere anomalo rispetto alle ordinarie manifestazioni del pensiero.

Non si può dire in tal senso in riguardo alla scaletta che il ricorrente aveva predisposto a supporto della propria prova; tanto più che la Commissione esaminatrice non aveva detto nulla in merito.

Da qui, pertanto, la fondatezza della pretesa avanzata dallo studente escluso.CC



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Inserito in data 17/11/2012
TAR SICILIA, CATANIA, SEZ. IV, 13 novembre 2012, n. 2613

Artt. 9 e 17 bis, 2’ co. R.D. 773/31 – TULPS. Sospensione e non revoca licenza

A fronte dell’avvenuta revoca della licenza di polizia per audizioni musicali, il ricorrente lamenta l’eccesso di potere da parte dell’Amministrazione intimata, oltreché un’errata applicazione delle norme di legge – di cui al TULPS.

Esse norme, invero, prevedono in un caso simile a quello oggi occorso, la sospensione e non la revoca della licenza.

E’ condivisibile, quindi, la contestata violazione degli articoli 9 e 17 bis, comma 2, R.D. 773/1931 (T.U.L.P.S.) mossa dal titolare dell’esercizio commerciale e, pertanto, la declaratoria di illegittimità, emessa dal Collegio etneo, del provvedimento di revoca quivi censurato. CC



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Inserito in data 15/11/2012
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, SEZ. VIII, 14 novembre 2012, T - 140/09

Controlli nelle aziende, purchè ci siano seri indizi

 Il Tribunale, perimetrando i confini di operatività della Commissione europea in merito alla regolamentazione delle ispezioni cui sottoporre le aziende, ne annulla parzialmente una decisione riguardante due imprese italiane, riguardo ad una possibile infrazione dalle stesse compiute in sede di tutela della concorrenza.

Infatti, prosegue il Tribunale “se la Commissione non fosse soggetta a limitazione, anzitutto essa avrebbe in pratica la possibilità - ogni volta che possiede un indizio legittimante il sospetto che un’impresa abbia commesso un’infrazione alle regole di concorrenza in un ambito preciso delle sue attività - di effettuare un accertamento riguardante l’insieme di tali attività e avente come fine ultimo di scoprire l’esistenza di qualsiasi infrazione alle regole suddette che tale impresa possa aver commesso. Il che sarebbe in contrasto con la tutela della sfera di attività privata delle persone giuridiche.

Principio, come ricorda il Giudice europeo, garantito quale diritto fondamentale in una società democratica. CC



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Inserito in data 15/11/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. III, 15 novembre 2012, C-539/10 P e C-550/10 P

Si al congelamento dei beni, purchè motivato

La Corte di Lussemburgo, intervenendo con il solito rigore in tema di lotta al terrorismo, ritiene che le misure di congelamento dei beni, disposte a carico del coniuge di un esponente di spicco contrario al processo di riappacificazione in Costa d’Avorio, siano conformi al diritto dell’Unione Europea.

E’ necessario, infatti, che il destinatario di tale provvedimento cautelare sia posto nella condizione di comprendere la portata della misura presa nei propri confronti; invero, tanto è accaduto nel caso in esame.

Ribadisce la Corte, infatti, che il controllo sull’obbligo di motivazione debba essere distinto dal controllo della legittimità nel merito di detti atti, che invece consiste nel verificare se gli elementi invocati siano stati effettivamente accertati e se essi potevano giustificare l’adozione delle misure in questione.CC



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Inserito in data 13/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 novembre 2012, n. 5714

Diritto di accesso ed al rilascio di cartella clinica. Risarcimento danni

 Il Collegio, confermando la pronuncia di primo grado, statuisce l’inammissibilità della domanda risarcitoria avanzata dalla ricorrente, in quanto formulata in maniera imprecisa ed estremamente generica.

Infatti, ciò che è oggetto di doglianza non è la mancata ostensione della cartella clinica da parte dell’Azienda sanitaria appellata; quanto, piuttosto, l’avvenuto accesso solo ad un aspetto del suddetto documento, la cui restante parte, invece non resa ostensibile, avrebbe arrecato un vulnus nella sfera morale e nell’equilibrio interiore della ricorrente.

Tuttavia, data la carenza  in ordine alla prova circa il nesso eziologico, presuntivamente ritenuto esistente fra il comportamento omissivo dell’Amministrazione in materia di accesso ed il danno che la paziente afferma di aver sofferto nella sfera morale, i Giudici respingono il relativo appello. CC



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Inserito in data 13/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 novembre 2012, n. 5716

Amministrazione penitenziaria e relativa applicabilità della Novella alla L. 104/92

 A fronte di un’istanza di trasferimento avanzata da un agente del Corpo di Polizia penitenziaria, i Giudici chiariscono la portata della norma speciale – l’art. 19 della L. 183/10 che, pronunciandosi riguardo al personale delle Forze armate,  parrebbe avere un effetto “inibitorio” delle modifiche del 2010, limitatamente a tali Organi.

Invero, un’esegesi attenta della norma censurata conduce, ad avviso del Collegio, a ritenere che tale “norma speciale” non faccia, comunque, specifico riferimento alle agevolazioni finalizzate all’assistenza dei familiari con disabilità grave.

Ne discende, pertanto, che il venir meno di taluni presupposti agevolatori, come depennati dal Legislatore del 2010 e che la Difesa erariale, nel caso in esame, avrebbe voluto ampliare, continuano a non applicarsi con riguardo alle categorie cui appartiene l’appellante. CC



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Inserito in data 11/11/2012
TAR ABRUZZO - L'AQUILA - SEZ. I, 10 novembre 2012, n. 772

Allontanamento dall’attività scolastica. Eccesso di potere

 Il Collegio abruzzese, pur ribadendo l’incontestabile gravità della condotta tenuta dallo studente ricorrente, ritiene ugualmente riscontrabile un eccesso di potere nella determinazione dell’Organo scolastico competente.

Esso, infatti, non ha dato fondamento alcuno alla gravissima sanzione irrogata che appare priva, infatti, di un regolamento che la contempli alla base, oltreché di una finalità rieducativa che, nella specie, non è stata affatto perseguita a vantaggio dell’allievo allontanato da ogni attività didattica.

Appare, pertanto, sussistente l’illegittimità del provvedimento disciplinare adottato, oltreché il diritto del ricorrente ad essere risarcito per il danno non patrimoniale connesso ai disagi psicologici ed esistenziali cui questi verosimilmente è andato incontro. CC



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Inserito in data 11/11/2012
TAR LOMBARDIA, BRESCIA - SEZ. II, 7 novembre 2012, n. 1767

Sequestro cautelativo per gravi carenze igienico-sanitarie; Giudice competente

I Giudici bresciani, intervenendo in punto di giurisdizione, chiariscono che, per quanto il sequestro cautelativo sia stato effettuato dalla ASL in base all’art. 13 della legge 689/1981 – sulla base di una propria potestà esercitata a fronte di gravi carenze sanitarie, l’ordine di distruzione delle provviste alimentari sequestrate sia, comunque, espressione della funzione amministrativa che tutela l’igiene e la sanità pubblica.

Il relativo sindacato, pertanto, spetterà al G.A., posto che, ad avviso di codesto Collegio, tale funzione si esplica attraverso provvedimenti del tutto assimilabili a ordinanze contingibili e urgenti. CC



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Inserito in data 09/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 novembre 2012 n. 5678

Diniego rinnovo porto d’armi; limiti sindacato su provvedimenti così discrezionali

Il Collegio, confermando una pronuncia resa dal TAR competente, ricorda la portata del sindacato del giudice amministrativo su atti di tal genere, caratterizzati da un’amplissima discrezionalità.

Infatti, trattandosi di provvedimenti destinati a far fronte a situazioni di obiettivo pericolo, per superiori ragioni di ordine pubblico e sicurezza della collettività, non consentirebbero al Giudice amministrativo una nuova ponderazione valutativa, comportante la riedizione di un’attività discrezionale, invero già compiuta dall’Autorità competente.

E’ pur vero, del resto, che nel sindacare la legittimità degli atti ampiamente discrezionali, la valutazione comparativa degli interessi contrapposti assume essenziale rilievo, in quanto espressione del principio di proporzionalità e di adeguatezza che, in tale sede, sono state ugualmente rispettate.

Pertanto, alla luce di tali valutazioni, il Collegio respinge l’appello, ricordando la possibilità che simili provvedimenti, proprio per l’accentuata discrezionalità che li connota, possano essere, comunque, eventualmente revocati dall’Organo competente a seguito di una nuova evoluzione dei fatti e di una conseguente, possibile valutazione discrezionale. CC



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Inserito in data 09/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 novembre 2012, n. 5695

Diniego permesso di soggiorno. Automatismo ex artt. 4, 3’ co. e 5, 5’ co. T.U. n. 286/98

Viene meno, nell’ipotesi in cui versava la straniera ricorrente, l’automatismo inerente al combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del t.u. n. 286/1998, concernente il diniego del permesso di soggiorno o del rinnovo dello stesso in caso di compimento di uno dei reati elencati nelle norme appena dette.

Il furto che la medesima ha commesso, infatti, è di speciale tenuità quanto a valore ed incidenza economica e, altresì, non ha comportato a suo carico l’arresto in flagranza.

L’Amministrazione appellata, pertanto, avrebbe dovuto compiere una nuova valutazione, ponderando la situazione complessiva in cui l'istante versava. CC



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Inserito in data 09/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 novembre 2012, n. 5696

Silenzio riguardo alla concessione di cittadinanza italiana. Competente TAR Lazio

La concessione della cittadinanza italiana è atto dell’amministrazione centrale dello Stato e produce effetti non territorialmente limitati ex art 13, commi 1 e 3, c.p.a.

In considerazione di ciò il Collegio, avallando la posizione del Viminale appellante, invero disattesa dal Giudice di primo grado, sancisce la competenza del TAR Lazio – sede di Roma – in merito tanto all’impugnazione di provvedimenti espressi che di diniego aventi ad oggetto simile materia.

Infatti, allineandosi ad un orientamento ormai saldo, i Giudici sottolineano l’inevitabilità che il giudice territorialmente competente a sindacare la legittimità del silenzio, sia lo stesso che è territorialmente competente a sindacare il provvedimento una volta che esso sia stato emanato ed invitano, pertanto, alla riassunzione del giudizio dinanzi al Collegio laziale. CC



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Inserito in data 06/11/2012
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. I, 25 ottobre 2012, n. 1747

Ottemperanza decreto di liquidazione somme previste ex lege n. 89/01

I Giudici pugliesi, riconoscendo al decreto di liquidazione di somme previste ex lege n. 89/01 – c.d. Legge Pinto - l’idoneità di cosa giudicata, stante la relativa natura decisoria e l’incidenza sui diritti soggettivi, ammettono il ricorso in ottemperanza del medesimo, come proposto dai ricorrenti. CC

 

 

Ottemperanza decreto di liquidazione somme previste ex lege n. 89/01 #diritto CC

 

 

 



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Inserito in data 06/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 5 novembre 2012, n. 5615

 

Atti sottratti al diritto di accesso. Limiti della discrezionalità in caso di ostensione

Il Collegio, ricollegandosi ad un orientamento ormai saldo, ricorda come, una volta acclarata la riconducibilità di un documento alle categorie di atti sottratti all’accesso, il divieto di ostensione sia cogente nei confronti della stessa P.A., alla quale non è consentito con propria valutazione discrezionale “desecretare” il documento medesimo.

Pertanto appare congruo, oltrechè conforme al disposto normativo di cui all’art. 24 – 2’ co. L. 241/90, il motivo di gravame dell’Amministrazione appellante che, richiedendo l’esclusione di ogni margine di discrezionalità in merito ad una possibile ostensione, si contrappone allo spazio, sia pur minimo, ravvisato invece dal Giudice di primo grado. CC

 

 

 



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Inserito in data 04/11/2012
TAR PUGLIA - LECCE, SEZ. III, 25 ottobre 2012, n. 1744

 

Ammissibilità del provvedimento di acquisizione ex art. 42 bis D.P.R. 327/01 

Il Collegio pugliese accoglie i motivi di impugnazione avanzati dal ricorrente in ordine ad un provvedimento di acquisizione – ex art. 42 bis T.U. 327/01 - eseguito a danni di un’area di sua proprietà.

L’atto emesso dall’Amministrazione comunale, infatti, appare carente di motivazione, con speciale riguardo alla eccezionalità delle ragioni di interesse pubblico che avrebbero dovuto fondarlo, oltreché al ponderarsi di opposti interessi, eventualmente presenti e che, nella specie, non pare siano stati adeguatamente bilanciati.

Pertanto, l’azione amministrativa, quivi censurata, parrebbe fuoriuscire dai paletti di cui al quarto comma dell’articolo 42 bis e, come tale, passibile di annullamento. CC

 

 



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Inserito in data 04/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 ottobre 2012, n. 5354

Dubbi sulla legittimità della sospensione cautelare dal servizio di dipendente comunale

I Giudici amministrativi, accogliendo l’appello dell’Amministrazione locale il cui provvedimento di sospensione avverso il dipendente era stato rimosso dal Tribunale di primo grado, chiariscono la portata della norma del relativo C.C.N.L., sancendone la legittimità.

A dispetto di quanto ritenuto dal Giudice locale, infatti, il Collegio definisce l’ipotesi della sanzione espulsiva, quale quella lamentata dal dipendente appellato, come un predicato del potere datoriale di autotutela durante il tempo occorrente alla definizione del procedimento penale, eventualmente gravante sul dipendente cautelativamente sospeso da parte dell’Ente locale.

Pertanto, è legittima una simile risoluzione, quale quella quivi gravata, data la relativa strumentalità al regolare funzionamento del servizio ed al prestigio dell’Amministrazione che, in tal guisa, Essa stessa tende a tutelare. CC

 

 

 



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Inserito in data 04/11/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 ottobre 2012, n. 5361

Divieto assoluto di uso di un locale seminterrato. Limiti e portata dell’art. 54 TUEL

Ancora una pronuncia in grado di perimetrare l’ambito di estensione dell’art. 54 del D. Lgs. 267/00 – TUEL.

I Giudici amministrativi, infatti, riformando una pronuncia di primo grado che condivideva un provvedimento contingibile ed urgente, disposto dall’Amministrazione comunale e consistente nell’immediato sgombero di un locale seminterrato, delimitano il ricorso allo strumento di urgenza di cui al suddetto Testo Unico.

Ricordano, in particolare, come l’utilizzo di un simile mezzo sia consentito nei limiti in cui la situazione di pericolo sia già positivamente accertata, mentre eventuali altri esigenze debbano essere affrontate con gli ordinari strumenti autoritativi di cui dispone l’Amministrazione.

Tanto non è accaduto nel caso in esame in cui, invece, il Giudice di prime cure, non solo avallava il ricorso a tale prassi, ma aveva omesso di vagliare persino l’attestato di idoneità dei locali contestati, come rilasciato dai competenti Vigili del fuoco.

E’ fondata, pertanto, l’istanza dell’appellante, volta alla reiezione del provvedimento di estrema urgenza, gravante a suo carico; lo stesso non può dirsi, però, in merito alla pretesa risarcitoria dal medesimo avanzata, stante la prova carente in ordine alla lunghezza del periodo durante il quale egli non ha potuto utilizzare i locali di cui si tratta. CC

 

 



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Inserito in data 30/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 26 ottobre 2012, n. 236

Riabilitazione a domicilio, accordi ASL/privati: illegittima delimitazione territoriale

L’art. 8 della legge regionale Puglia n. 4 del 2010 regola l’erogazione di prestazioni riabilitative in regime domiciliare ... permette alle ASL di stipulare accordi contrattuali con i presidi privati per l’erogazione di prestazioni di riabilitazione domiciliare (art. 8, comma 3), in base alla necessità che emergano dalla determinazione del fabbisogno e dalla valutazione della capacità produttiva delle risorse proprie (art. 8, comma 2). E, tuttavia, essa delimita la possibilità di stipulare detti accordi contrattuali con le sole strutture ubicate nel territorio regionale. Più precisamente, la normativa regionale impugnata definisce un ordine di priorità, stabilendo che gli accordi contrattuali siano conclusi di preferenza con presidi privati presenti nel territorio dell’ASL; mentre «[q]ualora il fabbisogno non possa essere soddisfatto attraverso gli accordi contrattuali con i soggetti insistenti nel territorio della ASL di riferimento, i direttori generali stipulano accordi contrattuali con strutture insistenti in altri ambiti territoriali regionali, in ragione dell’abbattimento delle liste di attesa» ... Il richiamo ad «altri ambiti territoriali regionali» – una novità rispetto alle precedenti disposizioni, che, fino ad ora, si riferivano invece ad «altri ambiti territoriali», senza ulteriori specificazioni – circoscrive la possibilità di concludere accordi contrattuali con i soli operatori situati nel territorio regionale. Questa delimitazione su base territoriale, specifico oggetto di censura nell’attuale giudizio, è costituzionalmente illegittima.

 

In via preliminare va osservato che, in linea di massima, le priorità stabilite dal legislatore regionale con la normativa censurata, privilegiando innanzitutto le strutture pubbliche e, di seguito, quelle private insistenti nel territorio dell’ASL, appaiono legittime e dotate di una base razionale. L’elevato e crescente deficit della sanità e le esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica, nonché di razionalizzazione del sistema sanitario, infatti, esigono una programmazione. In particolare, appare ragionevolmente individuato, in linea con le direttrici stabilite dal legislatore statale, un assetto caratterizzato, tra l’altro, «dalla programmazione del numero e dell’attività dei soggetti erogatori, in modo da evitare il rischio di una sottoutilizzazione delle strutture pubbliche; dalla ripartizione preventiva della domanda tra un numero chiuso di soggetti erogatori e dalla facoltà di scelta dell’assistito solo all’interno del novero delle strutture accreditate» (sentenza n. 94 del 2009). Ciò nondimeno, se è vero che tale programmazione corrisponde alle esigenze di razionalizzare il sistema sanitario (ex multis, sentenze n. 248 del 2011 e n. 200 del 2005), appare invece irragionevole, inutilmente restrittiva della libertà di cura garantita dall’art. 32 Cost. e, come si vedrà, persino discriminatoria la specificazione in base alla quale i direttori generali delle ASL pugliesi sono abilitati a stipulare accordi con le sole strutture sanitarie ubicate in ambito territoriale regionale. FT

 



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Inserito in data 30/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 26 ottobre 2012, n. 237

Art 517 cpp: sentenza additiva accoglie la questione di legittimità costituzionale

[Il rimettente] dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che l’imputato possa chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che non risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (ossia, in pratica, quando si tratti di fatto emerso solo nel corso dell’istruzione dibattimentale).

Alla luce dell’odierno panorama ordinamentale, prende, quindi, pieno vigore la notazione per cui l’imputato che subisce una contestazione suppletiva dibattimentale viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse chiamato a rispondere fin dall’inizio. La contestazione del reato concorrente, operata ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., costituisce, in effetti, un atto equipollente agli atti tipici di esercizio dell’azione penale indicati dall’art. 405, comma 1, cod. proc. pen. È fonte, dunque, di ingiustificata disparità di trattamento e di compromissione delle facoltà difensive, in ragione dei tempi e dei modi di formulazione dell’imputazione, la circostanza che, a fronte di tutte le altre forme di esercizio dell’azione penale, l’imputato possa liberamente optare, senza condizioni, per il giudizio abbreviato, mentre analoga facoltà non gli sia riconosciuta nel caso di nuove contestazioni, se non nelle ipotesi – oggetto della sentenza n. 333 del 2009 – di modifiche tardive dell’addebito sulla base degli atti di indagine. Come già in precedenza rilevato, d’altra parte, se pure è indubbio, in una prospettiva puramente “economica”, che più si posticipa il termine utile per la rinuncia al dibattimento e meno il sistema ne “guadagna”, resta comunque assorbente la considerazione che l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto difesa, dichiarato inviolabile dall’art. 24, secondo comma, Cost. Condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti. La scelta di valersi del giudizio abbreviato è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali: di conseguenza, se all’accusa originaria ne viene aggiunta un’altra, sia pure connessa (peraltro, nella lata nozione desumibile dal vigente art. 12, comma 1, lettera b, cod. proc. pen.), non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni. Sotto un profilo più generale e sistematico va notato che la richiesta di giudizio abbreviato presuppone necessariamente che, in relazione al fatto-reato, sia stata esercitata l’azione penale. Con riguardo al fatto suscettibile di contestazione suppletiva dibattimentale, ciò avviene solo quando il pubblico ministero procede formalmente alla contestazione stessa, sia o non sia fondata su emergenze dibattimentali ovvero su elementi acquisiti in precedenza. Una richiesta di giudizio abbreviato in un momento anteriore, senza una previa formale imputazione, sarebbe inammissibile o quantomeno eccentrica o intempestiva, a prescindere da qualsiasi prognosi al riguardo (...) L’art. 517 cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione. FT

 

 



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Inserito in data 30/10/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. III - quater, 29 ottobre 2012, n. 8858

Avvocato-mediatore: annullato in parte art 55 bis C.d.f.; legittimi restanti canoni

Con il primo motivo si censura l’art. 55 bis del Codice Deontologico nella parte in cui prevede che “l’avvocato, che svolga la funzione di mediatore, deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e la previsione del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente Codice”. In altri termini si chiede all’avvocato-mediatore, in caso di contrasto tra le disposizioni del Codice e quelle del d.lgs. n. 28 del 2010 e del d.m. 18 ottobre 2010, n. 180, di dare priorità alle prime, in spregio delle seconde. Ad avviso di parte ricorrente tale norma impone, infatti, all’avvocato-mediatore di subordinare il rispetto di disposizioni di fonte legale e regolamentare alla preventiva verifica di compatibilità delle stesse con quanto previsto dal Codice Deontologico Forense, imponendo la disapplicazione delle prime nel caso di eventuale contrasto con il secondo.

Il motivo è fondato. Nonostante la non felice formulazione della prescrizione, questa deve essere letta proprio nel senso prospettato da parte ricorrente, e cioè che “le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione” devono essere rispettate dall’avvocato che svolge funzione di mediatore “nei limiti in cui (id est, se e in quanto) dette previsioni non contrastino con quelle del presente Codice”. La lettura testuale della norma non può portare a diversa conclusione, con conseguente sua illegittimità. Ed invero, il Codice Deontologico – che nel sistema delle fonti è certamente di rango subordinato alla normativa primaria in materia di conciliazione – non ha la forza di prevalere sulle norme primarie con lo stesso contrastanti. Come chiarito dalla Corte di cassazione (sez. VI, 4 agosto 2011, n. 17004; s.u. 17 giugno 2010, n. 14617; id. 7 luglio 2009, n. 15852) le previsioni del Codice Deontologico hanno natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi. Né rileva la circostanza che allo stato non sussiste alcun contrasto tra le norme primarie e quella impugnata perché nessuna disposizione normativa ha previsto che sono compatibili le attività precluse dall’art. 55 bis, essendo possibili interventi successivi che modifichino tali norme nel senso di contenere previsioni opposte a quelle del Codice Deontologico. Diversa sarebbe stata, invece, la conclusione se la disposizione impugnata avesse previsto l’obbligo dell’avvocato, tenuto all’osservanza delle regole del proprio Codice Deontologico, di rinunciare all’attività di mediazione ove, in relazione a questa, la normativa primaria avesse introdotto previsioni contrastanti con il Codice.

 

Il secondo canone prevede che “Non può assumere la funzione di mediatore l’avvocato: a) che abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti; b) quando una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli stessi locali”. Si tratta dunque di limiti imposti all’avvocato nell’assunzione di incarichi di mediatore. Tali previsioni, ad avviso di parte ricorrente, sono nulle per carenza assoluta di potere.  

Anche la seconda censura dedotta con il secondo motivo di ricorso non è suscettibile di positiva valutazione. Come si è detto sub 1, connotato principale della professione del mediatore è l’indipendenza. Il regolamento previsto dalla normativa primaria, al quale quest’ultima affida il compito di fissare le cause di incompatibilità del mediatore, non è di ostacolo all’individuazione, da parte dei singoli Consigli Nazionali, di ulteriori ipotesi che, in relazione alla specificità della professione forense, rendono inopportuno lo svolgimento dell’incarico di mediatore. In altri termini, la disciplina delle incompatibilità dettata dal regolamento non esaurisce tutte le ipotesi ed è di competenza dei singoli Consigli, nell’esercizio dei compiti loro demandati dall’ordinamento, tutelare, tra l’altro, l’immagine dei professionisti che rappresentano. Nè va trascurato che l’art. 60, comma 3, lett. r), l. n. 69 del 2009 chiedeva espressamente che, nell’esercizio della delega, si prevedesse “nel rispetto del Codice Deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle due funzioni”, così significando che le disposizioni della normativa primaria si integrano con quelle specifiche dettate, in relazione alla singola professione, dal relativo Codice Deontologico.

 

Il canone terzo – che inibisce all’avvocato, che ha svolto l’incarico di mediatore, di intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non sono decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento – è censurato per irragionevolezza non essendovi, ad avviso di parte ricorrente, ragione alcuna per una tale inibizione.

Anche questa censura è priva di pregio. Le inibizioni previste dal canone terzo, così come del resto quella dettata dal precedente canone secondo, fondano la propria ratio sulla necessità di prevenire qualsiasi comportamento che faccia venire meno il connotato dell’indipendenza propria del mediatore. Così, quindi, è legittima l’inibizione all’avvocato di svolgere attività di mediatore se ha in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti (canone secondo, lett. a), e ciò per l’evidente necessità di evitare che in un secondo momento, e cioé in sede di mediazione, trovandosi di fronte ad un soggetto che è stato proprio cliente, non riesca a garantire del tutto l’imparzialità; parimenti, è legittima l’inibizione all’avvocato, che ha espletato funzioni di mediatore, di intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento di mediazione o se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso (canone terzo, lett. a e b), e ciò per evitare che l’attività di mediatore esercitata sia stata condizionata (e dunque non sia stata del tutto imparziale) dalla volontà di procurarsi futuri clienti o ancora, che il mediatore non abbia profuso tutte le proprie capacità per far concludere positivamente la mediazione al fine di procacciarsi un cliente da difendere poi nelle aule giudiziarie. L’obiettivo lodevolmente svolto dal Consiglio nazionale forense è evitare che la mediazione diventi strumento scorretto di procacciamento di clienti da parte dell’avvocato ed è ingiustamente riduttivo il ruolo che parte ricorrente tenta di affidare al mediatore (pur non negando, in effetti, l’importanza della sua prestazione) al fine di evidenziarne la connaturata neutralità. Da rilevare ancora che l’inibizione è solo temporale, con la conseguenza che non è precluso per sempre, a chi ha saputo apprezzare le capacità dell’avvocato nella sua veste di mediatore, di rivolgersi, cessato il periodo di c.d. raffreddamento, allo stesso professionista perché presti in suo favore la prestazione di legale.

 

Il quinto motivo censura le predette previsioni nella parte in cui si estendono anche ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali ... Il sesto motivo deduce l’illegittimità della stessa previsione perché ingiustamente penalizzante nei confronti dei professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali. La disposizione preclude infatti ai professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali dell’avvocato-mediatore di intrattenere rapporti professionali con una delle parti nei casi previsti dal canone terzo, lett. a) e b).

Anche questo motivo non è suscettibile di positiva valutazione. Partendo dal presupposto che la ratio sottesa a tale previsione è la stessa che ispira l’intero art. 55 bis (e sulla quale è stato argomentato sub 1), appare evidente che tra l’avvocato – mediatore e i colleghi di studio può sussistere un collegamento, con la conseguenza che i rischi che il connotato dell’imparzialità venga meno, già evidenziati sub 5, possono verificarsi anche se l’attività di legale non è svolta direttamente dall’avvocato mediatore, ma da un collega di studio (socio, associato o semplicemente esercitante l’attività negli stessi locali). Non può negarsi che la previsione è penalizzante per il collega di studio dell’avvocato - mediatore, ma la ragione della sua previsione, accompagnata dalla sua durata limitata nel tempo (nel caso sub a del canone terzo), la rendono legittima.

 

Non è infine condivisibile l’assunto di parte ricorrente secondo cui le limitazioni imposte dall’art. 55 bis all’avvocato che svolge anche funzioni di mediatore violerebbero i principi comunitari in materia di libera concorrenza. Ed invero, la preoccupazione principale del CNF è stata proprio quella di garantire la libera concorrenza fra gli avvocati, imponendo ad essi obblighi preordinati ad evitare che l’associazione ”avvocato-mediatore” diventi facile strumento per l’accaparramento della clientela, che è risultato agevolmente realizzabile se non fronteggiato in via preventiva con adeguate misure. La circostanza che solo il Consiglio forense sia intervenuto, imponendo regole di condotta pre e post incarico, e non anche altri ordini professionali interessati, non è affatto pregiudizievole per gli avvocati, ma al contrario pone la maggioranza al riparo da possibili iniziative scorrette di un’eventuale minoranza. Né, sempre sul piano concorrenziale, le prescrizioni in questione danneggerebbero la categoria degli avvocati rispetto ad altre categorie professionali, siccome sostiene la ricorrente, la quale trascura il dato elementare che la scelta del mediatore è funzionale alla materia del contendere che s’intende comporre e alla specifica competenza che si pretende in chi è chiamato a svolgere questa funzione, sicchè è irragionevole il solo supporre che per il soggetto, coinvolto in una vicenda che richiede una specifica competenza giuridica, sia indifferente sostituire l’avvocato con il geometra o con il commercialista.

 

Va da ultimo osservato che fra le misure adottate dal CNF, che la ricorrente qualifica “restrittive”, non c’è ad avviso del Collegio una sola che comporti un’irragionevole limitazione dell’attività dell’avvocato - mediatore, tutte al contrario trovando piena giustificazione nell’esigenza avvertita dal Consiglio di prevenire possibili abusi che, oltre a compromettere la libera concorrenza all’interno della classe forense determinerebbero discredito a carico della stessa. Ciò vale anche per l’inibizione fatta dall’art. 55 bis all’avvocato mediatore di ospitare nel proprio studio professionale la sede dell’organismo di mediazione ovvero di allocare nella sede di quest’ultima il proprio studio, che la ricorrente contesta anche sotto il profilo dei costi che essa comporta sia per il legale che per l’organismo, e che invece costituisce una misura obbligata nella politica di prevenzione coltivata dal Consiglio. FT

 

 



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Inserito in data 29/10/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, GRANDE SEZIONE, 23 otttobre 2012, C - 581 e 629/10

Esiste un diritto al risarcimento se il ritardo aereo supera le tre ore

I Giudici di Lussemburgo, ponendosi nel solco del noto precedente Sturgeon del novembre 2009, consacrano il diritto dei passeggeri ad ottenere, in caso di ritardo superiore alla soglia minima di tolleranza, presuntivamente fissata in tre ore, una compensazione pecuniaria.

Questa, forfettariamente stabilita in un importo compreso tra 250 e 600 Euro, spetta ai passeggeri di voli ritardati, la cui situazione è assimilata a quella dei destinatari di tratte cancellate, a meno che il ritardo dipenda da circostanze eccezionali che sarà cura della Compagnia manchevole, eventualmente, dimostrare.

Infine, la Corte conclude tale inciso affermando che non occorre limitare nel tempo l’efficacia della presente pronuncia, al fine di tutelare sull’intera scala europea i viaggiatori, a dispetto dell’avversa richiesta delle compagnie aeree, intente, invece, a restringerne temporalmente gli effetti. CC

  

 



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Inserito in data 26/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 25 ottobre 2012, n. 5463

Natura di Autorità Indipendente dell’ISVAP e applicazione dei termini abbreviati

L’art. 23-bis, comma 7, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, applicabile ratione temporis, stabilisce, relativamente ai giudizi avverso provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti, quale è, e si qualifica in più punti dell’atto di appello, l’Isvap, termini abbreviati e, specificamente, che “il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza”. Il richiamato comma 1, alla lettera d) indica tra i provvedimenti soggetti al regime dei termini abbreviati quelli adottati dalle autorità amministrative indipendenti. Tra le autorità amministrative indipendenti è dato comprendere, come già affermato da questa Sezione (v., recentemente, la sentenza 30 dicembre 2011, n. 7001), l’Isvap, in quanto per la sua autonomia (specie organizzativa, contabile e gestionale) e per la sua funzione esterna di vigilanza del settore assicurativo in attuazione dell’ordinamento agisce in posizione di neutralità e a tutela dell’interesse generale per la stabilità del mercato e la trasparenza e la correttezza dell’offerta; solo le ipotesi di atti riguardanti affari meramente interni, quali quelli attinenti alla gestione del personale, rimangono sottratte all’applicazione dei termini abbreviati (Cons. Stato, VI, 16 gennaio 2009, n. 212).

L’art. 23-bis, comma 7, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, applicabile ratione temporis, stabilisce, relativamente ai giudizi avverso provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti, quale è, e si qualifica in più punti dell’atto di appello, l’Isvap, termini abbreviati e, specificamente, che “il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza”. Il richiamato comma 1, alla lettera d) indica tra i provvedimenti soggetti al regime dei termini abbreviati quelli adottati dalle autorità amministrative indipendenti. Tra le autorità amministrative indipendenti è dato comprendere, come già affermato da questa Sezione (v., recentemente, la sentenza 30 dicembre 2011, n. 7001), l’Isvap, in quanto per la sua autonomia (specie organizzativa, contabile e gestionale) e per la sua funzione esterna di vigilanza del settore assicurativo in attuazione dell’ordinamento agisce in posizione di neutralità e a tutela dell’interesse generale per la stabilità del mercato e la trasparenza e la correttezza dell’offerta; solo le ipotesi di atti riguardanti affari meramente interni, quali quelli attinenti alla gestione del personale, rimangono sottratte all’applicazione dei termini abbreviati (Cons. Stato, VI, 16 gennaio 2009, n. 212). FT

 

 



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Inserito in data 26/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 25 ottobre 2012, n. 5465

Associazioni promozione sociale: per l’accesso serve interesse diretto, concreto, attuale

L’art. 23-bis, comma 7, della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, applicabile ratione temporis, stabilisce, relativamente ai giudizi avverso provvedimenti adottati dalle autorità amministrative indipendenti, quale è, e si qualifica in più punti dell’atto di appello, l’Isvap, termini abbreviati e, specificamente, che “il termine per la proposizione dell’appello avverso la sentenza del tribunale amministrativo regionale nei giudizi di cui al comma 1 è di trenta giorni dalla notificazione e di centoventi giorni dalla pubblicazione della sentenza”. Il richiamato comma 1, alla lettera d) indica tra i provvedimenti soggetti al regime dei termini abbreviati quelli adottati dalle autorità amministrative indipendenti. Tra le autorità amministrative indipendenti è dato comprendere, come già affermato da questa Sezione (v., recentemente, la sentenza 30 dicembre 2011, n. 7001), l’Isvap, in quanto per la sua autonomia (specie organizzativa, contabile e gestionale) e per la sua funzione esterna di vigilanza del settore assicurativo in attuazione dell’ordinamento agisce in posizione di neutralità e a tutela dell’interesse generale per la stabilità del mercato e la trasparenza e la correttezza dell’offerta; solo le ipotesi di atti riguardanti affari meramente interni, quali quelli attinenti alla gestione del personale, rimangono sottratte all’applicazione dei termini abbreviati (Cons. Stato, VI, 16 gennaio 2009, n. 212).

La Sezione ha in più occasioni ribadito, sul piano generale, che la titolarità o la rappresentatività di interessi collettivi o diffusi non vale a costituire un potere – comunque privato e perciò estraneo ai circuiti pubblici di rappresentatività e responsabilità – di ispezione sulle pubbliche amministrazioni e non giustifica un generalizzato e pluricomprensivo diritto alla conoscenza di qualsivoglia documento riferito all’attività di un’amministrazione, con la conseguenza che al dispiegarsi del principio di trasparenza occorre, anche per le associazioni rappresentative di interessi collettivi o diffusi, che la richiesta di accesso sia sostenuta da un effettivo, attuale e concreto interesse alla conoscenza di atti, relativi ai servizi rivolti ai consumatori, che incidono in via diretta ed immediata, non in via del tutto ipotetica o riflessa, sui loro interessi (cfr. le sentenze 6 ottobre 2011, n. 5481; 9 febbraio 2009, n. 737; 25 settembre 2006, n. 5636 e 10 febbraio 2006, n. 555; spunti per maggiori aperture, nel senso che in relazione alla previsione dell’art. 26, comma 2, l. 7 dicembre 2000, n. 383 ed in presenza di previsioni statutarie di scopi quali la tutela del diritto alla trasparenza, potrebbe ravvisarsi una legittimazione ex lege, comportante l’irrilevanza di ogni esame sulla sussistenza di un interesse diretto e concreto, si rinvengono nella sentenza parziale con contestuale ordinanza di remissione all’Adunanza plenaria 8 febbraio 2012, n. 677, ma non hanno trovato condivisione in Cons. Stato, Ad. Plen., 24 aprile 2012, n. 7). Il Collegio concorda con il riferito, consolidato orientamento. I presupposti per l’accesso delle associazioni ricorrenti in primo grado sono, infatti, i medesimi previsti in via generale dalla legge n. 241 del 1990, come confermato dal disposto dell’art. 26 della citata legge 7 dicembre 2000, n. 383, che riconosce alle associazioni di promozione sociale il diritto di accesso di cui all’art. 22, comma 1, l. n. 241 del 1990, quale, dunque, da tale norma configurato, ossia connotato tanto dalla presenza di una situazione giuridicamente tutelata che della sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale. L’essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è, quindi, condizione sufficiente perché l’interesse affermato possa considerarsi diretto concreto e attuale ... Occorre, pertanto, verificare se, in concreto, gli atti cui si chiede di accedere siano in qualche modo collegati con la situazione giuridica rilevante e se la conoscenza di tali atti sia in grado di concorrere, anche in relazione alle iniziative eventualmente conseguenti, alla tutela della situazione giuridica in questione. FT

 

 



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Inserito in data 26/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 25 ottobre 2012, n. 5469

Sul ricorso al giudice per chiarimenti sulle modalità di ottemperanza (art 112 co 5 cpa)

I quesiti interpretativi da sottoporre al giudice dell’ottemperanza ai sensi dell’art. 112 comma 5 c.p.a. devono attenere alle modalità dell’ottemperanza, e devono pertanto avere i requisiti della concretezza e della rilevanza. Non si possono sottoporre al giudice dell’ottemperanza questioni astratte di interpretazione del giudicato, ma questioni specifiche che siano effettivamente insorte durante la fase dell’esecuzione del giudicato. Tale esegesi dell’art. 112 comma 5 discende dai principi generali da un lato in tema di interesse ad agire, dall’altro lato in tema di divisione dei poteri tra giudice e pubblica amministrazione. Sotto il primo profilo, atteso che l’interesse ad agire deve essere concreto e attuale, a sorreggere il ricorso dell’art. 112, comma 5, c.p.a. deve esserci un interesse concreto e attuale a ottenere il chiarimento. Sotto il secondo profilo, essendo l’ottemperanza in primis una forma di esercizio del potere pubblico amministrativo, essa compete, in primis, alla pubblica amministrazione, specie se il giudicato, come nella specie, lasci a quest’ultima “spazi in bianco”. Il potere “di merito” del giudice amministrativo, di sostituirsi all’amministrazione, subentra solo in caso di acclarata inottemperanza dell’amministrazione stessa, laddove l’ordinamento preclude al giudice di pronunciarsi con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati (art. 34, comma 2, c.p.a.). Sicché, l’amministrazione non può ex ante rinunciare all’esercizio del potere-dovere di ottemperanza, chiedendo al giudice di sostituirsi ad essa.

L’art. 112, comma 5, c.p.a. configura un potere di “interpretazione autentica” del giudicato, in capo al giudice amministrativo, ma non un potere di consulenza nei confronti delle parti, e segnatamente nei confronti della parte pubblica. Questo, in ossequio ai principi di parità delle parti e di divisione tra il potere giudiziario e il potere amministrativo. Il giudice dell’ottemperanza può intervenire solo in caso di dedotta inottemperanza della p.a., ovvero per interpretare il giudicato al fine di rendere più celere l’ottemperanza, ma pur sempre nei limiti del principio della domanda e di una controversia in atto o quanto meno potenziale tra le parti del giudicato. Pertanto, con il rimedio citato, possono essere sottoposte al giudice dell’ottemperanza questioni specifiche di interpretazione del singolo giudicato, e non questioni di carattere generale sull’esecuzione di un qualsivoglia giudicato. Nel caso di specie non viene sottoposto un quesito di interpretazione del giudicato (che è stato reso tra parti ben specifiche e che pertanto vale tra le parti), ma un quesito generale sulla estensione soggettiva degli effetti del giudicato, che esula dalla sua interpretazione, e attiene all’esercizio dei poteri amministrativi di estensione soggettiva degli effetti del giudicato. Difetta pertanto sia il presupposto dell’inottemperanza, sia il presupposto di una lite anche solo potenziale tra le parti del giudicato, disputandosi di estendere il giudicato a parti ad esso estranee, il che postulerebbe quanto meno una istanza delle parti terze. La questione va pertanto rivolta, se del caso, all’Avvocatura dello Stato quale naturale consulente della parte pubblica. FT

 

 



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Inserito in data 24/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 ottobre 2012, n. 5412

Erogazione contributi pubblici: giurisdizione amministrativa anche dopo fase di ammissione

 

Con il primo motivo d’appello è riproposta l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore del giudice ordinario, già respinta dal TAR. Il motivo è infondato ... La questione sulla giurisdizione, come prospettata dalla Regione ... postula che il “contributo pubblico” sarebbe stato già concesso a ... in forza dell’ordinanza commissariale n. ... ; che la causa verterebbe su “un contributo pubblico già concesso dal Commissario delegato in forza di un rapporto convenzionale cui sarebbe rimasta estranea la Regione ... ; che la Regione, rispetto all’intervenuta concessione del contributo assumerebbe il ruolo di mero esecutore materiale, sulla base di un’attività non autoritativa, non sussistendo alcun elemento di valutazione discrezionale in capo all’Ente Regione…non esercitando l’amministrazione, in tale fase, alcuna attività o comportamento di carattere discrezionale che determini in capo all’interessato una posizione di interesse legittimo”. Tale prospettazione della Regione non è condivisibile. In materia di erogazione di contributi, anche dopo la fase di ammissione al contributo, la pubblica amministrazione conserva il potere di autotutela, espressione dei principi di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione, il cui esercizio implica attività discrezionale idonea ad affievolire le situazioni soggettive del beneficiario (cfr. Cons. Stato, sezione sesta, 23 settembre 2002, n. 4810; 20 aprile 2000, n. 2454). La posizione del privato è, quindi, di interesse legittimo, come tale tutelabile davanti al giudice amministrativo, nella fase procedimentale anteriore all’emanazione del provvedimento attributivo del beneficio, ovvero nel caso che tale provvedimento venga annullato o revocato in autotutela per vizi di legittimità o per il suo contrasto con il pubblico interesse; è di diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, se la controversia attiene alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all’adempimento degli obblighi a cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (Cass. Sez. Unite, 25 luglio 2006, n. 16896; 23 febbraio 2001, n. 66). Sulla scorta di tali criteri, la controversia in esame appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, sussistendo in concreto il potere, per altro esercitato, dell’amministrazione di valutare l’esistenza del presupposto per la concessione del finanziamento.

Con il primo motivo d’appello è riproposta l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, in favore del giudice ordinario, già respinta dal TAR. Il motivo è infondato ... La questione sulla giurisdizione, come prospettata dalla Regione ... postula che il “contributo pubblico” sarebbe stato già concesso a ... in forza dell’ordinanza commissariale n. ... ; che la causa verterebbe su “un contributo pubblico già concesso dal Commissario delegato in forza di un rapporto convenzionale cui sarebbe rimasta estranea la Regione ... ; che la Regione, rispetto all’intervenuta concessione del contributo assumerebbe il ruolo di mero esecutore materiale, sulla base di un’attività non autoritativa, non sussistendo alcun elemento di valutazione discrezionale in capo all’Ente Regione…non esercitando l’amministrazione, in tale fase, alcuna attività o comportamento di carattere discrezionale che determini in capo all’interessato una posizione di interesse legittimo”. Tale prospettazione della Regione non è condivisibile. In materia di erogazione di contributi, anche dopo la fase di ammissione al contributo, la pubblica amministrazione conserva il potere di autotutela, espressione dei principi di buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione, il cui esercizio implica attività discrezionale idonea ad affievolire le situazioni soggettive del beneficiario (cfr. Cons. Stato, sezione sesta, 23 settembre 2002, n. 4810; 20 aprile 2000, n. 2454). La posizione del privato è, quindi, di interesse legittimo, come tale tutelabile davanti al giudice amministrativo, nella fase procedimentale anteriore all’emanazione del provvedimento attributivo del beneficio, ovvero nel caso che tale provvedimento venga annullato o revocato in autotutela per vizi di legittimità o per il suo contrasto con il pubblico interesse; è di diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, se la controversia attiene alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all’adempimento degli obblighi a cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione (Cass. Sez. Unite, 25 luglio 2006, n. 16896; 23 febbraio 2001, n. 66). Sulla scorta di tali criteri, la controversia in esame appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo, sussistendo in concreto il potere, per altro esercitato, dell’amministrazione di valutare l’esistenza del presupposto per la concessione del finanziamento. FT

 

 

 



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Inserito in data 24/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, , 23 ottobre 2012, n. 5409

Illuminazione votiva nei cimiteri: rilevanza economica e divieto gestione diretta

In via di principio va considerato che la distinzione tra attività economiche e non economiche ha carattere dinamico ed evolutivo, cosicché non è possibile fissare a priori un elenco definitivo dei servizi di interesse generale di natura economica (secondo la costante giurisprudenza comunitaria spetta infatti al giudice nazionale valutare circostanze e condizioni in cui il servizio viene prestato, tenendo conto, in particolare, dell’assenza di uno scopo precipuamente lucrativo, della mancata assunzione dei rischi connessi a tale attività ed anche dell'eventuale finanziamento pubblico dell'attività in questione (Corte di giustizia CE, sentenza 22 maggio 2003, causa 18/2001). In sostanza, per qualificare un servizio pubblico come avente rilevanza economica o meno è ragionevole pensare che si debba prendere in considerazione non solo la tipologia o caratteristica merceologica del servizio (vi sono attività meramente erogative come l'assistenza agli indigenti), ma anche la soluzione organizzativa che l'ente locale, quando può scegliere, sente più appropriata per rispondere alle esigenze dei cittadini (ad esempio servizi della cultura e del tempo libero da erogare, a seconda della scelta dell'ente pubblico, con o senza copertura dei costi). Dunque, la distinzione di cui si sta parlando può anzitutto derivare da due presupposti, in quanto non solo vi può essere un servizio che ha rilevanza economica o meno in astratto ma anche uno specifico servizio che, per il modo in cui è organizzato nel caso di specie, presenta o non presenta tale rilevanza economica. Saranno, quindi, privi di rilevanza economica i servizi che sono resi agli utenti in chiave meramente erogativa e che, inoltre, non richiedono una organizzazione di impresa in senso obiettivo (invero, la dicotomia tra servizi a rilevanza economica e quelli privi di rilevanza economica può anche essere desunta dalle norme privatistiche, coincidendo sostanzialmente con i criteri che contraddistinguono l’attività di impresa nella previsione dell'art. 2082 Cod. civ. e, per quanto di ragione, dell’art. 2195 o, per differenza, con ciò che non vi può essere ricompreso). Per gli altri servizi, astrattamente di rilevanza economica, andrà valutato in concreto se le modalità di erogazione, ne consentano l’assimilazione a servizi pubblici privi di rilevanza economica.

 

Fermo tanto, quanto al servizio di illuminazione votiva, è indubbia la rilevanza economica di tale servizio ... Assume il Comune di ... , con l’appello incidentale, che il servizio di cui trattasi, per come è svolto da esso Comune, è privo di rilevanza economica, avendo una redditività modesta. La prospettazione del Comune non appare convincente. Come si è detto, innanzi tutto la qualificazione di un servizio pubblico a rilevanza economica è correlata alla astratta potenzialità di produrre un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull’assetto concorrenziale del mercato di settore (cfr. Cons. Stato, n. 5097 del 2009), sicché non rileva l’irrisorietà dell’utile che in concreto un servizio per come svolto produca. Non è significativa, in conseguenza, la circostanza che l’attività come svolta dal Comune di ... sia risultata in concreto caratterizzata da un’esigua redditività ... Né risulta, peraltro, che il Comune di ... abbia offerto il servizio gratuitamente o sopportandone parte dei costi, risultando, al contrario, che ha svolto in proprio un’attività imprenditoriale vera e propria, seppure senza autonoma organizzazione (il servizio sarebbe stato gestito integrando le relative attività con quelle svolte dalle direzioni edilizie e dalla direzione risorse finanziarie). Tale circostanza è dirimente per sussumere tale servizio tra quelli a rilevanza economica con la conseguenza che esso doveva essere esternalizzato in base al citato art. 23 bis del d. l. n. 112 del 2008, più volte richiamato, non potendo essere sottratto al mercato.

 

Secondo il TAR, la libera scelta dell’amministrazione comunale di procedere alla gestione diretta di un servizio non contrasterebbe con i principi comunitari. Se pure è vero che la disciplina comunitaria consente, ma non impone agli stati membri di prevedere con determinate cautele la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale (cfr. Corte Costituzionale n. 325 del 17 novembre 2010), il vincolo normativo dettato dall’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008, ratione temporis precludeva la gestione diretta, non rilevando che l’esborso per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica avrebbe potuto essere ben maggiore. Il principio cui è finalizzata la disciplina di cui all’art. 23 bis è la tutela della concorrenza e l’apertura al mercato per tutte le attività imprenditoriali e non la forma più economica di gestione dei servizi pubblici locali. In tale ottica non può trovare ingresso la valutazione del giudice di primo grado secondo il quale “Appartiene alla dimensione dell’inverosimile immaginare che un comune di non eccessiva grandezza non possa gestire direttamente un servizio come quello dell’illuminazione votiva cimiteriale, esigente solo l’impegno periodico di una persona e la spesa annua di qualche migliaio di euro, laddove l’esborso per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica potrebbe essere ben maggiore”.

 

Da ultimo, va considerato che la questione affrontata non è più attuale, atteso che l’art. 23 bis del d. lgs. 112 del 2008, nel testo risultante dalle modificazioni apportate dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e dall’art. 15, comma 1 ter del d. l. n. 135 convertito con modificazioni dalla l. n. 166 del 2009, è stato abrogato a seguito di referendum popolare del giugno 2011, sostanzialmente riproposto con l’art. 4 del d. l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito in l. n. 148 del 2011, è stato espunto definitivamente dall’ordinamento con sentenza della Corte Costituzionale 20 luglio 2012, n. 199 (la Consulta ha accolto i ricorsi contro la manovra estiva 2011 presentati da alcune regioni, osservando che l’articolo 4 della manovra Tremonti ha violato il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare mediante referendum, desumibile dall’articolo 75 della Costituzione, secondo quanto già riconosciuto da una costante giurisprudenza costituzionale (spiega la Consulta “a seguito della predetta abrogazione, la disciplina applicabile era quella comunitaria, più “favorevole” per le Regioni e per gli enti locali. Pertanto, la reintroduzione da parte del legislatore statale della medesima disciplina oggetto dell’abrogazione referendaria (anzi, di una regolamentazione ancor più restrittiva, frutto di un’interpretazione ancor più estesa dell’ambito di operatività della materia della tutela della concorrenza di competenza statale esclusiva), ledendo la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria, avrebbe determinato anche una potenziale lesione delle richiamate sfere di competenza sia delle Regioni che degli enti locali”). FT

 



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Inserito in data 24/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 ottobre 2012, n. 230

Art 673 cpp: il mutamento della giurisprudenza giustifica la revoca della sentenza?

 

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 673 del codice di procedura penale, nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna (nonché del decreto penale e della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti), anche il «mutamento giurisprudenziale», determinato da una decisione delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato.

 

La prima e fondamentale censura svolta dal rimettente – quella di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per contrasto con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo – trova il suo presupposto nell’orientamento di questa Corte, costante a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in forza del quale le norme della CEDU, nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione, integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale evocato, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali ... Risulta assorbente, ai presenti fini, la considerazione che la Corte europea non risulta avere mai, fino ad oggi, enunciato il corollario che il giudice a quo vorrebbe far discendere dalla combinazione tra i due asserti dianzi ricordati: e, cioè, che, in base all’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo (principio che – se valido – dovrebbe, peraltro, operare non soltanto in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza che escludano la rilevanza penale del fatto – come mostra di ritenere il rimettente – ma anche a quelli che si limitino a rendere più mite la risposta punitiva, negando, ad esempio, l’applicabilità di circostanze aggravanti o riconducendo il fatto ad un paradigma sanzionatorio meno grave). Innanzitutto, la Corte di Strasburgo non ha mai sinora riferito, in modo specifico, il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza. I giudici europei si sono occupati di questi ultimi – oltre che nella generale prospettiva della verifica dei requisiti di «accessibilità» e «prevedibilità» della legge penale, ritenuti insiti nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU – solo con riferimento al diverso principio dell’irretroattività della norma sfavorevole: ritenendo, in particolare, contraria alla norma convenzionale l’applicazione a fatti anteriormente commessi di un indirizzo giurisprudenziale estensivo della sfera operativa di una fattispecie criminosa, ove la nuova interpretazione non rappresenti un’evoluzione ragionevolmente prevedibile della giurisprudenza anteriore. È, peraltro, da escludere – contrariamente a quanto mostra di ritenere il giudice a quo – che dalle conclusioni raggiunte a proposito del principio di irretroattività della norma sfavorevole possa automaticamente ricavarsi l’esigenza “convenzionale” di rimuovere, in nome del principio di retroattività della lex mitior, le decisioni giudiziali definitive non sintoniche con il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale in bonam partem. I due principi hanno, infatti, diverso fondamento. L’irretroattività della norma penale sfavorevole rappresenta uno strumento di garanzia del cittadino contro persecuzioni arbitrarie, espressivo dell’esigenza di «calcolabilità» delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale: esigenza con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo “a sorpresa” del trattamento penale della fattispecie. Nessun collegamento con la predetta libertà ha, per converso, il principio di retroattività della norma più favorevole, in quanto la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, cui l’autore si era liberamente e consapevolmente autodeterminato in base al panorama normativo (e giurisprudenziale) dell’epoca: trovando detto principio fondamento piuttosto in quello di eguaglianza, che richiede, in linea di massima, di estendere la modifica mitigatrice della legge penale, espressiva di un mutato apprezzamento del disvalore del fatto, anche a coloro che hanno posto in essere la condotta in un momento anteriore. Con riguardo al carattere non assoluto che, in tale prospettiva, il principio della retroattività in mitius resta suscettibile di assumere, occorre d’altra parte osservare – come già in altra occasione – che la Corte di Strasburgo non soltanto non ha inequivocamente escluso la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio in questione subisca delle deroghe, ma ha posto, anzi, un espresso limite alla sua operatività, di segno contrastante rispetto alla ricostruzione prospettata dal giudice a quo. Secondo i giudici europei, infatti, il principio della retroattività della lex mitior, ricavabile dall’art. 7, paragrafo 1, della CEDU, «si traduce nella norma per cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 109). Facendo riferimento alle (sole) «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva», la Corte europea ha, dunque, escluso che il principio in questione sia destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, secondo e terzo comma, cod. pen.  La limitazione ora indicata non potrebbe evidentemente non valere – nella prospettiva del giudice a quo – anche in rapporto ai mutamenti di giurisprudenza. La stessa Corte di Strasburgo ha avuto modo, del resto, di rilevare, in termini generali, come, nel caso di avvenuta composizione di un contrasto di giurisprudenza da parte di un tribunale supremo nazionale, l’esigenza di assicurare la parità di trattamento non possa essere utilmente invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata: infatti, «intendere il principio di eguaglianza nell’applicazione della legge nel senso che ciò che risulta dalle decisioni posteriori implica la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori che risultino contraddittorie con quelle più recenti sarebbe contrario al principio di sicurezza giuridica» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 giugno 2007, Perez Arias contro Spagna, sempre nella misura in cui i principi interpretativi siano applicabili al nostro ordinamento). FT

 

 



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Inserito in data 24/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 ottobre 2012, n. 234

Codice leggi antimafia, acquisizione al patrimonio dello Stato dei beni confiscati

 

La Regione siciliana ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 45, comma 1, 47 e 48, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) ... Le disposizioni impugnate concernono il procedimento di assegnazione dei beni oggetto di confisca definitiva di prevenzione. Essi sono acquisiti al patrimonio dello Stato (art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011) e ivi mantenuti, ovvero trasferiti al patrimonio del Comune, della Provincia o della Regione (art. 48, comma 3), con provvedimento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (art. 47). La Regione ricorrente ritiene, anzitutto, che sia lesiva dell’art. 33, secondo comma, dello statuto [che riserva al patrimonio regionale la proprietà delle miniere, cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, e delle cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale] la previsione contenuta nell’art. 45, comma 1, secondo la quale sono acquisiti al patrimonio dello Stato tutti i beni oggetto di confisca definitiva, e perciò anche le miniere, le cave e le torbiere, nonché le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo regionale. A parere della Regione siciliana, la previsione statutaria, nel riservare tali beni al patrimonio indisponibile regionale, osterebbe ad un simile effetto.

La questione non è fondata. Con riguardo alle cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico ed artistico, infatti, è agevole osservare che la disposizione statutaria e la norma impugnata hanno presupposti differenti, e non sono pertanto destinate a sovrapporsi: lo statuto disciplina un modo di acquisto della proprietà da parte del patrimonio pubblico in seguito al ritrovamento di beni culturali (artt. 10 e 91 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante il «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137»), mentre l’art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 regola gli effetti della confisca, ove essa abbia colpito tali beni che siano di proprietà privata. Neppure le miniere sono assoggettabili ad una confisca suscettibile, anche in linea astratta, di confliggere con la disciplina statutaria, poiché appartengono di diritto al patrimonio indisponibile della Regione. Non è perciò immaginabile che esse possano divenire oggetto di proprietà privata e siano pertanto confiscabili. Diversa è invece la situazione normativa delle cave e delle torbiere, che lo statuto assegna in proprietà alla Regione quando ne è sottratta la disponibilità al proprietario del fondo. Si tratta di una particolare vicenda traslativa che attiene all’impiego dei beni in questione in correlazione con la natura degli stessi e con l’esercizio delle attribuzioni proprie del sistema regionale. Questa Corte, infatti, ha già chiarito che l’assegnazione di una categoria di beni al patrimonio regionale viene compiuta «in relazione alle funzioni pubbliche attribuite dalle norme costituzionali alla Regione» (sentenza n. 31 del 1959), così da costituire un «legame beni-funzioni» (sentenza n. 179 del 2004; inoltre, sentenza n. 383 del 1991), che ponga i primi in rapporto di strumentalità con le seconde. Ne consegue che la formula statutaria non può spingersi fino ad includere fattispecie conformate da interessi cui la sfera regionale è del tutto estranea e in relazione alle quali non è perciò ipotizzabile alcuna competenza decentrata. Su questo piano, la Corte ha già avuto modo di affermare che la normativa concernente gli effetti della confisca definitiva a titolo di misura di prevenzione attiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza (sentenza n. 34 del 2012), anche con riferimento all’assegnazione dei beni e alle funzioni di vigilanza sulla corretta utilizzazione di essi da parte degli assegnatari. La norma impugnata opera, perciò, entro un’area estranea alle attribuzioni della Regione siciliana, sicché l’art. 33, secondo comma, dello statuto non può governare la relativa vicenda acquisitiva, connessa a finalità, essenzialmente statali, di sottrazione del bene al “circuito economico” di origine, per inserirlo in un altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzavano il primo (sentenza n. 335 del 1996).

 

L’art. 48, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 individua nel Comune, nella Provincia o nella Regione i destinatari del provvedimento di assegnazione dei beni che non siano stati mantenuti al patrimonio dello Stato. La Regione siciliana censura tale disposizione perché ritiene che esprima un’opzione di favore per il mantenimento al patrimonio statale dei beni confiscati, rendendone il trasferimento a se stessa e agli enti territoriali meramente residuale. In tal modo, si realizzerebbe un depauperamento dell’ambito locale con riguardo a beni che, invece, proprio in esso troverebbero adeguato impiego, in violazione degli artt. 114, 116, 118 e 119 Cost. La questione non è fondata, giacché si basa su un erroneo presupposto interpretativo. Come ha rilevato la stessa Avvocatura dello Stato, infatti, né la lettera, né lo spirito della disposizione impugnata depongono nel senso ritenuto dalla ricorrente, poiché da essa non si può trarre alcun criterio preferenziale circa il mantenimento allo Stato, ovvero il trasferimento alla Regione o agli enti locali, dei beni confiscati. Si tratta, infatti, di un profilo applicativo, impregiudicato sul piano normativo, sul quale dovrà cadere, caso per caso, l’apprezzamento dell’Agenzia nazionale. In particolare, quest’ultimo non potrà prescindere dal principio ispiratore sulla destinazione dei beni confiscati, ravvisato da questa Corte, secondo il quale «la restituzione alle collettività territoriali - le quali sopportano il costo più alto dell’“emergenza mafiosa” - delle risorse economiche acquisite illecitamente dalle organizzazioni criminali rappresenta (…) uno strumento fondamentale per contrastarne l’attività, mirando ad indebolire il radicamento sociale di tali organizzazioni e a favorire un più ampio e diffuso consenso dell’opinione pubblica all’intervento repressivo dello Stato per il ripristino della legalità» (sentenza n. 34 del 2012). FT

 



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Inserito in data 18/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 ottobre 2012, n. 5262

Procedura di concessione di finanziamenti pubblici: Giudice competente

Il Collegio, confermando il proprio difetto di giurisdizione già asserito dai Giudici di primo grado, interviene in tema di concessione di finanziamenti pubblici.

Si tratta, infatti, di materia in cui l’attività della P.A. è interamente vincolata, poiché limitata ad un mero accertamento dei requisiti richiesti al riguardo dalla legge, senza alcun intervento discrezionale in merito all’an, quid o quomodo dell’erogazione.

In forza di ciò, quindi, la posizione giuridica dell’istante è di diritto soggettivo e, pertanto, la giurisdizione spetta al G.O. CC



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Inserito in data 18/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 ottobre 2012, n. 231

 Conferimento sedi farmaceutiche; diritto titolari pregressi alla relativa assegnazione

I Giudici della Consulta rigettano una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Difesa erariale a carico di talune disposizioni di una legge regionale

Questa, prevedendo in sede di assegnazione delle sedi farmaceutiche il diritto all’attribuzione in favore di soggetti già titolari del relativo esercizio da almeno un triennio, avrebbe leso, a parere del Ricorrente, il principio del pubblico concorso – ex art. 97 della Costituzione e, per tale tramite, anche il modo di suddividere la materia in sede di competenza legislativa.

Lo Stato, infatti, titolare in tale ambito di una potestà legislativa in via concorrente – ex art. 117 – 3’ comma della Costituzione -parrebbe delimitato dall’intervento legislativo regionale che aveva derogato un principio di base, appunto quello della concorsualità per l’accesso alle pubbliche funzioni.

La Corte Costituzionale rigetta, invece, simili doglianze, affermando che la deroga lamentata, oltreché possibile in quanto potenzialmente rientrante nella normativa di dettaglio – di spettanza regionale, è comunque delimitata in favore di soggetti adeguatamente competenti.

Pertanto, non cagiona un’indiscriminata lesione al principio costituzionale del concorso pubblico, quale quella descritta dal Governo ricorrente. CC

 

 



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Inserito in data 16/10/2012
TAR SICILIA, CATANIA, SEZ. II, 5 settembre 2012, n. 2097

Riconosciuto diritto di accesso al curriculum del collega vincitore del concorso

I Giudici etnei, in un’ottica di buon andamento della Pubblica Amministrazione e di imparzialità nella scelta dei destinatari di incarichi all’interno della Medesima, sanciscono la liceità del diritto del concorrente escluso di accedere alla documentazione personale del collega primo in graduatoria.

Infatti, ricordando l’autonomia del diritto di accesso rispetto a qualsiasi altra pretesa, il Collegio preclude all’Amministrazione una sorta di impropria valutazione prognostica circa l’esito del giudizio alla cui proposizione la domanda di accesso è strumentale, riconoscendone, piuttosto, l’essenzialità e la conseguente prevalenza su un presunto rispetto alla privacy del vincitore della prova, come paventato dall’Amministrazione resistente. CC



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Inserito in data 16/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 ottobre 2012, n. 5277

Nomina a Difensore civico: precisazioni sulla natura dell’incarico.

I Giudici amministrativi, accogliendo le doglianze del Comune appellante, forniscono significative precisazioni in merito alla figura ed al ruolo del Difensore civico.

Questi, garante dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, è comunque legato al Consiglio comunale che ha provveduto a nominarlo, come dimostra, del resto, il quantum di voti necessario ai fini del perfezionamento della sua designazione.

Tuttavia, chiarisce il Collegio, ciò non comporta una deminutio in termini di serietà dell’incarico o nell’espletamento dello stesso.

Determina, soltanto, il venir meno di una figura voluta da una maggioranza ormai destituita e, come tale, non più meritevole di essere anche indirettamente rappresentata CC

 

 

 

 

 



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Inserito in data 13/10/2012
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, 25 settembre 2012 n. 33783

E’ diritto dei figli adottivi conoscere le proprie origini. Italia gravemente condannata

I Giudici di Strasburgo condannano l’Italia che consente sia mantenuto l’anonimato da parte dei genitori naturali di soggetti in seguito adottati.Una simile facoltà, infatti, parrebbe ostare con la previsione di cui all’articolo 8 della Convenzione europea che intende, invece, garantire a ciascun individuo l’assoluta conoscibilità delle proprie origini, oltreché delle proprie condizioni personali al momento della nascita.

La Corte ritiene, infatti, che siffatto percorso possa solo integrare e completare il diritto di ognuno all’integrità della propria vita personale e familiare e, come tale, meriti di essere bilanciato con il diritto all’anonimato del genitore naturale, di pari rilievo e degno, pertanto, di essere ugualmente ponderato.

In guisa di ciò, i Giudici della Corte francese, pur riconoscendo l’autonomia di ciascuno Stato in merito alla possibilità di salvaguardare, in ambito nazionale, un diritto – quale quello all’anonimato, qui considerato – esprimono il monito affinchè si valorizzi e tuteli un principio che la Convenzione considera inviolabile, quale quello del singolo al completamento della propria identità personale.CC




Inserito in data 13/10/2012
CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA, SEZ. IV, C - 179/11 del 27 settembre 2012

Diritto del richiedente asilo di ottenere assistenza da Stato membro, anche se non competente

I Giudici del Lussemburgo, uniformandosi ad un obiettivo di massima solidarietà tra popoli ormai da tempo perseguito dalle Istituzioni europee, affermano che le condizioni minime di accoglienza debbano essere concesse non soltanto a coloro che si trovano nel territorio dello Stato membro competente, ma anche a coloro i quali restano in attesa della relativa determinazione, tenendo conto anche della possibile eccessiva durata di un simile procedimento.

Ferma restando la possibilità di revocare ogni forma di assistenza, in caso di mancato ossequio, da parte dell'ospitato, al regime di accoglienza che ciascuno Stato membro prevede, è infatti obbligo di ogni Nazione della Comunità prestare la massima attenzione a chi richiede asilo.CC

 

 

 

 



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Inserito in data 11/10/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 11 ottobre 2012, n. 223

 

Illegittime le decurtazione sugli stipendi dei dipendenti pubblici ex art 9 DL 78/10

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 53 Cost., è fondata.

La disposizione, nella parte censurata, prevede che «a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 i trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, previsti dai rispettivi ordinamenti, delle amministrazioni pubbliche, inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), ai sensi del comma 3 dell’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, superiori a 90.000 euro lordi annui sono ridotti del 5% per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, nonché del 10% per la parte eccedente 150.000 euro».

La norma censurata non prevede una mera riduzione del trattamento economico, incidente solo sul contenuto del rapporto lavorativo dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, bensì introduce un vero e proprio prelievo tributario.

Come più volte affermato da questa Corte, indipendentemente dal nomen iuris attribuitole dal legislatore, al fine di valutare se una decurtazione patrimoniale definitiva integri un tributo, occorre interpretare la disciplina sostanziale che la prevede alla luce dei criteri indicati dalla giurisprudenza costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo: cioè la doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, nonché il collegamento di tale prestazione con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2009, n. 335 e n. 64 del 2008, n. 334 del 2006, n. 73 del 2005). Un tributo consiste, quindi, in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008); indice che deve esprimere l’idoneità di tale soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965, n. 45 del 1964).

Tanto premesso, va constatato che la disposizione impugnata (introdotta dal medesimo incipit e sorretta dalla medesima ratio del contributo di solidarietà di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» e convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, la cui natura tributaria è indubitabile) partecipa di tutti i sopra indicati elementi caratteristici del prelievo tributario.

In primo luogo, è stata stabilita in via autoritativa una decurtazione patrimoniale («riduzione» del trattamento economico), senza che rilevi la volontà – in ordine all’an, al quantum, al quando ed al quomodo – di chi la subisce.

In secondo luogo, la norma stabilisce che le risorse rese disponibili dalla «riduzione» del trattamento economico sono acquisite al bilancio dello Stato, senza operare alcuna distinzione tra le diverse categorie di dipendenti pubblici e, in particolare, tra i dipendenti pubblici statali e non statali. Ne deriva che la misura finanziaria in esame non può integrare una nuova disciplina del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e dipendente, perché lo Stato non avrebbe titolo per modificare con la disposizione in esame i trattamenti economici di rapporti lavorativi di cui non è parte. In altri termini, gli enti pubblici non statali (territoriali o no), nella loro qualità di datori di lavoro, non traggono alcun beneficio economico dalla predetta «riduzione», ma agiscono come «sostituti d’imposta» per le imposte sui redditi, trattenendo gli importi indicati dalla norma denunciata (quali «ritenute alla fonte») e provvedendo al loro «versamento diretto» all’erario per conto dei “sostituiti” propri dipendenti (ai sensi degli artt. 1, lettera b, e 3 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»). Inoltre, la permanenza degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» (terzo periodo dell’impugnato comma 2: «La riduzione […] non opera ai fini previdenziali») costituisce ulteriore e definitiva dimostrazione che la temporanea decurtazione del trattamento economico integra, in realtà, un prelievo a carico del dipendente pubblico e non una modificazione (peraltro unilaterale) del contenuto del rapporto di lavoro, alla quale avrebbe dovuto necessariamente conseguire, secondo ragionevolezza, una corrispondente modificazione di tali obblighi. Né a conclusioni diverse può giungersi per i soli dipendenti statali cosiddetti “non contrattualizzati”, per i quali una modifica del trattamento economico avrebbe necessariamente richiesto un intervento legislativo. È evidente, infatti, che l’unitarietà della disciplina posta dalla norma censurata (che, come già osservato, non distingue tra diverse categorie di dipendenti pubblici ed ha riguardo al «trattamento economico complessivo», comprensivo anche di voci stipendiali ed indennitarie corrisposte allo stesso soggetto da diverse amministrazioni pubbliche) e la permanenza in ogni caso degli obblighi previdenziali al lordo della «riduzione» impediscono di ritenere che per i soli dipendenti statali non contrattualizzati la norma impugnata abbia introdotto una nuova, temporanea e parziale disciplina del rapporto lavorativo. L’unica particolarità per i dipendenti statali (contrattualizzati o no) consiste nel fatto (non rilevante ai fini del presente giudizio) che il prelievo è effettuato dallo Stato mediante «ritenuta diretta», ai sensi degli artt. 1, lettera a), e 2 del d.P.R. n. 602 del 1973.

In terzo luogo, sussiste il collegamento del prelievo con la pubblica spesa, in quanto lo stesso legislatore afferma che la norma impugnata risponde alla dichiarata ratio di destinare le risorse rese disponibili dalla decurtazione patrimoniale del trattamento economico complessivo dei dipendenti pubblici al bilancio dello Stato per raggiungere, nei tempi previsti, gli obiettivi concordati in sede europea, cioè il pareggio di bilancio e, in particolare, la diminuzione del debito pubblico.

In quarto luogo, il presupposto economicamente rilevante in relazione al quale è previsto il prelievo è, con tutta evidenza, il complessivo reddito di lavoro conseguito dal dipendente pubblico nel periodo dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2013. Le stesse modalità applicative della misura seguite dal Ministero dell’economia e delle finanze, includendo nel montante lordo liquidato nel corso dell’anno, anche gli arretrati sia relativi all’anno corrente che per anni precedenti, sia delle competenze fisse che di quelle accessorie, ricollega la misura, più che al trattamento economico del dipendente, al reddito da lavoro pubblico, che concorre a formare il calcolo del risultato impositivo.

Occorre, perciò, concludere che si tratta, invece, di una imposta speciale prevista nei confronti dei soli pubblici dipendenti.

Ritenuta la natura tributaria del prelievo stabilito dalla norma censurata, occorre valutarne la conformità con i parametri costituzionali

Nella specie, pure considerando al giusto la discrezionalità legislativa in materia, la norma impugnata si pone in evidente contrasto con gli articoli 3 e 53 Cost. L’introduzione di una imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai redditi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione víola, infatti, il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Tale violazione si manifesta sotto due diversi profili.

Da un lato, a parità di reddito lavorativo, il prelievo è ingiustificatamente limitato ai soli dipendenti pubblici. D’altro lato, il legislatore, pur avendo richiesto (con l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) il contributo di solidarietà (di indubbia natura tributaria) del 3% sui redditi annui superiori a 300.000,00 euro, al fine di reperire risorse per la stabilizzazione finanziaria, ha inopinatamente scelto di imporre ai soli dipendenti pubblici, per la medesima finalità, l’ulteriore speciale prelievo tributario oggetto di censura. Nel caso in esame, dunque, l’irragionevolezza non risiede nell’entità del prelievo denunciato, ma nella ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. La sostanziale identità di ratio dei differenti interventi “di solidarietà”, poi, prelude essa stessa ad un giudizio di irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un “universale” intervento impositivo. L’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è, infatti, suscettibile senza dubbio di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali, nel difficile compito di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari e di garantire i servizi e la protezione di cui tutti cittadini necessitano. Tuttavia, è compito dello Stato garantire, anche in queste condizioni, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, il quale, certo, non è indifferente alla realtà economica e finanziaria, ma con altrettanta certezza non può consentire deroghe al principio di uguaglianza, sul quale è fondato l’ordinamento costituzionale.

In conclusione, il tributo imposto determina un irragionevole effetto discriminatorio. DT

 



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Inserito in data 08/10/2012
RIFORMA CONDOMINIO

Sempre più vicina l’approvazione definitiva del riforma del Condominio.

Dopo il passaggio alla Camera e le modifiche da essa apportate, il disegno di legge As 71-b – che si propone una riforma organica delle disposizioni del Codice Civile, in materia di condominio - approda al Senato in Commissione Giustizia, ottenendo la corsia preferenziale della sede deliberante. Nella sezione ultimissime, alcune delle novità più importanti introdotte dalla riforma. FT



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Inserito in data 01/10/2012
La Convenzione di Lanzarote è legge.

Il 19 settembre l'Aula del Senato ha approvato all'unanimità, con 262 sì, la ratifica della Convenzione di Lanzarote per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale.

L’Italia aderisce, quindi, all’intento del Consiglio d’Europa, volto ad agire anche contro nuovi quei reati che, come la pedopornografia, sempre più spesso, vengono compiuti con l'ausilio delle moderne tecnologie e sono consumati al di fuori dai confini nazionali del Paese di origine del reo.

In sintesi, queste le novità:

  1. In forza di tale ratifica entra nel nostro codice penale (art.414-bis) la parola pedofilia;
  2. Recepito, in tal guisa, l’obiettivo di tutelare il più possibile i minori, adoperando mezzi comuni;
  3. Si configura il reato di chi istighi o faccia apologia di "Pedofilia e pedopornografia culturale";
  4. Introdotto, altresì, l’art. 609 – undecies – Adescamento di minorenni – il c.d. grooming;
  5. Inasprite le pene per i reati di prostituzione e pornografia minorile;
  6. Non rileva più, infine, l’ignoranza della minore età della persona offesa nel caso di tali delitti. CC



Inserito in data 01/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 28 settembre 2012, n. 5153

Diniego parziale del diritto di accesso agli atti; contemperamento con tutela della privacy

E’ legittimo il diniego dell’Amministrazione che, in ipotesi di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale di un dipendente, decida di non rendere ostensibili i dati anagrafici di coloro le cui doglianze hanno reso possibile l’avvio del procedimento de quo.

Ritengono i Giudici, infatti, che il diniego dell’Amministrazione debba essere valutato ai sensi degli articoli 24, comma 6, lettera d), della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché 2 e 3 del D.M. n. 757 del 4 novembre 1994, che esplicitamente precludono l’accesso ai documenti, la cui conoscenza possa essere causa di violazione della privacy, ma anche di pressioni o azioni pregiudizievoli da parte del destinatario delle dichiarazioni. CC



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Inserito in data 01/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2012, n. 5132

Diniego diritto di accesso a documenti amministrativi relativi a procedimento disciplinare

I Giudici ricordano, decidendo di non discostarsi da un orientamento già consolidato, come costituisca un interesse qualificato la posizione del soggetto che, subendo un controllo ispettivo, intenda conoscere integralmente tutti i documenti utilizzati dall’Amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza, compresi gli esposti e le denunce che hanno determinato l’attivazione di tale potere.

E’ infondato, pertanto, il diniego mantenuto, nel caso concreto, dall’Amministrazione. CC



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Inserito in data 01/10/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2012, n. 5130

Revocazione di precedente sentenza. Precisati i contorni dell’art. 395 c.p.c. n. 5 diritto

Il Collegio delimita la nozione di “contrasto con altra pronuncia avente tra le parti autorità di cosa giudicata” – di cui al n. 5 dell’articolo 395 del c.p.c., rigettando, pertanto, la ragione revocatoria dedotta dal ricorrente.

Nel caso in esame, infatti, il mezzo di gravame adottato non riguarda il medesimo oggetto della pronuncia pregressa, sebbene coinvolga le stesse parti.

Manca, pertanto, quel nesso formale necessario al presunto contrasto, come dedotto dal ricorrente, data la presenza di due distinte pronunce che, nel merito, riguardano atti invero connessi, ma il cui giudicato involge aspetti differenti, rendendo, dunque, infondata la richiesta revocatoria.CC



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Inserito in data 29/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 settembre 2012, n. 5114

Procedimento: termini di conclusione e divieto di aggravio. Sindacato sul merito: confini

Esattamente il Tar ha anche affermato, in linea di principio, la rilevanza sul piano della legittimità del provvedimento finale, del rispetto dei 120 giorni fissati anche dalle linee guida di Sviluppo Italia. Si tratta infatti di termine sollecitatorio che appare precipuamente finalizzato a lasciare intatta l’attualità della validità del progetto. I 120 gg. corrispondevano cioè ad un congruo ambito temporale sufficiente a valutare compiutamente iniziative imprenditoriali che, per loro natura, possono essere fortemente condizionate dal fattore tempo, in ragione della dinamicità e variabilità dei presupposti di fattibilità, di costo e di redditività legati all’iniziativa medesima. Al contrario di quanto mostra di ritenere l’appellante, deve negarsi che le disposizioni di cui alle “linee-guida” potessero essere genericamente considerate frutto di un mero atto interno di organizzazione, come tale privo di efficacia erga omnes. Tali “linee-guida” erano state, infatti, editate e rese generalmente note da Sviluppo Italia proprio al fine di dare conoscenza ai potenziali interessati di tutti i dettagli del procedimento. Inoltre il termine dei 120 gg. costituiva la mera trasposizione dell’art. 7 del D.M. 18.2.1998 n. 306, “Regolamento recante norme per la concessione di agevolazioni finanziarie all'imprenditorialità giovanile” ... Contrariamente a quanto ripete più volte l’appellante, il fatto che nel nuovo D.M. n.250 sia stato eliminato ogni riferimento al termine procedimentale per la conclusione del procedimento non determinava affatto l’assoluta signoria di S.I. nella determinazione della durata dello stesso, ma al contrario implicava l’applicazione del termine di trenta giorni previsto nella disposizione “di chiusura” del sistema di cui all’art. 2, II co. della L. n.241/1990. Ciò posto, nel caso in esame appare ingiustificabile l’atteggiamento procedimentale di una struttura la quale, a fronte dei 120 gg. fissati da come tempo massimo di istruttoria, ha adottato il provvedimento finale quasi tre anni dopo la presentazione della domanda, con buona pace dell’intento di superare vecchi modelli burocratici ministeriali ... Tali ingiustificabili ritardi nell’istruttoria dei progetti, per un verso, nei singoli casi, rischiavano di determinare non solo l’inevitabile obsolescenza dei progetti, ma la stessa esistenza delle imprese richiedenti e, per altro verso, in linea generale, finivano per vanificare proprio le sbandierate finalità di sostegno dello sviluppo e supporto delle iniziative imprenditoriali nelle aree svantaggiate del Sud ... L’incredibile lentezza nell’esecuzione anche dei più elementari adempimenti e l’imposizione di ulteriori oneri appare un modus procedendi oggettivamente illegittimo in vista, soprattutto, del mancato rispetto del divieto di aggravio del procedimento, di cui al secondo comma dell’art.1 della L. n.241/1990 ... Le regole procedimentali che assicurano la trasparenza e la par condicio non sono meri ludi cartacei di carattere formalistico, ma costituiscono precisi meccanismi di garanzia nell’interesse dei singoli cittadini ed anche della funzionalità delle stesse pubbliche amministrazioni, per dare concretezza proprio ai principi di buon andamento, di efficacia e di economicità dell’azione amministrativa, a sproposito ricordati dall’appellante.

 

Le valutazioni discrezionali attinenti al merito amministrativo, lungi dall'essere insindacabili in via di principio non danno assolutamente luogo ad una zona franca dal controllo giurisdizionale. L'esercizio della discrezionalità tecnica deve infatti essere adeguatamente motivato ed è sempre suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, da parte del giudice amministrativo in casi di irrazionalità, contraddittorietà, iniquità delle conclusioni. Nel caso in esame, infatti, la motivazione del diniego non solo va in contrario avviso rispetto all’istruttoria favorevole della sede regionale, ma, sul piano della logica e della razionalità, appare del tutto generica e stereotipata ed assolutamente disgiunta dalla realtà economica nella quale l’offerta doveva andare ad inserirsi. Non vi è alcuno specifico studio o alcuna annotazione peculiare sulla situazione del porto turistico, sulla presenza di altri operatori nautici, e sulle possibilità effettive di sviluppare ex novo il mercato del noleggio di barche in relazione alla vicinanza di Stromboli e delle Isole Eolie. Inoltre, anche sul piano della comune esperienza, se si tiene conto che in Calabria la stagiona balneare, di norma, va dai primi di maggio ai primi di ottobre, l’indicazione di 21 settimane non pare completamente irragionevole e fuori mercato.

Invece il diniego appare fondato sull’affermazione generica, stereotipata e del tutto avulsa dallo specifico contesto economico dell’iniziativa, per cui in Italia il settore del charter nautico sarebbe caratterizzato “da una domanda stabile e da una crescente competizione tra gli operatori” e che l’utilizzo medio sarebbe limitato a sole 12/13 settimane annue per imbarcazione. Tale considerazione non è stata ricavata da un’analisi statistica o econometrica, o comunque da uno studio ad hoc di un ente di ricerca, ma dalle dichiarazioni fatte al Sole-24 Ore da un operatore di Procida e da un operatore a livello nazionale (che potrebbero anche essere interessatamente dirette a frenare iniziative altrui). A dispetto del lungo tempo utilizzato da S.I . per l’istruttoria procedimentale, il diniego appare affidato all’uso di una generica motivazione relativa al settore del noleggio nautico nazionale, mancante di qualsiasi analisi specifica del progetto nel contesto della realtà in cui l’intrapresa doveva andare a collocarsi. Il diniego finale appare dunque viziato per difetto di istruttoria, nonchè per errore e travisamento dei presupposti e per la mancata applicazione di regole tecniche a livello delle scienze economiche. FT



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Inserito in data 29/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 settembre 2012, n. 5117

Interdittiva antimafia, autotutela decisoria retroattiva e aggiornamento efficace ex nunc

L’eventuale accertamento, nella sentenza penale, dell’inesistenza in fatto di comportamenti o di circostanze considerati indizi di infiltrazione mafiosa, non è soltanto una sopravvenienza da valutare in sede amministrativa, ma comporta anche l’accertamento di un vizio del presupposto a carico dell’interdittiva che era stata adottata sulla base dell’esistenza di quegli elementi. Ma, per contro, deve ritenersi che un giudizio (non di inesistenza, bensì) di irrilevanza penale dei suddetti elementi di fatto non possa rendere di per sé illegittima la valutazione prognostica a suo tempo effettuata dalla Prefettura nell’ottica della prevenzione di pericolo sottesa al potere esercitato. Tanto più, qualora, come nel caso in esame (secondo quanto si legge nelle motivazioni del provvedimento prefettizio di “annullamento”), l’interdittiva fosse basata non soltanto sugli elementi indiziari poi ritenuti irrilevanti in sede penale, ma anche su altri elementi ... In un simile contesto, sembra evidente come dalla sentenza penale non sia stata fatta discendere, automaticamente, l’illegittimità dell’interdittiva. Tale illegittimità - anche considerato, si ripete, che le informative ed interdittive antimafia sono espressione della logica di anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto alla criminalità organizzata, prescindono dalle rilevanze probatorie proprie del processo penale e tendono a cogliere l’affidabilità dell’imprenditore complessivamente intesa, essendo pertanto sufficiente per la loro adozione un quadro indiziario che sia reale ed effettivo – sarebbe dovuta scaturire dal riscontro, in sede giurisdizionale o in sede di autotutela decisoria, di errori, travisamenti, manifeste illogicità tali da inficiare, con riferimento al quadro fattuale e normativo all’epoca esistente, la valutazione a suo tempo effettuata. Tuttavia, l’impugnazione dell’interdittiva è stata respinta nel merito dal TAR ... , che ha rimarcato come «l’attività dell’Amministrazione appare coerente ai fatti ed alle circostanze dalla stessa evidenziate e non carente … di supporto istruttorio e motivazionale e non viziata da illogicità». E nelle motivazioni del provvedimento prefettizio di “annullamento” non si trovano gli elementi sostanziali dell’autotutela decisoria retroattiva, non essendo stati esplicitati motivati rilievi di illegittimità nei confronti della valutazione a suo tempo effettuata. In sintesi, il Prefetto di Avellino, al di là della qualificazione data al provvedimento, ha considerato “elementi chiaramente sopravvenuti” ... , per aggiornare la posizione antimafia della società P., ma senza formulare anche un giudizio di illegittimità in ordine all’interdittiva preesistente. Pertanto, nel caso in esame, sembra corretta la qualificazione del provvedimento prefettizio prospettata dalla ricorrente, nel senso che si tratti di un aggiornamento, con efficacia ex nunc, della posizione antimafia della società appellata - assimilabile quanto a struttura e finalità alla revoca, dalla quale tuttavia si discosta per la mancanza di momenti di discrezionalità pura, non trattandosi di rivalutare comparativamente interessi pubblici bensì di apprezzare elementi di fatto circostanziati. La sentenza di primo grado ha sì colto l’esistenza di una nuova valutazione, non interamente condizionata dall’esito del processo penale, ma poi non ne ha tratto le dovute conseguenze in termini di qualificazione del provvedimento prefettizio e di decorrenza dei suoi effetti.

Ne discende che non era consentito alle Amministrazioni resistenti revocare, senza altre diverse motivazioni, l’aggiudicazione provvisoria disposta in favore del ricorrente e ripristinare l’originario contratto a suo tempo risolto, non potendosi ritenere venuta meno, alla data della risoluzione e dell’aggiudicazione provvisoria, l’esistenza e l’efficacia dell’interdittiva antimafia che colpiva la società appellata. Il provvedimento impugnato risulta perciò illegittimo. FT



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Inserito in data 29/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 settembre 2012, n. 5111

Gare d’appalto: sindacabili per eccesso di potere i criteri del bando e della commissione

In linea di pura massima, dunque, un bando che si limiti ad indicare talune delle “voci” di cui all’art. 83, comma 1, con l’indicazione dei rispettivi punteggi (o, al limite, la mera indicazione dell’ordine di importanza) presenta il contenuto minimo sufficiente per soddisfare le prescrizioni dell’art. 83. Beninteso, ciò non significa che tanto basti a rendere il bando sufficiente (e legittimo) nel contesto di qualsivoglia fattispecie. Si è visto, infatti, che nella formulazione dei criteri l’autorità è chiamata a compiere una serie di scelte discrezionali: (a) la selezione, fra le voci elencate nel comma 1, di quelle appropriate alla natura e all’oggetto del contratto; (b) l’eventuale aggiunta di altre voci; (c) l’eventuale suddivisione delle voci in sottovoci (“subcriteri”); (d) l’assegnazione ad ogni voce (o criterio) e ad ogni sottovoce (o subcriterio) del relativo punteggio o quanto meno dell’ordine di importanza. Trattandosi di scelte discrezionali, ciascuna di esse sarà, per definizione, sindacabile. Ma è chiaro, a questo punto, che il vizio ipotizzabile potrà essere solo quello dell’”eccesso di potere” con riferimento alle sue figure classiche: illogicità, incoerenza, incongruità, sperequazione, e via dicendo. E sarà onere del ricorrente dimostrare che il bando presenta questi vizi, in concreto e in rapporto alla natura del contratto, di tal che l’applicazione di quella tabella di punteggi (proprio perché inappropriata, inadeguata, lacunosa, etc.) porterà prevedibilmente ad un risultato falsato.

Com’è noto, il testo originario dell’art. 83, comma 4, del codice degli appalti prescriveva che la commissione formulasse i propri criteri motivazionali prima dell’apertura delle buste contenenti l’offerta; e si discuteva se si trattasse di un adempimento dovuto in ogni caso. Successivamente, questa disposizione è stata eliminata, nell’intento di ribadire il concetto che i criteri di giudizio debbono essere precisati dal bando e conosciuti dai concorrenti prima ancora della presentazione delle offerte. In questo contesto si può ritenere comunemente condiviso che il bando non può demandare o delegare (esplicitamente o tacitamente) alla commissione la formulazione dei criteri di giudizio e se lo facesse sarebbe illegittimo; in ogni caso, la formulazione dei criteri da parte della commissione non sopperisce alla mancanza o incompletezza della relativa indicazione del bando. Una cosa però è dire questo, e altro sarebbe dire che sia vietato alla commissione (pena l’annullabilità della gara) esternare i propri criteri di valutazione, pur quando il bando, sotto questo profilo, sia esente da vizi (come nella vicenda presente). Si è visto che l’indicazione dei criteri contenuta nel bando non può essere (e comunque può non essere) tanto minuziosa da esaurire ogni margine di discrezionalità, tanto da rendere vincolata l’attività della commissione. Peraltro, se la commissione dispone di margini di discrezionalità nella valutazione delle offerte (pur nell’ambito dei criteri dettati dal bando), ciò comporta che può adottare atti di autolimitazione della discrezionalità. Ed invero, dove vi è un potere discrezionale (e non importa che i suoi margini siano più o meno ristretti) vi è anche, inevitabilmente, lo spazio per atti di autolimitazione della discrezionalità. Anzi, in un certo senso un momento di autolimitazione è sempre presente nella fase iniziale dell’esercizio della discrezionalità (quanto meno, se la discrezionalità non degenera in arbitrio). Semmai, la distinzione è fra i casi nei quali l’atto di autolimitazione viene formalizzato ed esternato, e quelli nei quali viene mantenuto in pectore per essere poi applicato di fatto. Anche nella vicenda in esame, in effetti, la commissione di gara, invece di adottare i propri subcriteri con atto formale e verbalizzato, avrebbe potuto applicarli tacitamente e di fatto: se così fosse avvenuto, non sarebbe stato ipotizzabile alcun vizio di procedura. Ma se questo è vero, ci si chiede come possa risolversi in vizio invalidante la circostanza che quell’atto di autolimitazione, invece che rimanere serbato in pectore, sia stato reso di pubblica ragione. La formalizzazione giova alla trasparenza e alla sindacabilità delle valutazioni conclusive. Resta vero tuttavia che l’atto di autolimitazione della discrezionalità è, esso stesso, un atto di esercizio della discrezionalità e come tale è sindacabile sotto il profilo dell’eccesso di potere. Perciò, quante volte una commissione di gara (senza esservi tenuta, e senza che il bando lo richieda) procede ad esternare i propri criteri (o subcriteri) di giudizio, sarà possibile censurarli come illogici, incoerenti, incongrui e via dicendo; soprattutto essi risulteranno viziati (e vizianti) qualora producano l’effetto di alterare e squilibrare l’impianto dei criteri dettati dal bando. Quest’ultimo profilo è di particolare importanza in relazione all’esigenza, già ricordata, che i concorrenti, prima ancora di presentare le offerte, abbiano contezza dei criteri con cui saranno giudicati; ma che l’atto della commissione sia viziato per questa ragione deve essere dimostrato in concreto e non può essere presunto a priori. FT



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Inserito in data 29/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 settembre 2012, n. 5088

 Decadenza vincoli e rideterminazione urbanistica: ammissibilità impugnazione del silenzio

In linea di massima, nei giudizi sul silenzio dell’Amministrazione, il giudice amministrativo non può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24 maggio 2010, n. 3270). Pertanto, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere della accoglibilità dell'istanza: a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione; b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12 marzo 2010, n. 1468). Non è questo, tuttavia, il caso di specie.

La sentenza impugnata ha ritenuto che l’odierno appellante non potrebbe mai conseguire il bene della vita richiesto, posto che nella zona in questione sarebbe consentita solo l’installazione di attività di commercio all’ingrosso e non al dettaglio. Da ciò la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. L’illazione circa il fine ultimo della richiesta del ... può forse essere plausibile alla luce delle precedenti istanze dell’appellante, richiamate anche dalla difesa dell’Amministrazione comunale ... In questi termini, la richiesta è legittima e impone risposta da parte del Comune, nel senso che il signor ... ha un interesse giuridicamente tutelabile a conoscere se e quali iniziative la parte pubblica intenda assumere a seguito della situazione che si è venuta a determinare per effetto della caduta del vincolo. Resta naturalmente fermo che l'obbligo di provvedere alla rideterminazione urbanistica di un'area, in relazione alla quale sono decaduti i vincoli espropriativi precedentemente in vigore (o i vincoli a quelli assimilati) non comporta che essa riceva una destinazione urbanistica edificatoria o nel senso voluto dal privato, essendo in ogni caso rimessa al potere discrezionale dell'Amministrazione comunale la verifica e la scelta della destinazione che, in coerenza con la più generale disciplina urbanistica del territorio, risulti più idonea e più adeguata in relazione all'interesse pubblico al corretto e armonico utilizzo del territorio, potendo anche ammettersi la reiterazione degli stessi vincoli scaduti, sebbene nei limiti di una congrua e specifica motivazione sulla perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3365). FT



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Inserito in data 27/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 24 settembre 2012, n. 33

Competenza territoriale GA: il criterio della sede cede dinanzi a quello dell’efficacia

Tale criterio é sostituito da quello inerente gli effetti “diretti” dell’atto, qualora essi si esplichino in luogo compreso in un diversa circoscrizione territoriale di Tribunale amministrativo regionale.

Come precisato nella relazione al detto codice, in tal modo si è inteso chiarire che il criterio ordinario di riparto della competenza per territorio “è quello della sede dell’autorità amministrativa cui fa capo l’esercizio del potere oggetto della controversia. Tuttavia tale criterio non opera là dove gli effetti diretti del potere siano individuabili in un ambito diverso; in tal caso la competenza è del Tribunale nella cui circoscrizione tali effetti si verificano. Ciò in linea con il più recente orientamento secondo cui deve in tali ipotesi privilegiarsi il criterio connesso all’ambito territoriale di efficacia diretta del potere esercitato, anche in ragione delle possibili connessioni tra diversi giudizi, nonché per non accrescere oltremodo il carico del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, sul quale altrimenti verrebbero a gravare tutte le controversie aventi ad oggetto l’attività delle amministrazioni che hanno sede nella capitale, anche quando tale attività riguardi in via diretta circoscritti ambiti territoriali”.

Nel caso in cui l’atto oggetto della controversia sia l’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto deve affermarsi che questo non è un atto avente portata generale né ha efficacia sull’intero territorio nazionale, bensì opera in seno al singolo rapporto cui afferisce e, pertanto, spiega i suoi effetti “diretti” nell’esclusivo ambito della circoscrizione territoriale ove quest’ultimo è costituito e si svolge. SL



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Inserito in data 27/09/2012
TAR CAMPANIA SEZ. VII 17 settembre 2012 n. 3879

Il proprietario è legittimato passivo rispetto al provvedimento di demolizione, ma ...

Il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell' abuso, ai sensi dell’art. 31, co. 2 e 3 D.P.R. 380/01.

Tuttavia, nel caso in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all' abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire.

In altri termini, l’estraneità del proprietario agli abusi edilizi commessi sul bene da un soggetto che ne abbia la piena ed esclusiva disponibilità non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei suoi confronti, ma solo l’inidoneità del provvedimento repressivo a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene. SL



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Inserito in data 25/09/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 21 settembre 2012, n. 219

Q.l.c. di una norma regionale. Vulnus alla libera prestazione di servizi

I Giudici della Consulta dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma regionale, ove essa imponga a professionisti provenienti da altre regioni il medesimo tariffario previsto dalla Giunta regionale per coloro i quali operano nel territorio di appartenenza.

La disposizione, con evidente finalità protezionistica, arrecherebbe un serio vulnus ai principi di libera prestazione dei servizi, oltreché di ampio esercizio della professione, di matrice comunitaria ed accolti nel nostro sistema per il tramite dell’articolo 117 – 1’ co. della Costituzione.

Inoltre comporterebbe un’ingerenza della Regione in un ambito, quale quello della concorrenza, spettante in via esclusiva al Legislatore statale – ex art. 117 – 2’ co. lett. e).

Appare fondata, pertanto, la declaratoria di illegittimità pronunciata dalla Corte. CC



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Inserito in data 25/09/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 21 settembre 2012, n. 220

Natura dell’atto di conferimento della qualità di agente di pubblica sicurezza

La Corte dichiara l’inammissibilità della q.l.c. sollevata da un TAR siciliano in merito ad una norma di una Legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale.

Tale disposizione, infatti, subordina il conferimento al personale della polizia dell’Ente locale, della qualità di agente di pubblica sicurezza, al fatto che necessariamente sussistano taluni requisiti dalla stessa norma tassativamente indicati e previamente comunicati dal Sindaco all’Autorità prefettizia.

In tal guisa, parrebbe scardinata la gerarchia dei relativi poteri, oltrechè il riparto di competenze, costituzionalmente siglati in tema di ordine pubblico.

Inoltre, l’assimilazione, un po’ forzosamente condotta dal Rimettente, alle possibili infiltrazioni mafiose proprie del ramo dei contratti pubblici, potenzialmente riscontrabili anche negli eventuali candidati al ruolo qui discusso, ha reso l’ordinanza di rimessione estremamente generica in ordine al petitum, tanto da indurre i Giudici della Consulta a pronunciarne l’inammissibilità. CC



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Inserito in data 25/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 settembre 2012, n. 5056

Statuizione sulle spese di giudizio. Estensione dei poteri del Giudice

Il Collegio torna ancora una volta, in linea con la giurisprudenza più recente, ad affermare la natura meramente discrezionale del potere del Giudice in sede di statuizione sulle spese di giudizio, evidenziandone, al tempo stesso, i limiti.

Si tratta, infatti, sostengono i Giudici, di un apprezzamento sì latamente discrezionale, comunque sindacabile in caso di motivazione assolutamente incongrua o inadeguata, o tendente a sorreggere delle ragioni la cui infondatezza è stata, invece, acclarata in sentenza, come nel caso di specie. CC



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Inserito in data 24/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 settembre 2012, n. 4929

Sui poteri del giudice in merito alla statuizione delle spese di giudizio e sulla loro insindacabilità

La statuizione sulle spese di giudizio è espressione di un potere latamente discrezionale del Giudice di prime cure, ma è sindacabile in questa sede per violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa o in caso di compensazione ictu oculi irragionevole.

Per cui, in ordine alla condanna o alla compensazione delle spese del giudizio, il Giudice è tenuto a valutare ogni elemento prima di emettere la relativa statuizione, ma non anche a indicare in modo articolato le ragioni della compensazione, con conseguente limitazione del potere di verifica in fase d’appello delle relative statuizioni. La condanna alle spese di giudizio non ha alcun intento sanzionatorio, ma serve solo a far gravare le conseguenze della lite sulla parte che ne ha ingiustamente dato causa, secondo il canone di attribuzione alla parte vittoriosa di tutto quanto la stessa avrebbe ottenuto, tra cui il mancato sostenimento delle spese e dei tempi di giudizio, ove fosse stato corretto il comportamento della sua avversaria.

Sicché, l’art. 92, comma 2, c.p.c., dopo la predetta novella, impone al Giudice, che intenda compensare in tutto o in parte tali spese se concorrono giusti motivi, di fornirne una seria valutazione, in via diretta o per relationem, stante la maggior vincolatezza ex lege in ordine alla motivazione della compensazione. SL



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Inserito in data 24/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 settembre 2012, n. 4925

Non è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento nell’ipotesi di atti a contenuto vincolato

Le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua - con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell'azione amministrativa - quando l'interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all'apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.

In materia di comunicazione di avvio prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ex art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241 è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere - in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento - l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, sì da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.

Alla luce di questa linea interpretativa si può affermare che la comunicazione di avvio del procedimento dovrebbe diventare superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici).

Conforto a tale interpretazione si rinviene in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21 octies legge 15/2005, specificamente riferita alla violazione procedimentale dell’articolo 7, ed applicabile tanto alla ipotesi di atto vincolato che a quella di atto discrezionale: la novella legislativa ha previsto che l’amministrazione può dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato , così superando la censura di carattere formale. SL



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Inserito in data 24/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2012, n. 4795

Presupposti necessari per la configurazione dell’ipotesi di lottizzazione abusiva (con particolare riferimento a quella c.d. negoziale)

E’ ravvisabile l’ipotesi di lottizzazione abusiva solamente quando sussistono elementi precisi ed univoci da cui possa ricavarsi oggettivamente l’intento di asservire all'edificazione un’area non urbanizzata.

Pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del presupposto di cui all’art. 18 della l. n. 47/1985 non è sufficiente, ad esempio, il mero riscontro del frazionamento di un terreno collegato a plurime vendite, ma sussiste anche la necessità di acquisire un sufficiente quadro indiziario dal quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, giustificandosi l’adozione del provvedimento repressivo anche a fronte della dimostrazione della sussistenza di almeno uno degli elementi precisi e univoci anzidetti.

In particolare la cosiddetta lottizzazione negoziale, può concretizzare in astratto già di per sé il fenomeno della lottizzazione abusiva, purché ciò si possa desumere in modo non equivoco dalle dimensioni e dal numero dei lotti, dalla natura del terreno, dall’eventuale revisione di opere di urbanizzazione e dalla loro destinazione a scopo edificatorio. SL



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Inserito in data 24/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 settembre 2012, n. 4707

Il giudice non può argomentare la compensazione delle spese di giudizio adducendo genericamente “giusti motivi”

I “giusti motivi”, in base ai quali il giudice dispone la compensazione tra le parti in causa delle spese del giudizio in deroga al criterio generale della soccombenza fissati dall'art. 92 cod. proc. civ. (ora richiamato dall’art. 26 cod. proc. amm.), infatti, anche se non puntualmente specificati, devono quanto meno essere desumibili dal contesto della decisione SL



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Inserito in data 18/09/2012
II CORRETTIVO AL C.P.A.

Il 14 settembre il Consiglio dei Ministri ha definitivamente approvato il testo del decreto legislativo correttivo del C.P.A.

In sintesi le novità più rilevanti:

1. Competenza: preclusioni più rigide; verifica anche in mancanza di istanza cautelare

Relazione allo schema di decreto legislativo: Un primo intervento riguarda la competenza che il Codice ha già reso sempre e necessariamente inderogabile ... Le nuove disposizioni in tema di competenza non hanno tuttavia previsto alcun meccanismo di preclusione temporale per formulare l’eccezione di incompetenza, con il conseguente rischio che ciò avvenga – nei casi in cui la verifica della competenza non sia stata effettuata in sede cautelare – addirittura a conclusione del giudizio di merito, con la conseguente eccessiva dilatazione dei tempi processuali. Si è, dunque, introdotta (oltre ad un generale “riordino” delle disposizioni, onde consentirne una più agevole lettura) la possibilità di richiedere anche per quei ricorsi per i quali non vi è istanza di adozione di misure cautelari (la cui concessione, come è noto, richiede una preventiva verifica della competenza), una verifica della competenza, che viene prontamente effettuata in una udienza in camera di consiglio all’uopo fissata (art. 15, comma 3). Rimane ferma naturalmente la possibilità di rilevare d’ufficio l’incompetenza in sede decisoria di merito (art. 15, comma 1), in coerenza con il carattere inderogabile della stessa.

Art. 15: La nuova formulazione dell’articolo, da un lato, conferma il principio che il difetto di competenza è sempre rilevabile d’ufficio, principio innovativo che superava il precedente regime della derogabilità della competenza territoriale; dall’altro, persegue lo scopo di evitare l’eccessiva durata dei processi nei casi in cui il vizio venga per la prima volta esaminato nella fase conclusiva del processo.

[“1. Il difetto di competenza è rilevato d’ufficio finchè la causa non è decisa in primo grado. Nei giudizi di impugnazione esso è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della sentenza impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla competenza.

2. In ogni caso il giudice decide sulla competenza prima di provvedere sulla domanda cautelare e, se non riconosce la propria competenza ai sensi degli art. 13 e 14, non decide sula stessa.

3. In mancanza di domanda cautelare, il difetto di competenza può essere eccepito entro il termine previsto per la costituzione in giudizio. Il Presidente fissa la camera di consiglio per la pronuncia immediata sulla questione di competenza. Si osserva il procedimento di cui all’art. 87 comma 3 ...”].

I commi 4 e 5 disciplinano la riassunzione del processo innanzi al giudice dichiarato competente e l’impugnazione dell’ordinanza che pronuncia sulla competenza con l’istanza di regolamento di competenza. I commi 6, 7, 8 e 9 disciplinano la domanda cautelare, con riferimento all’individuazione del giudice competente a esaminarla e all’efficacia dei provvedimenti cautelari emanati dal giudice.

2. Azione adempimento: fondatezza pretesa accertabile solo nei limiti dell’art. 31, co. 3, c.p.a.

Relazione allo schema di decreto legislativo, art. 34 co. 1 lett. c): la modifica tende a chiarire che l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto (cosiddetta azione di adempimento) può essere proposta contestualmente all’azione di annullamento o all’azione avverso il silenzio, specificando che in ogni caso l’accertamento della fondatezza della pretesa può essere effettuato solo nei limiti rigorosi stabiliti dall’art. 31, comma 3, a proposito dell’azione avverso il silenzio che tendono a garantire il principio della separazione dei poteri.

[art. 34 co. 1 lett. c), dopo le parole “del codice civile” sono aggiunte le seguenti: “l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è proposta, nei limiti di cui all’art. 31, comma 3, contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio”].

3. Indicazione a pena di inammissibilità dei motivi specifici a base del ricorso

Relazione allo schema di decreto legislativo: ulteriori modifiche hanno lo scopo di promuovere l’effettività di alcuni principi posti dal Codice quali, in particolare, il principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali (art. 3, comma 2) e il principio della specificità dei motivi su cui si fonda il ricorso (art. 40). Si è, infatti, previsto che il giudice, nel provvedere sulle spese, tenga conto anche dell’eventuale violazione dei principi di chiarezza e sinteticità (art. 26, comma 1) e si è prevista l’inammissibilità dei motivi di ricorso proposti in violazione della regola di specificità indicata dall’art. 40, comma 1, lett. d).   

[all’art. 26, comma 1, dopo le parole “codice di procedura civile” sono aggiunte le seguenti: “tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all’art. 3, comma 2”;

l’art. 40 è stato sostituito integralmente. Si richiama in particolare il comma 1 lett. d), che prevede che “Il ricorso deve contenere distintamente ... i motivi specifici su cui si fonda il ricorso”, ed il comma 2, che prescrive che “i motivi proposti in violazione del comma 1, lettera d), sono inammissibili”].

4. Rotazione nei collegi tra tutti i componenti di sezione: risolte le rigidità

Relazione allo schema di decreto legislativo: viene altresì adeguato il meccanismo di composizione dei collegi deliberanti alla luce delle criticità emerse in sede applicativa con riguardo alla rigidità della disposizione previgente che, nel cristallizzare la composizione di tutti i collegi mediante la costante presenza degli stessi due magistrati persone fisiche (presidente e magistrato anziano della sezione), ha di fatto impedito di realizzare pienamente il criterio di rotazione nei collegi tra tutti i componenti della sezione e, con esso, di dare piena e costante applicazione al principio della collegialità, particolarmente intenso nel giudizio amministrativo.

Art. 76: le modifiche, come già precisato, scaturiscono dalle criticità emerse in sede di applicazione dell’art. 114, comma 4, disp. att. c.p.c. richiamato dall’art. 76, comma 4, del codice che ha di fatto impedito di realizzare pienamente il criterio di rotazione nei collegi tra tutti i componenti della sezione.

[all’art. 76, comma 4, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) le parole: “114, quarto comma” sono sostituite dalle seguenti: “114, terzo comma”;

b) è aggiunto, infine, il seguente periodo: “Il presidente del tribunale amministrativo regionale, con decreto, fissa annualmente i criteri obiettivi per la composizione dei collegi giudicanti”].

5. Appello incidentale; rito cautelare in appello; rapporto sez. semplici/ad. Plen.

Relazione allo schema di decreto legislativo: il decreto legislativo modifica alcuni termini processuali per renderli più coerenti con il generale sistema processuale (v. art. 96, comma 5), precisa meglio il regime applicabile ai mezzi di impugnazione, con particolare riguardo all’appello cautelare (art. 98) e chiarisce i rapporti tra le sezioni semplici e l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (art. 99, comma 1).

Art. 96, comma 5: si prevede che il ricorso contenente l’impugnazione incidentale di cui all’art. 334 c.p.c. , deve essere depositato entro il più ampio termine di 30 giorni, in luogo del termine di 10 giorni ora previsto, e ciò al fine di allineare tale termine di deposito agli altri analoghi termini previsti dal codice.

Art. 98: in risposta ad alcuni dubbi sorti in giurisprudenza, si precisa ora che al giudizio cautelare in appello si applichino le pertinenti disposizioni previste per il procedimento cautelare in primo grado.

Art. 99: si chiarisce che l’Adunanza plenaria, investita dalla sezione semplice di una questione che essa ritenga abbia dato o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali, possa valutare l’opportunità di restituire gli atti alla stessa, perché sia quest’ultima a decidere.

6. Ampliate ipotesi di immediata impugnabilità nel procedimento elettorale preparatorio

Relazione allo schema di decreto legislativo: infine, il decreto legislativo amplia, in materia di contenzioso relativo alle operazioni elettorali, le ipotesi in cui i provvedimenti relativi al procedimento elettorale preparatorio sono immediatamente impugnabili (art. 129), in conformità al principio di effettività della tutela giurisdizionale, ed in attuazione della sentenza della Corte Costituzionale 5 luglio 2010, n. 236.

[all’art. 129 sono apportate le seguenti modificazioni:

1) i commi 1 e 2 sono sostituiti dai seguenti:

1. I provvedimenti immediatamente lesivi del diritto del ricorrente a partecipare al procedimento elettorale preparatorio per le elezioni comunali, provinciali e regionali e per il rinnovo dei membri del parlamento europeo spettanti all’Italia sono impugnabili innanzi al tribunale amministrativo regionale competente nel termine di 3 giorni dalla pubblicazione, anche mediante affissione, ovvero dalla comunicazione, se prevista, degli atti impugnati.

2. Gli atti diversi da quelli di cui al comma 1 sono impugnati alla conclusione del procedimento unitamente all’atto di proclamazione degli eletti”. (...) ] FT




Inserito in data 17/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 settembre 2012, n. 4922

Presenza dei requisiti richiesti dal bando secondo la relativa sequenza procedimentale

I Giudici ribadiscono la necessaria sussistenza dei requisiti richiesti da un bando di concorso nel momento in cui la sequenza procedimentale, dallo stesso regolamentata, lo richieda.

Nel caso in esame, infatti, deve essere riformata la sentenza con cui i Giudici di primo grado, recependo acriticamente le indicazioni di un collegio medico verificatore della patologia lamentata dall’Amministrazione arruolante a carico dell’odierno appellato, avevano disposto in suo favore.

Il discusso accertamento medico, disposto a seguito di un incombente istruttorio, avrebbe finito con il dare al candidato un’ingiusta situazione di favore, in violazione dei principi di eguaglianza ed imparzialità dell’Amministrazione – ex artt. 3 e 97 Cost. – inducendo ad un vaglio che, postergato per mere ragioni processuali, gli conferiva un’opportunità ulteriore rispetto agli altri aspiranti, oltreché discordante rispetto alle previsioni di un bando di concorso. CC



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Inserito in data 17/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 settembre 2012, n. 4928

Statuizione in merito alle spese di giudizio: limiti alla discrezionalità del Giudice

I Giudici amministrativi, ribadendo giurisprudenza ormai costante, ricordano come la statuizione del Giudice in merito alla suddivisione delle spese processuali è, sì, espressione di un potere latamente discrezionale, ma deve pur sempre mantenersi nei limiti della ragionevolezza.

E’ auspicabile, infatti, che l’Organo giudicante, ove ricorrano giusti motivi come nel caso concreto, illustri le motivazioni che sorreggono un’eventuale valutazione equitativa tra le due parti del giudizio, in via diretta o per relationem, stante la maggior vincolatezza ex lege in ordine alla motivazione della compensazione. CC



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Inserito in data 17/09/2012
TAR LAZIO LATINA, SEZ. I, 13 settembre 2012, n. 283

Decreto di nomina assessori; violazione principio delle pari opportunità

Il Collegio latinense sospende l’efficacia di un decreto di nomina degli assessori, tutti di sesso maschile, richiesto da alcune candidate.

E’ evidente, infatti, come si legge nella presente ordinanza di accoglimento dell’istanza cautelare, la sussistenza del fumus boni iuris laddove era stata attuata l’audizione, peraltro negativa, di due sole candidate all’incarico in questione. Il principio delle pari opportunità è, quindi, palesemente inciso, posto che non si garantisce una proporzionata rappresentanza femminile. CC



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Inserito in data 17/09/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. IIIquater, 13 settembre 2012, n. 7782

Emissione di ordinanze contingibili ed urgenti. Profili di incolumità pubblica

Accolto il ricorso proveniente da varie associazioni amatoriali di particolari razze canine, sulla cui fondatezza i Giudici romani si erano già pronunciati in sede cautelare.

L’ordinanza con cui veniva disposto il divieto di taluni interventi chirurgici, destinati a modificare la morfologia del cane, quali il taglio della coda – c.d. caudotomia, risulta priva, invero, di quei requisiti dell’indifferibilità ed urgenza che ne avallerebbero l’estrinsecazione a tutela della collettività.

Inoltre, tale provvedimento contrasta con pregresse determinazioni ministeriali, oltreché con fonti normative superiori, di provenienza comunitaria, in accoglimento delle quali il medesimo Ministero si era già espresso, privandolo di fondamento giuridico e di ogni presupposto giustificativo, al punto da giustificarne la presente istanza di annullamento.CC

 



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Inserito in data 14/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 settembre 2012, n. 4843

Compensazione delle spese: onere di motivazione in 1° grado e limiti al sindacato in appello

Si fa riferimento alla giurisprudenza per la quale la statuizione sulle spese di giudizio è espressione di un potere latamente discrezionale del Giudice di prime cure, ma è sindacabile in questa sede per violazione del principio secondo cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa o in caso di compensazione ictu oculi irragionevole ... È corollario di questo enunciato, nell’attuale ordinamento —ossia per le cause instaurate dopo dell’entrata in vigore (1° marzo 2006) della novella recata dall'art. 3 della l. 28 dicembre 2005 n. 263 all’art. 92 c.p.c.—, l’orientamento ... per cui, in ordine alla condanna o alla compensazione delle spese del giudizio, il Giudice è tenuto a valutare ogni elemento prima di emettere la relativa statuizione, ma non anche a indicare in modo articolato le ragioni della compensazione, con conseguente limitazione del potere di verifica in fase d’appello delle relative statuizioni. La condanna alle spese di giudizio non ha alcun intento sanzionatorio, ma serve solo a far gravare le conseguenze della lite sulla parte che ne ha ingiustamente dato causa, secondo il canone di attribuzione alla parte vittoriosa di tutto quanto la stessa avrebbe ottenuto, tra cui il mancato sostenimento delle spese e dei tempi di giudizio, ove fosse stato corretto il comportamento della sua avversaria ... Sicché, l’art. 92, comma 2, c.p.c., dopo la predetta novella, impone al Giudice, che intenda compensare in tutto o in parte tali spese se concorrono giusti motivi, di fornirne una seria valutazione, in via diretta o per relationem, stante la maggior vincolatezza ex lege in ordine alla motivazione della compensazione ...

Trattandosi nella specie di controversia instaurata innanzi al TAR Salerno ben prima della citata novella, la statuizione di compensazione delle spese del giudizio è espressione di un apprezzamento latamente discrezionale del Giudice di primo grado, il quale non deve per forza indicare le ragioni che la sorreggono. Ma ciò non toglie che la sentenza di prime cure possa esser censurata in appello, se tali ragioni risultino o palesemente erronee o illogiche o, a fronte di un’eccezione specifica (come nel caso in esame, sulla manifesta infondatezza della pretesa azionata in quella sede), incongrue rispetto al contenuto del giudizio che tal infondatezza accerta. Resta, quindi, ferma la regola per cui la statuizione delle spese del giudizio, per quanto espressiva d’una lata discrezionalità, è sindacabile, tra l’altro, appunto, in caso di compensazione disposta con motivazione contraddittoria o inadeguata ... Nel caso in esame la parte appellata chiese al TAR emolumenti per la maggiorazione di orario anche per un periodo in cui non era ancora in servizio, il Giudice di prime cure verificò tale aspetto, ma poi non trasse da tale accertamento una statuizione congrua rispetto alle spese di lite. FT



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Inserito in data 14/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 settembre 2012, n. 4840

Nozione di servizio pubblico locale; affidamento diretto e divieto ex art 23 co 9 L 133/08

La Sezione osserva che non è meritevole di favorevole considerazione il primo motivo di gravame con il quale l’appellante ha denunciato l’illegittimità del provvedimento di esclusione dalla gara per asserita violazione del ricordato articolo 23 bis [ndr del D.L. n. 112 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133 del 2008], sostenendo che, poiché oggetto della procedura di gara era una mera frazione del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti, essa, pur facendo parte del servizio del ciclo integrato dei rifiuti, non poteva essere ex se qualificata quale servizio pubblico locale; ciò senza contare, sotto altro concorrente profilo, che anche la (non contestata) circostanza che il pagamento della tariffa per la gestione dell’impianto di pretrattamento era interamente a carico dell’amministrazione appaltante, rilevava macroscopicamente che si era in presenza di un appalto di servizi e non già di una concessione di servizi ... Non può ragionevolmente dubitarsi che la procedura ad evidenza pubblica di cui si discute avesse ad oggetto un servizio pubblico locale, nella cui nozione rientrano, com’è noto, quelle attività che attribuiscono un'utilità immediatamente percepibile ai singoli o all'utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa ... Nel caso in esame, diversamente da quanto prospettato dall’appellante, il pretrattamento dei rifiuti urbani (che costituisce in realtà l’oggetto della concessione controversa) lungi dal costituire una mera attività strumentale, inidonea di per sé ad attribuire un vantaggio diretto ed immediato ai singoli consociati, integra piuttosto una fase di per sé del tutto distinta, completa ed autonoma, oltre che indispensabile, del ciclo integrato della attività di raccolta rifiuti, idonea perciò ad assicurare, in modo diretto ed immediato, un vantaggio tangibile ai consociati quanto all’igiene urbana ed alla salubrità dell’ambiente.

 

[Il divieto contenuto nel comma 9 dell’art. 23 bis cit] non consente alle società, le loro controllate, controllanti e controllate da una medesima controllante (anche non appartenenti a Stati membri dell’Unione Europea), che, in Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per disposizione di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto o di una procedura non ad evidenza pubblica, di acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. La finalità della norma è duplice: infatti se, da un lato, con essa si intende assicurare che anche l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali rispetti i fondamentali principi della concorrenza e di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti gli operatori economici, che costituiscono i pilastri della stessa Unione Europea, d’altra parte il procedimento ad evidenza pubblica, attraverso cui è dato perseguire i predetti principi, costituisce altresì lo strumento per l’attuazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’attività della pubblica amministrazione (art. 97), i cui corollari sono proprio la trasparenza e la pubblicità, oltre che l’economicità, l’efficacia e l’efficienza. L’affidamento diretto di un servizio pubblico locale, secondo il legislatore, sterilizzando in radice il libero gioco della concorrenza e limitando la platea dei possibili concorrenti, impedisce la stessa astratta realizzabilità delle finalità della norma, così che coerentemente è stato escluso che i soggetti che già gestissero in qualsiasi modo, anche di fatto, oltre che per provvedimento amministrativo, contratto o disposizione legislativa, potessero rendersi affidatari di nuovi servizi pubblici, ciò determinando una illegittima posizione di vantaggio o addirittura di privilegio capace ex se di condizionare la libera concorrenza. A ciò consegue che il divieto in questione, come si ricava dall’ampiezza della sua portata, ha una valenza oggettiva, che prescinde da ogni connotazione soggettiva e tanto più dalla considerazione delle ragioni, particolari e contingenti, che possono aver in concreto determinato o giustificato l’affidamento diretto. FT



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Inserito in data 14/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 settembre 2012, n. 4837

Accreditamento strutture sanitarie: non è un diritto. Inclusione di nuove prestazioni nel regime: vincoli

La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha già avuto modo ripetutamente di affermare che il regime dell'accreditamento provvisorio (o transitorio) [ndr delle strutture sanitarie private] si caratterizza per la precipua finalità di assicurare la prosecuzione dei rapporti tra l’amministrazione e i soggetti privati già convenzionati fino alla concessione dell’accreditamento istituzionale definitivo, di cui all’art. 8 del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 (poi integrato dal d.lgs. 19 giugno 1999 n. 229), ed alla stipula dei relativi accordi contrattuali, mediante il riconoscimento all’originaria convenzione di valenza costitutiva e di fonte regolatrice del nuovo rapporto di accreditamento. In tale regime, il rinvio contenuto nell’art. 6, co. 6, della legge 23 dicembre 1994 n. 724 (recante norme per disciplinare il passaggio dal previgente regime di convenzionamento all'accreditamento) “ai limiti ed alle condizioni previste nelle convenzioni preesistenti” al fine della definizione dell'ambito oggettivo dell’accreditamento provvisorio e delle prestazioni erogabili, deve intendersi nel senso (letterale) di un richiamo rigido e statico dei contenuti del titolo originario, con conseguente esclusione dell’estensione automatica delle prestazioni erogabili previste in convenzione a tutte quelle successivamente introdotte nel nomenclatore e nel tariffario regionale; occorre invece, per l’inclusione nell’accreditamento di ulteriori prestazioni, la previa valutazione da parte della regione del fabbisogno assistenziale, del volume della attività erogabile, della programmazione di settore, del possesso dei requisiti da parte delle strutture private e degli oneri finanziari sostenibili, nonché il conseguimento del relativo titolo. In caso contrario, resterebbe eluso l’interesse pubblico sotteso alla preliminare verifica delle predette esigenze, tecniche e finanziarie, con effetto dell’esposizione della spesa sanitaria regionale ad una crescita fuori controllo.

E’ stata altresì affermata la funzione interpretativa del sistema dell’art. 8 quater del d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 502 introdotto dall'art. 8, co. 4, del d.lgs. 19 giugno1999 n. 299, sebbene entrato in vigore soltanto il 31 luglio 1999, quanto alla subordinazione dell’accreditamento istituzionale non solo alla rispondenza delle strutture ai requisiti ulteriori di qualificazione ma anche alla loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione nazionale e regionale ... Ancora, anche nell’ipotesi in cui nell’originario assetto del sistema sanitario l’accreditamento, a fronte di una discrezionalità dell’amministrazione di carattere tecnico quale rinvenibile nell’attività di controllo sulla sussistenza o meno dei requisiti di legge, potesse essere concepito quale un vero e proprio diritto riconosciuto ad ogni struttura in possesso dei requisiti rispondenti ai criteri fissati nell’atto d’indirizzo e coordinamento adottato ai sensi del ripetuto art. 8, co. 4, del d.lgs. n. 502 del 1992, pure a tal riguardo la giurisprudenza ha chiarito che il d.P.R. 14 gennaio 1997 ha successivamente individuato in modo preciso la funzione teleologica dell’accreditamento, il quale deve risultare “funzionale alle scelte di programmazione regionale” e, quindi, non può comunque essere più considerato un diritto; tanto perché il detto d.P.R. ha definito un assetto caratterizzato da limiti in ordine all’adozione dei provvedimenti richiesti per il passaggio all’accreditamento, limiti riconducibili ad un’accresciuta capacità discrezionale dell’amministrazione, non più esclusivamente fondata su mere argomentazioni tecniche, bensì anche sull’effettivo fabbisogno assistenziale risultante dal piano regionale e nell’esigenza di controllo della spesa sanitaria nazionale. FT



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Inserito in data 14/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 12 settembre 2012, n. 4831

Interpretazione del giudicato che, dichiarata l’inefficacia, afferma il diritto di subentro nel contratto

La sentenza di questo Consiglio n. ... ha dichiarato a carico della stazione appaltante ”l’obbligo, a seguito di declaratoria di inefficacia della convenzione, di aggiudicare il servizio al raggruppamento appellante, con subentro nel contratto per l’intera durata programmata dell’appalto”. Pertanto, a differenza di quanto asserito dalla difesa della stazione appaltante, il Giudice di Appello, avendo fatto riferimento al “subentro nel contratto per l’intera durata programmata dell’appalto”, ha implicitamente statuito l’inefficacia ex tunc della convenzione in corso tra la stazione appaltante e la precedente aggiudicataria ...; è infatti evidente che soltanto la caducazione della suddetta convenzione fin dalla data della stipula può essere logicamente compatibile con la contestuale statuizione di affidare alla ATI appellante il servizio “per l’intera durata programmata dell’appalto”. Né, in tale contesto, l’espressione “con subentro nel contratto…..”può essere intesa in senso strettamente lessicale come “prosecuzione del servizio già avviato dal precedente appaltatore”: infatti, ai sensi dell’ art. 122 c.p.a., il giudice, annullata l’aggiudicazione, in realtà per valutare se ricorrono i presupposti per dichiarare inefficace il contratto, tiene conto sia di elementi oggettivi quali l’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione e lo stato di esecuzione del contratto sia di elementi soggettivi quale il concreto possibile subentro nel contratto, avendone data la disponibilità con domanda specifica; in pratica il concetto di “subentro nel contratto”, più che implicare unicamente un “ subingresso” nella prosecuzione residuale della prestazione già avviata con altro contraente, configura, invece, l’ipotesi in cui, in alternativa al rinnovo della gara, è possibile almeno consolidare la procedura di gara , prevedendo a favore del nuovo aggiudicatario “ la possibilità di subentrare nel contratto”, cioè di sostituirsi all’originario vincitore della gara nella posizione di parte contraente con la stazione appaltante per l’esecuzione della prestazione indicata nell’offerta.

Né giova alla stazione appaltante dedurre che l’affidamento del servizio alla ricorrente comporterebbe conseguenze lesive dello stesso interesse pubblico, in ragione della corrispondente incapienza dei fondi stanziati nel bilancio pluriennale ... per l’erogazione del servizio: infatti è agevole replicare che, trattandosi di appalto di servizi rispondente ad esigenze di natura permanente, alla scadenza dei 6 anni programmati nel bando di gara la stazione appaltante dovrebbe, comunque, reperire nuovi fondi da stanziare per proseguire il servizio, indicendo a tale scopo una nuova gara. Quindi la necessità di apprestare la ulteriore copertura finanziaria necessaria, per affidare alla ricorrente il servizio per l’intera durata, non costituisce per la stazione appaltante giustificazione idonea a sollevarla dall’obbligo di dare esatta ottemperanza al giudicato formatosi sulla citata sentenza di questo Consiglio n. ... Alla luce delle esposte osservazioni va dichiarato l’obbligo della stazione appaltante di stipulare con la ricorrente un contratto per l’intera durata programmata dell’appalto di anni 6. FT



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Inserito in data 13/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 settembre 2012, n. 4793

Presupposti per la qualificazione di una farmacia come “rurale sussidiata” (e per l’acquisizione della relativa indennità)

Per poter qualificare una farmacia come “rurale sussidiata” , va accertata la consistenza della sola popolazione residente nel “ luogo” abitato in cui è situato l’esercizio farmaceutico.

Non può prendersi in considerazione, infatti, la rimanente parte della popolazione collocata nelle altre zone abitate del comune o della frazione, pur se formalmente ricompresa nella pianta organica della sede farmaceutica.

Una diversa ricostruzione esegetica, supportata anche dalla giurisprudenza civile, non può invero condividersi, in via di fatto, per l’ estrema difficoltà di accertamento e definizione del cd. “bacino d’utenza” che, secondo detta giurisprudenza, sarebbe da individuarsi nella popolazione dislocata nei dintorni del centro urbano e nelle limitrofe zone di campagna, collegata in maniera costante e continuativa al capoluogo od al centro urbano e non raggruppata in insediamenti od agglomerati distinti dal capoluogo o centro urbano e costituenti altre frazioni, contrade o simili.

Del resto è stato posta in rilievo anche la sempre più accentuata attitudine alla mobilità che caratterizza ormai da vari decenni ampie fasce della popolazione, che possono indifferentemente, in termini di distanza e di tempi di percorrenza, avere accesso ad una pluralità di centri abitati limitrofi al centro dei loro interessi, pure dotati di servizio farmaceutico. SL



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Inserito in data 13/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 settembre 2012, n. 4763

Sull’oggetto del giudizio nel processo di ottemperanza

Nel processo di ottemperanza, l'oggetto del giudizio è limitato all'attuazione delle statuizioni contenute nel giudicato, essendo esclusa l'ammissibilità di questioni che comporterebbero un mutamento del titolo del debito vantato e l'apprezzamento di circostanze estranee e tali da poter costituire materia di un autonoma controversia.

Di conseguenza, gli appelli avverso le sentenze pronunciate dal T.A.R. sui ricorsi di ottemperanza al giudicato sono ammissibili solo quando propongono questioni concernenti l'esatto significato e la portata della sentenza da eseguire e non anche quando riguardino sentenze che hanno disposto, in sostituzione dell'amministrazione, le misure di carattere tecnico per la esecuzione del giudicato come quella di nomina di un commissario ad acta o quelle che fissano i criteri direttivi ai quali lo stesso si deve conformare. SL



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Inserito in data 13/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 settembre 2012, n. 4749

Non costituisce causa di integrazione salariale in favore degli operai dipendenti delle aziende edilizie l’ipotesi di inadempimento contrattuale

Per essere ammessi all’integrazione salariale ordinaria, i fatti che abbiano causato una contrazione o una sospensione dell’attività di impresa devono risultare estranei alla sfera di responsabilità di soggetti determinati, cui possa essere riferita, a titolo risarcitorio, la responsabilità dell’accaduto e la riparazione delle conseguenze patrimoniali pregiudizievoli. Deve essere escluso, pertanto, che la condizione in esame possa ritenersi avverata per effetto di comportamenti inadempienti di soggetti contraenti con l’imprenditore, dato che in tal caso il rimedio che l’ordinamento offre secondo le normali regole in punto di responsabilità contrattuale, tutela efficacemente, sul piano patrimoniale, l’appaltatore costretto alla sospensione dei lavori.

Pertanto, per «cause non imputabili al datore di lavoro» devono intendersi le cause “esterne” ai rapporti contrattuali che lo stesso intrattiene con i terzi e non anche le cause “interne” ai rapporti stessi. In presenza, pertanto, di un inadempimento della controparte le forme di tutela si esauriscono nell’ambito della singola relazione negoziale. SL



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Inserito in data 13/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 settembre 2012, n. 4744

La verifica delle offerte anomale è tesa a salvaguardare la piena affidabilità della proposta contrattuale

Il giudizio di verifica della congruità di un’offerta apparentemente anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell’offerta nel suo insieme, restando irrilevanti eventuali singole voci di scostamento; tale verifica non ha, dunque, per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, essendo invero finalizzata ad accertare se l’offerta sia attendibile nel suo complesso e, quindi, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell’appalto, sicché ciò che rileva è che l’offerta rimanga nel complesso “seria”.

Sul piano processuale, con riguardo al procedimento di verifica dell’anomalia delle offerte, il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni compiute dalla stazione appaltante sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e della congruità dell’istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione nell’esercizio della discrezionalità tecnica. SL



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Inserito in data 13/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 marzo 2011. n. 1468

E' valida la comunicazione di avviso di avvio del procedimento sia nei casi di consegna diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di giacenza

Ove non sia possibile la comunicazione diretta in mani del destinatario dell'avviso di avvio del procedimento, l'Amministrazione può avvalersi del servizio postale e non deve necessariamente osservare il sistema di notificazione degli atti giudiziari a mezzo di ufficiale giudiziario. Il recapito del plico a mezzo lettera raccomandata avviene con consegna diretta al destinatario o alle persone abilitate a riceverlo in suo luogo, indicate dall'art. 38 comma 2, del regolamento di esecuzione del Codice Postale approvato con d.P.R. 29 maggio 1982 n. 655. Il successivo art. 40 comma 4, prevede che sia dato avviso di giacenza tutte le volte in cui non sia stata possibile la distribuzione con consegna al destinatario. In tale seconda ipotesi, si presume la conoscenza alla data di rilascio dell'avviso di giacenza presso l'ufficio postale. Si realizza, quindi, un sistema che, sia nei casi di consegna diretta, sia a mezzo del succedaneo avviso di giacenza in caso di mancato diretto recapito per assenza del destinatario, è idoneo a rendere edotto l'interessato che, in ogni caso, versa in condizione, ove si allontani dallo stabile luogo di residenza, di approntare strumenti minimi per essere informato o per verificare l'esistenza di comunicazioni a lui indirizzate. FB



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Inserito in data 11/09/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, Quarta Sezione, 6 settembre 2012, C - 190/11

Possibile convenire in giudizio un commerciante straniero dinanzi ai propri Giudici

La Corte di giustizia dell’UE, confermando ulteriormente la grande attenzione attribuita alla figura del consumatore dalla giurisprudenza degli ultimi anni, statuisce la possibilità di convenire in giudizio un commerciante straniero dinanzi ai Giudici del proprio Paese, anche laddove il contratto di acquisto non fosse stato concluso a distanza, ma recandosi direttamente sul posto.

Per far ciò è sufficiente che il venditore eserciti la propria attività anche nel Paese dell’acquirente, sia direttamente che attraverso offerte via internet.

In tal guisa la Corte, superando l’originaria previsione limitante l’esercizio dell’attività commerciale ai propri confini territoriali ai fini della scelta, da parte acquirente, del proprio foro, riconosce una simile possibilità anche nelle ipotesi di commercio svolto con altro mezzo e rivolto allo Stato di residenza dell’avventore finale.

E’ evidente, del resto, la grande apertura dei Giudici europei nei riguardi della multiforme varietà ormai assunta dalle attività commerciali e, di conseguenza, nei confronti di un consumatore sempre più esposto a rischi. CC



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Inserito in data 11/09/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, Grande Sezione, 5 settembre 2012, C - 71 e 99/11

Status di rifugiato per grave violazione della libertà di culto

I Giudici di Lussemburgo, riunendo due distinti ricorsi provenienti da cittadini del Pakistan, ne avallano la richiesta di asilo politico in Germania inizialmente rigettata dai Giudici tedeschi.

Ad avviso dell’Alta Corte europea, invero, il concretizzarsi di persecuzioni e gravi lesioni, quali quelle lamentate dagli odierni ricorrenti a causa della professione della propria fede musulmana, configura una violazione alla libertà di culto sufficientemente grave.

Appare congruo ed auspicabile, pertanto, il riconoscimento dello status di rifugiato, laddove il rientro in Patria finirebbe con l’esporre tali soggetti ad un rischio talmente elevato per la propria incolumità fisica e psichica. CC



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Inserito in data 11/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 settembre 2012, n. 4797

Diniego di emersione dal lavoro irregolare. Interpretazione della Direttiva CE 115/08 da parte della CgUE

I Giudici amministrativi, dichiarando la sopravvenuta carenza di interesse della cittadina appellante, alla luce della nuova interpretazione suggerita dalla Corte di Giustizia con la nota sentenza El Dridi, ritengono comunque sussistenti le ragioni per la compensazione delle spese tra le parti.

Il giudizio, infatti, sorto in un’epoca antecedente al suddetto arresto, era ancora privo di quei nuovi presupposti che, poi, avrebbero consentito all’Amministrazione di disapplicare la disposizione legislativa nazionale posta a fondamento del diniego di emersione. CC



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Inserito in data 11/09/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. Ibis, 8 settembre 2012, n. 7642

Dubbi sulla legittimità di un provvedimento di esclusione dal concorso per Ufficiale dell’Esercito

I Giudici romani riconoscono, rigettando le doglianze della candidata esclusa, la legittimità del provvedimento di relativa esclusione da un concorso di accesso alla qualifica di Ufficiale dell’esercito.

L’Amministrazione infatti, avendo stilato nell’immediatezza dei fatti un verbale attestante l’insuccesso della candidata nello svolgimento della prova fisica prevista dal bando, non lascia alcun dubbio in merito alla non fondatezza delle circostanze dalla medesima dedotte in ricorso.

Siffatta esclusione, quindi, valendo fino a querela di falso, si giustifica in forza dei carenti requisiti richiesti ai fini della prova. CC



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Inserito in data 09/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 settembre 2012, n. 4740

Presupposti informativa prefettizia interdittiva antimafia: vincolo di affinità e parentela ramificata

Nel caso di specie, in effetti, la sentenza impugnata ha ritenuto di soffermarsi sul contesto e sui contenuti sostanziali dei presupposti e degli elementi che intendevano motivare l’emanazione di un’informativa prefettizia interdittiva antimafia e, in particolare, sul “vincolo di affinità”, aderendo anche, sul piano generale, a talune considerazioni di parte appellante. Però il giudice di prime cure, proprio dall’esame fattuale del quadro indiziario delineato dalla Prefettura di ... e pure con qualche puntualizzazione su talune circostanze, ha evidenziato due elementi oggettivi quali la pluralità dei rapporti parentali (a vario titolo, genero, suoceri, fratelli, cognati, zii) e l’unicità della cosca di appartenenza di tutti i soggetti in esame ..., ritenendo di inferire da ciò il condizionamento mafioso e il pericolo di infiltrazioni. Dagli atti istruttori, infatti, sono emersi elementi ben più pregnanti di un mero e isolato rapporto di parentela, superato invero dalla pluralità di rapporti familiari che si intrecciano e si innestano in capo all’unico titolare dell’impresa, quindi con una serie di indizi plurimi e convergenti in una direzione unica, in contiguità con un ben determinato e specifico ambiente criminale e con contorni di certo inequivoci. Pur se il Collegio è consapevole della giurisprudenza amministrativa che ha escluso la legittimità di un’informativa basata soltanto su rapporti parentali, come sottolineato dallo stesso T.A.R., nondimeno nel caso concreto ( e l’esame del giudice va sempre contestualizzato alla specifica fattispecie) la parentela così “ramificata” può giustificare l’adozione del provvedimento che è inteso non a reprimere, ma a prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose; anche la circostanza che in concreto si tratta di un imprenditore singolo (ditta individuale) può far plausibilmente ritenere che sia più facile un suo condizionamento da parte di esponenti della famiglia malavitosa locale, rispetto a ciò che può avvenire nei confronti di una società, composta da più soggetti (cfr. Sez. VI, n. 5879/2010). In effetti, ad avviso della Sezione si evidenzia un “reticolo” di collegamenti, rapporti e intrecci fra persone, parenti e società e, quindi, di interessi economici, imprenditoriali e sociali non smentiti dall’appellante, che non adduce argomenti probatori tali da contrastare oggettivamente il quadro indiziario complessivo, non superato di certo dalle singole circostanze dedotte dall’interessato, per lo più afferenti a specifici provvedimenti giudiziari e all’apodittica affermazione che i familiari della moglie non sono più inseriti nella consorteria mafiosa. Emerge, quindi, chiaramente il generale contesto di permeabilità mafiosa in un ambiente territoriale particolarmente esposto a “influenze” mafiose, che, come noto, sono inclini a coinvolgere soggetti apparentemente “neutri”. FT



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Inserito in data 09/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 settembre 2012, n. 4736

Giudicato interno implicito sulla giurisdizione e attribuzione al GO della tutela di interessi legittimi

[Con il ricorso introduttivo del giudizio, il ricorrente deduce la propria qualità di terzo idoneo non vincitore di un concorso indetto dalla Provincia di ... per la copertura di 1 posto di dirigente. Si duole del fatto che l’amministrazione provinciale, nel bandire nel 2003 un nuovo concorso per la copertura di n. 3 posti di dirigente, non abbia rispettato le procedure di mobilità obbligatoria, previste dall’art. 34 bis del d.lgs. n. 165/2001, la cui inosservanza è sanzionata espressamente dal legislatore con la nullità delle assunzioni di nuovo personale. Detto ricorso fa seguito ad altro azionato davanti al giudice ordinario e conclusosi con sentenza della Corte di Cassazione – Sezione Lavoro n. 5588/2009, con la quale la Suprema Corte ha definitivamente confermato le sentenze delle Corti di merito, che avevano respinto la domanda azionata dal ricorrente per l’accertamento del diritto alla assunzione con qualifica dirigenziale e la condanna dell’amministrazione provinciale al risarcimento del danno].

 

Nella sentenza sopra citata, la Suprema Corte, dopo aver evidenziato che in merito alla giurisdizione sulla controversia dedotta in giudizio si era formato giudicato implicito, avendo il giudice di primo grado ritenuto, implicitamente (con la decisione di rigetto nel merito della domanda), il proprio potere giurisdizionale, la cui statuizione (implicita) non era stata impugnata sul punto, pone in rilievo l’impossibilità di qualificare la posizione giuridica soggettiva azionata dal ricorrente come diritto soggettivo, dovendo essa essere piuttosto ricondotta all’alveo degli interessi legittimi. La Suprema Corte così si esprime: “Conclusivamente, sebbene sia stato prospettato il diritto alla assunzione del ricorrente in forza dello scorrimento della graduatoria, di questo diritto si asserisce l’esistenza necessariamente consequenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione del nuovo concorso. Si chiede quindi, in realtà, tutela nei confronti dell’esercizio del potere amministrativo cui corrisponde una situazione di interesse legittimo, restando escluso che possa essere concessa mediante disapplicazione della decisione di bandire il concorso- secondo la previsione dell’art. 63, comma 1 – d.lgs. n. 165 del 2001, siccome il potere di disapplicazione del giudice presuppone proprio che la controversia cada sopra un diritto soggettivo sul quale incide un atto amministrativo oggetto di cognizione incidenter tantum”. In sostanza, la Suprema Corte fa rilevare che il provvedimento di indizione del nuovo concorso, dal quale il ricorrente inferisce la lesione del suo diritto allo scorrimento della precedente graduatoria, non può essere considerato come atto adottato in carenza di potere e che, conseguentemente, rispetto ad esso la posizione giuridica del ricorrente è qualificabile in termini di interesse legittimo e non di diritto soggettivo. La Suprema Corte precisa altresì: “La peculiarità del caso di specie nasce dal fatto che, per effetto del giudicato interno, la causa resta radicata in ambito di giurisdizione ordinaria, non potendo essere rimessa al giudice amministrativo competente per la tutela dell’interesse legittimo contro le determinazioni autoritative dell’amministrazione (art. 103 Cost.)”.

Orbene, il petitum sostanziale del ricorso introduttivo del presente giudizio coincide con quello del giudizio avviato davanti al Tribunale di ... e conclusosi, in sede di giurisdizione di legittimità, con la sentenza della Corte di Cassazione- Sezione Lavoro n. 5588/09, essendo rappresentato dall’accertamento della illegittimità (rectius, nullità) dell’operato della amministrazione provinciale relativamente alla procedura concorsuale indetta dall’amministrazione provinciale nel 2003, ai fini del riconoscimento del danno asseritamente subito dal ricorrente per effetto del mancato scorrimento della graduatoria approvata nel 1999. Né può essere attribuita alcuna rilevanza al fatto che nel ricorso in esame il ricorrente faccia valere vizi di legittimità (nel caso di specie, la violazione dell’art. 34 bis del d.lgs. n. 165/2001 in tema di mobilità obbligatoria) differenti da quelli dedotti in sede di giurisdizione ordinaria. Il Supremo Consesso Amministrativo ha infatti precisato che <<ai sensi dell’art. 2909 c.c., il giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero “il titolo” dell’azione ed il “bene della vita” che ne forma oggetto: entro tali limiti, il giudicato copre il “dedotto ed il deducibile”, cioè non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione o di eccezione, ma anche le questioni, che pur non dedotte in giudizio, costituiscano un presupposto logico ed indefettibile della decisione stessa>> (Consiglio di Stato, Sez. V, 2 febbraio 2010 n. 438; Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 giugno 2005 n. 2920). In conclusione, il ricorso introduttivo del presente giudizio deve essere dichiarato inammissibile, in quanto la domanda ivi contenuta rappresenta la mera riproposizione di quella già azionata in sede di giurisdizione ordinaria e non più riproponibile per effetto del giudicato implicito formatosi sulla decisione di merito del giudice ordinario. FT

 



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Inserito in data 09/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 settembre 2012, n. 4735

Trasporto gran turismo, legittimità contingentamento autorizzazioni per motivi di interesse generale

[Con la sentenza impugnata il TAR Lazio ha accolto il ricorso, presentato da alcuni dei titolari di autorizzazione rilasciata dal Comune di Roma per l’esercizio dell’attività di trasporto gran turismo, per l’annullamento degli atti con cui il Commissario delegato all'emergenza traffico ha disposto il contingentamento del numero degli autobus circolanti nel Centro Storico e nell’area anulare ed indetto una gara per l’affidamento delle nuove autorizzazioni all’esercizio di detta tipologia di trasporto, riconnettendo all’esito della procedura la decadenza delle autorizzazioni in essere, nonché la determinazione comunale di approvazione degli atti della gara].

Ha ragione il Commissario delegato ad invocare la sussistenza di motivi imperativi di interesse generale a sostegno del potere di indire una procedura selettiva per il rilascio delle autorizzazioni all’esercizio del servizio di trasporto di linea granturismo ed il contingentamento delle stesse. Occorre al riguardo sottolineare che il sacrificio delle libertà economiche, di fronte all’esistenza delle suddette ragioni di interesse pubblico, costituisce anche in ambito europeo un principio di carattere generale ormai incontrastato, essendo sancito a livello dei trattati ed in particolare dall’art. 52 T.f.u.e., nel capo dedicato appunto alla libertà di stabilimento, richiamato per quanto concerne la libertà di prestazione dei servizi dall’art. 62. Esso si impone pertanto anche sul piano interno nei confronti di attività private esercitabili previa autorizzazione ai sensi della normativa di settore, di cui ai citati reg. CE 1071/2009, d.lgs. n. 395/2000, nonché alla l.r. n. 30/1998 (“Disposizioni in materia di trasporto pubblico locale”), e dunque nei confronti dei valori di libera iniziativa economica nel settore del trasporto privato che la citata normativa esprime. Del pari, è altrettanto incontroverso che le contrapposte ragioni della libertà privata e dell’autorità pubblica debbano essere bilanciate in modo tale da non sacrificare ingiustificatamente le prime e che detto contemperamento debba avvenire secondo i consolidati canoni, enucleati dalla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, della necessità e proporzionalità, nel senso cioè che le restrizioni trovino giustificazione nei limiti strettamente necessari a perseguire l’obiettivo di carattere generale e non vadano oltre questo limite. Dai suesposti principi si trae il corollario secondo cui, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, il contingentamento delle autorizzazioni è in astratto perseguibile e nel caso di specie è giustificato dalla situazione emergenziale del traffico e della mobilità nel centro storico di Roma che hanno dato luogo alla nomina del Commissario delegato odierno appellante, in forza di provvedimenti amministrativi la cui legittimità è stata riconosciuta dallo stesso Giudice di primo grado, con statuizioni non censurate in appello e dunque coperte dal giudicato interno ... Anche l’effetto di decadenza nei confronti dei titoli autorizzatori già rilasciati si pone come misura necessaria con gli obiettivi suddetti, non appalesandosene altre in grado di fronteggiare l’emergenza del traffico cittadino e se non quella di restringere il numero degli operatori ed i mezzi in circolazione e comunque essendo ravvisabile una coerenza logica della stessa con le ragioni di carattere straordinario imposte dalla situazione emergenziale presupposta.

Ciò precisato, la portata destruens delle censure in cui si articolano gli odierni appelli si arresta qui, perché non è altrettanto contestabile che il sacrificio imposto alla libera esplicazione di un’attività di impresa debba avvenire, in conformità dei menzionati canoni di necessità e proporzionalità, attraverso modalità non discriminatorie. Un simile vincolo operativo conduce inevitabilmente a fare ricorso a procedure ad evidenza pubblica, trattandosi di modelli di azione amministrativa in grado di favorire la selezione dell’operatore privato attraverso un confronto competitivo aperto ed ispirato alla ricerca del soggetto maggiormente in grado di svolgere l’attività posta a gara, solo in questo caso giustificandosi il sacrificio imposto ai soggetti già autorizzati ad operare sul mercato. Inoltre, se lo strumento della gara deve reputarsi in astratto legittimo ed anzi quello più rispondente ai principi europei in materia di libertà economiche, oltre che nel caso di specie coerente con l’esigenza di ordine imperativo di restringere il numero degli operatori in funzione della situazione emergenziale del traffico e della mobilità nella capitale, è altrettanto vero che ... lo svolgimento di questa non può andare disgiunto dall’individuazione di criteri obiettivi e non discriminatori di accesso all’attività e dunque, vista la funzione proconcorrenziale dell’evidenza pubblica, di ammissione al confronto competitivo che in essa si attua. Persuade della fondatezza di tale rilievo la considerazione che altrimenti opinando le finalità dell’evidenza pubblica potrebbero essere vanificate dal potere dell’amministrazione di conformare il mercato, in ipotesi anche attraverso l’imposizione di specifici requisiti di ammissione alla gara non strettamente coerenti con le esigenze di regolamentazione dell’attività. Il che è proprio ciò di cui si duole la società odierna appellata, già titolare di autorizzazione a svolgere il servizio, ma impossibilitata a partecipare alla procedura indetta dal Commissario delegato appellante in forza dei requisiti di carattere tecnico ed economico previsti per la partecipazione alla gara. FT



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Inserito in data 09/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 settembre 2012, n. 4718

In merito ai presupposti del silenzio inadempimento della P.A. impugnabile ex art. 117 c.p.a.

[Con la sentenza appellata il Tar ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto ai sensi dell’art. 117 c.p.a. da una s.r.l. , titolare di impianto di discarica, avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza con cui era stata chiesta una formale presa d’atto dell’avvenuto rilascio di Autorizzazione Integrata Ambientale concernente la discarica e dell’avvenuto mutamento della destinazione d’uso dei terreni su cui la stessa insiste, nonché per l’accertamento della fondatezza della pretesa di cui all’istanza in questione]

Il silenzio inadempimento dell’amministrazione presuppone infatti l’individuazione di un obbligo di provvedere non adempiuto. Ciò in base al principio di tipicità-legalità dei poteri amministrativi ed alla struttura delle norme regolatrici dell’azione amministrativa, le quali fondano obblighi procedimentali in relazione a posizioni giuridiche da esse differenziate e non già di fronte a meri interessi di fatto. Il richiamo dell’art. 97 Cost. non è conferente, perché il rispetto del canone di buon andamento è imposto nel quadro dell’esercizio dei poteri conferiti all’amministrazione dalla legge, per cui esso non può essere addotto per enucleare obblighi di provvedere ulteriori rispetto a quelli tipizzati. Non ha nemmeno pregio il richiamo alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (a pag. 9 dell’atto d’appello) tendente a ravvisare un obbligo di provvedere anche allorché esigenze di giustizia sostanziale impongano, a fronte di una istanza l’adozione, di un provvedimento formale. Si tratta infatti di pronunce rese in peculiari fattispecie nelle quali erano sopravvenuti mutamenti di circostanze di fatto o del quadro normativo, o in cui l’amministrazione si sia già pronunciata su istanze di analogo contenuto. Nel caso di specie, per contro, la pretesa fatta valere con l’istanza oggetto del giudizio si iscrive - per deduzione della stessa appellante, in particolare nel secondo motivo di gravame - nell’ambito di un contenzioso pendente presso il TAR Lazio e concernente gli stessi titoli amministrativi costitutivi del diritto di mantenere aperta e gestire la discarica attualmente esercitata, atteggiandosi dunque a mezzo improprio per definire sul piano amministrativo una controversia giudiziaria. FT



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Inserito in data 07/09/2012
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, 28 agosto 2012, n. 54270/10

 

Bocciato il divieto, previsto dalla Legge italiana n. 40/04, della diagnosi pre -impianto 

I Giudici europei condannano il Legislatore italiano nella parte in cui riconosce la possibilità di esperire una diagnosi pre - impianto, ricorrendo alla fecondazione assistita, a quelle coppie sterili o in cui sussistano delle malattie trasmissibili sessualmente.

Nega, invece, tale possibilità, laddove si tratti di una coppia fertile portatrice sana di una malattia genetica, alla cui eventuale trasmissibilità è prevista, da altra legge, la possibilità di ricorrere ad un aborto terapeutico.

La Corte di Strasburgo, pertanto, evidenziando la profonda incoerenza del Legislatore del 2004, ritiene eccessiva l’ingerenza del Medesimo nella vita privata e familiare dei singoli individui, al punto da ritenerla sproporzionata, proprio per i profili di intimità che Esso è in grado di intaccare, con simili previsioni.

Il Governo italiano, recepito il monito della CEDU, ha la possibilità di chiederne un riesame dinanzi all’Alta Camera della Corte per i diritti dell’uomo, stante la non definitività di tale pronuncia – ex artt. 43 e 44 della Convenzione. CC



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Inserito in data 07/09/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. I, 3 settembre 2012, n. 7483

 

Presupposti necessari per ritenere ammissibile un ricorso ex art. 1 del D.L.vo n. 198/09

Il Collegio laziale, nel sancire l’inammissibilità di un ricorso proposto - ex art. 1 del D.L.vo n. 198/09 - da una pluralità di cittadini rappresentati dal CodaCons, avverso la grave e perdurante inerzia di numerose Amministrazioni comunali dinanzi al rischio idro geologico lamentato dai relativi abitanti, sottolinea gli aspetti di una simile procedura, finora poco esperita.

È da ritenere, infatti, che la class action ex D. lgs. 198/09 non sfugga ai comuni principi in materia di domanda giudiziale, e, dunque, alla regola che questa debba essere sufficientemente determinata nel suo petitum, in relazione al contenuto dell’azione ed alla sua finalità.

Tanto non è accaduto nel caso di specie, in cui, invece, l’affastellarsi di più situazioni, tutte accomunate solo dal presunto rischio ambientale, ha comportato un cumulo di domande in cui non è stato correttamente identificato il relativo atto, del quale si lamenta la necessaria emissione.

Ferma restando, peraltro, la carenza di strumenti utili, per l’Organo giudiziario adito, a porre rimedio ai pregiudizi, oggetto delle numerose doglianze.

In considerazione di ciò, i Giudici laziali pervengono alla pronuncia di inammissibilità del presente ricorso. CC

 



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Inserito in data 06/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 luglio 2012, n. 4091

 

La nozione edilizia di pertinenzialità non coincide con quella civilistica

In essa, infatti, assume rilievo decisivo non tanto il dato del legame materiale tra pertinenza ed immobile principale, quanto il dato giuridico che la prima risulti priva di autonoma destinazione e di autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.

Di conseguenza, nel caso in cui vengano realizzati dei parcheggi nel sottosuolo di area pertinenziale esterna al fabbricato è irrilevante che detta area esterna non si trovi in rapporto di immediata contiguità materiale con il fabbricato e sia di proprietà di soggetto diverso dal proprietario dell'immobile nei cui confronti i parcheggi sono destinati a divenire pertinenziali. SL



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Inserito in data 06/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 agosto 2012, n. 4655

 

Sullo svolgimento di mansioni superiori in ambito sanitario

Nel settore della sanità, il riconoscimento del trattamento economico per lo svolgimento di funzioni superiori è condizionato, oltre che (ovviamente) dall'effettiva prestazione di tali mansioni:

- dalla vacanza, in pianta organica, del posto di qualifica superiore cui si riferiscono le funzioni svolte;

- dalla presenza del necessario previo formale atto di incarico allo svolgimento delle predette funzioni adottato dai competenti organi dell'ente.

Solo per lo svolgimento delle funzioni primariali da parte dell’aiuto la giurisprudenza ha ritenuto che si può prescindere da formali atti di incarico, in relazione alla particolare natura delle funzioni svolte. Si è infatti affermato che lo svolgimento di funzioni primariali da parte dell'aiuto assume rilievo ai fini retributivi indipendentemente da ogni atto organizzativo dell'Amministrazione, poiché non è concepibile che una struttura sanitaria affidata alla direzione del primario resti priva dell'organo di vertice, che assume la responsabilità dell'attività esercitata nella divisione.

Per quanto riguarda, invece, l'inquadramento straordinario, previsto dall'art. 1 della legge 20 maggio 1985 n. 207 per il personale dipendente delle Unità sanitarie locali, la giurisprudenza ha chiarito che il relativo beneficio è subordinato alla contestuale esistenza di tre condizioni, e cioè:

- allo svolgimento di mansioni superiori in forza di atti formali di conferimento del relativo incarico;

- all'esistenza in organico, al 30 giugno 1984, del posto corrispondente all'incarico ricoperto (e perdurante fino alla data di entrata in vigore della legge stessa);

- al possesso dei requisiti per l'ammissione al concorso per l'assunzione nel relativo profilo professionale. SL



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Inserito in data 06/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 agosto 2012, n. 4656

 

Tutela del diritto al lavoro dei disabili e dichiarazione dei requisiti di cui all’art. 38 Codice dei Contratti

Il possesso del requisito, prescritto dall'art. 38, lettera l) del codice dei contratti, relativo all'osservanza della legge 12 marzo 1999 n.68, che pone norme a tutela del diritto al lavoro dei disabili, deve essere provato con apposita certificazione, non potendosi ritenere equipollente a tale scopo, date le finalità della legge, la generica dichiarazione sostitutiva attestante il possesso dei requisiti di cui all’art. 38 del codice dei contratti, ma ritiene di dover aderire al diverso prevalente orientamento secondo cui, fermo restando il doveroso rispetto della normativa in favore dei disabili, non vi è ragione di escludere da una gara la ditta che, nel rispetto delle disposizioni dettate dalla lex specialis di gara, abbia presentato una dichiarazione, generale ed onnicomprensiva, attestante l’inesistenza di tutte le cause di esclusione previste dall'art. 38, ed abbia così anche dichiarato di essere in regola con le norme sul lavoro dei disabili. Beninteso, la dichiarazione così resa rimane soggetta alle verifiche del caso, con la conseguenza che ove emerga la sussistenza, in concreto, della citata causa di esclusione segue l'effetto espulsivo. SL



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Inserito in data 06/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. iii, 30 agosto 2012, n. 4657

 

Attività di smaltimento/gestione dei rifiuti e requisiti necessari della società aggiudicataria

Ciò che rileva è che l’attività di smaltimento e/o recupero rifiuti non avvenga a mezzo di incerta persona, ma tramite soggetti all’uopo abilitati, in possesso dei requisiti di legge ed assoggettati ai relativi controlli, da documentare previamente in sede di ammissione alla gara a mezzo di atti negoziali che comprovino con certezza l’esistenza e la serietà del rapporto.

Ai fini dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara è, pertanto,  necessario distinguere l’ipotesi di titolarità dell’autorizzazione alla discarica – nel qual caso l’affidatario attende direttamente alle operazioni di stoccaggio e di smaltimento - da quella del possesso dell’iscrizione nell’albo previsto dall’art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006, che abilita allo svolgimento di attività di raccolta, trasporto, bonifica siti, ed altro, senza “detenzione dei rifiuti stessi”. SL 



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Inserito in data 04/09/2012
CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE SICILIANA, 20 giugno 2012, n. 2033

Rideterminazione trattamento pensionistico locale. Motivazione carente

Il Giudice contabile, ricordando la propria capacità annullatoria anche di atti della P.A. emessi in ambito pensionistico, affronta la questione se il principio di motivazione debba applicarsi anche a tale categoria, dinanzi ad Esso sindacabile giurisdizionalmente.

Ad avviso di codesti Giudici, invero, l’obbligo di motivazione, ormai invalso anche in forza del richiamo ad esso fatto dalla giurisprudenza comunitaria, si applica pienamente in tale sede e, contestualmente, statuisce l’inapplicabilità dell’integrazione della motivazione in sede processuale – ex art. 21 octies L. 241/90.

Una simile possibilità, infatti, è quivi esclusa in forza della natura peculiare del rapporto contestato che, data la propria origine di obbligazione pubblicistica e quindi vincolata, parrebbe limitare l’intervento del Giudice al solo potere invalidante.

Non è, quindi, ammissibile l’integrazione dell’obbligo motivazionale in sede processuale – ex art. 21 octies, come quivi attuata dall’Amministrazione resistente e, pertanto, l’atto gravato va annullato per l’evidente violazione di legge, a tutela delle ragioni della pensionata ricorrente. CC



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Inserito in data 04/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 agosto 2012, n. 4641

Mancata ammissione alla massa passiva del Comune del credito vantato. Difetto di pronuncia del G.A.

In caso di dissesto finanziario di un Comune, l’Organo straordinario di liquidazione – ex art. 258 , 3° co., TUEL – ha poteri meramente ricognitivi e per nulla discrezionali.

In quanto tali, pertanto, le eventuali deliberazioni sulla gestione ed organizzazione della massa passiva concernono un diritto soggettivo dei singoli cittadini, fisiologicamente spettante all’A.G.O. CC




Inserito in data 01/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 agosto 2012, n. 4649

Giudizio avanzamento ufficiali: il limite al sindacato è l’eccesso di potere in senso assoluto e relativo

È agevole comprendere come il giudizio valutativo di idoneità, e ancor più quello di merito assoluto (e quindi non comparativo) espresso con l’attribuzione del punteggio, costituiscano esplicazione di apprezzamenti di amplissima discrezionalità “tecnica” che hanno riguardo alla percezione globale e complessiva di tutto il complesso di qualità manifestate dall’ufficiale (sia pure riferite a “indicatori” tipizzati) nel corso dell’intera carriera, di tal ché il sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo è “confinato” (salvi i casi di violazioni delle regole formali procedurali) in uno spazio assai limitato, se non angusto, come delineato dai vizi funzionali dell’eccesso di potere in senso assoluto e in senso relativo. Il primo si fonda sulla valutazione della coerenza generale del metro valutativo ed della non manifesta incongruità e irragionevolezza del giudizio e del punteggio assegnato in rapporto agli elementi di valutazione (eccesso di potere in senso assoluto). Il secondo, invece, attiene alla verifica della coerenza del metro valutativo utilizzato nei confronti dell’ufficiale ricorrente e degli ufficiali parigrado meglio graduati e collocati in posizione utile all’iscrizione in quadro di avanzamento, assumendo consistenza quando, senza tralignare in una indagine comparativa preclusa al giudice amministrativo, sia ictu oculi evidente la svalutazione dell’interessato o la sopravvalutazione degli ufficiali graduati in posizione utile (eccesso di potere in senso relativo). Secondo giurisprudenza consolidata di questa Sezione, sotto il profilo dell’eccesso di potere in senso assoluto il sindacato è appunto circoscritto alla coerenza generale del metro valutativo adoperato oppure alla manifesta incongruità del punteggio, avuto riguardo agli incarichi ricoperti, alle funzioni espletate ed alle positive valutazioni ottenute durante tutto l’arco della carriera degli scrutinandi; mentre l’eccesso di potere in senso relativo è rilevabile solo se il giudice amministrativo nell’esaminare le varie posizioni dei parigrado valutati -senza effettuare una comparazione tra le stesse e ricercando la coerenza generale delle valutazioni contestualmente espresse in rapporto ad elementi oggettivi di giudizio- accerti il mancato rispetto della logica del metodo di valutazione e la violazione della regola dell’uniformità di giudizio. Nell’uno come nell’altro caso, però, l’incoerenza della valutazione (e quindi del punteggio assegnato) devono emergere dall’esame della documentazione con assoluta immediatezza, ovvero deve essere “palesamente ed immediatamente” evidente l’inadeguatezza del punteggio in rapporto ad un livello macroscopicamente ottimale di precedenti di carriera e di qualità, tanto da porne in luce l’abnormità (che può essere predicata, in particolare, quando l’interessato occupi posizioni di graduatoria prossime a quelle degli ufficiali parigrado con punteggio tale da consentire l’iscrizione nel quadro di avanzamento e meritevoli di conseguire il grado superiore in misura non superiore all’interessato ). FT



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Inserito in data 01/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 agosto 2012, n. 4648

Carattere eccezionale del rimedio della revocazione e requisiti dell’errore di fatto

Questo Consiglio di Stato (sez. IV, 24 gennaio 2011 n. 503), ha già avuto modo di affermare, con considerazioni che si intendono ribadite nella presente sede, che l'istituto della revocazione è rimedio eccezionale, che non può convertirsi in un terzo grado di giudizio. Come rappresentato nella richiamata decisione, l'orientamento costante di questo Consiglio, infatti, è nel senso che la "svista" che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria ..., è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall'omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale. Secondo, infatti, il principio enunciato dall'Adunanza Plenaria (dec. 22 gennaio 1997, n. 3; ...), non v'è dubbio che l'errore di fatto revocatorio debba cadere su atti o documenti processuali. Conseguentemente, non sussiste vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa - che si sostanzia nella supposizione dell'esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell'inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita - ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell'apprezzamento, della valutazione e dell'interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice ... Anche recentemente questo Consiglio ha avuto modo di riaffermare che: "secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale ... l'errore di fatto, idoneo a fondare la domanda di revocazione ai sensi dell' art. 81 n. 4 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642 e dell'art. 395 n. 4 c.p.c., deve rispondere a tre distinti requisiti, consistenti: a) nel derivare da una pura e semplice errata od emessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto, facendo cioè ritenere esistente un fatto documentalmente escluso o inesistente un fatto documentalmente provato; b) nell'attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato; c) infine, nell'essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando cioè un rapporto di causalità tra l'erronea supposizione e la pronuncia stessa. L'errore di fatto revocatorio si configura, quindi, come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l'una emergente dalla sentenza e l'altra risultante dagli atti e documenti di causa; esso può essere apprezzato solo quando risulti da atti o documenti ritualmente acquisiti agli atti del giudizio, con esclusione, quindi, delle produzioni inammissibili. È stato pertanto ritenuto inammissibile il rimedio della revocazione per un errore di percezione rispetto ad atti o documenti non prodotti ovvero per un errore di fatto la cui dimostrazione avviene mediante deposito di un documento prodotto per la prima volta in sede di revocazione (Cons. Stato, sez. V, 16 novembre 2010, n. 8061; sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7487). Per contro, sono vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell'erronea interpretazione e valutazione dei fatti o nel mancato approfondimento di una circostanza risolutiva ai fini della decisione (sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599). Infine, l'errore di fatto deve essere elemento determinante della decisione, la quale "è l'effetto" del primo. Di conseguenza, l'errore revocatorio può ammissibilmente essere invocato solo quando vi sia un rapporto di causalità necessaria fra l'erronea od omessa percezione fattuale e documentale e la pronuncia in concreto adottata dal Giudice. Con l'ulteriore conseguenza della non rilevanza dell'errore quando la sentenza si fondi su fatti, seppur erronei, che non siano decisivi in se stessi ai fini del decidere, ma debbano essere valutati in un più ampio e complesso quadro probatorio (Cass. Civ., sez. III, 20 luglio 2011 n. 15882). FT



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Inserito in data 01/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 agosto 2012, n. 4650

Occupazione illegittima, potere della PA di valutare l’acquisizione in sanatoria ex art 42 bis dpr 327/00

L’intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso; e ciò superando l’interpretazione che riconnetteva alla costruzione dell'opera pubblica e all’irreversibile trasformazione effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato. Infatti, partendo dall’esame della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, deve ritenersi che il quadro normativo e giurisprudenziale nazionale previgente non fosse aderente alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo addizionale n. 1 (sentenza Cedu 30 maggio 2000, ric. 31524/96). Nella sentenza citata, la Corte ha ritenuto che la realizzazione dell’opera pubblica non costituisca impedimento alla restituzione dell'area illegittimamente espropriata, e ciò indipendentemente dalle modalità - occupazione acquisitiva o usurpativa - di acquisizione del terreno. Per tali ragioni, il proprietario del fondo illegittimamente occupato dall’amministrazione, ottenuta la declaratoria di illegittimità dell'occupazione e l'annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino. La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni. Ne discende (fermo quanto di seguito esposto) che, nelle more dell’introduzione del nuovo art. 42-bis e dopo l’annullamento per illegittimità costituzionale dell’art. 43 T.U. espropriazioni, la giurisprudenza di questa Sezione ha affermato che è obbligo primario dell’amministrazione procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

Stante la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 43 DPR n. 327/2001 (Testo unico espropriazioni), per effetto della sentenza della Corte Costituzionale 4 ottobre 2010 n. 293, non può più essere azionato il meccanismo procedimentale accelerato ivi previsto. D’altra parte, l’amministrazione deve valutare l’attivazione di quanto ora previsto dall’art. 42-bis DPR n. 327/2000, sulla base dei criteri indicati dalla giurisprudenza di questa Sezione (si veda Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2012 n. 1514). Quanto esposto comporta, a tutta evidenza (...), il rigetto del primo motivo di appello, poiché, negandosi ogni trasferimento della proprietà per effetto della irreversibile trasformazione del bene illegittimamente appreso, appare palese la natura permanente dell’illecito dell’amministrazione (finché dura l’illegittima occupazione del bene senza che vi sia un eventuale titolo idoneo a determinare il trasferimento della proprietà in capo all’amministrazione medesima) ... Per le ragioni esposte, l’appello deve essere rigettato, fermo restando il potere dell’amministrazione di valutare l’attivazione di quanto previsto dall’art. 42 bis DPR n. 327/2001. FT



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Inserito in data 01/09/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 agosto 2012, n. 4642

Esclusione da procedura concorsuale: non serve la notifica ai controinteressati dell’impugnazione

Secondo l’appellante il ricorso non doveva essere notificato a nessuno dei partecipanti poichè oggetto dell’impugnazione era un atto di esclusione, ossia un provvedimento che impedisce in radice l’ammissione alla procedura concorsuale. L’appello è fondato. Non possono ricavarsi profili di inammissibilità dalla mancata notifica del ricorso ad almeno uno dei partecipanti. La giurisprudenza ha più volte chiarito che nel giudizio proposto avverso il provvedimento di esclusione da una procedura concorsuale, prima della formazione della graduatoria e della nomina dei vincitori (e comunque prima del provvedimento finale), non sono configurabili controinteressati in senso tecnico poichè in tali casi il ricorrente persegue il limitato interesse ad essere ammesso alla procedura; interesse dinanzi al quale non emerge un controinteresse, uguale e contrario, meritevole di tutela e discendente direttamente dal provvedimento impugnato.

Il concorso per l’arruolamento prevedeva, quali fasi necessarie, l’accertamento dell’idoneità al servizio militare e la valutazione dei titoli. L’amministrazione, a seguito dell’ordinanza cautelare del TAR Catania, ha ammesso con riserva l’appellante al prosieguo della procedura ed indi, effettuate le visite di idoneità e la valutazione dei titoli, ha collocato il medesimo in posizione utile, non provvedendo tuttavia all’arruolamento in ragione dell’esito finale del giudizio di primo grado. Ciò posto, la domanda di risarcimento per equivalente non può essere accolta. In primis perché, grazie alla citata ammissione con riserva ed alla successiva esecuzione da parte dell’amministrazione, è ancora possibile l’arruolamento, ossia l’ottenimento del bene della vita cui il ricorrente ab initio aspirava. In ogni caso perché manca il requisito soggettivo della colpa: dinanzi all’obiettiva incertezza esegetica del quadro normativo ... , l’amministrazione ha dapprima adottato un atto sulla base di una non implausibile opzione ermeneutica, ha poi tenuto un comportamento teso ad elidere le conseguenze dannose per il ricorrente ammettendo con riserva l’istante, infine arrestandosi nella procedura di arruolamento solo dinanzi ad una pronuncia giudiziaria che ha impresso un sigillo di legittimità alla sua azione. Com’è noto, la “scusabilità” dell’errore in cui l’amministrazione è incorsa vale ad escludere la risarcibilità del danno da provvedimento amministrativo, secondo un principio costantemente ribadito dalla Sezione. FT



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Inserito in data 29/08/2012
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, SEZ. GIURISDIZIONALE, 27 luglio 2012, n. 721

Sui termini per la rilevabilità d’ufficio della nullità provvedimentale.

L’art. 31, comma 4, c.p.a. prevede una disciplina differenziata del rilievo della nullità, secondo che essa:
a) sia domandata dal ricorrente, in via di azione: in tal caso, è previsto un termine decadenziale triplo rispetto a quello ordinario, ex art. 29;
b) sia opposta dal resistente, in via di eccezione (c.d. impropria, giacché concorre con il potere-dovere di rilievo ufficioso del giudice): in tal caso, il legislatore ha optato per l’imprescrittibilità;
c) sia rilevata d’ufficio dal giudice: in tal caso, la perpetuità del potere di rilevare il vizio è il medesimo di cui si è già detto, sub b).
 Il potere che la legge dà al giudice – al pari di ogni altra rilevabilità ope iudicis: per esempio quella dell’incompetenza – costituisce una potestà (c.d. potere-dovere), il cui esercizio è sempre obbligatorio, mai facoltativo, come corollario del ruolo di imparziale garante dell’esatta applicazione delle regole processuali che la legge gli ha assegnato. A ciò consegue che il giudice che rilevi una nullità – e, quantomeno, nei casi di c.d. nullità testuale, ossia espressamente comminata dalla legge che vi riconnetta il potere di rilievo giudiziale ufficioso – è sempre tenuto a dichiararla d’ufficio, statuendo in conformità.

L’art. 31, comma 4, c.p.a., esprime una parentesi di giurisdizione oggettiva che, per espressa previsione di legge, si innesta nel processo amministrativo, in deroga al suo ordinario carattere di giurisdizione soggettiva. Sicché non vi può essere luogo ad alcun temperamento tra l’art. 31, comma 4, c.p.a. – nonché, dalla stessa parte, tra le singole norme che testualmente comminano, in modo espresso, una nullità rilevabile d’ufficio – e, dall’altra parte, il c.d. principio della domanda (o dell’interesse della parte istante) che, nel processo civile, ha costituito un limite interpretativo alla generale applicazione del principio della rilevabilità d’ufficio della nullità.

L’art. 73, co. 3, c.p.a., lungi dal vietare al giudice di porre a fondamento della sua decisione le questioni rilevate d’ufficio, gli consente piuttosto di farlo fino al momento che immediatamente precede l’assegnazione della causa in decisione, senz’altro onere che quello di indicare in udienza alle parti tale questione e di darne atto a verbale. In tal caso, tutto quello che va concesso al contraddittorio delle parti è solo la possibilità di discutere oralmente, nella stessa udienza, della questione sollevata d’ufficio dal giudice; infatti, nonostante qualche prassi di segno diverso, si deve radicalmente escludere che il giudice debba (né possa) assegnare termini di sorta per difese scritte, men che mai rinviando la causa ad un’udienza successiva (salvo che ambo le parti lo richiedano, e che il giudice stesso vi consenta).
 L’art. 73, comma 3, c.p.a., prevede la fissazione di un termine ulteriore, per il mero deposito di difese scritte (e, dunque, anche in questo caso senza alcuna possibilità di rimettere la causa sul ruolo), unicamente nel caso in cui il rilievo d’ufficio di una questione nuova per le parti sia effettuato dopo il passaggio della causa in decisione. Da ciò si evince che non è sufficiente dedurre – come vizi di difetto di contraddittorio o lesione del diritto di difesa: che, ex art. 105, comma 1, darebbero adito a rimessione della causa al primo giudice – che il rilievo d’ufficio abbia riguardato una questione “assolutamente estranea al giudizio (e mai trattata in alcun atto)”.
In ordine all’insanabilità della nullità è sufficiente richiamare la soggezione del giudice alla legge, ex art. 101, II comma, Cost., per escludere che, a fronte dell’inequivoca scelta legislativa di sanzionare un precetto con la nullità dell’atto che lo abbia violato, possa fondatamente ipotizzarsi un’interpretazione giudiziale correttiva (rectius: violativa), che porti a ritenere “regolarizzabile” l’atto nullo (anche perché quod nullum est non potest, tractu temporis, convalescere: cfr. art. 1423 c.c.).SL



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Inserito in data 29/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 agosto 2012, n. 4593

 

Sul termine di impugnazione per l’atto di esclusione di un’offerta dalla gara d’appalto

L’atto di esclusione, ancorché non definisca interamente il procedimento, è immediatamente lesivo per il soggetto escluso e per quanto lo concerne rappresenta l’atto conclusivo del procedimento stesso.

Se l'impresa assiste, tramite rappresentante, alla seduta in cui vengono adottate determinazioni in ordine all’esclusione della sua offerta, è in tale seduta che l'impresa acquisisce la piena conoscenza del provvedimento ed è dalla data della stessa seduta che decorre il termine per impugnare il medesimo provvedimento, mentre la presenza di un rappresentante della ditta partecipante alla gara di appalto in quella seduta non comporta ex se la piena conoscenza dell'atto di esclusione ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione solo qualora il rappresentante stesso non sia munito di apposito mandato o non rivesta una specifica carica sociale, ossia non ricorrano i casi in cui la conoscenza avuta dal medesimo sia riferibile alla società concorrente SL



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Inserito in data 29/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 agosto 2012, n. 4590

 

Pubblico impiego: sul termine di prescrizione applicabile ai crediti aventi ad oggetto le indennità di fine rapporto, relativamente ai periodi di lavoro prestati fuori ruolo

In materia di lavoro pubblico, l’indennità di fine rapporto, per il servizio prestato in posizione di fuori ruolo, si prescrive nel termine di cinque anni. 

Il termine “generale” di prescrizione di cui all’art. 2948 n. 5 c.c., applicabile alle indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro, pari a cinque anni,  riguarda tutte le ipotesi in cui al lavoratore, pubblico o privato, sia dovuta un’indennità che trovi la sua causa nella “cessazione del rapporto di lavoro” e, dunque, anche quando il dipendente non di ruolo sia stato inquadrato nei ruoli dell’Amministrazione, con l’unica eccezione dell’indennità dovuta in caso di licenziamento, alla quale solamente trova applicazione l'art. 2, comma 3, del r.d.l. n. 295 del 1939, che dispone la durata decennale del termine di prescrizione del diritto all'indennità di licenziamento nell'evidente intento di tutelare maggiormente il lavoratore licenziato. SL



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Inserito in data 29/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 agosto 2012, n. 4586

 

Sugli effetti (o la mancanza di effetti) derivanti dall’esercizio di fatto di mansioni superiori nel pubblico impiego. 

Tale esercizio di fatto non conferisce, in alcun caso, un diritto all’inquadramento nella qualifica superiore. Quanto alle differenze retributive, è ugualmente consolidata la giurisprudenza per cui, nel settore sanitario regolato dal d.P.R. n. 761/1979, esse spettano a condizione che vi sia stato un atto formale d’incarico e sempreché concorrano i seguenti requisiti:

a) tale atto deve essere “previo”, quindi non hanno effetto eventuali riconoscimenti “a posteriori”; b) l’incarico deve riferirsi alla copertura temporanea di un posto esistente in organico e vacante, per il quale sia stato già attivato il concorso per la copertura definitiva;

c) l’atto deve provenire dall’organo competente ad adottare i provvedimenti in materia di stato giuridico e di trattamento economico del personale (non sono sufficienti gli ordini di servizio di un superiore gerarchico).

Il tutto con gli ulteriori limiti di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 761/1979 (es.: la maggior retribuzione spetta solo per i periodi eccedenti due mesi per anno solare). SL



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Inserito in data 27/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 9 agosto 2012, n. 32

 

Tardività dell’appello per condotta fuorviante del Giudice di primo grado. Limiti dell’art. 37 c.p.a.

Il Massimo Consesso, ricomponendo un contrasto sorto all’interno delle proprie Sezioni, chiarisce la portata del c.d. errore scusabile.

Con particolare riferimento al caso concreto, dato il mancato rispetto, da parte del Giudice di primo grado, dei termini abbreviati richiesti ex art. 23 bis L. TAR anche in merito alla materia oggetto del presente ricorso, la parte soccombente errava nei termini di proposizione del successivo mezzo di gravame.

Esaminando il dibattito sorto tra quanti negano, nel caso di specie, la scusabilità dell’errore e quindi la rimessione in termini, in forza della tutela di interessi pubblicistici sottesa al rigore degli stessi, e quanti, invece, avallano una tendenza meno rigida, stante il comportamento incongruo del Giudice, inevitabilmente causa di un comportamento processuale delle parti risultato poi come erroneo, i Massimi Giudici si avvicinano a quest’ultimo filone.

Infatti, ripercorrendo l’iter argomentativo già esposto nell’Ad. Pl. 3/10 in tema di incongruenze giurisprudenziali tali da giustificare l’errore delle parti ed il successivo affidamento, codesto Organo sancisce, in tale sede, che, al di là del rilievo pubblicistico proprio delle materie meritevoli di abbreviazione dei termini – ex art. 23 bis L. TAR - tuttavia se l’errore del Giudice circa il rito da applicare e i conseguenti termini si inquadra in un complessivo comportamento fuorviante delle stesso Giudice e delle controparti, si determina una situazione che oggettivamente giustifica la concessione dell’errore scusabile.CC



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Inserito in data 27/08/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. III-ter, 22 agosto 2012, n. 7380

 

Formazione di graduatoria concorsuale difformemente rispetto a quanto previsto dal D.P.R. 487/94.

A fronte della ritenuta legittimità, addotta dalla contro interessata, riguardo alla lex specialis statuente criteri di valutazione differenti rispetto a quanto contemplato in campo nazionale, il Collegio ne statuisce la non condivisibilità.

Infatti, il criterio della somma tra la media dei punti ottenuti dai candidati nelle prove scritte e il voto conseguito nelle prove orali – di cui all’art. 7 D.P.R. 487/94 – non può essere così facilmente derogato.

Esso, infatti, imponendosi quale disciplina di carattere generale, nasce proprio dalla necessità di ancorare il calcolo del punteggio conseguito dai candidati a parametri uniformi e validi per qualsivoglia concorso e nell’intero territorio nazionale, non potendo la potestà regolamentare essere piegata all’introduzione di criteri disomogenei da parte di ciascuna Amministrazione.

In tal guisa, sostiene il Collegio, si finirebbe con il produrre risultati diversi a seconda delle modalità di volta in volta seguite, come nella fattispecie in esame, tradendo quello spirito di efficienza e di imparzialità al cui perseguimento è ispirata, invece, la modalità di valutazione e di reclutamento del personale – ex art. 35 D. Lgs. 165/01.

Ne discende, pertanto, l’inammissibilità di previsioni difformi, alla stregua delle doglianze mosse dalla ricorrente esclusa. CC



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Inserito in data 27/08/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. I-bis, 24 agosto 2012, n. 7385

 

Legittimità o meno dell’esclusione da una procedura di arruolamento. Estremi della motivazione

Il Collegio laziale, condividendo la posizione della candidata esclusa, sancisce la non ascrivibilità dell’alterazione della cute – nella specie un tatuaggio allocato sul dorso del piede destro della ricorrente – tra i possibili indici di personalità abnorme, tali da giustificare l’esclusione statuita dall’Amministrazione arruolante. CC



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Inserito in data 27/08/2012
TAR SARDEGNA, SEZ. I, 21 agosto 2012, n. 777

 

Archiviazione di una procedura di gara per appalto di forniture. Profili risarcitori

I Giudici sardi ricordano come, a seguito della raggiunta inoppugnabilità del provvedimento di revoca, la pretesa risarcitoria ad esso connessa non appaia più sussistente.

Viene meno, infatti, uno degli elementi tipici della responsabilità dell’Amministrazione e, pertanto, la fondatezza del profilo risarcitorio paventato dalla ditta, inizialmente aggiudicataria. CC



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Inserito in data 27/08/2012
TAR SARDEGNA, SEZ. I, 21 agosto 2012, n. 777

 

Archiviazione di una procedura di gara per appalto di forniture. Profili risarcitori

I Giudici sardi ricordano come, a seguito della raggiunta inoppugnabilità del provvedimento di revoca, la pretesa risarcitoria ad esso connessa non appaia più sussistente.

Viene meno, infatti, uno degli elementi tipici della responsabilità dell’Amministrazione e, pertanto, la fondatezza del profilo risarcitorio paventato dalla ditta, inizialmente aggiudicataria. CC



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Inserito in data 04/08/2012
TAR CAMPANIA - SALERNO, SEZ. II, 23 luglio 2012, n. 1406

Sull’istituzione di nuove farmacie alla luce delle modifiche apportate con la l. n. 27/2012 all’ art. 2 co. 2 l. 475/68 (Norme concernenti il servizio farmaceutico).

E’ ammissibile il ricorso avverso la deliberazione con cui la giunta comunale attende alla individuazione delle zone nelle quali collocare le farmacie di nuova istituzione, integrante atto definitivo, alla Regione spettando la sola predisposizione del bando e la gestione della procedura concorsuale.
 L’art. 2, co. 2, legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), come modificato dalla legge 27/2012, di conversione del decreto legge n. 1/2012 (“Al fine di assicurare una maggiore accessibilità al servizio farmaceutico, il comune, sentiti l'azienda sanitaria e l'Ordine provinciale dei farmacisti competente per territorio, identifica le zone nelle quali collocare le nuove farmacie, al fine di assicurare un'equa distribuzione sul territorio, tenendo altresì conto dell'esigenza di garantire l'accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate”) laddove prevede il parere obbligatorio, sebbene non vincolante, degli enti ivi indicati, non appare consentire al Comune di prescinderne, se non con idonea motivazione, che si fondi pur sempre sui criteri indicati dal legislatore.
L’art. 2, legge 2 aprile 1968, n. 475 (Norme concernenti il servizio farmaceutico), come modificato dalla legge 27/2012, di conversione del decreto legge n. 1/2012, intende garantire una capillare distribuzione delle sedi farmaceutiche sul territorio, assicurando ai cittadini residenti anche in zone scarsamente abitate un facile accesso al servizio farmaceutico, oltre che assicurare un bacino di utenza minimo al titolare della farmacia, stabilendo un determinato rapporto con il numero complessivo di abitanti del comune. SL



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Inserito in data 04/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 31 luglio 2012, n. 31

Dies a quo per impugnare l’aggiudicazione definitiva. Confini del principio di pubblicità e trasparenza FT

Anche per le gare d’appalto indette in epoca anteriore all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva da parte dei concorrenti non aggiudicatari inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 163 del 2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicatario, ai sensi dell’art. 11, comma 8, dello stesso decreto.

I principi di pubblicità e trasparenza che governano la disciplina comunitaria e nazionale in materia di appalti pubblici comportano che, qualora all’aggiudicazione debba procedersi col criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’apertura delle buste contenenti le offerte e la verifica dei documenti in esse contenuti vadano effettuate in seduta pubblica anche laddove si tratti di procedure negoziate, con o senza previa predisposizione di bando di gara, e di affidamenti in economia nella forma del cottimo fiduciario, in relazione sia ai settori ordinari che ai settori speciali di rilevanza comunitaria. FT



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Inserito in data 04/08/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 30 luglio 2012, n. 211

La scure dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del pubblico concorso (1) FT

La questione relativa all’art. 39 della legge regionale censurata [legge della Regione Basilicata 4 agosto 2011, n. 17 (Assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2011 e del bilancio pluriennale per il triennio 2011-2013),]è fondata ... La norma regionale dispone, sulla base di un’altra legge regionale che l’avrebbe già autorizzata ... la stabilizzazione di lavoratori socialmente utili che erano stati esclusi da tale beneficio in forza di una precedente delibera della Giunta regionale. La legge regionale che aveva autorizzato la stabilizzazione di cui all’art. 39, però, era stata travolta dalla successiva entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2009 che, all’art. 17, comma 10, prevedeva specifiche limitazioni all’effettuazione di assunzioni senza concorso, sia per ciò che concerne le modalità di stabilizzazione – sempre attraverso procedure concorsuali – sia a livello di percentuali di riserva dei posti messi a concorso a favore degli stabilizzandi. Con riferimento ad un’analoga disposizione regionale, relativa alla Regione Calabria, questa Corte (sentenza n. 310 del 2011) ha già dichiarato l’illegittimità della proroga, contemplata da tale disposizione, del termine dei piani di stabilizzazione occupazionale dei lavoratori contenuti in precedenti leggi regionali. La disposizione in esame, dando attuazione, successivamente al regime dettato dall’art. 17, comma 10, del decreto-legge n. 78 del 2009, ad una stabilizzazione da precedente legge regionale, si pone in contrasto con la vigente normativa nazionale in materia e configura una lesione dei principi di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione (coordinamento della finanza pubblica). Tale stabilizzazione, inoltre, per taluni lavoratori, realizza una forma di assunzione riservata, senza predeterminazione di criteri selettivi di tipo concorsuale ed esclude o riduce irragionevolmente la possibilità di accesso al lavoro dall’esterno e viola, come questa Corte ha reiteratamente affermato (explurimis, sentenze nn. 108 e 127 del 2011) il principio del pubblico concorso e quello di buona amministrazione di cui all’art. 97, primo comma, della Costituzione. FT



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Inserito in data 04/08/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 30 luglio 2012, n. 212

La scure dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del pubblico concorso (2) FT

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 10, della legge reg. Sardegna in oggetto, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata. La norma impugnata ... dispone che i consorzi di bonifica prevedono l’assunzione nelle proprie dotazioni organiche, per almeno sei mesi di ciascun anno, del personale che ha prestato attività lavorativa, con contratti a tempo determinato, per le opere trasferite all’Ente acque della Sardegna (ENAS), per almeno centottanta giornate lavorative nei tre anni a partire dal 10 gennaio 2008. Il ricorrente lamenta che, in questa maniera, è leso il principio di coordinamento della finanza pubblica espresso dall’art. 9, comma 28, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 30 luglio 2010, n. 122, in virtù del quale, a decorrere dall’anno 2011, le amministrazioni pubbliche possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni o con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, solamente nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell’anno 2009 ... L’art. 9, comma 28, del decreto-legge n. 78 del 2010, emanato dallo Stato nell’esercizio della sua competenza concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica, pone un obiettivo generale di contenimento della spesa relativa ad un vasto settore del personale (quello costituito da quanti collaborano con le pubbliche amministrazioni in virtù di contratti diversi dal rapporto di impiego a tempo indeterminato), lasciando alle singole amministrazioni la scelta circa le misure da adottare con riferimento ad ognuna delle categorie di rapporti di lavoro da esso previste. Trattasi, dunque, di un principio generale in materia di coordinamento della finanza pubblica. L’art. 4, comma 10, della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011, omettendo qualsiasi riferimento al limite da esso derivante e consentendo, pertanto, assunzioni a tempo determinato comportanti una spesa maggiore, è illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

La questione di illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, della medesima legge sarda, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata. La norma regionale impugnata ... istituisce la Scuola regionale del predetto Corpo forestale. Il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia ... che prevede ... per il funzionamento della neo istituita Scuola), una dotazione organica del Corpo forestale regionale aumentata di 20 unità. Ad avviso del ricorrente, tale incremento si pone in contrasto con il principio di coordinamento della finanza pubblica espresso dall’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006, secondo cui gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale «garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale», con azioni da modulare nell’ambito della loro autonomia e rivolte prioritariamente ad assicurare la riduzione dell’incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, la razionalizzazione e lo snellimento delle strutture burocratico-amministrative, nonché il contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali. Il fatto che il legislatore regionale abbia manifestato chiaramente, in altra norma, l’intento di recepire il disegno normativo attinente al Corpo forestale tracciato dallo Stato nell’art. 1 del decreto legislativo 3 aprile 2001, n. 155 ... adeguandosi alla disciplina statale in tema di riordino dei ruoli direttivo e dirigenziale del medesimo, risulta del tutto ininfluente se poi la norma censurata, con buona evidenza, non ha nulla a che vedere con il riordino dei ruoli del Corpo forestale regionale, ma prevede l’istituzione di una scuola di formazione e addestramento. Questa Corte, peraltro, ha già qualificato come principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica l’art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006. Tale norma obbliga le Regioni alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva (sentenza n. 108 del 2011). L’art. 5, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011, disponendo addirittura un ampliamento della pianta organica, si pone in diretto contrasto con la richiamata normativa statale ... Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 12-bis, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 26 del 1985, così come introdotto dall’art. 5, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, della stessa legge sarda, promossa in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è fondata nei termini di seguito precisati. La norma impugnata ... dispone l’accesso senza concorso alla qualifica di dirigente del Corpo forestale a favore di chi, pur non rivestendo tale qualifica, sia in possesso dei requisiti per l’accesso alla dirigenza e sia titolare di un incarico dirigenziale da più di quattro anni in virtù di quanto disposto dall’art. 73, comma 4-ter, della legge della Regione Sardegna 13 novembre 1998, n. 31 (Disciplina del personale regionale e dell’organizzazione degli uffici della Regione), secondo cui «In caso di carenza di dirigenti appartenenti al Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale, e fino all’espletamento dei relativi concorsi, le funzioni di direzione dei servizi del Corpo sono svolte, secondo quanto previsto dall’articolo 30, da funzionari appartenenti al Corpo medesimo». Questa Corte ha ripetutamente affermato che il precetto costituzionale che impone il pubblico concorso quale modalità di accesso ai pubblici uffici si applica anche nei casi di passaggio ad una superiore qualifica (sentenze n. 30 del 2012, n. 108 e n. 7 del 2011). Né il meccanismo selettivo pure previsto dalla disposizione censurata appare conforme ai requisiti di concorsualità e pubblicità richiesti dall’art. 97 della Costituzione. Infatti, in base ad esso, solamente i funzionari già titolari di incarico dirigenziale (e, dunque, un numero ristretto di potenziali interessati) sono sottoposti ad una procedura selettiva. Quest’ultima, inoltre, non richiede alcuna comparazione tra i partecipanti (onde difetta anche il carattere della concorsualità). Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 22-bis, comma 3, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 26 del 1985, così come introdotto dall’art. 5, comma 5, della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011.

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10 della medesima legge regionale sarda, promosse in riferimento agli artt. 97 e 117, terzo comma, Cost., sono fondate. La norma oggetto della presente questione prevede la stabilizzazione del personale non dirigenziale addetto al servizio sanitario di urgenza ed emergenza che abbia lavorato per almeno trenta mesi negli ultimi cinque anni; la stabilizzazione avviene su semplice domanda degli interessati per coloro il cui rapporto di lavoro sia stato instaurato «almeno in parte» sulla base di «procedure selettive di natura concorsuale», ovvero a seguito di procedure selettive di natura concorsuale per il restante personale. Così disponendo, l’art. 10 della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011 confligge con la disciplina dettata dall’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 3 agosto 2009, n. 102. Questa prevede, tra l’altro, che le amministrazioni possano attribuire rilevanza al pregresso svolgimento di attività lavorativa in esecuzione di rapporti precari mediante la previsione di una riserva di posti (pari al 40 per cento dei posti messi a concorso, quota innalzabile al 50 per cento in alcuni casi) nei concorsi banditi per le nuove assunzioni, ovvero mediante valorizzazione, per il tramite del riconoscimento di apposito punteggio sempre nell’àmbito di concorsi pubblici banditi per le nuove assunzioni, dell’esperienza professionale maturata in virtù dei predetti rapporti. La norma oggetto della presente questione, invece, prevede una stabilizzazione o su semplice domanda degli interessati ovvero previo espletamento di «prove selettive concorsuali» delle quali non è prevista tuttavia la pubblicità. Essa, pertanto, è illegittima per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., poiché la menzionata normativa statale detta principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 30 del 2012 e n. 69 del 2011) ... Sussiste altresì lesione dell’art. 97 della Costituzione. Questa Corte ha ripetutamente dichiarato l’illegittimità, per violazione di tale precetto costituzionale, di norme che disponevano stabilizzazioni del personale precario delle pubbliche amministrazioni senza prevedere la necessità del superamento di un concorso pubblico (sentenze n. 51 del 2012, n. 7 del 2011, n. 235 del 2010). Ciò è quanto si verifica anche nella presente fattispecie, poiché, come già segnalato, l’art. 10 della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011 prevede una stabilizzazione o su semplice domanda degli interessati ovvero previo espletamento di «prove selettive concorsuali» delle quali non è prevista tuttavia la pubblicità. Né si può sostenere che il piano pluriennale di superamento del precariato di cui alla norma impugnata si applichi solamente a coloro che abbiano già superato prove selettive di natura concorsuale o che si sottopongano a prove selettive concorsuali. Infatti, da un lato, l’art. 10 della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011 prevede la stabilizzazione a domanda, non già a favore  di chi abbia lavorato a tempo determinato a seguito di vittoria in un concorso pubblico, ma – molto genericamente – per coloro il cui rapporto di lavoro sia stato instaurato «almeno in parte» sulla base di «procedure selettive di natura concorsuale»; dall’altro, la norma censurata non richiede la pubblicità delle prove concorsuali cui si dovrebbe sottoporre il personale precario. Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge reg. Sardegna n. 16 del 2011 per violazione degli artt. 97 e 117, terzo comma, della Costituzione. FT



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Inserito in data 04/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, decreto 2 agosto 2012, n. 3210

Art 11 co 8 dl 1/2012 e facoltà dei farmacisti di autoregolare l’apertura delle loro farmacie.

Ad un primo e sommario esame sull’istanza di misure cautelari urgenti, sembrano sussistere concreti indizi di fondatezza della pretesa degli appellanti come basata sull’art. 11, c. 8, I per. del DL 24 gennaio 2012 n. 1 (convertito, con modificazioni, dalla l. 24 marzo 2012 n. 27). Detta norma s’inserisce nella progressiva liberalizzazione del mercato distributivo dei farmaci, mercé l’attribuzione agli operatori della facoltà d’autoregolare l’apertura delle loro farmacie rispetto ad un’eventualmente più stringente e dirigistica definizione pubblica dell’equilibrio del mercato stesso. Tale facoltà, che va letta secondo i normali canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, non esclude in toto ogni potestà dell’Autorità sanitaria a vincolare i farmacisti, per evidenti ragioni di garanzia di efficiente continuità del relativo servizio in qualunque giorno dell’anno, al rispetto di orari e di turni di apertura degli esercizi, ma la norma non le consente più d’imporre turni predefiniti di chiusura contro la volontà degli operatori. Avendo gli appellanti chiesto di restare aperti, tal richiesta ben può esser soddisfatta attraverso la scelta autonoma dei farmacisti, la quale non si pone certo in evidente contrasto con la tutela della salute, ché, anzi, tal obiettivo non è di per sé incompatibile con più elevati livelli di concorrenza nella vendita al dettaglio dei farmaci e, certo, non con un più lungo periodo di apertura delle farmacie degli appellanti stessi. L’autonomia imprenditoriale, che l’art. 11, c. 8 del DL 1/2012 riconosce agli appellanti, deve comunque rispettare i diritti alle ferie dei lavoratori addetti alle loro farmacie ed è senza pregiudizio delle future determinazioni regolatrici dei turni di aperture, atte ad assicurare i livelli minimi d’efficienza assistenziale. Sussiste pure il lamentato danno, in relazione alla contrazione degli utili delle farmacie degli appellanti, cui è ragionevolmente possibile ovviare appunto con l’apertura di tali esercizi durante il mese di agosto, almeno fino all’udienza camerale di trattazione dell’appello in epigrafe. FT



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Inserito in data 03/08/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 luglio 2012, n. 3884

Sulle attribuzioni del responsabile unico del procedimento.

La produzione dell'attestazione del R.U.P. (responsabile unico del procedimento) di presa visione dei luoghi dove devono eseguirsi i lavori, imposta dal disciplinare di gara, lungi dal sostanziarsi in un adempimento documentale aggiuntivo rispetto alla disposizione del regolamento attuativo della legge sui lavori pubblici (art. 71, comma secondo, D.P.R. n. 554 del 1999) e alla stessa riconducibile, sicché non può della medesima invocarsi la nullità in virtù del comma primo bis dell'art. 46, D.Lgs. n. 163 del 2006. In tal senso, invero, con il richiedere l'attestazione della presa di conoscenza delle condizioni locali e di tutte le circostanze che possono influire sulla esecuzione dell'opera, e prima ancora sulla formulazione dell'offerta, la stazione appaltante pone a carico dell'appaltatore un preciso dovere cognitivo, cui corrisponde una altrettanto precisa responsabilità contrattuale di quest'ultimo. La provenienza di detto documento dall'amministrazione aggiudicatrice assicura a quest'ultima maggiore tutela, a presidio dell'interesse, di ordine imperativo, alla individuazione del contraente più idoneo nonché alla correttezza e regolarità della gara, in un ottica dunque di rafforzamento degli adempimenti dichiarativi imposti dall'art. 71, comma secondo, del D.P.R. n. 554 del 1999 e dunque in coerenza con l'interesse pubblico sotteso a tale norma di azione. Lo stesso onere documentale, tra l'altro ragionevole e posto a presidio dell'esigenza della stazione appaltante di poter riporre affidamento sulla serietà del concorrente e non sproporzionato, essendo agevolmente assolvibile, non può essere surrogato da autodichiarazione del concorrente, che è priva di valore di certazione proprio dell'attestazione rilasciata dalla stazione appaltante. Quanto innanzi consente di escludere l'applicabilità della comminatoria di nullità contenuta nell'art. 46, comma primo bis, del codice dei contratti pubblici, poiché la (necessaria) copertura normativa dell'esclusione è rinvenibile nel più volte citato art. 71, comma secondo, D.P.R. n. 554 del 1999. Del resto, anche dopo le modifiche introdotte dal decreto sviluppo di cui al D.L. n. 70 del 2011, è rimasta inalterata la facoltà delle amministrazioni aggiudicatrici di richiedere ai partecipanti ad una procedura di affidamento la documentazione necessaria o utile per operare la selezione nel rispetto del principio di proporzionali. SL



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Inserito in data 03/08/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, 25 giugno 2012, n. 10502

Sull’occupazione parziale e l’indennità di espropriazione.

Il deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato è da considerare voce ricompresa nell'indennità di espropriazione, che per definizione riguarda l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablativo, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo, sia essa agricola o edificabile, non essendo concepibili, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l'una a titolo di indennità di espropriazione e l'altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni.

I profili irreversibili di danno subiti dalla parte residua della proprietà, a causa dell'interclusione della medesima dopo l'espropriazione, non possono che trovare riconoscimento nei concetti di espropriazione ed occupazione parziale. Nella fattispecie regolata dall’art. 40, L. 25 giugno 1865, n. 2359, va ricompresa ogni ipotesi di diminuzione di valore della parte non interessata dall'espropriazione, restando ininfluente che la parte residua danneggiata non sia compresa nella dichiarazione di pubblica utilità, ai fini dell'espropriazione.

 L’indennità di occupazione legittima - che, in base all’art. 20, co. 3, L. 22 ottobre 1971, n. 865, è pari, per ciascun anno di occupazione, ad un dodicesimo dell’indennità che sarebbe dovuta per l'espropriazione dell'area da occupare - va commisurata alla definitiva indennità di espropriazione effettivamente dovuta, dovendo ad essa attribuirsi quella stessa qualificazione di indennità provvisoria che si rinviene all’art. 12, co. 1, della citata legge n. 865 del 1971. Detto principio è affermato tanto per l'indennità di occupazione legittima del suolo destinato all'esproprio quanto per quello utilizzato quale per le fasce laterali occupate per le necessità del "cantiere" e transito.

 Le disposizioni attinenti alle indennità da occupazione provvisoria legittima, perché tendono al ristoro del reddito perduto durante l'occupazione del bene, non possono che fissare l'entità delle indennità di occupazione in misura strettamente percentuale all'indennità di espropriazione parimenti dovuta: quella annuale di "un dodicesimo" corrisponde, infatti e comunque, ad una redditività predeterminata in misura percentuale fissa (8,33% all'anno) dallo stesso legislatore, a cui va aggiunto l'aumento del 50% per l’accordo bonario di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 12. SL

 




Inserito in data 31/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 luglio 2012, n. 4217

Q.l.c. art. 271 – 2’ co. T.U.E.L. che prevede il distacco temporaneo dei dipendenti per motivi sindacali.

Il Collegio, ravvedendone la rilevanza e la non manifesta infondatezza, solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 271, comma 2, del Decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – T.U.E.L., nella parte in cui detta norma esclude la possibilità per gli Enti locali di distaccare il proprio personale anche presso associazioni diverse da quelle tassativamente indicate dalla norma medesima.

Tale limitazione, infatti, oltre a creare un’evidente disparità di situazioni, con conseguente vulnus al parametro di cui all’art. 3 della Costituzione, oltreché al buon andamento della P.A. – costituzionalmente siglato all’articolo 97, provoca, altresì, una palese deminutio all’autonomia degli Enti locali – pregiudicando i parametri di cui agli artt. 114, 118, 119 della nostra Carta Fondamentale.

Altrettanto pregiudicato, ad avviso di codesti Giudici, il pluralismo associativo – ex art. 18 Cost., volutamente ristretto dal Legislatore del 2000, con conseguente vincolo arrecato alla libertà di scelta e di relativa adesione che ciascun Ente, invece, dovrebbe poter mantenere ed esercitare.

E’, pertanto, sulla base di tali valutazioni che il Collegio rimette gli atti dell’odierna questione all’attenzione della Consulta. CC



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Inserito in data 31/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 luglio 2012, n. 4251

Sulla portata dell’art. 73 – 3’ co. C.p.A.  e sui relativi poteri del Giudice di intervenire ex officio.

In forza della lettura dell’art. 73, 3’ co. C.p.A. che statuisce la possibilità per il Giudice di porre a fondamento della propria decisione una questione rilevata d’ufficio, indicandola in udienza e dandone atto a verbale, il Collegio, rilevando, in tale sede, la mancata indicazione ai soggetti in lite, da parte del Primo Giudice, della questione posta a fondamento della propria decisione, procede alla declaratoria di nullità della relativa sentenza, rimettendo gli atti dinanzi al Primo Organo ex art. 105 – 1’ co. C.p.A. CC



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Inserito in data 31/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 luglio 2012, n. 4252

Sentenza di diniego di giurisdizione. Termini di appello dimidiati e procedimento in camera di consiglio.

Il Collegio ricorda come l’impugnazione delle sentenze di primo grado, con le quali il Giudice amministrativo abbia denegato la propria giurisdizione, segua il procedimento della camera di consiglio ai sensi degli articoli 105 – 2’ co. e 87 – 3’ co. C.p.A.

Si applica, pertanto, l’abbreviazione dei termini – come prevista dall’ultima norma proprio con riguardo alle pronunce in punto di giurisdizione – e ribadita dal c.d. Decreto correttivo del C.p.A. – D. Lgs. 195/11, nonché dalla più recente giurisprudenza.

La snellezza e celerità potenzialmente sottese ad un simile giudizio, infatti, parrebbero avallare quella dimidiazione di termini che il Legislatore aveva già predisposto e che i Giudici continuano a confermare e a sottolineare. CC



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Inserito in data 31/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 luglio 2012, n. 4276

Valutazione del pubblico dipendente ai fini della ricostruzione della carriera. Agire dell’Amministrazione.

I Giudici respingono le censure dell’appellante il quale lamenta l’erroneità della condotta dell’Amministrazione che, in sede di ricostruzione  e valutazione della propria carriera, parrebbe avergli attribuito dei bassi punteggi.

Non vi è stato, invero, alcun eccesso di potere né alcuna illogicità nella motivazione dell’agere pubblico.

L’Amministrazione, invece, ha correttamente interpretato il disposto che prevede simili valutazioni – ex art. 3 D.P.R. 3/57, fornendo una motivazione, sì costruita a posteriori, ma sulla base di elementi che la norma appositamente predispone e che, nel caso concreto, erano effettivamente carenti a causa della condotta, non proprio regolare, del dipendente/appellante. CC



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Inserito in data 28/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 26 luglio 2012, n. 30

Giudicato sopravvenuto di annullamento dell’esclusione e rinnovo operazioni di gara.

Nella gara per l’affidamento di contratti pubblici l’interesse fatto valere dal ricorrente che impugna la sua esclusione è volto a concorrere per l’aggiudicazione nella stessa gara; pertanto, anche nel caso dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in presenza del giudicato di annullamento dell’esclusione stessa sopravvenuto alla formazione della graduatoria, il rinnovo degli atti deve consistere nella sola valutazione dell’offerta illegittimamente pretermessa, da effettuarsi ad opera della medesima commissione preposta alla procedura. FT



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Inserito in data 28/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 26 luglio 2012, n. 29

Controversie relative ai rigassificatori: confini della competenza inderogabile del TAR Lazio.

L’art. 135, comma 1, lett. f) del codice del processo amministrativo (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104), che, anche tramite il rinvio all’art. 133, comma 1, lett. o), attribuisce alla competenza funzionale inderogabile del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio le controversie relative ai rigassificatori non può che essere riferito, non solo ai provvedimenti concernenti l’autorizzazione alla realizzazione dei rigassificatori, ma anche a tutte quelle manifestazioni dei pubblici poteri che, anche indirettamente, attengano alla costruzione degli impianti in questione, come accade nel caso di specie. In favore di tale convincimento, ... milita l’insegnamento impartito dal giudice delle leggi ... con la sentenza n. 237 del 2007 ... la Corte ha individuato il fondamento della legittimità delle norme impugnate nella circostanza che le materie sottratte alla competenza del giudice locale risultano caratterizzate da un rilievo che travalica l’ambito di incidenza diretta del provvedimento, per riflettersi su interessi generali, aventi, come nell’attuale fattispecie, " rilievo nazionale, data la sussistenza di esigenze di unitarietà, coordinamento e direzione…sicché è proprio il carattere ultraregionale delle stesse – indipendentemente dal rispettivo ambito geografico d'incidenza – a giustificare la concentrazione del relativo contenzioso presso il Tribunale amministrativo regionale del Lazio.”.

Né può considerasi trascurabile il dato testuale offerto dagli artt. 133 e 135 del codice del processo amministrativo, i quali, mentre per la maggior parte delle ipotesi di giurisdizione esclusiva e di competenza funzionale inderogabile del Tribunale amministrativo romano usano l’espressione “controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia..” (lettere f, g, l, m, q, ecc. dell’art. 133), con riguardo ai rigassificatori (lett. o) si impiegano la locuzione : “controversie attinenti alle procedure e ai provvedimenti …concernenti…” i rigassificatori, che implicano una interpretazione non rigidamente ancorata ai provvedimenti specificamente definitori della relativa procedura. FT



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Inserito in data 28/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 luglio 2012, n. 203

Disciplina della SCIA: livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.

La art. 49, comma 4-ter, del d.l. n. 78 del 2010, poi convertito in legge, stabilisce che la disciplina della SCIA, di cui al precedente comma 4-bis, costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. ... Tale autoqualificazione, benché priva di efficacia vincolante per quanto prima rilevato, si rivela corretta ... La disciplina della SCIA ben si presta ad essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Tale parametro permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione. In particolare, la ratio di tale titolo di competenza e l’esigenza di tutela dei diritti primari che è destinato a soddisfare consentono di ritenere che esso può rappresentare la base giuridica anche della previsione e della diretta erogazione di una determinata provvidenza, oltre che della fissazione del livello strutturale e qualitativo di una data prestazione, al fine di assicurare più compiutamente il soddisfacimento dell’interesse ritenuto meritevole di tutela, quando ciò sia reso imprescindibile, come nella specie, da peculiari circostanze e situazioni, quale una fase di congiuntura economica eccezionalmente negativa. Orbene – premesso che l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di “prestazione”, della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale a fronte di uno specifico diritto di individui, imprese, operatori economici e, in genere, soggetti privati – ... al soggetto interessato ... si riconosce la possibilità di dare immediato inizio all’attività (è questo il principale novum della disciplina in questione), fermo restando l’esercizio dei poteri inibitori da parte della pubblica amministrazione, ricorrendone gli estremi. Inoltre, è fatto salvo il potere della stessa pubblica amministrazione di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241 del 1990. Si tratta di una prestazione specifica, circoscritta all’inizio della fase procedimentale strutturata secondo un modello ad efficacia legittimante immediata, che attiene al principio di semplificazione dell’azione amministrativa ed è finalizzata ad agevolare l’iniziativa economica (art. 41, primo comma, Cost.), tutelando il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima.

Le considerazioni fin qui svolte vanno applicate anche alla SCIA in materia edilizia, come ormai in modo espresso dispone l’art. 5, comma 1, lettera b), e comma 2, lettere b) e c), del d.l. n. 70 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 106 del 2011, entro i limiti e con le esclusioni previsti. Infatti, ribadito che la normativa censurata riguarda soltanto il momento iniziale di un intervento di semplificazione procedimentale, e precisato che la SCIA non si sostituisce al permesso di costruire (i cui ambiti applicativi restano disciplinati in via generale dal d.P.R. n. 380 del 2001), non può porsi in dubbio che le esigenze di semplificazione e di uniforme trattamento sull’intero territorio nazionale valgano anche per l’edilizia. È ben vero che questa, come l’urbanistica, rientra nel «governo del territorio», materia appartenente alla competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Tuttavia, a prescindere dal rilievo che in tale materia spetta comunque allo Stato dettare i principi fondamentali (nel cui novero va ricondotta la semplificazione amministrativa), è vero del pari che nel caso di specie, sulla base degli argomenti in precedenza esposti, il titolo di legittimazione dell’intervento statale nella specifica disciplina della SCIA si ravvisa nell’esigenza di determinare livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, compreso quello delle Regioni a statuto speciale. In altri termini, si è in presenza di un concorso di competenze che, nella fattispecie, vede prevalere la competenza esclusiva dello Stato, essendo essa l’unica in grado di consentire la realizzazione dell’esigenza suddetta. FT



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Inserito in data 28/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 luglio 2012, n. 198

Art 14 dl 138/11: riduzione costi e revisione dei conti; adeguamento delle Regioni a tali parametri.

[L’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011] inserito nel Titolo IV del decreto-legge, dedicato alla «Riduzione dei costi degli apparati istituzionali», detta parametri diretti esplicitamente al «conseguimento degli obiettivi stabiliti nell’ambito del coordinamento della finanza pubblica» (primo alinea dell’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011). Le lettere a) e b) dell’art. 14, comma 1, fissano un limite  al numero dei consiglieri e degli assessori, rapportato agli abitanti, lasciando alle Regioni l’esatta definizione della composizione dei Consigli e delle Giunte regionali ... La disposizione censurata, fissando un rapporto tra il numero degli abitanti e quello dei consiglieri, e quindi tra elettori ed eletti (nonché tra abitanti, consiglieri e assessori), mira a garantire proprio il principio in base al quale tutti i cittadini hanno il diritto di essere egualmente rappresentati. In assenza di criteri posti dal legislatore statale, che regolino la composizione degli organi regionali, può verificarsi – come avviene attualmente in alcune Regioni, sia nell’ambito dei Consigli che delle Giunte regionali – una marcata diseguaglianza nel rapporto elettori-eletti (e in quello elettori-assessori): i seggi (nel Consiglio e nella Giunta) sono ragguagliati in misura differente alla popolazione e, quindi, il valore del voto degli elettori (e quello di scelta degli assessori) risulta diversamente ponderato da Regione a Regione. Come già notato, il principio relativo all’equilibrio rappresentati-rappresentanti non riguarda solo il rapporto tra elettori ed eletti, ma anche quello tra elettori e assessori (questi ultimi nominati). Questa Corte ha già chiarito che il principio di eguaglianza, affermato dall’art. 48, si ricollega a quello più ampio affermato dall’art. 3, sicchè quando nelle elezioni di secondo grado l’elettorato attivo è attribuito ad un cittadino eletto dal popolo in sua rappresentanza, non contrasta col principio di eguaglianza, ma anzi vi si conforma, la norma che faccia conto del numero di elettori che gli conferirono il proprio voto, e con esso la propria fiducia. Principio analogo vale per gli assessori, sia perché, in base all’art. 123 Cost., «forma di governo» e «principi fondamentali di organizzazione e funzionamento» debbono essere «in armonia con la Costituzione», sia perché l’art. 51 Cost. subordina al rispetto delle «condizioni di eguaglianza» l’accesso non solo alle «cariche elettive», ma anche agli «uffici pubblici» (non elettivi).

La disposizione impugnata mira a introdurre per le amministrazioni regionali un sistema di controllo analogo a quello già previsto, per le amministrazioni locali, dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2006), «ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica» (art. 1, comma 166). Tale legge prevede che gli organi degli enti locali di revisione economico-finanziaria trasmettano alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti una relazione sul bilancio di previsione dell’esercizio di competenza e sul rendiconto dell’esercizio medesimo, e che le sezioni regionali accertino, anche sulla base di dette relazioni, il conseguimento, da parte degli enti locali, degli equilibri di bilancio fissati a livello nazionale. Laddove vengano accertati «comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto [di stabilità interno]», le sezioni regionali della Corte dei conti segnalano dette irregolarità agli organi rappresentativi dell’ente, perché adottino idonee misure correttive ... Questa Corte ha affermato – fra l’altro – che il controllo esterno esercitato dalla Corte dei conti nei confronti degli enti locali, con l’ausilio dei collegi dei revisori dei conti, è ascrivibile alla categoria del riesame di legalità e regolarità, e che esso concorre alla formazione di una visione unitaria della finanza pubblica, ai fini della tutela dell’equilibrio finanziario e di osservanza del patto di stabilità interno. Questa Corte ha altresì ritenuto che tale attribuzione trovi diretto fondamento nell’art. 100 Cost., il quale assegna alla Corte dei conti il controllo successivo sulla gestione del bilancio, come controllo esterno ed imparziale e che il riferimento dello stesso art. 100 Cost. al controllo «sulla gestione del bilancio dello Stato» debba intendersi oggi esteso ai bilanci di tutti gli enti pubblici che costituiscono, nel loro insieme, il bilancio della finanza pubblica allargata. A quest’ultima, del resto, vanno riferiti sia i principi derivanti dagli artt. 81, 97, primo comma, 28 e 119, ultimo comma, Cost. , sia il principio di cui all’art. 1, comma 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), per cui «[l]e amministrazioni pubbliche concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica sulla base dei princìpi fondamentali dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica, e ne condividono le conseguenti responsabilità». L’art. 14, comma 1, lettera e), del decreto-legge n. 138 del 2011 consente alla Corte dei conti, organo dello Stato-ordinamento, il controllo complessivo della finanza pubblica per tutelare l’unità economica della Repubblica (art. 120 Cost.) ed assicurare, da parte dell’amministrazione controllata, il riesame diretto a ripristinare la regolarità amministrativa e contabile. Al contempo, la disposizione censurata garantisce l’autonomia delle Regioni, stabilendo che i componenti dell’organo di controllo interno debbano possedere speciali requisiti professionali ed essere nominati mediante sorteggio – al di fuori, quindi, dall’influenza della politica –, e che tale organo sia collegato con la Corte dei conti, istituto indipendente dal Governo (art. 100, terzo comma, Cost.). Il collegamento fra controllo interno e controllo esterno assolve anche a una funzione di razionalità nelle verifiche di regolarità e di efficienza sulla gestione delle singole amministrazioni, come risulta, del resto, dalla disciplina della legge n. 20 del 1994, secondo cui «la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge» è accertata dalla Corte dei conti «anche in base all’esito di altri controlli.

L’art. 14, comma 2, del decreto-legge n. 138 del 2011, in base al quale l’adeguamento ai parametri previsti dal comma 1 del medesimo articolo è «condizione per l’applicazione» dell’art. 27 della legge n. 42 del 2009 ed «elemento di riferimento per l’applicazione di misure premiali o sanzionatorie previste dalla normativa vigente», è impugnato [dalle Regioni a Statuto Speciale] per violazione degli artt. 3, 116, 117, commi terzo e sesto, e 119 Cost. ... La questione è fondata. La disciplina relativa agli organi delle Regioni a statuto speciale e ai loro componenti è contenuta nei rispettivi statuti. Questi, adottati con legge costituzionale, ne garantiscono le particolari condizioni di autonomia, secondo quanto disposto dall’art. 116 Cost. L’adeguamento da parte delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome ai parametri di cui all’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011 richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali fonti una legge ordinaria non può imporre limiti e condizioni. FT



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Inserito in data 26/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 luglio 2012, n. 200

E’ costituzionalmente legittimo l’art. 3 co. 1 e 2 della l. 148/2011 laddove sancisce il principio generale secondo cui, nell’ambito delle attività economiche “è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”.

E ove prevede che eventuali restrizioni e limitazioni alla libera iniziativa economica debbono trovare puntuale giustificazioni in interessi di rango costituzionale o negli ulteriori interessi che il legislatore nazionale ha elencato nel succitato art. 3, co. 1 l. cit.

Detto articolo, infatti, non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro, mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale. SL



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Inserito in data 26/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 23 luglio 2012, n. 4206

Offerte anomale: nelle procedure ad evidenza pubblica il fatto che il costo del lavoro sia stato calcolato secondo valori inferiori a quelli risultanti dalle tabelle ministeriali, non comporta l’esclusione automatica dalla gara.

Dette tabelle, infatti, non costituiscono parametri inderogabili ma meri indici di congruità.

Invero, affinché un’offerta possa considerarsi come anomala é necessario verificare che la discordanza sia considerevole e palesemente ingiustificata. SL



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Inserito in data 26/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 11 luglio 2012, n. 4116

E’ legittima la revoca dell’aggiudicazione provvisoria la cui comunicazione sia avvenuta esclusivamente via fax.

Il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente. Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a garantire l’effettività della comunicazione. SL



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Inserito in data 26/07/2012
TAR PUGLIA LECCE, SEZ. II, 1 giugno 2012, n. 998

 Le attività di impresa finalizzate alla costruzione e all’esercizio di impianti di energia rinnovabile non possono essere qualificate come “servizi pubblici”.

La costruzione e l'esercizio di impianti per l'energia da fonti rinnovabili sono libere attività d'impresa soggette alla sola autorizzazione amministrativa della regione, secondo l'art. 12 del D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387. Si tratta di attività economiche non riservate agli enti locali, non soggette a regime di privativa, che non rientrano nella nozione di servizio pubblico locale, di cui agli artt. 112 e ss. del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U. Enti locali). Tuttavia, l’art. 1, comma 4, della legge del 9 gennaio 1991 n. 10 dispone che “l’utilizzazione delle fonti di energia di cui al comma 3” (tra le quali è compreso anche il sole) “è considerata di pubblico interesse e di pubblica utilità e le opere relative sono equiparate alle opere dichiarate indifferibili e urgenti ai fini dell’applicazione delle leggi sulle opere pubbliche"; mentre l’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo del 29 dicembre 2003 n. 387 precisa che “le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio degli stessi impianti, autorizzate ai sensi del comma 3, sono di pubblica utilità ed indifferibili ed urgenti”. Se, dunque, la costruzione e l’esercizio di impianti fotovoltaici finalizzati alla produzione di energia elettrica non possono essere sussunti nella categoria del “servizio pubblico”, si tratta comunque di attività qualificate espressamente dal legislatore come “di pubblico interesse e di pubblica utilità”.SL



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Inserito in data 24/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 20 luglio 2012, n. 28

Cessione al Comune di immobili; inadempimento, ammissibilità del rimedio ex art. 2932 c.c. e G.A.

I Supremi Giudici amministrativi, intervenendo in una controversia avente ad oggetto il trasferimento di immobili al patrimonio dell’Amministrazione comunale, sanciscono, superando le considerazioni di parte avversa, la natura provvedimentale della convenzione posta in essere tra l’Ente ed il Consorzio edile.

Quest’ultimo, avendo disatteso l’esecuzione degli atti d’obbligo previsti dai rogiti notarili conclusi con il Comune, non ha ottemperato un atto della P.A. che, invero, condizionava la cessione di talune aree alla realizzazione di peculiari interventi in ambito di edilizia ed urbanistica.

Pertanto, acclarata la destinazione agli interessi della collettività e, quindi, la natura pubblicistica della convenzione, si riconosce fondata la giurisdizione amministrativa in sede esclusiva; oltreché l’esperibilità del rimedio civilistico ex art. 2932 c.c. a fronte dell’inadempimento, da parte del Consorzio, agli obblighi edilizi imposti.

Il Massimo Collegio, infatti, ricordando giurisprudenza costante e recente, afferma che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. al fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile anche in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege. CC



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Inserito in data 24/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 20 luglio 2012, n. 199

Affidamento servizi pubblici locali: illegittimo l’art. 4 D.L. n. 138/11 conv. in L. n.148/11.

Il Giudice delle Leggi, richiamando propria giurisprudenza ormai salda, statuisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 D.L. n. 138/11 conv. in L. n.148/11, poiché essa norma finirebbe con l’arrecare un vulnus al principio di cui all’art. 75 Cost., laddove ripristini la disciplina precedente, abrogata dalla volontà popolare nel giugno 2011.

Tale disposizione, infatti, operando una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, anche in spregio della disciplina comunitaria, sembrava riproporre l’obbligo di privatizzazione di cui all’art. 23 bis della vecchia Legge Ronchi che, invece, la consultazione popolare, ormai importante atto-fonte dell’ordinamento, aveva eliminato.

L’intervento della Consulta, pertanto, è di estremo spessore, posto che, in tal guisa, va riconosciuta facoltà agli Enti locali di poter scegliere le forme di affidamento, compatibilmente al proprio assetto, oltreché alla propria compagine strutturale. CC



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Inserito in data 24/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 20 luglio 2012, n. 206

Q.l.c. art. 5 – 2’ co. lett. b), n. 1), del D.L. n.70/11; dubbi su un nuovo potere del Governo.

La Corte ribadisce il proprio disappunto, già in precedenza espresso con la declaratoria di illegittimità della norma suddetta, nel punto in cui parrebbe introdurre un potere unico del Consiglio dei Ministri nelle peculiari ipotesi di dissenso tra Amministrazioni diverse in Conferenza di Servizi.

Una simile determinazione unilaterale governativa, infatti, finirebbe col comprimere l’autonomia delle Regioni, nonché il relativo principio di leale collaborazione – di cui agli artt. 117 e 118 Cost.; oltreché configurare un nuovo intervento sostitutivo da parte del Governo, oltre i limiti costituzionalmente prefissati all’art. 120 e, come tale, chiaramente inammissibile. CC



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Inserito in data 24/07/2012
TAR PUGLIA BARI, SEZ. II, 18 luglio 2012, n. 1468

Giurisdizione in materia di scorrimento di graduatorie concorsuali.

I Giudici baresi, rammentando il noto insegnamento delle Sezioni Unite in tema di riparto di giurisdizione nell’ambito del Pubblico Impiego, secondo cui “le controversie relative alla fase successiva all’approvazione della graduatoria di un concorso esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, rientrando in quella del giudice ordinario…”, lo applicano al caso in esame.

Infatti, la scelta dell’Amministrazione di scorrere una graduatoria in luogo di un’altra non rientra tra gli atti di macro organizzazione dell’Ente e, come tale, è da devolvere al G.O. in funzione di Giudice del Lavoro. CC



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Inserito in data 20/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 18 luglio 2012, n. 27

Efficacia temporale delle attestazioni SOA: valenza costitutiva della verifica triennale.

La proroga a cinque anni dell’efficacia delle attestazioni SOA disposta dall’art. 7, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166 e dall’art. 1 del d.P.R. 10 marzo 2004, n. 93, è subordinata alla richiesta di verifica triennale ed al suo positivo esito. L’impresa che abbia richiesto in termini la verifica triennale del proprio attestato SOA può partecipare alle gare indette dopo il triennio anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiudicazione è subordinata, ai sensi dell’art. 11, comma 8, del d.lgs 12 aprile 2006, n. 163, all’esito positivo della verifica stessa. Viceversa l’impresa che abbia presentato la richiesta fuori termine può partecipare alle gare soltanto dopo la data di positiva effettuazione della verifica.  FT



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Inserito in data 20/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 16 luglio 2012, n. 187

Ticket sanitario, Regioni a Statuto Speciale: confini della legittimità dell’intervento statale.

La disciplina in materia di ticket, determinando il costo per gli assistiti dei relativi servizi sanitari, non costituisce solo un principio di coordinamento della finanza pubblica diretto al contenimento della spesa sanitaria, ma incide anche sulla quantità e sulla qualità delle prestazioni garantite, e, quindi, sui livelli essenziali di assistenza. La misura della compartecipazione deve essere omogenea su tutto il territorio nazionale, giacché non sarebbe ammissibile che l’offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni, considerato che dell’offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione. E ciò vale anche rispetto alle Regioni a statuto speciale che sostengono il costo dell’assistenza sanitaria nei rispettivi territori, in quanto la natura stessa dei cosiddetti LEA, che riflettono tutele necessariamente uniformi del bene della salute, impone di riferirne la disciplina normativa anche ai soggetti ad autonomia speciale. La disciplina del settore sanitario, del resto, è interamente improntata al principio di leale cooperazione. A partire dal 2000, lo Stato e le Regioni stipulano particolari intese, denominate «Patti per la salute», volte a garantire l’equilibrio finanziario e i livelli essenziali delle prestazioni per il successivo triennio. Sarebbe contraddittorio escludere, in base al solo argomento dell’autosufficienza finanziaria nel settore sanitario, la legittimità di interventi legislativi statali rispetto alle Regioni a statuto speciale, laddove queste ultime, appunto attraverso le intese, partecipano sia alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, sia alla determinazione delle modalità di finanziamento dei cosiddetti LEA. In tale contesto, le Regioni a statuto speciale hanno la possibilità di far valere la specificità – sotto il profilo finanziario – della propria posizione.

La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha impugnato l’art. 17, comma 1, lettera d), del decreto-legge n. 98 del 2011. Tale disposizione prevede che – nel caso in cui non sia stata raggiunta un’intesa tra lo Stato e le Regioni entro il 30 aprile 2012 – siano introdotte misure di compartecipazione sull’assistenza farmaceutica e sulle altre prestazioni erogate dal servizio sanitario nazionale con regolamento da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 ... Tali misure di compartecipazione devono essere «aggiuntive rispetto a quelle eventualmente già disposte dalle Regioni» e «finalizzate ad assicurare, nel rispetto del principio di equilibrio finanziario, l’appropriatezza, l’efficacia e l’economicità delle prestazioni» ... Ad avviso della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, l’art. 17, comma 1, lettera d), del decreto-legge n. 98 del 2011 violerebbe innanzitutto l’art. 117, sesto comma, Cost., perché le misure di contenimento della spesa sanitaria sarebbero espressione di principi fondamentali nelle materie del coordinamento della finanza pubblica e della tutela della salute, àmbiti di competenza concorrente in cui sarebbe preclusa allo Stato l’emanazione di atti regolamentari. La questione è fondata, nei termini di seguito precisati. Le misure di compartecipazione ai costi dell’assistenza farmaceutica attengono sia ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la cui determinazione è riservata alla potestà legislativa esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), sia al coordinamento della finanza pubblica e alla tutela della salute, oggetto della potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Nella disciplina del ticket, l’intreccio e la sovrapposizione di materie non rendono possibile individuarne una prevalente, né tracciare una precisa linea di demarcazione tra le competenze. Lo Stato può esercitare la potestà regolamentare solo nelle materie nelle quali abbia competenza esclusiva, non in un caso, come quello in esame, caratterizzato da una concorrenza di competenze. Va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, lettera d), del decreto-legge n. 98 del 2011, nella parte in cui prevede che le misure di compartecipazione siano introdotte «con regolamento da emanare ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro della salute di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze». FT



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Inserito in data 20/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 11 luglio 2012, n. 179

Superamento del dissenso espresso in conferenza di servizi: necessaria un’intesa in senso forte.

Le Regioni Toscana, Liguria e Puglia hanno impugnato l’art. 49, comma 3, lettera b), del d.l. n. 78 del 2010, come convertito dalla legge n. 122 del 2010, il quale, introducendo il nuovo terzo comma dell’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, disciplina il superamento del dissenso espresso da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità in sede di conferenza di servizi. Tale disposizione stabilisce che, nel predetto caso di dissenso, «la questione (…) è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei ministri, che si pronuncia entro sessanta giorni, previa intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali, ovvero previa intesa con la Regione e gli enti locali interessati, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali». In particolare, il citato art. 49, comma 3, lettera b), è censurato, sotto svariati profili, nella parte in cui prescrive che, se la predetta «intesa non è raggiunta nei successivi trenta giorni, la deliberazione del Consiglio dei ministri può essere comunque adottata», e che, ove «il motivato dissenso sia espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, il Consiglio dei Ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate».

La qualificazione, operata dalla stessa norma impugnata – letta in combinato disposto con l’art. 49, comma 4 – della disciplina inerente alla conferenza di servizi, quale disciplina attinente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, risulta contraddetta dal contenuto della medesima. Essa, infatti, lungi dal determinare uno standard strutturale o qualitativo di prestazioni determinate, attinenti a questo o a quel diritto civile o sociale, in linea con il secondo comma, lettera m), dell’art. 117 Cost. , assolve al ben diverso fine di regolare l’attività amministrativa, in settori vastissimi ed indeterminati, molti dei quali di competenza regionale (quali il governo del territorio, la tutela della salute, l’ordinamento degli uffici regionali, l’artigianato, il turismo, il commercio), in modo da soddisfare l’esigenza, diffusa nell’intero territorio nazionale, di uno svolgimento della stessa il più possibile semplice e celere. Il soddisfacimento di una simile esigenza unitaria giustifica, pertanto, l’attrazione allo Stato, per ragioni di sussidiarietà, sia dell’esercizio concreto della funzione amministrativa che della relativa regolamentazione nelle materie di competenza regionale, ma deve obbedire alle condizioni stabilite dalla giurisprudenza costituzionale, fra le quali questa Corte ha sempre annoverato la presenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni. In particolare, si è affermato che l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa e che tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la “chiamata in sussidiarietà” di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale, con la conseguenza che deve trattarsi di vere e proprie intese “in senso forte”, ossia di atti a struttura necessariamente bilaterale, come tali non superabili con decisione unilaterale di una delle parti. In tali casi, ha inoltre precisato questa Corte, il secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere applicato.

La norma oggi impugnata reca la «drastica previsione» della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, posto che il Consiglio dei ministri delibera unilateralmente in materie di competenza regionale, allorquando, a seguito del dissenso espresso in conferenza dall’amministrazione regionale competente, non si raggiunga l’intesa con la Regione interessata nel termine dei successivi trenta giorni: non solo, infatti, il termine è così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma dal suo inutile decorso si fa automaticamente discendere l’attribuzione al Governo del potere di deliberare, senza che siano previste le necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze» (come, peraltro, era invece previsto dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, nel testo previgente, come risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 15 del 2005). Né, d’altro canto, la previsione che il Consiglio dei ministri delibera, in esercizio del proprio potere sostitutivo, con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate, «può essere considerata valida sostituzione dell’intesa, giacché trasferisce nell’ambito interno di un organo costituzionale dello Stato un confronto tra Stato e Regione, che deve necessariamente avvenire all’esterno, in sede di trattative ed accordi, rispetto ai quali le parti siano poste su un piano di parità. FT



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Inserito in data 20/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 luglio 2012, n. 4189

Cause di esclusione dalle gare, rilevanza delle ipotesi di collegamento sostanziale non codificate.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, fra le cause di esclusione dalle gare pubbliche devono essere ricomprese, oltre alle ipotesi previste dall’art. 2359 C.C., anche quelle non codificate di collegamento sostanziale le quali, attestando la riconducibilità dei soggetti partecipanti alla procedura ad un unico centro decisionale, causano o possono causare la vanificazione dei principi generali in tema di par condicio, segretezza delle offerte e trasparenza della competizione, risultando ininfluente che la rilevanza del collegamento anche sostanziale sia stata o meno esplicitata nel bando di gara, non rinvenendosi a tal fine alcun ostacolo dal contenuto delle disposizioni di cui al ricordato art. 2359 C.C. In tal modo si tende ad evitare che il corretto e trasparente svolgimento delle gare di appalto ed il libero gioco della concorrenza possano essere irrimediabilmente alterati dalla eventuale presentazione di offerte che, pur provenendo formalmente da due o più imprese, siano tuttavia riconducibili ad un unico centro di interesse: la ratio di tale previsione è quella di evitare il rischio di ammissione alla gara di offerte provenienti da soggetti che, in quanto legati da stretta comunanza di interesse caratterizzata da una certa stabilità, non sono ritenuti, proprio per tale situazione, capaci di formulare offerte caratterizzate dalla necessaria indipendenza, serietà ed affidabilità, coerentemente quindi ai principi di imparzialità e buon andamento cui deve ispirarsi l’attività della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. E’ stato evidenziato che, mentre in assenza di situazioni di controllo di cui all’art. 2359 C.C. o di altri indici rivelatori di un collegamento sostanziale, non può dirsi comprovata l’esistenza di un unico centro di interesse tra due (o più) soggetti distinti, tale da consentire uno scambio di informazione, è sufficiente la presenza di significativi elementi rilevatori di un collegamento sostanziale tra le imprese affinché sorga l’onere in capo all’amministrazione di verificare se esso sia stato tale da alterare il normale, imparziale e concorrenziale meccanismo della gara; inoltre, mentre nelle ipotesi di situazioni di controllo ex art. 10, comma 1 bis, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, opera un meccanismo di presunzione iuris et de iure circa la sussistenza della turbativa del corretto svolgimento della procedura concorsuale, nel caso di collegamento sostanziale deve essere provata in concreto l’esistenza di elementi oggettivi concordanti, tali da ingenerare il pericolo per i principi di segretezza, serietà delle offerte e par condicio dei concorrenti. FT



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Inserito in data 18/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 16 luglio 2012, n. 188

Q.l.c. dell’art. 6 del D.L. n. 148/11 sulla segnalazione certificata di inizio attività - SCIA.

La Consulta interviene ancora una volta riguardo alla SCIA, in particolare con riguardo all’art. 6 D.L.  148/11 nella parte in cui prevede che, decorso il termine di trenta giorni, sia consentito alla P.A. di intervenire solo nelle ipotesi di danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale.

I Giudici costituzionali rigettano le censure della Regione ricorrente affermando che non sussiste, invero, alcun restringimento dei poteri regionali di controllo sul territorio, né alcuna delimitazione riguardo all’ambito dell’edilizia, con conseguente vulnus ai parametri costituzionali in tema di ripartizione delle competenze e di efficientismo dell’attività pubblica.

La Corte suggerisce, piuttosto, di “contestualizzare” la previsione oggetto della presente doglianza, nel quadro di uno spirito normativo che, appunto in tale ambito, non ha mai dubitato dell’applicabilità del generale potere di autotutela spettante all’Amministrazione ma che, semmai, ha semplicemente configurato un ulteriore potere di intervento pubblico nei limitati casi indicati dal comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, ovvero nelle ipotesi di interessi primari individuati dal Legislatore.

Questi, invero, ha compiuto una scelta non nel senso di depotenziare irragionevolmente la potestà amministrativa rispetto alla SCIA, ma semmai, in vista dell’obiettivo di assicurare una protezione ulteriore a taluni preminenti beni giuridici, per i quali si è reputata insoddisfacente la sola via dell’autotutela decisoria.

E’, pertanto, da escludere che la norma impugnata abbia l’effetto di privare, nella materia edilizia, l’Amministrazione del potere di autotutela, che, viceversa, persiste come la Corte ha accuratamente evidenziato. CC



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Inserito in data 18/07/2012
TAR SICILIA CATANIA, SEZ. IV, 11 luglio 2012, n. 1831

Sussiste il diritto di accedere agli atti di un procedimento tributario ormai concluso.

Il Collegio siciliano, aderendo a giurisprudenza ormai solida, legge l’inaccessibilità con riguardo agli atti di un procedimento tributario - ex art. 24 – 1’ co. lett. b) L. 241/90  - limitatamente agli atti preparatori, propedeutici all’emanazione del provvedimento conclusivo; non vi è, infatti, alcuna segretezza nella fase conclusiva del procedimento tributario.

Si correrebbe, altrimenti, il serio rischio di non consentire al cittadino la conoscibilità dell’imposizione fiscale gravante a suo carico, della relativa ratio o quantificazione, contrariamente allo spirito proprio di uno Stato di diritto e ad una lettura costituzionalmente orientata della norma suddetta che i Giudici etnei, in tale sede, appositamente richiamano. CC



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Inserito in data 18/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 luglio 2012. n. 4160

Chiariti i poteri dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura.

A dispetto del primo Giudice che aveva annullato i provvedimenti interdittivi dell’Autorità, affermando che l’irrogazione delle sanzioni presuppone la valutazione circa la «gravità del falso» e la «situazione soggettiva del dichiarante», il Collegio avalla, invece, l’attività svolta dall’Organo di vigilanza.

Esso, infatti, non è tenuto a compiere alcuna ulteriore valutazione in merito alle dichiarazioni rese in sede di aggiudicazione, né a prendere in esame la situazione soggettiva del dichiarante, le cui affermazioni devono essere vagliate in modo quanto più oggettivo sia possibile. CC



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Inserito in data 18/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 luglio 2012. n. 4168

Illegittimo l’ordine di rimozione di attrezzature radio elettriche realizzate su suolo pubblico.

I Giudici statuiscono l’illegittimità dell’ordine di rimozione di simili attrezzature, emesso dal Comune a carico di un concessionario per la radiodiffusione, proprietario di un’emittente radiofonica locale.

Questi, infatti, aveva più volte, in passato, agito per ottenere la regolarizzazione dell’alloggiamento di simili dotazioni, oltreché dell’occupazione di suolo pubblico per i profili edilizi delle stesse, senza ottenere alcun riscontro da parte dell’Amministrazione locale.

Una simile inerzia, pertanto, rende assolutamente iniquo l’ordine in tale sede gravato, stante l’intento di regolarizzazione che aveva ab initio animato l’appellante e che i Giudici provvedono a soddisfare, annullando gli atti repressivi accolti, invece, in primo grado. CC



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Inserito in data 18/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 luglio 2012, n. 3953

 

Gara d’appalto: criterio di computo per la determinazione della media aritmetica delle offerte, necessaria per l’individuazione della soglia di anomalia.

Nel calcolo della “media aritmetica” dei ribassi di tutte le offerte ammesse, ex artt. 86, co. 1, e 122, co. 9 d.lgs. 163/06, vanno necessariamente conteggiate tutte le offerte ammesse, anche quelle che recano uguali ribassi, senza che in tale ipotesi possano considerarsi più offerte come una sola, poiché altrimenti il ribasso non sarebbe più la media aritmetica, in contrasto con la chiara dizione della legge.

Pertanto, al fine dell'esclusione automatica delle offerte cd. anomale, sono considerate tali tutte quelle che presentino un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione (cd. taglio delle ali) del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente, delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media. SL



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Inserito in data 18/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 luglio 2012, n. 4068

Impianti per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani e legittimazione dei Comuni ad impugnare i relativi progetti.

Sussiste la legittimazione dei Comuni, nei cui territori sono destinati ad essere collocati impianti di trattamento di rifiuti solidi urbani, ad impugnare i provvedimenti di approvazione dei relativi progetti, sia in quanto incidenti sulle destinazioni di zona e sulle caratteristiche del territorio, sia quale ente esponenziale della collettività che risiede nell’ambiente comunale, perché per un verso la tutela dell’ambiente assume il ruolo unificante e finalizzante di distinte tutele giuridiche predisposte a favore di diversi beni della vita che nell’ambiente si collocano e per altro verso l’ambiente è un bene pubblico non suscettibile di appropriazione individuale, indivisibile, non attribuibile, unitario e multiforme; né la predetta legittimazione non può essere subordinata alla produzione di una prova puntuale sulla concreta pericolosità dell’impianto, essendo sufficiente una (ragionevole) prospettazione delle temute ripercussioni sul territorio comunale collocato nelle immediate vicinanze dell’impianto da realizzare. SL



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Inserito in data 18/07/2012
TAR VENETO, SEZ. II, 11 giugno 2012, n. 795

Edilizia ed urbanistica: motivazione per il diniego di nulla osta paesaggistico finalizzato al rilascio di concessione in sanatoria.

Nei casi in cui la discrezionalità tecnico-amministrativa abbia un ruolo considerevole, il diniego di nulla osta deve essere assistito da una motivazione concreta sulla realtà dei fatti e sulle ragioni ambientali ed estetiche che sconsigliano alla P.A. di non ammettere un determinato intervento: affermare che un determinato intervento compromette gli equilibri ambientali della zona interessata per le incongruenze fra

tipologia e materiali scelti e contesto paesaggistico senza nulla aggiungere, non spiega alcunché sul futuro danno alle bellezze ambientali che ne deriverebbe ed è un mero postulato apodittico. SL



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Inserito in data 16/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 7 luglio 2012, n. 24

Ricorso in ottemperanza per ottenere le spese del giudizio pregresso. Limiti dell’art. 112 c.p.a. 

Il Massimo Consesso amministrativo, precisando la portata dell’articolo 112 C.P.a., specifica la possibilità di esperire il rimedio dell’ottemperanza al fine di ottenere le spese previste da una precedente sentenza passata in giudicato.

Ricordando le disposizioni di cui agli artt. 324 e 327 c.p.c. riguardo alla formazione del giudicato , oltrechè la relativa estensibilità – ex art. 39 C.P.a. - al nuovo rito amministrativo, l’Adunanza ammette la possibilità di agire in ottemperanza della sentenza in esame, specie al fine di ottenere la rifusione delle relative spese. CC



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Inserito in data 16/07/2012
TAR VENETO, SEZ. III, 11 luglio 2012, n. 974

 

Riesame pianta organica delle farmacie. Tenore dell’attività P.A. in un ambito di tal rilievo.

I Giudici veneti, coinvolti in un giudizio avente ad oggetto l’annullamento di delibere comunali in merito alla distribuzione delle farmacie in una zona turistica, in primo luogo respingono l’eccezione di sopravvenuta carenza di interesse, come sollevata dalla farmacia controinteressata.

Pur riconoscendo, infatti, che la disciplina legislativa riguardante le piante organiche delle farmacie sia da ritenere ormai abrogata a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 11 del D.L. n. 1/2012, convertito in L. n. 27/2012, è altrettanto vero che, nel caso in esame, la farmacia ricorrente potrebbe, ugualmente, persistere nell’avere un interesse di carattere strumentale volto ad impedire o quantomeno ritardare l’operatività del trasferimento della ditta concorrente, tutelabile attraverso un procedimento diverso, eventualmente attivabile in via autonoma. Non sussistono, dunque, gli estremi per statuire con pronuncia di rito su un’eventuale sopravvenuta carenza di interesse.

Proseguendo nel merito, invece, il Collegio veneto rigetta le doglianze palesate dal ricorrente, ritenendo che le scelte in merito all’allocazione e distribuzione delle sedi farmaceutiche in un dato territorio risentono, per giurisprudenza ormai consolidata ed opportunamente quivi richiamata, di criteri non sempre univoci, ma pur sempre rivolti ad evitare distorsioni economiche e di concorrenza, quali quelle che in tale sede parrebbero profilarsi.CC



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Inserito in data 14/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 11 luglio 2012, n. 180

 

Q.l.c. dell’art. 135, 1’co. lett. e), C.p.a. e competenza inderogabile del TAR Lazio sui rifiuti.

Il Giudice delle Leggi dispone, con la presente Ordinanza, la rimessione degli atti al Giudice a quo.

Questi, infatti, dubitava della legittimità costituzionale degli articoli 135, comma 1, lettera e), 15, comma 5, e 16, comma 1, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 76, 111 e 125 della Costituzione, nella parte in cui, nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del G.A., si impone la rilevazione d’ufficio dell’incompetenza territoriale.

La questione, a seguito dell’intervento del c.d. Correttivo al C.p.A. – D.Lgs. n. 195 del 15 novembre 2011, è stata rettificata nel senso auspicato dal Rimettente.

Il nuovo art. 135, comma 1, lettera e), infatti, è stato riformulato con il venir meno della devoluzione, alla competenza inderogabile del TAR Lazio, in merito alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, mantenendovi solo quella relativa le controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del servizio nazionale della protezione civile).

Di conseguenza, vengono meno “quei paletti processuali” che il Giudice campano lamentava, evidenziandone specialmente l’incisione al diritto di difesa e di eguaglianza tra le situazioni giuridiche soggettive.

Il rigore tecnico è rimasto, pertanto, strettamente circoscritto alle situazioni di estrema urgenza, quali quelle della Legge sopra indicata.

Si comprende, in tal guisa, la restituzione degli atti disposta dalla Consulta, affinchè il Giudice a quo valuti lo ius superveniens e la relativa compatibilità con la materia oggetto di rimessione. CC



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Inserito in data 14/07/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 11 luglio 2012, n. 177

 

Accesso al Pubblico Impiego: è pur sempre il concorso pubblico la regola di base.

I Giudici costituzionali statuiscono la fondatezza di una questione di legittimità costituzionale sollevata da un Tribunale amministrativo.

E’, infatti, valutata come illegittima una disposizione della Legge regionale abruzzese che prevedeva che il 60 per cento dei posti vacanti della qualifica di dirigente, individuati nell’ambito delle dotazioni organiche, fosse coperto mediante concorso interno per titoli ed esami riservato al personale di ruolo in possesso di determinati requisiti professionali e di anzianità.

Una simile previsione, invero già oggetto di numerosissimi interventi da parte della Consulta, è valutata in contrasto, uniformemente alla doglianza del Giudice abruzzese, con gli articoli 51 e 97 della Costituzione.

Essa confligge, infatti, con «il principio del pubblico concorso che costituisce, pur sempre, la regola per l’accesso all’impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, da rispettare allo scopo di assicurare la loro imparzialità ed efficienza».

Si tratta di un principio, sostiene la Corte, al quale può derogarsi solo in virtù di peculiari e straordinarie ragioni di interesse pubblico.

Circostanze, invero, non occorse nel caso in esame né negli altri similmente venuti all’attenzione della Consulta; il che giustifica l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, come paventata dal Giudice territoriale. CC




Inserito in data 12/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 13 giugno 2012, n. 22

 

Gare pubbliche: contenuto dell’offerta nel caso delle A.T.I. 

L’art. 37, comma 2, d.lgs. n. 163 del 2006, nella parte in cui prevede che l’offerta proveniente da un raggruppamento d’imprese “deve specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese e contenere l’impegno che, in caso di aggiudicazione della gara, le stesse imprese si conformeranno alla disciplina prevista nel presente articolo”, si riferisce sia al caso in cui l’offerta sia presentata da un’ A.T.I. verticale che anche a quello di A.T.I. orizzontale. SL



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Inserito in data 12/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 6 luglio 2012, n. 3960

 

Voto assistito: il presidente di seggio non è tenuto a compiere alcun approfondito accertamento in ordine alla causa dell’ impedimento o dell’invalidità che legittima l’elettore all’assistenza.

In mancanza di specifiche contestazioni in sede di votazione e di elementi idonei a smentire quanto attestato dai certificati medici, il presidente di seggio di fronte a certificazioni mediche che giustifichino il voto assistito dell’elettore non é tenuto ad espletare alcun accertamento, ma ad acquisire il certificato medico attestante la necessità del voto assistito.

Invero, ai sensi dell’art. 41, comma 8, del d.p.r. n. 570 del 1960, dopo la modifica apportata dall’art. 9 della l. 26 agosto 1991, n. 199, l’accertamento sull’attitudine dell’infermità fisica da cui è affetto l’elettore ad impedire l’autonoma manifestazione del voto è rimessa agli organi dell’unità sanitaria locale competente per territorio ed al funzionario medico da essa incaricato.

Oggi, peraltro, non è più nemmeno rilevante la descrizione della patologia indicata nel certificato medico, in forza delle norme che regolano la tutela della privacy. SL



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Inserito in data 12/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 giugno 2012, n. 3559

 

Elementi rilevatori di un collegamento tra imprese che ne escludano la contestuale partecipazione alla gara pubblica. 

E’ sufficiente la presenza di significativi elementi rivelatori di un collegamento materiale tra imprese, a prescindere dai fenomeni di votazione assembleare, perché sorga l'onere, in capo all'amministrazione, di verificare se esso sia stato tale da alterare il normale, imparziale e concorrenziale meccanismo della gara.

Tuttavia, il semplice rapporto di parentela tra gli amministratori delle società sospettate di collegamento non è idoneo di per sé ad alterare la correttezza e la trasparenza del confronto anti concorrenziale. Affinché sussista un rapporto di controllo é necessario, invece, che oltre alla parentela tra gli amministratori siano allegati elementi concreti che indichino l’imprescindibile esistenza di un vincolo proprietario o funzionale che lega le due imprese e che consente di presumere una coincidenza di interessi. SL



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Inserito in data 12/07/2012
TAR VENETO, SEZ. iii, 10 maggio 2012, n. 653

 

E’ legittima la tassa di soggiorno imposta dai comuni a chi soggiorna nelle strutture alberghiere ubicate sul proprio territorio, ma nel caso di mancato pagamento le sanzioni colpiranno solo i clienti.

Il gestore della struttura ricettiva, infatti, che pure è chiamato ad incassare il pedaggio non rappresenta il soggetto passivo del tributo, né tantomeno assolve al ruolo di sostituto d’imposta. SL



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Inserito in data 10/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 7 giugno 2012, n. 21

 

In caso di fusione per incorporazione, la società incorporante che partecipa a gara di pubblico appalto deve rendere la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006 anche con riferimento agli amministratori della società incorporata. 

Infatti la società incorporante o risultante dalla fusione non è un soggetto “altro” e “diverso”, ma semmai un soggetto composito in cui proseguono la loro esistenza le società partecipanti all’operazione societaria. Per l’effetto non si possono considerare “altrui” gli amministratori che sono amministratori di un soggetto che è parte del tutto, e che conserva la sua identità originaria sotto una diversa forma giuridica.

Diversamente opinando si finirebbe col eludere lo scopo stesso della preclusione di legge, da individuarsi certamente in quello di impedire anche solo la possibilità di inquinamento dei pubblici appalti di lavori, servizi e forniture derivante dalla partecipazione alle relative procedure di affidamento di soggetti di cui sia accertata la mancanza di rigore comportamentale con riguardo a circostanze gravemente incidenti sull’affidabilità morale e professionale. SL



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Inserito in data 10/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, ordinanza 25 giugno 2012, n. 23

 

Nel caso di impugnazione di un atto rientrante nella competenza territoriale di un Tar periferico e di sopravvenienza, nel corso del giudizio sul primo, di un atto appartenente alla competenza del Tar Lazio, l’impugnazione del secondo atto deve essere proposta davanti al Tar centrale. 

 Sono inapplicabili, infatti, le regole di cui all’art. 13 c.p.a., relative all’ immodificabilità della competenza territoriale per ragioni di connessione, nelle ipotesi in cui sia prevista la competenza funzionale esclusiva del Tar Lazio.

A ciò osta la stessa natura della competenza funzionale che, per avere carattere di specialità e per essere, quindi, espressione di esigenze affatto peculiari, necessariamente prevale o comunque non può essere assorbita da quella delineata in via generale dall’art. 13 c.p.a. in riferimento alla mera sede dell’Autorità emanante o alla sfera territoriale degli effetti degli atti.             

La competenza funzionale del T.A.R. del Lazio, prevista per specifiche ipotesi, si fonda, invero, sulla particolare natura dell’interesse pubblico sotteso al provvedimento impugnato ovvero - o in aggiunta - sull’esigenza di favorire fin dal primo grado l’omogeneità della giurisprudenza. SL



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Inserito in data 10/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 4 luglio 2012, n. 25

 

Rinuncia al ricorso in appello solo depositata, senza previa notifica alle parti del giudizio stesso.

Il Supremo Consesso chiarisce che, in caso di deposito in giudizio  dell’avvenuta rinuncia al ricorso, si debba procedere alla declaratoria di improcedibilità dello stesso – ex articolo 35, comma 1, lett. c), C.p.a., anziché a quella di estinzione, di cui al comma 2’, lett. c), del medesimo articolo.

Infatti, in mancanza della rituale prova della consegna dell’atto di rinuncia, notificato a mezzo del servizio postale alle controparti, ed in ossequio al principio dispositivo cui è ispirato anche il processo amministrativo, l’Adunanza Plenaria puntualizza che, in un caso simile a quello in esame, è perseguibile la prima forma di pronuncia di rito. CC



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Inserito in data 10/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 5 luglio 2012, n. 26

 

Applicabilità del disposto di cui all’art. 37 co. 4’ D.Lgs. n. 163/06 ai raggruppamenti orizzontali.

Il Massimo Collegio interviene, dandone conferma, riguardo all’applicabilità ai raggruppamenti orizzontali del suddetto precetto, che impone la doverosa specificazione delle parti del servizio o della fornitura di pertinenza delle singole imprese raggruppate o consorziate.

I Supremi giudici, ritenendo di poter applicare indistintamente la suddetta norma a qualsivoglia tipo di raggruppamenti di imprese, richiamano ad adiuvandum il ragionamento già svolto nella recente Ad. Pl. N. 22/12.

La necessità che singoli operatori riuniti o consorziati debbano specificare le parti del servizio da essi stessi reso evidenzia, in primo luogo, come ai fini di un corretto esplicarsi delle dinamiche concorrenziali sia necessario individuare gli effettivi soggetti partecipanti, evitando, in tal guisa, l’ingerenza di parti non chiamate (o chiamate in modo inappropriato) ad effettuare le prestazioni oggetto della gara.

Tale obbligo informativo risponde, altresì, all’esigenza, assolutamente consustanziale alla funzione dei raggruppamenti, che sia assegnato un ruolo operativo a ciascuna delle imprese associate in a.t.i. o consorziate, allo scopo di evitare che esse si avvalgano del raggruppamento non per unire le rispettive disponibilità tecniche e finanziarie, ma per aggirare le norme di ammissione stabilite dal bando.

Simili valutazioni, ad avviso del Supremo Consesso, parrebbero dover ricorrere indipendentemente dal profilo strutturale tipico delle imprese, o dalla tipologia di prestazione eventualmente svolta; sono suscettibili, pertanto, di essere applicate anche ai raggruppamenti di imprese orizzontali.

Ciò che conta, infatti, è che sia possibile cogliere, con esattezza e precisione, la sussistenza e l’uniformità dei requisiti di qualificazione con l’entità delle prestazioni di servizio da ognuna delle imprese raggruppate assunte, coerentemente ad un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica che il Supremo Collegio ormai tende a valorizzare, coerentemente allo spirito europeo, particolarmente attento ai profili soggettivi richiesti ogni volta dalla lex specialis ed ormai invalso in materia. CC



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Inserito in data 08/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 5 luglio 2012, n. 3948

 

Irrogazione della massima sanzione disciplinare; delimitati i confini di azione della P.A. procedente.

Il Collegio, ribadendo la decisione del Giudice di primo grado, sottolinea, in primo luogo, l’assoluto rispetto del principio di proporzionalità nell’irrogazione della sanzione disciplinare, contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante.

L’assunzione di sostanze stupefacenti, come nella specie occorso, non può che configurare un comportamento integrante una grave lesione del prestigio del Corpo e della funzione rivestita in esso dal dipendente/appellante, conformemente a quanto già affermato in merito da giurisprudenza recente.

Non si ravvisa, dunque, alcun eccesso di potere da parte dell’Amministrazione irrogante, né va trascurato che la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati, con le conseguenti scelte sanzionatorie, non risulta sindacabile in punto di legittimità, in quanto espressione di discrezionalità amministrativa, come ricorda il Collegio riferendosi a giurisprudenza ormai consolidata.

Parimenti privi di valore risultano, altresì, i richiami forniti dall’appellante alla disciplina gius – lavoristica, con particolare riferimento agli articoli 4 e 36 della Costituzione, a proposito della privazione dell’attività professionale e dell’unica fonte di sostentamento,  possibili conseguenze di una sanzione valutata come iniqua dal ricorrente.

Proprio il richiamo a tali principi, di rango così elevato, parrebbe semmai suggellare, ad avviso dei Massimi Giudici amministrativi, proprio quel rigore e quell’ossequio alla previsione ordinamentale di un potere sanzionatorio che, invece, il soggetto sanzionato avrebbe voluto disattendere.

L’adozione di comportamenti scorretti, quale quello oggetto della presente censura, in sostanza si pone apertamente in contrasto con quel buon andamento, che è sotteso alle previsioni costituzionali anzi dette e che la P.A. ha inteso, in tal guisa, adeguatamente tutelare. CC



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Inserito in data 08/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 luglio 2012, n. 3972

 

Erroneità della sentenza; compensazione delle spese pur in caso di temerarietà della lite ex 96 c.p.c. 

Uniformandosi a giurisprudenza consolidata, il Collegio sancisce l’erroneità della sentenza gravata nella parte in cui il Giudice territoriale disponeva la compensazione delle spese, non precisando nulla in merito ai possibili presupposti, né tenendo in alcuna considerazione la pretestuosità della domanda risarcitoria avanzata.

Infatti, benché la pronuncia oggetto di gravame fosse stata emessa ante riforma del 2006 e quindi la pronuncia sulle relative spese fosse ancora espressione di un potere latamente discrezionale del Giudice, nulla toglie che in un caso come quello odierno, di illogicità manifesta, la statuizione merita di essere censurata.

Si tratta, invero, di una compensazione delle spese processuali disposta con motivazione inadeguata, stante la temerarietà dell’oggetto del giudizio (richiesta di emolumenti non dovuti, perché richiesti sulla base di un provvedimento mai emesso) e che, pertanto, merita di essere censurata in sede di gravame.

Il Collegio ricorda, infatti, come la compensazione serva solo ad un intento di giustizia e di equità di giudizio, volendo far gravare le conseguenze della lite sulla parte che ne ha ingiustamente dato causa, secondo il canone di attribuzione alla parte vittoriosa di tutto quanto la stessa avrebbe ottenuto, tra cui il mancato sostenimento delle spese e dei tempi di giudizio, ove fosse stato corretto il comportamento della sua avversaria.

Tanto non sarebbe occorso nel caso di specie, con conseguente demolizione della pronuncia gravata ed emissione di provvedimenti adeguati in merito alle spese del doppio grado di giudizio. CC



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Inserito in data 06/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 luglio 2012, n. 3842

 

Diniego di rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia; confini della riabilitazione.

Il Collegio ricorda che la riabilitazione, frattanto maturata dal ricorrente per sue  precedenti condotte penalmente sanzionate, non ha effetto automaticamente estintivo delle condanne penali a seguito riportate dal medesimo; queste, infatti, conserverebbero la loro rilevanza ostativa alla licenza di portare armi, alla luce del rigoroso disposto dell’art. 43 del T.U. 773/31.

Tuttavia, aggiungono i Supremi Giudici, al di là dell’indubbio rigore che il Collegio di prime cure aveva in tal guisa tutelato, è altrettanto vero che sarebbe stata opportuna una motivazione, da parte del Viminale, più approfondita; e che, invero, in precedenza la licenza fosse stata già rilasciata sul presupposto, evidentemente, di un giudizio positivo di affidabilità a favore del ricorrente.

Appare, pertanto, evidente, la carenza di motivazione del provvedimento del Questore, oltrechè l’irragionevolezza della relativa divergente condotta, con conseguente accoglimento dei motivi di gravame a favore del cittadino istante. CC



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Inserito in data 06/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 luglio 2012, n. 3870

 

Affidamento concessione servizio riscossione tributi; questioni risarcitorie e profili di giurisdizione CC

Il Massimo Collegio amministrativo, sulla scorta del monìto della Suprema Corte, accoglie in riassunzione il ricorso proposto per questioni risarcitorie da una società concessionaria, lamentante la propria illegittima pretermissione dalla gara per il suddetto affidamento.

Considerato il recente e cospicuo evolversi delle questioni processuali, infatti, l’Organo regolatore della giurisdizione, risolvendo un conflitto dinanzi ad Esso pendente, dichiara la capacità del plesso giurisdizionale amministrativo in merito alla questione controversa, disponendone – ai sensi dell’art. 105 C.P.A. – la rimessione dinanzi a Codesto Organo. CC



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Inserito in data 06/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 4 luglio 2012, n. 3915

 

Inidoneità fisica al concorso per il reclutamento di allievi finanzieri; estremi del giudizio negativo.

Il Collegio, pur condividendo il giudizio di inidoneità espresso a carico del ricorrente da parte del Giudice territoriale, ne rettifica, tuttavia, le modalità di espressione.

L’impossibilità di arruolare l’appellante, infatti, nasce da un rigoroso confronto tra l’esito della relativa visita medica e la normativa costituita dal D.M. 15.12.2003 n. 416631, all. 2, da applicarsi inoltre in correlazione con la relativa tabella B recante i coefficienti di ammissione minimi consentiti, che concorrono a definirne il profilo sanitario.

Occorre, quindi, un severo raffronto, dal quale, nel caso in esame, risulta che costituiscono imperfezione e quindi causa di inidoneità i casi di iperbirulinemia che superano il valore totale di 3 mg./dl.

Tanto è lamentato dall’odierno appellante il quale, pertanto, non può che subire il giudizio di inidoneità quivi contestato. CC



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Inserito in data 06/07/2012
CGUE - CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE - Causa C-566/10 del 21 giugno 2012

 

Bandi di gara UE in tutte le lingue.

Il Parere del Massimo Avvocato - Juliane Kokott - si inserisce in un’ottica di leale cooperazione tra gli Stati UE, oltreché di libertà di stabilimento che ormai connota lo spazio europeo.

Ella, infatti, pronunciando su un ricorso che l’Italia aveva presentato avverso il Tribunale europeo in merito alla limitazione, da Questi disposto, a solo tre lingue in cui redigere un bando, suggerisce alla Corte di «annullare la sentenza del Tribunale e anche i bandi di concorso oggetto del ricorso».

In particolare, l'Avvocato generale sostiene che un bando di concorso è un «documento di rilevanza generale in quanto contiene i termini per la presentazione delle candidature e le altre condizioni vincolanti per qualunque persona che intenda partecipare alla procedura di concorso».

Si tratta quindi di un testo che «deve essere redatto in tutte le lingue ufficiali e anche pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, così come previsto dal regolamento che stabilisce il regime linguistico della Comunità economica europea. Il Tribunale ha quindi commesso, nelle sentenze impugnate, un errore di diritto».

Rimane da vedere, adesso, la decisione che emetterà in merito la Corte, data la non vincolatività del Parere quivi commentato, connotato, comunque, da un indubbio tenore. CC



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Inserito in data 03/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 giugno 2012, n. 3815

 

Rapporti tra diritto di accesso e diritto di difesa.

Per poter accedere ai documenti detenuti dall’Amministrazione e relativi alla sfera personale di persone fisiche terze occorre che l’istanza di accesso sia supportata da un interesse giuridico diretto, concreto e attuale, la cui necessità di tutela sia reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata. Occorre, altresì, che sussista uno stretto nesso di pertinenza tra il documento e la tutela dell’interesse, nel senso che il documento deve risultare oggettivamente utile al perseguimento del fine di tutela.

Da ciò ne consegue che, è necessario da parte di colui che chiede di accedere a scopo di difesa ad una determinata documentazione la comprova di una rigida “necessità” e non già di una mera “utilità” della documentazione medesima; tanto più nei casi in cui l’accesso sia esercitato non già in relazione agli atti di un procedimento amministrativo di cui il richiedente è parte, ma in relazione agli atti di procedimenti amministrativi rispetto ai quali il richiedente è terzo. SL



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Inserito in data 03/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 giugno 2012, n. 3799

 

Qual è il termine iniziale di decorrenza degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle differenze stipendiali dovute per effetto del ritardato inquadramento nelle nuove qualifiche funzionali (l. n. 312 del 1980)? 

La decorrenza degli interessi e della rivalutazione monetaria sulle differenze stipendiali dovuti in ragione degli inquadramenti definitivi disposti ai sensi della legge n.312 del 1980 è da ancorarsi alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuta l’8 novembre 1988, della deliberazione datata 28 settembre1988 della Commissione paritetica per l’inquadramento nelle qualifiche funzionali.

Il procedimento di inquadramento dei dipendenti statali nelle qualifiche funzionali de quibus deve, infatti, considerarsi concluso solo con la deliberazione della Commissione paritetica recante la corrispondenza tra i precedenti livelli e le nuove qualifiche professionali, costituendo tale atto il momento finale e costitutivo della transizione dalle articolazioni delle precedenti carriere a quelle del nuovo ordinamento. SL



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Inserito in data 03/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2012, n. 3733

 

Valutazione dei titoli di preferenza nei concorsi pubblici. 

Il criterio della minore età continua a costituire un criterio preferenziale solo eventuale e pertanto, residuale rispetto allo stato di soggetto con figli a carico (anche a seguito della riforma Bassanini, art. 3 l. 127/97). SL



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Inserito in data 03/07/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 26 giugno 2012, n. 3731

 

Principi generali sui criteri di valutazione delle prove concorsuali. 

Il principio della determinazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali deve essere inquadrato nell'ottica della trasparenza dell'attività amministrativa, il che comporta la necessità di determinare e verbalizzare detti criteri in un momento nel quale non può sorgere il sospetto che essi siano volti a favorire o sfavorire alcuni concorrenti.

Da ciò ne consegue che è comunque legittimità la determinazione dei criteri di valutazione delle prove concorsuali, anche dopo la loro effettuazione, purché ciò avvenga in  ogni caso prima che si proceda ad una loro concreta valutazione. SL



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Inserito in data 30/06/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 27 giugno 2012, n. 162

 

Illegittimi gli artt. 133, c. 1’ lett. l), 135, c. 1’ lett. c), e 134, c. 1’ lett. c), C.p.A. 

I Giudici della Consulta intervengono, con una pronuncia ricognitiva di precedenti giurisprudenziali importanti, sancendo l’illegittimità costituzionale delle suddette norme del D. Lgs. n. 104 del 2 luglio 2010.

In particolare, con riferimento alla parte in cui tali disposizioni attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del G.A., con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del TAR Lazio – sezione di Roma, le controversie in materia di sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB, parrebbero dar luogo ad un eccesso di delega, con conseguente violazione dell’art. 76 della Costituzione, per avere il Legislatore delegato ecceduto dai limiti stabiliti dalla Legge di delega (art. 44 della Legge n. 69 del 2009).

I Giudici costituzionali, condividendo la posizione del Rimettente, ravvedono un effettivo vulnus al parametro costituzionale appena evocato, chiarendone, altresì, la portata.

La delega conferita al Governo, nel caso di specie, era sì sufficientemente specifica e determinata secondo i canoni, ormai saldi, della giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 76 della Costituzione, essendo vòlta al riordino e alla razionalizzazione del processo amministrativo e ai necessari aggiustamenti del riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi. In quanto tale, quindi, idonea a circoscrivere i pur necessari margini di discrezionalità del Legislatore delegato.

Tuttavia, trattandosi di un riordino normativo estremamente importante per i valori costituzionali dallo stesso effettivamente incisi, è pur vero che sarebbe stata opportuna una lettura restrittiva dei poteri innovativi del Legislatore delegato.

Tanto, ad avviso del Rimettente piemontese e del Giudice delle Leggi, non sarebbe stato ottemperato, stante il superamento, da parte del Legislatore del 2010, di “paletti” provenienti da importanti insegnamenti, nella materia quivi censurata, delle Sezioni Unite civili.

Esse, in effetti più volte, (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 22 luglio 2004, n. 13703; nello stesso senso 11 febbraio 2003, n. 1992; 11 luglio 2001, n. 9383), avevano già riscontrato la prevalenza, nelle sanzioni irrogate dalla CONSOB, di diritti soggettivi, con conseguente deminutio di discrezionalità amministrativa.

Di conseguenza, sarebbe stata più adeguata la spettanza delle questioni in esame all’AGO. Il Legislatore delegato, invece, non rispettando i moniti provenienti dalla Suprema Corte, ha ecceduto i limiti della delega che, ex art. 76 della Costituzione, avrebbe dovuto, semmai, condizionarlo e spingerlo verso un più corretto riordino dei poteri giurisdizionali.

Tanto non è avvenuto, con conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale degli articoli quivi censurati e, per le medesime ragioni appena illustrate, la Consulta dichiara affetto da illegittimità costituzionale anche l’intero articolo 4, comma 1, numero 19), dell’Allegato numero 4, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, nella parte in cui aveva abrogato le disposizioni del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58.

Tale ultimo Testo, che attribuiva alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla CONSOB, illegittimamente abrogato, torna, per l’effetto, ad avere applicazione. CC



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Inserito in data 30/06/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 27 giugno 2012, n. 165

 

Q.l.c. art. 32, c. 2’, DPR. n. 448/88 (Disposizioni sul processo penale a carico di minorenni) 

La norma è discussa laddove prevede che, «se vi è richiesta del Pubblico Ministero», il Giudice dell’udienza preliminare «pronuncia sentenza di condanna quando ritiene applicabile una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva»; nel qual caso «la pena può essere diminuita fino alla metà rispetto al minimo edittale».

La doglianza, espressa in merito ad una presunta dilatazione dell’arbitrio della Pubblica Accusa ed alla conseguente disparità tra le parti processuali, oltrechè riguardo ad un iniquo allungamento dei tempi del giudizio, non è, invero, condivisa dai Giudici della Consulta.

Essi infatti, ravvedendo nell’ordinanza di rimessione del Giudice a quo una richiesta sia in termini manipolativi che additivi, ne evidenziano l’impossibilità per ovvie motivazioni logico - giuridiche.

Infatti da un lato, la soluzione del riconoscimento al Giudice dell’udienza preliminare del potere di provvedere ex officio, darebbe luogo all’unico caso in cui il Questi potrebbe emettere una pronuncia di condanna sulla base di elementi di prova non raccolti in dibattimento; dall’altro lato, la soluzione dell’attribuzione all’imputato o al suo difensore di un potere di richiedere la condanna a pena pecuniaria simmetrico a quello spettante al P.M., rappresenterebbe una soluzione inammissibile per difetto di rilevanza.

Il Rimettente infatti, asseriscono i Giudici della Consulta, non tiene conto del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in forza del quale il consenso dell’imputato minorenne alla definizione del processo nell’udienza preliminare – in quanto atto personalissimo – deve essere prestato dallo stesso imputato o da difensore munito di procura speciale.

In considerazione di tali percorsi logici omessi dal Rimettente, la Corte dichiara inammissibile la q.l.c. dell’art. 32, comma 2, del DPR n. 448/88 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sollevata dal Giudice marchigiano, in riferimento agli articoli 101, secondo comma, e 111, secondo e quinto comma, della Costituzione. CC



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Inserito in data 30/06/2012
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, GRANDE CAMERA n. 9300/07, 26 giugno 2012

 

Condanna del Governo Tedesco per violazione dell'art. 1 Protocollo 1 CEDU.

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo interviene, con un arresto dalla portata indubbiamente significativa, in grado, tra l’altro, di ricadere anche sul nostro Ordinamento, considerato il tenore della materia dal medesimo incisa, di estrema attualità e ricorrenza anche all’interno dei nostri confini.

I Giudici della Grande Camera, precisando l’ambito del diritto all’obiezione di coscienza, in particolare in merito all’esercizio dell’attività venatoria, puntualizzano che la limitazione all’esercizio del diritto di proprietà perpetrata a danno di chi si oppone alla caccia per motivi di coscienza non è, ovviamente, tollerabile.

E’ violato, infatti, l’art. 1 del Protocollo 1 aggiunto alla CEDU, laddove il Governo tedesco sembrava imporre al proprietario terriero, a rischio di perdita del proprio diritto dominicale, di accettare e consentire sul proprio fondo l’esercizio di attività venatoria.

Si tratterebbe, sostengono i Massimi Giudici europei, di un’ingiusta deminutio capitis ove il cittadino ricorrente, secondo le previsioni normative tedesche, avrebbe dovuto o tollerare la caccia sulla sua proprietà, sacrificando la propria coscienza, ovvero porsi contra legem, impedendo ogni ingresso sul proprio fondo – in conformità alle proprie convinzioni.

E’ evidente come un conflitto di coscienza, quale questo, non è ammissibile, tanto più in un Sistema, come quello creato dalla CEDU, che ha ormai cristallizzato la proprietà come diritto inviolabile dell’uomo che, alla stregua di altri di pari rango, permea il singolo individuo e la relativa funzione sociale.CC



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Inserito in data 30/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 giugno 2012, n. 3670

 

E’ censurabile la  scelta politica relativa alla formazione degli organi di governo locale che violi il principio delle “quote rosa”.

Gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la “composizione” politica degli interessi deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto.

Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate. SL



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Inserito in data 30/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 5 giugno 2012, n. 19

 

L’indennizzo riconosciuto dallo Stato agli allevatori per l’abbattimento dei capi di bestiame infetti non può essere riconosciuto qualora ricorra in capo ad essi una delle cause interdittive di cui all’art. 4 d.lgs. 490/94. 

Il legislatore nazionale, infatti, ha preso atto della circostanza che periodicamente gli allevamenti vengono colpiti dalla tubercolosi e dalla brucellosi e che, al fine di evitare o comunque contenere il propagarsi del contagio, deve potersi disporre l’abbattimento dei capi infetti. Per questa ragione, ha previsto in via generale che l’allevatore che ottemperi all’ordine di abbattimento venga aiutato a superare la difficoltà conseguente alla perdita del capo abbattuto mediante la corresponsione di un indennizzo.

Tali considerazioni si coniugano perfettamente con quelle discendenti dall’ analisi del tenore letterale della prescrizione contenuta nel citato allegato 3 richiamato dall’art. 4 del d.lgs. 29 ottobre 1994, n. 490,  laddove non soltanto  è contenuta un’ampia clausola di salvaguardia con cui si fa riferimento a “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate”, ma altresì, non risulta contenuto alcun richiamo discriminante alla “causale” per cui il contributo, il finanziamento, il mutuo agevolato o la “erogazione dello stesso tipo comunque denominata” sia concessa. SL



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Inserito in data 27/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 giugno 2012, n. 3682

 

Ipotesi di incompatibilità dei componenti della Commissione di gara.

E’ illegittima la composizione di una commissione giudicatrice di una gara di appalto nella quale fra i componenti vi sia un soggetto che abbia in precedenza espresso parere favorevole al progetto relativo al contratto da aggiudicare con puntuali prescrizioni tecniche. SL



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Inserito in data 27/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 giugno 2012, n. 3677

 

Cause di esclusione dalla gara e offerta tecnica. 

Non può essere esclusa dalla gara la concorrente che ha presentato la relazione illustrativa dell’offerta tecnica composta da un numero di pagine superiore a quello previsto dal bando, qualora tale inosservanza non sia da questa prevista a pena di esclusione. Difatti,  tale violazione non determina in concreto alcuna alterazione valutativa dell’offerta. SL



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Inserito in data 27/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 giugno 2012, n. 3673

 

Calcolo dei seggi da assegnare a seguito delle elezioni amministrative, nel caso in cui ricorrano cause di ineleggibilità. 

Le cause di ineleggibilità non sono di ostacolo all’ammissione della lista nella quale è ricompreso il soggetto ineleggibile, e non integrano una causa di invalidità che possa trasmettersi alle operazioni successive. Esse, infatti, hanno il solo effetto di determinare la decadenza di chi è ineleggibile. SL



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Inserito in data 27/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 giugno 2012, n. 3588

 

Non può considerarsi pratica commerciale aggressiva l’ipotesi in cui il consumatore venga invitato a sottoscrivere un prodotto finanziario all’interno di un punto vendita totalmente estraneo a detta attività. 

Secondo il concetto di pratica aggressiva tipizzato dall’art. 24 Cod. Cons. è, infatti, considerata tale solo quella condotta talmente invasiva da limitare la libertà di scelta del consumatore.

In tal caso, invece, pare più corretto parlare di pratica ingannevole, la quale si considera integrata ogniqualvolta, l’agente scorretto si proponga di ottenere la stipula di un contratto del cui contenuto il consumatore non è ben consapevole. SL



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Inserito in data 25/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 giugno 2012, n. 3705

Ottemperanza a giudizio avente ad oggetto l’ingiunzione di pagamento di differenze retributive.

I Giudici ravvedono la fondatezza di un simile giudizio, stante il diritto della ricorrente, nella qualità di ex dipendente di un Ente pubblico in mora, a ricevere le differenze retributive frattanto maturate.

Il Collegio, ricordando la necessaria corrispondenza della pretesa fatta valere in sede di ottemperanza con il substrato fattuale e giuridico della sentenza di cui si chiede l’esecuzione, afferma che tale attività debba compiersi esclusivamente sulla base della sequenza “petitum – causa petendi – motivi – decisum”.

La ricorrente, ossequiosa di un simile vincolo ormai certo e cristallizzato ad opera della prevalente giurisprudenza amministrativa, non propone, per l’appunto, domande che non siano già contenute nel “decisum” della sentenza da eseguire.

Postula, più semplicemente, il calcolo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria delle somme effettivamente spettantegli, il cui computo è in linea con l’esecuzione del giudizio di ottemperanza – come sopra descritto; ed ai fini del cui calcolo si dovrà tener conto dei principi richiamati nella sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 18 del 13 ottobre 2011. CC



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Inserito in data 25/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 giugno 2012, n. 3683

Precisazioni in merito all’esercizio del diritto di accesso agli atti – ex artt. 22 e ss. L. 241/90.

Il Collegio, richiamando la natura autonoma del diritto sopra detto, afferma che il Giudice dell’accesso debba accertare solo l’esistenza dei presupposti che ne legittimano la richiesta e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio.

Negata, in tal guisa, ogni strumentalità che parte resistente sembrava, invece, paventare, i Giudici, collegandosi a giurisprudenza ormai costante sul punto, hanno aggiunto che la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, al punto da rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, come quello addotto dall’appellante nel caso “de quo”. CC



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Inserito in data 25/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2012, n. 3548

Diniego del rinnovo del permesso di soggiorno: portata e contenuto del provvedimento questorile.

Il Collegio avalla la posizione estremamente rigida del Questore, espressa in sede di richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno.

La portata del relativo diniego non ha, infatti, carattere di automatismo in relazione alla pregressa condanna del ricorrente per reato di detenzione e vendita illecita di stupefacenti, ma è espressa in base ad un giudizio sulla pericolosità sociale connessa alla sua permanenza in Italia – secondo quanto consentito dall’art. 4, comma 3, del D.lgs. n. 286 del 1998 e successive modificazioni.

La condotta tenuta dallo straniero ricorrente, palesemente irregolare, non è, infatti, venuta meno neanche al cospetto di un nucleo familiare dallo stesso appena costituito. Appare, pertanto, decisamente prevalente la sicurezza sociale e l’esigenza di un generale ordine pubblico ad appannaggio della collettività, alla cui salvaguardia è incline l’attività questorile, inizialmente quivi censurata. CC



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Inserito in data 25/06/2012
TAR UMBRIA, SEZ. I, 20 giugno 2012, n. 242

Violazione del principio di pari opportunità: impugnazione del decreto di nomina degli assessori.

La composizione esclusivamente maschile della Giunta comunale, nominata al termine delle recentissime elezioni amministrative, comporta l’ennesimo vulnus al principio di pari opportunità tra i due sessi – come siglato dall’art. 51 della Costituzione – post L. cost. 1/03, nonché dall’art. 1 del D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 e dall’art. 6 del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

Ad avviso del Collegio umbro, invero, unitamente alle suddette Fonti occorre richiamare le previsioni statutarie del Comune resistente che, ricordando l’importanza della parità tra i due sessi in sede di attività pubblica, pone tale monito quale limite conformativo nella formazione della Giunta che, se disatteso, necessita di opportuna motivazione.

Tanto non è occorso nel caso di specie, laddove l’atto del Sindaco, sia pure connotato da un’amplissima discrezionalità politico/amministrativa, non avrebbe dovuto superare il limite conformativo statutario sulla garanzia dell’equilibrio di genere nella composizione della Giunta; o, quanto meno, avrebbe dovuto darne congrua motivazione.

Considerata tale mancanza, ne discende l’illegittimità degli atti che i Giudici locali non esitano a declarare, rammentando il rilievo del principio della c.d. parità democratica nella rappresentanza, cui ormai la prevalente giurisprudenza amministrativa si ispira. CC



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Inserito in data 23/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 giugno 2012, n. 3570

Sulla nozione di ristrutturazione edilizia e sulla possibilità di costruire strutture alberghiere in luogo di verde agricolo.

La ricostruzione (dopo la demolizione) di un immobile diverso per volumi o anche solo per la sagoma (a parità di volumi) dall’immobile preesistente comporta la realizzazione di un immobile nuovo, e non di una ristrutturazione,  con la conseguente applicazione della disciplina urbanistica prevista per le nuove edificazioni e delle conseguenti limitazioni imposte dalle norme urbanistiche in vigore al momento del rilascio del titolo autorizzativi.

L’area pianificata dal vigente strumento urbanistico primario come “area agricola” non deve essere necessariamente destinata ad attività agricole in senso stretto ma è sufficiente che soddisfi la vocazione del suolo sottraendolo a nuove edificazioni.

La vocazione agricola dell’area deve essere, dunque, coniugata con il contenuto di quelle che sono le concrete decisioni assunte dall’Amministrazione Comunale in sede di pianificazione del territorio. SL




Inserito in data 23/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 19 giugno 2012, n. 3569

Rapporti tra giudicato e ius superveniens.

Occorre distinguere, da un lato, le fattispecie che consentono al giudice amministrativo, sulla falsariga di quanto avviene nel processo civile, di svolgere, nell’ambito della sua giurisdizione di legittimità, un sindacato pieno sul rapporto dedotto nel processo e dall’altro, quelle che non permettono che il sindacato abbia una tale estensione.

Nel primo caso, quando cioè il giudicato verte su un’azione vincolata della P.A. o che comunque, non presenta ulteriori margini di esercizio della discrezionalità da parte della stessa, la domanda di cognizione proposta conduce alla formazione di un giudicato idoneo a produrre un vincolo conformativo pieno sull’esercizio della successiva attività dell’amministrazione ovvero a fare sorgere l’obbligo di pagamento della somma risarcitoria.

Di conseguenza, nell’ipotesi di un eventuale giudizio di ottemperanza questo assume esclusivamente natura esecutiva, in quanto il giudice deve esclusivamente verificare se l’amministrazione abbia correttamente posto in essere l’azione che la sentenza di cognizione ha prefigurato in tutti i suoi contenuti. Un giudicato siffatto, pertanto, prevale sull’eventuale diritto sopravvenuto.

Nella diversa ipotesi, invece, in cui si verte nell’ambito di un esercizio discrezionale dei poteri della P.A., l’azione di cognizione conduce alla formazione di un giudicato che contiene una regola incompleta lasciando priva di vincoli la futura attività amministrativa che non è stata oggetto di sindacato giurisdizionale. E pertanto, l’eventuale giudizio di ottemperanza ha natura mista di cognizione e di esecuzione: il giudice, infatti, concorre alla definizione della regola del caso concreto dando luogo a quella che viene definita formazione progressiva del giudicato.

Di conseguenza, la normativa successiva può occupare gli spazi lasciati liberi dal giudicato, realizzando normalmente una successione cronologica di regole di disciplina del potere pubblico. SL



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Inserito in data 23/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2012, n. 3550

Sulla commissione di gara...

1) Termine entro cui va proposta l’impugnativa avverso il provvedimento di nomina della commissione giudicatrice: in applicazione dei principi dettati dall'Ad. Pl. n. 1/03, l'atto di nomina di una Commissione di gara non é impugnabile autonomamente, in quanto non immediatamente lesivo per i partecipanti alla procedura; di conseguenza, può essere impugnato dal partecipante alla selezione che si ritenga leso nei suoi interessi solo nel momento in cui, con l'approvazione delle operazioni concorsuali e la nomina dell'aggiudicatario, si esaurisce il relativo procedimento amministrativo e diviene, compiutamente riscontrabile la lesione della sfera giuridica dell'interessato.

2) Competenze professionali dei commissari rispetto al profilo contenutistico dell’appalto: é  principio non solo immanente nell’ordinamento, ma anche di derivazione costituzionale (essendo l’unica garanzia affinché vengano rispettati i valori costituzionali richiamati dall’art. 97 Cost.), quello secondo cui i membri della commissione debbono essere provvisti di specifica e documentata esperienza di settore rapportata alla peculiarità della gara da svolgere.

Tanto è vero che le valutazioni effettuate dall'organo tecnico (che sono espressione non solo di discrezionalità amministrativa ma anche e soprattutto di discrezionalità tecnica)  sono soggette al sindacato del giudice amministrativo soltanto entro limiti ridottissimi in quanto, i limiti stessi riflettono non solo i rapporti fra i poteri che l'ordinamento assegna all'Amministrazione e quelli propri del suo giudice, ma anche la competenza specifica ed esclusiva, che la normativa riconosce in determinati settori all'organo tecnico dell'Amministrazione, alla quale non si contrappone una eguale competenza da parte del giudicante.

3) Divieto di commistione fra i requisiti soggettivi di qualificazione ed i criteri oggettivi afferenti alla valutazione dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione: è necessario tenere separati i requisiti richiesti per la partecipazione alla gara, da quelli che attengono all’offerta e quindi, all’aggiudicazione. SL



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Inserito in data 21/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 13 giugno 2012, n. 3490

Presupposti per l’adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti.

Ai sensi dell’art. 54 comma 2, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, le ordinanze contingibili ed urgenti possono essere adottate dal Sindaco nella veste di ufficiale di governo solamente quando si tratti di affrontare situazioni di carattere eccezionale e impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico: tali requisiti non ricorrono di conseguenza, quando le pubbliche amministrazioni possono adottare i rimedi di carattere ordinario.

Caratteristiche preminenti di tali provvedimenti sono, pertanto: l’atipicità, il potere derogatorio rispetto agli strumenti “ordinari”, l’eccezionalità e la gravità del pericolo presupposto, la generalità degli interessi cui sono volti e, naturalmente, un adeguato supporto motivazionale.

In quest’ottica, dunque, dinanzi ad una situazione di pericolo solo potenziale e territorialmente del tutto delimitato, l’Amministrazione, prima di adottare il provvedimento dovrebbe compiere ogni accertamento volto a fissare, a cristallizzare la “gravità” e la “contingenza” del pericolo stesso. SL



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Inserito in data 20/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ordinanza 18 giugno 2012, n. 3541

Sulla legittimità costituzionale o meno di graduatorie diversificate per singoli Atenei per l’ammissione a corsi di laurea a programmazione nazionale.

E’ sollevata questione di legittimità costituzionale sulla disposizione normativa che regola l’ammissione nelle facoltà a numero chiuso, nella parte in cui si prevede la formazione di una graduatoria plurima per singoli atenei in luogo di un’unica graduatoria a livello nazionale poichè, potenzialmente lesivo degli artt. 3, 34 e 97 Cost, nonché dell’art. 2 del protocollo addizionale alla CEDU, (a tenore del quale “il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno”)e, limitatamente alle materie di competenza dell’Unione europea, dell’art. 14 della Carta di Nizza, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e per l’effetto dell’art. 117, comma 1, Cost. (violazione da parte dello Stato italiano degli obblighi internazionali).

In particolar modo si asserisce che in un sistema siffatto, a fronte di una prova unica nazionale, l’ammissione al corso di laurea non dipenderebbe in definitiva dal merito del candidato, ma da fattori casuali e affatto aleatori legati al numero di posti disponibili presso ciascun Ateneo e dal numero di concorrenti presso ciascun Ateneo, ossia fattori non ponderabili ex ante. SL


 

 



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Inserito in data 20/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 13 giugno 2012, n. 3497

Il vincolo di inedificabilità disposto dalla normativa regionale, ancorché temporaneo, costituisce ostacolo ineludibile al rilascio del condono.

La norma regionale introduce, infatti, un divieto assoluto di edificazione entro la fascia costiera, ancorché valido esclusivamente fino all’entrata in vigore dei piani territoriali. A tale divieto si aggancia, pertanto, con immediatezza la misura sanzionatoria prevista dal legislatore statale, e cioè l’impossibilità di sanatoria dell’abuso, senza eccezioni, limiti o condizionamenti. SL



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Inserito in data 20/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 giugno 2012, n. 2232

Installazione stazione radio base per telefonia mobile nel campanile di una chiesa.

E’ legittimo il diniego di autorizzazione del Comune con il quale si fa divieto di installare una stazione radio base nel campanile di una chiesa, ove questa sia sottoposta a vincolo storico artistico, sussista incompatibilità paesaggistica ed il parroco responsabile non abbia prestato il proprio consenso. SL



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Inserito in data 19/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 12 giugno 2012, n. 3456

Occupazione sine titulo di suolo demaniale; profili di giurisdizione in merito a somme dovute alla P.A.

Il Collegio, riconfermando proprie posizioni già precedentemente assunte, ricorda che scaduta la concessione demaniale, il concessionario che rimane nella detenzione del bene è un mero occupante abusivo.

Non esiste, infatti, alcuna forma di rinnovo tacito della concessione; né, a fortiori, è possibile alcuna sdemanializzazione implicita stante la natura indisponibile dei beni che ne costituiscono oggetto.

L’occupante di tali aree non è più, pertanto, un concessionario. Ne scaturisce, quindi, l’inesistenza di un rapporto pubblicistico, con il conseguente intervento del G.O., chiamato ad acclarare il rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata, oltreché a vagliare la spettanza di somme che l’Amministrazione ingiunge.

E’ corretto, pertanto, il diniego di giurisdizione ex art. 73 c.P.A. che già il TAR aveva compiuto e che i Giudici d’Appello, in tale sede, hanno riconfermato a favore dell’AGO. CC



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Inserito in data 19/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 giugno 2012, n. 3542

Interruzione servizio di assistenza domiciliare. Eccesso di potere e vulnus alla ratio della L. 104/92?

Non si riscontra alcuna contrarietà alla ratio del Legislatore del 1992 laddove l’Ente appellato ha, invero, provveduto a garantire la dovuta assistenza nei riguardi di un soggetto disabile.

I Giudici ricordano, infatti, come in tema di tutela dei portatori di handicap alla previsione di cui all’art 39 L. 104/1992 di “forme di assistenza domiciliare e di aiuto personale, anche della durata di 24 ore” non corrisponde un diritto soggettivo del disabile, perché è facoltà - e non obbligo - di ciascuna Regione o Provincia autonoma l’istituzione di un tale servizio “nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio”, con possibile alternativa rappresentata dal “rimborso parziale delle spese documentate di assistenza nell’ambito di programmi previamente concordati”.

Tanto è occorso nel caso in esame, in cui il Comune appellato ha, in realtà, ottemperato ai propri obblighi contemperandoli con le proprie disponibilità di bilancio senza incorrere in alcun eccesso di potere, né sviando alcun monito da parte del Legislatore. CC



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Inserito in data 19/06/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, Grande Sezione, 12 giugno 2012, C-611/10

Legislazione in materia di previdenza sociale del Paese in cui si lavora abitualmente.

La Corte Europea, con un approdo di grande civiltà giuridica, richiama l’importanza della legislazione in tema di previdenza sociale e l’opportunità della relativa efficacia anche a favore di lavoratori “distaccati o temporaneamente occupati” in paesi diversi da quello di residenza.

Al fine di garantire, infatti, la libera circolazione dei lavoratori, cui l’UE tradizionalmente è protesa, il Giudice afferma la possibilità di derogare al Regolamento n. 1408/71 che prevede l’erogazione di trattamenti previdenziali solo ad opera dello Stato presso cui i lavoratori sono occupati.

E’ possibile, invece, che chi opera in territori diversi, come nel caso di specie, possa disporre anche di trattamenti previdenziali da questi emessi.

Pur derogando, in tal guisa, al divieto di cumulo di legislazioni differenti, voluto dal Legislatore europeo con il suddetto Regolamento, è possibile, tuttavia e al tempo stesso, contribuire al miglioramento del tenore di vita e delle condizioni lavorative dei lavoratori emigranti, concedendo loro una tutela previdenziale più ampia di quella risultante dall’applicazione del summenzionato regolamento, chiaramente diretta a facilitare la libera circolazione dei lavoratori. CC



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Inserito in data 19/06/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, Prima Sezione, 14 giugno 2012, C-618/10

Clausole abusive: il Giudice non può cambiarne il contenuto, ma solo disapplicarle.

La Corte Europea, pronunciandosi ancora a tutela dei diritti dei consumatori, chiarisce la necessità che le clausole abusivamente predisposte dai professionisti vengano, di fatto, non mutate ad opera del Giudice, ma semplicemente non applicate.

Laddove il Giudice, infatti, potesse intervenire modificando il testo contrattuale, i professionisti potrebbero continuare ad utilizzare tali clausole, consapevoli che, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato dalla pronuncia giurisdizionale, finendo con il garantire ugualmente i loro interessi.
Di conseguenza, qualora accertino l’esistenza di una clausola abusiva, i Giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escluderne l’applicazione affinché non produca effetti vincolanti nei confronti del consumatore, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. CC



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Inserito in data 16/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 giugno 2012, n. 3469

E’ illegittima la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, che limiti la partecipazione alla gara esclusivamente ai professionisti operanti nel territorio comunale.

La scelta di limitare la partecipazione ai professionisti locali, non supportata da un’indagine volta a verificare le professionalità più qualificate con riguardo all’oggetto della procedura, si sostanzia, infatti, in una limitazione territoriale aprioristica in contrasto con i principi comunitari in tema di tutela della concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi. SL



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Inserito in data 16/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 giugno 2012, n. 3445

E’ legittima una valutazione delle offerte in forma solo numerica nel caso di gara da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, purché...

Il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro i quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia sufficientemente analitico da delimitare il giudizio della commissione nell'ambito di un minimo e di un massimo, rendendo così evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico, in applicazione di puntuali criteri predeterminati, controllandone la logicità e la congruità, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito. SL



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Inserito in data 16/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 giugno 2012, n. 3444

E’ legittimo proporre azione risarcitoria prima della formazione del giudicato di annullamento sulla propria esclusione dalla gara.

Difatti, allorché la domanda risarcitoria non sia stata formulata congiuntamente alla presupposta domanda impugnatoria, nulla osta a che la prima venga introdotta in un momento successivo, senza che occorra all’uopo necessariamente attendere la previa formazione del giudicato sull’impugnativa.

In questo senso è del resto esplicito, oggi, l’art. 30, comma 5, CPA, che ammette espressamente che la domanda risarcitoria possa essere introdotta anche “nel corso del giudizio” di annullamento. Ma per questa parte la norma codicistica non può essere reputata innovativa, dal momento che anteriormente non esisteva alcuna regola che precludesse una simile iniziativa. Si poteva solo ipotizzare, in ragione delle istanze logiche sottese alla c.d. pregiudiziale amministrativa, l’esistenza di una temporanea improcedibilità della domanda risarcitoria fino alla definizione del giudizio impugnatorio. SL



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Inserito in data 16/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 giugno 2012, n. 3352

Giudice competente a decidere le controversie riguardanti i provvedimenti di revoca o di mancata conferma di incarichi dirigenziali è il giudice ordinario (art. 63, co. 1 dlgs. 165/01), sebbene...

Nelle ipotesi in cui la scelta del soggetto incaricato si basi su profili di discrezionalità (si pensi nella specie, ai casi in cui siano implicate anche ragioni di carattere politico, che richiedono ancora di più il rispetto dei rigorosi parametri dell’imparzialità e del buon andamento di cui all’art. 97 della Cost.), l’atto di nomina non può che essere esercizio di potere discrezionale amministrativo e non può assolutamente ritenersi atto datoriale di tipo privatistico attinente all’organizzazione degli uffici, poiché tale qualificazione metterebbe pericolosamente sullo sfondo, in contrasto con il precetto richiamato dell’art. 97 della Cost., la necessità di rispettare, nella scelta, le regole che circoscrivono l’agire discrezionale (e, quindi, la funzione amministrativa) della P.A. e che, per contro, non possono caratterizzare il potere privatistico del datore di lavoro. SL



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Inserito in data 15/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 giugno 2012, n. 3365

Reiterazione dei vincoli urbanistici ormai scaduti.

La reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti (art. 9 d.P.R. 8 giugno 2001 n. 327) non può disporsi senza svolgere una specifica indagine concreta relativa alle singole aree, finalizzata a modulare e considerare le differenti esigenze, pubbliche e private. L'amministrazione nel reiterare i vincoli scaduti è tenuta, infatti, ad accertare che l'interesse pubblico sia ancora attuale e non possa essere soddisfatto con soluzioni alternative e deve indicare le concrete iniziative assunte o di prossima attuazione per soddisfarlo, nonché disporre l'accantonamento delle somme necessarie per il pagamento dell'indennità di espropriazione.

L'obbligo di motivazione in materia di reiterazione dei vincoli urbanistici scaduti sussiste anche quando la reiterazione del vincolo sia disposta in occasione dell'adozione di variante generale al P.R.G. SL



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Inserito in data 15/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 GIUGNO 2012, n. 3376

Il principio postulante l’inammissibilità dell’ integrazione postuma della motivazione in giudizio può essere opportunamente derogato.

Sebbene, infatti, é su di esso che si fonda l’esercizio ineludibile del diritto di difesa non può ritenersi che, l'amministrazione incorra nel vizio di difetto di motivazione quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva del provvedimento impugnato.

Né, a ben vedere, tutte le ipotesi di chiarimenti rese nel corso del giudizio valgono quali inammissibili casi di vera e propria integrazione postuma della motivazione (sub specie, l’integrazione postuma della motivazione si era risolta nella mera indicazione di una fonte normativa prima non esplicitata). SL



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Inserito in data 15/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 GIUGNO 2012, n. 3314

Determinazione dell’ “an” e del “quantum” del risarcimento del danno nell’ipotesi di mancata aggiudicazione di una gara finalizzata all’esecuzione di un’attività di progettazione.

1) Quanto all’an, se la causa di mancato affidamento dell’attività risulta illegittima la prova del danno è assolta in re ipsa.

2) In relazione al quantum, invece:

a) Essa riguarda in via esclusiva il profilo del lucro cessante, da riconoscersi in relazione al mancato utile derivato dall’ impossibilità di conseguire i ricavi direttamente connessi all’ esecuzione dell’ attività di progettazione. Oltre alla corresponsione del c.d. danno curriculare.

b)Quanto all’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’attività di progettazione, non possono tenersi in considerazione i dati statistici forniti dall’A.E. con riferimento alle prestazioni professionali di ingegneri e architetti, rappresentando queste mere ipotesi probabilistiche, stante le numerose variabili idonee ad influenzare il compenso del professionista.

c) Nel determinare il risarcimento del danno da lucro cessante in materia di lavori pubblici, pertanto, anche in materia di attività di progettazione deve applicarsi, di regola, il cosiddetto “criterio del decimo” limitando il risarcimento per equivalente alla misura massima del 10% del prezzo offerto.

d) Non sono risarcibili, invece, il pregiudizio economico sofferto per la gestione della gara, incluso quello connesso all’ assistenza e alla consulenza legale e alle spese di difesa giudiziale, atteso che, per quanto riguarda in particolare le spese legali si tratta di danni successivi all’aggiudicazione, come tali non riconoscibili. SL



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Inserito in data 15/06/2012
CORTE DEI CONTI, SEZ. GIURISDIZIONALE D'APPELLO PER LA REGIONE SICILIANA, 7 giugno 2012, n. 178/A

I sindaci non possono istituire sedi distaccate fuori dal territorio del comune.

Provoca danno erariale il Sindaco di un Comune che, autonomamente, istituisca una sede distaccata degli uffici fuori dal territorio comunale. SL



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Inserito in data 13/06/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 7 giugno 2012, n. 147

Illegittima norma D.L. n. 98/11 che, al fine di ridurre i costi, prevede l’accorpamento di istituti.

La Corte Costituzionale ricorda la competenza legislativa in materia di istruzione scolastica che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, è stata divisa in norme generali sull’istruzione – riservate alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera n), della Costituzione – e principi fondamentali della materia istruzione, che l’articolo 117, terzo comma della Costituzione devolve, invece,  alla competenza legislativa concorrente.

Richiamando propria costante giurisprudenza, la Consulta precisa come debbano intendersi quale espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione dell’intervento del Legislatore regionale».

Rientrano, in quest’ultimo ambito, le norme riguardanti la creazione e l’organizzazione di istituti scolastici incise, invece, dalle norme del D.L. 98/11 che, prevedendo per ragioni di ripresa economica l’accorpamento e la conseguente soppressione di numerose scuole, parrebbero intaccare l’autonomia regionale in materia.

Appare fondata, pertanto, la q.l.c. sollevata da un gruppo di Regioni ricorrenti, le cui doglianze sono state riunite in un unico ricorso, per ovvie ragioni processuali. CC



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Inserito in data 13/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 giugno 2012, n. 3390

Precisazioni sull’improcedibilità ricorso per sopravvenuta carenza di interesse – ex art. 84 – 4’ C.P.A.

In base al noto principio secondo cui le condizioni dell’azione debbono permanere sino al momento del passaggio in decisione della controversia, e ricordando come il Giudice non possa sostituirsi alla parte nella valutazione del suo interesse ad agire, il Collegio riconferma la deducibilità della perdita dell’interesse alla decisione finale oltreché da fatti univoci verificatisi dopo il ricorso, anche dal comportamento delle parti. CC



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Inserito in data 13/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 giugno 2012, n. 3392

Ricorso per revocazione di sentenza; Chiarimenti sulla idoneità degli errori ex art.395 n. 4 c.p.c.

Il Collegio, nel rigettare un ricorso per revocazione di sentenza, fornisce precisazioni ulteriori in merito alla vera natura dell’errore di fatto revocatorio ex art.395 n. 4 c.p.c.

Esso, infatti, consistendo, per giurisprudenza costante, in un’evidente errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, non ricorre laddove si fondi sull’erroneo apprezzamento delle risultanze processuali.

Trattandosi, in quel caso, di un errore di giudizio, alla stregua della fattispecie in esame, l’istanza di revocazione va definita quale inammissibile, data l’impossibilità di contestare l’intervento del Giudice gravato in merito alle parti della vicenda medesima. CC



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Inserito in data 09/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 5 giugno 2012, n. 18

Interessi e rivalutazione su crediti retributivi, base di calcolo: somma dovuta al netto delle ritenute.

La questione rimessa all’Adunanza Plenaria dalla III Sezione riguarda appunto la base di calcolo da prendere in considerazione per la valutazione di interessi e rivalutazione monetaria di somme arretrate dovute a titolo retributivo: se, in particolare, la base debba essere la somma dovuta a titolo principale al netto e non al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali. (...) Ritiene questa Adunanza Plenaria che il punto di partenza fondamentale per una puntuale disamina della questione sia costituito dall’ AP. 3 del 1998 con la quale sono stati definiti i criteri di computo di interessi e rivalutazione monetaria a seguito della entrata in vigore della legge n. 412 del 1991 e della legge n. 724 del 1994 (art. 22, comma 36), che hanno introdotto, prima per i crediti previdenziali e poi per i crediti di altra natura, il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione monetaria (dal 1/1/1995). Con tale decisione, in sintesi, si è enunciato il principio di diritto alla stregua del quale gli interessi legali e la rivalutazione debbono essere calcolati separatamente sull’importo nominale del credito retributivo, escludendo sia il computo degli interessi e della rivalutazione monetaria sulla somma dovuta quale rivalutazione, sia il riconoscimento di ulteriori interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta a titolo di interessi. La decisione, con una motivazione molto puntuale, ancorata alla disamina della successione normativa e giurisprudenziale, anche costituzionale, in materia, ha sancito che la nuova regola del divieto del cumulo comporta necessariamente che la rivalutazione non sia più compenetrata con il credito retributivo, non partecipi della stessa natura di questo quale sua componente inscindibile, ma sia distinta da questa e si atteggia solo come tecnica liquidatoria del danno da ritardo, con l’ulteriore conseguenza che il credito di lavoro non ha un contenuto diverso da quello dei comuni crediti pecuniari, diversi essendo solo gli effetti dell’inadempimento. Rivalutazione e interessi sono quindi solo un effetto del ritardo e non possono essere inglobati ab origine nel credito; in particolare la rivalutazione nel credito di lavoro assolve, rispetto alla prestazione dovuta, ad una funzione accessoria, parallela a quella degli interessi, con i quali concorre alla funzione globalmente riparatoria. Deriva da ciò che entrambi detti elementi accessori debbono essere computati separatamente sulla somma capitale.

 I principi fissati nell’Adunanza Plenaria n. 3 del 1998 in materia di calcolo separato di interessi e rivalutazione sull’importo nominale del credito retributivo sono stati recentemente confermati (in sede di ottemperanza a decisione n. 865/2010 della V Sezione) con la sentenza n. 18 del 2011 dell’Adunanza Plenaria. Il superamento della tesi della compenetrazione della rivalutazione con il credito contributivo a favore della tesi della tecnica liquidatoria imperniata sul successivo calcolo separato di interessi e rivalutazione sul valore nominale del credito, unitamente alla considerazione che l’art. 429 cod.proc.civ. non ha trasformato il debito creditorio in debito di valore, ancorchè indicizzabile secondo una particolare disciplina, porta a ribadire l’indirizzo che afferma che tale calcolo vada effettuato al netto delle ritenute di legge, potendosi ritenere produttivo di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito solo il denaro che viene posto a disposizione del creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte, operate dal sostituto d’imposta attraverso rapporto di delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella disponibilità del dipendente (Cfr. Ad.Plen. n. 3 del 1999). FT



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Inserito in data 09/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 5 giugno 2012, n. 19

Natura indennizzo per abbattimento capi bufalini e subordinazione ad informativa prefettizia favorevole.

E’ stata sottoposta al vaglio dell’Adunanza Plenaria la questione relativa alla ricomprensione dell’indennizzo per l’abbattimento di capi bufalini tra le erogazioni descritte dall’art. 4 del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, ed in particolare dalla lett. f dell’allegato 3 ivi richiamato [nel novero dei “contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo comunque denominate”], e, conseguentemente, alla possibilità di negarne l’erogazione in presenza di una informativa prefettizia sfavorevole all’aspirante fruitore del beneficio.

L’Adunanza Plenaria ritiene che il criterio discretivo fondato sulla “causale” della erogazione non possa condurre ad escludere l’indennizzo suddetto dal campo applicativo delle citate disposizioni. E ciò per più ordini di ragioni. Già sotto il profilo teorico, una distinzione fondata sul criterio teleologico delle erogazioni che distingua quelle dirette a “promuovere” una attività imprenditoriale da quelle dirette a “restaurare” l’impresa da un pregiudizio subito appare (oltre che di assai incerta applicabilità) di dubbio supporto dogmatico. Ogniqualvolta infatti l’Autorità nazionale, ovvero quella Comunitaria, si risolve ad erogare una provvidenza economica in favore degli imprenditori operanti in un settore, a tale determinazione - unitamente a considerazioni relative alla opportunità o necessità di favorire od incentivare lo sviluppo o la crescita del settore via via prescelto - si accompagna la considerazione che le condizioni del libero mercato non garantirebbero adeguatamente il perseguimento delle dette esigenze se con incentivate attraverso la erogazione di misure lato sensu “compensative” dello stato di difficoltà in cui vengono a trovarsi gli imprenditori del settore. Ove non sussistesse alcuna criticità nella situazione di mercato sottesa al settore prescelto non si vede perché l’erario dovrebbe motu proprio privarsi di risorse destinandole a remunerare l’operatore privato. L’indennizzo per l’abbattimento di capi bufalini non è estraneo a tale ratio.

Ulteriore conforto alla ricomprensione della erogazione per cui è causa nella disposizione contenuta nell’art. 4 del d.lgs. 29 ottobre 1994, n. 490 si ricava dagli approdi cui è giunta la giurisprudenza in materia penale. In particolare appaiono assai significativi gli indirizzi espressi dalla Corte di cassazione penale, laddove si consideri che in detto settore dell’ordinamento l’esigenza di tassatività della prescrizione incriminatrice, che costituisce pacifico corollario del principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, scoraggia qualsiasi interpretazione estensiva e men che mai analogica del precetto definitorio della condotta sanzionata. Appare utile a tal proposito rimarcare che l’art. 4 della legge 29 settembre 2000, n. 300, nel quadro delle misure di adeguamento dell'ordinamento italiano agli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee redatta a Bruxelles il 26 luglio 1995 ha inserito nel codice penale l’art. 316 ter che costituisce l’interfaccia penalistico del più volte citato allegato 3, contenendo una prescrizione identica a quest’ultimo; l’elemento oggettivo della fattispecie riposa infatti nella indebita percezione di “contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee” ed è assolutamente identico al dato testuale contenuto nel più volte citato allegato 3 richiamato dall’art. 4 del d.lgs. 29 ottobre 1994, n. 490. Del detto precetto le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione hanno fornito una nozione che appare perfettamente in linea con quella qui prospettata avendo in particolare ribadito, quanto all’elemento oggettivo della fattispecie che “nel concetto di erogazione deve ritenersi compreso non solo l'ottenimento di una somma di denaro a titolo di contributo, ma pure l'esenzione dal pagamento di una somma dovuta ad enti pubblici, perchè anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio che viene posto a carico della comunità”. Assai significativa, appare in particolare l’affermazione per cui tra le stesse rientrano non solo le somme versate dall'ente pubblico, ma anche le somme non richieste o richieste in misura minore per servizi resi dal predetto ente e che nessun argomento contrario all'inclusione anche delle prestazioni assistenziali nelle previsioni dello stesso art. 316 ter potrebbe trarsi dalla locuzione "contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo", che pure nella normativa comunitaria viene formulata con termini del tutto generici e privi di uno specifico significato tecnico riferibile soltanto a sovvenzioni in danaro e non anche ad agevolazioni ed ausili economici di qualsiasi tipo, attribuiti con scopi sociali (Cassazione penale, Sezioni Unite, decisione del 16 dicembre 2010 , n. 7537). FT



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Inserito in data 09/06/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 22 maggio 2012, n. 8071

Rinnovazione di gara annullata, con commissione differente: eccesso di potere giurisdizionale?

Orbene, rileva in primo luogo il Collegio che - come più volte affermato da queste Sezioni Unite (v. fra le altre, Cass. S.U. 21/6/2010 n. 14893 Cass. S.U. 9-5-2011 n. 10065 cfr. anche Cass. S.U. 19-12-2011 n. 27283) - "le valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici dei pubblici concorsi, inserite in un procedimento amministrativo complesso e dipendenti dalla valorizzazione dei criteri predisposti preventivamente dalle medesime commissioni, sono assoggettabili al sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo - senza che ciò comporti un'invasione della sfera del merito amministrativo, denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione - anche qualora risultino affette da illogicità manifesta o travisamento del fatto od irragionevolezza evidente o grave, o da grave difetto di motivazione". Peraltro, come pure è stato affermato da queste Sezioni Unite, deve ritenersi che "le decisioni del giudice amministrativo sono viziate per eccesso di potere giurisdizionale e, quindi, sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione, laddove detto giudice, eccedendo i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato e sconfinando nella sfera del merito (riservato alla P.A.), compia una diretta e concreta valutazione della opportunità e convenienza dell'atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell'annullamento, esprima la volontà dell'organo giudicante di sostituirsi a quella dell'Amministrazione, così esercitando una giurisdizione di merito in situazioni che avrebbero potuto dare ingresso soltanto a una giurisdizione di legittimità (dunque, all'esercizio di poteri cognitivi e non anche esecutivi) o esclusiva o che comunque ad essa non avrebbero potuto dare ingresso" (v. fra le altre Cass. 9-11-2011 n. 23302).

In tale quadro, però, da ultimo (v. Cass. S.U. 8-3-2012 n. 3622) è stato anche precisato che "per esercitare la propria giurisdizione di legittimità, e quindi valutare gli eventuali sintomi dell'eccesso di potere dai quali un atto amministrativo impugnato potrebbe essere affetto, il giudice amministrativo non può esimersi dal prendere in considerazione la congruità e la logicità del modo in cui la medesima amministrazione ha motivato l'adozione di quell'atto". "Neppure quando perciò si tratti ... di un atto a contenuto fortemente valutativo, cui certamente inerisce un ampio grado di discrezionalità anche tecnica, si può negare al giudice il potere- dovere di vagliarne la relativa motivazione, ai fini e nei limiti sopra accennati; e, se pure è vero che, in siffatte situazioni, esiste il rischio che detto giudice travalichi quei limiti e sostituisca indebitamente la propria valutazione a quella dell'amministrazione, per riscontrare un tale eccesso non basta certo soltanto il fatto che il giudice si sia soffermato a soppesare gli argomenti sui quali la motivazione dell'atto impugnato si articolava. Non gli sarebbe altrimenti possibile esprimere alcun giudizio sulla congruità e logicità di quella motivazione, che si perverrebbe così all'inammissibile risultato di rendere di fatto insindacabile". Pertanto, come è stato ulteriormente chiarito con la detta recente pronuncia, "occorre allora riuscire a cogliere la linea di discrimine - talora sottile, ma mai inesistente - tra l'operazione intellettuale consistente nel vagliare l'intrinseca tenuta logica della motivazione dell'atto amministrativo impugnato e quella che si sostanzia invece nello scegliere tra diverse possibili opzioni valutative, più o meno opinabili, inerenti al merito dell'attività amministrativa di cui si discute. Altro è l'illogicità di una valutazione, altro è la non condivisione di essa. Un conto è stabilire quali criteri di valutazione l'amministrazione intende privilegiare nel compiere una certa scelta, a quali elementi essa intende dare maggior peso ed a quali un peso minore o come ritiene di dover contemperare i primi con i secondi, altro conto è motivare la concreta applicazione di quei medesimi criteri nel caso concreto. L'insindacabilità della valutazione discrezionale dell'amministrazione ad opera del giudice non esclude che sia invece sindacabile una motivazione che non consenta di comprendere i criteri ai quali quella valutazione si è ispirata o che, peggio ancora, manifesti l'illogicità o la contraddittorietà della loro applicazione nella fattispecie concreta".

Dopo aver premesso che "non vi è nell'ordinamento, salvo il diverso caso della concomitante violazione della normativa sulla formazione dell'organo, un principio o norma generale per cui a seguito dell'annullamento giurisdizionale di atti si debba procedere, per ciò solo, al mutamento del titolare dell'organo che li ha adottati al fine della loro rinnovazione", il Consiglio di Stato [Sez. 6^, con sentenza n. 8248 depositata il 17-12-2009], nell'annullare la procedura di valutazione comparativa in oggetto, statuendo che la stessa deve essere "rinnovata integralmente", ha altresì affermato che "deve anche essere innovata la composizione della commissione giudicatrice incaricata dello svolgimento delle operazioni concorsuali al fine di assicurare condizioni oggettive di imparzialità trattandosi, in questo, caso, della terza tornata concorsuale cui sarebbero altrimenti preposti i membri già componenti delle commissioni operanti per le due precedenti ed essendosi altresì riscontrata, come visto, inosservanza del giudicato nel quadro della seconda di tali valutazioni". Anche tale ultima statuizione, non può che essere inserita nel quadro dell'annullamento della procedura di valutazione comparativa de qua, come disposto dal giudice amministrativo nella vicenda concreta. In tal senso il Consiglio di Stato, senza esorbitare dai limiti della propria giurisdizione e senza invadere il merito amministrativo, ha semplicemente disposto una misura idonea "ad assicurare l'attuazione del giudicato" (v. D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 34 lett. e), "al fine di assicurare condizioni oggettive di imparzialità" nel caso concreto (riguardante, in particolare, una "terza tornata concorsuale" in una ipotesi di riscontrata "inosservanza" di una precedente pronuncia del giudice amministrativo). Del resto tale "misura" risponde palesemente all'esigenza di effettività della tutela giurisdizionale propria del giudice amministrativo, nella fattispecie concreta. FT




Inserito in data 09/06/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE CIVILI, 28 maggio 2012, n. 8412

Sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni di concorso.

Con riferimento al sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), la giurisprudenza di queste SU ha recentemente approfondito il tema dell'eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera del merito ed ha concluso che siffatto sindacato è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione all'articolazione dei criteri preventivamente individuati dalla commissione stessa (in tal senso cfr. Cass. SU 21 giugno 2010, n. 14893; SU 9 maggio 2011, n. 10065; SU 19 dicembre 2011, n. 27283). In particolare, s'è riflettuto sulla circostanza che la valutazione demandata alla commissione esaminatrice è, in primo luogo, priva di "discrezionalità", perchè la commissione non è attributaria di alcuna ponderazione di interessi nè della potestà di scegliere soluzioni alternative, ma è richiesta di accertare, secondo criteri oggettivi o scientifici (che la legge impone di portare a preventiva emersione), il possesso di requisiti di tipo attitudinale - culturale dei partecipanti alla selezione la cui sussistenza od insussistenza deve essere conclusivamente giustificata (con punteggio, con proposizione sintetica o con motivazione, in relazione alle varie "regole" legali delle selezioni). Il giudizio circa l'idoneità del candidato avviene, dunque, secondo regimi selettivi di volta in volta scelti dal legislatore che non precludono in alcun modo la piena tutela innanzi al giudice amministrativo (in tal senso le decisioni della Corte Costituzionale, in sent. 20/2009 e ord. 78/2009), giudice del fatto come della legittimità dell'atto. Siffatta tutela - come correttamente argomenta la sentenza impugnata - è attuata sotto il profilo del vizio d'eccesso di potere e, dunque, senza alcuno sconfinamento nel merito da parte del giudice, ma attraverso la verifica della logicità, della coerenza e della ragionevolezza delle basi argomentative concernenti l'analisi dell'elaborato. FT




Inserito in data 08/06/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 23 maggio 2012, n. 139

Infondate le q.l.c. di alcune norme del D.L. n. 78/10 in tema di contenimento dei costi.

I Giudici della Consulta smentiscono la presunta lesione dell’autonomia finanziaria – ex art. 119 della Costituzione, oltreché la ritenuta “invasione di campo” riguardo alla potestà legislativa regionale in tema di coordinamento della finanza pubblica – ex art. 117, terzo comma della nostra Carta Fondamentale – come lamentate da un gruppo di Regioni ricorrenti.

Queste, infatti, impugnando talune norme del Decreto-Legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, avevano censurato l’intervento del Legislatore, ritenendolo poco rispettoso dell’autonomia regionale in tema di contenimento dei costi degli apparati amministrativi.

La Corte, chiarendo la portata oltreché la particolare contingenza proprie del Testo di legge impugnato, ricorda come il Legislatore statale possa, con una disciplina di principio, legittimamente «imporre agli Enti autonomi, per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, vincoli alle politiche di bilancio, anche se questi si traducono, inevitabilmente, in limitazioni indirette all’autonomia di spesa degli Enti».

Nessuna interferenza, dunque, ad avviso dei Giudici costituzionali; solo la previsione di norme di principio che, per il tenore che le connota, pur avendo un consistente impatto su principi di rango costituzionale, si traducono in una “circostanza di fatto come tale non incidente sul piano della legittimità costituzionale”. CC



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Inserito in data 08/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 6 giugno 2012, n. 3319

Attività venatoria: riaperti termini per la partecipazione all’ambito territoriale anche a zone contigue.

Il Massimo Collegio, condividendo la posizione del Giudice di primo grado, conferma la particolare attenzione del Legislatore in merito alla tutela ed alla valorizzazione delle aree protette.

Infatti, rigettando la decisione dell’Amministrazione provinciale di estendere, con effetto retroattivo e quindi sanante di eventuali pregresse sanzioni, l’area di esercizio della caccia anche a favore di soggetti non residenti nel territorio circoscritto dal c.d. Parco del Cilento, i Giudici sottolineano l’incompetenza della Provincia appellante ad agire in tal senso.

Essa, infatti, ritenendo di procedere nel quadro di “una caccia comunque programmata” – quale quella voluta dal Legislatore regionale nel rispetto del territorio agro-silvo-pastorale, si è tuttavia mossa nel quadro di una materia ormai imputata alla competenza legislativa statale, in via esclusiva – ex art. 117, comma 2, lett. s) della nostra Costituzione ed in cui le norme statali assumono, ormai, la veste di standard minimi uniformi.

Il Collegio, evocando l’importanza di tale parametro, nonché l’orientamento, ormai costante in tal senso proprio del Giudice delle Leggi, rigetta i motivi di gravame sollevati dall’Ente campano. CC



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Inserito in data 08/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 6 giugno 2012, n. 3330

Diniego di sanatoria: occorre che l’Ente compia, in modo complessivo, la valutazione dell’abuso edilizio.

Ai fini della razionalità dell’azione amministrativa e del rispetto del principio costituzionale di buon andamento, è fondamentale che l’Amministrazione comunale esamini contestualmente l’eventuale pluralità di istanze di sanatoria prodotte in riferimento a un medesimo complesso edilizio.

Tanto è accaduto in merito alla fattispecie in esame, al punto che il Collegio di Palazzo Spada, uniformandosi al monito del Giudice territoriale, ha rigettato il motivo di appello promosso dal privato istante.

Questi, infatti, presentando una richiesta di condono frammentata in due parti ma afferente al medesimo plesso, lamenta l’unitarietà del relativo rigetto cui, invece, la suddetta Amministrazione è correttamente tenuta al fine di una più efficiente azione a tutela del territorio. CC



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Inserito in data 08/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 6 giugno 2012, n. 3348

Affidamento in prova al servizio sociale – ex art. 656, c. 5, c.p.p. Fondatezza del divieto di espatrio.

Si riconferma, avvalendosi anche dell’ormai consueto apporto proveniente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sez. II, decisione 21 aprile 2011 n. 41199), la decisione,  emessa in primo grado, in merito alla fondatezza del ritiro del passaporto a seguito dell’irrogazione della suddetta misura.

A dispetto della posizione contrariamente assunta dall’appellante, è congruo il divieto di espatrio – ex art. 3 lett. d) Legge n. 1185/1967 - comminato dal Questore a suo carico in quanto condannato e destinatario di una simile misura alternativa.

Non sussiste, infatti, alcun vulnus al tenore letterale dell’art. 656 – 5’ co. C.p.p. – nella misura in cui essa norma parli di misura, a differenza del suddetto art. 3 che, invece, si esprime in termini di pena quale presupposto del provvedimento impugnato; né, ancor di più, alcuna limitazione ai diritti fondamentali dell’individuo.

Vi è, piuttosto, come confermano i Giudici, solo l’intento, più che mai opportuno e condivisibile, che l’Amministrazione resistente riesca, con tale provvedimento, a dare la massima effettività alla sanzione penale irrogata all’appellante. CC



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Inserito in data 05/06/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, SEZ. III, 10 maggio 2012, C- 368/10

Giudici europei a favore di appalti pubblici limitati a prodotti biologici o solidali.

  • Il Collegio ricorda come il diritto dell'Unione europea non osti ad un appalto pubblico per il quale l'Amministrazione aggiudicatrice richieda o desideri che taluni prodotti da fornire provengano dall'agricoltura biologica o dal commercio equo e solidale;
  • Tuttavia, ferma restando una simile apertura, non è possibile richiedere marchi o eco - etichettature specifiche in sede di ammissione alla gara;
  • Si tratterebbe, infatti, di modalità velate di aiuto rivolte a talune ditte a svantaggio di altre, scongiurabili, invece, attraverso l’utilizzo, da parte aggiudicatrice, di specifiche dettagliate. CC


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Inserito in data 05/06/2012
Conclusioni dell'Avvocato generale, 15 maggio 2012, C-79/11

Anche l'Avvocato generale UE riconosce una responsabilità piena delle persone giuridiche.

A parere dell'Avvocato generale UE, Eleanor Sharpston, qualora l’ordinamento giuridico di uno Stato membro preveda la possibilità di instaurare un procedimento nei confronti di persone giuridiche con riferimento ad un illecito, la circostanza che tale ordinamento possa qualificare la responsabilità rispetto a tale illecito come «indiretta e sussidiaria» e/o «amministrativa» non solleva tale Stato membro dall’obbligo di applicare le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 1, della decisione quadro del Consiglio 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale.

Occorre, a parere dell'Avvocato generale, che, pur essendo qualificata dall'ordinamento nazionale come "amministrativa" o "indiretta/sussidiaria", la responsabilità dell’Ente sia tale da consentire alle vittime la possibilità di instaurare un procedimento contro di esso.

Il tutto, come è evidente, a favore dei destinatari di illeciti commessi da imprese, in sintonia allo spirito della Decisione quadro del Consiglio 2001/220/GAI del 15 marzo 2001 cui anche l’Italia, ricorrente in tale giudizio, ha aderito. CC



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Inserito in data 02/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 28 maggio 2012, n. 17

Passaggio di ruolo di associati/ricercatori confermati in servizio e blocco assunzioni (Dl 180/2008).

L’Adunanza Plenaria reputa che il divieto di assunzione operi anche per l’inquadramento in ruolo, in una fascia superiore, di docenti già in servizio presso la medesima università. A sostegno dell’assunto depone, in prima battuta, la considerazione che, nel caso di specie, non viene in rilievo una procedura concorsuale interna finalizzata all’attribuzione di una qualifica superiore ma un diverso inquadramento in ruolo per effetto dell’idoneità conseguita all’esito di un concorso esterno, aperto anche a soggetti non legati da alcun rapporto con l’università e non in possesso, ancora più in radice, dello status di docenti universitari. La circostanza che non si tratti di procedura riservata a soggetti già aventi la qualifica di docenti universitari o comunque legati da un rapporto di lavoro all’amministrazione universitaria, dimostra che la selezione non è finalizzata alla progressione in carriera ma all’assunzione, id est all’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro caratterizzato da una soluzione di continuità rispetto alla pregressa posizione eventualmente rivestita dal soggetto idoneo. Non è chi non veda, d’altronde, come una diversa soluzione ermeneutica, che escludesse l’operatività del divieto solo per i docenti già in servizio presso l’Università che operi la chiamata, discriminerebbe in modo illogico la posizione dei soggetti che abbiano conseguito l’idoneità all’esito della medesima procedura in base al dato, accidentale ed estrinseco rispetto ai caratteri ed alla finalità della procedura selettiva, della sussistenza di un pregresso rapporto con l’amministrazione universitaria.

Le considerazioni che precedono consentono di approdare alla conclusione secondo cui il blocco delle assunzioni interessa anche i casi in esame in quanto il nuovo inquadramento in ruolo del docente è il frutto dell’esito positivo di una procedura concorsuale aperta che dà luogo ad un assunzione in senso proprio e non al mero passaggio di qualifica per effetto di procedura riservata. Si deve per completezza osservare, con riguardo al più ampio tema oggetto del contrasto interpretativo prima evidenziato, che risulta preferibile la tesi che estende il blocco delle assunzioni ai passaggi di qualifica. A fondamento di tale indirizzo si pone il principio, ribadito a più riprese dalla giurisprudenza della Corte delle leggi (v.,da ultimo, Corte cost. 10 novembre 2011, n. 299), secondo cui il principio del concorso come strumento di accesso all’impiego pubblico (art. 97, comma 3, Cost) comprende sia le procedure preordinate all’ingresso ex novo di personale nei ruoli dell’amministrazione sia quelle finalizzate al passaggio dei dipendenti ad una qualifica superore. La regola del concorso pubblico si atteggia, in definitiva, a principio costituzionale, passibile di deroga solo nell’ipotesi in cui la progressione non determini la novazione, con effetti estintivo-costitutivi, del rapporto di lavoro preesistente. La Corte costituzionale, in sede di interpretazione della portata della regola del concorso pubblico, ha altresì sottolineato che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico aperto è stata delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell'amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle. In particolare, si è più volte ribadito che il principio del pubblico concorso, pur non essendo incompatibile, nella logica dell'agevolazione del buon andamento della pubblica amministrazione, con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, non tollera, salvo circostanze del tutto eccezionali, la riserva integrale dei posti disponibili in favore di personale interno.

La valorizzazione della caratterizzazione sostanzialmente novativa degli effetti sortiti, a fronte della posizione originaria, dall’attribuzione di una qualifica superiore per effetto della procedura concorsuale, è l’argomento posto a sostegno anche dell’indirizzo ermeneutico della Corte di legittimità che, in punto di riparto di giurisdizione, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo sulla cognizione del contenzioso relativo alle procedure riservate volte a sancire la progressione verticale interna, ossia il passaggio tra diverse aree di inquadramento previste dalla contrattazione collettiva. Posto il principio secondo cui, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'accesso del personale dipendente ad un'area o fascia funzionale superiore deve avvenire per mezzo di una pubblica selezione, comunque denominata ma costituente, in definitiva, un pubblico concorso - al quale, di norma, deve essere consentita anche la partecipazione di candidati esterni -, si osserva che il quarto comma dell'art. 63 d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, laddove riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo "le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", fa riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore : il termine "assunzione" deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all'ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l'accesso nell'area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un ampliamento della pianta organica. FT



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Inserito in data 02/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 maggio 2012, n. 3272

Art 114 co 2 lett e) e ambito applicativo della cd “astrainte” nel giudizio di ottemperanza.

L’inserzione di una formula sostanzialmente analoga a quella dell’art. 614 bis c.p.c. e l’obliterazione della diversa fase in cui è collocata la penalità di mora (come altrimenti è stata identificata la misura) nel giudizio civile (nella fase di cognizione), rispetto al giudizio amministrativo (in cui la pronuncia della misura è riferita alla fase esecutiva ed è disposta dal giudice dell’ottemperanza) determina una chiara differenziazione anche con riferimento al termine iniziale dal quale assume rilevanza la violazione degli obblighi nascenti dal giudicato, perché nel primo esso è chiaramente costituito dal momento in cui la sentenza di cognizione, con la statuizione di condanna, acquisisce valore di cosa giudicata formale, nel secondo, invece, soltanto dalla scadenza dell’ulteriore termine di adempimento assegnato dal giudice dell’ottemperanza.

Peraltro, proprio in ragione della diversità dell’istituto processuale amministrativo rispetto a quello di diritto processuale comune è stato chiarito come il suo ambito applicativo riguardi anche la mancata esecuzione di sentenze di condanna al pagamento di somme di danaro. L’art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.

E’ il caso di osservare, poi, che la misura, in quanto diretta alla coazione indiretta degli obblighi nascenti dal giudicato, ha natura sanzionatoria e non già risarcitoria, onde risultano irrilevanti in linea di principio istituti afferenti al regime della responsabilità per inadempimento di obbligazioni, come del pari, in tema di inottemperanza a statuizioni di condanna al pagamento di somme di danaro, non potrebbe assumere alcun rilievo escludente la circostanza che sulle medesime competano interessi legali, ossia interessi compensativi, intesi come tipici frutti civili. FT



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Inserito in data 02/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 maggio 2012, n. 3083

Omessa comunicazione di avvio del procedimento e applicabilità art 21 octies all’attività discrezionale.

Del tutto inconferenti sono gli opposti rilievi in ordine alla natura discrezionale, e non vincolata, dell’attività condotta dall’Amministrazione, circostanza questa che, a detta dell’appellata, renderebbe inapplicabile al caso di specie l’eccezione prevista dall’art. 21-octies, sulla base della considerazione che, stante la discrezionalità dell’atto, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento determinerebbe l’invalidità del provvedimento stesso per difetto di istruttoria. Sebbene la natura non vincolata del provvedimento di cui si discute non sia revocabile in dubbio, va rilevato che per pacifica giurisprudenza l’art. 21-octies è applicabile, in parte qua, anche agli atti discrezionali. Più specificamente, la norma in questione si divide in due parti, la prima delle quali prevede che il provvedimento non sia annullabile quando ricorrano necessariamente i seguenti elementi: violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti; natura vincolata del provvedimento; essere “palese” che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; la seconda parte è relativa ad un tipico vizio procedimentale (violazione dell’obbligo di avvio del procedimento) e prevede che il provvedimento non sia annullabile “qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. In quest’ultima ipotesi, applicabile senza dubbio al caso di specie, non c’è il limite per l’attività vincolata e la norma opera, quindi, anche in caso di attività discrezionale. Tale norma, dunque, pone in capo all’Amministrazione l’onere di dimostrare, in caso di mancata comunicazione dell’avvio, che l’esito del procedimento non poteva essere diverso. Nel caso di specie, come correttamente argomentato dall’appellante, la prova de qua emerge dall’inconsistenza stessa delle censure articolate in giudizio, tali da disvelare che l’apporto partecipativo dell’interessata non avrebbe potuto portare ad alcun esito diverso. FT



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Inserito in data 01/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 maggio 2012, n. 3250

Revoca aggiudicazione provvisoria per l’esistenza di cause interdittive ex art. 4 D.lgs. n. 490/1994.

I Supremi Giudici sottolineano l’importanza dell’informativa antimafia. Pur trattandosi di una prassi ispirata ad un’esigenza di anticipazione della soglia di difesa sociale, occorre, ugualmente, che l’adozione di simili provvedimenti riesca a contemperare contrapposti valori costituzionalmente garantiti quali, da un lato, la tutela della pubblica sicurezza e, dall’altro, la libertà di iniziativa economica. E’ imprescindibile, pertanto, una congrua motivazione anche in sede di revoca per l’asserita sussistenza di cause interdittive - ex art. 4 D.lgs. n. 490/1994, la cui carenza comporta, quindi, un eccesso di potere, quale quello quivi lamentato dalla ditta appellante. CC



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Inserito in data 01/06/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 maggio 2012, n. 3248

Spetta al G.O. il sindacato in merito alla idoneità di un elenco di soggetti da destinare alla Dirigenza.

  • Il Collegio, condividendo la posizione del Giudice di primo grado, ricorda come la materia in questione rientri nell’ambito dell’impiego contrattualizzato – di cui al D. Lgs. 165/01;
  • Trattandosi, infatti, di una procedura selettiva non di natura comparativa, essa non è destinata a sfociare in una graduatoria di merito;
  • Come tale, esplicandosi in una scelta di carattere meramente fiduciario ed assolutamente priva delle modalità concorsuali, tale prassi è demandata all’AGO, come da ultimo confermato anche dalle Sezioni Unite civili. CC


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Inserito in data 01/06/2012
TRIBUNALE UNIONE EUROPEA, 24 maggio 2012, T -111/08

Contrarie al diritto della concorrenza le commissioni interbancarie multilaterali.

Il Tribunale UE, confermando il pregresso orientamento della Commissione Europea, boccia le commissioni interbancarie multilaterali (Cmi) applicate da grossi circuiti bancari.

Queste, rappresentando una frazione del prezzo della transazione che grava sugli esercenti, finiscono con l’apporre una soglia minima al prezzo dagli stessi applicati, con un conseguente restringimento della concorrenza a loro, chiaro, svantaggio.

Il Giudice, avallando quest’ultima posizione avanzata anni prima dalla Commissione, lamenta, condannandolo, altresì il coordinamento tra Istituti finanziari che tale prassi finiva con il consentire. CC



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Inserito in data 30/05/2012
TAR CALABRIA, REGGIO CALABRIA, SEZ. I, 24 maggio 2012, n. 378

Rivalsa dello Stato nei confronti di Enti pubblici per il pagamento dopo sentenza della CEDU.

I Giudici calabresi, intervenendo sul prosieguo della nota sentenza Scordino con una pronuncia innovativa, declinano la propria giurisdizione in merito. Qualificando “formalmente come diritto” la posizione dello Stato creditore nei confronti degli Enti che hanno commesso le note violazioni della CEDU, il Collegio rimette l’intera questione all’AGO. CC



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Inserito in data 30/05/2012
TAR PUGLIA BARI, SEZ. I, 24 maggio 2012, n. 1019

Sulla legittimità dell’esclusione da una gara di un’offerta presentata in via telematica.

  • Il Collegio pugliese, intervenendo in merito ad una procedura telematica ex art. 125 D. Lgs n. 163/2006, ricorda l’imprescindibile necessità della firma elettronica digitale – come definita e disciplinata dal D. Lgs n. 82/2005 – a completamento dell’offerta presentata in via telematica;
  • Considerando tale previsione quale norma imperativa prevalente sulle contrastanti prescrizioni legislative anteriori e su quelle di natura regolamentare, i Giudici baresi rigettano il ricorso presentato dalla ditta esclusa per l’omessa sottoscrizione;
  • Per tali motivi, inoltre, la stessa ricorrente - secondo il condivisibile principio affermato da Cons. Stato, Ad. Plen., 7 aprile 2011, n. 4 - non è nemmeno legittimata a proporre doglianze avverso la partecipazione di altre imprese alla gara. CC


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Inserito in data 30/05/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, Grande Sezione, 22 maggio 2012, C-348/09

Sull’allontanamento dallo Stato membro per violenza sessuale ai danni di un minore.

La Corte UE, disponendo l’allontanamento di un soggetto che ha commesso un simile reato, specifica, però, che l’adozione di un provvedimento del genere è sempre subordinato alla condizione che il comportamento della persona rappresenti una minaccia reale e attuale per un interesse fondamentale di tale Stato. CC



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Inserito in data 26/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 maggio 2012, n. 3039

Autorizzazioni regionali a realizzare impianti eolici e nullità per difetto assoluto di attribuzione.

[Le autorizzazione paesaggistiche regionali - ai sensi dell’art. 159 d.lgs. n. 42 del 2004 -, indebitamente rilasciate prima dell’avvio dei lavori della conferenza di servizi, finalizzata al rilascio delle autorizzazioni uniche regionali - ex art. 12 d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387] erano non meramente illegittime, ma irrilevanti: vale a dire - posto che ciò che, pur avendo un’apparente veste giuridica, non produce effetto alcuno è in diritto nullo – nulle , e con loro nullo tutto quel procedimento, alla luce dell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, e - considera il Collegio, sulla scorta del rilievo dell’appellante che quella normativa qui “non trova applicazione”, perché esiste una normativa ad hoc - per difetto assoluto di attribuzione. Non si poteva infatti procedere all’azione amministrativa circa questi impianti con le codicistiche sequenze e le loro interlocuzioni successive e a distanza, perché la legge dettava in loro luogo e in relazione anche a quella cura di interessi la speciale – e ben altra per struttura concentrata, poteri da esercitare e schema procedimentale - forma dell’art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003. Dunque erano atti permanentemente improduttivi di effetti. Si tratta qui, invero, non di una questione circa il concreto cattivo uso di un potere dato, ma di uso di un potere non dato dalla legge. Si deve, a questo proposito, aver riguardo non alla semplice competenza alla cura di un interesse e alla sua manifestazione con un atto quale che sia, ma alla sequenza che lo deve comprendere in cui va contestualizzato e all’interlocuzione definita dall’apposito modello legale di procedimento. La regolamentazione del singolo procedimento amministrativo infatti – si rileva da tempo – rappresenta non solo la forma dell’azione amministrativa, ma anche la sua sostanza e la sua organizzazione intima, in particolare per ciò che riguarda la distribuzione del potere, la cooperazione dei soggetti coinvolti nello e dall’esercizio del potere stesso, la formazione del contenuto della decisione. Le particolari modalità di interlocuzione – temporali, soggettive, dialettiche - plasmano l’assetto, voluto dalla legge che regola il singolo procedimento, della supremazia pubblica e della sua capacità di incidenza nei comportamenti altrimenti liberi. Perciò, nel giudizio circa un’azione pubblica, è essenziale la rilevazione preliminare - che astrae dal modo con cui poi nel caso singolo si è sviluppata - dell’attribuzione di questa specifica capacità ad opera della legge, cioè dell’attribuzione del procedimento. Vi è coerente, in sede processuale, il dato che il Codice del processo amministrativo prevede la rilevabilità d’ufficio della nullità (art. 31, comma 4), che è logicamente prioritaria perché il giudizio di annullabilità (art. 29), che postula necessariamente uno specifico interesse a ricorrere e implica un’efficacia interinale o per acquiescenza dell’atto illegittimo, concerne soltanto l’esercizio di un potere attribuito dalla legge: diversamente, in deroga al principio di legalità, quella speciale efficacia sarebbe data ad un’interlocuzione sul potere che la legge in realtà non contempla.

[Anche con riguardo al] duplice procedimento di autorizzazione unica regionale, ai sensi dell’art. 12 d.lgs. n. 387 del 2003 ... vi è nullità: anzitutto per difetto assoluto di attribuzione. Il semplice fatto dell’insorgenza del dissenso qualificato [del Ministero per i beni e le Attività culturali] in conferenza di servizi poneva infatti irrimediabilmente fine alla possibilità di esercizio, cioè all’attribuzione, del potere mediante quel modulo e da parte di quell’autorità per assegnarlo ad un’autorità altra e diversa. Sicché cessava (salva l’ipotesi di decisione conforme al dissenso) la sussistenza della capacità che vi ineriva, specie per gli atti conseguenti, e rendeva necessaria la devoluzione, per proseguire nel senso che è stato praticato, a ben altro e distante livello di governo e di modo di confronto degli interessi. Quell’altro livello è di dignità pari a quella dell’implicazione in esso del corrispondente organo costituzionale, e va posto in relazione alla concreta incidenza, manifestata con questo dissenso qualificato del Soprintendente, sul principio fondamentale dell’art. 9 Cost., norma che costituzionalizza e al massimo rango la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. La sottrazione della decisione circa una tale incidenza a quel livello, e alle inerenti modalità e forme di riparto e distribuzione del potere, rappresenta un esercizio di attività amministrativa ormai senza più alcun titolo di competenza e dunque svolta in carenza dell’attribuzione di legge. Non solo: sempre alla luce dell’art. 21-septies, vi è anche nullità delle stesse autorizzazioni uniche regionali per un’insanabile loro manchevolezza strutturale, cioè per difetto dell’elemento essenziale dell’assenza di dissensi qualificati nella previa conferenza di servizi (che è una forma di mancanza di un’essenziale volontà amministrativa a che la conferenza di servizi possa aver seguito nella direzione dell’istanza). La Regione Molise, una volta emerso in conferenza di servizi - senza pregiudizio proprio in virtù di quella preesistente nullità - il motivato dissenso dell’autorità statale preposta alla tutela dell’interesse paesaggistico, era completamente sfornita del potere di adottare la determinazione favorevole conclusiva all’esito dei lavori delle conferenze di servizi. Anziché censurare, senza potere, quell’espressione di dissenso qualificato, come detto essa avrebbe dovuto – per eventualmente superarlo – senz’altro rimettere la questione all’istanza superiore, investita in via esclusiva dalla legge del confronto degli interessi rivelati in conflitto. Non vi era qui dunque necessità, da parte dell’Amministrazione statale, di impugnazione di dette autorizzazioni uniche nel termine decadenziale previsto per l’atto illegittimo e indipendentemente da ogni questione, per questo ultronea, circa la mancata comunicazione, la pubblicazione in Bollettino ufficiale solo per estratto o la piena conoscenza da parte ministeriale delle autorizzazioni uniche medesime. FT



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Inserito in data 26/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 maggio 2012, n. 2974

Danno risarcibile: perdita di chance e certezza. Sufficienza tutela ripristinatoria. Natura dell’accesso.

Il danno, per essere risarcibile, deve essere certo e non meramente probabile, o comunque deve esservi una rilevante probabilità del risultato utile e ciò è quello che distingue la chance risarcibile dalla mera e astratta possibilità del risultato utile, che costituisce aspettativa di fatto, come tale irrisarcibile. In tal senso, la giurisprudenza ha ancorato il risarcimento del danno cd. “da perdita di chance” a indefettibili presupposti di certezza dello stesso, escludendo il caso in cui l’atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una “eventualità” di conseguimento del bene della vita. Ed infatti, in tale ultimo caso, risulta pienamente esaustiva la tutela ripristinatoria offerta dall’annullamento e dalle sue conseguenze. In ogni caso, non si è ritenuto configurabile un danno risarcibile per equivalente, allorché, per effetto dell’annullamento del provvedimento amministrativo (nel caso considerato, aggiudicazione), vi sia ripetizione della attività amministrativa, e quindi il ripristino della chance del concorrente. Nelle ipotesi di risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, la prova dell’esistenza del medesimo interviene in base ad una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua “certezza”, la quale presuppone: a) l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale della quale possa assumersi essere intervenuta una lesione (e, laddove vi sia esercizio di potere, tale posizione sostanziale è l’interesse legittimo); b) quindi, l’esistenza di una lesione, che sussiste sia laddove questo possa essere a tutta evidenza e concretamente riscontrato, sia laddove vi sia “una rilevante probabilità del risultato utile” frustrata dall’agire illegittimo dell’amministrazione. Quanto a questo secondo aspetto, l’esame della sussistenza del danno da perdita di chance interviene: a) o attraverso la constatazione in concreto della sua esistenza, ottenuta attraverso elementi probatori (ad esempio, con riferimento alle gare d’appalto, si è in presenza di un contratto eseguito o in esecuzione, che avrebbe dovuto essere certamente eseguito da una diversa impresa partecipante alla gara, in luogo di quella beneficiaria di aggiudicazione illegittima); b) o attraverso una articolazione di argomentazioni logiche, che, sulla base di un processo deduttivo rigorosamente sorvegliato, inducano a concludere per la sua sussistenza; c) ovvero ancora attraverso un processo deduttivo secondo il criterio, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, del c.d. “più probabile che non” (Cass. civ., n. 22022/2010), e cioè “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata dai dati della comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali”.

Nel caso dei procedimenti di gara o di concorso, la posizione giuridica sostanziale del partecipante assurge sicuramente ad interesse legittimo (pretensivo) con riferimento all’ammissione a partecipare al procedimento, ovvero in relazione ad una valutazione delle prove svolte o dell’offerta presentata immune da vizi di legittimità. Tali situazioni giuridiche, tuttavia, possono ricevere tutela - sol che il titolare la richieda onerandosi del rispetto delle norme procedurali previste - eminentemente sul piano ripristinatorio, mediante annullamento del provvedimento illegittimo e, prima ancora, mediante l’adozione di provvedimenti cautelari da parte del giudice. Ciò in quanto, nell’interesse legittimo pretensivo, l’oggetto della posizione, tale da definirne il contenuto sostanziale (nel cd. lato interno della relazione), non è un “bene” già esistente nel patrimonio giuridico del titolare, bensì la stessa possibilità di conseguimento di un’utilitas per il tramite dell’esercizio del potere amministrativo. E’ del tutto evidente che l’illegittimo esercizio del potere comporta un “vulnus” per la posizione giuridica di interesse legittimo. Ma tale vulnus – afferendo, in tutta evidenza, ad una situazione dinamica di possibilità di conseguimento di una utilitas – non può che ricevere riparazione se non per il tramite di una tutela del tipo ripristinatorio, per mezzo, cioè, dell’annullamento dell’atto, che consente il riesercizio del potere amministrativo, e quindi il ristabilirsi della “chance di conseguimento dell’utilità finale”. E ciò con la sola eccezione – come affermano le stesse Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 6594/2011 cit.; ma in tal senso già la sent. n. 500/1999) – di ipotesi di istanze obiettivamente fondate, tali definibili sulla base della situazione concreta dell’istante, dell’assetto normativo applicabile al caso di specie, e del concreto modus agendi, in ipotesi analoghe, della Pubblica Amministrazione. A maggior ragione, il mero interesse procedimentale, l’interesse alla correttezza della complessiva gestione del procedimento da parte dell’amministrazione secondo le regole che lo governano, si pone come situazione meramente strumentale alla tutela di una posizione di interesse legittimo. Pertanto, esso non solo non è risarcibile in sé (in quanto, diversamente opinando, si costruirebbe l’interesse legittimo come generica pretesa alla legittimità dell’azione amministrativa), ma rifluisce nella più generale considerazione dell’interesse legittimo pretensivo (al quale è strumentale), e degli strumenti di tutela per questo esperibili.

L’Adunanza Plenaria (dec. 18 aprile 2006 n. 6), pur assumendo che il “procedere all’esatta qualificazione della natura della posizione soggettiva coinvolta” non riveste utilità “nella specie”, procede, in sostanza, ad una vera e propria “declassificazione” del diritto di accesso, non più ritenuto posizione sostanziale autonoma (non fornendo essa “utilità finali”), ma solamente un potere di natura procedimentale, avente finalità strumentali di tutela di posizioni sostanziali propriamente dette, sia di diritto soggettivo, sia di interesse legittimo. In tal modo, l’arresto dell’Adunanza Plenaria ha inteso superare sia configurazioni della posizione “diritto di accesso” che, facendo leva sul carattere impugnatorio del giudizio, lo hanno in precedenza configurato come interesse legittimo, sia posizioni che, facendo leva sul carattere vincolato del potere esercitato dall’amministrazione in sede di accesso, lo hanno, invece, definito come autonomo diritto soggettivo. In adesione a quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, rileva il Collegio che, se è vero che la legge si esprime in termini di “diritto di accesso”, è altrettanto vero come di tale espressione deve essere sottolineato l’uso affatto atecnico. E ciò in quanto è ben evidente la “strumentalità” dell’accesso collegato alla “tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, come si evinceva dal precedente testo dell’art. 22 l. n. 241/1990, ed ora dalla definizione dei soggetti “interessati”, contenuta nel medesimo articolo. Né sembra assumere valore rilevante (al fine di condurre ad una diversa interpretazione) la circostanza che, nella medesima disposizione, l’accesso è ritenuto attinente “ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Giova, innanzi tutto, osservare che ciò che il legislatore in questo caso considera non è il “diritto di accesso” in quanto posizione soggettiva, bensì “l’accesso” come fenomeno, cioè inteso oggettivamente come concreta esplicazione di attività. Inoltre, l’essere un istituto (in questo caso, l’accesso) considerato livello essenziale di una prestazione concernente i diritti civili e sociali non comporta affatto che l’istituto stesso costituisca di per sé una posizione sostanziale o, più propriamente, un diritto, e non una posizione strumentale. Anzi, se esso attiene alle prestazioni che i pubblici poteri devono garantire “verso” i diritti civili e sociali, ancora una volta risalta non già la sostanzialità autonoma, bensì la strumentalità della posizione denominata “diritto di accesso”. Il diritto di accesso si presenta, dunque, come posizione strumentale riconosciuta ad un soggetto che sia già titolare di una diversa “situazione giuridicamente tutelata”, (diritto soggettivo o interesse legittimo, e, nei casi ammessi, esponenzialità di interessi collettivi o diffusi) e che abbia, in collegamento a quest’ultima, un interesse diretto, concreto ed attuale ad acquisire mediante accesso uno o più documenti amministrativi. FT



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Inserito in data 26/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 maggio 2012, n. 2917

Dichiarazione illegittimità a soli fini risarcitori e necessità di una specifica domanda di risarcimento.

Ad avviso del Collegio, la stessa ben chiara formulazione dell’art. 30, comma 5, cod. proc. amm. ragionevolmente esclude la praticabilità di letture restrittive del surriportato comma 3 dell’art. 34 dello stesso codice, nel senso – cioè – che laddove l’ “l’interesse ai fini risarcitori” ivi contemplato non risulti ancora concretizzato dalla parte ricorrente tramite la presentazione formale di una specifica domanda giudiziale, non competerebbe al giudice investito della domanda di annullamento rilevare “ex officio” l’ipotetica presenza di un interesse la cui azionabilità è ancora nel potere della parte interessata; ovvero – e detto altrimenti – non potrebbe sostenersi che il predetto comma 3 va interpretato nel senso che, in seguito ad una semplice segnalazione della parte ricorrente, o addirittura d’ufficio, lo stesso giudice ab origine adito mediante la sola domanda di annullamento non debba verificare la sussistenza di un interesse ai fini risarcitori. Infatti, questa lettura restrittiva dell’art. 34, comma 3, cod. proc. amm. non solo si risolve in un’interpretazione palesemente contra legem avuto riguardo all’anzidetto, inequivoco tenore letterale del predetto (e correlato) art. 30, comma 5, dello stesso codice, ma trova - a ben vedere - il più solido argomento contrario nella stessa “positivizzazione” del principio dell’autonomia dell’azione risarcitoria complessivamente disposta per lo ius novum dall’art. 30 cod. proc. amm. e, per le fattispecie insorte in precedenza della sua entrata in vigore, dalla pronuncia pretoria di Cons. Stato, A. P. , 23 marzo 2011 n. 3. L’evenienza per cui, dopo la pronuncia del giudice, non sia poi proposta l’azione risarcitoria non giova – a ben vedere - alla medesima interpretazione restrittiva: e ciò in quanto nella statuizione del giudice che accoglie il ricorso è naturaliter insito l’assunto per cui la sua pronuncia non reca un annullamento, ma una mera dichiarazione di illegittimità degli atti impugnati al solo, eventuale, fine risarcitorio. La pubblica amministrazione soccombente, infatti, non è di per sé tenuta ad alcuna azione amministrativa per effetto di tale pronuncia dichiarativa del giudice, potendo soltanto discretivamente e del tutto autonomamente agire in via di autotutela a’ sensi dell’art. 21-nonies della L. 7 agosto 1990 n. 241 come inserito dall’art. 14, comma 1, della L. 11 febbraio 2005 n. 15; e, correlativamente, la parte vincitrice non può avvalersi della statuizione anzidetta al fine di ottenere la materiale caducazione ope iudicis degli atti da lei a suo tempo impugnati, ovvero di altri atti a essi conseguenti, ma può solo proporre la conseguente azione risarcitoria. Va anche rimarcato che con la statuizione dichiarativa dell’illegittimità degli atti impugnati ai soli ed eventuali fini risarcitori questo giudice non si esprime sul fumus boni iuris della susseguente azione risarcitoria, ma afferma la sussistenza in via meramente astratta dei presupposti per la proposizione dell’azione stessa, lasciando – ferma ovviamente restando l’affermazione dell’illegittimità degli atti impugnati - ogni ulteriore valutazione in concreto al giudice competente a’ sensi dell’art. 30, comma 3, cod. proc. amm. a pronunciarsi sull’esistenza e sulla quantificazione del danno, ossia la considerazione di “tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti”, con l’espressa esclusione ex lege – in applicazione del generale principio contenuto nell’art. 1227 c.c. - del “risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”. FT



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Inserito in data 26/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 maggio 2012, n. 2857

Eccezione di giurisdizione in appello e abuso del processo. Regressione tariffe per prestazioni sanitarie.

L’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito in primo grado non può essere sollevata dalla parte che vi ha dato luogo agendo in primo grado mediante la scelta del giudice del quale poi, nel contesto dell'appello, disconosce e contesta la giurisdizione. Ritenere il contrario, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi di correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda proposta a giudice carente di giurisdizione, non rilevata d'ufficio, attribuire alla parte la facoltà di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell'esito negativo della controversia. Tale conclusione è stata ribadita da una recente (ed articolata) sentenza che ha richiamato anche le modifiche alle regole processuali che governano la rilevazione del difetto di giurisdizione (articolo 9 c.p.a.) e il generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto.

Non appare contestabile che le scelte e le domande proposte in giudizio debbano essere vagliate anche alla stregua del concreto risultato perseguito dalle parte e della sua conformità agli scopi voluti dall’ordinamento. Per tale ragione si deve allora ritenere, in applicazione delle regole processuali di cui al decreto legislativo n. 104/2010 ed in funzione del principio generale che colpisce il divieto dell’abuso del diritto con la sanzione del rifiuto della tutela, volta ad impedire il conseguimento dell’obiettivo non correttamente perseguito, che sia inammissibile il motivo di appello con cui la parte ricorrente in primo grado ha sollevato il difetto di giurisdizione del giudice adito. A tale considerazione va aggiunto che, entrato in vigore il codice del processo amministrativo, il difetto di giurisdizione nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione (articolo 9 cpa) e dunque essere eccepito solo dalla parte che rispetto alla decisione del giudice di primo grado è rimasta sul punto soccombente.

Atteso il carattere autoritativo e pubblicistico della potestà programmatoria regionale, il mancato o ritardato adempimento di alcuni adempimenti di natura procedimentale [di monitoraggio e di comunicazione dei dati], come quelli lamentati dalla appellante, non esclude la potestà dell’amministrazione di imporre la regressione tariffaria allo scopo di contenere la remunerazione complessiva delle prestazioni nei limiti fissati, né comporta l’obbligo per l’amministrazione sanitaria di acquistare prestazioni sanitarie impiegando risorse superiori a quelle disponibili, permanendo, fondamentale ed ineludibile, l’esigenza di contenimento della spesa pubblica sanitaria nei limiti fissati dalle delibere regionali di programmazione.

La decisione di primo grado sarebbe erronea sia perché i giudici di prime cure avrebbero dovuto ritenere illegittimo un abbattimento tariffario applicato dopo due anni dalla chiusura dell'esercizio, sia perché nella fattispecie concreta vi sarebbe stata una lesione dell'affidamento mancando anche la comparazione tra l'interesse pubblico che l'amministrazione intendeva realizzare e quello privato. La censura non merita accoglimento. Altra decisione della Sezione ha già escluso la lesione del principio dell’affidamento perché non è contemplata dal sistema un'impensabile decadenza del relativo potere. Infatti, la fissazione dei limiti di spesa e l'applicazione delle regressioni tariffarie volte a garantire l'effettività di tali limiti, anche se tardive e con sostanziale portata retroattiva, rappresentano comunque l'adempimento di un preciso ed ineludibile obbligo, che influisce sulla possibilità stessa di attingere le risorse necessarie per remunerare le prestazioni erogate. Al riguardo, inoltre, va richiamato anche quanto chiarito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo la quale non può sostenersi che la retroattività dell'atto di determinazione della spesa vale ad impedire agli interessati - in contrasto con elementari principi - di disporre di un qualunque punto di riferimento regolatore per lo svolgimento della loro attività. È evidente che in un sistema nel quale è fisiologica la sopravvenienza dell'atto determinativo della spesa, solo in epoca successiva all'inizio di erogazione del servizio, gli interessati potranno aver riguardo - fino a quando non risulti adottato un provvedimento - all'entità delle somme contemplate per le prestazioni dei professionisti o delle strutture sanitarie dell'anno precedente, diminuite, ovviamente, della riduzione della spesa sanitaria effettuata dalle norme finanziarie dell'anno in corso. La linea interpretativa rappresentata in questa sede, è d'altra parte la sola che consente di garantire il raggiungimento dell'obiettivo di carattere primario e fondamentale del settore sanitario che è la garanzia di quella che la sentenza n. 509 del 2000 della Corte Costituzionale chiama "nucleo irriducibile" del diritto alla salute. FT



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Inserito in data 23/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 maggio 2012, n. 2847

E’ possibile valutare nel giudizio amministrativo una c.t.u. espletata in altro giudizio.

Il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, come qualsiasi altra produzione delle parti stesse e può, quindi, avvalersi anche di una consulenza tecnica ammessa ed espletata in diverso procedimento, valutandone liberamente gli accertamenti ed i suggerimenti una volta che la relativa relazione peritale sia stata ritualmente prodotta dalla parte interessata. SL



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Inserito in data 23/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 maggio 2012, n. 2845

Le indagini attitudinali dei candidati preliminari all’arruolamento nelle forze armate sono tipica espressione di discrezionalità tecnica, come tale insindacabile in sede giurisdizionale.

Le selezioni attitudinali per l'arruolamento, infatti, non attengono alla verifica del profilo sanitario dei candidati, ma sono dirette all'accertamento del possesso dell'attitudine all'espletamento degli specifici compiti degli ufficiali dell’Arma, rispetto ai quali acquista particolare rilievo la personalità, il controllo dei propri impulsi, l’equilibrio,la fermezza, l’autostima; la capacità di esprimere in modo sereno, chiaro ed efficace le proprie opinioni; la percezione esatta del proprio ruolo e dei propri doveri.

Come tali, pertanto, esse attengono certamente al merito dell'azione amministrativa, rimanendo riservato agli organi tecnici cui compete valutare la sussistenza, o meno, dell'idoneità richiesta dalla legge quale presupposto per l'arruolamento, alla stregua delle cognizioni tecniche di settore. SL



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Inserito in data 23/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 maggio 2012, n. 2842

Sulle spese e gli onorari di giudizio.

La statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisca espressione di un ampio potere discrezionale, come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate. SL



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Inserito in data 23/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 17 maggio 2012, n. 2839

In materia di strumenti urbanistici, va esclusa, al momento dell'impugnazione, la configurabilità di interessi qualificati alla loro conservazione e, quindi, di controinteressati in senso formale.

Senonché, tale principio, se è certamente applicabile nell'ipotesi di approvazione di piani regolatori generali, in cui l'agire pubblico è esclusivamente inteso a predisporre un ordinato assetto del territorio comunale prescindendo dalle posizioni dei titolari di diritti reali e dai vantaggi o svantaggi che ad essi possano derivare dalla pianificazione, non è perfettamente sovrapponibile nell'ipotesi di un piano esecutivo predisposto ad iniziativa di parte, configurandosi in tal caso titolari di posizioni specifiche direttamente incise dall'operato dell'Amministrazione, individuabili nei soggetti promotori del progetto confluito nello strumento approvato, che dalla eventuale caducazione di quest'ultimo ricevano una diretta e immediata lesione degli interessi qualificati di cui sono portatori. SL



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Inserito in data 22/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 11 maggio 2012, n. 14

Pratiche commerciali scorrette, sanzione: actio finium regundorum tra Antitrust e Banca d’Italia.

Questa Adunanza Plenaria condivide l’assunto di base secondo cui l’actio finium regundorum tra Antitrust e Banca d’Italia deve iscriversi in una più ampia analisi avente a oggetto il rapporto tra la normativa generale in materia di tutela del consumatore e la disciplina di settore del credito e del risparmio; una volta acclarato tale assetto normativo, finalizzato a individuare la disciplina da applicare in concreto, potrà essere individuata l’Autorità chiamata a intervenire nella fattispecie in esame, quale Autorità preposta alla tutela del corpo normativo di cui si è individuata l’applicazione.

A tal fine sovviene l’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, ai sensi del quale, in caso di contrasto, prevalgono le norme che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette. In sostanza, tale norma si iscrive nell’ambito del principio di specialità (principio immanente e di portata generale sul piano sanzionatorio nel nostro ordinamento, come si evince dall’art. 15 cod. pen. e dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981), ai sensi del quale non si può fare contemporanea applicazione di due differenti disposizioni normative che disciplinano la stessa fattispecie, ove una delle due disposizioni presenti tutti gli elementi dell’altra e aggiunga un ulteriore elemento di specificità (o per aggiunta o per qualificazione); in altri termini, le due norme astrattamente applicabili potrebbero essere raffigurate come cerchi concentrici, di cui quello più grande è quello caratterizzato dalla specificità. Nè all’applicazione del principio di specialità può opporsi che debba esistere una situazione di contrasto tra i due plessi normativi: difatti, ad una lettura più meditata, occorre ritenere che tale presupposto consista in una difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole. Ed invero, al riguardo può concretamente soccorrere quanto previsto dal considerando 10 della direttiva 2005/209/CE (testo normativo recepito nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 206 del 2005), secondo cui la disciplina di carattere generale si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali; in pratica, essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore. Alla luce di questa impostazione occorre leggere, pertanto, quanto previsto all’art. 3, comma 4, della medesima direttiva, trasfuso nell’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, secondo cui prevale la disciplina specifica in caso di contrasto con quella generale: il presupposto dell’applicabilità della norma di settore non può essere individuato solo in una situazione di vera e propria antinomia normativa tra disciplina generale e speciale, poiché tale interpretazione in pratica vanificherebbe la portata del principio affermato nel considerando 10, confinandolo a situazioni eccezionali di incompatibilità tra discipline concorrenti. Occorre, invece, leggere il termine conflict (o conflit), usato nella direttiva nelle versioni in inglese (e francese) e tradotto nel testo italiano come “contrasto”, come diversità di disciplina, poiché la voluntas legis appare essere inequivocabilmente quella di evitare una sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata, a favore della disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta. In altre parole, la disciplina generale va considerata quale livello minimo essenziale di tutela, cui la disciplina speciale offre elementi aggiuntivi e di specificazione.

Orbene, alla luce del principio testé affermato, occorre impostare il rapporto tra la disciplina contenuta nel Codice del consumo e quella dettata dal testo unico approvato col d.lgs. n. 385 del 1993. Al riguardo, occorre ribadire e precisare quanto già evidenziato dal primo giudice, e cioè che il t.u.b. – quanto meno nella versione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa – non contiene alcuna disposizione intesa a perseguire, direttamente o indirettamente, finalità di tutela del consumatore. Ciò si ricava, innanzi tutto, dal chiaro disposto del suo art. 5, laddove i poteri di vigilanza e repressivi attribuiti alla Banca d’Italia sono stati ricondotti “…alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”; a tali finalità, il successivo art. 127 aggiunge poi quelle relative “alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela”. Risulta dunque confermato che il d.lgs. n. 385 del 1993, nella versione che qui interessa, era volto a perseguire finalità le quali, ancorché genericamente riconducibili al corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore di riferimento, non comprendono fra di esse la tutela del consumatore in quanto tale. In particolare, resta fuori dall’area del controllo e delle possibili sanzioni la fase antecedente il contatto diretto tra operatore finanziario e risparmiatore finalizzato all’acquisto di un prodotto finanziario presso lo sportello bancario o presso gli uffici dell’operatore. D’altra parte, se si sposta l’attenzione sulle condotte sanzionate da Antitrust nel caso di specie, appare evidente che esse si connotano precipuamente per la loro stretta correlazione con l’acquisto di beni presso esercizi commerciali, rispetto al quale la stipula di un contratto di credito o l’acquisto di un prodotto finanziario appaiono chiaramente accessori e marginali; in altri termini, si tratta di vicende in occasione delle quali la società odierna appellante – che pure è incontestabilmente un operatore del mercato finanziario, come tale soggetto anche alla disciplina del t.u.b. – ha agito utilizzando un approccio e delle tecniche informative assimilabili a quelle più generalmente proprie degli operatori e professionisti cui è applicabile il Codice del consumo. In definitiva, non potrebbe giammai pervenirsi, con riguardo al caso che occupa, a un giudizio di insussistenza della competenza di Antitrust, proprio per la ravvisata carenza nella normativa di settore di qualsivoglia riferimento alla tutela dei consumatori in quanto tali. FT



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Inserito in data 22/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA DELLE SEZIONI RIUNITE PRIMA E SECONDA, parere 7 maggio 2012, n. 2131

Giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario: procedura di accesso agli atti e parità delle armi.

Il procedimento di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario conduce a qualificare il rimedio come tendenzialmente giurisdizionale nella sostanza, ma formalmente amministrativo. Né l’equiparazione alla giurisdizione può dirsi piena. Infatti il ricorso straordinario rimane un giudizio di tipo impugnatorio a carattere demolitorio nel cui ambito non sono proponibili azioni di mero accertamento, come quelle previste dal c.p.a. in tema di rito per l'accesso agli atti amministrativi o contro il silenzio-inadempimento della Pubblica Amministrazione. Il processo amministrativo invece è imperniato su una panoplia di azioni di varia natura tutte tese a garantire la piena effettività della giurisdizione. Il ricorso straordinario, poi, si chiude con l’adozione del decreto del Capo dello Stato, che, dal punto di vista formale, non è una sentenza, non essendo il Capo dello Stato un organo giurisdizionale. Inoltre, anche se dopo la riforma il parere del Consiglio di Stato è vincolante, non può escludersi che il Capo dello Stato, per motivi di legittimità (ad es., attinenti all’esistenza di vizi revocatori) ne chieda il riesame, restituendo il decreto al Ministero. Inoltre l’istruttoria sul ricorso spetta all’Amministrazione. Proprio su tale punto la disciplina del ricorso straordinario si appalesa ormai lacunosa. Il modello di istruttoria previsto dal d.P.R. 1199/1971, basato sull'affidamento dell’indagine e dell’acquisizione degli atti rilevanti alle strutture ministeriali, senza contraddittorio orale con le parti, e con esclusione di strumenti come la consulenza tecnica d'ufficio che invece sono entrati nel processo amministrativo, risulta lontano dal modulo processuale. Il contraddittorio previsto dall'attuale disciplina è di tipo scritto, difettando una disciplina di pubblicità del dibattimento. Il ricorso al diritto di accesso strumentalmente diretto a realizzare il contraddittorio costituisce l’innovazione “pretoria” che ha consentito di assicurare la parità delle armi, coniugandola con le caratteristiche dell’istruttoria amministrativa.

Quanto ai documenti acquisiti ed agli eventuali atti difensionali che siano stati già depositati dalle altre parti, purchè anteriormente all’esito dell’istruttoria, essi rimarranno conoscibili a mezzo di apposita istanza di accesso, sempre che sia stata formulata in qualsiasi momento durante l’istruttoria e senza che per la sua formulazione occorrano forme particolari o sacramentali. L’istanza di accesso può essere presentata sia contestualmente al ricorso, sia anche in ogni momento nel corso dell’istruttoria, in ogni caso nessuna ulteriore dichiarazione può essere inoltrata dalle parti dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 11 del D.P.R. 1199/1971 per l’espletamento di tale attività. Il Consiglio di Stato ritiene, infatti, per economia dei mezzi, che il contraddittorio tra le parti debba necessariamente concludersi nell’ambito della fase istruttoria che si svolge innanzi all’Amministrazione. Ciò al fine di distinguere nettamente la fase istruttoria e la fase decisoria del procedimento. In conseguenza di ciò può dirsi che, con la trasmissione degli atti al Consiglio di Stato per il parere, si realizzi una preclusione istruttoria, del tutto simile a quella che nel processo deriva dalla spedizione della causa a sentenza. Inoltre, si aggiunge che qualora le parti abbiano manifestato tempestivamente l’intenzione di accedere agli atti dell’istruttoria, l’Amministrazione dovrà consentire l’accesso agli atti del procedimento, fissando un termine congruo per l’eventuale deposito di memorie, deduzioni difensive e documenti identico per tutte le parti (in modo da non favorirne alcune). Dopo il termine per le repliche non v’è spazio per un ulteriore accesso alle repliche ed un ulteriore termine per le controrepliche, poiché le cadenze normativamente previste per l’istruttoria non lo permetterebbero. Ciò non significa che il Consiglio di Stato non possa restituire gli atti all’amministrazione per permettere l’esercizio del diritto di accesso (con conseguente regressione del procedimento) le quante volte siano emersi, con la relazione o nel corso dell’istruttoria, fatti nuovi o nuove esigenze processuali di fatto o di diritto in ordine alle quali sia necessario stabilire un compiuto contraddittorio. Ciò ovviamente potrà avvenire anche nel caso in cui una parte richieda l’accesso agli atti, sia pure tardivamente, oltre il termine di legge previsto per la chiusura dell’istruttoria e dopo la trasmissione degli atti al Consiglio di Stato evidenziando la necessità di un ulteriore momento di specifico contraddittorio procedimentale. Sono invece da escludere ulteriori istanze di accesso, successive alla definizione dell’istruttoria, non potendosi concedere termini ulteriori, né proroghe di quello già assegnato: nell’ipotesi contraria il procedimento non avrà mai fine, o si aprirebbe ad un contraddittorio giurisdizionale analogo a quello di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a. (ciò che non risulta previsto dalla normativa vigente la quale deve sempre rimanere rispettosa della scelta giurisdizionale negativa che è stata compiuta da tutte le parti del ricorso straordinario). Relativamente al termine da assegnarsi a tutte le parti per presentazione di memorie, può considerarsi congruo qualunque termine che sia ragionevole; tale in linea di massima potrebbe considerarsi ogni termine dell’ordine di trenta giorni, decorrente dalla comunicazione dell’accoglimento dell’istanza di accesso. Ordinariamente ne deriva che l’istruttoria, che - ai sensi degli articoli 9 e 10 del d.P.R. n. 1199 del 1971 – dura massimo centoottanta giorni, deve essere conclusa in centocinquanta giorni, per tener conto dei trenta giorni del termine successivo all’accesso delle parti alla documentazione. Ma nei casi in cui non fosse possibile rispettare il termine dei centocinquanta giorni resta inteso che una volta scaduto il termine di trenta giorni (o l’altro termine congruo) successivo all’accesso, l’affare deve immediatamente essere trasmesso al Consiglio di Stato.

A fronte di questo quadro d’insieme della procedura di accesso agli atti, resta evidentemente auspicabile una riforma normativa che sia in grado di disciplinarla puntualmente al fine di rendere effettivi i principi del contraddittorio e della parità delle armi, considerando l’ormai consolidata tendenza di ritenere il ricorso straordinario al Capo dello Stato uno strumento sostanzialmente giurisdizionale e, comunque, considerata l’opportunità di ricorrere ampiamente all’informatica per risolvere i problemi organizzativi divisati. FT



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Inserito in data 17/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2012, n. 2748

Impugnazione ordinanze contingibili ed urgenti (ex art. 50 e 54 T.U.E.L) e contraddittorio.

Nel caso in cui vengano impugnate ordinanze contingibili ed urgenti, nonostante esse siano state adottate dal Sindaco, in qualità di ufficiale di governo, il contraddittorio deve  essere ritualmente instaurato nei confronti della sola amministrazione comunale, e non invece, nei confronti dell’Avvocatura dello Stato.

 Ciò sul rilievo in base al quale pur nell’esercizio di funzioni statali il Sindaco rimane incardinato presso l’ente locale, con conseguente imputazione a quest’ultimo gli effetti del provvedimento emanato all’esito di un procedimento avviato, istruito, e concluso interamente all’interno dell'amministrazione comunale. SL



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Inserito in data 17/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2012, n. 2744

Anche in sede di ottemperanza può essere disposta la c.d. penalità di mora (art. 114 co. 4 lett. e c.p.a).

La misura prevista dall’art. 114 comma 4 lettera e) del c.p.a. va ,infatti, considerata applicabile anche alle sentenze di condanna pecuniarie della p.a., trattandosi di un modello normativo caratterizzato da importanti differenze rispetto alla previsione di cui all’art. 614-bis c.p.c., (applicabile solo alla violazione di obblighi di fare infungibile o di non fare).

La citata misura assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non è volta a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento.

Nel processo amministrativo l’istituto presenta un portata applicativa più ampia che nel processo civile, in quanto l’art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.

Detta soluzione va ricondotta alla peculiarità del rimedio dell’ottemperanza che, grazie al potere sostitutivo esercitabile dal giudice in via diretta o mediante la nomina di un commissario ad acta, non trova, a differenza del giudizio di esecuzione civile, l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario; ne deriva che, nel sistema processuale amministrativo, lo strumento in esame non mira a compensare gli ostacoli derivanti dalla non diretta coercibilità degli obblighi di contegno sanciti dalla sentenza del giudice civile mentre del rimedio processule civilistico è volto alla generale finalità di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza. SL



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Inserito in data 17/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 maggio 2012, n. 2743

Principi in tema di espropriazione.

1)L’accettazione dell'indennità di esproprio non esclude l'interesse a far riscontrare le eventuali illegittimità del procedimento di espropriazione ed occupazione d'urgenza, in vista anche del maggior ristoro che il privato può ottenere a titolo risarcitorio dell'accertata illiceità conseguente all'annullamento degli atti di sottrazione del bene.

2) Nell’ambito del procedimento di espropriazione ai fini della validità della notifica, in caso di contrasto tra i dati risultanti dalla copia di relata allegata all'originale e i dati risultanti dalla copia consegnata al destinatario, occorre far riferimento alle risultanze ricavabili dalla copia in possesso del destinatario, perché è su questa che la parte citata regola il proprio comportamento processuale, senza che sia necessario per disattendere esse risultanze la presentazione di querela di falso, indispensabile per eliminare la piena prova che le diverse attestazioni contenute nella copia e nell'originale rispettivamente fanno per ciascuno degli interessati. SL



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Inserito in data 15/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 11 maggio 2012, n. 11

Actio finium regundorum tra AGCOM e Antitrust in materia di “Ricarica nei servizi di telefonia mobile”

  • Il Supremo Consesso amministrativo, applicando il principio di specialità tra Autorità cc.dd. trasversali, quali l’AGCOM e l’Antitrust, ricorda l’impossibilità di applicare contemporaneamente due diverse discipline che regolino contemporaneamente una medesima fattispecie;
  • Nel caso concreto, infatti, data la simultanea presenza di entrambi i suddetti Organi in materia di pratiche commerciali scorrette nel settore della telefonia mobile, il Massimo Collegio non esita a riscontrare un’incoerenza con il generale principio del buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost.;
  • Pertanto, chiarito come oggetto di tale analisi sia il rapporto tra la normativa generale in materia di tutela del consumatore e la disciplina di settore delle comunicazioni elettroniche, i Giudici amministrativi ritengono più congruo l’intervento dell’Autorità demandata al controllo delle comunicazioni;
  • Non vi è, infatti, la sola finalità di tutela della concorrenza e di garanzia del pluralismo informativo che avrebbe avallato l’intervento dell’Antitrust, ma viene maggiormente in rilievo l’irrogazione di sanzioni a carico di operatori poco leali sul mercato della telefonia;
  • E’, pertanto, più adeguato l’intervento dell’AGCOM, oltreché più coerente con il dettato costituzionale che invoca un buon andamento, potenzialmente compromesso da esiti distonici dei due procedimenti che, altrimenti, si sarebbero potuti avere. CC


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Inserito in data 15/05/2012
TAR CALABRIA, REGGIO CALABRIA, 9 maggio 2012, n. 333

Sollevata q.l.c. in merito alle modalità di vendita attualmente previste per le parafarmacie.

Il Collegio calabrese rimette ai Giudici della Consulta questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 comma 1 del Decreto legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto 2006 n. 248, in relazione agli artt. 3, e 41 della Costituzione, nella parte in cui non consente agli esercizi commerciali ivi previsti (c.d. parafarmacie) la vendita di medicinali di fascia C soggetti a prescrizione medica. CC



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Inserito in data 15/05/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, 10 maggio 2012, C-357/10

Il Giudice europeo a favore della libertà di stabilimento e di prestazione di servizi.

La Corte UE, non consentendo che un operatore economico sia tenuto a disporre di un capitale sociale interamente versato di 10 milioni di Euro per essere abilitato alla riscossione dei tributi locali, censura una disposizione simile vigente in Italia. Il Giudice europeo, infatti, ravvedendovi un limite alla libertà di stabilimento, valuta la disciplina italiana come eccessiva rispetto all'obiettivo di tutela della pubblica amministrazione contro eventuali inadempimenti degli obblighi dei concessionari incaricati della riscossione di imposte locali. CC



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Inserito in data 11/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 4 maggio 2012, n. 9

Sul fenomeno della “fuga dal regolamento” e sulla natura normativa delle disposizioni di settore.

In primo luogo, deve rilevarsi che, nonostante la crescente diffusione di quel fenomeno efficacemente descritto in termini di “fuga dal regolamento” (che si manifesta, talvolta anche in base ad esplicite indicazioni legislative, tramite l’adozione di atti normativi secondari che si autoqualificano in termini non regolamentari) deve, in linea di principio, escludersi che il potere normativo dei Ministri e, più in generale, del Governo possa esercitarsi medianti atti “atipici”, di natura non regolamentare, specie laddove la norma che attribuisce il potere normativo nulla disponga (come in questo caso) in ordine alla possibilità di utilizzare moduli alternativi e diversi rispetto a quello regolamentare tipizzato dall’art. 17 legge n. 400 del 1988.

In secondo luogo, non può certamente essere condivisa la conclusione secondo cui un atto può essere qualificato come normativo soltanto se si indirizza, indistintamente, a tutti i consociati. L’ordinamento conosce innumerevoli casi di disposizioni “settoriali” della cui natura normativa nessuna dubita. Ciò in quanto la “generalità” e l’“astrattezza” che, come comunemente si riconosce, contraddistinguono la “norma”, non possono e non devono essere intesi nel senso di applicabilità indifferenziata a ciascun soggetto dell’ordinamento, ma, più correttamente, come idoneità alla ripetizione nell’applicazione (generalità) e come capacità di regolare una serie indefinita di casi (astrattezza). Il carattere normativo di un atto non può pertanto essere disconosciuto solo perché esso si applica esclusivamente agli operatori di un settore (nelle specie ai titolari di impianti per la produzione di energia da fonte solare) dovendosi, al contrario, verificare, se, in quel settore, l’atto è comunque dotato dei sopradescritti requisiti della generalità e dell’astrattezza. In relazione a tale profilo, non può non richiamarsi l’elaborazione giurisprudenziale che ormai da tempo, utilizza, proprio, al fine di distinguere tra atto normativo e atto amministrativo generale, il requisito della indeterminabilità dei destinatari, rilevando che è atto normativo quello i cui destinatari sono indeterminabili sia a priori che a posteriori (essendo proprio questa la conseguenza della generalità e dell’astrattezza), mentre l’atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare non una serie indeterminati di casi, ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti.

Proprio alla luce di tali coordinate ermeneutiche deve, nel caso di specie, riconoscersi la natura normativa del decreto ministeriale in questione. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 4 maggio 2012, n. 8

L’insindacabile verifica di regolarità contributiva (art 38 Cod Contr) spetta agli istituti previdenziali.

Ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, anche nel testo vigente anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di “violazione grave” non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto”.

Quanto alla questione del momento in cui deve sussistere la regolarità contributiva e della possibile sanatoria dell’irregolarità in corso di gara, la giurisprudenza di questo Consesso ha affermato che l’assenza del requisito della regolarità contributiva, costituendo condizione di partecipazione alla gara, se non posseduto alla data di scadenza del termine di presentazione dell’offerta, non può che comportare la esclusione del concorrente non adempiente, non potendo valere la regolarizzazione postuma. L’impresa infatti deve essere in regola con i relativi obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare tale regolarità per tutto lo svolgimento della procedura. Costituisce principio pacifico che poiché il momento in cui va verificata la sussistenza del requisito della regolarità contributiva e previdenziale è quello di presentazione della domanda di partecipazione alla gara, la eventuale regolarizzazione successiva, se vale a eliminare il contenzioso tra l’impresa e l’ente previdenziale non può comportare ex post il venir meno della causa di esclusione. Deve escludersi la rilevanza di un eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, quand’anche ricondotto retroattivamente, quanto ad efficacia, al momento della scadenza del termine di pagamento.

Il Consorzio ha partecipato alla gara nella qualità di consorzio fra società cooperative di produzione e lavoro costituito a norma della legge 25 giugno 1909, n. 422, soggetto ammesso ai pubblici appalti ai sensi dell’art. 34, comma, 1, lett. b) d.lgs. 163 del 2006 e dotato di soggettività giuridica autonoma. Pur trattandosi di soggetto con struttura ed identità autonoma rispetto a quella delle cooperative consorziate, il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate, dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti. La diversa opzione ermeneutica condurrebbe invero a conseguenze paradossali in quanto le stringenti garanzie di moralità professionale richieste inderogabilmente ai singoli imprenditori potrebbero essere eluse da cooperative che, attraverso la costituzione di un consorzio con autonoma identità, riuscirebbero di fatto ad eseguire lavori e servizi per le pubbliche amministrazioni alle cui gare non sarebbero state singolarmente ammesse.

Neppure può condividersi l’argomentazione secondo cui il consorzio poteva sostituire il soggetto indicato come esecutore dell’appalto. Giova rammentare sul punto il consolidato orientamento di questo Consesso, in ordine ai limiti entro cui può ammettersi un’a.t.i. “a geometria variabile”, orientamento estensibile alle modifiche soggettive in corso di gara dei consorziati indicati per l’esecuzione dell’appalto. In particolare, il codice appalti indica i casi tassativi in cui è possibile la modifica soggettiva dell’a.t.i. già aggiudicataria, sempre in caso di vicende patologiche che colpiscono il mandante o il mandatario (art. 37, comma 18 e 19).  

Si è osservato che il divieto di modificazione soggettiva non ha l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara. Il rigore di detta disposizione va, infatti, temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari. Tale essendo, dunque, la funzione di detta disposizione è evidente come le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo siano quelle che portano all'aggiunta o alla sostituzione delle imprese partecipanti e non anche quelle che conducono al recesso di una delle imprese del raggruppamento, in tal caso, infatti, le esigenze succitate non risultano affatto frustrate poiché l'amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, sicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi. La tesi più ampia è stata in prosieguo seguita dalla giurisprudenza con alcune puntualizzazioni. Tale orientamento da un lato, non penalizza la stazione appaltante, non creando incertezze, e dall’altro lato non penalizza le imprese, le cui dinamiche non di rado impongono modificazioni soggettive di consorzi e raggruppamenti, per ragioni che prescindono dalla singola gara, e che non possono precluderne la partecipazione se nessun nocumento ne deriva per la stazione appaltante. Né si verifica una violazione della par condicio dei concorrenti, perché non si tratta di introdurre nuovi soggetti in corsa, ma solo di consentire a taluno degli associati o consorziati il recesso, mediante utilizzo dei requisiti dei soggetti residui, già comunque posseduti. Tale soluzione va seguita purché la modifica della compagine soggettiva in senso riduttivo avvenga per esigenze organizzative proprie dell’a.t.i. o consorzio, e non invece per eludere la legge di gara e, in particolare, per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente dell’a.t.i. che viene meno per effetto dell’operazione riduttiva. Nella prospettiva in commento si è osservato anche che il recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non vale a sanare ex post una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti; e che una diversa soluzione ermeneutica, che intendesse impedire il controllo sui requisiti di ammissione delle imprese recedenti, consentirebbe l’elusione delle prescrizioni legali che impongono il possesso dei requisiti stessi in capo ai soggetti originariamente facenti parte del raggruppamento all’atto della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di partecipazione. Alla luce di tale orientamento, che il Collegio condivide, nel caso di specie la sostituzione dell’impresa esecutrice avrebbe sanato ex post il difetto di un requisito di partecipazione, in violazione della par condicio, e pertanto era inammissibile. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 10 maggio 2012, n. 124

Indebito reingresso nello Stato dello straniero espulso: l’arresto obbligatorio è legittimo?

La disciplina dell’espulsione degli stranieri in condizione di soggiorno irregolare è stata profondamente incisa, in primo luogo, dalla direttiva n. 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008 (recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare), il termine per la cui trasposizione è scaduto il 24 dicembre 2010, con assunzione conseguente, nella ricorrenza delle ulteriori condizioni, di diretta efficacia nell’ordinamento nazionale. La citata direttiva disciplina, soprattutto all’art. 11, l’imposizione del divieto agli stranieri espulsi di fare rientro nel territorio dello Stato procedente, stabilendo che tale divieto sia disposto obbligatoriamente o facoltativamente, con valutazione da adottarsi caso per caso, per una durata variabile e normalmente non superiore ai cinque anni, mediante un provvedimento motivato in forma scritta, tradotto in una lingua comprensibile all’interessato e suscettibile di ricorso. Successivamente alle ordinanze di rimessione, la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 28 aprile 2011, C-61/11 PPU, ha stabilito che la direttiva in questione (avuto riguardo agli artt. 15 e 16) osta ad una normativa nazionale che preveda l’irrogazione di pene detentive nei confronti di stranieri in condizione di soggiorno irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio dello Stato, si trattengano nel territorio stesso senza un giustificato motivo. In seguito, la stessa Corte di giustizia (Grande sezione), con la sentenza 6 dicembre 2011, C-329/11, ha stabilito che la direttiva n. 2008/115/CE osta alla previsione di sanzioni detentive nei confronti dello straniero espulso, non disposto ad allontanarsi volontariamente dal territorio dello Stato procedente, prima che siano state interamente sperimentate le procedure coercitive previste dall’art. 8 della direttiva medesima. Sempre nelle more dei giudizi incidentali, è intervenuto il decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 agosto 2011, n. 129. E’ rimasto invariato, pur dopo l’intervento di riforma, il comma 13-ter dell’art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, cioè la norma processuale in materia di arresto che costituisce l’oggetto delle odierne censure. Il testo della norma penale sostanziale cui si riferisce la disposizione censurata, cioè il comma 13 del citato art. 13, è stato modificato nella sola parte in cui, identificando il destinatario del divieto penalmente sanzionato di rientrare in territorio italiano, si riferiva allo «straniero espulso», espressione sostituita con la locuzione «straniero destinatario di un provvedimento di espulsione». Nondimeno, ha subito profonde modifiche il comma 14 del più volte citato art. 13, in punto di durata del divieto di reingresso, di criteri della relativa determinazione ad opera dell’autorità procedente, di condizioni per l’eventuale revoca del provvedimento impositivo. Dunque, è mutata, tra l’altro, la disciplina del provvedimento amministrativo presupposto alla condotta cui si riferiscono le norme penali sostanziali per la cui violazione è previsto l’arresto dello straniero interessato. In caso di mutamento del quadro normativo nel quale si colloca la disposizione oggetto di censura, spetta al giudice rimettente la valutazione degli effetti della successione di leggi nella disciplina del caso concreto sottoposto al suo giudizio. Questa Corte, d’altra parte, ha più volte stabilito come, nel caso di (ipotetica) irrilevanza penale sopravvenuta della condotta contestata allo straniero nel giudizio principale, anche la valutazione circa la perdurante rilevanza delle questioni concernenti l’arresto debba essere rimessa al giudice del procedimento principale. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 10 maggio 2012, n. 121

Regioni, inesatta conformazione a decisioni Corte Costituzionale,  potere sostitutivo del Governo.

La Regione lamenta che la previsione, contenuta nella norma impugnata, dell’esercizio da parte del Governo del potere sostitutivo, «in caso di mancata o non esatta conformazione alle decisioni di cui al comma 14», sia viziata da illegittimità costituzionale per motivi sia sostanziali sia procedurali. Dal punto di vista sostanziale, secondo la ricorrente, la legge statale attribuirebbe al Governo nazionale una sorta di potere di interpretazione autentica delle sentenze di questa Corte, poiché prevede l’esercizio del potere sostitutivo non solo nell’ipotesi di mancata conformazione di una Regione ad una sentenza, ma anche in quella di conformazione «non esatta». La censura non è condivisibile. L’art. 120 Cost. – esplicitamente richiamato dalla disposizione impugnata – pone tra i presupposti per l’esercizio del potere sostitutivo «la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Il Governo potrebbe ritenere che l’inerzia di una Regione nell’applicare una sentenza di questa Corte o la sua applicazione distorta siano idonee a ledere l’unità giuridica della Repubblica o la sua unità economica, determinando disarmonie e scompensi tra i vari territori proprio in relazione a decisioni del giudice delle leggi, che, per definizione, hanno una finalità unitaria, sia quando definiscono, sotto specifici profili, i criteri di riparto delle competenze tra Stato e Regioni, sia quando incidono sul contenuto sostanziale delle norme statali o regionali in rapporto a singole fattispecie. Gli eventuali squilibri e distorsioni in sede applicativa acquisterebbero ancor maggiore rilevanza se le decisioni costituzionali da applicare riguardassero i diritti civili e sociali delle persone, per i quali la Costituzione prevede una tutela rafforzata quanto alla unitarietà, risultante dal combinato disposto degli artt. 117, secondo comma, lettera m), e 120, secondo comma, Cost. Ove la singola Regione destinataria dell’esercizio del potere sostitutivo del Governo ritenesse errata l’interpretazione data da quest’ultimo di una o più decisioni di questa Corte poste a base dell’iniziativa statale, potrebbe, a tutela della propria autonomia, attivare i rimedi giurisdizionali ritenuti adeguati, ivi compreso il conflitto di attribuzione. L’ordinamento prevede, cioè, strumenti idonei ad evitare che l’interpretazione governativa delle decisioni di questa Corte possa essere unilateralmente imposta alle Regioni. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 10 maggio 2012, n. 117

Equa riparazione per irragionevole durata di un processo amministrativo: competenza territoriale.

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) - nella parte in cui, secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, «dispone che la competenza territoriale funzionale della Corte di appello determinata ai sensi dell’art. 11 c.p.p. si estende anche ai procedimenti iniziati avanti alla Corte dei conti ed alle altre giurisdizioni di cui all’art. 103 Cost.» - in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, 25, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 10 maggio 2012, n. 115

Sull’onere di provare la copertura delle spese conseguenti all’adozione di una legge.

La formulazione dell’art. 81 co. 4 Cost. non lascia dubbi sul fatto che la legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia n. 10 del 2011, in quanto nuova e latrice di oneri, debba individuare, sia pure in via presuntiva, i mezzi finanziari necessari per la sua attuazione. Il rispetto di questo precetto costituzionale comporta infatti l’onere di provare la copertura delle spese conseguenti all’adozione di una legge, ogniqualvolta in essa siano previsti – ancorché sotto forma di riorganizzazione delle strutture esistenti – nuovi servizi e nuove dotazioni di risorse umane e tecniche. Come è stato già affermato da questa Corte, non si può assumere che mancando nella legge ogni indicazione della così detta “copertura”, cioè dei mezzi per far fronte alla nuova o maggiore spesa, si debba per questo solo fatto presumere che la legge non implichi nessun onere o nessun maggiore onere. La mancanza o l’esistenza di un onere si desume dall’oggetto della legge e dal contenuto di essa. Nella fattispecie in esame lo stesso legislatore regionale ammette, peraltro, la possibilità di un ulteriore fabbisogno finanziario rispetto agli stanziamenti delle partite, cui vengono imputati gli oneri afferenti allo svolgimento dei nuovi servizi. Ove la nuova spesa si ritenga sostenibile senza ricorrere alla individuazione di ulteriori risorse, per effetto di una più efficiente e sinergica utilizzazione delle somme allocate nella stessa partita di bilancio per promiscue finalità, la pretesa autosufficienza non può comunque essere affermata apoditticamente, ma va corredata da adeguata dimostrazione economica e contabile. Essa consiste, come già affermato da questa Corte, nella chiara quantificazione – con riguardo alle partite di bilancio, ove si assume un’eccedenza di risorse utilizzabili per la nuova o maggiore spesa – degli oneri presumibilmente ad essa conseguenti e della relativa copertura. Non può essere condivisa la tesi della Regione autonoma resistente, secondo cui costituirebbe sufficiente ottemperanza al principio di copertura dell’art. 81, quarto comma, Cost., la formale indicazione di poste di bilancio dell’esercizio in corso ove convivono, in modo promiscuo ed indistinto sotto il profilo della pertinente quantificazione, i finanziamenti di precedenti leggi regionali. Questa Corte ha già avuto modo di sottolineare che l’equilibrio tendenziale dei bilanci pubblici non si realizza soltanto attraverso il rispetto del meccanismo autorizzatorio della spesa, il quale viene salvaguardato dal limite dello stanziamento di bilancio, ma anche mediante la preventiva quantificazione e copertura degli oneri derivanti da nuove disposizioni. La stima e la copertura in sede preventiva, effettuate in modo credibile e ragionevolmente argomentato secondo le regole dell’esperienza e della pratica contabile, salvaguardano la gestione finanziaria dalle inevitabili sopravvenienze passive che conseguono all’avvio di nuove attività e servizi. Non convince in proposito l’argomentazione regionale per cui la nuova imputazione sulle poste del bilancio 2011 e del bilancio triennale 2011-2013 comporterebbe un’implicita ed automatica riduzione degli oneri delle leggi antecedenti ad esse correlate. La riduzione di precedenti autorizzazioni deve essere sempre espressa e analiticamente quantificata, in quanto idonea a compensare esattamente gli oneri indotti dalla nuova previsione legislativa. Si tratta di un principio finanziario immanente all’ordinamento, enunciato esplicitamente all’art. 81, quarto comma, Cost., di diretta applicazione secondo la costante interpretazione di questa Corte. Nel caso in esame l’esigenza del rispetto di analitiche quantificazioni delle diverse spese su partite di bilancio promiscue appare ancor più indefettibile in presenza di attività che impegneranno il bilancio della Regione in modo continuativo negli esercizi futuri. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 3 maggio 2012, n. 111

Art 145 Cod Assicurazioni e ragionevolezza dei condizionamenti dell’accesso alla giurisdizione.

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 145 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private, di seguito c.d.a.) nella parte in cui, al comma 1, subordina la proponibilità della domanda giudiziaria di risarcimento del danno alla persona, riportato in conseguenza di sinistro stradale, al decorso del c.d. spatium deliberandi di 90 giorni in capo all’assicuratore, decorrente dal giorno in cui il danneggiato abbia presentato all’impresa di assicurazione un’istanza di risarcimento del danno, a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento, avendo osservato le modalità e i contenuti previsti dall’articolo 148 c.d.a. Sostiene, in premessa, il giudice a quo che, dal combinato disposto delle due riferite disposizioni, derivi un indubbio svantaggio per il danneggiato, su cui grava un maggior onere di allegazione e di prova ai fini dell’accesso alla giurisdizione, che, ai sensi del previgente articolo 22 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 (Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), gli era viceversa consentito sulla base di una previa richiesta risarcitoria anche incompleta o di meri atti equipollenti.

La questione non è fondata. I numerosi profili di censura, in relazione ai molteplici parametri evocati dal rimettente, ruotano tutti, infatti, intorno alla medesima argomentazione: quella, cioè, per cui l’onere di conformazione della previa richiesta risarcitoria ex art. 145 ai contenuti prescritti dall’art. 148 c.d.a. menomi, sul piano sostanziale e processuale, la tutela del danneggiato. Ma è proprio tale premessa di fondo, comune ad ogni sub-articolazione della sostanzialmente unica questione sollevata, che non risulta condivisibile. Trascura, infatti, il rimettente di adeguatamente considerare il nesso funzionale che, all’interno della normativa denunciata, lega le prescrizioni formali, a carico del richiedente, all’«offerta congrua» che, sulla base della richiesta così formulata, è fatto obbligo all’assicuratore di presentare al danneggiato, in prospettiva di una satisfattiva soluzione della controversia già in fase stragiudiziale, ed anche ai fini di razionalizzazione del contenzioso giudiziario, notoriamente inflazionato, nella materia dei sinistri stradali, anche da liti bagatellari. Vale a dire che – non venendo in discussione il condizionamento ex se dell’accesso alla giurisdizione, la cui compatibilità con il precetto dell’art. 24 Cost., ove giustificato da esigenze di ordine generale, è stata, reiteratamente, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte – quel che il rimettente denuncia come irragionevole, ed eccessivamente oneroso per l’interessato, e cioè l’“irrigidimento del filtro all’accesso alla giurisdizione”, si rivela come un meccanismo la cui ratio è, in realtà, quella di rafforzare, e non già quella di indebolire, le possibilità di difesa offerte al danneggiato, attraverso il raccordo, come detto, dell’onere di diligenza, a suo carico, con l’obbligo di cooperazione imposto all’assicuratore. Il quale, proprio in ragione della prescritta specificità di contenuto della istanza risarcitoria, non potrà agevolmente o pretestuosamente disattenderla, essendo tenuto alla formulazione di una proposta adeguata nel quantum. Il che – oltre, e prima ancora, che alla razionalizzazione dell’accesso alla giurisdizione ed alla sua funzionalizzazione, nel settore, ad una tutela di qualità – è volto, appunto, a rendere possibile una anticipata e satisfattiva tutela del danneggiato già nella fase stragiudiziale. FT



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Inserito in data 11/05/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 3 maggio 2012, n. 110

Illegittima presunzione di adeguatezza della custodia cautelare per i reati ex art 473 e 474 cp.

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275 co. 3, secondo periodo, c.p.p. , [come modificato dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009], nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 416 c.p., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 [Contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali]e 474 [Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi] c.p. , è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

È stato rilevato come, alla luce dei principi costituzionali di riferimento – segnatamente, il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete. A questi canoni si conforma la disciplina generale del codice di procedura penale, basata sulla tipizzazione di un «ventaglio» di misure di gravità crescente (artt. 281-285) e sulla correlata enunciazione del principio di «adeguatezza» (art. 275, comma 1), in applicazione del quale il giudice è tenuto a scegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a soddisfare le esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e, conseguentemente, a far ricorso alla misura “massima” (la custodia cautelare in carcere) solo quando ogni altra misura risulti inadeguata (art. 275, comma 3, primo periodo). Da tali coordinate si discosta vistosamente la disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p. che ... stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari, e assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata, ove la presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile alternativa. A tale proposito, questa Corte ha ribadito che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit e che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.

Particolarmente significativa, ai fini dello scrutinio della presente questione di legittimità costituzionale, è la sentenza n. 231 del 2011, con la quale è stata dichiarata illegittima la presunzione de qua in riferimento a una fattispecie associativa. Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza che il delitto di associazione di tipo mafioso è «normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti. Caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso. Sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti”». La sentenza n. 231 del 2011 ha escluso che altrettanto possa dirsi per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, che si concreta «in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine (i delitti previsti dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990)»; si tratta, dunque, di «fattispecie, per così dire, “aperta”, che, descrivendo in definitiva solo lo scopo dell’associazione e non anche specifiche qualità di essa, si presta a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i più diversi ed eterogenei». Le argomentazioni appena richiamate sono riferibili anche al delitto di associazione per delinquere realizzato allo scopo di commettere i reati di cui agli artt. 473 e 474 c.p. FT



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Inserito in data 08/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 4 maggio 2012, n. 10

Sulla tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 38 Cod. Appalti, in caso di cessione.

  • Il Supremo Consesso, ricomponendo un contrasto in merito alla portata dell’art. 38 del Codice De Lise, ne chiarisce la portata in caso di cessione di un ramo di azienda ad altra partecipante ad una gara.
  • Occorre, proprio in ossequio alla finalità di salvaguardare un certo rigore morale, che il cessionario presenti la dichiarazione relativa al requisito di cui all’art. 38, comma 2, lett. c), del D.Lgs. n. 163 del 2006 anche in riferimento agli amministratori ed ai direttori tecnici che hanno operato presso la cedente nell’ultimo triennio;
  • E che, ove riesca a provare la completa cesura tra la vecchia e la nuova società, sia tenuto a fornire la documentazione suddetta solo quale extrema ratio. CC


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Inserito in data 08/05/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, 26 aprile 2012, C-508/10

Ancora una pronuncia a favore del migrante di lungo periodo; limite alla discrezionalità di ogni Stato.

La Corte UE, conformandosi alle ultime espressioni in merito, emette un ulteriore monito a carico di ciascun singolo Stato e a favore dei cc.dd. migranti di lungo periodo.

E’ vietato, in sostanza, esigere contributi eccessivi e sproporzionati per il rilascio di permessi di soggiorno ai cittadini di paesi terzi e ai loro familiari.

Infatti, l’importo dei contributi non deve costituire un ostacolo all’esercizio dei diritti riconosciuti dall’Unione, né pregiudicare l’integrazione tra i popoli, fortemente agognata dal Giudice europeo. CC



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Inserito in data 05/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 maggio 2012, n. 2565

Nomina a direttore generale della Asl; natura giuridica dell’incarico e profili di giurisdizione.

Il Collegio ricorda come, benché la formazione di un elenco di soggetti professionalmente idonei integri un procedimento del tutto autonomo, rispetto al successivo procedimento di nomina, nel cui ambito l’interesse degli aspiranti ad essere inseriti nell’elenco avrebbe la consistenza del diritto soggettivo, Esso provvede ugualmente per evitare uno sdoppiamento di tutela, alla stregua del Giudice di primo grado.

Ciò risponde, oltreché ad un’indubbia ratio di economia processuale, anche alla natura vincolata che è sottostante alla ricerca di una qualificata formazione ed attività professionale di direzione tecnica o amministrativa – quale quella per cui concorre l’odierno appellante. CC



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Inserito in data 05/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 maggio 2012, n. 2557

Sulla tassatività delle norme e dei criteri di partecipazione di cui all’art. 38 del Codice De Lise.

  • Il requisito del deposito delle autocertificazioni per tutti i singoli amministratori della società è tassativo e a pena di esclusione, in conformità alle disposizioni dell’art. 38 del Codice degli appalti;
  • Non ha alcuna rilevanza che tale prescrizione non fosse ripetuta nel capitolato speciale, trattandosi, nel caso in esame, di documenti complementari nel sistema unitario dei documenti di gara;
  • Non è, dunque,  ammissibile – ad avviso del Collegio - la censura mossa dall’appellante avverso la pronuncia di primo grado che non aveva provveduto a rimetterla in termini, al fine di consentire il completamento dei documenti, non avendovi ravvisato alcun errore scusabile. CC


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Inserito in data 05/05/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, GRANDE SEZIONE, 2 maggio 2012, C- 406/10

Il linguaggio di programmazione di un software non può essere tutelato dal diritto d'autore.

La Grande Sezione della Corte di giustizia dell'Ue, ricordando che la Direttiva sulla tutela giuridica dei programmi per elaboratore «estende la tutela conferita dal diritto d'autore a tutte le forme di espressione della creazione intellettuale propria dell'autore di un programma per elaboratore», afferma che le idee e i principi alla base di qualsiasi elemento di un programma di software  non sono tutelati dal diritto d'autore a norma della stessa Direttiva. CC



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Inserito in data 03/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 aprile 2012, n. 2486

Il collocamento “fuori ruolo” dei dipendenti pubblici e, segnatamente, dei magistrati al fine di svolgere attività extraistituzionali (art. 58 d.p.r. 3/57; art. 13 l. 217/01).

In via generale, il collocamento “fuori ruolo” costituisce un istituto modificativo del rapporto di impiego comportante una diversa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, con diretta ed immediata incidenza sull’amministrazione di appartenenza.

Prestazione lavorativa che, comunque, resta sempre una prestazione resa ad una pubblica amministrazione e nel pubblico interesse, in conformità all’art. 98, primo comma, Cost.

Alla luce di ciò, appare del tutto ragionevole che l’amministrazione di appartenenza valuti il proprio interesse all’espletamento di compiti extraistituzionali da parte del proprio dipendente, e che, quindi, essa valuti anche l’arricchimento professionale che dallo svolgimento dell’incarico “aliunde” il dipendente riceve e che, di conseguenza, si risolve in un arricchimento dell’amministrazione di appartenenza presso la quale il detto dipendente rientrerà a svolgere le proprie originarie funzioni.

 Il collocamento “fuori ruolo”, dunque, deve essere inteso come “naturalmente ad tempus” e può essere disposto laddove esso sia previsto da un’ esplicita disposizione normativa ed entro limiti numerici, predefiniti in relazione all’organico di ciascuna pubblica amministrazione.

Inoltre, lo svolgimento dell’incarico comportante il “fuori ruolo” da parte del dipendente deve corrispondere ad un interesse dell’amministrazione di appartenenza ed essere estraneo ai compiti istituzionali di questa.

 Specificatamente, inoltre, per ciò che concerne i magistrati l’incarico in posizione di “fuori ruolo” può essere assentito solo entro limiti temporali e numerici e sempre che corrisponda ad un interesse della magistratura di appartenenza.

In tali ipotesi, peraltro, l’interesse dell’amministrazione allo svolgimento dell’incarico da parte del magistrato deve essere più rigorosamente valutato, oltre che alla luce di quanto sopra esposto, anche escludendo che detto incarico – per la natura dell’amministrazione richiedente e per le sue concrete caratteristiche – possa compromettere, anche in futuro, non solo l’intrinseca indipendenza e terzietà del magistrato, ma anche la percezione dei cittadini in ordine ad uno svolgimento indipendente (da parte dello stesso magistrato) della funzione giurisdizionale.

E’ in questi sensi e limiti che i competenti organi delle magistrature (e dell’Avvocatura dello Stato, nei limiti in cui quanto ora affermato è ad essa riferibile) esercitano il proprio potere discrezionale in merito alla assentibilità degli incarichi extraistituzionali, ed in particolari di quelli comportanti il collocamento in posizione di fuori ruolo. SL



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Inserito in data 03/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 aprile 2012, n. 2485

E’ legittima l’esclusione dalle liste elettorali (art. 58, co.1 lett. c) d.lgs. 267/00) del candidato condannato, con sentenza definitiva, per i reati di truffa aggravata, falso ideologico ed abuso d’ufficio, avvinti dal vincolo della continuazione.

Risultano infondate, infatti, le censure di carattere sostanziale volte a contestare la qualificazione, come fattispecie ostative, dei reati di falso ideologico e tentata truffa, in ragione dell’insussistenza del presupposto della commissione delle condotte anzidette con l’abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizi (cui fa espresso riferimento l’art. 58 co. 1 lett. c.) d.lgs. cit.)

L’ art. 58, comma 1, lett. c), d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 deve essere implicitamente interpretato come una norma di chiusura, volta ad includere nell’area della norma inabilitante, aperta e residuale, tutti i comportamenti non specificamente previsti, ma ugualmente lesivi dell'interesse protetto. Con la conseguenza che la predetta causa ostativa impedisce l’assunzione di pubblici uffici elettivi da parte di soggetti che a qualsiasi titolo siano rimasti implicati, con una condotta penalmente rilevante, nella commissione di illeciti penali commessi con abuso di poteri e violazione di doveri inerenti ad una pubblica funzione e ad un pubblico servizio.

In particolare, in caso di unificazione dei reati nel vincolo della continuazione, l’unicità del disegno criminoso che avvince le singole condotte ai sensi del capoverso dell’art. 81 del codice penale impedisce una valutazione atomistica delle singole fattispecie criminose e mette in luce il collegamento di tutti i comportamenti criminosi con l’abuso di poteri e la violazione dei doveri che connotano, alla stregua di elemento costitutivo, l’integrazione del reato proprio di abuso d’ufficio. SL



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Inserito in data 03/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2012, n. 2444

Il provvedimento di sospensione prefettizio, che anticipa gli effetti del provvedimento di scioglimento del Consiglio Comunale non necessita di motivazione nel caso di dimissioni ultra dimidium.

Il contenuto del provvedimento cautelare anzidetto deve, infatti, essere motivato in relazione alle cause che lo determinano. Ma rappresentando l'atto di rassegnazione delle dimissioni contestuali della metà più uno dei Consiglieri comunali che compongono il Consiglio un atto giuridico in senso stretto, cioè un atto i cui effetti giuridici non dipendono dalla volontà dell'agente, ma sono disposti dall'ordinamento, senza riguardo all'intenzione di colui che li pone in essere (atto irrevocabile, non ricettizio e immediatamente efficace), i motivi di necessità e gravità che ne hanno determinato l’emanazione sono deducibili ipso iure dalle stesse cause dello scioglimento. SL



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Inserito in data 01/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 aprile 2012, n. 2472

Idoneità nelle prove fisiche: una soglia identica per i due sessi viola il principio di pari opportunità.

Ad avviso della Sezione è immune da censure la scelta dell’Amministrazione di qualificare nel bando concorsuale le prove di efficienza fisica alla stessa stregua delle prove d’esame (scritte e orali), prevedendo per esse l’attribuzione ai candidati di un punteggio destinato a sommarsi a quelli riportati nelle altre prove concorsuali, e quindi a incidere nella determinazione della graduatoria finale. Ciò che, invece, è suscettibile di produrre effetti indiretti discriminatori e distorsivi degli esiti della procedura è la previsione di identici punteggi per i candidati dei due sessi, sia in termini assoluti che con riguardo all’individuazione della “soglia” minima che gli aspiranti dovevano superare (in ciascuna delle quattro prove e nel punteggio complessivo) per non essere giudicati inidonei. Tale identità si scontra con il dato di comune esperienza per cui le caratteristiche dei due sessi comportano potenzialità differenziate fra di essi quanto alla possibilità di conseguimento di determinati standard di rendimento nelle attività comportanti sforzo fisico; in altri termini (e per restare al caso che occupa), come è dato evincere da una seppur sommaria consultazione degli annali relativi a determinate specialità sportive, ben diversi sono i risultati che gli uomini e le donne possono conseguire quanto al tempo impiegato per percorrere 1000 metri di corsa, ovvero 25 metri a nuoto, o ancora per eseguire un certo numero di flessioni sulle braccia. Pertanto, una disciplina concorsuale che fissi identici livelli di riferimento per i due sessi nella valutazione delle prove fisiche appare ex se contrastante con gli evocati principi in tema di pari opportunità, oltre che con il più generale principio di eguaglianza (nella comune accezione che non solo impone di trattare in modo identico situazioni identiche, ma impedisce anche di trattare in modo identico situazioni oggettivamente diverse).

A fronte dei rilievi che precedono, poco pregio hanno gli opposti rilievi dell’Amministrazione appellata, laddove evidenzia il livello poco elevato delle ricordate “soglie” minime previste per le prove di efficienza, ciò che sarebbe dimostrato dal fatto che più di un candidato di sesso femminile è rientrato fra i vincitori. Innanzi tutto, l’argomentazione risulta basata su un’impropria valutazione “empirica” ex post, laddove è evidente che la verifica sulla sussistenza o meno di profili discriminatori va condotta ex ante e la sua conclusione positiva non è esclusa per il semplice fatto che, malgrado la sussistenza della discriminazione, taluno dei soggetti discriminati sia riuscito – in ipotesi – a superare egualmente la prova concorsuale.

In secondo luogo, il carattere discriminatorio della disciplina va apprezzato non soltanto con riferimento alla sua idoneità a impedire in toto il superamento del concorso, ma anche sotto il profilo della sua capacità di incidere sui punteggi conseguiti e quindi sulla graduatoria finale, in modo da precostituire un’ingiusta posizione di vantaggio per i candidati di sesso maschile. FT



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Inserito in data 01/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2012, n. 2456

Obbligo di distanze minime tra impianti di carburante: costituisce restrizione a libertà di stabilimento.

La disciplina nazionale in materia di installazione degli impianti di carburante e, segnatamente, quella relativa agli obblighi di distanze minime (d.lgs. n. 32 del 1998 e legislazione regionale attuativa cui è rimessa, ai sensi dell’art. 1, co. 2, del medesimo decreto, l’adozione di norme di indirizzo programmatico attraverso le quali sono introdotti gli obblighi di rispetto delle distanze minime), deve essere ritenuta del tutto superata alla luce di recente pronuncia della Corte di giustizia UE in relazione alle norme ed ai principi posti a tutela della liberà di stabilimento (cfr. Corte giustizia Unione europea, 11 marzo 2010, n. 384/08). L’art. 43 Ce (ora art. 49 TFUE), letto in combinato disposto con l’art. 48 Ce (ora art. 54 TFUE), è stato interpretato nel senso che una normativa di diritto interno come quella italiana, che prevede distanze minime obbligatorie fra gli impianti stradali di distribuzione di carburanti, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento sancita dal trattato; una disciplina del genere, infatti, applicandosi unicamente ad impianti nuovi e non ad impianti già esistenti prima della sua entrata in vigore, pone condizioni all’accesso all’attività della distribuzione di carburanti e, favorendo gli operatori già presenti sul territorio italiano, è idonea a scoraggiare, se non ad impedire, l’accesso al mercato da parte di imprenditori comunitari.

Né sono stati riconosciuti seriamente applicabili i motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare restrizioni alla concorrenza e ciò per diversi ordini di ragioni. E’ stato infatti evidenziato che: a) i limiti rinvenibili nella normativa italiana a tutela della salute, dell’ambiente, della sicurezza stradale non sono adeguati e proporzionati posto che si applicano solo ai nuovi impianti di distribuzione e non a quelli preesistenti; b) i controlli per la tutela dei suindicati interessi pubblici possono essere efficacemente demandati al concreto riscontro dell’autorità competente, senza inadeguate limitazioni generali basate sul calcolo delle distanze; c) la tutela dei consumatori, sub specie di “razionalizzazione del servizio reso agli utenti della rete distributiva”, costituisce un motivo economico e non un motivo imperativo di interesse generale; d) in ogni caso tale “razionalizzazione” si rivela, sul piano pratico, un espediente per favorire gli operatori già presenti sul territorio. FT



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Inserito in data 01/05/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2012, n. 2447

Dichiarazione sostitutiva non veritiera e decadenza dai benefici: la PA non ha margini di discrezionalità.

La giurisprudenza amministrativa ha più volte rilevato che, in base all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, non lasciando tale disposizione alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni che si avvedano della non veridicità delle dichiarazioni. Inoltre, l’art. 75, comma 1, del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 prescinde, per la sua applicazione, dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della non veridicità, rispetto al quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte dal dichiarante. In altre parole, la disposizione in esame non richieda alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, poiché, se così fosse, verrebbe meno la ratio della disciplina che è volta a semplificare l’azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante: il corollario che deve trarsi da tale constatazione è che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l’autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell’Amministrazione sull’elemento soggettivo del dichiarante, perché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in giuoco, ma solo le necessità di spedita esecuzione della legge sottese al sistema della semplificazione. L’accertamento dell’elemento soggettivo, peraltro, può essere rilevante sotto altri profili, ad es. per verificare la sussistenza di un eventuale reato di truffa (art. 640 del c.p.), ma non per applicare le conseguenze decadenziali legate alla non veridicità obiettiva della dichiarazione. FT



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Inserito in data 01/05/2012
TAR SICILIA CATANIA, SEZ. I, 24 aprile 2012, n. 1124

Comune impugna provvedimento commissariale che reitera PRG predisposto e non votato: abuso del diritto.

L’intervento sostitutivo del commissario [di adozione del P.R.G.] si è risolto in una mera adozione di provvedimenti già predisposti dall’amministrazione comunale, senza che lo stesso abbia modificato le scelte già compiute dagli organi del Comune. In pratica, il Commissario ha soltanto provveduto in via sostitutiva rispetto all’inerzia del Consiglio comunale, senza incidere in alcun modo su tutta l’attività predisposta dagli organi del Comune. Ciò significa che il Comune ricorre oggi avverso gli atti dal medesimo predisposti in aperta violazione del divieto di venire contra factum proprium; divieto che s’inscrive nella più ampia figura dell'abuso del diritto derivato dall'operatività, nell’ordinamento giuridico, di un generale principio di condizionamento della tutela del diritto alla sua concreta socialità, cui consegue la valutazione di abusività dell'esercizio dello stesso per finalità che appaiano contrarie a quelle per le quali la posizione di vantaggio viene riconosciuta al titolare. (cfr: Cons. Stato, Ad. Plen n. 3/2011; Cass. SS.UU. n.23726/2007; Cass., sez. I, 3 maggio 2010, n. 10634). Inoltre, in un'ottica marcatamente processualistica, il Consiglio di Stato, nella recente sentenza della V sezione, 7 febbraio 2012 n. 656, ha individuato nel divieto di venire contra factum proprium, un distorto esercizio del potere di ricorso giurisdizionale, paralizzabile con l’exceptio doli generalis, ribadendo l’esistenza di un “principio generale che colpisce il divieto dell’abuso del diritto con la sanzione del rifiuto della tutela”.

Nel caso in esame, peraltro, il provvedimento finale di adozione del P.R.G. non è stato "imposto" dal commissario ad acta, essendosi questo ultimo limitato a riprodurre fedelmente il contenuto della proposta di deliberazione presentata dalla stessa amministrazione. Ne consegue che le eventuali illegittimità censurate nel ricorso sono conseguenza diretta dell’attività (o dell’inattività) dell’amministrazione oggi ricorrente e non del commissario ad acta, con conseguente inammissibilità di una domanda finalizzata all’autocensura di propri atti e comportamenti. FT



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Inserito in data 27/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 24 aprile 2012, n. 7

Accesso a documenti SIAE, confini del diritto dell’associato e delle associazioni di consumatori.

Secondo la Società controinteressata al singolo associato [SIAE] non spetterebbe altra posizione personale, sfera di interesse o status, che non sia riconducibile alla “ripartizione dei proventi dei diritti d’autore tra gli aventi diritto” (Statuto, art. 1, lett. h), per cui non sussisterebbe a beneficio dell’associato altro diritto di accesso che quello collegato e strumentale alla tutela della sfera suddetta. Il Collegio osserva che tale opinione sarebbe da condividere solo se, in base alla normativa statutaria e regolamentare dell’Ente, non fosse individuabile alcuna “posizione personale” dell’associato se non quella collegata alla ripartizione dei diritti d’autore. Ma non è così, perché pare innegabile che anche l’associato che non abbia titolo alla ripartizione di proventi goda pur sempre di una posizione che lo rende titolare di obblighi e diritti diversi ed autonomi rispetto a quello di percepire quanto gli è dovuto i qualità di autore o editore. La normativa interna della Siae conferisce all’associato in quanto tale un ruolo di membro attivo di quel determinato corpo sociale, al cui funzionamento può cooperare in svariate funzioni, e dal quale è destinato a ricevere una serie di benefici ulteriori rispetto a quelli per i quali si è richiesta l’iscrizione.

È  evidente che, ai fini della tutela della sfera giuridica dell’associato in quanto tale, assuma rilievo essenziale la gestione del patrimonio, che la Siae deve utilizzare per l’assolvimento dei suoi compiti “nell’interesse degli associati” (art. 1 Regolamento generale). Appare dirimente, a tale riguardo, la circostanza che, a causa della nota procedura concorsuale riguardante la Lehman Brothers, la Siae abbia subito una perdita nel proprio patrimonio. Il generico interesse dell’associato alla prudente e corretta amministrazione del patrimonio, dalla quale dipende il soddisfacimento delle posizioni attive che si collegano al suo status, assume nella fattispecie un connotato di palpabile concretezza, in relazione alle criticità collegabili ad una perdita finanziaria. L’associato, quindi, in quanto titolare di un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, deve essere considerato soggetto “interessato”, ai sensi dell’art. 2 comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990 (come modificata dall’art. 15 della legge n. 15 del 2005), fonte del diritto all’accesso ai documenti delle pubbliche amministrazioni.

In tale prospettiva, risultano prive di pregio le obiezioni avanzate dalla controinteressata basate sul fatto che i due appellanti non possono dimostrare di aver subito alcun danno nell’area della ripartizione del diritti di autore, posto che tale profilo non esaurisce la sfera degli interessi dei soggetti medesimi nel rapporto con la Siae.

Con la novella di cui alla legge 11 febbraio 2005 n. 15, non solo è stato introdotto nell’art. 24, il comma 3, secondo cui sono inammissibili istanze di accesso “preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”, ma anche e, soprattutto, si è meglio definita la figura del soggetto “interessato” all’accesso, come quello che - come era già prescritto - abbia un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, ma anche che - ed è questa l’innovazione - tale situazione sia “collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”. La puntualizzazione chiarisce che, per stabilire se sussiste il diritto all’accesso, occorre avere riguardo al documento cui si intende accedere, per verificarne l’incidenza, anche potenziale, sull’interesse di cui il soggetto è portatore. In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l’interesse rivendicato possa considerarsi “diretto, concreto e attuale”, essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.

Il patrimonio della Siae deve essere gestito nell’interesse dei soli associati, che, in quanto tali, possono beneficiare di incrementi patrimoniali ed essere esposti a pregiudizi per eventuali perdite. Al contrario, la vasta ed indifferenziata platea dei consumatori e utenti del diritto d’autore, che le appellanti [Codacons e Associazione per la tutela degli utenti dell’informazione, della stampa e del diritto d’autore] intendono rappresentare, non può ricevere alcun nocumento da decurtazioni del patrimonio della Siae né giovarsi in alcun modo del recupero di capitali venuti meno per effetto di investimenti pregressi, cui, invece, è legittimamente interessato il singolo associato. Le associazioni appellanti possono certamente farsi promotrici di iniziative tese ad assicurare legalità dell’azione amministrativa anche nei confronti della Siae, quanto all’esercizio delle attività di interesse pubblico che ad essa competono, ma risultano sprovviste di una posizione differenziata e qualificata che dia titolo ad accedere agli atti riguardanti la gestione del patrimonio, di cui può beneficiare solo la base associativa. FT



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Inserito in data 27/04/2012
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, 19 aprile 2012, n. 401

Compensazione delle spese nel processo amministrativo: divieto di pseudo-motivazione; controllo in appello.

Nei giudizi cui sia applicabile la novella operata dalla legge n. 69/2009 (cioè “ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, ossia a partire dal 4 luglio 2009), le spese del giudizio non potranno essere compensate tra le parti, se non che:

1) nei casi di soccombenza reciproca (e, devesi ritenere, nei limiti di tale reciproca soccombenza);

2) ove concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, ma solo a condizione che esse siano esplicitamente indicate nella motivazione.

Corollari di tali nuovi principi sono i seguenti:

a) non può più ammettersi la pseudo-motivazione, tautologica, in ordine alla sussistenza dei presupposti per la compensazione, sicché non basterà reiterare formule tradizionalmente utilizzate, sostituendo magari la dizione “giusti motivi” con “gravi ed eccezionali ragioni”;

b) l’indicazione di quali queste siano deve essere esplicitata;

c) tale esplicitazione, affinché abbia senso, postula la possibilità di un controllo – esteso anche al merito del relativo apprezzamento sulla gravità ed eccezionalità – del giudice amministrativo di appello.

In particolare, tale controllo dovrà svolgersi in due fasi:

1) verifica di sussistenza di una motivazione esplicita sul punto;

2) verifica di una potenziale condivisibilità di tale motivazione.

Mentre il primo profilo si potrebbe talvolta concludere con la conferma, diversamente motivata, della stessa soluzione raggiunta dal primo giudice (giacché, se effettivamente vi sono ragioni eccezionali, il giudice di appello dovrà darne atto, e non già annullare la sentenza appellata per mero difetto formale, che pure in tal caso sussisterebbe); viceversa il secondo è destinato a comportare la riforma della sentenza che abbia ritenuto eccezionali e gravi, motivi che in effetti non lo sono.

Nel merito, peraltro, appare al Collegio del tutto evidente che non ci possano essere “gravi ed eccezionali ragioni” che giustifichino la compensazione delle spese, giacché il creditore di somma certa, liquida ed esigibile nei confronti di una pubblica amministrazione, che sia stato costretto, dall’inadempimento di questa, a promuovere l’azione di ottemperanza, deve poi – per esclusivo fatto colposo, se non addirittura doloso, del debitore – sopportare i costi del relativo giudizio; ebbene, ove tali costi non gli siano riconosciuti dal giudice, essi si risolvono in una sensibile riduzione effettiva del suo credito pecuniario, peraltro con un’incidenza percentualmente maggiore proprio in quei casi in cui il credito azionato sia di importo non particolarmente elevato. Non v’è dubbio che la liquidazione delle spese debba tener conto del valore della controversia, ma il suo limitato ammontare non può mai essere un motivo di compensazione, se non che a prezzo di rendere beffardo il complessivo esito della vicenda processuale. FT



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Inserito in data 27/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 aprile 2012, n. 109

Sentenze tributarie di appello: l’art 49 dlgs 546/1992 non vieta la sospensione dell’esecuzione.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia dubita della legittimità dell’art. 49, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario), il quale stabilisce che «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto». La suddetta Commissione tributaria afferma che il denunciato comma 1 dell’art. 49 del d.lgs. n. 546 del 1992 víola i parametri costituzionali, nella parte in cui «non prevede la possibilità di sospensione dell’esecutività della sentenza di appello impugnata con ricorso per cassazione, quando dalla sua esecuzione possa derivare all’esecutato un “grave ed irreparabile danno”».

La questione non è fondata, perché la disposizione impugnata può essere interpretata in modo da superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale.

Come già osservato da questa Corte nella sentenza n. 217 del 2010, la lettera della disposizione impugnata consente un’interpretazione diversa da quella accolta dal rimettente. Quest’ultima disposizione testualmente stabilisce che è «esclusa» l’applicazione al processo tributario dell’art. 337 cod. proc. civ. Il primo comma di tale articolo, a sua volta, statuisce che l’impugnazione delle sentenze non ha effetto sospensivo dell’esecuzione di queste, fatte «salve le disposizioni degli artt. 283, 373 […] e 407». Il primo comma dell’art. 373 cod. proc. civ. (fatto salvo, come visto, dal primo comma dell’art. 337 cod. proc. civ.), da un lato, ribadisce che il ricorso per cassazione, al pari delle altre impugnazioni, non sospende l’esecuzione della sentenza e, dall’altro, consente che il giudice di appello, «su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave ed irreparabile danno», disponga «che la esecuzione sia sospesa e che sia prestata congrua cauzione». Una siffatta concatenazione di norme può essere intesa anche nel senso che è «esclusa» l’applicazione al processo tributario della regola (fissata dal primo comma dell’art. 337 cod. proc. civ.) secondo cui le impugnazioni delle sentenze non hanno effetto sospensivo dell’esecuzione di queste. In tal modo si renderebbero applicabili, proprio perché non piú “eccezionali”, le ipotesi di sospensione cautelare dell’esecuzione della sentenza impugnata previste dagli «artt. 283, 373 […] e 407» cod. proc. civ. e fatte salve dallo stesso art. 337 del medesimo codice. FT



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Inserito in data 27/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 aprile 2012, n. 107

Indennizzabilità ex L 210/1992 anche per complicanze di vaccini contro morbillo, parotite e rosolia.

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto ad un indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei confronti di coloro i quali abbiano subìto le conseguenze previste dallo stesso articolo 1, comma 1, a seguito di vaccinazione contro il morbillo, la parotite e la rosolia.

Se nella profilassi delle malattie infettive appaiono decisive le attività di prevenzione, dirette a scongiurare e a contenere il pericolo del contagio, è in ogni caso decisivo il rilievo assunto dalle campagne di sensibilizzazione da parte delle competenti autorità pubbliche allo scopo di raggiungere e rendere partecipe la più ampia fascia di popolazione. In questa prospettiva − nella quale è perfino difficile delimitare con esattezza uno spazio “pubblico” di valutazioni e di deliberazioni (come imputabili a un soggetto collettivo) rispetto a uno “privato” di scelte (come invece imputabili a semplici individui) − i diversi attori finiscono per realizzare un interesse obiettivo − quello della più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia − indipendentemente da una loro specifica volontà di collaborare: e resta del tutto irrilevante, o indifferente, che l’effetto cooperativo sia riconducibile, dal lato attivo, a un obbligo o, piuttosto, a una persuasione o anche, dal lato passivo, all’intento di evitare una sanzione o, piuttosto, di aderire a un invito. In presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore della pratica di vaccinazioni è, infatti, naturale che si sviluppi un generale clima di “affidamento” nei confronti proprio di quanto “raccomandato”: ciò che rende la scelta adesiva dei singoli, al di là delle loro particolari e specifiche motivazioni, di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo. Corrispondentemente a questa sorta di cooperazione involontaria nella cura di un interesse obiettivamente comune, ossia autenticamente pubblico, apparirà naturale reputare che tra collettività e individui si stabiliscano vincoli propriamente solidali, nel senso − soprattutto − che le vicende delle singole persone non possano che essere riguardate anche sotto una prospettiva “integrale”, vale a dire riferita all’intera comunità: con la conseguenza, tra le altre, che, al verificarsi di eventi avversi e di complicanze di tipo permanente a causa di vaccinazioni effettuate nei limiti e secondo le forme di cui alle previste procedure, debba essere, per l’appunto, la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio individuale piuttosto che non i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio collettivo.  Sul piano dei valori garantiti, in Costituzione, dall’art. 2, nonché dall’art. 32, lo sfumare, in altri termini, del rilievo delle motivazioni strettamente soggettive (che possano aver indotto verso le scelte imposte o auspicate dall’amministrazione sanitaria) giustifica la traslazione in capo alla collettività (anch’essa obiettivamente favorita da quelle scelte) degli effetti dannosi eventualmente conseguenti. In un contesto di irrinunciabile solidarietà, del resto, la misura indennitaria appare per se stessa destinata non tanto, come quella risarcitoria, a riparare un danno ingiusto, quanto piuttosto a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo: sarebbe, infatti, irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati. FT



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Inserito in data 24/04/2012
TAR PUGLIA LECCE, SEZ. I, 22 marzo 2012, n. 525

Illegittima Ordinanza del Sindaco: non è censurabile dar nutrimento agli animali randagi.

  • I Giudici pugliesi, accogliendo il ricorso di un’Associazione animalista, evidenziano la contrarietà del provvedimento del Primo cittadino, in contrasto sia con lo spirito della Legge regionale in materia, sia con la Legge quadro nazionale – n. 281/91.
  • Nessuna norma di legge fa divieto di alimentare gli animali randagi nei luoghi in cui essi trovano rifugio o di deporvi alimenti per la nutrizione;
  • L’unica forma di prevenzione legittima ed ammissibile, pertanto, sarebbe un semplice controllo delle nascite e non un mero divieto, quale quello in questa sede censurato. CC


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Inserito in data 24/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 23 aprile 2012, n. 2397

Violazione del contraddittorio processuale; occorre integro ai fini di una decisione semplificata.

  • L’art. 60 CpA prevede l’ammissibilità di una sentenza in forma semplificata anche in sede cautelare, purchè sia integro il contraddittorio;
  • Con la nuova disciplina processuale (art. 27 comma 2° CpA) il Giudice deve ordinare l’integrazione del contradditorio nei casi in cui non siano già maturate decadenze, come appunto nel caso di specie, salva in ogni caso l’adozione di misure cautelari interinali. CC


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Inserito in data 24/04/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, 23 aprile 2012, C-415/10

La normativa dell’UE non contempla il diritto di accesso per il lavoratore escluso in modo iniquo.

Non è previsto, a favore del lavoratore che lamenti come ingiusta la propria esclusione in sede di selezione professionale, l’accesso o la conoscibilità delle informazioni che abbiano spinto il datore di lavoro ad una scelta differente.

Può, semmai, il Giudice nazionale valutare in merito all’effettiva esistenza dei presupposti discriminatori, come addotti dal lavoratore escluso. CC



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Inserito in data 22/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 aprile 2012, n. 2185

Abuso edilizio: la proposizione della domanda in sanatoria rende inefficaci eventuali atti repressivi disposti in precedenza dall’Amministrazione.

Invero, la presentazione della domanda di rilascio di concessione in sanatoria per abusi edilizi impone al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, di talché gli atti, repressivi dell'abuso, in precedenza adottati perdono efficacia, restando ferma la necessità di riproposizione di motivi aggiunti in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria. E’ dunque improcedibile il ricorso introduttivo per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell'abusività dell'opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l'eventuale sanabilità di quanto costruito, ha comportato ex se la formazione di un nuovo provvedimento di rigetto che supera il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa iniziale SL



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Inserito in data 22/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 aprile 2012, n. 2173

Atto di autenticazione delle firme a sostegno di una candidatura: essenziale il rispetto delle modalità di identificazione del dichiarante.

L’ indicazione delle modalità di identificazione costituisce requisito di validità dell’ autenticazione delle firme: quest’ultima, infatti, per poter produrre i suoi speciali effetti probatori, deve precisare come l'identificazione è avvenuta, per esibizione di un documento di riconoscimento o per conoscenza personale.

Non può quindi essere consentita, in un procedimento rigorosamente formale e caratterizzato da tempi ristretti, l’ omissione dell’ indicazione delle modalità attraverso le quali è stata effettuata l'identificazione dei sottoscrittori di una lista elettorale, con la conseguenza che non esiste autenticazione di una firma se la stessa non risulta apposta in presenza dell'ufficiale autenticante previo accertamento dell’ identità di chi sottoscrive, mentre l'attestazione dell'ufficiale autenticante deve riguardare entrambe le due circostanze di fatto. SL



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Inserito in data 22/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 aprile 2012, n. 2171

Giudizio di ottemperanza ed azione di risarcimento del danno.

Dopo l'entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (d.lg. 2 luglio 2010 n. 104) deve ritenersi non più applicabile il principio giurisprudenziale per il quale in sede di ottemperanza era possibile formulare richiesta di risarcimento, ma solo per i danni verificatisi in seguito alla formazione del giudicato e a causa del ritardo nella esecuzione della pronuncia, mentre il risarcimento dei danni riferibili al periodo precedente al giudicato doveva essere richiesto con un giudizio cognitorio da proporsi davanti al giudice di primo grado. Difatti, ai sensi dell'art. 112, comma 4 cpa è ora ammessa la proposizione, nel giudizio di ottemperanza, di una azione risarcitoria anche per i danni riguardanti periodi precedenti al giudicato; peraltro, tale possibilità deve intendersi contenuta nei limiti temporali e sostanziali dettati dal precedente art. 30 e, in tal caso, il giudizio si svolge nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario.SL



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Inserito in data 22/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 aprile 2012, n. 2166

Abilitazione avvocato: il semplice voto numerico é sufficiente ad esprimere il giudizio di idoneità dei candidati.

Eventuali ulteriori autolimitazioni imposte dalle Commissioni esaminatrici costituite presso i diversi  distretti di Corte d’Appello non assumono in ogni caso la stessa efficacia vincolante dei criteri fissati dalla Commissione Centrale costituita presso il Ministero di Giustizia, quando questi ultimi sono comunque sussistenti. SL



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Inserito in data 19/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 16 aprile 2012, n. 2135

Mancata impugnazione dell’aggiudicazione dopo la riammissione in gara: sopravvenuta carenza d’interesse?

E’ condivisibile l’argomento secondo cui, dal momento che il ricorso al T.A.R. era stato proposto avverso l’atto di esclusione dalla gara, la circostanza per cui l’amministrazione avesse poi disposto la riammissione dell’appellante senza subordinarne gli effetti all’esito del giudizio, aveva determinato una situazione in fatto interamente satisfattiva per l’interesse sotteso alla proposizione del giudizio. In tal modo operando, l’amministrazione aveva sancito la definitiva rimozione del provvedimento lesivo oggetto di impugnativa, così da concretare i presupposti per una pronuncia di cessazione della materia del contendere. L’interesse immediato e diretto sotteso alla domanda di giustizia proposta dalla società appellante era, infatti, quello di ottenere la riammissione alla gara e tale interesse è stato interamente soddisfatto. Al contrario, non può essere condivisa la tesi esposta dai primi Giudici, secondo cui la permanenza dell’interesse alla coltivazione del ricorso si traslerebbe necessariamente sugli ulteriori e successivi arresti del procedimento di gara, trattandosi di atti in relazione ai quali l’interesse del ricorrente assume un carattere soltanto indiretto e mediato, e in quanto tale insuscettibile di giustificare (in assenza di una loro impugnativa) una pronuncia di sopravvenuta carenza di interesse, quale quella odiernamente impugnata.

Al riguardo deve essere richiamato il (condiviso) orientamento giurisprudenziale secondo cui ai sensi dell'art. 35 comma 1 lett. c), c.p.a. la sopravvenuta carenza d'interesse e la cessazione della materia del contendere si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell'interesse leso; la sopravvenuta carenza di interesse può essere conseguenza anche di una valutazione esclusiva dello stesso soggetto, in relazione a sopravvenienze anche indipendenti dal comportamento della controparte, e qualora sia determinata dal sopravvenire di un nuovo provvedimento, questo non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell'assetto del rapporto tra la p.a. e l'amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l'operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell'interesse azionato. FT



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Inserito in data 19/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 aprile 2012, n. 2116

Destinazione a verde: vincolo conformativo. Fascia costiera inedificabile: legittimo divieto di sanatoria.

Mentre è stato sottolineato che costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell'articolo 2 della legge 19 novembre 1968, n. 1187, quelli preordinati all'espropriazione, o che comportino l'inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio, è stato per contro evidenziato che la destinazione di "area a verde pubblico - verde urbano" costituisce invece espressione della potestà conformativa del pianificatore, avente validità a tempo indeterminato: ciò in quanto l'art. 31 delle N.T.A., che destina le "aree a verde pubblico" al tempo libero e quindi all'utilizzo da parte della collettività (in tal senso dovendosi correttamente intendersi l'espressione "sono di proprietà pubblica"….) prevede, peraltro, che su tali aree possano essere ubicate attrezzature per lo svago, chioschi, bar, teatri all'aperto, impianti sportivi per allenamento e spettacolo, e simili, nonché biblioteche e giochi per bambini, e consente, altresì, la costruzione di edifici ed impianti previa approvazione di piano particolareggiato o di progetto planovolumetrico. Di conseguenza, essendo consentita, anche ad iniziativa del proprietario, la realizzazione di opere e strutture intese all'effettivo godimento del verde, è stato escluso, ex se, la configurabilità di uno svuotamento incisivo del contenuto del diritto di proprietà, permanendo comunque la utilizzabilità dell'area rispetto alla sua destinazione naturale, con la conseguenza che non è ravvisabile alcun vincolo preordinato all'espropriazione ovvero comportante in edificabilità, né è configurabile un obbligo di nuova tipizzazione.

La fattispecie della edificazione nella fascia dai 300 metri dalla costa, di cui al più volte citato articolo 51, lettera f), della legge regionale della Puglia n. 56 del 1980, non è rapportabile alla disciplina di cui all’articolo 32 della legge n. 47 del 1985 ma a quella di cui all’articolo 33, relative ad opere non suscettibili di sanatoria e, di conseguenza, non è possibile provvedere con le varianti di recupero, stante l’articolo 5 u.c. della L.R. n. 26 del 1985, per il quale “Non è possibile formare la variante per le opere non suscettibili di sanatoria di cui all’art. 33 della legge n. 47 del 1985”. Ciò tanto più che il divieto di edificazione nella fascia costiera di cui all’art. 51, lett. f, l. reg. Puglia 31 maggio 1980 n. 56 non rappresenta una misura di salvaguardia ma un vincolo di inedificabilità assoluta preclusivo del rilascio della concessione edilizia fino all’adozione del piano territoriale; e che l’art. 51, lett. f), l. reg. Puglia 31 maggio 1980 n.56 vieta qualsiasi edificazione entro la fascia costiera di trecento metri, per cui è legittimo il diniego di sanatoria espresso dal comune per abusi edilizi realizzati entro tale fascia, a nulla valendo la previsione di piani finalizzati al recupero degli insediamenti abitativi, atteso che in forza dell’art. 5 l. reg. n. 56 del 1980 cit. non è possibile formare varianti per le opere non suscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 33 l. 28 febbraio 1985, n. 47.

L’articolo 33 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 esclude espressamente la possibilità di sanatoria per gli interventi realizzati in violazione di “vincoli imposti da leggi statali e regionali a tutela di interesse paesistici e ambientali ovvero a difesa della coste marine”, in quanto, come già ritenuto dalla giurisprudenza di questo Consiglio, la norma regionale all’esame introduce un divieto assoluto, ancorchè temporaneo, di edificazione entro la fascia costiera, al quale si aggancia con immediatezza la misura sanzionatoria prevista dal legislatore statale, e cioè l’impossibilità di sanatoria dell’abuso, senza eccezioni, limiti o condizionamenti. Ciò che rileva, in altri termini, è l’esistenza di un vincolo legale di in edificabilità assoluta sia al momento in cui le opere vennero realizzate, sia al momento della decisione sulla domanda di sanatoria.

E’ appena il caso di segnalare che (anche alla stregua delle condivisibili considerazioni contenute in Cass. pen., sez. III, 29 gennaio 2001, n. 11716, cui può farsi rinviare) non può trovare accoglimento la tesi, su cui è imperniato tutto l’assunto difensivo degli appellanti, dell’abrogazione implicita dell'art. 51, lett. f), della legge regionale 31.5.1980, n. 56, per contrasto con le disposizioni della legge statale 8 agosto 1985, n. 431, essendo al riguardo sufficiente evidenziare che mentre la legge della regionale 31 maggio 1980 n. 56 disciplina la "Tutela ed uso del territorio" attribuita alla competenza delle Regioni dall'art. 117 della Costituzione, la legge statale è riferita alla "tutela del paesaggio", che è materia da ricondursi all'art. 9 comma 2 della Costituzione e soltanto delegata alle Regioni: le due normative, quella urbanistica e quella paesaggistica, perseguono dunque fini assolutamente distinti che non consentono, logicamente e giuridicamente, una loro sovrapposizione, solo in presenza della quale avrebbe potuto trovare ingresso la deduzione difensiva degli appellanti circa l’avvenuta abrogazione della normativa regionale ad opera di quella statale. FT



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Inserito in data 19/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 13 aprile 2012, n. 2104

Consigliere comunale membro di commissione di concorso indetto da altro ente: limiti dell’incompatibilità.

 La Sezione reputa, infatti, che la composizione della commissione sia immune dai profili di illegittimità colti dal Primo Giudice. In merito all’assunzione della funzione di Presidente della Commissione da parte di un soggetto che ricopriva ratione temporis la carica di consigliere comunale in un Comune diverso da quello che ha indetto la procedura, soccorre il condivisibile orientamento interpretativo secondo cui la causa di incompatibilità in esame può essere estesa anche ai soggetti che ricoprano cariche politiche presso amministrazioni diverse da quella procedente solo nel caso in cui vi sia un qualche elemento di possibile incidenza tra l'attività esercitabile da colui che ricopre la carica e l'attività dell'ente che indice il concorso. Questo Consiglio ha reputato, infatti, che una diversa interpretazione verrebbe a generalizzare in modo eccessivo e senza adeguata giustificazione il sospetto d’imparzialità anche nei confronti di soggetti che non gestiscano alcun potere rilevante e, perciò, non siano comunque idonei, sia pure da un punto di vista astratto, a condizionare la vita dell'ente che indice la selezione. Si è, in particolare, rimarcato che detto elemento di collegamento, in mancanza di criteri legali, può essere rinvenuto nella sfera di influenza dell'attività svolta dal soggetto ricoprente cariche politiche, sindacali o professionali, per cui se questa in astratto è idonea a riverberare i suoi effetti anche sull'ente che indice la selezione, l'incompatibilità deve ritenersi sussistente, altrimenti deve escludersi, salva la deducibilità delle ipotesi di cui all'art. 51 c.p.c. o del vizio di eccesso di potere sotto i diversi profili consentiti.

Si deve, infine, reputare che non abbia valenza invalidante neanche l’assunzione,da parte di un soggetto che ricopriva la carica di rappresentante sindacale, della veste di segretario della Commissione, posto che la normativa di cui sopra, avente carattere eccezionale e, quindi, non passibile di applicazione analogica, si riferisce ai componenti in senso stretto della commissione, ossia ai soli soggetti aventi funzione decisionale, con conseguente esclusione dei segretari che assumono un ruolo di assistenza e supporto. FT



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Inserito in data 19/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. I, parere 12 aprile 2012, n. 1796

Legittimità dell’ordinanza sindacale che vieta la fermata per avvicinare chi si prostituisce.

La Corte Costituzionale, con sentenza 7 aprile 2011, n. 115, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54 comma4 del d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), nella parte in cui comprende la locuzione “anche”, prima delle parole “contingibili ed urgenti”, in quanto la norma censurata, non limitando i poteri di ordinanza dei sindaci ai casi contingibili ed urgenti, viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., e si caratterizza alla stregua di una “delega in bianco”, nel senso che non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello dell’imposizione dei comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo un principio dello stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge. Nel caso di specie, non v’è dubbio che l’ordinanza impugnata si riverberi sulla libertà dei cittadini, “suscettibile - secondo la Corte Costituzionale - di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare”.

Va ancora considerato che l’ordinanza vieta in via permanente su tutto il territorio comunale “la fermata ai pedoni e a tutti i veicoli, propedeutica al contatto con soggetti dediti alla prostituzione”, sicché il provvedimento manca del requisito della “temporaneità”, proprio delle ordinanze contingibili ed urgenti, che pur sempre costituiscono l’espressione di un potere derogatorio esercitato dai sindaci sotto la vigilanza del Ministro dell’interno attraverso i prefetti. Sul punto si è anche soffermata la Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 115 del 2011, precisando che il decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008 (richiamato nel preambolo dell’impugnata ordinanza), nella parte in cui fornisce la definizione di incolumità pubblica e di sicurezza urbana, entrambi beni pubblici da tutelare, assolve alle funzioni di indirizzare l’azione del sindaco, come previsto dall’art. 54, comma 4 bis, regolando i rapporti tra autorità centrali (ministro) e periferiche (sindaci), ma “non può soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini”. In altri termini, nel momento in cui l’art. 54, comma 4, autorizza i sindaci ad emanare atti non sottoposti a scadenza, non giustificati dal principio salus publica suprema lex e finalizzati alla prevenzione e all’eliminazione di gravi (e non meglio precisate) minacce alla sicurezza urbana, si realizza una indebita invasione dei primi cittadini nel campo della legislazione primaria. Conseguentemente, la parziale caducazione dell’art. 54, comma 4, del Testo unico degli enti locali, disposta dalla Corte costituzionale nei termini sopra indicati, dispiega i suoi effetti anche sull’impugnata ordinanza, rendendola inefficace per mancanza dei presupposti di legge. FT



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Inserito in data 18/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 12 aprile 2012, n. 3

Legittimità provvedimenti regionali statuenti limiti di spesa nel corso dell’esercizio finanziario.

  • I Supremi Giudici amministrativi, ricostruendo la recente disciplina che ha reso maggiormente autoritativa la programmazione sanitaria, si pronunciano in merito all’intervento delle Regioni, tenute, al fine di raggiungere l’obiettivo di una pianificazione seria e vincolante, ad adottare determinazioni di natura autoritativa e vincolante in tema di limiti alla spesa sanitaria ai sensi dell'art. 32, comma 8, legge 27 dicembre 1997, n. 449;
  • In tal guisa, spettando alle Regioni contemperare il contenimento della spesa con la tutela primaria del diritto alla salute, Esse sono tenute a scegliere le strutture destinatarie di simili proventi in una fase di pura negoziazione, in cui il compromesso tra i due parametri appena esposti funge da fondamentale punto di riferimento;
  • Inquadrata la questione, il Massimo Collegio si esprime in merito ai provvedimenti con cui le Regioni limitano i tetti massimi di spesa in corso di esercizio finanziario, stabilendone la legittimità a condizione che le effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e delle compatibilità, tengano ovviamente conto delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute, qualificato come nucleo irriducibile dalla Consulta n. 509/00 che, in tale sede, i Giudici Amministrativi appositamente ricordano;
  • Unitamente a tale richiamo, anche la tutela della concorrenza tra strutture pubbliche e private necessita di adeguata tutela e, pertanto, il Sommo Collegio, sempre ricordando l’apporto proveniente dal Giudice delle Leggi, rammenta la necessaria commistione di questo elemento con quello di una programmazione economica attenta e scrupolosa;
  • Alla luce di una simile ricostruzione, pertanto, si appalesa fisiologica la fissazione retroattiva del tetto regionale di spesa anche in una fase avanzata dell’anno, purchè, come affermano i Supremi Giudici amministrativi, si svolga in guisa da bilanciare l’esigenza del contenimento della spesa con la pretesa degli assistiti a prestazioni sanitarie adeguate e, soprattutto, con l’interesse degli operatori privati ad agire con un logica imprenditoriale. CC


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Inserito in data 18/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 10 aprile 2012, n. 2

Esperibilità del rimedio dell’ottemperanza avverso ordinanza di assegnazione credito pignorato.

  • Il Supremo Consesso chiarisce, finalmente, il contrasto giurisprudenziale sorto in merito all’ammissibilità del rimedio ex art. 112 C.P.A. nei riguardi del suddetto provvedimento, laddove destinatario ne fosse la P.A., nonché, indirettamente, ne illustra l’effettiva natura;
  • La diatriba, sorta tra quanti, attribuendovi portata decisoria e conseguente efficacia di giudicato, si contrapponevano a coloro i quali negavano una simile natura di accertamento, viene risolta favorevolmente alla prima posizione;
  • Il Massimo Collegio, confermandone, quindi, l’attitudine al giudicato, affronta l’ulteriore questione se tale ordinanza possa essere ritenuta fonte di un obbligo di conformazione della P.A. trattandosi, come nella specie, di crediti privatistici;
  •  Alla luce della posizione appena illustrata, i Supremi Giudici acclarano la natura decisoria e, di conseguenza, la portata conformativa della pronuncia in essa contenuta, a prescindere dal fatto che destinatario dell’obbligo dei pagamenti fosse la P.A.;
  • Il Collegio giunge, pertanto, ad affermare il seguente principio di diritto: l’ordinanza di assegnazione del credito resa ai sensi dell’art. 553 cod. proc. civ. nell’ambito di un processo di espropriazione presso terzi, emessa nei confronti di una pubblica amministrazione o soggetto ad essa equiparato ai sensi del cod. proc. amm., avendo portata decisoria (dell’esistenza e ammontare del credito e della sua spettanza al creditore esecutante) e attitudine al giudicato, una volta divenuta definitiva, per decorso dei termini di impugnazione, è suscettibile di esecuzione mediante giudizio di ottemperanza (art. 112, comma 3, lett. c), art. 7, comma 2, cod. proc. amm.). CC


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Inserito in data 18/04/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, 10 aprile 2012, C-83/12 PPU

Favoreggiamento immigrazione clandestina; legittime le sanzioni penali eventualmente irrogate.

La Corte europea, ricordando come il diritto dell'Unione disciplini le condizioni di emissione, cancellazione o abrogazione dei visti di soggiorno, ma non contenga alcuna regolamentazione che preveda sanzioni penali in caso di violazione delle condizioni, ne ammette la possibile esperibilità ed irrogazione, da parte di ciascun Paese, in caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

In tal guisa, infatti, diventa possibile attuare sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive contro gli autori dei reati, compresi i contrabbandieri. CC



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 aprile 2012, n. 87

Reati del PdCM di natura non ministeriale: l’autorità giudiziaria procede senza informare la Camera.

Ricostruito, alla luce del tessuto normativo e in armonia con i principi dell’ordine costituzionale dello Stato, il complesso meccanismo della giustizia politica, non resta alla Corte che prendere atto della estraneità ad esso della fattispecie peculiare che ha originato l’odierno contenzioso costituzionale. La vicenda che costituisce oggetto del ricorso concerne, infatti, un reato (il reato di concussione, l’unico in relazione al quale è stato sollevato il conflitto) che l’autorità giudiziaria ha ritenuto immediatamente privo di carattere funzionale e la cui natura ministeriale non è stata posta a fondamento del conflitto, nel senso che con esso – e tenuto conto del contenuto della domanda proposta dalla Camera dei deputati, quale dianzi precisata – questa Corte non è stata investita dell’accertamento di siffatto carattere. In tali circostanze, non solo il potere giudiziario, ritenendo il reato di natura comune, poteva omettere di investire il tribunale dei ministri della notizia di reato, ma ne era costituzionalmente obbligato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 96 Cost. e 6 della legge cost. n. 1 del 1989, non essendogli possibile sottrarsi all’accertamento della penale responsabilità nelle forme proprie della giurisdizione ordinaria penale (art. 112 Cost.), se non in presenza delle deroghe tassative prescrivibili dalla sola Costituzione, e che neppure il legislatore ordinario potrebbe ampliare.

Resta da decidere se l’autorità giudiziaria, nel procedere nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, avesse l’obbligo di informare la Camera dei deputati della pendenza del procedimento. Questa Corte ha già escluso che un tale dovere possa ricavarsi dalle disposizioni costituzionali concernenti il procedimento per i reati di cui all’art. 96 Cost., ed in particolar modo dall’art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989, che inerisce per le ragioni dette esclusivamente ai casi di archiviazione. Una volta escluso che le fonti normative, costituzionali e primarie, abbiano introdotto l’obbligo dell’autorità giudiziaria di informare la Camera competente della pendenza del procedimento comune per reato attribuibile al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, e nell’impossibilità di ricavare simile precetto dal principio di leale collaborazione, viene meno ogni fondamento giuridico su cui poggiare la pretesa della ricorrente di essere resa edotta dei fatti, dato che esso neppure è rinvenibile – come ha, invece, sostenuto la Camera dei deputati – nei «basilari canoni di ragionevolezza ed idoneità allo scopo che a mente dell’art. 3 Cost. presiedono all’interpretazione della legge». È dunque nello svolgimento della vita parlamentare e nella disciplina del rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo che si rinviene la via ufficiale di interessamento alla fattispecie da parte delle Camere, cui i soggetti interessati – e ciò anche al fine di consentire loro l’esercizio del diritto di difesa – ben possono direttamente rivolgersi per informarle degli accadimenti e porle nelle condizioni di sollevare conflitto innanzi a questa Corte.

In conclusione, per tali motivi, questa Corte ritiene che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano ed al Giudice per le indagini preliminari di detto Tribunale procedere per reato comune nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica, omettendo di informarne la Camera dei deputati. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 aprile 2012, n. 86

Marchio di origine/qualità: può produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci.

Con la ratifica dei Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un ordinamento giuridico autonomo e coordinato con quello interno, ed ha trasferito, in base al citato art. 11 Cost., l’esercizio di poteri, anche normativi, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi. Le norme dell'Unione europea vincolano in vario modo il legislatore interno, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili dell’uomo, garantiti dalla Costituzione. Nella fattispecie, che qui interessa, di leggi regionali della cui compatibilità col diritto dell’Unione europea (come interpretato e applicato dalle istituzioni e dagli organi di detta Unione) si dubita, va rilevato che l’inserimento dell’ordinamento italiano in quello comunitario comporta due diverse conseguenze, a seconda che il giudizio in cui si fa valere tale dubbio penda davanti al giudice comune ovvero davanti alla Corte costituzionale a seguito di ricorso proposto in via principale. Nel primo caso, le norme dell’Unione, se munite di efficacia diretta, impongono al giudice di disapplicare le norme interne statali e regionali, ove le ritenga non compatibili. Nel secondo caso, le medesime norme «rendono concretamente operativo il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost. (come chiarito, in generale, dalla sentenza n. 348 del 2007), con conseguente declaratoria d’illegittimità costituzionale delle norme regionali che siano giudicate incompatibili con il diritto comunitario» (sentenza n. 102 del 2008). Alla luce di tali principi, le censure mosse all’art. 21 della legge regionale n. 7 del 2011 devono essere dichiarate ammissibili, perché le norme dell’Unione europea sono state correttamente evocate dal ricorrente nel presente giudizio per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., quale elemento integrante il parametro di legittimità costituzionale.

Ai sensi dell’art. 34 del TFUE (già art. 28 del TCE), «Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente». Il successivo art. 35 (già articolo 29 del TCE) dispone che «Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’esportazione e qualsiasi misura di effetto equivalente». L’art. 36 del TFUE (già art. 30 del TCE), infine, stabilisce che «Le disposizioni degli articoli 34 e 35 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri».

Dalle suddette disposizioni si evince il rilievo centrale che, nella disciplina del mercato comune delle merci, ha il divieto di restrizioni quantitative degli scambi e di misure di effetto equivalente, concernente sia le importazioni, sia le esportazioni. In particolare, la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea ha elaborato una nozione ampia di “misura di effetto equivalente”, nozione riassunta nel principio secondo cui «ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative». Nel quadro di tale principio, la Corte suddetta ha affermato che la concessione, da parte di uno Stato membro, di un marchio di qualità a prodotti finiti fabbricati in quello Stato, comportava per esso il venir meno agli obblighi derivanti dall’art. 30 del Trattato CE, divenuto, in seguito a modifica, art. 28 CE (Corte di giustizia, sentenza 5 novembre 2002 in causa C-325/2000, Commissione contro Repubblica Federale di Germania). Ad avviso della Corte, la disciplina controversa aveva, quanto meno potenzialmente, effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci fra Stati membri. Infatti una simile disciplina, introdotta al fine di promuovere la commercializzazione dei prodotti agroalimentari realizzati in Germania ed il cui messaggio pubblicitario sottolineava la provenienza tedesca dei prodotti interessati, poteva indurre i consumatori ad acquistare i prodotti recanti il marchio CMA, escludendo i prodotti importati.

La norma in questa sede censurata introduce un marchio «di origine e di qualità», denominato «Marche Eccellenza Artigiana (MEA)», che, con la chiara indicazione di provenienza territoriale («Marche»), mira a promuovere i prodotti artigianali realizzati in ambito regionale, garantendone per l’appunto l’origine e la qualità. Quanto meno la possibilità di produrre effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci tra Stati membri è, dunque, innegabile, alla luce della nozione comunitaria di «misura ad effetto equivalente» elaborata dalla Corte di giustizia e dalla giurisprudenza dianzi richiamata. Pertanto, sussiste la denunziata violazione dei vincoli posti dall’ordinamento dell’Unione europea e, per conseguenza, dell’art. 117, primo comma, Cost. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 aprile 2012, n. 85

Leggi regionali che limitano energie rinnovabili e modificano competenze di protezione civile.

Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4, comma 1, e 15, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto 18 marzo 2011, n. 7 (Legge finanziaria regionale per l’esercizio 2011), in riferimento agli artt. 41 e 117 della Costituzione.

Questa Corte ha già rilevato che la normativa internazionale (Protocollo di Kyoto addizionale alla Convenzione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, adottato l’11 dicembre 1997, ratificato e reso esecutivo con legge 1° giugno 2002, n. 120) e quella comunitaria (direttiva 27 settembre 2001, n. 2001/77/CE e direttiva 23 aprile 2009, n. 2009/28/CE) manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili; ha, conseguentemente, dichiarato l’illegittimità, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., di una disposizione regionale che prevedeva limiti massimi autorizzabili di potenza di energia da fonti rinnovabili. Anche l’art. 4, comma 1, della legge reg. Veneto n. 7 del 2011, vietando il rilascio di autorizzazioni alla realizzazione e all’esercizio di impianti da fonti rinnovabili di potenza superiore a determinati limiti per un consistente lasso di tempo, contrasta con le norme internazionali e comunitarie che incentivano il ricorso a tali fonti di energia. Né rileva il fatto che il periodo di durata del divieto di rilascio delle autorizzazioni stabilito dalla norma impugnata (scadendo il 31 dicembre 2011) sia ormai esaurito, perché tale circostanza non esclude che la norma abbia avuto comunque applicazione. Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge reg. Veneto n. 7 del 2011, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione.

L’art. 15, commi 1 e 2, della legge reg. Veneto n. 7 del 2011, prevedendo che, per gli eventi di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 225 del 1992, «il presidente della provincia è autorità di protezione civile, responsabile dell’organizzazione generale dei soccorsi a livello provinciale» e che, per consentire il coordinamento e l’adozione degli interventi in questione, i sindaci e i presidenti delle comunità montane forniscono alle sale operative delle Province gli elementi utili per la conoscenza dell’evento e per l’assunzione delle iniziative necessarie, configura la competenza del Presidente della Provincia in termini ampi e generali, tale da comprendere anche le attribuzioni riservate al Prefetto dalla normativa statale. Conseguentemente deve essere dichiarata l’illegittimità dell’art. 15, commi 1 e 2, della legge reg. Veneto n. 7 del 2011, nella parte in cui, nel sostituire l’art. 16, comma 1, della legge reg. Veneto n. 58 del 1984 e nell’introdurre nel medesimo art. 16 il comma 1-bis, prevede che il Presidente della Provincia sia autorità di protezione civile, responsabile dell’organizzazione generale dei soccorsi a livello provinciale, nei casi di emergenza di protezione civile per gli eventi di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), della legge n. 225 del 1992. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 5 aprile 2012, n. 81

Nomina assessore regionale e quote rosa: confini del sindacato sui vincoli al potere discrezionale.

La Regione Campania ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato, sezione V, n. 4502 del 27 luglio 2011, confermativa della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione I, n. 1985 del 7 aprile 2011, con cui è stato annullato l’atto del Presidente della Giunta regionale di nomina di un assessore, per violazione dell’art. 122, quinto comma, della Costituzione.

Nella specie, la Regione Campania, benché asserisca di non voler portare all’esame della Corte costituzionale il modo di esercizio della funzione giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, prospetta proprio un conflitto di tale contenuto, essendo il ricorso incentrato su un problema di interpretazione del diritto vigente, e in particolare dell’art. 46, comma 3, dello statuto della Regione Campania, in relazione al quale la ricorrente contesta il percorso ermeneutico seguito nella decisione del Consiglio di Stato. La ricorrente muove, infatti, dall’affermazione che nell’ordinamento esistono aree sottratte al sindacato giurisdizionale, in quanto espressive di attività politica, come tali insindacabili da parte del giudice. Ne sarebbe una riprova la permanenza nell’ordinamento dell’art. 7 del codice del processo amministrativo, nel quale, come ricordato poco sopra, si afferma che «non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico». A conferma, la ricorrente richiama la giurisprudenza dei giudici ordinari e amministrativi, applicativa della norma menzionata, la quale, peraltro, è stata particolarmente rigorosa nel delimitare i confini della categoria degli atti non impugnabili davanti al giudice amministrativo.

L’affermazione della ricorrente, quanto all’esistenza di spazi riservati alla scelta politica, è condivisibile e suffragata da elementi di diritto positivo. Ciò nondimeno, gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate.

Nel caso portato all’esame della Corte, il legislatore regionale della Campania, nell’esercizio dell’autonomia politica ad esso accordata dall’art. 123 della Costituzione, ha ritenuto di dover delimitare il libero apprezzamento del Presidente della Giunta regionale nella scelta degli assessori, stabilendo alcuni vincoli di carattere generale, in sede di elaborazione dello statuto. Ad esempio, con una previsione che contraddistingue lo statuto campano da quello di altre regioni, il legislatore regionale ha voluto predeterminare il numero dei componenti della Giunta regionale, prevedendo esplicitamente che essa sia «composta dal Presidente e da dodici assessori, compreso il vicepresidente» (art. 50, comma 2, statuto Campania). Parimenti, per quanto riguarda l’individuazione dei componenti dell’esecutivo regionale, lo statuto, pur preservando in capo al Presidente il più ampio margine di scelta per permettergli di comporre la Giunta secondo le proprie valutazioni di natura politica e fiduciaria, prescrive che gli assessori siano nominati «nel pieno rispetto del principio di un’equilibrata presenza di donne e uomini» (art. 46, comma 3), di talché la discrezionalità spettante al Presidente risulta arginata dal rispetto di tale canone, stabilito dallo statuto, in armonia con l’articolo 51, primo comma, e 117, settimo comma, della Costituzione. La circostanza che il Presidente della Giunta sia un organo politico ed eserciti un potere politico, che si concretizza anche nella nomina degli assessori, non comporta che i suoi atti siano tutti e sotto ogni profilo insindacabili. Né, d’altra parte, la presenza di alcuni vincoli altera, di per sé, la natura politica del potere esercitato dal Presidente con l’atto di nomina degli assessori, ma piuttosto ne delimita lo spazio di azione. L’atto di nomina degli assessori risulterà, dunque, sindacabile in sede giurisdizionale, se e in quanto abbia violato una norma giuridica.

Così inteso, il conflitto proposto dalla Regione Campania si risolve in un problema di corretta individuazione della natura e della portata dei vincoli stabiliti dall’art. 46 dello statuto, problema che – come tutte le questioni di interpretazione – rientra nelle funzioni dell’autorità giudiziaria, e che questa Corte non è chiamata a sindacare in sede di conflitto di attribuzioni. Per queste ragioni si deve concludere che il conflitto di attribuzione promosso dalla Regione Campania è inammissibile. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 5 aprile 2012, n. 80

Codice del Turismo: eccesso di delega laddove prevede un nuovo assetto dei rapporti Stato/Regioni.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 79 del 2011, sollevata da tutte le ricorrenti per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., è ammissibile e fondata nei termini e nei limiti di seguito precisati.

L’analisi della fondatezza della censura di carenza di delega si deve condurre non sull’intero d.lgs. n. 79 del 2011, ma sulle singole disposizioni impugnate – nei limiti della loro ridondanza sul riparto di competenze di cui all’art. 117, secondo, terzo e quarto comma, Cost. e sull’allocazione delle funzioni amministrative, e conseguentemente legislative, di cui all’art. 118, primo comma, Cost. – allo scopo di verificare se ciascuna di esse possa essere catalogata tra le norme statali da riassettare ed armonizzare, o se invece si tratti di una nuova disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni su oggetti particolari, non compresa nella delega. Si deve pertanto procedere all’esame delle singole disposizioni contenute nell’allegato 1 del d.lgs. n. 79 ed impugnate dalle Regioni ricorrenti.

L’art. 1, che definisce l’ambito di applicazione del cosiddetto codice del turismo, precisa che lo stesso «reca, nei limiti consentiti dalla competenza statale, norme necessarie all’esercizio unitario delle funzioni amministrative in materia di turismo ed altre norme in materia riportabili alle competenze dello Stato, provvedendo al riordino, al coordinamento e all’integrazione delle disposizioni legislative statali vigenti, nel rispetto dell’ordinamento dell’Unione europea e delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali». La disposizione sopra riportata sfugge, nel suo complesso, alla censura di carenza di delega, in quanto precisa che le norme seguenti si mantengono nei confini della competenza statale e si limitano a dare attuazione alla delega di riordino e riassetto contenuta nella legge n. 246 del 2005. Ciò che esula dall’ambito consentito dalla delega è la finalità di provvedere «all’esercizio unitario delle funzioni amministrative», che, ricalcando la formula dell’art. 118, primo comma, Cost., si riferisce al possibile accentramento di competenze amministrative, e conseguentemente legislative, secondo limiti e modalità precisati dalla giurisprudenza di questa Corte. Si tratta quindi di una finalità che attiene non al riassetto della legislazione statale in materia di turismo, ma che riassume sinteticamente l’orientamento a disciplinare, in senso innovativo, l’assetto dei rapporti tra Stato e Regioni nella medesima materia. Sulla base delle precedenti considerazioni si deve ritenere che la questione prospettata sia non solo ammissibile – in quanto l’asserita violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost. ridonda, in tutta evidenza, nella lesione della competenza legislativa residuale regionale in materia di turismo – ma anche fondata, per carenza di delega, limitatamente alle parole «necessarie all’esercizio unitario delle funzioni amministrative» e «ed altre norme in materia».

L’art. 2 contiene i «princìpi sulla produzione del diritto in materia turistica» e pone le condizioni per l’intervento legislativo dello Stato nella stessa materia, riprendendo alcune affermazioni contenute nella sentenza di questa Corte n. 76 del 2009. Si tratta di disposizione del tutto nuova, che, pur nell’intenzione di adeguare la normativa ai princìpi stabiliti nella giurisprudenza costituzionale, per sua stessa natura incide sui rapporti tra Stato e Regioni in materia turistica e fuoriesce pertanto dai limiti della delega. Il seguito legislativo delle sentenze di questa Corte richiede, comunque, una manifestazione di volontà, pur generale e di principio, del legislatore delegante. In caso contrario, sarebbe il potere esecutivo delegato ad inserire nuove norme nell’ordinamento, in diretta attuazione di orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, superando il potere legislativo del Parlamento delegante. Per quanto sopra detto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 dell’allegato 1 del d.lgs. n. 79 del 2011 è ammissibile e fondata, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, in relazione all’art. 117, quarto comma, Cost. [Analoghe considerazioni vengono svolte per gli artt. 14, 21 e l’art. 30, comma 1, che costituiscono disposizioni del tutto nuove].

L’art. 3 contiene «princìpi in tema di turismo accessibile». Si deve rilevare che tale disposizione accentra in capo allo Stato compiti e funzioni che l’art. 1 dell’«accordo tra lo Stato e le regioni e province autonome sui princìpi per l’armonizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico, ai fini dell’adozione del provvedimento attuativo dell’art. 2, comma 4, della legge 29 marzo 2001, n. 135» – recepito come allegato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 13 settembre 2002 – aveva attribuito alle Regioni e alle Province autonome. Indipendentemente da ogni considerazione di merito su tale disposizione, si deve rilevare che essa attiene, con evidenza, ai rapporti tra Stato e Regioni in materia di turismo e realizza un accentramento di funzioni, che, sulla base della natura residuale della competenza legislativa regionale, spettano in via ordinaria alle Regioni, salvo che lo Stato non operi l’avocazione delle stesse, con l’osservanza dei limiti e delle modalità precisati dalla giurisprudenza di questa Corte. La questione di legittimità costituzionale promossa è, pertanto, ammissibile e fondata, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo comma, Cost. [Analoghe considerazioni vengono svolte per gli artt. 8, 9, 10, 12, 13, 15, 18 e 68].

L’art. 11, comma 1, contiene una disciplina della pubblicità dei prezzi, stabilendo l’obbligo per gli operatori turistici di comunicare alle Regioni e alle Province autonome i prezzi praticati. Si tratta di norma che riprende in parte il contenuto dell’art. 1 della legge 25 agosto 1991, n. 284 (Liberalizzazione dei prezzi del settore turistico e interventi di sostegno alle imprese turistiche) emanata anteriormente alla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. L’imposizione dell’obbligo di comunicazione indicato rientra nella competenza legislativa esclusiva delle Regioni in materia turistica ed implica, di conseguenza, un’alterazione del riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni stesse, quale emerge dopo la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), variazione non compresa nell’ambito della delega contenuta nella legge n. 246 del 2005. Per quanto detto, si deve ritenere che la questione di legittimità costituzionale in esame sia ammissibile e fondata, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, in relazione agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo comma, Cost. [Analoghe considerazioni vengono svolte per l’art. 23, commi 1 e 2, nonché per l’art. 69].

L’art. 16 detta norme sulla semplificazione degli adempimenti amministrativi delle strutture turistico-ricettive. Con tale disposizione lo Stato incide sulla disciplina dei procedimenti amministrativi relativi ad attività turistiche, riservata dalla Costituzione alla competenza legislativa residuale delle Regioni. Si tratta quindi di una variazione del riparto delle competenze, quale risulta dal Titolo V della Parte II della Costituzione, dopo la riforma operata dalla legge cost. n. 3 del 2001, non rientrante nei limiti della delega contenuta nella legge n. 246 del 2005. Si deve pertanto ritenere che la questione prospettata per eccesso di delega sia ammissibile e fondata, per violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, in relazione agli artt. 117, quarto comma, e 118, primo comma, Cost. [Analoghe considerazioni vengono svolte per l’art. 20, comma 2]. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 5 aprile 2012, n. 78

Operazioni in conto corrente: illegittima la prescrizione dei diritti dalla data dell’annotazione.

Deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, del d.l. n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011 (comma introdotto dalla legge di conversione).

La norma censurata, con la sua efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). Invero, essa è intervenuta sull’art. 2935 cod. civ. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perché, in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede di legittimità ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso del suddetto termine.

L’ampia formulazione della norma censurata impone di affermare che, nel novero dei «diritti nascenti dall’annotazione», devono ritenersi inclusi anche i diritti di ripetere somme non dovute (quali sono quelli derivanti, ad esempio, da interessi anatocistici o comunque non spettanti, da commissioni di massimo scoperto e così via ...). Ma la ripetizione dell’indebito oggettivo postula un pagamento (art. 2033 cod. civ.) che, avuto riguardo alle modalità di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all’atto della chiusura del conto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 24418 del 2010, citata). Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all’annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto può essere fatto valere, secondo la previsione dell’art. 2935 cod. civ. Pertanto, la norma censurata, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935 cod. civ., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. Anzi, l’efficacia retroattiva della deroga rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perché, retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all’entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate. Sussiste, dunque, la violazione dell’art. 3 Cost., perché la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispetta i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.

È noto che, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione – integrino, quali “norme interposte”, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall’art. 6 della Convenzione ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia. Pertanto, sussiste uno spazio, sia pur delimitato, per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all’art. 25 Cost.), se giustificato da «motivi imperativi d’interesse generale»», che spetta innanzitutto al legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell’ambito del margine di apprezzamento riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli ordinamenti statali. Nel caso in esame, come si evince dalle considerazioni dianzi svolte, non è dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d’interesse generale, idonei a giustificare l’effetto retroattivo. Ne segue che risulta violato anche il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. FT



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Inserito in data 15/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 12 aprile 2012, n. 90

Riserva del 50% di posti ad interni: quando è legittima la deroga al principio del concorso pubblico.

Poiché nella fattispecie oggetto della normativa impugnata è riscontrabile la violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera b), della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol n. 4 del 2011, nella parte in cui aggiunge all’art. 5 della legge reg. n. 3 del 2000 il comma 5-ter [che, dopo aver stabilito che: «Al fine di fronteggiare vacanze in specifici profili professionali, senza ricorrere a nuove assunzioni di personale, non più del 50 per cento dei posti coperti attraverso procedure selettive pubbliche nel triennio precedente potrà essere assegnato mediante concorsi interni, ai quali è ammesso il personale in possesso dei requisiti previsti dal regolamento riguardante le modalità di accesso e dal contratto collettivo», prevede che: «Il rispetto della predetta percentuale può essere assicurato anche con compensazione tra i diversi profili professionali»].

Questa Corte ha ripetutamente affermato che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse al buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle. In tale quadro, questa Corte ha altresì escluso la legittimità di arbitrarie restrizioni alla partecipazione alle procedure selettive, chiarendo che al concorso pubblico deve riconoscersi un ambito di applicazione ampio, tale da non includere soltanto le ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche i casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo .

Né, per quello che riguarda la norma in esame, ha un qualche rilievo la circostanza che, fra i requisiti necessari per la progressione in carriera vi sia quello di essere stati in precedenza assunti presso l’amministrazione di appartenenza a seguito di un pubblico concorso, né la considerazione svolta dalla difesa regionale che, a causa delle limitazioni introdotte dalle norme finanziarie, non sia possibile procedere a nuove assunzioni di personale. Si ribadisce che questa Corte ha, difatti, più volte chiarito che la progressione nei pubblici uffici deve avvenire, in linea di principio, per concorso, sottolineando, altresì, relativamente alla possibilità di riserva di quote al personale interno e di deroga al principio del pubblico concorso, che non ha alcun rilievo la circostanza che, fra i requisiti che si debbono avere per potere godere della progressione in carriera vi sia quello di essere stati in precedenza assunti presso l’amministrazione di appartenenza a seguito di un pubblico concorso, trattandosi, evidentemente, di concorso bandito per una qualifica diversa ed inferiore rispetto a quella cui si accederebbe per effetto della disposizione censurata.

L’attivazione solo delle procedure riservate agli interni (le quali possono giungere fino al limite del cinquanta per cento dei posti «coperti attraverso prove selettive pubbliche nel triennio precedente»), congiuntamente alla mancata effettuazione dei concorsi per i candidati esterni, determina la violazione della norma interposta, rappresentata dal comma 1-bis dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 che prevede «la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso». Né può pensarsi ad un sistema che utilizzi, nel conteggio della percentuale numerica valevole per le procedure selettive interne, i posti messi a concorso pubblico nel passato, dato che la percentuale massima del cinquanta per cento dei posti messi a concorso riservabile al personale interno, di cui alla citata norma interposta, deve intendersi, per non confliggere con il dettato degli artt. 3 e 97 Cost., riferibile a concorsi che la prevedano nel momento genetico, non essendo possibile che per il suo calcolo si prendano in considerazione, retroattivamente, concorsi già svolti. Qualora, poi, unitamente alle procedure riservate agli interni fossero banditi concorsi aperti a candidati esterni, sarebbe smentito il presupposto di partenza, secondo cui le limitazioni di bilancio non renderebbero possibile l’assunzione di nuovo personale e, comunque, si attiverebbe una procedura non disciplinata dalla normativa in questione. È, infine, lesivo del buon andamento dell’amministrazione il criterio della «compensazione» globale tra tutto il personale della quota del cinquanta per cento dei posti riservata al personale interno, dato che questo tipo di calcolo indifferenziato potrebbe determinare una riserva dei posti per i profili professionali più rilevanti a favore del personale interno e un’indizione di concorsi indirizzati a candidati esterni solo per le qualifiche e mansioni inferiori. FT




Inserito in data 12/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 aprile 2012, n. 2063

   E’ illegittimo il riconoscimento del positivo superamento di test di ammissione a corsi di laurea a numero chiuso sostenuti presso altre università dell’UE.

Invero, l’ordinamento comunitario (ai sensi dell’art. 149 TCE, oggi art. 165 Trattato di Lisbona) si limita a garantire esclusivamente il riconoscimento dei titoli di studio o professionali conseguiti all’estero e non anche le mere procedure di ammissione ai corsi di laurea, in alcun modo armonizzate a livello europeo.

In particolare, l’ art. 149 TCE esclude qualunque forma di armonizzazione delle disposizioni nazionali in tema di percorsi formativi, demandando alla Comunità il limitato compito di promuovere azioni di incentivazione e raccomandazioni in subjecta materia. SL

   



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Inserito in data 12/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 10 aprile 2012, n. 2060

Rapporti tra piano commerciale e strumento urbanistico generale.

Le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, rispondendo all’esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque, alla libertà di iniziativa economica.

La diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza al piano commerciale rispetto al piano urbanistico. SL



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Inserito in data 12/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 10 aprile 2012, n. 2054

  La commissione giudicatrice di una gara pubblica deve essere composta da esperti nello specifico settore cui si riferisce l’oggetto del contratto di appalto.

Illegittima è pertanto, la commissione giudicatrice per l’affidamento del servizio di manutenzione degli ascensori di una ASL, nel caso in cui sia composta da un medico  chirurgo e due architetti.

Una tale composizione viola, infatti, non soltanto l’art. 84 co. 2 del Codice degli Appalti, ma anche e soprattutto i principi di rango costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, di cui la suddetta regola costituisce un corollario imprescindibile. SL



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Inserito in data 12/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 aprile 2012, n. 1974

Sull’istanza di ricusazione, la composizione del Collegio decidente ed il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Oggi il procedimento di ricusazione è espressamente disciplinato dall’art. 18 cpa.

Esso prevede, in ordine alla decisione dell’istanza di ricusazione, tra l’altro che: a)il collegio investito della controversia può disporre la prosecuzione del giudizio, se ad un sommario esame ritiene l’istanza inammissibile o manifestamente infondata” (comma 4); b) che “in ogni caso la decisione definitiva sull’istanza è adottata, entro trenta giorni dalla sua proposizione, dal collegio previa sostituzione del magistrato ricusato, che deve essere sentito” (comma 5).

Dalle norme riportate si evince che, nella prima ipotesi (cioè quando ravvisi l’inammissibilità o la manifesta infondatezza dell’istanza), il Collegio può decidere, anche in composizione comprendente il o i magistrati ricusati, dovendosi porre il problema del rinvio ad altra udienza (“previa sostituzione del magistrato ricusato”):

- sia quando non si rinvengano ragioni fondanti la declaratoria di inammissibilità o manifesta infondatezza dell’istanza (e quindi la stessa deve essere compiutamente esaminata);

- sia quando il Collegio ha delibato l’inammissibilità o la manifesta infondatezza dell’istanza, essendo in questo caso prevista una “seconda decisione”, come si evince dal comma 8, secondo periodo, in base al quale “l’accoglimento dell’istanza di ricusazione rende nulli gli atti compiuti ai sensi del comma 4 con la partecipazione del giudice ricusato”, norma che sarebbe priva di senso ove non si prevedesse una decisione successiva alla immediata delibazione di cui al comma 4, in applicazione – anche in questo caso – del successivo comma 5.

Laddove, invece, oggetto di ricusazione è l’ intero Collegio, la valutazione definitiva dell’istanza di ricusazione, sarà effettuata da un Collegio avente una composizione totalmente diversa.

In sostanza, l’art. 18 cod. proc. amm. ha inteso, sul punto, meglio precisare – in ordine al procedimento conseguente all’istanza di ricusazione – quanto in generale previsto dall’art. 53, primo comma, cod. proc. civ., il quale si limita a prevedere, per quel che interessa nella presente sede, che “sulla ricusazione decide (...)il collegio se è ricusato uno dei componenti del Tribunale o della Corte”.

La soluzione adottata dal Codice, che consente l’ immediata delibazione dell’istanza da parte del Collegio cui appartiene il giudice ricusato, ovvero da parte del Collegio ricusato nella sua totalità, è senza dubbio aderente al principio di effettività della tutela giurisdizionale, in quanto tesa ad evitare che con una pluralità di successive istanze di ricusazione venga paralizzata l’attività giurisdizionale. Essa è altresì conforme a quanto espresso anche dalla Corte costituzionale, secondo la quale esiste un potere delibatorio del giudice della causa in ordine all’istanza di ricusazione, onde evitare che atti di ricusazione pretestuosi comportino effetti di ritardo o paralisi del giudizio. SL



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Inserito in data 06/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 aprile 2012, n. 1969

Integrazione del contraddittorio a mezzo di pubblici proclami.

E’ inammissibile l’integrazione del contradditorio ordinata dal G.A., effettuata mediante pubblicazione per estratto della sola sentenza non definitiva del medesimo giudizio, e non anche del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti, come prescritto dal regolamento giudiziario (artt. 101 e 150 c.p.c., nonché artt. 35 e 49 cpa)

La notifica degli atti tramite pubblici proclami rappresenta,infatti, un’ eccezione al regime ordinario di conoscenza degli atti processuali, e come tale essa deve essere necessariamente eseguita in modo da rendere più probabile, e meno disagevole, la conoscenza effettiva dell’atto così notificato da parte dei destinatari,  dovendo avere sempre un contenuto minimo ineludibile. SL



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Inserito in data 06/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 aprile 2012, n. 1962

Rapporti tra strutture sanitarie classificate e strutture sanitarie pubbliche in relazione alla ripartizione dei fondi sanitari regionali.

Nonostante sussista una piena equiparazione tra le suddette strutture, quanto ai “budget” assegnati in sede di ripartizione dei fondi regionali, sono legittimi eventuali interventi volti a ripianare i disavanzi delle strutture ospedaliere pubbliche.

Va, infatti, rilevato che gli ospedali pubblici rappresentano la vera e propria struttura del servizio sanitario nazionale, e il vero e proprio intervento diretto del Servizio sanitario nazionale nei confronti della collettività, così come espressamente previsto dalla riforma del sistema attuata con la legge n. 833 del 1978, mentre tutte le altre strutture che in qualche modo confluiscono nello stesso sistema sono tutte in misura maggiore o minore complementari dello stesso sistema, per cui non può non rilevarsi che le strutture pubbliche, tenute comunque a rendere il servizio, debbono essere per quanto possibile messe in condizione di operare.

Vi è, peraltro, un diverso ed ancora più importante motivo di intervento pubblico nel ripianamento dei disavanzi degli ospedali pubblici, ed è quello che il suddetto ripianamento compete al soggetto che ha la proprietà degli stessi, mentre le strutture private, per quanto classificate hanno una diversa proprietà, alla quale compete, ai sensi della normativa generale, il prendere in considerazione la copertura delle eventuali perdite riscontrate. SL



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Inserito in data 06/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 aprile 2012, n. 1956

E’ perentorio il carattere dei termini di inizio e conclusione dei provvedimenti disciplinari.

Invero, la P.a. deve promuovere l’azione disciplinare senza ritardi , a garanzia dell’incolpato per evitare una sorta di sperimentabilità sine die del procedimento disciplinare. SL



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Inserito in data 06/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 aprile 2012, n. 1939

Concorsi pubblici: è legittimo il voto espresso esclusivamente in termini numerici.

Il voto numerico, attribuito dalle competenti Commissioni alle prove scritte ed orali di un concorso pubblico, esprime e sintetizza il giudizio tecnico-discrezionale della Commissione stessa, contenendo in sé la sua stessa motivazione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti (salvo il caso in cui, mancando l'unanimità, uno dei commissari solleciti specifiche determinazioni).

La motivazione espressa numericamente, oltre a rispondere al principio di economicità e proporzionalità dell’azione amministrativa di valutazione, assicura infatti la necessaria spiegazione delle valutazioni di merito compiute dalla Commissione e consente il sindacato sul potere amministrativo esercitato. SL



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Inserito in data 02/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2012, n. 1925

Giudizi di avanzamento a scelta dei militari con grado elevato: alto tasso di discrezionalità tecnica.

La Sezione ha avuto modo di affermare che i giudizi di avanzamento a scelta dei militari, soprattutto quelli con grado elevato, sono connotati da un alto tasso di discrezionalità tecnica, implicando un apprezzamento della carriera e della professionalità di soggetti di solito dotati di elevato profilo, fra i quali le differenze di valutazione finiscono sovente per essere affidate ad elementi estremamente specifici o sfumati; ne discende che le predette valutazioni sono sindacabili dal giudice di legittimità solo nei casi di manifesta e macroscopica illogicità nelle attribuzioni dei giudizi tale da denunciarne lo sviamento rispetto alle finalità di individuare gli ufficiali dotati di profilo migliore.

Nelle procedure in parola il giudizio operato dalla Commissione è la risultanza di una valutazione complessiva nella quale assumono indivisibile rilievo gli elementi personali e di servizio. Ora, parte appellante procede nella sua tesi difensiva a scindere i singoli elementi e a considerarli in maniera separata, ma la valenza di uno specifico titolo ritenuto maggiormente rappresentativo della personalità dell’ufficiale in realtà ben può essere compensata da altri titoli in possesso dei pari gradi scrutinati, in un situazione di bilanciamento. FT



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Inserito in data 02/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2012, n. 1924

Ricostruzione di carriera: i benefici economici maturano dalla data di emanazione del provvedimento.

La questione della individuazione della decorrenza del diritto alla rivalutazione monetaria ed agli interessi su somme erogate con ritardo ai pubblici dipendenti, nel caso in cui il diritto patrimoniale trovi fonte direttamente in un provvedimento amministrativo, va risolta nel senso che la data di maturazione è quella del provvedimento, ancorché questo abbia efficacia retroattiva. Ciò è dovuto alla particolare natura degli atti di ricostruzione di carriera, di reinquadramento, o di attribuzione di benefici economici in modo selettivo i quali, anche se ad effetto retroattivo, producono, allorché abbiano carattere costitutivo ed innovativo, accessori sul capitale, a partire dalla data della loro emanazione, in vista del contenuto di interesse legittimo della posizione sottostante.

L’orientamento negativo sulla spettanza di somme accessorie va applicato anche alle questioni attinenti al rapporto fra giudicato amministrativo e corresponsione di accessori (interessi legali e rivalutazione monetaria). Infatti, anche in caso di estensione del giudicato che comporta l'attribuzione retroattiva di benefici economici, non spettano interessi e rivalutazione monetaria sulle somme corrisposte, atteso che il periodo di tempo preso in considerazione dall'amministrazione per disporre la retroattività della corresponsione dei benefici economici è giuridicamente rilevante nei soli limiti in cui è disposto il pagamento degli emolumenti, che altrimenti non dovrebbero essere corrisposti, ma è del tutto irrilevante rispetto al sorgere di obbligazioni accessorie, che postulano la effettiva nascita di un credito principale . Pertanto, il diritto alla corresponsione di interessi legali e rivalutazione monetaria ai sensi dell'art. 429, 3 comma c.p.c., su crediti retributivi tardivamente soddisfatti spetta esclusivamente a partire dalla concreta esigibilità del credito principale, che normalmente si identifica con la data di adozione del provvedimento costitutivo, tranne i casi eccezionali, in cui la natura del disposto inquadramento sia meramente dichiarativa (in forza di legge, regolamento o contrattazione collettiva); ovvero risulti attuativo di un giudicato che specificatamente abbia fissato la decorrenza di tali accessori. FT



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Inserito in data 02/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2012, n. 1914

Selezione militare, giudizio di non idoneità: può essere sufficiente una motivazione per relationem.

Ritiene utile il Collegio richiamare, innanzi tutto, l’orientamento giurisprudenziale alla stregua del quale è sufficiente anche la motivazione per relationem specialmente allorquando il provvedimento conclusivo del procedimento costituisca, come nella specie, espressione sintetica di concrete valutazioni operate da organi altamente qualificati nell’ambito di appositi sub procedimenti tecnici regolati da disposizioni preventivamente determinate in sede regolamentare, quali, nella specie, quelle rinvenibili nell’art. 11 del bando e nel Foglio d’Ordini n. 54 del Comando Generale della Guardia di Finanza, volti all’accertamento della sussistenza o meno in capo ai candidati ad una selezione militare dei requisiti specifici necessari per l’arruolamento.

Nella specie, gli atti che hanno condotto l’Amministrazione ad emettere l’impugnato giudizio di non idoneità definiscono con chiarezza e precisione le ragioni sulle quali detto giudizio è stato fondato. Né pare ragionevolmente revocabile in dubbio che il contenuto di detti atti procedimentali sia logicamente ricompreso nella formula riassuntiva adoperata dalla Sottocommissione per esprimere il giudizio di non idoneità, non fosse altro che per un principio di economia anche dei mezzi espressivi allorquando, come nel caso in esame, la decisione finale racchiuda in sé tutti i precedenti atti istruttori a contenuto concretamente rilevante. FT



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Inserito in data 02/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 marzo 2012, n. 1910

Discrezionalità tecnica della commissione esaminatrice nella valutazione di ammissibilità dei titoli.

Il punto nodale della vexata quaestio è costituito dalla legittimità o meno del fatto per cui, con riferimento alla più generale previsione della categoria di titoli prevista dal bando, la Commissione in sede di applicazione dei criteri di valutazione ha espressamente conferito valenza ai fini dell’ammissibilità dei titoli valutabili, ai soli concorsi interni per esami e per titoli ed esami, per poi operare una sorta di “sbarramento” dall’esterno, escludendo la valutazione del risultato positivo conseguito nei concorsi banditi da altra amministrazione.

Ora, ritiene il Collegio che bene ha fatto la commissione a non valutare il superamento del concorso interno per titoli a vice dirigente dell’Amministrazione postale, dovendosi, invero, rilevare la sussistenza di valide ragioni preclusive alla valutabilità del titolo in questione. Invero, va qui osservato come la Commissione esaminatrice goda di una ampia discrezionalità ( in particolare, allorchè, come nel caso de quo, le disposizioni del bando non sono puntuali in ordine alla individuazione dei titoli e del punteggio da attribuire ) nel senso che è sua facoltà effettuare un specificazione dei titoli e una graduazione della relativa importanza, proprio al fine di rendere concreti, attuali e utilizzabili gli stessi criteri del bando. Trattasi di un potere squisitamente tecnico- discrezionale rimesso “ratione officii” all’Organo preposto a giudicare dell’ammissibilità e del valore dei titoli che è suscettibile di censura solo in presenza di macroscopici vizi di irrazionalità, illogicità e sviamento nella specie non rinvenibili. Quella operata dalla commissione in realtà non è una limitazione che si contrappone al dettato recato dal bando, ma l’esercizio legittimo di una scelta con cui si intende nell’ambito della categoria generale del titolo indicata dal bando stesso (quella dei concorsi interni) accordare preferenza, in ragione della loro insita valenza, ai soli concorsi interni “per esami” e per “titoli ed esami”, senza che una siffatta previsione si appalesi illogica e/o contraddittoria né tanto meno discriminatoria rispetto a quanto previsto dalla normativa del bando a monte dettata. FT



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Inserito in data 02/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 31 marzo 2012, n. 1896

Omesso inserimento dichiarazione ex art 38 Cod Contr : può determinare esclusione dalla gara.

L’omesso inserimento della dichiarazione resa ex art. 38 nel plico dell’ offerta, stante la mancata contestazione dell’esistenza, a carico del preteso Direttore tecnico, di elementi preclusivi alla partecipazione, integra dunque una mera irregolarità formale, sanabile ex art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006. La sanzione dell’esclusione, a fronte di una produzione documentale che non avrebbe introdotto alcun elemento ostativo quanto alle correlate valutazioni del seggio di gara, si palesa, quindi, quale misura contrastante con i canoni di proporzionalità e buona amministrazione che presiedono all’esercizio del potere amministrativo. In buona sostanza, i primi giudici, pur non ignorando l’orientamento giurisprudenziale ispirato ad un approccio più rigoroso, in base al quale la semplice omessa produzione della dichiarazione determina di per sé l’esclusione dell’impresa concorrente dalla gara, hanno preferito valorizzare il profilo sostanziale dell’istituto aderendo all’opposto orientamento, ogni volta che non sussistano in concreto situazioni ostative alla partecipazione.

Il Collegio non condivide la scelta dei primi giudici e ritiene di dover confermare l’indirizzo più rigoroso, che, invero, ha ormai assunto rilievo prevalente, quanto meno nei casi, come quello in esame, in cui l’omessa dichiarazione risulti espressamente sanzionata con l’esclusione dalla legge della gara. E’ pur vero che l’art. 46 del d. lgs. n. 163 del 2006 – cui si ispira la clausola del disciplinare valorizzata dalla sentenza impugnata - codifica uno strumento inteso a far valere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma nell'esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione; tuttavia, i limiti che, in generale, incontra il potere-dovere di chiedere una integrazione documentale e regolarizzare le dichiarazioni lacunose o incomplete, sono molto stringenti dovendo conciliarsi con la esigenza di par condicio, che esclude il soccorso a fronte di inosservanza di adempimenti procedimentali significativi o di omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara. FT



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Inserito in data 01/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 marzo 2012, n. 1871

Pubblico Impiego: suscettibili di decadenza, quali atti autoritativi, i provvedimenti di inquadramento.

  • In sede di ricostruzione della carriera, come richiesta nel caso in esame, il Giudice d’appello ricorda la natura autoritativa degli atti di inquadramento al cospetto dei quali il singolo vanta una posizione di interesse legittimo, con le conseguenze derivanti in sede processuale;
  • Non è possibile, quindi, un’azione di accertamento ultronea, tesa alla disapplicazione di provvedimenti che l'Amministrazione ha già emesso, in passato, riguardo ad altri dipendenti;
  • Né, altresì, richiamando ancora giurisprudenza ormai costante, sarebbe possibile estendere il giudicato risultato favorevole per tali ultimi soggetti, ad altri non partecipi del giudizio, come l’appellante del caso quivi scrutinato. CC


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Inserito in data 01/04/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 29 marzo 2012, n. 1873

Puntualizzazioni in tema di scorrimento di graduatorie e nuovi bandi, anche alla luce dell’Ad. Pl. 14/11.

  • Il Collegio accoglie il gravame di un noto Istituto Ortopedico avverso una pronuncia che, in primo grado, aveva accolto la doglianza di un Dirigente Biologo che lamentava la pubblicazione di analogo bando di concorso, per la medesima funzione,  a brevissima distanza da quello in cui Questi si classificava al secondo posto;
  • La richiesta di utilizzazione delle graduatorie già esistenti, condivisa dal Giudice di prime cure, viene invece disattesa in sede di appello sottolineando la particolare e differente specializzazione richiesta dall’Amministrazione appellante all’atto del secondo bando, quivi impugnato. Requisiti di cui la ricorrente, invece, non era in possesso;
  • Tanto più alla luce delle precisioni dell’Ad. Plenaria n. 14/11 che, ricordando come debba attribuirsi risalto determinante all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso, evidenzia come le vecchie graduatorie recedano rispetto ai nuovi bandi, espletati al fine di individuare figure maggiormente specializzate, come nel caso in esame. CC


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Inserito in data 01/04/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 30 marzo 2012, n. 75

Art. 15 D.lgs  n. 111/95 e contrasto con gli artt. 76 e 77 Costituzione per difetto di delega.

  • I Giudici della Consulta, accogliendo la doglianza del Tribunale a quo, ravvedono l’illegittimità della norma del Decreto delegato laddove Esso ha posto un limite alla possibilità risarcitoria del danno alla persona, in sede di vacanze e viaggi “tutto compreso”;
  • Il Legislatore delegato ha, infatti, adoperato il medesimo strumento che la Fonte comunitaria di provenienza aveva già previsto solo per i danni diversi dal danno alla persona;
  • Appare, quindi, evidente l’illegittimità della norma quivi censurata, nella parte in cui non ha rispettato i paletti posti in sede di Delega conferita per dare attuazione alla normativa europea, sempre più tesa, invece, al massimo ristoro delle persone danneggiate da un turismo non del tutto conforme. CC


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Inserito in data 31/03/2012
TAR SICILIA PALERMO, SEZ. I, 14 marzo 2012, n. 559

Precisazioni sulla natura ed i presupposti della class action ex D. Lgs. n. 198/09.

  • Il Collegio palermitano, in primo luogo, aderisce all’indirizzo inaugurato dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che, tra le prime applicazioni dell’istituto in esame, aveva affermato  l’ammissibilità dello stesso per mancata emanazione entro e non oltre un dato termine di atti amministrativi generali obbligatori, sebbene privi di contenuto normativo;
  • Chiarisce, altresì, la natura della pronuncia emessa quale epilogo dell’azione in questione che, in quanto di mero accertamento e non condannatoria, non necessita di un contraddittorio completo;
  • Ne sottolinea, infatti,  la mancanza di effetti costitutivi diversi dall’obbligo attuativo a carico della P.A.; il che consente di escludere la necessità di un immediato coinvolgimento di tutte le Amministrazioni che si determinano in sede di concerto;
  • Si tratta, infatti, di accertamento con finalità propulsive rispetto alla mancata adozione degli atti lamentati e, discostandosi in parte dall’arresto 15/11 dell’Adunanza Plenaria, il Giudice siciliano giunge ad assimilarla, pur parzialmente, ad un rimedio ex art. 2932 cod. civ. CC


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Inserito in data 31/03/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, SEZ. IV, 29 marzo 2012, C-599/10

Appalti: conforme a Direttiva che l’Amministrazione aggiudicatrice chieda chiarimenti ai candidati.

Il Giudice Europeo, richiamando la Direttiva n. 2004/18/CE, specifica la possibilità che l’Amministrazione aggiudicatrice possa risolvere i propri dubbi in merito ad offerte anormalmente basse, chiedendo chiarimenti ai rispettivi candidati.

Questi sono tenuti, quindi, a dar prova della serietà della propria partecipazione alla gara; non, invece, a fornire ragguagli ove l’offerta fosse  imprecisa o non conforme alle specifiche tecniche del capitolato d’oneri. CC



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Inserito in data 29/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ordinanza 5 marzo 2012, n. 1244

Rinvio pregiudiziale, obbligo del giudice di ultima istanza: questioni sull’art. 267 par. 3 TFUE.

Si rimettono alla Corte di Giustizia CE le seguenti questioni pregiudiziali di interpretazione dell’art. 267, par. 3, TFUE:

a) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, la disciplina processuale nazionale che preveda un sistema di preclusioni processuali, quali termini di ricorso, specificità dei motivi, divieto di modifica della domanda in corso di causa, divieto per il giudice di modificare la domanda di parte;

b) se osti o meno all’applicazione dell’art. 267, par. 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevanza della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma comunitaria;

c) se l’art. 267, par. 3, TFUE, ove interpretato nel senso di imporre al giudice nazionale di ultima istanza un obbligo incondizionato di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, sia o meno coerente con il principio di ragionevole durata del processo, del pari enunciato dal diritto comunitario;

d) in presenza di quali circostanze di fatto e di diritto l’inosservanza dell’art. 267, par. 3, TFUE configuri, da parte del giudice nazionale, una “violazione manifesta del diritto comunitario”, e se tale nozione possa essere di diversa portata e ambito ai fini dell’azione speciale nei confronti dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988 n.117 per “risarcimento danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati” e dell’azione generale nei confronti dello Stato per violazione del diritto comunitario. FT



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Inserito in data 29/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 23 marzo 2012, n. 68

Illegittimità dell’art. 630 c. p. per mancata previsione di un’attenuante, al pari di ipotesi affine.

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 630 del codice penale, nella parte in cui non prevede, in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, una circostanza attenuante speciale per i fatti di «lieve entità», analoga a quella applicabile, in forza dell’art. 311 cod. pen., al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, di cui all’art. 289-bis del medesimo codice. Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe i principi di ragionevolezza, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena (art. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione), prevedendo, per il sequestro a scopo estorsivo, una risposta sanzionatoria di eccezionale asprezza e tutta compressa «verso l’alto» – la reclusione da venticinque a trenta anni – non ragionevolmente proporzionata all’intera gamma dei fatti riconducibili al modello legale. Censurabile, per questo verso, sarebbe segnatamente la mancata previsione di una circostanza attenuante che consenta al giudice di mitigare la risposta punitiva, in presenza di elementi oggettivi rivelatori di una limitata gravità del fatto, sulla falsariga di quanto è consentito dall’art. 311 cod. pen. in rapporto al sequestro di persona a scopo terroristico o eversivo. Al riguardo, emergerebbe, in effetti, una irrazionale disparità di trattamento di situazioni omologhe, per la piena assimilabilità della figura criminosa ora indicata al sequestro estorsivo, quanto a struttura, requisiti di fattispecie, risposta sanzionatoria e rango degli interessi tutelati. La questione è fondata.

Va dichiarata, pertanto, l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. FT



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Inserito in data 28/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 marzo 2012, n. 1514

Art. 42 bis TU Espropri: rapporto tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria ed annullamento.

Vengono segnatamente in rilievo le vicende normative che hanno interessato il TU espropri ed in particolare il suo originario art. 43, oggetto prima di una dichiarazione di illegittimità costituzionale e poi di un riformulazione normativa che ha trovato il suo alveo nel nuovo art. 42 bis, dichiaratamente applicabile ai giudizi pendenti qual è quello in valutazione. “All’autorità amministrativa che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità - recita la norma - è attribuito il potere di disporre, valutato gli interessi in conflitto, che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene”.

L’art. 42 bis, pur facendo salvo il potere di acquisizione sanante in capo alla P.A. non ripropone lo schema processuale previsto dal comma 2 dell’originario art. 43, che attribuiva all’amministrazione la facoltà e l’onere di chiedere la limitazione alla sola condanna risarcitoria, ed al giudice il potere di escludere senza limiti di tempo la restituzione del bene, con il corollario dell’obbligatoria e successiva emanazione dell’atto di acquisizione. L’eliminazione della descritta facoltà inibisce, sul piano processuale, l’emersione dell’interesse pubblico all’acquisizione dell’immobile, sia pur in sanatoria, dovendosi del resto escludersi che l’interesse ... costituisca o possa costituire (venuta meno la peculiare norma di cui al 43 comma 2) oggetto e frutto di quella ponderata valutazione degli “interessi in conflitto” che il legislatore demanda esclusivamente all’amministrazione nell’ambito della naturale sede procedimentale.

Ciò nonostante il potere discrezionale dell’amministrazione di disporre l’acquisizione sanante è conservato: l’art. 42 bis infatti regola i rapporti tra potere amministrativo di acquisizione in sanatoria e processo amministrativo di annullamento, in termini di autonomia, consentendo l’emanazione del provvedimento dopo che “sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio” od anche, “durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti citati, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira”. Non regola più, invece, come innanzi accennato, i rapporti tra azione risarcitoria, potere di condanna del giudice e successiva attività dell’amministrazione, sicché, ove il giudice, in applicazione dei principi generali, condannasse l’amministrazione alla restituzione del bene, il vincolo del giudicato eliderebbe irrimediabilmente il potere sanante dell’amministrazione (salva ovviamente l’autonoma volontà transattiva delle parti) con conseguente frustrazione degli obiettivi avuti a riferimento dal legislatore.

I principi derivanti dall’interpretazione sistematica delle norme citate e le possibilità insite nel principio di atipicità delle pronunce di condanna, ex art. 34 lett. c c.p.a., impongono allora una limitazione della condanna all’obbligo generico di provvedere ex art. 42 bis, salvi gli effetti vincolanti degli accertamenti compiuti nella sede giudiziaria i cui esiti sono irretrattabili. FT



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Inserito in data 26/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 marzo 2012, n. 1708

Diritto a differenze retributive per mansioni superiori svolte e per l’indennità di rischio radiologico.

  • Il Collegio precisa, rigettando l’istanza dell’appellante e confermando la pronuncia di primo grado, che la possibilità di percepire differenze retributive per mansioni superiori eventualmente svolte è prevista in ipotesi tassative, specie in ambito sanitario;
  • Tanto la vacanza in organico, quanto l’apposito conferimento di incarico, quali le due sole ipotesi possibili, non si sono registrati nel caso in esame in cui, invero, il ricorrente aveva espletato mansioni comunque riconducibili alla qualifica funzionale con cui era stato assunto;
  • Riguardo, poi, all’esposizione a rischio radiologico, i Giudici amministrativi, richiamando giurisprudenza costituzionale del passato, ricordano come la possibilità di percepire ulteriori introiti sia subordinata alla necessaria prova che il personale para sanitario possa dare circa la propria continua esposizione o, eventualmente, riguardo ad un proprio inserimento in apposita Commissione - prevista dall'articolo 1 comma 3 della legge 27 ottobre 1988 n. 460;
  • Visto che nessuno di tali parametri ricorre nel caso in esame, le richieste dell’appellante sono tutte rigettate. CC


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Inserito in data 26/03/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, TERZA SEZIONE, 15 marzo 2012, C-135/10

Concetto di comunicazione al pubblico e dei possibili compensi al produttore fonografico.

  • La Corte chiarisce la portata del concetto di comunicazione al pubblico, nel senso che essa non comprende la diffusione gratuita di fonogrammi effettuata all’interno di uno studio professionale privato, come quello di cui alla controversia principale, esercente attività economica di tipo libero-professionale;
  • Trattasi, in quel caso, di messa a disposizione del pubblico, a beneficio della relativa clientela e da questa fruita indipendentemente da un proprio atto di volontà; non dà, quindi, diritto alla percezione di un compenso in favore dei produttori fonografici;
  • Il Giudice europeo specifica, altresì, la portata della prima definizione – di comunicazione al pubblico - che, rientrando negli accordi internazionali di gestione delle proprietà intellettuali, ha rango di fonte nell’ordinamento internazionale ma non è applicabile nei rapporti tra i privati. CC


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Inserito in data 24/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 marzo 2012, n. 1646

Art 38 dlgs 163/06, dichiarazione su amministratori cessati nel triennio: è resa per quanto a conoscenza.

Alla stregua della portata dell'art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, deve ritenersi che le valutazioni in ordine alla gravità delle condanne riportate dai concorrenti ed alla loro incidenza sulla moralità professionale spettano alla Stazione appaltante e non al concorrente medesimo, il quale è pertanto tenuto a indicare tutte le condanne riportate, non potendo operare a monte alcun « filtro », omettendo la dichiarazione di alcune di esse sulla base di una selezione compiuta secondo criteri personali. Ne consegue che, in ipotesi di omessa dichiarazione di condanne riportate è legittimo il provvedimento d’esclusione non dovendosi configurare in capo alla stazione appaltante l’ulteriore obbligo di vagliare la gravità del precedente penale di cui è stata omessa la dichiarazione e conseguendo la statuizione espulsiva dalla omissione della prescritta dichiarazione.

Costituisce jus receptum il principio per cui l’omessa indicazione dei soggetti cessati nel triennio integra causa di esclusione non ponendo la stazione appaltante nelle condizioni di controllare in capo a questi ultimi la sussistenza di condizioni ostative. Nel caso di specie, tuttavia, l’appellante ha presentato una dichiarazione completa che contemplava la posizione di tutti gli amministratori cessati. In ordine ai doveri incombenti ai sensi dell’art. 38 citato con riferimento ai predetti soggetti cessati, la uniforme giurisprudenza amministrativa ritiene che la dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta dall'art. 38 d.lg. 163/2006 al legale rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali - previste dal medesimo art. 38 - nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi (e non il medesimo dichiarante) non può che essere resa (ai sensi dell'art. 47 d.P.R. 445/2000) "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione - a fronte di una compiuta Identificazione di questi ultimi - procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici (ai quali la stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso). In particolare, si è affermato che gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini di buona fede quando i fatti da attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto alla società dichiarante.

Né il giudizio sulla non gravità del predetto precedente penale, reso dalla Stazione appaltante appare – isolatamente considerato- censurabile, dovendosi rammentare l’ampia discrezionalità di cui godeva la medesima nell’apprezzamento di tale profilo.

Si rammenta in proposito che la prima parte della norma dell'art. 38 comma 1, lett. c) del c.d. “codice dei contratti,” s'indirizza al concorrente prevedendo il divieto di partecipazione alle gare per gli operatori che siano stati condannati con sentenza passata in giudicato per "reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale", indicando una categoria di reati non definita compiutamente in cui si lascia alla stazione appaltante un margine di apprezzamento (come si evince peraltro dalla circostanza che la seconda parte della norma, facendo riferimento a fattispecie espressamente specifiche -partecipazione ad un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio- s'indirizza alla stazione appaltante, privandola di qualsiasi potere discrezionale di valutazione, nel senso che alle sentenze di condanna per uno dei predetti reati si connette un effetto automatico di preclusione della partecipazione ai pubblici appalti). FT



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Inserito in data 24/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 22 marzo 2012, n. 1633

Servizi pubblici locali, presupposti della legittimità dell’affidamento diretto a società miste.

Non coglie nel segno, in primo luogo, la censura con la quale si contesta la violazione dell’art. 23 bis del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Si deve premettere che il comma 8, lettera e) dell’art. 23 bis cit., nel testo ratione temporis vigente, disponeva la cessazione, entro e non oltre il 31 dicembre 2010, delle gestioni dei servizi pubblici locali affidate in assenza dei presupposti di cui alle precedenti lettere da a) a d). La lettera b), che in questa sede viene in rilievo, consentiva, a sua volta, l’affidamento diretto del servizio a società a partecipazione pubblica qualora la selezione del socio privato fosse avvenuta mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica rispettosa dei principi comunitari e nazionali. Dall’esame della documentazione in atti si ricava che detto ultimo presupposto non si è verificato con riguardo alla selezione del socio privato della società mista in quanto la relativa procedura, espletata nel 1998, si è svolta in contrasto con i principi che informano la materia. Nella specie, infatti, per un verso, la procedura è stata riservata solo a tre imprese operanti in ambito regionale, e, per altro verso, non è stata pubblicata una lex specialis corredata dalla fissazione dei criteri di valutazione volti a regolare la selezione comparativa ed a consentire ai soggetti interessati di far valere le proprie chances competitive. Il difetto di pubblicità che connota tale modus agendi e la previsione di restrizioni discriminatorie si traducono nella trasgressione dei fondamentali principi comunitari di trasparenza, non discriminazione, mutuo riconoscimento e parità di trattamento, principi - da ultimo richiamati, anche per i contratti esclusi, dall’art. 27 del codice dei contratti pubblici - che devono informare anche lo svolgimento di procedure competitive non assoggettate a vincoli legislativi puntuali. FT



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Inserito in data 24/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 23 marzo 2012, n. 67

Regione Siciliana, incompatibilità tra la carica di sindaco/assessore e quella di deputato regionale.

La Regione non può sottrarsi, se non laddove ricorrano «condizioni peculiari locali», all’applicazione dei princìpi enunciati dalla legge n. 165 del 2004, che sono espressivi dell’esigenza indefettibile di uniformità imposta dagli artt. 3 e 51 Cost. In applicazione di siffatti princìpi – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge regionale n. 29 del 1951, in materia di elezione dei deputati alla Assemblea regionale siciliana, «nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra l’ufficio di deputato regionale e la sopravvenuta carica di sindaco e assessore di un Comune, compreso nel territorio della Regione, con popolazione superiore a ventimila abitanti» – la lacuna normativa di cui soffriva la legge allora censurata (in assenza di «condizioni peculiari locali») è stata ritenuta conseguentemente non conforme al vincolo di configurare, a certe condizioni, le ineleggibilità sopravvenute come cause di incompatibilità; vincolo che l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 165 del 2004 stabilisce debba applicarsi «qualora ricorrano» casi di conflitto fra le funzioni dei consiglieri regionali «e altre situazioni o cariche, comprese quelle elettive, suscettibili, anche in relazione a peculiari condizioni delle Regioni, di compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione ovvero il libero espletamento della carica elettiva» (art. 3, comma 1, lettera a, di detta legge). Da ciò la necessità che il medesimo vincolo (che si sostanzia in un parallelismo tra cause di ineleggibilità e cause di incompatibilità verificatesi dopo l’elezione) sia assicurato allorquando (appunto in assenza di specifiche e comprovabili peculiarità) si assuma che il cumulo tra gli uffici elettivi sia suscettibile di compromettere il libero espletamento della carica o comunque i princìpi tutelati dall’art. 97 Cost., dovendosi infatti ritenere che il congiunto esercizio delle cariche in questione sia in linea di massima da escludere.

La sussistenza di un’identica situazione di incompatibilità derivante dal cumulo tra la carica di deputato regionale e quella di (sindaco o) assessore di un comune, compreso nel territorio della Regione, con popolazione superiore a ventimila abitanti – in assenza di una peculiare ragione (enucleabile all’interno delle disposizioni impugnate ovvero nel più ampio sistema in cui esse operano) idonea ad attribuirne ragionevole giustificazione – porta (stante l’assoluta identità di ratio) alla declaratoria di illegittimità costituzionale della mancata specifica previsione di tale incompatibilità nelle leggi regionali oggi censurate (relative alle elezioni degli enti locali). D’altro canto, in considerazione della naturale corrispondenza biunivoca delle cause di incompatibilità, che vengono ad incidere necessariamente su entrambe le cariche coinvolte dalla relativa previsione, anche a prescindere dal dato temporale dello svolgimento dell’elezione, risulterebbe ancor più marcato il profilo di irragionevolezza di una residua asimmetria regolatoria (rispetto ad un insieme normativo non coinvolto dalla declaratoria di incostituzionalità, perché estraneo a quel thema decidendum).

Ne discende che la legge regionale siciliana n. 31 del 1986, in combinato disposto con la legge regionale siciliana n. 7 del 1992, nella parte in cui non prevedono che la carica di sindaco o di assessore di comuni con popolazione superiore a ventimila abitanti sia incompatibile con la carica di deputato dell’Assemblea regionale, vanno dichiarate costituzionalmente illegittime per violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost. FT



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Inserito in data 24/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 21 marzo 2012, n. 64

Federalismo fiscale/Regioni statuto speciale: limiti spettanza a Comuni di gettito tributi erariali.

La Regione siciliana ha promosso questioni principali di legittimità costituzionale degli artt. 2 [recte: i soli commi da 1 a 4 di tale articolo] e 14, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 (Disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale).

Nel merito, le questioni non sono fondate nei termini di séguito precisati. La ricorrente deduce che l’applicazione alla Regione siciliana del d.lgs. n. 23 del 2011, prevista – a suo avviso – dal denunciato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, si pone in contrasto con il richiamato disposto degli artt. 36 e 37 dello statuto d’autonomia e con le relative norme di attuazione, perché la compartecipazione dei Comuni al gettito di determinati tributi erariali (l’IVA ed i tributi concernenti la «fiscalità immobiliare»), stabilita dai pure censurati commi da 1 a 4 dell’art. 2 dello stesso decreto, comporta la devoluzione ai Comuni siciliani di un gettito tributario che, derivando da tributi riscossi nel territorio regionale, spetta, invece, alla Regione. La questione non è fondata, perché, pur non potendosi negare la spettanza alla Regione siciliana del gettito degli indicati tributi riscossi nel suo territorio e, quindi, la potenziale sussistenza del denunciato contrasto, deve ritenersi che proprio questo contrasto rende operante la clausola di “salvaguardia”degli statuti speciali contenuta nel parimenti censurato comma 2 dell’art. 14 del d.lgs. n. 23 del 2011, secondo cui il decreto «si applica nei confronti delle regioni a statuto speciale» solo «nel rispetto dei rispettivi statuti». Ne consegue l’inapplicabilità alla Regione ricorrente dei censurati commi dell’art. 2, in quanto “non rispettosi” dello statuto d’autonomia (...) Cosí interpretata la suddetta clausola di salvaguardia, ne risulta, dunque, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove la Regione ricorrente, secondo cui le norme censurate sancirebbero l’«obbligo» di applicare il d.lgs. n. 23 del 2011 nei confronti delle Regioni a statuto speciale. Da tale erroneità consegue l’insussistenza del dedotto vulnus degli evocati parametri. FT



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Inserito in data 24/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 19 marzo 2012, n. 58

Agevolazione colposa sottrazione veicolo sequestrato: inammissibile questione legittimità art 335 cp.

Il rimettente dubita, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 335 del codice penale, nella parte in cui punisce la colposa agevolazione della sottrazione di un’autovettura sequestrata da parte di un custode che, se avesse compiuto dolosamente e direttamente la medesima sottrazione, non sarebbe andato incontro ad alcuna sanzione penale, per l’avvenuta depenalizzazione della relativa condotta. Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto, alla luce della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione del 28 ottobre 2010, n. 1963/2011, il custode che circoli abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, o concorra dolosamente nella circolazione operata da altri (mediante affidamento volontario e consapevole del veicolo stesso), risponde esclusivamente, ai sensi dell’art. 213 del nuovo codice della strada (decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, come modificato dall’art. 19 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507), dell’illecito amministrativo previsto dal quarto comma dello stesso articolo e non anche del delitto di sottrazione di cose sottoposte a sequestro previsto dall’art. 334 cod. pen., perché, ai sensi dell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la prima norma ha carattere di specialità rispetto alla seconda. Per contro, il custode che per mera negligenza consenta ad altri di circolare con un veicolo sotto sequestro realizza (ancora oggi) il più grave illecito penale di cui all’art. 335 cod. pen.

La questione è inammissibile, perché il giudice rimettente non ha preso in considerazione la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione idonea a superare i prospettati dubbi di costituzionalità.

Il tribunale rimettente avrebbe dovuto verificare se il custode di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo che, per colpa, ne agevoli la circolazione abusiva da parte di un terzo, possa essere chiamato a rispondere – ai sensi del combinato disposto degli artt. 5 della legge n. 689 del 1981 e 213, comma 4, del d.lgs. n. 285 del 1992 – a titolo di concorso colposo nell’illecito amministrativo commesso dal terzo; il che farebbe escludere, nel caso di specie, la configurabilità dell’autonomo reato di violazione colposa dei doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro di cui all’art. 335 cod. pen. Con tale interpretazione, rispetto al custode di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo l’assetto normativo venutosi a delineare a seguito della sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione del 28 ottobre 2010, n. 1963/2011, si sottrarrebbe alla censura di violazione dell’art. 3 Cost., non risultando affetto da irragionevolezza, e potrebbe invece essere ricondotto ai principi generali in materia di concorso di persone nell’illecito amministrativo dettati dalla legge n. 689 del 1981. FT



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Inserito in data 24/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, ordinanza 9 marzo 2012, n. 56

Art 135 co 1 lett e cpa: il rimettente rivaluti la questione di legittimità alla luce del Correttivo.

Ad avviso del rimettente, l’art. 135, comma 1, lettera e), cod. proc. amm. è in contrasto con l’art. 76 Cost., là dove stabilisce che l’esercizio della funzione legislativa delegata al Governo deve essere aderente ai principi e criteri stabiliti dal Parlamento. L’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), recante la delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, non contempla, secondo il giudice a quo, tra i principi ed i criteri direttivi l’introduzione di ulteriori ipotesi di competenza funzionale del TAR Lazio (...). Inoltre, la disposizione censurata si pone in conflitto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza della legge, poiché la deroga agli ordinari canoni di riparto tra i diversi TAR, fondati sull’efficacia territoriale dell’atto e sulla sede dell’autorità emanante, non appare, ad avviso del rimettente, sorretta da alcun adeguato fondamento giustificativo.Un tale disegno creerebbe una evidente asimmetria tra i Tribunali amministrativi, che andrebbe ben oltre le questioni relative ai criteri di riparto delle competenze, finendo anche con l’incidere sull’assetto ordinamentale della giustizia amministrativa, delineato nell’art. 125 Cost., che pone sullo stesso piano tutti gli organi giudiziari di primo grado, aventi pari funzioni ed ugualmente sottoposti al sindacato del Consiglio di Stato, come giudice di appello (...). Inoltre, secondo il rimettente, l’assenza di un adeguato fondamento giustificativo della nuova competenza funzionale attribuita al TAR Lazio, slegata da un razionale criterio di collegamento con il giudice designato, determina il contrasto della disposizione censurata anche con il principio del giudice naturale di cui all’art. 25, primo comma, Cost. (...). Peraltro, l’allontanamento del giudice competente a conoscere della controversia, sradicando la causa dalla sua sede ordinaria e naturale, comporta un grave disagio per le parti processuali, non giustificato dalla natura accentrata della pubblica amministrazione o dall’efficacia ultra regionale dei provvedimenti sui quali deve esercitarsi la cognizione del TAR del Lazio. Secondo il giudice a quo, quanto rilevato incide anche sull’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, in considerazione della maggiore difficoltà e dei maggiori costi che devono essere sopportati dagli interessati per esercitare l’azione o per resistere innanzi al TAR Lazio.

In epoca successiva alle ordinanze di rimessione, è entrato in vigore il decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 195 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante codice del processo amministrativo a norma dell’articolo 44, comma 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69) il quale ha modificato alcune disposizioni del codice del processo amministrativo. In particolare, l’art. 1, comma 1, lettera nn), numero 3, del citato d.lgs. ... ha disposto la sostituzione della lettera e) del comma 1, dell’art. 135, con la seguente: «le controversie aventi ad oggetto le ordinanze e i provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell’articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225». La disposizione censurata, dunque, è stata modificata nel senso auspicato dal giudice rimettente, in quanto «le controversie, comunque, attinenti alla complessiva azione di gestione del ciclo dei rifiuti, seppure posta in essere con comportamenti della pubblica amministrazione riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di un pubblico potere, quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati» non sono più attribuite alla competenza funzionale inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma. Di conseguenza, le controversie in oggetto sono ora devolute ai tribunali amministrativi regionali localmente competenti secondo i criteri di cui all’art. 13 cod. proc. amm. Pertanto, deve essere ordinata la restituzione degli atti al giudice rimettente affinchè rivaluti, alla luce del descritto ius superveniens, la persistente rilevanza delle questioni nel giudizio a quo. FT



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Inserito in data 22/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 marzo 2012, n. 1441

Revoca atti di una procedura di evidenza pubblica ed estremi della culpa in contrahendo della P.A.

  • Pur giustificando la revoca del bando di gara per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, i Giudici confermano la culpa in contraendo della stazione appaltante che, prolungando le trattative, ha irrimediabilmente leso gli obblighi di correttezza e buona fede nel corso delle stesse;
  • In merito al quantum debeatur, trattandosi nella specie di un contratto mai concluso, il Collegio, richiamando giurisprudenza costante, lo ancora al c.d. interesse negativo;
  • Tale parametro è rappresentato sia dalle spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative in vista della conclusione del contratto, sia dalla perdita, a causa della trattativa inutilmente intercorsa, di ulteriori occasioni per la stipulazione con altri di un contratto altrettanto o maggiormente vantaggioso. CC


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Inserito in data 22/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 20 marzo 2012, n. 1577

Procedura di riqualificazione per il passaggio dalla Fascia B alla C1; rilievo dei requisiti.

Occorre una prova adeguata e solida in merito al possesso dei requisiti richiesti ai fini di un simile passaggio. Non è affatto sufficiente una mera autodichiarazione del soggetto interessato, priva di convalida da parte del competente Ufficio, come nel caso in esame. CC



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Inserito in data 22/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 marzo 2012, n. 1610

Legittimazione Consiglieri di Enti locali all’impugnazione delle deliberazioni del relativo Collegio.

Il Collegio condivide l’orientamento, ormai assestato, secondo il quale i Consiglieri di Enti locali sono legittimati solo avverso quegli atti che impediscano il proprio “jus ad officium”.

Una simile lesione non sussiste laddove, come nel caso di specie, è giunta tardivamente ai ricorrenti la comunicazione degli atti presupposti ad una proposta di delibera; non è consentita, quindi, la relativa impugnazione. CC



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Inserito in data 20/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 marzo 2012, n. 1449

Vincolo di destinazione d’uso di tipo alberghiero; il Comune eccede nella pianificazione territoriale.

  • Il Collegio interviene e, riprendendo una nota pronuncia della Corte Costituzionale in merito – n. 4/81, ricorda la necessità e l’opportunità di rispettare l’intrinseca natura temporalmente limitata dei vincoli per l’uso alberghiero di un immobile;
  • Le discriminazioni arrecate con un regime vincolistico troppo lungo, quale quello quivi lamentato dall’impresa ricorrente, finirebbero con l’apportare un limite al bene e, di conseguenza, anche all’attività economica potenzialmente dallo stesso ricavabile;
  • E’, pertanto, condivisibile la scelta di impugnare il P.U.C., laddove il Comune ha travalicato i propri poteri di pianificazione territoriale, finendo con il comprimere il diritto di iniziativa economica e di proprietà dell’appellante, in spregio della lettura costituzionalmente orientata dei vincoli alberghieri, ormai invalsa al riguardo. CC


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Inserito in data 20/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 marzo 2012, n. 1552

Negato rinnovo della licenza di porto di fucile da caccia; si contesta automatismo delle norme ostative.

  • Nonostante sussistano le ragioni ostative, previste ex lege, al rinnovo della licenza di porto d’arma, non mancano i casi in cui le situazioni personali spingano a valutare diversamente;
  • E’ necessario, quindi, che l’Amministrazione proceda “ad una concreta prognosi che tenga conto dell’epoca remota della condanna, dei reiterati rinnovi del titolo di polizia nel frattempo, della condotta tenuta successivamente al fatto di reato”;
  • Con la conseguenza, quindi, che grava sull’Amministrazione l’onere di dimostrare le ragioni fondanti il diniego, motivando adeguatamente quelle valutazioni che spingano a ritenere pericoloso o inaffidabile il soggetto interessato. CC


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Inserito in data 20/03/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, PRIMA SEZIONE, 15 marzo 2012, C-453/10

Tutela Consumatore: ciascuno Stato può attuarla superando, anche in parte, la disciplina europea.

I Giudici di Lussemburgo affermano che, nel caso fosse più conveniente per una giusta tutela del consumatore, sarebbe possibile provvedere alla caducazione del’intero contratto. Tutto in deroga al consueto principio voluto dall’Unione che prevede, invece, la nullità parziale delle sole clausole vessatorie. CC



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Inserito in data 17/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 marzo 2012, n. 54

L. Reg. che vieta deposito materiali/rifiuti radioattivi: illegittima ex art 117 co 2 lett s) Cost.

Nessuna Regione – a fronte di determinazioni di carattere ultraregionale, assunte per un efficace sviluppo della produzione di energia elettrica nucleare – può sottrarsi in modo unilaterale ai conseguenti inderogabili oneri di solidarietà economica e sociale. Ciò vale evidentemente anche per i sacrifici connessi alla procedura di stoccaggio e smaltimento dei materiali e dei rifiuti, la cui disciplina resta vigente indipendentemente dall’impatto sul settore dell’energia nucleare degli esiti del referendum abrogativo, che ha riguardato i commi 1 e 8 dell’art. 5 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, convertito con modificazioni dalla legge 26 maggio 2011, n. 75, oggetto del quesito come riformulato dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione con ordinanza 1-3 giugno 2011.

Le disposizioni relative al settore dei materiali e rifiuti radioattivi vanno ascritte alla materia, di esclusiva competenza statale, «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.). Non può rilevare in proposito la ragione apparentemente ricavabile dalla formulazione della disposizione regionale, secondo cui la prevenzione degli elevati rischi connessi alla sismicità ed al dissesto idrogeologico del territorio molisano sarebbe sufficiente a ritagliare una competenza legislativa in materia assimilabile alle categorie della protezione civile, della salute pubblica o del governo del territorio. Occorre, infatti, in proposito precisare che, per definire la materia oggetto delle disposizioni censurate, assume rilievo non la qualificazione che ne dà il legislatore regionale, bensì la natura dell’oggetto ed il significato sostanziale delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando profili marginali e riflessi.

Tanto premesso, la Corte ha specificamente negato che la Regione disponga di poteri in campo ambientale alla stregua del titolo di competenza rappresentato dalla «protezione civile», in presenza della competenza statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Nel medesimo contesto ha escluso la competenza concorrente della Regione in materia di «salute pubblica», affermando che i poteri regionali «non possono consentire, sia pure in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi suscettibili, come nella specie, di pregiudicare, insieme ad altri interessi di rilievo nazionale, il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi. è stato infatti affermato, con particolare riferimento a rifiuti pericolosi come quelli radioattivi, che il problema dello smaltimento – e, più in generale, del loro deposito e di quello di materiali nucleari, considerate le analoghe esigenze di cautela che pongono – non può essere risolto, alla luce della rilevanza nazionale degli interessi in gioco, sulla base di un criterio di “autosufficienza” delle singole Regioni, poiché occorre tener conto quantomeno della necessità di trovare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza.

Infine, quanto al «governo del territorio», l’incidenza della potenziale installazione dei depositi sul territorio regionale determina effettivamente l’intreccio dell’intervento statale con detta materia di concorrente competenza regionale; ciò comporta, tuttavia, il semplice coinvolgimento, attraverso opportune forme di collaborazione, della Regione interessata Peraltro, il doveroso coinvolgimento regionale e la previsione dell’intesa nella norma qui impugnata non sono elementi sufficienti ad impedire l’invasione della competenza statale realizzata da parte della disposizione in esame, atteso che le idonee modalità di collaborazione devono essere individuate e disciplinate dal legislatore cui spetta la competenza in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ossia dal legislatore statale, il cui operato, ove si riveli lesivo dell’autonomia regionale, potrà soltanto essere sottoposto dalla Regione interessata al vaglio di costituzionalità della Corte. FT



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Inserito in data 17/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 marzo 2012, n. 53

Soggetti esterni, incarico di collaborazione con organi di vertice: limiti deroga ai criteri statali.

La questione, promossa con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, è fondata. Questa Corte ha più volte affermato, in tema di incarichi temporanei a soggetti esterni all’amministrazione, il principio in base al quale la Regione può derogare ai criteri statali di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 citato, a condizione che preveda, in alternativa, altri criteri di valutazione, ugualmente idonei a garantire la competenza e la professionalità dei soggetti di cui si avvale e ad assicurare che la scelta dei collaboratori esterni avvenga secondo i canoni della buona amministrazione, onde evitare che sia consentito l’accesso a tali uffici di personale esterno del tutto privo di qualificazione.

Tale principio è stato ribadito anche con specifico riferimento a disposizioni regionali, simili a quella oggi impugnata, che miravano a consentire il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato con persone esterne in ausilio dell’attività di un proprio organo di vertice o di altra struttura politica (Presidente e componenti della Giunta, Presidente del Consiglio regionale e gruppi consiliari). Simili forme di diretta collaborazione, per loro natura temporanee (in quanto strettamente connesse con la permanenza in carica dell’organo di rappresentanza politica dell’Ente), presuppongono che l’individuazione dei collaboratori esterni avvenga anche sulla base di criteri di tipo fiduciario, dato il carattere politico dell’organo che questi ultimi sono chiamati a coadiuvare. In ragione della specificità degli uffici di diretta collaborazione, questa Corte ha affermato che le Regioni possono dettare, in deroga ai criteri di selezione dettati dall’art. 7, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, dei propri, autonomi, criteri selettivi, che tengano conto della peculiarità dell’incarico in conseguenza del necessario rapporto fiduciario con l’organo politico. Tuttavia, questa Corte ha sempre escluso che la selezione di tale personale esterno di diretta collaborazione possa avvenire soltanto in base al predetto rapporto fiduciario e, quindi, in totale assenza di criteri di valutazione della professionalità e competenza. Questa Corte, in particolare, ha affermato che la Regione, per accentuare tale carattere ben può derogare ai criteri statali, purché preveda, però, in alternativa, altri criteri di valutazione, ugualmente idonei a garantire la competenza e professionalità dei soggetti di cui si avvale ed a scongiurare il pericolo di un uso strumentale e clientelare delle cosiddette esternalizzazioni. FT



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Inserito in data 17/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 marzo 2012, n. 51

L. Reg. che stabilizza personale precario ricorrendo alla mobilità: illegittima ex art 97 e 117 Cost.

La giurisprudenza costituzionale ha più volte dichiarato costituzionalmente illegittime, per violazione dei principi di cui all’art. 97 Cost.,disposizioni regionali che prevedevano procedure di stabilizzazione di personale impegnato in lavori socialmente utili senza porre limiti percentuali al ricorso a tale tipo di assunzione e senza fornire indicazioni circa la sussistenza dei requisiti per poter ammettere deroghe al principio del concorso pubblico, vale a dire la peculiarità delle funzioni che il personale svolge o specifiche necessità funzionali dell’amministrazione. Questa Corte, del resto, ha ripetutamente rilevato la necessità del ricorso al concorso pubblico sia nelle ipotesi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio, sia in quelle – come nel caso di specie – di trasformazione di rapporti non di ruolo non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo, precisando i limiti entro i quali può consentirsi al legislatore di disporre procedure di stabilizzazione di personale precario che derogano al principio del concorso, e sottolineando, al riguardo, che non è in particolare sufficiente, a tal fine, la semplice circostanza che determinate categorie di dipendenti abbiano prestato attività a tempo determinato presso l’amministrazione, né basta la “personale aspettativa degli aspiranti” ad una misura di stabilizzazione. La norma impugnata, prevedendo la stabilizzazione di soggetti titolari di meri rapporti precari (e, quindi, una forma di assunzione riservata senza «predeterminazione di criteri selettivi di tipo concorsuale») e ponendosi in contrasto con i sopraindicati principi fondamentali stabiliti dal legislatore statale in materia di impiego pubblico, viola il principio dell’assunzione tramite pubblico concorso, di cui all’art. 97 Cost.

Ugualmente fondata è la questione relativa al medesimo comma della legge regionale censurata con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. La disciplina regionale, infatti, consentendo la trasformazione di contratti precari di lavoratori LSU in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, incide sulla regolamentazione del rapporto precario già in atto (e, in particolare, sugli aspetti connessi alla durata del rapporto) e determina, al contempo la costituzione di altro rapporto giuridico (il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, destinato a sorgere proprio per effetto della stabilizzazione). Una simile disposizione è inquadrabile, quindi, nella materia disciplinata dall’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, di competenza esclusiva del legislatore statale. Come questa Corte ha avuto di recente modo di chiarire, infatti, la disciplina della fase costitutiva del contratto di lavoro, così come quella del rapporto sorto per effetto dello stesso, si realizzano mediante la stipulazione di un contratto di diritto privato e, pertanto, appartengono alla materia dell’ordinamento civile. FT



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Inserito in data 17/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 marzo 2012, n. 1438

Art 42 bis dPR 327/01 conforme a CEDU e giurisprudenza di Strasburgo: respinta questione costituzionalità.

Ritiene la Sezione che, successivamente alla sentenza del 12 gennaio 2006 della Sez. III della CEDU, resa sul ricorso n. 14793/02 (e citata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010), che aveva incidentalmente formulato critiche all’art. 43 del testo unico in occasione di una condanna riguardante una occupazione sine titulo, la Corte di Strasburgo non si è pronunciata più in senso critico, nei confronti dell’istituto originariamente disciplinato dal medesimo art. 43, oggetto della dichiarazione di incostituzionalità per eccesso di delega e reintrodotto nell’ordinamento nazionale (con significative modifiche) dall’art. 42 bis sopra richiamato. Da un lato, già in sede europea, ad un più approfondito esame, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa – nella sessione del 13-14 febbraio 2007 – si è occupato delle ‘violazioni sistematiche derivanti dalla espropriazione indiretta’ in Italia, distinguendo:

- la ultraventennale prassi nazionale (affermatasi nella giurisprudenza ordinaria, sulla configurabilità di un titolo di acquisto della proprietà in assenza di uno specifico procedimento previsto dalla legge), considerata in contrasto con il protocollo 1 aggiuntivo della Cedu;

- le disposizioni contenute nell’art. 43 del testo unico sugli espropri, cui andava riconosciuto il chiaro significato desumibile dai suoi lavori preparatori (cioè dalla relazione della Commissione speciale fatta propria dalla Adunanza Generale del Consiglio di Stato) e dalla decisione della Adunanza Plenaria n. 2 del 2005.

Il medesimo Comitato dei Ministri ha manifestato il proprio ‘welcoming’ per le disposizioni contenute nell’art. 43, col compiacimento in sede europea per l’elaborazione di un istituto che (come ha già rilevato questo Consiglio) ha consentito una ‘legale via d’uscita’, nei casi in cui fosse riscontrabile un’opera pubblica in assenza del valido ed efficace decreto di esproprio.

Per di più, il provvedimento ora disciplinato dall’art. 42 bis (che pure consente la ‘legale via d’uscita’ con l’esercizio di un potere basato sull’accertamento dei fatti e sulla valutazione degli interessi in conflitto) comporta la spettanza – al soggetto che perde il diritto di proprietà – di un importo a titolo di indennizzo, nella misura superiore del 10% rispetto a quanto avrebbe avuto diritto ad ottenere a titolo di risarcimento del danno (sia sulla base della prassi nazionale rivelatasi in contrasto con la Cedu, sia nel caso di applicazione dell’art. 43, poi dichiarato incostituzionale per eccesso di delega)

Per tali ragioni, ritiene la Sezione che, per quanto rileva nel giudizio, le dedotte questioni di costituzionalità vadano dichiarate manifestamente infondate, poiché l’art. 42 bis risulta conforme alle disposizioni della Cedu e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha più volte condannato la Repubblica Italiana proprio perché i giudici nazionali avevano riscontrato la perdita della proprietà in assenza di un provvedimento motivato, previsto da una specifica previsione di legge. FT



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Inserito in data 16/03/2012
TAR MOLISE CAMPOBASSO, SEZ. I, 9 marzo 2012, n. 92

Precisazioni riguardo ai caratteri e alle modalità di esercizio dell’intervento ad adiuvandum.

  • Il Collegio molisano, confermando giurisprudenza già concorde in tal senso, ricorda come sia possibile esplicare l’intervento ad adiuvandum nel processo amministrativo solo se chi interviene sia portatore interesse di mero fatto oppure mediato e riflesso rispetto a quello vantato dalle parti principali.
  • Se, infatti, si intervenisse per far valere un interesse immediato e diretto al bene della vita, come descritto e fatto valere dal ricorrente principale, si finirebbe con l’eludere i termini decadenziali, propri del rito amministrativo. CC


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Inserito in data 16/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 marzo 2012, n. 1421

Se infondata la domanda di accertamento del silenzio – assenso, è nulla la pretesa risarcitoria.

Il Massimo Collegio ricorda come l’infondatezza della domanda di accertamento circa il formarsi del silenzio significativo determini, altresì, la caducazione della pretesa risarcitoria, ad esso eventualmente annessa. CC



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Inserito in data 16/03/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. IIIB, 6 marzo 2012, n. 2266

Illegittimi i provvedimenti riduttivi delle ore di sostegno per carenza di personale idoneo.

  • I Giudici laziali hanno accolto il ricorso di gruppi di genitori i quali lamentavano l’iniquità di provvedimenti con cui taluni Istituti scolastici avevano disposto la riduzione del monte – ore destinato ad alunni disabili.
  • La carenza di personale idoneo a tale compito, addotta dalla Difesa dell’Amministrazione, non può giustificare una simile azione, chiaramente lesiva di diritti, quali quello all’istruzione e all’eguaglianza, costituzionalmente siglati.
  • E’ evidente, dicono i Giudici amministrativi, la necessità di derogare alle connesse problematiche meramente organizzative, essendo primaria, invece, l’opportunità di garantire l’integrazione di tutti i tipi di alunni, come desumibile sia dalla Costituzione che dalla volontà espressa nella L. 104/92. CC


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Inserito in data 14/03/2012
CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE SICILIANA, 8 marzo 2012, n. 786

Sui diritti di rogito dei segretari e vicesegretari comunali; confini del danno erariale.

  • Il Collegio puntualizza in merito alla responsabilità di un Funzionario che parrebbe essersi “auto liquidato” diritti di rogito contrattuali in misura eccessiva a quella prevista dalle norme contrattuali vigenti, relative al proprio ruolo.
  • Non sussiste a suo carico responsabilità amministrativa sub specie di danno erariale, posto che  si tratta di un mero esercizio di un diritto ex art. 51 cod. pen. Rientra, infatti, tra le competenze del Segretario e del Vicesegretario poter liquidare i diritti di rogito, come accaduto nel caso in esame;
  • Il tutto, tra l’altro, conformemente a quanto previsto dal relativo CCNL, contro le cui determinazioni di natura economica non è possibile andare, né discostarsene in senso pregiudizievole per le parti, secondo quanto asserito da giurisprudenza contabile ed amministrativa ormai costante. CC


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Inserito in data 14/03/2012
CORTE DI GIUSTIZIA, GRANDE SEZIONE, 23 marzo 2012, C- 376/10

Illegittime le misure restrittive prorogate per anni a carico di un Paese per pregresse violazioni.

  • La Corte di Lussemburgo denuncia l’illegittimità della condotta tenuta dal Consiglio Europeo che ha perpetrato le sanzioni, originariamente inflitte alla classe dirigente birmana a causa di un governo lesivo dei diritti umani, sui familiari della medesima.
  • Disporre il congelamento dei capitali e delle risorse economiche di tali soggetti, basandosi sulla mera presunzione di un possibile arricchimento da questi conseguito a seguito della condotta errata tenuta dai proprio predecessori, finirebbe, infatti, con l’attuare un disegno altrettanto disumano e contrario alla morale pubblica;

Tanto più, affermano i Giudici europei, laddove non fosse possibile dimostrare con certezza l’esistenza di un legame e, quindi, la possibilità seria ed incontestata che il ricorrente avesse potuto trarre beneficio dal comportamento del proprio congiunto, all’epoca al vertice della classe di potere del Paese asiatico. CC



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Inserito in data 13/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 marzo 2012, n. 1406

Precisazioni, dopo l’Ad. Pl. 11/11, sul riparto di giurisdizione in tema di graduatorie dei docenti.

  1. Spetta al Giudice Amministrativo la pronuncia in merito ad una graduatoria ritenuta errata, perché espressione di un Decreto Ministeriale lesivo delle posizioni giuridiche di taluni docenti;
  2. Non è contraddetta, quindi, la posizione assunta dal Supremo Consesso Amministrativo che, nella pronuncia dei mesi scorsi, riconosceva il G.O. quale Autorità giurisdizionale competente in ambito di graduatorie;

E’ solo confermata, invero, la consueta spettanza al Giudice amministrativo di censure in merito ad atti di macro organizzazione, quale quello quivi impugnato. CC



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Inserito in data 13/03/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 marzo 2012, n. 52

I Giudici costituzionali puntualizzano il riparto tra Stato e Regioni in tema di lavori pubblici.

  • Accolta la questione di legittimità costituzionale di una legge regionale che fissava, nelle procedure di aggiudicazione di lavori ed opere pubbliche, dei criteri di selezione dei concorrenti diversi da quelli statuiti dal Decreto del 2006;
  • Non è possibile una simile deroga, posto che le previsioni del Codice De Lise sono rivolte alla tutela della concorrenza “nel” e “per” il mercato, oltreché alla promozione della stessa;
  • Pertanto, data la copertura costituzionale – ex art. 117 secondo comma, lettera e) di simili valori, non è consentito al Legislatore regionale fissare parametri che non siano tesi alla salvaguardia dei medesimi valori. CC


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Inserito in data 13/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 marzo 2012, n. 1388

Ancora conferme, da parte dei Giudici amministrativi, in merito agli estremi della condotta mobbizzante.

  • Il Collegio, in linea con posizioni già assunte in passato, richiama la necessità di una condotta prolungata e sistematicamente persecutoria da parte del datore di lavoro a danno del dipendente;
  • Da quì, pertanto, il rigore del regime probatorio a carico di questi, tenuto a dimostrare l’esistenza di un disegno vessatorio a proprio danno;

In tale quadro risulta complessa, oltreché poco credibile, la prova circa l’aggravarsi di una patologia pregressa, presuntivamente imputato ad una condizione lavorativa non favorevole; è necessario ricostruire il nesso eziologico che, in questo come in molti altri casi, difficilmente riesce a raggiungere un certo grado di verosimiglianza scientifica. CC



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Inserito in data 10/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 marzo 2012, n. 1332

Valutazione offerta tecnica, motivazione: punteggi numerici idonei solo a fronte di criteri stringenti.

Ritiene al riguardo il Collegio che, nelle gare d’appalto improntate al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, la valutazione dell’offerta tecnica, in presenza di criteri puntuali e stringenti (fissati dalla lex specialis ai sensi dell’art. 83 d.lgs. 12 aprile 2006, n.163), possa estrinsecarsi mediante l’attribuzione di punteggi senza la necessità di una ulteriore motivazione, esternandosi in tal caso il giudizio della commissione ex se nella graduazione e ponderazione dei punteggi assegnati in conformità ai criteri, ma che, nelle ipotesi connotate dall’assenza di sub-criteri o anche di criteri di valutazione sufficientemente dettagliati, e dunque in presenza di criteri improntati a significativi margini di discrezionalità tecnica non compiutamente definiti, la mera attribuzione dei punteggi non sia sufficiente a dar conto dell’iter logico seguito nella scelta e a far comprendere con chiarezza le ragioni per cui sia stato attribuito un punteggio maggiore a talune offerte e minore ad altre, sicché in ipotesi siffatte, per assolvere correttamente al dovere di motivazione, è necessario che, oltre al punteggio numerico, sia espresso un giudizio motivato, col quale la commissione espliciti le ragioni del punteggio attribuito. A fronte della sopra rilevata assenza di una motivazione adeguata – certamente non ravvisabile nell’uso di aggettivazioni standardizzate quali “eccellente”, “ottimo”, “molto buono”, “buono”, ecc. senza ulteriori esplicitazioni, in ultima analisi costituenti mere circonlocuzioni dei correlativi punteggi numerici – giustificativa dell’attribuzione del punteggio relativo alla voce “qualità architettonica” che involge una valutazione di natura prevalentemente estetica e dunque sottratta ad ogni controllo di razionalità e imparzialità in caso di espressione di un giudizio in termini di mero punteggio numerico non accompagnato da adeguato supporto motivazionale, deve confermarsi la sentenza di primo grado nella parte in cui afferma l’insufficienza motivazionale delle valutazioni delle offerte tecniche specie con riguardo al criterio della “qualità architettonica”. FT



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Inserito in data 10/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 marzo 2012, n. 1328

Cessione dello stabilimento balneare: decadenza dalla concessione ex art 47 lett e) cod nav.

La ricorrente sostiene che non sarebbe incorsa nella sanzione della decadenza prevista dall’art. 47, lett. e), cod. nav. in caso di “abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione”. L’atto di cessione del complesso aziendale non si sarebbe perfezionato per il mancato pagamento del corrispettivo da parte dell’acquirente. La consegna dei beni non è in conseguenza mai avvenuta e l’originario concessionario avrebbe sempre mantenuto il possesso dei beni. Il collegio reputa di non poter accedere all’interpretazione riduttiva dell’ambito di applicazione dall’art. 47, lett. e), del cod. nav., con limitazione alle sole ipotesi in cui il concessionario abbia perduto la disponibilità materiale del bene demaniale per l’immissione nel possesso di un soggetto terzo senza autorizzazione dell’ente proprietario. In contrario a quanto sostenuto dall’appellante, la disposizione è posta a presidio di ogni mutamento che possa investire il privato - sia quale persona fisica, sia quale compagine societaria – al quale è stato assegnato l’uso speciale del bene. Si tratta di vicende idonee ad incidere sulle qualità morali e di affidabilità del concessionario e, quindi, sui requisiti soggettivi che debbono formare oggetto di valutazione ed accertamento al momento del rilascio del titolo concessorio nonché, ai sensi dell’art. 46 cod. nav., in caso di sub ingresso nello stesso di altro soggetto. Indipendentemente dall’utilizzo diretto del bene l’assegnazione del bene demaniale avviene sempre in vista di un uso “che a giudizio dell’Amministrazione risponda ad un più rilevante interesse pubblico” (art. 37 comma primo, cod. nav.); ciò impone la preventiva verifica del possesso dei requisiti di idoneità tecnica ed organizzativa, oltreché morali, in capo al concessionario ai fini del perseguimento dei fini predetti. FT



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Inserito in data 10/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 marzo 2012, n. 1325

Indennità buonuscita autoferrotranvieri: concorrono gli emolumenti percepiti in modo fisso e continuativo.

La questione controversa, infatti, è stata oggetto di numerose pronunce – per la verità di segno non univoco per quanto riguarda l’applicabilità, o meno, degli articoli 2120 e 2121 cod. civ. al rapporto di pubblico impiego – ma comunque tali da configurare in modo sostanzialmente omogeneo la base di calcolo per il TFR, da liquidare al personale autoferrotranviario per il periodo che qui interessa. La giurisprudenza largamente prevalente, infatti, sostiene che debbano concorrere alla determinazione dell’indennità di buonuscita, ovvero dell’indennità di anzianità, poi confluita nel TFR, tutti gli emolumenti percepiti in maniera fissa e continuativa; per quanto riguarda il settore degli autoferrotranvieri, sia con che senza diritto a pensione, in particolare, è stato più volte chiarito che l’indennità di buonuscita deve essere determinata sulla base della normale retribuzione, tale dovendo intendersi l’intero complesso dello stipendio e delle indennità fisse e continuative, l’indennità di contingenza non conglobata, l’indennità sostitutiva di mensa, gli assegni personali e le competenze accessorie a carattere fisso e continuativo, con esclusione soltanto dei compensi corrisposti in modo saltuario e variabile, per specifiche esigenze di servizio.

 

Sotto quest’ultimo profilo, è stato normalmente escluso dal compenso, come sopra determinato, il lavoro straordinario, fatte salve ipotesi eccezionali, in cui lo straordinario stesso avesse carattere continuativo, obbligatorio e forfetizzato, solo in quest’ultimo caso ammettendosi una sostanziale assimilazione del medesimo alla retribuzione ordinaria; l’indennità giornaliera e l’indennità mensile, invece, sono state di norma ritenute parte della retribuzione, posta a base di calcolo del TFR, anche con ritenuta nullità di eventuali clausole contrarie dei contratti collettivi, per contrasto con il principio di onnicomprensività, di cui all’art. 2121 cod. civ., nel testo anteriore alla legge n. 297/1982. Per il personale di cui trattasi non è stato solitamente ravvisato, comunque, un principio di prova in ordine all’assimilazione del lavoro straordinario all’ordinaria attività lavorativa: quanto sopra, anche a prescindere dalla variabilità del compenso (ammettendosi sotto quest’ultimo profilo, secondo parte della citata giurisprudenza, che fosse sufficiente la prova della continuità mensile, con determinazione del valore medio alla stregua delle risultanze emerse in busta paga, sempre però, tuttavia, che detto lavoro straordinario corrispondesse al normale fabbisogno dell’impresa e non a contingenti esigenze aziendali: circostanza, la prima, che anche nella fattispecie è rimasta priva di qualsiasi riscontro). FT

 



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Inserito in data 10/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 marzo 2012, n. 1315

Irrilevanza mutamenti di indirizzo sull’individuazione della giurisdizione - giudicato interno implicito.

Vero è che, come ha rilevato la ricorrente, solo di recente l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, adeguandosi a quanto affermato fin dal 2008 dalla Corte di Cassazione, ha riconosciuto che le controversie attinenti all’inserimento o all’esclusione in graduatorie preordinate all’assunzione di soggetti in possesso di requisiti predeterminati appartengono alla giurisdizione ordinaria (Ad. pl. 12 luglio 2011, n. 11). Il Collegio peraltro ritiene che deve essere escluso che i mutamenti degli indirizzi della giurisprudenza, interpretativi delle norme che individuano il giudice che ha giurisdizione sulla controversia, possano valere a scalfire la regola della perpetuatio iurisdictionis recepita dall'art. 5 cod. proc. civ., il quale, circa il momento determinante della giurisdizione e della competenza, afferma che giurisdizione e competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo. Invero, per l’art. 5 sono rilevanti solo i sopravvenuti mutamenti legislativi e non gli indirizzi della giurisprudenza, interpretativi delle norme sul giudice competente: diversamente, si vincolerebbe il giudice al precedente giurisprudenziale e si limiterebbe il diritto di difesa nel prospettare una diversa interpretazione.

 

Inoltre, secondo l’art. 9 del codice del processo amministrativo approvato con decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, se in primo grado il difetto di giurisdizione è rilevato anche d'ufficio, nei giudizi di impugnazione deve formare oggetto di uno specifico motivo d’appello (che qui non è stato proposto: l’eccezione viene sollevata solo con una memoria successiva nel corso dell’appello). Il che significa che anche nel processo amministrativo è stato introdotto, e in via legale, il principio del c.d. giudicato interno implicito sulla questione di giurisdizione trattata, seppur tacitamente, dal giudice di primo grado. In difetto di un siffatto “specifico motivo”, si intende che la parte interessata a sollevare la carenza di giurisdizione vi ha fatto acquiescenza. Tale regola incide sugli strumenti processuali ed è quindi di immediata applicazione. Ne deriva che nella fattispecie in esame è comunque ormai precluso l’esame della questione, non ritualmente sollevata.

 

A ciò, e in base a ragioni di principio più generali, va aggiunto che, soprattutto in ragione dei medesimi principi ispiratori di tale nuovo regime, in cui, si ripete, la questione di giurisdizione in secondo grado non è più una condizione dell’azione che il giudice può indagare d’ufficio, ma il contenuto di una vera e propria eccezione di parte in senso tecnico, l’eccezione medesima non pare sollevabile dalla parte che vi ha dato luogo agendo in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, nel contesto dell’appello, ed evidentemente a seconda dell’esito del giudizio di primo grado, disconosce e contesta la giurisdizione. Riconoscere una tale facoltà significa, a parere del Collegio, avallare un vero e proprio abuso del diritto, e piegare la strumentalità delle forme e il connesso ambito dell’azione a fini diversi da quelli per i quali sono riconosciuti dall’ordinamento. FT



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Inserito in data 10/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 marzo 2012, n. 1299

Legittima fissazione (anche retroattiva) di tetti di spesa sanitaria regionale per strutture accreditate.

Si deve ribadire che la fissazione di tetti alla spesa sanitaria a livello regionale deve ritenersi, in via di principio, legittima, date le insopprimibili esigenze di equilibrio finanziario e di razionalizzazione della spesa pubblica e tenuto conto che il diritto alla salute, sancito dall'art. 32 della Costituzione, non può essere tutelato incondizionatamente.

Anche nel regime dell'accreditamento (introdotto dall'art. 8, comma 5 del d. lgs. n. 502 del 1992), improntato alla logica della parificazione e della concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private e caratterizzato dalla facoltà di libera scelta della struttura privata a condizione che questa risulti in possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente ed accetti il sistema della remunerazione a prestazione, sussiste il limite della fissazione del tetto massimo di spesa sostenibile, regolato nel suo esercizio dall'art. 32 della legge n. 449 del 1997. Il principio di parificazione e di concorrenzialità tra strutture pubbliche e strutture private deve infatti conciliarsi con il principio di programmazione, che persegue lo scopo di razionalizzazione del sistema sanitario nell'interesse al contenimento della spesa pubblica. La determinazione da parte dell’Amministrazione dei tetti di spesa e la suddivisione delle risorse tra le attività assistenziali costituisce pertanto esercizio del potere di programmazione sanitaria che deve essere esercitato con le modalità e nei tempi che l’ordinamento prevede.

I tetti di spesa possano essere determinati anche con effetti retroattivi, dovendosi escludere la rilevanza assoluta dell’affidamento del privato che, nelle more della comunicazione del budget, può avere riguardo alle somme assegnate per l’anno precedente, diminuite del risparmio di spesa imposto dalle leggi finanziarie. Il principio dell’ammissibilità dell’effetto retroattivo della determinazione del budget deve essere quindi senz’altro confermato nella fattispecie, tenuto anche conto che la determinazione regionale è comunque intervenuta nel corso del mese di giugno dell’anno di riferimento. FT



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Inserito in data 09/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 marzo 2012, n. 1272

La difesa erariale deve essere correttamente evocata sotto il  profilo della propria articolazione territoriale competente.

Difatti, é inammissibile il ricorso di primo grado proposto avverso atto adottato da Amministrazione statale, che sia stato notificato presso l'Avvocatura generale dello Stato anziché presso l'Avvocatura distrettuale nella cui circoscrizione siede il giudice adìto, come prescritto dall'art. 1, l. 25 marzo 1958 n. 260, espressamente richiamato per i giudizi amministrativi dall'art. 10, comma 3, l. 3 aprile 1979 n. 103, trattandosi di errore procedurale concernente non l'identificazione dell'organo amministrativo legittimato a stare in giudizio, ma l'individuazione dell'Avvocatura dello Stato competente a ricevere la notifica. SL



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Inserito in data 09/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 marzo 2012, n. 1266

Sui presupposti necessari per disporre lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazioni mafiose.

Trattandosi di un provvedimento di carattere straordinario e non sanzionatorio, si ritiene sufficiente il ricorrere di “elementi” su: “collegamenti” o “forme di condizionamento” che consentano di individuare la sussistenza di un rapporto fra gli amministratori e la criminalità organizzata.

Questi non devono necessariamente concretarsi in situazioni di accertata volontà degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata, né in forme di responsabilità personali, anche penali, degli amministratori.

Lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose non esige, infatti, né la prova della commissione di reati da parte degli amministratori, né dei collegamenti tra l'amministrazione e le organizzazioni criminali: è sufficiente, invece, che sussistano semplici "elementi" (e quindi circostanze di fatto anche non assurgenti al rango di prova piena) di un collegamento e/o influenza tra l'amministrazione e i sodalizi criminali , ovvero è sufficiente che gli elementi raccolti e valutati siano “indicativi” di un condizionamento dell’attività degli organi amministrativi e che tale condizionamento sia riconducibile all’influenza ed all’ascendente esercitati da gruppi di criminalità organizzata.

È da affermarsi, dunque, l’autonomia del provvedimento di scioglimento rispetto all’esito di procedimenti penali aventi ad oggetto fatti e comportamenti degli amministratori. SL


 

 



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Inserito in data 09/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 marzo 2012, n. 1260

La demolizione dell'opera abusivamente costruita costituisce un atto dovuto del Comune in cui non residuano spazi di discrezionalità.

Nell'abuso edilizio è, infatti, in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione; pertanto, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione, ovvero, in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la loro sanabilità in sede di vigilanza sull'attività edilizia. SL



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Inserito in data 05/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 febbraio 2012, n. 1187

Affidamento in concessione servizio di distribuzione gas; legittimazione ad agire dopo l’Ad. Pl. 4/11.

I Giudici amministrativi ribadiscono, a pochi mesi di distanza dalla pronuncia del relativo Supremo Consesso, la partecipazione alla gara quale requisito necessario ai fini della legittimazione ad impugnare il relativo bando da parte di un operatore.

Occorre, in sostanza, un’adeguata posizione differenziata che, nel caso concreto, il ricorrente non possedeva affatto rispetto alla procedura di gara contestata. CC



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Inserito in data 05/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 febbraio 2012, n. 1190

Ordinanza di sgombero per edificio inagibile; corretta delimitazione dei poteri del Sindaco

  • In linea con il dibattito degli ultimi mesi, i Giudici amministrativi tendono a perimetrare l’alveo dei poteri del Primo Cittadino;
  • L’ordinanza di sgombero di un’unità abitativa inagibile non è, infatti, esercizio di poteri extra ordinem – ex art. 54 TUEL, del quale mancherebbero i presupposti ad avviso di parte ricorrente;
  • Si tratta, semmai, di un mero e puntuale esercizio dei poteri propri dell’Autorità locale, per motivi di igiene e sicurezza pubblica, quali statuiti dall’art. 50 – 5’ co. TUEL. CC


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Inserito in data 05/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 marzo 2012, n. 1222

La novazione del rapporto contestato esige, a pena di improcedibilità, l’attivazione di un nuovo rito.

  • Il Collegio evidenzia l’opportunità, in caso di successiva attività amministrativa, nuova al punto da determinare un vero e proprio riesame della fattispecie originariamente controversa, di intervenire con un nuovo strumento processuale, anche avvalendosi “di motivi aggiunti”;
  • L’omessa impugnativa del “secondo” provvedimento, infatti, farebbe divenire improcedibile il proposto ricorso di prime cure rendendo del tutto inutile, perché superata, la relativa decisione di merito. CC


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Inserito in data 05/03/2012
CORTE DEI CONTI, SEZIONE GIURISDIZIONALE D'APPELLO PER LA REGIONE SICILIANA, 24 febbraio 2012, n. 80

Diritti portuali indebitamente recepiti. Società tenuta al rimborso al Ministero Trasporti.

  1. I Giudici contabili confermano l’obbligo di rimborso, gravante su una società di traghetti e già statuita in primo grado, di somme erogate, in aumento, a seguito di Ordinanze emesse dall’Autorità Portuale e poi annullate dal Giudice Amministrativo;
  2. La società appellante è tenuta, quindi, alla restituzione di tali ulteriori introiti a favore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, unico legittimo creditore;
  3. Non sussiste, infatti, la possibilità di trattenere simili somme, sulla base di una presunta retroattività delle Ordinanze emesse dall’Autorità competente, come asserita dall’appellante. Non viene meno la natura pubblica di tali somme né, di conseguenza, il danno erariale eventualmente scaturente dall’indebita percezione delle stesse;
  4. Gli unici soggetti, eventualmente legittimati a riavere le somme, sarebbero gli utenti finali, comunque in condizioni di agire per il rimborso contro il Ministero e non contro la Società, operante quale mero sostituto d’imposta. CC



Inserito in data 03/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 febbraio 2012, n. 1189

Sanzioni alternative ex art. 123 co. 2 Cpa: legittima la mancanza di domanda di parte e udienza pubblica

Il rispetto del principio del contraddittorio ai sensi dell’art. 123 co. 2 c.p.a. nell’applicare le sanzioni alternative alla dichiarazione di efficacia del contratto non implica che il giudice amministrativo debba fissare un’ulteriore udienza pubblica. Se da un lato la norma nulla specifica in ordine a detta possibilità, si deve dall’altro rilevare che lo stesso art. 123 co. 2 richiama l’applicazione dell’art. 73 co. 3: in tale situazione, il giudice nel caso di decisione di una questione rilevata d’ufficio che sia fondamentale per la soluzione della controversia, la deve indicare in udienza e ove questa emerga dopo il passaggio in decisione della causa, la questione va riservata assegnando alle parti un termine per il deposito di memorie, quindi senza previsione di udienza pubblica.

Quanto alla questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 24 e 111 dell’art. 123 co. 2 c.p.a. , si deve rilevare che l’adozione delle sanzioni alternative è il portato della serie di deduzioni e controdeduzioni già versate in atti nel corso del giudizio svoltosi in ordine alla legittimità dell’aggiudicazione. Poiché la sanzione alternativa è conseguenziale alle illegittimità emerse nella scelta del contraente, la questione deve ritenersi già abbondantemente affrontata nell’ambito del giudizio di legittimità e già la produzione di memorie ammesse ai sensi dell’art. 73 co. 3 c.p.a. appare essere un presidio ulteriore e comunque sufficiente del principio del contraddittorio. Quanto alla mancanza di domanda di parte per l’irrogazione di sanzioni alternative, non appare complessivamente illegittima anche dal punto di vista della legittimità costituzionale, poiché esse costituiscono comunque un minus rispetto alla dichiarazione di inefficacia totale del contratto e comunque era conseguente alla lamentata violazione dell’obbligo di standstill ed altrettanto si deve rilevare all’attribuzione al giudice del potere di irrogare le stesse sanzioni. Queste ultime, previste dalla direttiva 66/2007, sono state attribuite al giudice amministrativo in virtù delle previsioni della direttiva medesima e, si badi bene, vengono irrogate a seguito di una sorta di doppia procedura giurisdizionale, come si è avuto modo di vedere, disciplinata nei modi e nelle forme dall’art. 73 co. 3 c.p.a.; quindi sono affidate a organo imparziale e non sfuggono al controllo processuale, in quanto sono generate all’interno del processo e deliberate in seguito a procedura contenziosa. FT



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Inserito in data 03/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 febbraio 2012, n. 1177

Concetto dinamico di urbanizzazione completa: necessità piano di lottizzazione, limiti giudicato precedente

Il primo giudice ha affermato l’erroneità dell’impostazione seguita dal Comune sulla base del fatto che la completa urbanizzazione della zona era già stata accertata in precedenti giudizi, per cui non poteva essere messa in discussione nella presente controversia. Il Collegio non condivide l’opinione del primo giudice. Il Collegio condivide invece l’orientamento giurisprudenziale con il quale è stato sottolineato come il concetto di completa urbanizzazione di una determinata area edificabile debba essere inteso in termini dinamici, e quindi adattato al differente contenuto di ogni progetto di edificazione che lo interessi. In quella occasione è stato affermato che “l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s'impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della «maglia», e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata. Osserva il Collegio come l’individuazione dei servizi necessari per rendere abitabile una determinata area presupponga necessariamente la conoscenza del progetto di utilizzazione edificatoria, e quindi del suo impatto in termini di abitanti insediabili e di usi previsti. Tale necessità si presenta quando l’area viene utilizzata per la prima volta, ma può presentarsi anche successivamente, quando ulteriori interventi modifichino radicalmente le caratteristiche dell’insediamento esistente, rendendo palese la necessità di nuove strutture di servizio. Osserva il Collegio che il caso ora in esame ricade nell’ambito di applicazione dei principi appena riassunti in quanto il progetto della parte appellata riguarda un edificio già realizzato, che peraltro viene radicalmente modificato eliminando un porticato, originariamente previsto, per realizzare ben tredici appartamenti. Afferma il Collegio che un intervento di così rilevante impatto richiede di per sé lo studio dell’urbanizzazione dell’area in vista dell’integrazione delle opere esistenti, e l’evidenza di tale necessità renda superflua la sua giustificazione nel corpo del provvedimento che la affermi. Di conseguenza, il giudicato formatosi in relazione ad un diverso e più limitato progetto di utilizzazione della stessa area di cui ora si discute non rileva al fine di determinare gli interventi necessari per consentire la realizzazione del nuovo progetto. Legittimamente, in conclusione, il Comune ha affermato la necessità di applicare, per l’ulteriore edificazione, indici e disciplina propri delle aree da urbanizzare. FT



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Inserito in data 03/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 febbraio 2012, n. 1173

Affidamento servizi distribuzione gas, ammissione alle gare: perimetro deroghe  art 15 co 10 Dlgs 164/00

La deroga in questo senso riguarda l’ammissione, in fase di transizione, alle gare ex art. 14 comma 1 dei titolari di attività di distribuzione del gas , sulla base di affidamenti e di concessioni in essere alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 164/2000. In questo contesto la deroga appare destinata solo a consentire agli attuali gestori di settore di partecipare alle gare pubbliche, ove la detta titolarità sia stata comunque conseguita, anche al di fuori di una gara pubblica. In questa prospettiva, l’art.15 comma 10 ha delimitato il perimetro soggettivo della deroga: il che porta a ritenere che la deroga non possa valere laddove il soggetto partecipante (o una sua controllata o controllante) risulti essere gestore di servizi diversi da quello della distribuzione del gas. L’art.15 comma 10 mira solo a non estromettere i titolari delle vecchie concessioni del gas, non a favorire i diretti affidatari di molteplici servizi pubblici locali, diversi ed ulteriori rispetto alla distribuzione del metano; scopo dell’art.15 non è quello di consolidare posizioni di privilegio dei titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici, consentendo ampliamenti di mercato per le imprese operanti nei servizi pubblici locali, bensì solo quello di accompagnare gli operatori del gas naturale nella transizione verso la piena affermazione del modello competitivo. La “ratio” è quella, che appare coerente con i principi comunitari e costituzionali , di consentire un passaggio graduale in via transitoria, dal vecchio al nuovo sistema, per tutelare il mercato del gas, così come esso si era formato in precedenza. Pertanto, se questa è la “ratio” della norma, è evidente che la deroga non può che riguardare esclusivamente quelle società che avevano ottenuto l’affidamento senza gara del solo servizio di distribuzione del gas; la deroga quindi non opera, per quel che qui rileva, se il gestore è controllato o controllante di società affidataria diretta di altri servizi pubblici locali. FT



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Inserito in data 03/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 febbraio 2012, n. 1162

Ricusazione: inammissibile istanza fondata solo sull’appartenenza allo stesso ordinamento giudiziario

Il Collegio nel riscontrare una sostanziale assenza di ragioni specifiche ex art. 18, comma 1 Cpa e artt. 51 e 52 C.p.c. nell’istanza di ricusazione in esame, rileva che la stessa (sia per la sua natura “generalizzata”, in quanto fondata sulla sola qualifica di Consigliere di Stato, e quindi di appartenente al medesimo ordinamento giudiziario di soggetti che si assume essere eventualmente parte della controversia, sia perché in tale comune appartenenza si risolve il “momento di contatto” talora posto a specifica ragione di ricusazione) finisce per porsi, in sostanza, come una generale censura delle previsioni normative con le quali si dispone che controversie che vedono parte magistrati (o il loro organo di autogoverno) possono essere giudicate da altri magistrati appartenenti al medesimo ordinamento giudiziario. Orbene, il Collegio rileva che tale circostanza non interessa solamente l’ordinamento giudiziario amministrativo, ma anche altri ordinamenti giudiziari, ed i codici di rito prevedono normalmente – salvi i casi di astensione e ricusazione e, per il solo giudizio penale, fatto salvo quanto previsto dall’art. 11 C.p.p. – che anche le controversie riguardanti magistrati seguano le regole generali e non si sottraggano alla giurisdizione civile, penale, amministrativa ed ai giudici che le esercitano, secondo il principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) e di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3 Cost.).

Il prevedere – diversamente da quanto attualmente disciplinato - che il giudice (quale attore/ricorrente o quale convenuto/resistente), per la tutela dei propri diritti o interessi legittimi, ovvero ai fini dell’accertamento della propria responsabilità, sia sottratto (unitamente alla parte che lo evoca in giudizio) agli ordinari organi di giurisdizione comporterebbe: per un verso, una irragionevole alterazione del principio di eguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, di cui all’art. 3 Cost.; per altro verso, la sostanziale costituzione di un giudice straordinario o speciale, espressamente vietato dalla Costituzione (art. 102, comma secondo Cost.); per altro verso ancora, la incisione del principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge. Nessun rito processuale prevede, dunque, la sottrazione della causa di cui è parte un magistrato di un determinato ordinamento giudiziario agli organi di tale ordinamento, naturalmente competenti a giudicarla; anzi, con riferimento alle Magistrature Superiori, per le quali non è possibile nessuna diversa attribuzione di competenza a giudicare in quanto giudici di ultima istanza, le stesse cause di incompatibilità previste dall’Ordinamento giudiziario (artt. 18 e 19 R.D. n. 12/1941) sono espressamente ritenute non applicabili.

In definitiva, si intende affermare che l’art. 18 può essere applicato, nella pienezza delle norme ricavabili dalle sue disposizioni, solo in caso di ragioni di ricusazione che non possono riferirsi, o comunque, mediatamente o immediatamente, fondarsi su aspetti di comune appartenenza dei giudici (giudicante e parte della causa) al medesimo ordinamento giudiziario, ovvero nei casi in cui l’istanza di ricusazione appaia ictu oculi palesemente inammissibile o infondata.. Tale interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 18 Cpa, ora offerta dal Collegio, è resa indispensabile dall’esigenza di consentire l’ordinato e celere svolgimento del giudizio, evitando che a ciò si frappongano istanze di ricusazione manifestamente inammissibili o infondate, ovvero un uso dell’istituto reiterato e non conforme alla ratio legis, con conseguenti riflessi sul diritto alla tutela giurisdizionale delle altre parti del giudizio, garantito dall’art. 24 Cost. FT



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Inserito in data 03/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 febbraio 2012, n. 1133

Confini tra giurisdizione ordinaria e amministrativa in materia di occupazione sine titulo

La dichiarazione di pubblica utilità priva di termini iniziali e finali per l’avvio e compimento dei lavori e delle occupazioni è da ritenere radicalmente nulla, onde l’occupazione costituisce mero comportamento materiale “...in nessun modo ricollegabile ad un esercizio abusivo dei poteri della p.a., sicché spetta al g.o. la giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dal privato” perché in tal caso essa è “da ritenere emessa in carenza ovvero in difetto assoluto di attribuzione del potere stesso, che comporta nullità del provvedimento dichiarativo della pubblica utilità e degli atti conseguenti della procedura ablatoria” (Cass. Civ., SS.UU., 14 febbraio 2011, n. 3569). Nel caso di specie, invece, è accaduto che l’Amministrazione, approvando il progetto esecutivo, abbia indicato i termini di avvio e ultimazione di lavori e procedure espropriative, rinnovando in realtà la dichiarazione di pubblica utilità. In presenza, pertanto, di una “nuova” e “completa” dichiarazione di pubblica utilità, il decreto sindacale di occupazione non può ritenersi adottato in carenza di potere, a nulla rilevando che medio-tempore fosse scaduto il termine triennale [ex art. 1 della legge n. 1/1978] computato dalla data di esecutività della [prima] deliberazione di Giunta municipale [che difettava del tutto dell’indicazione dei termini iniziali e finali per l’avvio e il compimento di lavori ed espropriazioni].

La domanda di accertamento dell’illegittimità del comportamento dell’amministrazione -consistente nella perdurante occupazione sine titolo del suolo, connessa all’inutile scadenza, in difetto dell’avvio dei lavori e del decreto di esproprio, dei termini finali della dichiarazione di pubblica utilità- e la collegata domanda di condanna dell’amministrazione alla restituzione del suolo, appartengono alla giurisdizione amministrativa esclusiva, ai sensi dell’art. 53 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (“Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità”), vigente al momento della pronuncia della sentenza appellata, e ancor prima dell’art. 34 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, come sostituito dall’art. 7 della legge 21 luglio 2000, n. 205. Nel caso di specie, infatti, non si è in presenza di un mero comportamento, sebbene di una condotta dell’amministrazione direttamente collegata all’esercizio del potere pubblico concernente l’apprensione del bene ai fini della realizzazione di un’opera pubblica, nei sensi precisati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 191 dell’11 maggio 2006. La Consulta ha chiarito, a proposito, che “deve ritenersi conforme a Costituzione la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie relative a "comportamenti" (di impossessamento del bene altrui) collegati all’esercizio, pur se illegittimo, di un pubblico potere, laddove deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima la devoluzione alla giurisdizione esclusiva di "comportamenti" posti in essere in carenza di potere ovvero in via di mero fatto”.

Il confine tra le due giurisdizioni è così tracciato in modo chiaro e netto: laddove il comportamento sia riconducibile, anche “mediatamente”, all’esercizio del potere pubblico, compete al G.A. di conoscere le controversie relative al comportamento e ai suoi effetti, con la stessa ampiezza di poteri giurisdizionali propri della tutela risarcitoria, ossia, come chiarito ancora dalla Corte Costituzionale “sia per equivalente sia in forma specifica”, laddove la restituzione del bene immobile costituisce, appunto, reintegrazione in forma specifica della sfera giuridico-patrimoniale del privato leso dal comportamento amministrativo illegittimo, ossia non assistito da un titolo giuridico valido ed efficace. FT



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Inserito in data 01/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 febbraio 2012, n. 1148

Sulla possibilità di modificare la destinazione d’uso di un immobile in via di fatto

L’utilizzazione in via di fatto di un immobile ad uso pubblico, in forza di un contratto di locazione, non può essere fonte di modificazione della destinazione originaria (sub specie commerciale). La destinazione d’uso di un immobile deriva, infatti, da provvedimenti classificatori di natura autoritativa non modificabili o estinguibili sulla base di determinazioni negoziali (ancor più se di carattere temporaneo, come il contratto di locazione). SL



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Inserito in data 01/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 febbraio 2012, n. 1113

Le valutazioni espresse dal C.S.M. in sede di conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi possono essere censurati per eccesso di potere

Invero, sebbene costituisce ius receptum che l’attività amministrativa posta in essere dal Consiglio Superiore della Magistratura ai fini del conferimento degli uffici direttivi o semidirettivi, quanto al merito della valutazione operata, costituisce determinazione intangibile , sottratta come tale al sindacato del giudice amministrativo (giacché se così non fosse si avrebbe una indebita sostituzione da parte di un giudice nei compiti istituzionalmente affidati all’Organo di autogoverno della magistratura); fa da pendant a tale regola il principio giurisprudenziale, secondo cui le valutazioni espresse dal C.S.M. sull’ idoneità ed attitudine dei magistrati a ricoprire un incarico direttivo o semidirettivo , per quanto caratterizzate da ampia discrezionalità, possono essere censurate per evidenti vizi (travisamento , incoerenza tra presupposti e conseguenze, carenza motivazionale, irrazionalità ) che eventualmente le connotino in termini di eccesso di potere. SL



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Inserito in data 01/03/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 28 febbraio 2012, n. 1111

E’ legittimo il diniego di accesso ai documenti amministrativi, qualora questi rientrino nelle categorie previste dai regolamenti ministeriali

Invero, in queste ipotesi non è ravvisabile alcun contrasto tra una fonte di rango primario, qual è l’art. 22 l. 241/90, ed una subordinata, sub specie D.M. n. 603/96.

Difatti, ciò che sottrae il documento all’accesso non è, o non è solo, la sua puntuale appartenenza ad una delle categorie “nominate” dai regolamenti governativi, bensì l’oggettiva messa in pericolo degli interessi pubblici derivanti dall’accesso al documento amministrativo del quale si chiede l’ostensione, in ragione della sua natura, del suo contenuto, delle sue modalità di acquisizione e/o di formazione, ovvero della sua ulteriore utilizzazione da parte dell’amministrazione. SL



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Inserito in data 01/03/2012
TAR SICILIA CATANIA, SEZ. I, 24 febbraio 2012, n. 483

E’ di competenza del g. o. il giudizio riguardante la decadenza dall’elezione di un consigliere provinciale, per la sussistenza di una causa di incandidabilità

Invero, il diritto di accedere alle cariche elettive pubbliche di cui all’art. 51 Cost. – cd. diritto di elettorato passivo – rappresenta un diritto politico fondamentale, riconosciuto e garantito dalla Costituzione ai cittadini di entrambi i sessi. Esso costituisce un aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica del paese, e rientra nel novero dei diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost.

Il costituente ha previsto la possibilità che il legislatore ordinario lo limiti qualora sussista l’esigenza di “realizzare altri interessi costituzionali altrettanto fondamentali e generali” , o comunque qualora sussistano “motivi adeguati e ragionevoli finalizzati alla tutela di un interesse generale”.

Ne consegue che può del tutto escludersi l’esistenza di spazi di valutazione discrezionale lasciati all’amministrazione pubblica, in quanto i requisiti di elettorato passivo vengono rigidamente – ed in maniera vincolante – predeterminati in sede legislativa. Detto in altri termini, e sotto un diverso angolo prospettico, il cittadino vanta posizioni di diritto soggettivo - nel rispetto delle prescrizioni di legge - in ordine all’accessibilità alle cariche pubbliche; diritto cui fa da pendant l’attività vincolata della PA, la cui azione risulta rigidamente legata al mero riscontro delle condizioni di ineleggibilità/incandidabilità previste dalla legge medesima. Non sussistono, quindi, posizioni qualificabili come “interesse legittimo” in capo al candidato, data l’inconfigurabilità di poteri pubblicistici discrezionali idonei ad incidere sul (ed a scontrarsi col) suo diritto politico.

Nel caso di specie, l’Assessorato Regionale alle Autonomie Locali e Funzione Pubblica della Regione Sicilia aveva revocato la convalida dell’elezione di un consigliere provinciale di Enna, per la sussistenza della causa di incandidabilità prevista dall’art. 58, co. 1, lett. e, del D. Lgs. 267/2000 (cd. T.U. Enti Locali), in quanto destinatario di una misura di prevenzione inflitta dall’A.G. per presunta appartenenza ad associazione di tipo mafioso. SL



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Inserito in data 28/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 febbraio 2012, n. 1072

Rimborsi per costi sostenuti nell’erogazione di farmaci. Profili di giurisdizione in sede risarcitoria.

Il Collegio conferma la devoluzione al Giudice Ordinario, già sancita in primo grado, delle controversie relative al rimborso per spese sostenute in sede di fornitura di farmaci.

Si tratta, infatti, di una pretesa di natura meramente patrimoniale e, come tale, in grado di tracciare, sull’Istituto sanitario accreditato, una posizione di diritto soggettivo a proposito dell’esatta spettanza di talune somme.

Quindi G.O., in linea con la celebre pronuncia della Corte Costituzionale n. 204/04. CC



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Inserito in data 28/02/2012
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO, 23 febbraio 2012, n. 27765/09

Violato il principio del “non respingimento”; Italia condannata.

La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per violazione dei diritti dei rifugiati.

Il nostro Stato, costringendo milioni di migranti a spostarsi verso territori presso i quali era certa la persecuzione o l’irrogazione di trattamenti disumani, ha vìolato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e in particolare il principio di non refoulement  (non respingimento).

Pertanto, non concedendo protezione a chi meritava di essere accolto, l’Italia va adesso incontro ad un consistente obbligo risarcitorio. CC




Inserito in data 28/02/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 23 febbraio 2012, n. 31

Declaratoria di illegittimità costituzionale parziale dell’art. 569 c.p.; leso l’art. 3 Cost.

I Giudici della Consulta dichiarano l’illegittimità della norma penalistica nella parte in cui prevede l’automatica perdita della potestà per il genitore che alteri lo stato civile del neonato.

E’ violato, infatti, il principio di ragionevolezza comunemente riconducibile all’art. 3 Cost., laddove l’automatismo normativo finirebbe con il precludere al Giudice, in sede di valutazione del reato presupposto – di cui all’art. 567 – 2’ co. C.p. – la possibilità di ponderare il reale interesse del minore, nonché di bilanciarlo con l’entità del “fatto criminoso” effettivamente commesso.

L’interesse alla cura del concreto benessere psico – fisico del minore domina, quindi, ogni altra valutazione in sede di determinazione della pena. CC



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Inserito in data 28/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 febbraio 2012, n. 1105

Provvedimenti a favore della cinematografia; contestati i criteri per l’attribuzione Premi di qualità.

Il Collegio condivide la posizione del Ministero per i Beni e le Attività culturali, laddove Esso sostiene l’erroneità della Fonte di riferimento, oggetto del giudizio di primo grado, come altresì lamentato dalla nota Società cinematografica ricorrente.

I Giudici sanciscono, ancora, la mancata valutazione, da parte del primo Tribunale, della reale ininfluenza della visione, collegiale o singola, del film oggetto dell’eventuale esame.

L’apprezzamento di un’opera cinematografica prescinde, infatti, dal convincimento personale o collettivo di ciascun Commissario e dovrebbe risentire, piuttosto, dello sviluppo delle nuove tecniche di riproduzione delle pellicole. CC



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Inserito in data 25/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2012, n. 1053

Atto di revoca degli assessori: natura, motivazione, controllo del consiglio comunale e sindacato del GA.

Gli atti di nomina e revoca degli assessori degli enti territoriali non hanno natura politica in quanto non sono liberi nella scelta dei fini essendo sostanzialmente rivolti al miglioramento della compagine di ausilio al vertice dell’ente e sottoposti alle eventuali specifiche prescrizioni dettate dalle fonti primarie e secondarie (in particolare gli statuti degli enti medesimi).

La valutazione degli interessi coinvolti nel procedimento di revoca di un assessore è rimessa in via esclusiva al titolare politico dell’amministrazione, cui competono in via autonoma la scelta e la responsabilità della compagine di cui avvalersi per l’amministrazione dell’ente nell’interesse della comunità locale.

Il merito delle opzioni politiche sottese alla scelta operata dal vertice istituzionale sono rimesse unicamente alla valutazione dell’organo consiliare di controllo.

Attesa la natura ampiamente discrezionale del provvedimento di revoca dell’incarico di assessore, la relativa motivazione può basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico - amministrativa rimesse in via esclusiva al vertice dell’ente, in quanto aventi ad oggetto un incarico fiduciario; pertanto la motivazione dell’atto di revoca può anche rimandare esclusivamente a valutazioni di opportunità politica.

Il sindaco ha l’onere formale di comunicare al consiglio comunale la decisione di revocare un assessore ex art. 46 cit., visto che è soltanto quest’ultimo organo che potrebbe opporsi (tramite una mozione di sfiducia) all’atto di revoca.

Nella materia in questione il giudice amministrativo è sfornito del sindacato di merito tassativamente previsto dalla legge per altre ipotesi (cfr. art. 134 c.p.a.) ed il suo controllo sull’esercizio della funzione pubblica è condizionato dal connotato latamente politico della scelta che, pertanto, è insindacabile in sede di legittimità se non per profili puramente formali concernenti: I) la violazione di specifiche disposizione normative dettate per la nomina e la revoca degli assessori; II) la manifesta abnormità e discriminatorietà del provvedimento oggetto di impugnativa. FT

 



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Inserito in data 25/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 febbraio 2012, n. 1069

Ammissibilità dell’interrogatorio libero delle parti anche nel giudizio amministrativo.

La tesi contraria [all’ammissibilità, anche nel giudizio amministrativo, dell’interrogatorio libero delle parti] poggia tanto sul dato testuale – la mancata previsione nel codice del processo amministrativo, tra le attività istruttorie, dell’interrogatorio libero – quanto su di una lettura sistematica complessiva del giudizio amministrativo.

Ciò posto, reputa il Collegio che il dato testuale non sia determinante, dal momento che non sarebbe neppure corretto andare alla ricerca dell’interrogatorio libero delle parti tra i mezzi di prova espressamente menzionati dal nuovo codice (agli artt. 63 e ss), non essendo l’interrogatorio libero un mezzo di prova ma, piuttosto, uno strumento di possibile convincimento del giudice di natura sussidiaria, in particolare laddove le dichiarazioni di parte trovino riscontro in altri elementi di prova. Ciò non toglie che, anche restando in tale ambito, i “chiarimenti” che a norma dell’art. 63 il giudice amministrativo può sempre chiedere alle parti, anche d’ufficio, possano essere assimilati all’interrogatorio libero, essendo del pari preordinati ad acquisire elementi indiziari dalle risposte o dalle mancate risposte delle stesse, anche al fine di valutare il comportamento processuale delle parti (v. art. 64, comma 4), ed il fatto che tali chiarimenti siano generalmente resi in forma scritta risponde ad una prassi inveterata, ma non rappresenta una modalità obbligatoria.

Nella prospettiva ampiamente dibattuta di un giudizio incentrato sempre più sull’accertamento del rapporto, e non più solo sull’impugnazione dell’atto, e come tale bisognevole di un accesso diretto al fatto, si comprende come sia essenziale fornire al giudice i necessari poteri, istruttori e decisori. Su questa via si è da tempo avviato il legislatore, sollecitato in passato anche dalla giurisprudenza costituzionale, introducendo nel giudizio amministrativo la consulenza tecnica d’ufficio e generalizzando l’ammissibilità della prova testimoniale, sebbene il codice l’abbia ora vincolata discutibilmente alla sola forma scritta. L’importanza dell’istruttoria e delle prove, ben oltre gli originari confini delle sole produzioni documentali, è da mettere in relazione non solo con il mutato volto del processo amministrativo, ma anche con la significativa estensione del perimetro della giurisdizione del suo giudice verso nuovi ambiti nei quali – come la vicenda in esame testimonia, con tutto il suo carico di complicazioni - la componente del “fatto” ha quantomeno lo stesso peso di quella del “diritto”.

In un quadro simile non si comprende, pertanto, per quali ragioni l’interrogatorio libero delle parti sarebbe incompatibile con la struttura e la funzione del processo amministrativo, al punto da non permettere il rinvio esterno al codice di procedura civile, ai sensi dell’art. 39. FT



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Inserito in data 25/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2012, n. 1060

Giudicato a formazione progressiva; Notifica ricorso per ottemperanza nel domicilio reale.

L’azione di annullamento e quella di ottemperanza sono azioni autonome, fondate l’una sull’accertamento di una lesione di un interesse pretensivo od oppositivo, l’altra , con cognizione estesa al merito, sull’inadempimento da parte dell’amministrazione degli obblighi sorti in virtù della sentenza , sottoposte l’una al termine di decadenza, l’altra a quello di prescrizione dell’actio judicati. Tale autonomia è ancor più oggi accentuata dall’obbligo introdotto dall’art. 114 c.p.a. (entrato in vigore anteriormente all’instaurazione del giudizio di ottemperanza e, pertanto, ad esso applicabile) di notificazione, previamente al deposito, del ricorso in ottemperanza a tutte le parti del giudizio, con superamento della necessità della previa diffida, sul modello del ricorso ordinario e nel solco della più recente giurisprudenza amministrativa che ha sottolineato la necessità di pienezza del contraddittorio.

L’autonomia dei giudizi non viene meno in conseguenza della natura mista - di cognizione e di esecuzione – del giudizio di ottemperanza , quando la regola posta dal giudicato amministrativo necessiti un’esplicitazione o un completamento da parte del giudice dell’ottemperanza (c.d. giudicato a formazione progressiva), in quanto l’azione diretta ad ottenere la conformazione del successivo esercizio del potere da parte dell’amministrazione alle regole contenute nella sentenza passata in giudicato (o anche semplicemente esecutiva) rimane un rimedio, soltanto eventuale , diretto ad affermare il diritto all’ottemperanza della parte vittoriosa, similmente a quanto avviene per il diritto all’esecuzione nel processo di esecuzione dinanzi al G.O., nel caso di inadempimento agli obblighi scaturenti dalla decisione.

Ne discende che correttamente il giudizio di ottemperanza, in quanto nuovo giudizio, è stato instaurato mediante notificazione del ricorso alla parte nel proprio domicilio reale, non rilevando l’elezione di domicilio effettuata relativamente alla sola fase cognitoria.

 

L’appellante sostiene che con la sentenza azionata il T.a.r. si sarebbe limitato ad annullare l’aggiudicazione senza pronunciarsi sulla sorte del contratto, non essendone stata richiesta alcuna caducazione. Avrebbe, pertanto, violato il principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice di ottemperanza, condannando l’amministrazione ad adottare le misure volte a dare effettività e satisfattività alla pronuncia caducatoria, ponendo nel nulla il contratto e procedendo alla parziale rinnovazione della gara ed all’aggiudicazione all’avente titolo. Occorre a riguardo ancora una volta richiamare i poteri del giudice dell’ottemperanza in ordine all’integrazione del disposto della sentenza con statuizioni che costituiscono non una esecuzione in senso stretto, ma un’attuazione progressiva della sentenza (ora, peraltro, passata in giudicato) , volta a realizzare la finalità satisfattiva del giudizio attraverso l’attribuzione del “bene della vita” che il ricorrente tende ad ottenere. La pronuncia con la quale il T.a.r. ha esercitato tali poteri, pervenendo al riconoscimento dell’obbligo in capo al Comune di conformarsi mediante l’esercizio della propria attività, non travalica quindi i limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che non può essere valutata in rapporto al giudizio cognitorio, ma in relazione alla richiesta formulata con il ricorso per l’ottemperanza della sentenza di primo grado. FT

 



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Inserito in data 25/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2012, n. 1058

Sul rito applicabile all’impugnazione dell’esclusione dal procedimento preparatorio per elezioni locali.

In ordine alla questione concernente l’individuazione del rito, il collegio deve limitarsi a prendere atto della chiara lettera della norma sancita dall’art. 32, co. 1, c.p.a. secondo cui, se le azioni presenti all’interno del medesimo giudizio (perché proposte ab origine in un unico contesto, ovvero perché riunite dal giudice in ragione del vincolo della connessione ex art. 70, co. 1, c.p.a.), “…sono soggette a riti diversi, si applica quello ordinario, salvo quanto previsto dal Titolo V del Libro IV”. In sostanza, in ogni ipotesi di cumulo di azioni disciplinate da riti diversi (uno ordinario ed uno speciale, o più speciali), troverà sempre applicazione il rito ordinario; tale rito non sarà applicabile, in via del tutto eccezionale, solo quando una delle controversie sia regolata dal rito sancito dagli artt. 119 – 125 (che esauriscono il Titolo V del Libro IV rubricato non a caso –riti abbreviati relativi a speciali controversie -). Pertanto, il rito ordinario si applica non solo quando coesistono domande soggette al rito ordinario e domande soggette a riti speciali, ma anche quando coesistono domande soggette a riti speciali diversi, salvo il caso in cui, per taluna delle domande, si applichi il rito abbreviato comune. Ne consegue che l’applicazione preferenziale del rito ordinario comporta l’estensione delle relative regole processuali, e dei relativi termini, anche alle domande che in astratto sarebbero soggette, se proposte da sole, ad un rito speciale.

 

Neppure può seguirsi la diversa tesi, secondo cui anche le impugnazioni diverse dall’appello aventi ad oggetto una sentenza in materia di elezioni locali (nella specie, la revocazione di una sentenza resa su domanda di annullamento della esclusione di una lista), sarebbero disciplinate dal rito speciale divisato dall’art. 129, co. 8 e 9, c.p.a. Si oppongono a tale opzione esegetica: a) il tenore letterale delle norme (art. 129, co. 7, 8 e 9), la dove si riferiscono non ai mezzi di gravame in genere (individuati tassativamente dall’art. 91 c.p.a.), ma al solo appello; b) il dato sistematico posto che, in relazione a tutto il contenzioso elettorale, il codice (artt. 131 e 132 c.p.a.), ha disciplinato con caratteri di specialità il solo istituto dell’appello, senza curarsi degli altri mezzi di impugnazione; c) il criterio teleologico, unitamente ad una lettura del dato normativo costituzionalmente orientata a salvaguardare il diritto di difesa inciso dalla brevità dei termini (certamente straordinaria nella tutela anticipata avverso l’esclusione delle liste); le norme che introducono riti speciali, infatti, costituiscono eccezioni tassative, sono di stretta interpretazione e insuscettibili di interpretazione analogica.

 

Per quanto concerne i contro interessati, la norma prevede la notificazione del ricorso nei loro confronti alla duplice condizione che essi siano effettivamente rintracciabili e solo <<ove possibile>>. La prima condizione presuppone una deroga ai ricevuti principi giurisprudenziali in materia di inconfigurabilità di contro interessati nei giudizi aventi ad oggetto atti di esclusione; si tratta di una precisa opzione del legislatore che ha imposto l’evocazione obbligatoria anticipata dei contro interessati nel contenzioso elettorale preparatorio, per [ la tendenziale concentrazione all’interno della procedura di ogni questione prospettabile da parte dei soggetti coinvolti; si tratta del punto di equilibrio raggiunto dalla legge fra diverse e non convergenti esigenze, tutte di pari dignità costituzionale: garanzia della pienezza del controllo sulla correttezza delle operazioni elettorali, certezza dello svolgimento della competizione elettorale nelle date prescelte a livello politico, stabilità delle decisioni giurisdizionali rispetto alle successive fasi del procedimento elettorale ed al contenzioso introdotto a valle della proclamazione degli eletti ]. Il carattere eventuale della notificazione, che potrebbe apparire incoerente con tale opzione, si giustifica, invece, alla luce della possibilità pratica che la lista esclusa risulti l’unica partecipante alla competizione (in assoluto, ovvero in relazione al momento della esclusione e della successiva impugnazione).

 

Per quanto riguarda la concreta individuazione dei litisconsorti necessari, la sezione ritiene che siano tali, in virtù di una presunzione ex lege, tutti i candidati delle liste fino a quel momento ammesse che potrebbero subire un pregiudizio dalla presenza nella competizione elettorale di una ulteriore lista. Simmetricamente, del resto, nel contenzioso instaurato a valle della proclamazione degli eletti, i candidati della lista esclusa e i cittadini elettori (dunque anche i presentatori della lista), secondo consolidati principi, devono notificare il ricorso ai candidati eletti delle liste contrapposte. Viceversa, sono prive di soggettività giuridica e dunque non sono legittimate passive della domanda di annullamento delle operazioni elettorali, le liste in quanto tali e i loro delegati; questo principio, affermato nel contenzioso elettorale ordinario, và confermato anche nel contenzioso sugli atti preparatori; pertanto, mentre la legittimazione attiva spetta ex lege esclusivamente ai candidati ricusati ovvero ai delegati della lista esclusa (art. 129, co.1, c.p.a.), quella passiva compete esclusivamente ai candidati delle altre liste ammesse.

 

L’accertamento della concreta possibilità della notificazione diretta ai contro interessati, assume, a cagione della straordinaria brevità dei tempi a disposizione di chi agisce in giudizio, un valore residuale ponendosi (la notificazione diretta) come semplice alternativa rimessa alla valutazione dell’istante. Allorquando sia stata correttamente eseguita la procedura speciale di notificazione presso l’ufficio elettorale e nel ricorso avverso il provvedimento di esclusione siano stati evocati, anche impersonalmente, i candidati delle eventuali liste ammesse, si produrrà l’effetto legale di conoscenza verso i contro interessati.

 

Avuto riguardo, all’opposizione di terzo proposta dal cittadino elettore (nonché delegato alla presentazione della lista), il collegio ritiene che quest’ultimo sia privo della relativa legittimazione in quanto soggetto abilitato ad agire principaliter quale portatore di un interesse diffuso alla legalità delle operazioni elettorali; coerentemente, del resto, il delegato presentatore della lista, dal punto di vista passivo, è privo di legitimatio ad causam rispetto all’azione di annullamento proposta avverso la proclamazione degli eletti atteso che le liste, in quanto tali, sono prive di soggettività giuridica.

 

In materia elettorale, e in particolare in tema di giudizio anticipato sulla esclusione delle liste, deve ritenersi che il giudicato, sotto il profilo soggettivo, produca effetti erga omnes. Assodata l’efficacia soggettiva del giudicato in questione, si tratta ora di individuarne il contenuto precettivo, ovvero la regula iuris capace di imporsi erga omnes. Sotto il profilo oggettivo, la vis espansiva del giudicato sulle procedure elettorali preparatorie trova un limite nella retta applicazione del principio del <<dedotto e deducibile>>: il giudicato di rigetto (anche per insopprimibili esigenze di tutela della stabilità della compagine politica dell’ente), impedisce alla lista esclusa (ai suoi candidati, delegati ed a qualsiasi altro attore popolare), di proporre un nuovo ricorso successivamente alla proclamazione degli eletti; mentre il giudicato di accoglimento del ricorso avverso il provvedimento di esclusione, avendone assodata l’illegittimità solo per le ragioni poste a base della ricusazione, non impedisce, successivamente alla proclamazione degli eletti, l’impugnativa dell’ammissione per vizi diversi. FT



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Inserito in data 25/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 23 febbraio 2012, n. 1054

Interferenze fra riesercizio del potere dopo il giudicato di annullamento ed autotutela decisoria.

Tutti gli atti di gara, a partire dal bando per finire all’aggiudicazione definitiva, possono formare oggetto di ritiro in via di autotutela decisoria in funzione di riesame. Tale principio è stato consacrato dall’art. 11, co. 9, del d.lgs. n. 163 del 2006 – c.d. codice dei contratti pubblici – che nel disciplinare il termine finale per la stipulazione del contratto fa comunque salvo il potere di autotutela dell’amministrazione: la disposizione chiarisce quale sia, per la stazione appaltante, la portata del vincolo derivante dall’intervenuta aggiudicazione. L’amministrazione non è infatti incondizionatamente tenuta alla stipulazione del contratto, ma l’impegno conseguente alla definitiva individuazione dell’aggiudicatario può essere eliminato solo attraverso le procedure tipiche che regolano l’esercizio del potere di autotutela ora codificate dalla l. n. 241 del 1990 come novellata nel 2005. La norma sancita dall’ art. 11 cit. non è tuttavia esaustiva dell’autotutela in materia di appalti pubblici che non riguarda solo l’aggiudicazione, ma anche gli altri atti di gara, e che soggiace alle regole elaborate dalla giurisprudenza ed ora codificate dalla l. n. 15 del 2005.  Già prima della l. n. 15 del 2005 e del codice dei contratti pubblici, si è riconosciuto che nei procedimenti di gara, al di là degli atti tipici finalizzati allo scopo di verificare la legittimità dell’iter di formazione del contratto (quali l’approvazione e l’eventuale controllo), dovesse ritenersi vigente il generale principio dell’autotutela decisoria; pertanto, in aggiunta agli strumenti tipici di verifica immediata dell’attività compiuta dall’amministrazione, deve ritenersi consentito l’esercizio del generale potere di riesame in un momento successivo alla conclusione del procedimento; dunque l’estrinsecazione del potere di autotutela della p.a. non incontra alcun limite insuperabile nella convenzione intervenuta con il privato: i diritti e i doveri delle parti derivanti dall’accordo non sottraggono l’atto amministrativo presupposto al potere di autotutela.

 

Le caratteristiche fin qui illustrate del potere di autotutela decisoria in materia di procedure di appalto devono essere coordinate con i vincoli cassatori, rinnovatori e conformativi scaturenti dal giudicato di annullamento degli atti di gara.

In linea generale può affermarsi che anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, il rapporto di incidenza fra autotutela amministrativa e giudicato del g.a. non deve essere risolto aprioristicamente (con l’affermazione assoluta della prevalenza del secondo sul primo), ma affidato in concreto al riscontro dell’esatta portata del medesimo giudicato e del bene della vita riconosciuto; sicché, ove il giudicato non inibisca l’esercizio dei tratti liberi dell’azione amministrativa (secondo la regola generale sancita adesso dall’art. 34, co. 2, primo periodo, c.p.a.), ovvero ne consenta espressamente la riedizione (come nel caso di specie), è inconfigurabile una situazione di inottemperanza (nella triplice enfatica epifania della mancata esecuzione, violazione o elusione). FT



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Inserito in data 22/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 febbraio 2012, n. 904

Le ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco rappresentano uno strumento di governo del territorio di carattere extra- ordinem.

Esse sono ammesse soltanto quando si tratti di affrontare situazioni impreviste di carattere eccezionale, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico.

I rimedi di carattere ordinario, infatti, sono provvedimenti tipizzati atti a fronteggiare esigenze prevedibili ed ordinarie, che costituiscono l’elemento “normale” rimesso dalla legge alla gestione dei poteri pubblici.

Le ordinanze in questione presuppongono, invece, una situazione di pericolo effettivo in cui si possono configurare anche situazioni non tipizzate dalla legge: questo giustifica la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi, la possibilità di deroga rispetto alla disciplina vigente e la necessità di una motivazione congrua e peculiare. Esse assumono, in definitiva, carattere residuale, quasi di chiusura. SL



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Inserito in data 22/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 febbraio 2012, n. 892

Interesse a ricorrere al fine di ottenere la riedizione della gara d’appalto: non sussiste in capo a chi è stato legittimamente escluso.

Il soggetto legittimamente escluso dalla gara, per effetto dell’esclusione, rimane privo non soltanto del titolo legittimante a partecipare alla gara ma anche, a contestarne gli esiti e la legittimità delle scansioni procedimentali.

Il suo interesse protetto invero, da qualificare come interesse di mero fatto, non è diverso da quello di qualsiasi operatore del settore che, non avendo partecipato alla gara, non ha titolo ad impugnare gli atti, pur essendo titolare di un interesse di mero fatto alla caducazione dell’intera selezione, al fine di poter presentare la propria offerta in ipotesi di riedizione della nuova gara. SL



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Inserito in data 22/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 febbraio 2012, n. 888

Modificazione soggettiva nelle gare d’appalto: è illegittimo il recesso di una delle imprese riunite in A.T.I. a seguito dell’aggiudicazione provvisoria.

Una tale modifica, anche senza che ad essa consegua la sostituzione o l’aggiunta di nuove imprese all’ATI, è da ritenersi, infatti, comunque elusiva del dettato normativo secondo cui le Amministrazioni aggiudicatrici devono avere sempre conoscenza dei soggetti che intendono contrarre con le Amministrazioni stesse.

Il divieto di modificazione soggettiva, infatti, non ha l'obiettivo di precludere sempre e comunque il recesso dal raggruppamento in costanza di procedura di gara, poiché il rigore di detta disposizione va temperato in ragione dello scopo che persegue, che è quello di consentire alla stazione appaltante, in primo luogo, di verificare il possesso dei requisiti da parte dei soggetti che partecipano alla gara e, correlativamente, di precludere modificazioni soggettive, sopraggiunte ai controlli, e dunque, in grado di impedire le suddette verifiche preliminari. SL



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Inserito in data 22/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 20 febbraio 2012, n. 875

Procedimento di verifica delle anomalie relative ad offerte anormalmente basse,  ai sensi dell’art. 88 co. 4 d.lgs. 163/06:

  1. è avulso da ogni formalismo ed improntato ai principi di leale collaborazione tra stazione appaltante e offerente;
  2. ciò che si deve garantire è un contraddittorio effettivo tra le parti;
  3. non debbono sussistere preclusioni temporali relativamente alla presentazione di eventuali giustificazioni (difatti, mentre l’offerta è immodificabile dal momento della scadenza del termine di presentazione della stessa, per la modifica delle giustificazioni non esiste lo stesso limite);
  4. sono ammissibili, quindi, giustificazioni sopravvenute ma anche, eventuali compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l’offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell’aggiudicazione;
  5. l’eventuale ulteriore comparizione in audizione personale dell’offerente non è necessaria qualora non sia nemmeno richiesta dalla stazione appaltante ed anzi, talvolta, può risultare gravosa per il procedimento improntato a celerità ed efficienza. Di conseguenza, la sua eventuale omissione non può costituire causa di illegittimità. SL


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Inserito in data 20/02/2012
TAR CALABRIA CATANZARO, SEZ. I , 8 febbraio 2012, n. 161

Deliberazione comunale di revoca dell’incarico professionale; devoluzione al G.O.

Nonostante la questione si inquadri nell’alveo di un contratto stipulato con un soggetto pubblico, sono numerosi gli elementi a favore dell’indole privatistica dell’atto e, pertanto, a supporto della devoluzione al G.O. quivi postulata:

  • Il momento temporale è quello dell’esecuzione del contratto, in cui si ravvedono posizioni paritarie; la P.A., infatti, non opera in via provvedimentale;
  • L’atto emesso infatti, a dispetto del nomen iuris, non configura l’esercizio di una potestà amministrativa di “ripensamento”, bensì un mero recesso da contratto – ex art. 1373 cod. civ.;
  • Anche la nomina del professionista, in tale sede oggetto di revoca, ha un’origine meramente negoziale, trattandosi di conferimento a soggetto esterno alla pianta organica dell’Ente. Si configura, quindi, un rapporto tra le due parti assolutamente paritetico, con conseguente configurazione del recesso, quale rimedio negoziale applicabile e relativa devoluzione all’AGO. CC


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Inserito in data 20/02/2012
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, 13 febbraio 2012, n. 184

Accesso alle procedure concorsuali: individuazione titolo di studio necessario e discrezionalità.

E’ incontestabile l’ampia discrezionalità di cui gode la P.A. nella valutazione dei titoli di accesso a procedure concorsuali, purchè non trasmodi in irragionevolezza, arbitrarietà e illogicità manifesta.

Specie nei concorsi interni basati sui soli titoli, infatti, non è affatto censurabile il requisito della “specifica professionalità” come stimato dall’Amministrazione, in sede di accesso al concorso, a favore della contro interessata e denunciato, in tale sede, dall’appellante escluso. CC



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Inserito in data 20/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, sentenza 17 febbraio 2012, n. 856

Accertamento situazione di "Mobbing". Estremi necessari ai fini di una giusta pretesa risarcitoria.

Il Giudice d’Appello conferma, ai fini dell’individuazione di una condotta “mobbizzante” e della conseguente fondatezza della pretesa risarcitoria, la necessaria sussistenza di un complessivo disegno datoriale, connotato da atti emulativi e volutamente pretestuosi a danno del dipendente.

Ove questi non riesca a dimostrare l’organicità della strategia vessatoria a proprio carico, il Giudice, come nel caso concreto, avrà modo di acclarare solo l’illegittimità o meno di talune procedure attivate dal datore di lavoro. CC



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Inserito in data 20/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, sentenza 17 febbraio 2012, n. 870

Concessione della cittadinanza italiana; silenzio inadempimento ed onere probatorio per danno da ritardo.

  1. Declaratoria dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione competente. Essa, infatti, avrebbe dovuto pronunciarsi sull’istanza dello straniero ricorrente nel termine di 730 giorni decorrenti dalla presentazione della domanda  ex art. 3 del D.P.R. 362/1994;
  2. Il Collegio, tuttavia, non può accogliere la richiesta risarcitoria conseguente ad una “responsabilità da ritardo” del Ministero degli Interni, in quanto estremamente vaga e generica;
  3. Occorre, infatti, una prova rigorosa circa l’ammontare e la sussistenza dei danni patiti dal ricorrente, nonché il nesso eziologico tra questi e l’evasione del provvedimento richiesto all’Ente competente. CC

 



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Inserito in data 17/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 febbraio 2012, n. 728

Strada privata: presupposti dell’assoggettamento a servitù pubblica di passaggio.

L’accertamento giurisdizionale dell’effettiva esistenza della servitù di pubblico passaggio sulla quale le parti si dividono (pacifica essendo invece la privata appartenenza della stessa strada) compete all’autorità giudiziaria ordinaria, trattandosi di materia di diritto soggettivo e non di interesse legittimo. Il Giudice amministrativo può quindi esercitare, al riguardo, esclusivamente una cognizione incidentale sulla questione (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato sulla medesima con la propria decisione, e al solo fine di pronunciarsi sulla legittimità della determinazione dirigenziale che forma specifico oggetto di ricorso.

Perché un'area privata possa ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio, è necessario, oltre all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici. FT



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Inserito in data 17/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 febbraio 2012, n. 722

Facoltà di comunicare via fax l’aggiudicazione, anche tramite software che consentono l’invio in massa.

In materia di procedure ad evidenza pubblica, l’art. 77 del d. lgv. n. 163 del 2006 stabilisce che è in facoltà delle stazioni appaltanti e degli operatori economici inviare le comunicazioni via telefax, purché di ciò si dia comunicazione nel bando o nell’invito. Sulla scorta della normativa citata, la giurisprudenza ha ritenuto che il rapporto di trasmissione via fax è strumento idoneo a garantire con sufficiente certezza l’effettività della comunicazione e, quindi, a far decorrere i termini di impugnativa, senza che il soggetto che ha trasmesso il fax debba fornire ulteriore prova oltre quella risultante dal rapporto di trasmissione che indichi le regolari avvenute trasmissione e ricezione. Grava, invece, sul ricevente che assume la mancata ricezione fornirne la prova contraria.

In considerazione del numero elevato dei destinatari, l’invio del documento è stato effettuato a mezzo l’ausilio di un programma informatico (il software Zetafx che consente l’invio massivo di fax direttamente da personal computer), programma della cui funzionalità non v’è ragione di dubitare, atteso che nel rapporto generato da tale sistema sono presenti tutti gli elementi identificativi della comunicazione effettuata via fax, cioè il mittente, l’oggetto, il nome o la denominazione dell’impresa destinataria; la data e l’ora di invio; l’esito della trasmissione (inviato, tentato, fallito). La trasmissione con modalità Zetafx è sistema idoneo alla stregua del fax tradizionale. FT



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Inserito in data 17/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 febbraio 2012, n. 730

Uffici legali degli enti pubblici: Limiti alla discrezionalità in materia di atti di auto-organizzazione.

è vero e non può certo essere messo in discussione in questa sede che l’Amministrazione pubblica gode, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio margine di auto-organizzazione degli uffici e del personale. Ma se ciò è vero, come è indubitabile, è anche vero che l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non è senza limiti, altrimenti essa si tramuterebbe in una incondizionata licenza, senza alcun limite e senza alcuna possibilità di controllo. Pertanto, pur nella notevole discrezionalità che caratterizza la materia, essa incontra due limiti: uno è quello della ragionevolezza, nel senso che, qualora si dovessero riscontrare patenti violazione dell’ordine logico e si dovesse individuare una organizzazione che non si presenta rispettosa dei principi di cui all’art. 97 Cost., allora l’esame del provvedimento di macro-organizzazione diventa non solo necessario, ma addirittura indispensabile; l’altro limite, si potrebbe dire, naturalmente, è quello del rispetto delle statuizioni esistenti e, in particolare, nel caso che interessa in questa sede, delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della pubblica amministrazione.

Nel caso di specie, non può non evidenziarsi che la normativa attualmente vigente (con particolare riferimento, oltre alla natura dell’attività tipica di un ufficio legale, ricavabile dal principi generali dell’ordinamento giuridico, dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del 1975) prevede che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui, al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere. Indubbiamente, l’Ufficio legale è sempre un ufficio dell’Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni, ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione. Mentre nella vicenda che interessa la presente fattispecie, si è assistito, non tanto all’allontanamento, del dirigente dell’Avvocatura, per il quale non vi è giurisdizione, ma soprattutto allo smembramento dell’Ufficio, che finisce di essere un vero e proprio ufficio legale, sia per la sottoposizione al coordinamento e alla sovrintendenza del direttore generale, come si è visto in precedenza, sia per la sottrazione dei pareri legali (affidati addirittura ad un ufficio archivio e protocollo), sia per la sottrazione del contenzioso in materia di controversie di lavoro, affidato al settore risorse umane, e sia, ancora, per l’affidamento all’ufficio legale in materia di costituzione in giudizio, di un mero parere amministrativo, mentre la tecnicità dell’ufficio prevedrebbe invece un parere di natura tecnico-giuridica. FT



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Inserito in data 17/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 febbraio 2012, n. 709

Dies a quo per il ricorso dell’amministrazione avverso gli atti del commissario ad acta.

Senza alcuna necessità di approfondire i termini del travagliato dibattito in ordine alla figura del Commissario ad acta, è sufficiente rilevare che, anche nella versione antecedente al correttivo del 2011, il Codice del processo amministrativo – nel cui vigore si è svolto il primo grado del presente giudizio di ottemperanza – ha chiaramente disatteso la concezione della “immedesimazione organica” tra Commissario e amministrazione sostituita. Ciò si ricava, innanzi tutto, dal disposto dell’art. 117, comma 4, e dello stesso già citato comma 6 dell’art. 114 cod. proc. amm. i quali, nel devolvere al medesimo giudice “tutte le questioni” relative all’esecuzione della sua decisione, ivi comprese “quelle inerenti agli atti del commissario”, non circoscrivono a soggetti specifici la legittimazione ad adire il giudice per la soluzione di tali questioni, così riconoscendola implicitamente anche all’amministrazione interessata dall’azione sostitutiva del Commissario. In questo modo, sia pure con disposizioni destinate a operare sul piano strettamente processuale, il legislatore ha aderito al diffuso indirizzo che già in precedenza aveva ritenuto che la relazione fra il Commissario ad acta e l’amministrazione sostituita si configurasse come relazione interorganica o addirittura intersoggettiva, analogamente a quanto in passato affermato per il commissario nominato in sede di controllo sostitutivo.

 

Da questi semplici rilievi discende, in primo luogo, che deve certamente riconoscersi la legittimazione del Comune a impugnare gli atti emessi dal Commissario ad acta nominato dal giudice in sua sostituzione, e in secondo luogo che non può in alcun modo ritenersi operante in capo all’Amministrazione una presunzione di conoscenza per gli atti commissariali, come sarebbe se si trattasse di atti posti in essere dallo stesso soggetto surrogato. Ne consegue, ancora, che è del tutto ragionevole la prospettazione del Comune appellante, il quale individua il momento di propria conoscenza del provvedimento impugnato alla data di consegna dello stesso al protocollo comunale, e che – al contrario – l’ipotizzata conoscenza ad una data anteriore avrebbe dovuto essere provata, secondo i comuni principi, dagli odierni appellati i quali eccepivano la tardività del ricorso introduttivo, ciò che essi non hanno fatto. FT



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Inserito in data 17/02/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 14 febbraio 2012, n. 22

Decreti milleproroghe: necessaria omogeneità, limiti al potere di emendamento in sede di conversione.

La semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità. Ai sensi del secondo comma dell’art. 77 Cost., i presupposti per l’esercizio senza delega della potestà legislativa da parte del Governo riguardano il decreto-legge nella sua interezza, inteso come insieme di disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo. L’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed «i provvedimenti provvisori con forza di legge», di cui alla norma costituzionale citata. Il presupposto del «caso» straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno. La scomposizione atomistica della condizione di validità prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il necessario legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il «caso» che lo ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie di norme assemblate soltanto da mera casualità temporale.

I cosiddetti decreti “milleproroghe”, che, con cadenza ormai annuale, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti – pur attinenti ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale. Del tutto estranea a tali interventi è la disciplina “a regime” di materie o settori di materie, rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono quindi essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa, di cui all’art. 71 Cost. Ove le discipline estranee alla ratio unitaria del decreto presentassero, secondo il giudizio politico del Governo, profili autonomi di necessità e urgenza, le stesse ben potrebbero essere contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati. Risulta invece in contrasto con l’art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei.

La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all’apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione.

In definitiva, l’oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione. Non si può tuttavia escludere che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità. Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali. Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica. In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione. Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari, ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge. FT



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Inserito in data 16/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 febbraio 2012, n. 658

Riconoscimento equo indennizzo per cause di servizio: in presenza di pareri medico legali contrastanti prevale quello del C.P.P.O.

Il parere del C.P.P.O. (Comitato per le pensioni privilegiate ordinarie) giunge, infatti, al termine di un complesso procedimento e tiene conto degli altri pareri e valutazioni formulati da quanti, come lo stesso C.M.O. (Commissione medica ospedaliera), si sono espressi, sotto i più diversi aspetti, in merito alla problematica in questione, ivi compresa la valutazione delle condizioni ambientali e di stress lavorativo in cui l’interessato si è trovato ad operare. SL



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Inserito in data 16/02/2012
TAR PIEMONTE TORINO, SEZ. II, ordinanza 9 febbraio 2012, n. 208

Rapporti tra ricorso principale ed incidentale: questione di dimensione europea.

Con l’ordinanza in epigrafe, i giudici piemontesi rimettono alla Corte di Giustizia la valutazione della compatibilità della ricostruzione dei rapporti tra detti mezzi di gravame, fornita dall’Adunanza Plenaria n. 4 del 2011, con i principi di parità delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nel settore degli appalti, di cui alla direttiva n. 1989/665/CEE, come modificata dalla direttiva n. 2007/66/CE. SL



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Inserito in data 16/02/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. I, 13 febbraio 2012, n. 1433

Illegittima l’ordinanza con la quale il Comune di Roma ha vietato lo svolgimento di cortei nel centro storico della città.

L’ordinanza in esame, avente carattere extra- ordinem, è stata, infatti, emanata dal Sindaco di Roma in qualità di Commissario delegato preposto a fronteggiare lo stato di emergenza sul territorio della Capitale. Ma lo stato di emergenza delineato nella delega conferitagli dal Presidente del Consiglio dei Ministri con specifica ordinanza nel 2006 risulta finalizzata a fronteggiare “ la situazione determinatasi nel settore del traffico e della mobilità della città”.  Essendo, pertanto, estranea allo svolgimento delle riunioni in luogo pubblico, essa risulta eccedere i limiti segnati dall’ordinanza presidenziale. SL



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Inserito in data 15/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 9 febbraio 2012, n. 686

Legittimazione al ricorso delle associazioni di categoria: non è necessaria la sottoscrizione da parte di tutti gli interessati.

La legittimazione a ricorrere delle associazioni di categoria incontra il limite del divieto di tutela degli interessi di singoli associati o di gruppi di associati, perché la categoria verrebbe divisa in posizioni disomogenee; sicché, è da escludere se l'associazione insorge in giudizio per far valere gli interessi solo di una parte dei suoi componenti e trascurando quelli, eventualmente, di segno contrario.

La ratio sottesa a tale principio non riposa in altro che nella necessità di evitare che l’associazione proponente il ricorso privilegi un interesse (quello della maggioranza degli associati, si presume) contrario a quello di altra parte degli associati, ma non postula affatto che tutti gli associati debbano essere interessati alla specifica questione, perché altrimenti la prova della legittimazione riposerebbe sempre e comunque nella sottoscrizione del gravame da parte di tutti gli associati e, per altro verso, sarebbe sufficiente che uno di essi si dichiarasse disinteressato alla questione per precludere alla associazione stessa ogni iniziativa processuale. SL



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Inserito in data 14/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 febbraio 2012, n. 701

Immobili locati da parte di un Comune; rappresentanza in giudizio ed esperibilità del potere di revoca.

  1. In primo luogo, respinta l’eccezione di mero rito riguardo un presunto difetto di legittimazione del Comune appellante. A partire dal TUEL non occorre più, ai fini della rappresentanza in giudizio dell’Ente locale, il conferimento di apposito mandato al Sindaco da parte della Giunta. Il primo Cittadino ormai, e salva diversa disposizione dello Statuto, agisce sul piano giurisdizionale rappresentando il Comune.
  2. Nel merito, i Giudici del secondo grado ricordano come il Comune, dovendo agire sempre in vista di un prevalente interesse pubblico, possa agire in revoca di precedenti delibere statuenti la locazione di taluni immobili, ove questi non fossero, in seguito, risultati più idonei all’uso originariamente stabilito.
  3. La necessaria corretta prosecuzione del pubblico servizio induce, pertanto, l’Ente locale ad agire in autotutela, ove, come nel caso concreto, condizioni esogene rendano il fabbricato inadatto agli interessi della collettività. CC


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Inserito in data 14/02/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 febbraio 2012, n. 20

Calendario venatorio regionale annuale e contrasto con l’art. 117, 1’ e 2’ co. lett. s), Cost.

  1. I Giudici della Consulta sanciscono l’inammissibilità del denunciato contrasto con il primo comma dell’art. 117 della Costituzione, posto il mancato riferimento, da parte del Governo a quo, della norma del diritto europeo rispetto alla quale la normativa regionale impugnata sarebbe in contrasto, al punto da arrecare un vulnus al parametro costituzionale appena richiamato;
  2. Appare fondata, invece, la questione di legittimità con riguardo al 2’ comma lett. s) dell’art. 117 Cost. Trattandosi di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, quindi materia spettante alla competenza dello Stato, Esso può imporre alle Regioni di intervenire a completamento della disciplina, ma con atto amministrativo e non legislativo, come nel caso di specie;
  3. La Regione, avendo maggiore conoscenza delle caratteristiche del territorio locale, può, infatti, intervenire in dettaglio del Legislatore nazionale, ma con atto amministrativo quale epilogo di un intero procedimento che, anche ai fini di tutela, è più immediato ed accessibile rispetto ad una Fonte legislativa;
  4. Merita accoglimento, pertanto, la doglianza espressa in tale pronuncia, stante l’intervento del Legislatore regionale nella forma, quivi reputata inidonea, della Legge – provvedimento. CC


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Inserito in data 14/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 febbraio 2012, n. 698

Regolarizzazione lavoratore – exart. 1-ter del D. L. n. 78/09, dopo la Legge di conversione n. 102/09.

Il requisito di ordine soggettivo, quale quello del possesso di un certo reddito da parte del datore, è chiaramente richiesto al fine di conferire maggiore stabilità e certezza alla posizione del lavoratore da regolarizzare.

I Giudici d’appello, tuttavia, chiariscono la necessaria persistenza di simile criterio per tutta la durata della procedura, e fino all’esito della stessa, non potendo essere “cristallizzato” all’atto della domanda iniziale.

Verrebbe meno, in tal guisa, quell’esigenza di effettività e stabilità che il Legislatore ha inteso garantire, specie in un ambito simile, spesso costellato da istanze di emersione di dubbia validità. CC



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Inserito in data 14/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, adunanza di SEZ. I, 10 febbraio 2012, n. 604

Divieto detenzione armi. Discrezionalità del Viminale e Ricorso straordinario al Capo dello Stato.

  1. Ai fini di simile diniego, l’Amministrazione competente ha discrezionalità nel valutare il potenziale abuso di armi, presuntivamente imputabile a soggetto già destinatario di precedenti condanne penali e che il TULPS sancisce espressamente quale monito nel rilascio di simili provvedimenti;
  2. In guisa di ciò, appare priva di fondamento la doglianza del ricorrente, in merito a presunta illogicità od eccesso di potere da parte dell’Amministrazione competente;
  3. Essa, invero, ha solo compiuto una propria valutazione che, in ossequio alla consueta ripartizione delle sfere di poteri, non può essere più sindacata in tale sede. CC

 



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Inserito in data 10/02/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 7 febbraio 2012, n. 18

Illegittima legge regionale che introduce restrizioni alla cessione di attività commerciali.

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15-bis, comma 4, della legge della Regione autonoma Sardegna 18 maggio 2006, n. 5 (Disciplina generale delle attività commerciali), introdotto dall’art. 3 della legge della Regione autonoma Sardegna 7 febbraio 2011, n. 6 recante «Modifiche all’articolo 2 della legge regionale 21 maggio 2002, n. 9 (Agevolazioni contributive alle imprese nel comparto del commercio), interpretazione autentica dell’articolo 15, comma 12 della legge regionale 18 maggio 2006, n. 5 (Disciplina generale delle attività commerciali) e norme sul trasferimento dell’attività», nella parte in cui prevede che la cessione dell’attività «non può essere effettuata, ad eccezione dei casi di cui al comma 5, prima che siano decorsi tre anni dalla data del rilascio del titolo abilitativo all’esercizio dell’attività stessa».

Tale norma, imponendo una limitazione temporale alla cessione di attività commerciali, restringe la possibilità di accesso di nuovi operatori, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. («tutela della concorrenza»).

L’art. 16 della direttiva CE 12 dicembre 2006, n. 123 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), recepita nell’ordinamento italiano con decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), stabilisce che una deroga al principio della libera circolazione dei servizi può ritenersi necessaria – e dunque ammissibile – solo quando sia giustificata «da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente». Nessuna di tali ragioni può essere addotta a fondamento della norma impugnata. FT



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Inserito in data 10/02/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 9 febbraio 2012, n. 21

Legittima la confisca nei confronti degli eredi di un soggetto appartenente a organizzazione mafiosa.

Viene dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965, sollevata, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 111 della Costituzione.

La questione sollevata investe l’ipotizzata lesione delle garanzie processuali delle parti connessa alla possibilità generale di procedere, in sede di applicazione della confisca quale misura di prevenzione patrimoniale, a carico di soggetti diversi da quello «nei confronti del quale [la confisca] potrebbe essere disposta», ossia dei suoi successori. Il nucleo essenziale delle censure mosse all’art. 2-ter, undicesimo comma, della legge n. 575 del 1965 consiste dunque in un asserito vulnus al diritto di difesa e al principio del contraddittorio che il rimettente ritiene inevitabilmente collegato alla configurazione normativa del procedimento in esame, effettuata dal legislatore «prescindendo dalla posizione del de cuius pericoloso».

Al riguardo, deve rilevarsi che al successore sono assicurati, nel procedimento in questione, i mezzi probatori e i rimedi impugnatori previsti per il de cuius, sicché ciò che può mutare è solo il rapporto di conoscenza che lega il successore stesso ai fatti oggetto del giudizio e in particolare, nella specie, a quelli integranti i presupposti della confisca. Tale circostanza, tuttavia, potrebbe, in linea astratta, incidere sugli specifici profili del procedimento relativi – per riprendere le espressioni del rimettente – alle varie «valutazioni demandate al giudice (sussistenza degli indizi di appartenenza del proposto deceduto ad associazioni mafiose; verifica della disponibilità da parte di quest’ultimo di beni; verifica dei presupposti di sproporzione ed illecita provenienza)», ma non sulla possibilità di procedere nei confronti dei successori, prevista dalla disposizione censurata.

D’altra parte, l’individuazione, operata dal rimettente, della «presenza fisica dell’interessato» (o almeno della sua «possibilità astratta di partecipare») quale «momento fondamentale del rapporto processuale, che condiziona la correttezza globale del giudizio», in cui si sostanzia il nucleo essenziale della questione, non è giustificata con riferimento a un procedimento finalizzato all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale della confisca. Da questo punto di vista, l’argomentare del rimettente è viziato dall’impropria sovrapposizione dei connotati del procedimento penale a quelli del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale.

Le peculiarità del procedimento di prevenzione devono, infine, essere valutate alla luce della specifica ratio della confisca in esame, una ratio che, come ha affermato questa Corte, da un lato, «comprende ma eccede quella delle misure di prevenzione consistendo nel sottrarre definitivamente il bene al “circuito economico” di origine, per inserirlo in altro, esente dai condizionamenti criminali che caratterizzano il primo» e, dall’altro, «a differenza di quella delle misure di prevenzione in senso proprio, va al di là dell’esigenza di prevenzione nei confronti di soggetti pericolosi determinati e sorregge dunque la misura anche oltre la permanenza in vita del soggetto pericoloso. FT



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Inserito in data 10/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, sentenza 7 febbraio 2012, n. 662

Revoca dell’aggiudicazione definitiva: parametri di determinazione dell’indennizzo e del risarcimento.

La misura del risarcimento del danno, conseguente a responsabilità precontrattuale, non è concettualmente riducibile al solo “danno emergente”. Può dirsi, infatti, sufficientemente condiviso che la responsabilità precontrattuale comporta obbligo di risarcimento del danno nei limiti del cd. interesse negativo, e cioè dell’interesse del soggetto a non essere leso nell’esercizio della sua libertà negoziale (laddove l’interesse positivo è interesse all’esecuzione del contratto). Mentre l’interesse positivo consiste nella perdita che il soggetto avrebbe evitato (danno emergente) e nel vantaggio economico che avrebbe conseguito (lucro cessante) se il contratto fosse stato eseguito, al contrario il danno proprio dell’interesse negativo consiste nel pregiudizio che il soggetto subisce per avere inutilmente confidato nella conclusione e nella validità del contratto ovvero per avere stipulato un contratto che senza l’altrui ingerenza non avrebbe stipulato o avrebbe stipulato a condizioni diverse. Ne consegue che, nel caso di mancata conclusione del contratto, il soggetto avrà diritto al risarcimento del danno consistente innanzi tutto nelle spese inutilmente sostenute, e consistente inoltre nella perdita di favorevoli occasioni contrattuali, cioè di ulteriori possibilità vantaggiose sfuggite al contraente a causa della trattativa inutilmente intercorsa, ovvero a causa dell’inutile stipulazione del contratto. A tali voci, ritiene il Collegio che deve essere aggiunto il cd. “danno curriculare”, cioè quel danno consistente nell’impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito. E ciò in considerazione del fatto che, nel caso di specie, la responsabilità precontrattuale della P.A. non si configura con riferimento ad una interruzione delle trattative, che determina la mancata stipula del contratto, intervenuta in un generico momento delle stesse, bensì laddove si era già addivenuti alla sicura individuazione del contraente, per il tramite dell’aggiudicazione definitiva ed in presenza di un contenuto contrattuale già compiutamente definito, per il tramite del bando di gara e dell’offerta aggiudicataria.

In definitiva:

- mentre nel caso di indennizzo ex art. 21 – quinquies, la misura del medesimo è parametrata al solo “danno emergente”;

- nel caso di responsabilità precontrattuale, la misura del risarcimento comprende sia il danno emergente, sia (ove provato) il danno derivante dalla perdita di ulteriori favorevoli occasioni contrattuali, sia (laddove vi sia mancata stipulazione del contratto a fronte di aggiudicazione definitiva) il cd. danno curriculare.

Ove si voglia diversamente considerare, appare singolare e privo di ragionevolezza che l’ordinamento riconosca due attribuzioni patrimoniali, distinte ma di identica misura, benché nel primo caso ( ex art. 21- quinquies l. n. 241/1990), non vi sia alcuna attività illegittima o illecita dell’amministrazione, mentre nel secondo vi è un accertato illecito comportamento della medesima, tale da fondare responsabilità precontrattuale.

 

Ciò che differenzia il risarcimento del danno da atto illegittimo (cui consegue l’instaurazione di un rapporto contrattuale) da quello derivante da responsabilità precontrattuale, è che solo nel primo e non nel secondo caso, vi è l’effettiva esecuzione del contratto. Di modo che, solo nel primo e non nel secondo caso, potrà riconoscersi il lucro cessante, derivante dal mancato conseguimento dell’utile conseguibile con la esecuzione del contratto, impedita dalla precedente, illegittima attività dell’amministrazione.

A diverse conclusioni deve, invece, giungersi, per il danno curriculare. Posto che quest’ultimo consegue alla mancata esecuzione del contratto, sia che ciò dipenda dalla non assunta qualità di parte del contratto e del rapporto per illegittima attività dell’amministrazione, sia che ciò dipenda dalla mancata stipulazione di un contratto, del quale sono già individuati con certezza parte contraente (per il tramite dell’aggiudicazione definitiva) e contenuto (per il tramite del bando di gara e dell’offerta), per nuova, legittima determinazione, assunta dall’amministrazione in via di autotutela. FT



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Inserito in data 10/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, sentenza 7 febbraio 2012, n. 656

Abuso del processo e legittimazione a sollevare in appello l’eccezione di difetto di giurisdizione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio hanno riconosciuto la vigenza, nel nostro sistema, di un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell'art. 2 Cost. e dell'art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto, ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale, sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte.

Il divieto di abuso del diritto, in quanto espressione di un principio generale che si riallaccia al canone costituzionale di solidarietà, si applica anche in ambito processuale, con la conseguenza che ogni soggetto di diritto non può esercitare un'azione con modalità tali da implicare un aggravio della sfera della controparte, sì che il divieto di abuso del diritto diviene anche divieto di abuso del processo Si giunge, così, all'elaborazione della figura dell'abuso del processo quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa.

Integra abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della giurisdizione. In definitiva, la sollevazione di detta auto-eccezione in sede di appello, per un verso, integra trasgressione del divieto di venire contra factum proprium -paralizzabile con l’exceptio doli generalis seu presentis - e, per altro verso, arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell’ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall’articolo 11 del codice del processo amministrativoDetto sacrificio, nell’ottica comparativa che informa il giudizio sull’esistenza e sulla consistenza dell’abuso, non trova adeguata giustificazione nell’interesse della parte che disconosce la giurisdizione del giudice dalla stessa in origine evocato, visto che la stessa potrebbe difendersi nel merito in sede di appello al fine di ribaltare la statuizione gravata piuttosto che ripudiare detto giudice in funzione di un giudizio opportunistico circa le maggiori o minori probabilità di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a definire la res litigiosa. FT



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Inserito in data 10/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, sentenza 3 febbraio 2012, n. 630

Appalti misti (lavori/forniture): il criterio per individuare l’oggetto non è quello quantitativo.

È erroneo il presupposto secondo cui il criterio guida per individuare l’oggetto del contratto - nel caso di contratti misti caratterizzati anche dalla previsione dei lavori - sia quello quantitativo. Negli appalti misti, al fine di individuare la disciplina da applicare non viene in rilievo l’aspetto quantitativo delle prestazioni, ma il carattere accessorio o meno delle prestazioni. Pertanto, nella fattispecie in esame, la percentuale più elevata del costo dei lavori non vale a modificare l’oggetto dell’appalto, stante che nell’appalto in esame (destinato essenzialmente alla “fornitura di tutti i componenti…per il corretto e razionale funzionamento del blocco operatorio”, come specificato nel capitolato) hanno un ruolo accessorio rispetto al valore delle forniture, essendo strumentali alla installazione di quanto necessario per il funzionamento delle sale operatorie. E’ dunque del tutto ininfluente sull’inquadramento dell’appalto come fornitura la circostanza che le percentuali di forniture e lavori siano diverse da quelle indicate in via presuntiva dalla stazione appaltante, né per tale ragione l’offerta può ritenersi difforme dagli atti di gara. FT



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Inserito in data 09/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ordinanza 2 febbraio 2012, n. 591

Trattenimento in servizio dei professori universitari oltre il limite d’età: questione di legittimità costituzionale.

Con l’ordinanza in esame il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale avverso l’art. 10 della l. 240/2010 con la quale si esclude che i professori universitari ed i ricercatori possano beneficiare del mantenimento in servizio, oltre i limiti di età, per un ulteriore biennio, così come previsto in generale in favore dei dipendenti civili dello Stato. SL



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Inserito in data 09/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 febbraio 2012, n. 554

Il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di un’azione giudiziale.

Esso ha carattere autonomo rispetto ad essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad esempio dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse ad eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P. A.

Inoltre, la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, altresì, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”. SL



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Inserito in data 09/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 febbraio 2012, n. 527

a)Principio di specificità dei motivi gravame:  non è possibile formularne una definizione generale, astratta ed assoluta.

Esso impone unicamente all'appellante di individuare con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza impugnata, in modo che sia possibile desumere quali siano le argomentazioni fatte valere da chi ha proposto l'impugnazione in contrapposizione a quelle evincibili dalla sentenza impugnata. L’appello deve perciò ritenersi inammissibile quando, per l'individuazione dei motivi, l'appellante si richiami genericamente alle deduzioni, eccezioni e conclusioni della comparsa depositata in primo grado o ad altri scritti difensivi. SL

b) Requisiti di moralità richiesti dal bando al partecipante alla gara: mancata dichiarazione delle condanne penali pregresse.

La violazione degli obblighi dichiarativi, puntualmente richiesti dal bando di gara con riferimento all'esistenza di condanne penali, rende legittimo il provvedimento di esclusione dalla gara, risultando irrilevante l'indagine sui motivi che avevano indotto a rendere dichiarazioni non veritiere e sulla sussistenza o non del dolo o della colpa del dichiarante, configurandosi quale autonoma di esclusione dalla procedura comparativa.

E’ stato altresì evidenziato che la mancata dichiarazione dell'esistenza di condanne penali costituisce una circostanza che assume valore autonomo idonea ad incidere sulla moralità professionale del soggetto a prescindere da ogni valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato, rimanendo esclusa la possibilità che sia lo stesso concorrente a stabilire l'effettiva incidenza del reato compiuto sulla propria moralità professionale, incombendo su di essa l'onere di dichiarare alla stazione appaltante tutte le condanne subite dai suoi legali rappresentanti. SL



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Inserito in data 09/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 7 febbraio 2012, n. 636

Verifica delle offerte anomale: non è consentito modificare le voci di costo rispetto alle giustificazioni già fornite.

Il subprocedimento di giustificazione dell’offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell’offerta per così dire in itinere ma mira, al contrario, a verificare la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile.

Non è consentito, pertanto, che in sede di giustificazioni vengano rimodulate le voci di costo senza alcuna motivazione, con un’operazione di finanza creativa priva di pezze d’appoggio, al solo scopo di “far quadrare i conti” ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo. SL



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Inserito in data 06/02/2012
CORTE INTERNAZIONE DELL'AJA, 3 febbraio 2012, n. 143

Italia condannata per aver negato immunità dalla giurisdizione alla Germania.

L’Organo giudiziario delle Nazioni Unite, accogliendo il ricorso proveniente dallo Stato tedesco, imputa al nostro Ordinamento un mancato rispetto degli obblighi discendenti dal diritto internazionale;

  1. L’Italia, infatti, con le precedenti condanne per i crimini nazisti e la declaratoria della relativa responsabilità civile della Germania, sembrerebbe aver dato avvio ad una prassi giudiziaria non in linea con il diritto internazionale, venendo meno ai suoi obblighi di rispetto nei confronti dell’immunità di uno Stato sovrano come quello tedesco;
  2. La Corte olandese, ribadendo la necessaria sottrazione a condanna per gli Stati nei cui territori siano stati commessi crimini durante eventi straordinari, quali quello bellico in questione, conferma l’opportunità che le condanne irrogate dall’Italia alla Germania siano prive di effetto, in ossequio al principio internazionale, di matrice consuetudinaria, dell’immunità degli Stati;
  3. Il nostro Ordinamento giudiziario, dunque, recependo il Dictat proveniente dall’Aja, è tenuto, con rimedi normativi interni, a fare in modo che le sentenze nazionali contro la Germania cessino, pertanto, di avere effetto. CC


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Inserito in data 06/02/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. IIIquater, 30 gennaio 2012, n. 980

Respinta doglianza dei Laboratori analisi contro le nuove previsioni del Decreto Ministero Salute.

  1. I Giudici amministrativi romani, concentrando la propria attenzione proprio sui test di auto - diagnosi, oggetto principale di tale rimostranza, negano l’estensione, presuntivamente attuata dalla Fonte ministeriale, a favore delle Farmacie;
  2. Si tratta, invero, solo della possibilità di scelta, voluta dal Decreto impugnato a favore della collettività, tra autoanalizzarsi ovvero rivolgersi alla farmacia più vicina per un aiuto di carattere materiale. Il tutto nell’ambito di un insieme di prestazioni che già da tempo non erano di appannaggio esclusivo dei laboratori - ricorrenti;
  3. La normativa, quindi, non ha affatto inciso sull’attività di tali strutture, come dalle medesime lamentato. Laboratori e Farmacie rimangono, anche secondo la Fonte ministeriale, due entità operative assolutamente distinte; come dimostrato, del resto, dalla natura meramente tecnica delle operazioni presso le seconde esperibili;
  4. La norma contestata, semmai, ha inteso perseguire, in uno con la Legge n. 69/09 da cui discende, un intento semplificatorio, teso a conferire alle Farmacie l’esercizio di mansioni prettamente operative, accessibili più agevolmente rispetto ai maggiori costi sostenuti presso i Laboratori. CC


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Inserito in data 06/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 febbraio 2012, n. 627

Datore di lavoro e diniego di emersione da lavoro irregolare; necessità della carta di soggiorno.

Il Collegio, confermando la posizione datoriale, ribadisce la necessità che, ai fini della regolarizzazione del lavoratore, il possesso della carta di soggiorno sia requisito imprescindibile all’atto e nel momento stesso della richiesta. Non ha alcun valore il rilascio di tale documentazione in un momento successivo. CC



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Inserito in data 06/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 febbraio 2012, n. 629

Decadenza dall’aiuto comunitario per mancanza dei requisiti richiesti dal Bando.

  1. I Giudici d’Appello, confermando l’assunto dell’Organo di prime cure, richiedono la sussistenza dei requisiti richiesti dal Bando all’atto dell’assegnazione delle agevolazioni da questo statuite;
  2. Nella specie, il richiesto requisito della proprietà o del possesso del fondo rustico destinatario di eventuali contributi, non può essere surrogato né da un contratto verbale di affitto, tra l’altro giuridicamente inesistente, né dal pagamento delle relative pigioni, come asserito dal Ricorrente;
  3.  E’ del tutto inconferente, altresì, una paventata interpretazione del Bando secondo buona fede, posta la chiarezza immediata dei criteri richiesti. E’ inevitabile, pertanto, la decadenza dall’aiuto in esso previsto, ulteriormente confermata dai Giudici del secondo grado.CC


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Inserito in data 05/02/2012
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, 19 novembre 2011, n. 23302

Limiti esterni giurisdizione di ottemperanza: impossibile rinnovare concorso non più ripetibile.

Naturalmente il sindacato della Suprema corte non può estendersi a qualsiasi eventuale error in iudicando o in procedendo imputato al giudice amministrativo nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme che disciplinano il giudizio di ottemperanza. Per scriminare le fattispecie in cui il sindacato sui limiti di tale giurisdizione è consentito da quelli in cui esso risulta invece inammissibile, dovendosi aver riguardo al cosiddetto petitum sostanziale ed all'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, risulta decisivo stabilire se quel che viene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal giudice amministrativo, attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione, oppure il fatto stesso che, in una situazione del genere di quella considerata, un tal potere, con la particolare estensione che lo caratterizza, a detto giudice non spettava.

Si potrà allora convenire che, quando l'ottemperanza sia stata invocata denunciando comportamenti elusivi del giudicato o manifestamente in contrasto con esso, afferiscono ai limiti interni della giurisdizione gli eventuali errori imputati al giudice amministrativo nell'individuazione degli effetti conformativi del giudicato medesimo, nella ricostruzione della successiva attività dell'amministrazione e nella valutazione di non conformità di questa agli obblighi dal giudicato derivanti. Si tratta, invece, dei limiti esterni di detta giurisdizione quando è posta in discussione la possibilità stessa, nella situazione data, di far ricorso alla giurisdizione di ottemperanza. E ciò appunto si verifica ogni qual volta sia denunciato l'esercizio indebito ad opera del Consiglio di Stato della speciale giurisdizione d'ottemperanza, con i conseguenti riflessi sul merito amministrativo, in fattispecie suscettibili invece soltanto di essere trattate dal giudice amministrativo nell'ambito della normale giurisdizione di legittimità (o eventualmente nell'ambito della sua giurisdizione esclusiva), così come in qualsiasi altra situazione in cui il giudizio di ottemperanza, estrinsecandosi nell'emanazione di un ordine di fare (o di non fare) rivolto dal giudice all'amministrazione, si sia esplicato al di fuori dei casi nei quali un siffatto ordine poteva essere impartito.

Il giudicato amministrativo formatosi su un provvedimento col quale l'amministrazione abbia proceduto al conferimento di un incarico pubblico ha l'effetto d'imporre alla medesima amministrazione di provvedere al rinnovo della relativa procedura, volta al conferimento di quell'incarico, ma solo se e fino a quando l'incarico sia ancora conferibile e la procedura sia ancora espletabile. Venuta meno tale condizione, cessa per ciò stesso non solo l'obbligo, ma la possibilità stessa per l'amministrazione di provvedere in tal senso, fermo l'eventuale diritto al risarcimento per chi abbia visto indebitamente frustrate le proprie legittime aspirazioni.

La possibilità di dar corso ad un procedimento concorsuale "ora per allora", al solo ipotetico fine del riconoscimento di un determinato trattamento di quiescenza del candidato che risulti vincitore, sposta radicalmente l'asse tanto dell'azione amministrativa quanto della tutela giurisdizionale ad essa relativa, perchè un procedimento siffatto non potrebbe evidentemente in alcun modo condurre all'effettivo conferimento dell'incarico di cui in precedenza si era discusso e che aveva costituito la ragione prima dell'atto amministrativo annullato. Nè le conseguenze del giudicato di annullamento, in termini di ottemperanza, quando non si tratti soltanto di ricostruire la carriera di un pubblico dipendente facendo retroagire a determinati fini gli effetti di un atto che lo riguardi, bensì di ipotizzare il compimento ad opera dell'amministrazione di attività che non hanno più rispondenza nello scopo di pubblico interesse che è loro proprio, possono spingersi sino a tal segno: sino, cioè, ad implicare la necessità di svolgere un concorso virtuale, ormai sganciato dalla finalità del conferimento dell'incarico pubblico ed ipoteticamente destinato solo ad assicurare al vincitore un miglior trattamento di quiescenza. Ciò trasformerebbe l'oggetto medesimo del giudizio di ottemperanza, indirizzato così ad un accertamento destinato a riflettersi su un diverso rapporto (in ipotesi, quello previdenziale), e ne determinerebbe il sostanziale snaturamento, dovendo esso invece essere prioritariamente preordinato alla realizzazione della causa tipica del provvedimento amministrativo cui la pubblica amministrazione sia vincolata dal precedente giudicato - o tutt'al più al risarcimento del danno, previsto dell'art. 112 cod. proc. Amm. Commi 4 e 5 (domanda che non è stata però proposta nel presente caso) - e non ridursi allo scopo di porre le premesse perchè il ricorrente possa eventualmente conseguire le utilità economiche connesse ad un superiore (ma affatto virtuale, perchè ormai non più effettivamente conseguibile) inquadramento in organico.

La sentenza con cui il Consiglio di Stato, pronunciando su un ricorso per l'ottemperanza ad un giudicato avente ad oggetto l'annullamento del conferimento di pubbliche funzioni a seguito di una procedura concorsuale non più ormai ripetibile, ordina alla competente amministrazione di provvedere ugualmente a rinnovare il procedimento ("ora per allora"), al solo fine di determinare le condizioni per l'eventuale accertamento di diritti azionabili dal ricorrente in altra sede e nei confronti di altra amministrazione, eccede i limiti entro i quali è consentito al giudice amministrativo l'esercizio della speciale giurisdizione di ottemperanza ed è soggetto, pertanto, al sindacato della Corte di Cassazione in punto di giurisdizione. FT




Inserito in data 03/02/2012
TRIBUNALE DI COSENZA, ordinanza 1 febbraio 2012

Il Tribunale di Cosenza ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione ai commi 1 e 2 dell’art. 9 del decreto liberalizzazioni che abroga le tariffe forensi, in quanto la mancata emanazione del decreto di fissazione dei parametri per la liquidazione delle tariffe da parte di un organo giurisdizionale impedisce al giudice di decidere sulle spese e determina una violazione degli art. 3, 24 e 11 della Costituzione. AO




Inserito in data 03/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 1 febbraio 2012, n. 523

Preclusione al rinnovo del permesso di soggiorno: basta la valutazione indiziaria di pericolosità sociale.

L’ art. 4, comma terzo, del d.lgs. n. 286 del 1998 - nel testo modificato dall’ art. 4 della legge n. 189 del 2002 – individua specifiche ipotesi preclusive dell’ ingresso e della permanenza dello straniero in Italia. In presenza di esse, il permesso di soggiorno non può essere rilasciato e, se rilasciato, non può essere rinnovato. Fra le condizioni preclusive rientrano le condanne penali per reati inerenti agli stupefacenti. In presenza dell’ intervenuta condanna non residua alcuna sfera di discrezionalità in capo all’ Amministrazione che, con atto dovuto e vincolato, è tenuta a determinarsi in senso negativo sulla domanda di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno. Si potrebbe discutere se, trattandosi di condanne risalenti nel tempo rispetto al momento dell’adozione dell’atto impugnato, venga meno l’automatismo della preclusione (vi è in effetti un orientamento giurisprudenziale in tal senso). Ma con il provvedimento impugnato il Questore non si è limitato alla sola ricognizione dei precedenti penali dello straniero per desumerne, come effetto automatico, la preclusione del rinnovo del permesso di soggiorno. Invece il Questore ha altresì espresso un giudizio di pericolosità sociale sulla scorta sia delle plurime condanne intervenute in sede penale, sia della più volte accertata tendenza dello straniero di celarsi sotto false generalità. Tra gli elementi che dimostrano il non mantenimento di una condotta di vita corretta e che sono, quindi, ostativi al rinnovo del permesso di soggiorno (ovvero tali da giustificare la sua revoca), rientra anche la cosiddetta pericolosità sociale – cui fa rinvio l'art. 13, comma 2, del d.lgs. n. 286/1998 - norma in cui sono contemplati i presupposti per l’espulsione dal territorio nazionale e che, in particolare, alla lett. c), dà rilievo agli effetti predetti all’appartenenza ad una delle categorie di cui all’art. 1, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, come sostituito dall'art. 2, della legge 3 agosto 1988 n. 327. E’ pacifico in giurisprudenza che il giudizio di pericolosità sociale, è rimesso alla prudente e discrezionale valutazione dell’ Autorità di pubblica sicurezza, e può trarre giustificazione in comportamenti o situazioni - che in taluni casi possono essere non ancora definitivamente sanzionati in sede penale - con una valutazione indiziaria della condotta dell’interessato fondata su circostanze di portata generale e di significato tendenziale. FT



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Inserito in data 03/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 1 febbraio 2012, n. 493

Art 46 Cod Contr e tassatività cause di esclusione: consentita integrazione della cauzione ex art 75 co 6.

L’interpretazione giurisprudenziale precedente la novella legislativa era nel senso che, assolvendo la cauzione provvisoria allo scopo di garantire la serietà dell’offerta, essa ne costituisse parte integrante e non elemento di corredo, che la stazione appaltante potesse liberamente richiedere; sicchè sebbene non espressamente comminata l’esclusione per il caso di mancato deposito, la ratio della norma così interpretata conduceva a ritenere applicabile la sanzione espulsiva. Tuttavia la novella legislativa che ha introdotto il comma 1 bis all’art. 46 del codice dei contratti, impone una diversa interpretazione anche dell’art. 75, che già la giurisprudenza di merito ha fatto propria, valorizzando la diversa formulazione letterale del comma 6, in relazione al comma 8, e rendendo evidente l’intento di ritenere sanabile o regolarizzabile la mancata prestazione della cauzione provvisoria, al contrario della cauzione definitiva, che garantisce l’impegno più consistente della corretta esecuzione del contratto e giustifica l’esclusione dalla gara. La disposizione dell’art. 75, comma 6, cod. contratti, va, dunque, intesa nel senso che l'Amministrazione non può disporre l’esclusione del concorrente che abbia presentato la cauzione di importo inferiore a quello richiesto, e in applicazione della regola di cui all’art. 46, comma 1, deve consentire la regolarizzazione degli atti, tempestivamente depositati, ovvero consentire l’integrazione della cauzione insufficiente. FT



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Inserito in data 03/02/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. III, 18 gennaio 2012, n. 554

Inapplicabilità acquisizione sanante ex art. 42 bis D.P.R. 327/2001 e natura demaniale del bene.

La norma dell’art dell’art. 43 d.l. n° 98 del 6-7-2011 conv. nella legge n° 111 del 2011 che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale per eccesso di delega dell’art. 43 T.U. n. 327 del 2001, ha introdotto l’art 42 bis che prevede una forma di acquisizione sanante, al comma 8 ha previsto espressamente l’applicabilità ai “ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore”. Ritiene, peraltro, il Collegio che tale norma non sia applicabile alla presente controversia, in quanto l’art 42 bis al primo comma si riferisce all’ acquisizione del bene al patrimonio indisponibile dell’autorità che utilizzi il bene immobile per scopi di interesse pubblico. Nel caso di specie, il bene, irreversibilmente trasformato in sede autostradale, è stato necessariamente già acquisito al demanio stradale statale ai sensi dell’art 822 comma 2 del codice civile, al momento della destinazione alla viabilità pubblica. E’ noto, infatti, che la natura dei beni demaniali è legato alla concreta ed effettiva destinazione alla utilizzazione pubblica, rispetto alla quale ogni atto formale assume solo carattere dichiarativo. FT



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Inserito in data 02/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 gennaio 2012, n. 443

Pubblico impiego: il discrimine temporale tra giudice amministrativo ed ordinario é dato dall’avverarsi dei fatti materiali e delle circostanze.

Non bisogna avere riguardo, invece,  all'arco temporale di riferimento degli effetti di un atto giuridico né tantomeno al momento di instaurazione della controversia.
Quindi, nel caso di domanda di adempimento dell’obbligazione retributiva asseritamente gravante sul datore di lavoro a seguito dello svolgimento di attività lavorativa eccedente l’ordinario orario di lavoro del dipendente, ai fini dell'applicazione della veduta regola del discrimine temporale tra giurisdizioni, si deve far riferimento al momento della prestazione dell’attività stessa (che costituisce il presupposto del vantato diritto alla retribuzione corrispettiva). SL         



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Inserito in data 02/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 gennaio 2012, n. 444

Provvedimento interdittivo antimafia: deve fondarsi su fattori di pericolo che si manifestano per evidenze oggettive.

E’ dunque necessario che, dagli accertamenti disposti dal Prefetto, emergano "elementi relativi a tentativi" e cioè circostanze (oggettive e plausibili), che hanno sì un grado di significatività inferiore rispetto alle prove che determinano l'applicazione di sanzioni penali o di misure di sicurezza personali, ma che non possono comunque risolversi in fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo l'individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata. SL



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Inserito in data 02/02/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 gennaio 2012, n. 446

Pubblico impiego pre- contrattualizzazione: non sussiste un diritto di nomina per i vincitori di concorso.

Nel sistema del lavoro pubblico antecedente alla contrattualizzazione, l’approvazione della graduatoria si configura invero come mero provvedimento terminale del procedimento concorsuale e non come atto negoziale del futuro contraente, sì che è da escludersi che da essa discenda, com’è stato affermato con riferimento al regime successivo, il diritto all'assunzione del partecipante collocato in posizione utile della graduatoria, cui corrisponde l'obbligo di adempimento dell'amministrazione assoggettato al regime di cui all'art 1218 c.c. SL



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Inserito in data 02/02/2012
TAR LAZIO ROMA, SEZ. II, 28 gennaio 2012, n. 933

Commissione giudicatrice gara d’appalto: illegittima se composta da un numero di componenti pari.

Le commissioni giudicatrici delle gare indette per l'aggiudicazione di appalti con la Pubblica Amministrazione devono essere necessariamente composte da un numero dispari di membri onde assicurare la funzionalità del principio maggioritario, con la conseguenza che è illegittima, con effetti vizianti dell'intero procedimento, la commissione che opera con la partecipazione di un numero pari di membri.
Solo con la predetta modalità si può garantire infatti la tecnicità dell'apporto dato da diverse esperienze scientifiche o professionali, in coerenza con un'impostazione dell'agire amministrativo improntato ai caratteri, cui si ispira la stessa scelta di investire di una determinata competenza un organo a composizione collegiale, dell'efficienza, efficacia, economicità e celerità. SL




Inserito in data 30/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 gennaio 2012, n. 427

Occupazione sine titulo: azione risarcitoria (dies a quo; quantificazione) e trasferimento della proprietà.

Il danno derivante dall’intervenuta acquisizione coattiva del bene non può essere risarcito  quando il fatto lesivo, ossia la traslazione della proprietà in favore del soggetto pubblico, deve considerarsi come mai avvenuto. L’intervenuta realizzazione dell'opera pubblica, infatti, non fa venire meno l'obbligo dell'amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. La realizzazione dell'opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell'acquisto, come tale inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà, per cui solo il formale atto di acquisizione dell'amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione, non potendo rinvenirsi atti estintivi (rinunziativi o abdicativi, che dir si voglia) della proprietà in altri comportamenti, fatti o contegni. In mancanza di un atto traslativo, il bene è rimasto nella proprietà della parte privata. Ne discende che, tranne che l’amministrazione intenda comunque acquisire il bene, è suo obbligo primario procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

Il risarcimento del danno deve operare in relazione all’illegittima occupazione del bene, quale illecito permanente, e deve pertanto coprire tutte ed unicamente le voci di danno da questa azione derivanti, dal momento del suo perfezionamento fino alla giuridica regolarizzazione della fattispecie. Ciò impone quindi l’individuazione del momento iniziale e di quello finale del comportamento lesivo.
In relazione al termine iniziale, questo deve essere identificato nel momento in cui l’occupazione dell’area privata è divenuta illegittima, il che significa che decorre dalla prima apprensione del bene, ossia dalla sua occupazione, qualora l’intera procedura espropriativa sia stata annullata, oppure dallo scadere del termine massimo di occupazione legittima, qualora invece questa prima fase sia rimasta integra.
In relazione al termine finale, questo deve essere individuato nel momento in cui la pubblica amministrazione acquisterà legittimamente la proprietà dell’area. L’amministrazione può legittimamente apprendere il bene facendo uso unicamente dei due strumenti tipici, ossia il contratto, tramite l’acquisizione del consenso della controparte, o il provvedimento, e quindi anche in assenza di consenso ma tramite la riedizione del procedimento espropriativo con le sue garanzie. A questi due, va aggiunto il citato strumento procedimentale accelerato, già previsto nell’art. 43 del testo unico sull’espropriazione, espunto dall’ordinamento giusta la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 293 dell'8 ottobre 2010, e ora disciplinato dall’art. 42 bis del testo unico sulle espropriazioni.
La procedura di acquisizione in sanatoria di un'area occupata sine titulo, prevista dall'art. 43, t.u. 8 giugno 2001 n. 327, trovava una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell'entrata in vigore di detta norma. L'atto di acquisizione ex art. 43 è emesso ab externo del procedimento espropriativo e non rientra, pertanto, nell'ambito di operatività della normativa. La disciplina sostanziale è rimasta immutata nel suo tratto essenziale - ossia quello di permettere alla pubblica amministrazione l’ablazione del bene, tramite un meccanismo semplificato successivo alla conclusione del procedimento espropriativo a monte - anche nel corso delle vicende successive, che hanno visto dapprima la dichiarazione di illegittimità costituzionale del citato art. 43, con sentenza 8 ottobre 2010, n. 293 della Corte Costituzionale, e la sua rinnovazione nell’attuale art. 42 bis, come introdotto dall’articolo 34, comma 1, del decreto legge 6 luglio 2011 n. 98.

In relazione al valore da corrispondere al privato, dovrà tenersi conto di quello di mercato dell'immobile, individuato non già alla data di trasformazione dello stesso (non potendo più individuarsi in tale data, una volta venuto meno l'istituto della c.d. accessione invertita, il trasferimento della proprietà in favore dell'Amministrazione), e nemmeno a quella di proposizione del ricorso introduttivo (non potendo ravvisarsi in tale atto un effetto abdicativo), bensì alla data in cui sarà adottato l’atto transattivo, di qualsiasi tipo, al quale consegua l'effetto traslativo.

In relazione al danno intervenuto medio tempore, e quindi a quello conseguente dall’illegittima occupazione, intercorrente tra i termini iniziali e finali sopra precisati, i danni da risarcire corrisponderanno agli interessi moratori sul valore del bene, assumendo quale capitale di riferimento il relativo valore di mercato in ciascun anno del periodo di occupazione considerato; le somme così calcolate andranno poi incrementate per interessi e rivalutazione monetaria dovuti dalla data di proposizione del ricorso di primo grado fino alla data di deposito della presente sentenza.FT



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Inserito in data 30/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 gennaio 2012, n. 412

Fideiussioni rilasciate da intermediari finanziari: idoneità a garantire crediti dello Stato verso privati.

La disciplina contenuta nell’art. 1 della legge n. 348 del 1982 conserva la propria specialità rispetto alla normativa generale sul sistema bancario, di modo che l’assimilazione delle società di intermediazione finanziaria alle banche ai fini dell’esercizio delle attività creditizie, prevista dall’art. 106 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U.B.), non opera per le garanzie da prestarsi dalle imprese che intrattengono rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni, attesa l’esigenza di assicurare, in tale settore, un particolare e qualificato grado di affidabilità del soggetto garante, a tutela dell’interesse pubblico alla corretta e puntuale esecuzione delle obbligazioni dedotte in contratto.
La conferma si ricava dal carattere chiaramente derogatorio delle norme che, in epoca successiva all’entrata in vigore del T.U.B. , hanno previsto solo per settori specifici e individuati la fungibilità tra le fideiussioni rilasciate da istituti bancari e quelle provenienti dagli intermediari finanziari: disposizioni dalle quali non può non evincersi la perdurante operatività, per il resto, del regime riveniente dall’art. 1 della legge n. 348 del 1982. FT



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Inserito in data 30/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 gennaio 2012, n. 396

Nomina di nuova commissione di concorso in caso di annullamento degli atti: si tratta di extrema ratio.

La scelta circa la necessità di sostituire o meno una commissione di concorso dopo l’annullamento dei suoi atti non si fonda sull’applicazione necessaria di un preciso comando legislativo, ma comporta la valutazione discrezionale delle circostanze che hanno portato all’annullamento degli atti. Occorre valutare se le circostanze stesse evidenzino dei problemi tali da diminuire l’autorevolezza dell’organo, e quindi dell’Amministrazione alla quale vengono imputati i suoi atti, sotto i differenti profili dell’imparzialità manifestata e della correttezza delle scelte tecniche adottate.
Certamente non ogni errore procedimentale comporta la necessità di rinnovare la commissione. Tale scelta costituisce anzi una sorta di “extrema ratio”, alla quale ricorrere solo in caso di dimostrata necessità. Infatti, non giova certo alla credibilità dei concorsi pubblici l’esasperata delegittimazione degli organi preposti ai necessari giudizi; quest’ultima può anzi favorire fenomeni di attacco a commissioni sgradite proprio per la loro imparzialità da parte di candidati giustamente pretermessi o di amministratori pubblici, desiderosi di influire sui risultati della selezione. La rimozione della commissione di concorso è giustificata solo quando il suo operato abbia ingenerato dubbi sulla sua capacità di operare con l’indispensabile trasparenza. FT



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Inserito in data 30/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA DELLA COMMISSIONE SPECIALE, 26 gennaio 2012, n. 385

Autorithies: doveri di solidarietà finanziaria e risorse vincolate alla missione istituzionale.

Il problema che si pone è, dunque, in che termini possa disegnarsi una compartecipazione dell’Autorità ai doveri di solidarietà finanziaria verso lo Stato, senza che ciò implichi uno storno di risorse vincolate al perseguimento della missione istituzionale. Ad avviso della Commissione il punto di equilibrio sotteso all’applicazione dell’art. 6, comma 21 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 all’Autorità è da ravvisarsi nel sostegno finanziario che la stessa riceve dallo Stato, il quale costituisce al tempo stesso fondamento e limite del suo dovere di contribuire al risanamento della finanza pubblica, mediante versamento allo Stato, attraverso le risorse derivanti da risparmi della spesa corrente. Ciò comporta che le somme ricavate da economie di gestione dall’Autorità possano essere destinate al bilancio statale solo relativamente alla parte imputabile ai contributi ricevuti dallo Stato, ossia nella misura corrispondente al valore percentuale di tali contributi sul complesso delle entrate finanziarie dell’Autorità. Oltre questa parte, il dovere contributivo si trasformerebbe in una vera e propria imposta, tanto da richiedere – in relazione ai principi di cui agli articoli 23 Cost. e 53 Cost. – una formulazione meno generica e presupposti più stringenti della semplice esigenza di “fare cassa”. Fino a tale limite, invece, per quanto il prelievo possa tradursi nel versamento di una parte delle entrate che, in assenza di tali risparmi, avrebbero finanziato l’organizzazione e l’attività dell’Autorità, non può ritenersi che sia sol per questo pregiudicata l’autonomia finanziaria dell’ente e la corrispondenza tra contribuiti “privati” e costi di gestione, poiché detti costi, per definizione, non ci sono più per la parte corrispondente all’obbligo di versamento. È dunque sul piano dell’interpretazione costituzionalmente orientata e conforme ai principi comunitari che, collegando il comma 21 al comma 2 dell’art. 6 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, se ne può affermare l’applicazione “limitata” all’Autorità. FT



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Inserito in data 30/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA DI SEZIONE PRIMA, 24 gennaio 2012, n. 344

Variazione di destinazione urbanistica: onere di motivazione e posizioni qualificate del cittadino.

L'Amministrazione non è tenuta a fornire apposita motivazione in ordine alle scelte operate in sede di pianificazione del territorio comunale, se non richiamando le ragioni di carattere generale che giustificano l'impostazione del piano. Le scelte urbanistiche adottate per ciò che attiene la destinazione delle singole aree non necessitano di una specifica motivazione se non nel caso che la scelta medesima vada ad incidere negativamente su posizioni giuridicamente differenziate, ravvisabili unicamente nell'esistenza di piani e/o progetti di lottizzazione convenzionati già approvati o situazioni di diverso regime urbanistico accertate da sentenze passate in giudicato.
Un soggetto privato non può invocare una sorte di diritto alla immutabilità della classificazione urbanistica dell'area di sua proprietà sulla scorta di una semplice richiesta di edificazione (nella specie riguardante i limiti di altezza degli edifici, imposti per motivi paesaggistici), che è del tutto inidonea a configurare una posizione qualificata rispetto ai nuovi intendimenti dell'Amministrazione.
La preesistente destinazione urbanistica non impedisce l'introduzione di previsioni di segno diverso in virtù dell'esercizio di uno "ius variandi" pacificamente riconosciuto all'Amministrazione. La posizione del soggetto che avanza una richiesta di edificazione  assume un contenuto di semplice aspettativa, senza che perciò possa configurarsi a carico dell'ente locale un onere di specifica motivazione in ordine alla disposta variazione urbanistica dell'area, ben potendo soccorrere al riguardo l'esposizione delle ragioni di carattere generale sottese alle scelte di gestione del territorio comunale. FT



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Inserito in data 28/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 28 gennaio 2012, n. 1

Nel procedimento di project financing, articolato in più fasi, la prima delle quali si conclude con la scelta, da parte della stazione appaltante, del promotore, l’atto di scelta del promotore determina una immediata posizione di vantaggio per il soggetto prescelto e un definitivo arresto procedimentale per i concorrenti non prescelti; tale atto è pertanto lesivo e deve essere immediatamente impugnato dai concorrenti non prescelti, senza attendere l’esito degli ulteriori subprocedimenti di aggiudicazione della concessione. FB



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Inserito in data 27/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 gennaio 2012, ord. coll. n. 386

Rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, delle seguenti questioni interpretative:

a) se la direttiva comunitaria n. 85/384/CE, nella parte in cui ammette (artt. 10 e 11), in via transitoria, all’esercizio delle attività nel settore dell’architettura i soggetti migranti muniti dei titoli specificamente indicati, non osta a che in Italia sia ritenuta legittima una prassi amministrativa, avente come base giuridica l’art.52, comma secondo, parte prima del r.d. n. 2537 del 1925, che riserva specificamente taluni interventi sugli immobili di interesse artistico soltanto ai candidati muniti del titolo di “architetto” ovvero ai candidati che dimostrino di possedere particolari requisiti curriculari, specifici nel settore dei beni culturali e aggiuntivi rispetto a quelli genericamente abilitanti l’accesso alle attività rientranti nell’architettura ai sensi della citata direttiva;

b) se in particolare tale prassi può consistere nel sottoporre anche i professionisti provenienti da Paesi membri diversi dall’Italia, ancorchè muniti di titolo astrattamente idoneo all’esercizio delle attività rientranti nel settore dell’architettura, alla specifica verifica di idoneità professionale (ciò che avviene anche per i professionisti italiani in sede di esame di abilitazione alla professione di architetto) ai limitati fini dell’accesso alle attività professionali contemplate nell’art. 52, comma secondo, prima parte del Regio decreto n 2357 del 1925. FB



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Inserito in data 27/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 27 gennaio 2012, n. 398

Autorizzazione paesaggistica ed annullamento del Decreto della Soprintendenza per i beni architettonici.

A)    La Soprintendenza, sostituendo la propria valutazione a quella emessa dal Comune che aveva concesso l’autorizzazione paesaggistica, ne ha disposto l’annullamento;
B)    In tal guisa, compiendo un giudizio di diretto merito sui presupposti del provvedimento ampliativo rilasciato, senza far emergere alcun eccesso di potere da parte del Comune, ha esulato dall’ambito del potere attribuitole dalla legge;
C)    Risulta, quindi, fondato il motivo con cui si deduce, a suo carico, il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà e difetto di motivazione. CC



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Inserito in data 27/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 gennaio 2012, n. 368

Provvedimento del Questore di inibizione dalla presenza in un territorio: atto avente natura preventiva.

Una simile misura di prevenzione, fondandosi su un giudizio prognostico, è espressione della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione che, valutando l’attitudine alla pericolosità sociale di un soggetto, ne dispone l’allontanamento alla luce del superiore interesse della collettività. CC



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Inserito in data 27/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 gennaio 2012, n. 367

Diniego rinnovo del permesso di soggiorno per condanne penali; automatismo espulsivo e discrezionalità.

A)    A dispetto del dettato normativo di cui alla Legge 189/02 - di riforma dell’art. 4, 3’ co. D.Lgs 286/98, che dispone l’automatismo espulsivo in caso di sussistenti condanne penali a carico dell’istante, il Primo Giudice aveva annullato il diniego di rinnovo sulla base del necessario giudizio circa la pericolosità sociale del rifugiato, in forza della disciplina pregressa, vigente all’epoca della relativa commissione dei fatti di reato;
B)    I Supremi Giudici, respingendo l’appello proposto dal Viminale, confermano la pronuncia di primo grado sulla base di un’applicazione discrezionale dell’automatismo espulsivo ormai voluto dal Legislatore del 2002;
C)    Tale prassi, infatti, potrebbe essere accolta in caso di condanne penali irrogate nel breve periodo e non dopo procedimenti obsoleti a carico del rifugiato, come nel caso concreto;
D)     La notevole distanza di tempo fra gli episodi penali, nonché l’affidamento, frattanto, ingenerato sul soggetto istante, spingerebbero l’Amministrazione a rinnovare il permesso di soggiorno, trascurando, quindi, un’applicazione rigida del dato normativo. CC



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Inserito in data 27/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 27 gennaio 2012, n. 359

Plagio di elaborati: candidato non ammesso alle prove orali per l’abilitazione alla professione forense.

A)    Il Massimo Collegio, ritornando su propria giurisprudenza ormai solida, nega il superamento di prove scritte a carico del candidato le cui prove risultino, anche solo in parte, riproduttive di altro testo;
B)    Superando l’impostazione accolta in primo grado, i Giudici amministrativi non ritengono che la valutazione della Commissione, di annullamento della prova, sia viziata per eccesso di potere;
C)    L’Amministrazione, infatti, non solo ha dato puntuale esposizione delle parti dell’elaborato ritenute oggetto di plagio, ma ha, altresì, dato piena applicazione al disposto di legge - art. 23, ultimo comma, del R.D. 37 del 1934 sull’Ordinamento Forense – ove prevede che “la Commissione, nel caso in cui accerti che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro lavoro o da qualche pubblicazione, annulla la prova”. CC



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Inserito in data 26/01/2012
CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 24 gennaio 2012, n. 13

Sul giudizio di ammissibilità dei referendum in materia elettorale (l.270/05).

La legge n. 270 del 2005 ha introdotto una nuova formula elettorale per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica, basata su un criterio proporzionale di riparto dei seggi tra liste bloccate, corretto da diverse soglie di sbarramento, con premio di maggioranza nazionale (per la Camera) e regionale (per il Senato) a favore della coalizione di liste o della lista più votata, indipendentemente dalla percentuale dei voti riportati.
Il Comitato costituitosi promotore dei due quesiti referendari, finalizzati entrambi (seppur con modalità differenti) all’abrogazione totale della suddetta legge, ha evidenziato i seguenti punti critici ritenuti “irrazionali”:
1)    l’attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di alcuna soglia minima di voti e/o di seggi;
2)    l’esclusione dei voti degli elettori della Valle d’Aosta e degli elettori della «circoscrizione Estero» nel computo della maggioranza ai fini del conseguimento del premio;
3)    il meccanismo delle cosiddette liste bloccate;
4)    la difformità dei criteri di assegnazione dei premi di maggioranza tra Camera dei deputati e Senato della Repubblica;
5)     la possibilità di presentarsi come candidato in più di una circoscrizione.

La Corte Costituzionale chiamata ad accertare la conformità della richiesta ai requisiti fissati in materia dall’art. 75 Cost. ha dichiarato i suddetti quesiti referendari inammissibili.
Secondo i giudici della Consulta essi violerebbero, infatti, la duplice condizione cui è subordinata l’ ammissibilità dei referendum in materia elettorale:
a) omogeneità e riconducibilità ad una matrice razionalmente unitaria dei quesiti sottoposti ai cittadini,
 b)auto- applicatività della normativa di risulta.
In particolare, l’eventuale carenza dell’ultimo dei suddetti requisiti produrrebbe, nel caso in cui il referendum avesse esito positivo, l’assenza di una legge costituzionalmente necessaria, che deve essere operante ed auto-applicabile, in ogni momento, nella sua interezza. Diversamente, gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale sarebbero esposti ad una paralisi di funzionamento, inaccettabile anche solo in linea teorica.
A nulla valgono, secondo la Corte, le argomentazioni sottese alla c.d. teoria della reviviscenza: secondo la quale  in seguito all’abrogazione totale della disciplina vigente tornerebbero ad essere applicabili le disposizioni normative pregresse.
Ove fosse seguita tale tesi, infatti, l’abrogazione di una norma, non solo in questo caso, avrebbe come effetto il ritorno in vigore di disposizioni da tempo soppresse, ed ormai espunte definitivamente dal nostro ordinamento, con conseguenze imprevedibili per lo stesso legislatore, rappresentativo o referendario, e per le autorità chiamate a interpretare ed applicare tali norme.
Ciò che verrebbe meno, in altri termini, è il principio su cui si fonda il sistema delle fonti e che, in materia elettorale assume un’importanza imprescindibile per il funzionamento dello Stato democratico: la certezza del diritto.
Se è vero, infatti,  che i referendum  elettorali sono intrinsecamente ed inevitabilmente manipolativi, nel senso che, sottraendo ad una disciplina complessa singole disposizioni o gruppi di esse, determinano come effetto naturale e spontaneo, la ricomposizione del tessuto normativo rimanente, in modo da rendere la regolamentazione elettorale successiva all’abrogazione referendaria diversa da quella prima esistente: nel caso di specie non si avrebbe una “ricomposizione” della normativa di risulta ma, l’assenza di una legge costituzionalmente necessaria.
Il fenomeno della riviviscenza delle norme abrogate, dunque, non opera in via generale ed automatica né per “relationem”. Esso può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche (espressamente previste dalla legge) e molto limitate , in ogni caso diverse da quelle relative all’abrogazione referendarie di norme in materia elettorale (si pensi, ad esempio, alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma). SL



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Inserito in data 25/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 24 gennaio 2012, n. 290

Non è ammissibile la domanda per crediti retributivi avanzata da un dipendente della USL alla subentrata ASL.

Invero, secondo i principi ricavabili dall’art. 6 co. 1 l. 724/94 in nessun caso è consentito alle Regioni far gravare sulle nuove Aziende sanitarie, né direttamente né indirettamente, i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse delle unità sanitarie locali.
Tale domanda, quindi, avrebbe dovuto essere proposta nei soli confronti della Gestione Liquidatoria della disciolta USL, poiché completamente estranea al trattamento economico dovuto dalla nuova Azienda Sanitaria.
Diverso, invece, è il caso in cui il ricorrente contesti nei confronti della subentrata ASL questioni pregresse destinate a riverberarsi anche sulla fisionomia del nuovo rapporto di impiego. SL



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Inserito in data 25/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 gennaio 2012, n. 278

Il riconoscimento di mansioni superiori nel comparto sanitario pubblico è subordinato a condizioni giuridiche e di fatto.

In particolar modo, é necessario: che le dette mansioni siano riferibili ad un posto di ruolo esistente in pianta organica e di fatto vacante e che il conferimento dell'incarico di svolgere le anzidette funzioni sia avvenuto mediante un (previo) atto formale adottato dall'organo competente dell’ente. SL



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Inserito in data 25/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 23 gennaio 2012, n. 262

L’irregolarità della dichiarazione in sede di offerta circa le opere da subappaltare non costituisce causa di esclusione.

Essa preclude semplicemente all’aggiudicatario la possibilità in fase di lavori di fare ricorso al subappalto.
Le condizioni di ammissibilità del subappalto non appaiono, infatti, intese (unicamente) a tutelare l’interesse dell’Amministrazione committente all’immutabilità dell’affidatario, ma tendono anche ad evitare che  nella fase esecutiva del contratto si pervenga, attraverso modifiche sostanziali dell’assetto d’interessi scaturito dalla gara pubblica, a vanificare proprio quell’interesse pubblico che ha imposto lo svolgimento di una procedura selettiva e legittimato l’individuazione di una determinata offerta come la più idonea a soddisfare le esigenze della collettività cui l’appalto è preordinato. SL         



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Inserito in data 23/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 gennaio 2012, n. 254

Requisiti dell'interdittiva antimafia "tipica" (oggi prevista dagli artt. 91 ss. del D. Lgs. 159/2011) .

La misura interdittiva non deve necessariamente collegarsi ad accertamenti in sede penale di carattere definitivo e certi sull'esistenza della contiguità dell’impresa con organizzazione malavitose, e quindi del condizionamento in atto dell'attività di impresa, ma può essere sorretta da elementi sintomatici e indiziari da cui emergano sufficienti elementi del pericolo che possa verificarsi il tentativo di ingerenza nell’attività imprenditoriale della criminalità organizzata. Tuttavia, non è necessario un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l’appartenenza di un soggetto ad associazioni di tipo camorristico o mafioso, potendo l’interdittiva fondarsi su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario e con l’ausilio di indagini che possono risalire anche ad eventi verificatisi a distanza di tempo.
Di per sé non basta a dare conto del tentativo di infiltrazione il mero rapporto di parentela con soggetti risultati appartenenti alla criminalità organizzata (non potendosi presumere in modo automatico il condizionamento dell’impresa), ma occorre che l’informativa antimafia indichi (oltre al rapporto di parentela) anche ulteriori elementi dai quali si possano ragionevolmente dedurre possibili collegamenti tra i soggetti sul cui conto l’autorità prefettizia ha individuato i pregiudizi e l’impresa esercitata da loro congiunti. Gli elementi raccolti non vanno considerati separatamente dovendosi piuttosto stabilire se sia configurabile un quadro indiziario complessivo, dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. FT



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Inserito in data 23/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 gennaio 2012, n. 231

Presupposti dell'esercizio del diritto accesso agli atti relativi ad un'ispezione della Guardia di Finanza.

Non sono sussumibili ragioni ostative all’accoglimento di un'istanza di accesso agli atti relativi ad un'ispezione subita dalla Guardia di Finanza, al dichiarato fine, in relazione ai danni di immagine subiti, di poter difendere i propri interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela.
Militano a favore dell'esercizio del diritto di accesso le circostanze per cui:
- i documenti chiesti in visione non risultano oggetto di un procedimento penale e neppure costituiscono atti di indagine assunti a seguito di una “notitia criminis” per la quale l’Autorità giudiziaria stia procedendo, con conseguente sottrazione di tali atti all’accesso;
- non si versa nell’ipotesi di un procedimento tributario “tout court”, in presenza del quale può opporsi la non ostensibilità degli atti facenti parte appunto della procedura di accertamento e definizione di illeciti tributari;
- secondo un preciso orientamento giurisprudenziale, dal quale non si ha motivo di discostarsi, gli atti interni, le denunce, gli atti di iniziativa, gli esposti sono ostensibili ai soggetti legittimati a richiederli. FT



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Inserito in data 23/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 gennaio 2012, n. 229

Valutazione che ripropone pedissequamente quella dichiarata illegittima: integra un'elusione del giudicato.

L’elusione del giudicato (valutabile a norma dell’art. 114 comma 4 lett. b) del codice del processo amministrativo), anche sul piano semantico-lessicale, configura un fenomeno diverso dall'aperta violazione del decisum, sussistendo in quei casi in cui l'Amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione ai precetti rivenienti dal giudicato, tenda in realtà a perseguire l'obiettivo di aggirarli sul piano sostanziale, in modo da pervenire surrettiziamente al medesimo esito già ritenuto illegittimo. La non copiosa giurisprudenza che si registra in materia rileva che il vizio de quo sussiste laddove l'amministrazione, piuttosto che riesercitare la propria potestà discrezionale in conclamato contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo, cerchi di realizzare il medesimo risultato con un'azione connotata da un manifesto sviamento di potere, mediante l'esercizio di una potestà pubblica formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che la giustificano.
Qualora l’amministrazione non abbia operato una nuova valutazione alla luce della sentenza, giungendo così a rivedere le proprie precedenti determinazioni sulla scorta dei profili di illegittimità evidenziati dal giudice amministrativo, ma ha invece ripreso gli stessi esiti, senza che risulti alcun elemento di novità, si verte in un caso di vera e propria elusione, possibile oggetto di considerazione in sede di ottemperanza. FT



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Inserito in data 23/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 gennaio 2012, n. 227

Ammissibilità del giudizio di revocazione ed omesso rilievo del difetto di notifica del ricorso in appello.

Non sussiste vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell'apprezzamento, della valutazione e dell'interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice.
È stato ritenuto inammissibile il rimedio della revocazione per un errore di percezione rispetto ad atti o documenti non prodotti ovvero per un errore di fatto la cui dimostrazione avviene mediante deposito di un documento prodotto per la prima volta in sede di revocazione.
Non rilevanza dell'errore quando la sentenza si fondi su fatti, seppur erronei, che non siano decisivi in se stessi ai fini del decidere, ma debbano essere valutati in un più ampio e complesso quadro probatorio.
Occorre accogliere il ricorso per revocazione laddove l’errore di fatto consista nell’omesso rilievo da parte del giudice del difetto di notifica del ricorso in appello, ciò comportando la rescissione della sentenza impugnata e la nuova celebrazione del giudizio di appello, questa volta con contraddittorio integro, così consentendo anche alla parte già ingiustamente pretermessa l’inviolabile esercizio del diritto di difesa. FT
 



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Inserito in data 23/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 gennaio 2012, n. 176

Pratiche commerciali scorrette: nozione e sanzioni (obbligo di rettifica dei messaggi ingannevoli).

A prescindere dall’espressa qualificazione di un prodotto quale dispositivo medico (sulla base della pertinente disciplina comunitaria e nazionale), è corretto trarre conseguenze sanzionatorie dalla circostanza per cui al prodotto in questione siano state attribuite caratteristiche tali da indurre un consumatore mediamente avveduto a ritenere (pure in assenza di qualunque prova di carattere scientifico) che il prodotto in questione sia idoneo a determinare effetti benefici sull’equilibrio, la resistenza, la potenza muscolare e la flessibilità.
Il secondo periodo del comma 8 dell’articolo 27 del d.lgs. 206 del 2005 stabilisce che l’obbligo rettificativo sia imposto al fine di “impedire che le pratiche commerciali scorrette continuino a produrre effetti”. Ad avviso del Collegio, la previsione in parola (anche al fine di assicurarne il pieno effetto utile in chiave di effettività della tutela consumeristica) deve essere intesa nel senso che l’effetto ripristinatorio della corretta consapevolezza dei consumatori vada assicurato anche nelle ipotesi in cui la diffusione della pratica commerciale sia in concreto terminata, ma i relativi effetti (ad esempio, in termini di non corretta rappresentazione per i consumatori circa le caratteristiche di un prodotto) continuino a prodursi quale effetto delle pratiche commerciali in precedenza poste in essere. Ciò è tanto più vero nelle ipotesi in cui la pratica commerciale abbia inciso (amplificandola) la diffusa percezione relativa alle caratteristiche di un prodotto il quale (per ammissione della stessa appellante) costituisce una sorta di ‘fenomeno di costume’ caratterizzato da rilevanti ‘componenti simboliche’. In tali casi, l’idoneità della pratica commerciale scorretta a produrre i suoi effetti, per la sua dimostrata capacità di penetrazione nell’immaginario di fasce rilevanti della popolazione, supera temporalmente l’ambito materiale di diffusione dei messaggi. FT



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 gennaio 2012, n. 233

Pur dinanzi a domanda di condono edilizio, persiste il potere dell’Ente pubblico di tutelare il territorio.

L’Amministrazione locale, infatti, per il tramite dei propri Addetti alla vigilanza edilizia, può vagliare lo stato dei lavori, escludendone l’idoneità alla sanatoria in caso di non totale completamento dell’opera, a cui appannaggio era stato richiesto il beneficio sanante. CC



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 gennaio 2012, n. 178

Dopo l’Adunanza n. 4/11 ancora una pronuncia sulla portata del ricorso incidentale e relative conseguenze.

A)    Devono essere esaminati in via prioritaria tutti i motivi del ricorso incidentale di carattere espulsivo, articolato in primo grado;
B)    Laddove uno solo di tali motivi risulti fondato, la necessaria conseguenza sarà nel senso della reiezione dell’appello, dovendosi confermare la declaratoria di inammissibilità del primo ricorso;
C)    Nel caso di specie, quindi, la società appellante andava esclusa per carenza della documentazione richiesta ex art. 38 D. Lgs. 163/06, come postulato dall’appellata nel giudizio di primo grado in sede di ricorso incidentale e nella presente sede puntualmente riproposto. CC



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 18 gennaio 2012, n. 182

Accertamento requisiti psicofisici concorso VV. FF .: al controllo effettuato dall’Amministrazione in sede di visita medica può seguire una verificazione da parte del g. a.

E’ vero, infatti, che in sede concorsuale l’unico momento accertativo dell’idoneità dei candidati è quello effettuato dalla Commissione preposta alla visita medica, il cui giudizio è definitivo per legge ed è riferito ad un preciso evento temporale (il giorno della visita). Tuttavia, tale assunto non preclude al giudice, in presenza di elementi di dubbio o perplessità di richiedere una specifica verificazione, tenendo conto delle risultanze degli accertamenti nel complesso effettuati, anche in tempi diversi rispetto alle prove medesime (qualora non sussista irripetibilità della valutazione) ed anche in ragione della natura del requisito (o della patologia) oggetto di accertamento.

Ciò principalmente perché la visita medica rappresenta un accertamento tecnico, come tale verificabile  in modo non opinabile mancando qualsiasi possibilità di discrezionalità di giudizio. SL         



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 gennaio 2012, n. 156

Gli atti di approvazione o rettifica della graduatoria provvisoria sono inidonei a qualificare gli esclusi come  controinteressati in senso tecnico.

Essi, infatti, hanno carattere meramente infraprocedimentale poiché non comportano il definitivo consolidamento delle posizioni giuridiche dei soggetti utilmente graduati. Di conseguenza, a questi ultimi non  dovrà necessariamente essere notificato l’eventuale ricorso avverso tali atti.SL



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 gennaio 2012, n. 257

Occorre l’ottemperanza della pronuncia, ove la P.A. abbia reiterato il medesimo provvedimento censurato.

A)    E’, infatti, frustrata l’effettività della tutela giurisdizionale laddove l’Amministrazione, ripetendo quanto, invece, accolto in sede di gravame dai Giudici, finisca con l’eludere il giudicato;
B)    Si darebbe luogo, per l’appunto, ad un provvedimento ovviamente nullo, della cui declaratoria il ricorrente postula, in tale sede, l’ottemperanza;
C)    Tale fase è, tuttavia, nel caso di specie, postergata rispetto alla revocazione richiesta in merito alla medesima pronuncia da eseguire. La revocazione, infatti, è logicamente pregiudiziale rispetto all’ottemperanza e quindi, ove riguardino la medesima pronuncia, non possono essere cumulate ex art. 70 C.p.a., stante la diversa tipologia dei due giudizi. CC
 



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Inserito in data 21/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 gennaio 2012, n. 258

Riassunzione nella veste di ufficiale di complemento; fissato a mesi tre l’adempimento dell’obbligo di leva.

A)  L’Amministrazione, rispettando l’ordito normativo in materia, inserisce il servizio e la figura di ufficiale di complemento nell’ambito del servizio militare relativo all’adempimento degli obblighi di leva;
B) In tal guisa, in applicazione delle relative norme, dovendosi cumulare il servizio di prima nomina con quello passato durante la leva in armi, la rimanente durata del servizio quale ufficiale di complemento non può che essere fissata in soli tre mesi (per il raggiungimento del periodo massimo di mesi quindici). CC
 



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Inserito in data 20/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 gennaio 2012, n. 143

La dichiarazione di dissesto finanziario rappresenta una determinazione vincolata e non una scelta discrezionale dell’ente locale.

Ad essa, infatti, può farsi luogo solo all’esito dell’accertamento (da parte degli stessi organi ordinari dell’ente o in via eccezionale, nell’ipotesi di cui all’art. 247 TUEL, da parte del commissario ad acta) della specifica incapacità di assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero dell’esistenza nei confronti dell’ente di crediti liquidi ed esigibili di terzi, cui non possa validamente farsi fronte. SL



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Inserito in data 20/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 16 gennaio 2012, n. 129

Il permesso di soggiorno che abbia quale causale: “ricerca di occupazione” deve necessariamente contenere un termine invalicabile.

Questo termine coincide, di norma, con quello di residua validità del permesso di soggiorno in corso al momento della cessazione del precedente rapporto di lavoro; tuttavia, se il periodo di validità residua è inferiore a sei mesi, l’ordinamento prevede il rilascio di un nuovo permesso (uno solo) in modo che l’interessato abbia complessivamente sei mesi di tempo per procurarsi un nuovo contratto di lavoro (art. 22 t.u. n. 286/98 ed art. 7 D.p.r. n. 394/99).
La normativa in esame non lascia margini per valutazioni di altro tipo, riferite ad esempio alla situazione familiare della persona interessata, alla lunga durata del suo soggiorno in Italia, o alla presenza di adeguati mezzi di sostentamento.
Questi aspetti potranno venire in rilievo, semmai, ai fini del rilascio di un permesso di soggiorno ad altro titolo (ad es.: per motivi familiari) qualora ne venga fatta richiesta documentata. SL



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Inserito in data 17/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 gennaio 2012, n. 105

Affidamento servizi di gestione aeroportuali, ottemperanza e risarcimento del danno per perdita di chances.

  1. La ditta appellante non può, in sede di ottemperanza della sentenza di annullamento degli atti di gara in proprio favore, chiedere la riedizione della procedura e, al tempo stesso, l’annullamento del contratto medio tempore concluso unitamente alla fondatezza della propria pretesa risarcitoria per l’avvenuta perdita di chances;
  2. I Supremi Giudici, infatti, affermano che una simile spettanza potesse essere riconosciuta solo laddove essa, quale ditta esclusa, avesse espressamente postulato, oltre all’annullamento degli atti di gara, anche l’inefficacia del contratto;
  3. A dispetto di quanto ritenuto in sede di gravame, infatti, l’una cosa non assorbe automaticamente l’altra, con la conseguenza che la ditta appellante avrà diritto alla sola ripetizione virtuale della gara, in quanto corrispondente al dictum della sentenza da ottemperare;
  4. La pretesa risarcitoria verrà, invece, soddisfatta solo laddove, in fase di riedizione della procedura, appaia evidente il danno subito dall’iniziale esclusione. CC


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Inserito in data 17/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 11 gennaio 2012, n. 108

Annullamento di procedura selettiva in seno all’Università e rinnovazione del relativo procedimento.

  1. Gli atti compiuti da parte di quei Ricercatori, la cui nomina è stata annullata, compiuti nell’intervallium temporis in attesa dell’espletamento di nuovo concorso, non possono essere, affatto, avallati;
  2. Non c’è ragione alcuna, infatti, di poter reiterare dei provvedimenti di nomina, ormai annullati in sede giurisdizionale e privi, quindi, di qualsivoglia validità formale e sostanziale;
  3. E’, al tempo stesso, infondata la pretesa risarcitoria, da parte del concorrente escluso, sostenuta nei riguardi dell’Università, fintantoché non si provi la reale intenzione che Essa abbia di eludere o vanificare le statuizioni del giudicato. CC


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Inserito in data 16/01/2012
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 gennaio 2012, n. 1

Sul coefficiente di conversione della pena pecuniaria non eseguita in libertà controllata.

E' costituzionalmente illegittimo (in riferimento all’art. 3 della Costituzione) l’art. 3, comma 62, della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui – nell’aumentare da euro 38 a euro 250 il coefficiente di ragguaglio fra le pene pecuniarie e le pene detentive stabilito dall’art. 135 del codice penale – ha omesso di operare una omologa variazione in aumento del tasso sulla cui base, ai sensi dell’art. 102, terzo comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), deve aver luogo la conversione in libertà controllata delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato. La norma censurata viola il principio di eguaglianza, determinando una disparità di trattamento fra situazioni «sostanzialmente omogenee», a sfavore dei soggetti che versino in condizioni di insolvibilità. FT



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Inserito in data 16/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 13 gennaio 2012, n. 116

Il diritto di accesso non è subordinato alla fondatezza/ammissibilità della domanda giudiziale proponibile.

La necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto di accedere, non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante; esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale, ma anche dall’eventuale infondatezza o inammissibilità della domanda giudiziale che il richiedente, una volta conosciuti gli atti in questione, potrebbe proporre.

 Il “collegamento” tra l’interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, di cui al cit. art. 22, co. 1, lett. b), non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. FT



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Inserito in data 16/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 13 gennaio 2012, n. 115

Cooptazione: menzione necessaria nella domanda di partecipazione. Perdita di chance: Onere probatorio.

Anche ad ammettere che l’istituto della cooptazione sia un istituto di carattere generale, e come tale applicabile, in astratto, anche in materia di servizi, nondimeno la sua concreta applicazione non può prescindere da una chiara e comunque espressa volontà del partecipante alla gara, il quale è onerato di indicare, già nella domanda di partecipazione, se e quali imprese intenda cooptare nella esecuzione del lavoro o del servizio. In assenza di un'espressa dichiarazione, risultante dalla domanda, è da ritenere sussistente la figura (di carattere generale) della associazione temporanea (orizzontale o verticale).

La perdita di chance va rapportata in termini percentuali all’utile in astratto conseguibile in ipotesi di aggiudicazione della gara ed esecuzione dell’appalto: utile che, secondo un consolidato criterio, va presuntivamente stimato nel 10% dell’importo posto a base d’asta, ribassato dall’offerta presentata . Tale quantificazione va qui poi congruamente ridotta, sia perché si tratta di risarcire una mera chance di aggiudicazione, sia perché l’interessata non ha dimostrato di essere stata nell’impossibilità di utilizzare, durante il tempo di esecuzione del servizio per cui è giudizio, mezzi e maestranze per l’espletamento di altri e diversi servizi. Invero, ad evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa locupletare un effetto finanziario addirittura migliore rispetto a quello in cui si sarebbe trovato in assenza dell'illecito, dal decimo dell’importo così stimato va detratto quanto percepito dall’impresa grazie allo svolgimento di attività lucrative diverse, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l'appalto in contestazione. Nondimeno, l'onere di provare (l'assenza del)l'aliunde perceptum vel percipiendum grava non sull'Amministrazione, ma sull'impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l'id quod plerumque accidit, che l'imprenditore normalmente diligente (cfr. art. 1227 Cod. civ.) non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile. FT




Inserito in data 16/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 gennaio 2012, n. 24

Limiti soggettivi del giudicato amministrativo al cospetto di atto plurimo inscindibile (graduatoria).

Un’evidente esigenza logico-giuridica impone – in un atto indivisibile quale è una graduatoria concorsuale –, che la rinnovazione delle attività valutative concernenti i requisiti dei soggetti che figurano nella graduatoria non possa non involgere la posizione di ognuno di tali soggetti, con conseguente impossibilità di riconsiderare la posizione in graduatoria di un solo concorrente, sulla base di criteri valutativi diversi da quelli applicati alla generalità degli altri.

Devono essere proposti dal candidato i rimedi di opposizione di terzo e/o, eventualmente, di revocazione, per contrastare i giudicati intervenuti nei confronti di terzi e incidenti, per l’unitarietà logico-giuridica e l’indivisibilità delle procedure concorsuali in esame, sulle situazioni di tutti i concorrenti, caratterizzate da un’interdipendenza reciproca e, per esigenze di garanzia della par condicio, assoggettate a identici criteri generali di valutazione, non differenziabili in relazione ai singoli concorrenti. La circostanza che le impugnazioni straordinarie non siano state attivate impedisce già sotto il profilo astratto di censurare per nullità una attività attuativa del giudicato che tenga conto della pluralità di pronunce intervenute, laddove ciò sia necessario dovendo riformulare un atto della cui inscindibilità non può in alcun modo dubitarsi. FT



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Inserito in data 15/01/2012
CORTE DEI CONTI, SEZ. GIURISDIZIONALE D'APPELLO PER LA REGIONE SICILIANA, 3 gennaio 2012, n. 2

Illegittima liquidazione di somme per missioni svolte per Ente pubblico:risponde il Funzionario

  1. Il Collegio contabile siciliano conferma, in sede di gravame, la mole dei compiti, nonché il tenore della responsabilità del Funzionario in sede di accertamento e di successiva erogazione di somme dovute dall’Amministrazione;
  2. Occorre, infatti, a proposito di missioni e consulenze esterne, la pertinenza delle stesse rispetto all’attività pubblica, nonché la centralità dell’interesse collettivo con le medesime perseguito;
  3. Sussiste, pertanto, colpa grave del Responsabile che, omettendo anche il minimo di diligenza, si è ampliamente discostato dallo svolgimento dei doveri di servizio propri e specifici dei pubblici dipendenti. CC


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Inserito in data 15/01/2012
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 gennaio 2012, n. 2

Riparto di competenze ed esenzioni dell’addizionale regionale IRPEF fissate dalla Provincia di Bolzano

  1. Non vi è superamento dei criteri di riparto delle competenze legislative, posto che una simile possibilità era già contemplata dall’art. 73 – comma 1bis - dello Statuto speciale per il Trentino Alto – Adige, come aggiunto dalla L. Finanziaria del 2010;
  2. Unitamente a giurisprudenza costante, i Giudici della Consulta evidenziano come le norme tributarie, oggetto dell’odierna pronuncia, rispettino i vincoli posti in merito dal Legislatore, in quanto hanno ad oggetto un tributo erariale il cui gettito è interamente devoluto alle Regioni; traggono fondamento da una norma statale che consente alle Province di maggiorare l’aliquota base; ed infine, rispettano i limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale;
  3. Le norme dello Statuto altoatesino, quindi, ossequiose di tali condizioni, non ledono la perimetrazione delle competenze legislative, come fissata dalla Costituzione anche in materia tributaria. CC


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Inserito in data 13/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 gennaio 2011, n. 63

 

Esami di abilitazione alla professione di avvocato: non è necessario annotare sull’elaborato gli eventuali errori rilevati

Il punteggio é sufficiente ad esprimere in forma sintetica il giudizio tecnico- discrezionale demandato dalla Commissione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni e chiarimenti. SL



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Inserito in data 13/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 gennaio 2011, n. 43

 

La proprietà privata di un’area non esclude l’uso pubblico della stessa

L’assoggettamento a uso pubblico di una strada privata, può derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione - pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica - di esercitare il diritto di uso della strada.

In ogni caso l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività SL



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Inserito in data 11/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 23 novembre 2011, n. 4277

Che natura giuridica ha la Camera di Conciliazione ed arbitrato istituita presso la Consob?

Essa rappresenta un soggetto giuridico autonomo e distinto dall’autorità di vigilanza o piuttosto, un organo strumentale alla stessa?

Dalla risoluzione della suddetta questione dipende sia l’imputabilità degli atti e dei comportamenti della Camera, sia il connesso regime della responsabilità e della sua difesa in giudizio.

La Camera di conciliazione ed arbitrato può considerarsi un soggetto giuridico autonomo soltanto  qualora essa rappresenti un autonomo centro finale d’imputazione normativa.

Nella specie, tuttavia, la Camera non risulta essere destinataria degli effetti dei suoi atti, poiché la legge considera la sua attività in funzione di quella della Consob (art. 27 co. 1 l.n. 262 del 2005).

La scelta di istituire la Camera presso la Consob deve essere ricondotta piuttosto all’esigenza  di tenere distinte la funzione di vigilanza sui servizi di investimento (attribuita alla Consob dal d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) da quella di amministrazione delle procedure di conciliazione ed arbitrato, concernenti le controversie insorte tra i risparmiatori e gli stessi soggetti abilitati ai servizi di investimento (attribuita alla Camera di Conciliazione ed arbitrato con la l. 8 ottobre 2007 n. 179).

Ne discende che la Camera appositamente istituita per marcare il tecnicismo dei suoi compiti rispetto alla tradizionale posizione dell’organo, resta priva di soggettività, qualificandosi la stessa come un organismo tecnico, strumentale alla Consob ma non distinto da questa. SL



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Inserito in data 11/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 8 agosto 2011, n. 3189

Status di rifugiato: giurisdizione della domanda ed ammissibilità del ricorso straordinario al presidente della Repubblica.

  1. Giurisdizione: I ricorsi proposti avverso il diniego dello status di rifugiato sono di competenza del g.o. . Non si tratta, tuttavia, di una competenza esclusiva e funzionale, come tale inderogabile. Era pertanto, ammissibile in coerenza con gli artt. 10 e 24 Cost. e con l’art. 13 Cedu esperire quale rimedio alternativo il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, prima delle novità introdotte dal codice del processo amministrativo.
  2.  Ammissibilità del ricorso straordinario: Secondo la normativa antecedente all’introduzione del codice del processo amministrativo il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica rappresentava uno strumento di difesa di carattere generale, istituzionalmente indifferente al riparto di giurisdizione. Esso, pertanto, poteva essere proposto, ove non espressamente escluso da norma di legge, avverso tutti gli atti oggettivamente e soggettivamente amministrativi, anche se la relativa cognizione era attribuita in sede giurisdizionale al g. o..

Detta impostazione risulta applicabile a tutte le controversie proposte prima dell’entrata in vigore del codice, in applicazione del principio di perpetuatio jurisdictio di cui all’art. 5 c.p.c., nonostante le novità introdotte dall’art. 7 co. 8 c.p.a.. Quest’ultimo, infatti, consente oggi il ricorso straordinario “unicamente” per le controversie devolute al g. a. SL



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Inserito in data 10/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 22 febbraio 2011, n. 808

 

Esperibilità del ricorso straordinario contro atti di gestione del rapporto d'impiego privatizzato

Si è formato ormai quasi un “diritto vivente”, di rango giurisprudenziale, e, quindi, si è creato ormai un legittimo affidamento, sia in capo ai cittadini che alle pubbliche amministrazioni, circa la possibilità di ottenere una pronuncia sul ricorso straordinario in materia di pubblico impiego c.d. privatizzato anche dopo che essa è stata sottratta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Si è, infatti, ormai consolidato l’indirizzo che ritiene che con il ricorso straordinario è possibile impugnare gli atti amministrativi relativi al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti pur dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che, salve le eccezioni di legge, ha devoluto la cognizione di tale rilevante contenzioso al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro.

Non appare possibile dubitare del fatto che alla disposizione di cui all’art. 7, comma 8, del nuovo codice del processo amministrativo (la quale stabilisce che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica “è ammesso unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa”) debba attribuirsi carattere innovativo e non interpretativo.

Ai ricorsi straordinari in materia di pubblico impiego privatizzato, notificati anteriormente alla data di entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, si applicano i principi desumibili dall’art 5 c.p.c., mentre a quelli proposti successivamente a tale data si deve ritenere senz’altro applicabile il citato art. 7, comma 8.

Nella fattispecie deve trovare applicazione il principio desumibile dall’art. 5 del codice di procedura civile (nel testo risultante dall’art. 2 della L. 26 novembre 1990, n. 353). Tale disposizione, alla stregua della quale la giurisdizione si determina con riguardo alla legge vigente al momento della proposizione della domanda, enuncia infatti un principio - quello della permanenza del potere di definire la controversia in capo all’organo chiamato a pronunciarsi, nonostante i mutamenti sopravvenuti della legge attribuitiva di tale potere - che appare ad avviso della Sezione certamente applicabile al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.

La diversa soluzione, nel senso dell’applicabilità della norma di cui al comma 8 dell’art. 7 anche alle controversie pendenti in sede straordinaria alla data di entrata in vigore del nuovo codice, porterebbe alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi proposti nel vigore del regime precedente, con conseguente frustrazione delle aspettative e dell’affidamento degli interessati nello strumento di giustizia da essi stessi volontariamente e alternativamente prescelto, rinunciando alla tutela in sede giurisdizionale. Ci si troverebbe di fronte, in questo caso, ad una sostanziale violazione del principio di effettività della tutela, di cui all’art. 24 Cost., che deve ritenersi invocabile anche in sede di ricorso straordinario. FT



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Inserito in data 10/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 6 maggio 2011, n. 1721

 

Passaggio ad amministrazione diversa: limiti al divieto di reformatio in pejus dello stipendio

 L'articolo 2, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, - volto a stabilire, in via generale, le modalità di determinazione del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici contrattualizzati (legge, contratti collettivi, contratti individuali) - non ha espunto dall'ordinamento le norme che sanciscono il divieto di reformatio in pejus ex art. 202 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 e nemmeno ha inciso, in modo diretto o indiretto, sul principio stesso, che prescinde del tutto dalle modalità di definizione del trattamento economico e trova la sua origine e la sua ratio nell’opportunità di non disincentivare il mutamento di carriera.

L’Adunanza plenaria 16 marzo 1992, n. 8 plenaria ha rilevato che la disposizione si applica nell'ambito dello "Stato-amministrazione in senso stretto, inteso come soggetto di diritto al cui interno si articolano varie branche operazionali".

L’articolo 202 del d.P.R. n. 3 del 1957 – tuttora vigente - non costituisce espressione di un principio generale, applicabile a tutti i pubblici dipendenti, dovendosi esso interpretare nel senso che la disciplina relativa all'assegno ad personam, utile a pensione, attribuibile agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova posizione lavorativa, concerne soltanto i casi di passaggio di carriera presso la stessa Amministrazione statale o anche diversa Amministrazione, purché statale, e non anche i passaggi ad Amministrazione non statale, ovvero tra diverse Amministrazioni non statali, o da una di esse allo Stato e viceversa.

La natura di autorità indipendente della CONSOB esclude l’applicazione del principio del divieto di reformatio in pejus da parte dell’amministrazione di destinazione e pertanto l’obbligo di quest’ultima di corrispondere un trattamento superiore a quello corrispondente al posto conseguito per concorso.

La stessa conclusione vale anche per l’Università degli studi, atteso che l’articolo 1, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nell’elencare le Amministrazioni pubbliche non statali, in esse espressamente ricomprende le Università degli studi. FT 



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Inserito in data 10/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 26 maggio 2011, n. 2102

 

Verifica dell’interesse culturale dei beni di enti che mutano la propria natura giuridica 

La norma di cui all’art. 12, comma 9, del d.lgs. n. 42 del 2004, nell’introdurre un nuovo strumento di tutela, attribuisce espressamente all’amministrazione, a far data dalla sua entrata in vigore, il potere di sottoporre a verifica dell’interesse culturale i beni di proprietà di enti che mutino la propria natura giuridica; a partire da tale data, l’amministrazione risulta espressamente titolare del potere di procedere alla verifica (ed i soggetti privati risultano titolari del potere di richiederla) dei beni di tutti gli enti per i quali si registrino mutamenti di natura giuridica, compresi quelli intervenuti anteriormente alla sua entrata in vigore. La norma, dunque, non attribuisce oggi una qualificazione giuridica a fatti, atti o procedimenti verificatisi nel passato, ma consente di esercitare, pur dopo la sua entrata in vigore, il potere di richiedere la verifica dell’interesse culturale (o la relativa facoltà da parte di soggetti privati) in presenza di processi di privatizzazione di enti pubblici, comunque posti in essere. Il nuovo strumento di tutela - la verifica dell’interesse culturale - risulta così utilizzabile anche nei confronti di beni per i quali il mutamento del regime giuridico dei soggetti proprietari non ha comportato la perdita della loro intrinseca rilevanza culturale. FT



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Inserito in data 10/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 13 luglio 2011, n. 2789

 

Deve essere affermata la giurisdizione del giudice ordinario a conoscere le controversie aventi ad oggetto la revisione della patente di guida adottata ai sensi dell’art. 126 bis del codice della strada. Il provvedimento assume, infatti, la natura di atto dovuto, a contenuto vincolato, in ordine al quale l'amministrazione non gode di alcuna discrezionalità (a differenza delle altre ipotesi disciplinate dal codice della strada nelle quali la revisione è disposta a seguito dell'insorgenza di dubbi circa la persistenza nei conducenti dei requisiti fisici e psichici o dell'idoneità tecnica alla guida). Le relative controversie vanno quindi attribuite alla competenza esclusiva del giudice ordinario. Specificamente, il contenzioso in questione deve ricondursi alla giurisdizione del giudice di pace, ai sensi degli artt. 204-bis e 205 del d.lgs. n. 285 del 1992, come confermato anche dall'art. 216, comma 5, dello stesso decreto relativamente alle opposizioni proponibili avverso le sanzioni accessorie, secondo lo speciale procedimento fissato dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689 del 1981. Da quanto esposto consegue che l'impugnativa proposta non può essere decisa in sede ricorso straordinario al Capo dello Stato.

L'Adunanza generale n. 808 del 2011 ha chiarito che l'art. 7, comma 8, del Codice del processo amministrativo ha contenuto innovativo e non interpretativo, con la conseguenza che ad esso non può attribuirsi una valenza retroattiva. Data la premessa, la conseguenza è che è possibile rendere un parere su di un ricorso straordinario su questioni di competenza del giudice ordinario, ove quest’ultimo sia stato notificato anteriormente alla data di entrata in vigore del nuovo codice. Diversa è l’ipotesi in cui il giudice ordinario o amministrativo siano titolari di competenza funzionale e inderogabile (ad es., per il giudice ordinario, opposizione a sanzioni amministrative), nel qual caso la devoluzione della materia ad un determinato giudice con carattere di esclusività preclude la proponibilità del ricorso straordinario. FT



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Inserito in data 07/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 31 dicembre 2011, n. 7006

 

Differenti il “diploma di istruzione secondaria superiore” e quello reso all’esito di un corso triennale

A)I Giudici amministrativi confermano la distinzione, rilevante ai fini delle procedure concorsuali, tra gli istituti di istruzione secondaria superiore quali quelli, elencati nell’art. 191 – 9’ comma – D.Lgs 297/94, all’esito del cui corso di studio vi è l’accesso all’Università;

B)A differenza del diploma rilasciato da un Istituto professionale di durata triennale che, invece, dà solo diritto a valutazione in termini di punteggio nei concorsi, per soli titoli e per titoli ed esami, ovvero per l'assunzione nei ruoli di carattere tecnico;

C)Il Massimo Collegio, quindi, avallando un orientamento già assestato, conferma che i due titoli non sono, in alcun modo, assimilabili. CC



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Inserito in data 07/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 4 gennaio 2012, n. 6

 

Rigetto della domanda di accertamento del diritto al rimborso di spese sanitarie sostenute all’estero

A) La domanda di rimborso è subordinata alla previa richiesta di autorizzazione, circa la possibilità di fruire di cure all’estero, promossa dinanzi alla A.S.L. territorialmente competente;

B) Questa, dietro valutazione sulla base di parametri statuiti ex Lege n. 585/95 – art. 3 – co. 5’ ed appositamente acclarati con Decreto del Ministro della Sanità, dispone in merito alla particolare gravità del caso sottoposto, nonché alla necessarietà di cure esperibili solo all’estero, in forza dell’estrema specializzazione medica, non riscontrabile nei centri italiani;

C)Simili criteri possono essere derogati, solamente, nelle ipotesi di necessità di “prestazioni di comprovata eccezionale gravità ed urgenza”, imponendo, però, che la richiesta di rimborso sia presentata, a pena di decadenza, nel termine di tre mesi dall’effettuazione della relativa spesa. CC

 



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Inserito in data 05/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 gennaio 2012, n. 1

 

Appalti: le società partecipanti alla gara non possono essere riconducibili ad un unico centro decisionale

Per verificare la sussistenza di  un unico centro decisionale delle offerte,pertanto, la relazione tra le imprese partecipanti  è soggetta ad esame non solo formale ma anche fattuale e concreto delle circostanze e degli elementi che caratterizzano la fattispecie.

Pertanto, ove tale “unicità” non corrisponda a ipotesi tipizzate può comunque scaturire da dati e indizi seri, probanti, oggettivi, coincidenti, precisi e univoci, non contestati in fatto.

Può prescindersi, quindi, anche dalla produzione di documenti, per lo più autocertificati, tendenti a escludere collegamenti e intrecci sul piano meramente formale, posto che gli appalti pubblici debbano essere informati, anche secondo la normativa europea, ai principi e ai postulati della legalità e dell’imparzialità nonché della chiarezza e trasparenza delle procedure in ogni fase, della par condicio e dell’indipendenza, dell’affidabilità e della segretezza, della completezza e autenticità delle offerte, sì da porre la stazione appaltante al riparo da qualsivoglia possibile contestazione, pregiudizievole sia per la gara che per il buon nome della P.A. SL



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Inserito in data 05/01/2012
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 dicembre 2011, n. 6967

 

L’impugnazione della sola aggiudicazione definitiva non determina la tardività del ricorso

L’impugnazione del provvedimento di aggiudicazione provvisoria costituisce, infatti, solo una facoltà e non anche un onere per l’impresa partecipante alla gara, che può legittimamente attendere il provvedimento di aggiudicazione definitiva, dal quale devono farsi decorrere i termini per l’impugnativa. SL



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Inserito in data 03/01/2012
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 dicembre 2011, n. 339

 

Competenza legislativa esclusiva dello Stato: dipendenti regionali; mercato dell’energia elettrica

Deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale:

1. (…) dell’art. 3 co. 2 (terzo periodo) della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010, nella parte in cui dispone che le economie risultanti dalla riduzione dell’organico complessivo della dirigenza possono essere destinate alla valorizzazione delle posizioni organizzative, in aggiunta ad altre risorse annualmente stanziate ai sensi del CCNL del personale del comparto Regioni-Autonomie locali.

La norma in esame, intervenendo in materia riservata alla contrattazione collettiva, si è posta in contrasto con le norme contenute nel Titolo III del d.lgs. n. 165 del 2001, così invadendo la competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, ai sensi dell’art. 117 co. 2 lett. l) Cost.

 

2. (…) dell’art. 14 della legge della Regione Lombardia n. 19 del 2010 nella parte in cui, modificando la legge regionale n. 26 del 2003 - che disciplina i servizi locali di interesse economico generale -, ha introdotto l’art. 53-bis (in materia di grandi derivazioni ad uso idroelettrico).

La disposizione, infatti, incide direttamente e sotto diversi profili sulla disciplina delle procedure ad evidenza pubblica, riconducibile per intero alla tutela della concorrenza e, pertanto, spettante nella sua interezza alla competenza esclusiva dello Stato medesimo, onde la denunziata violazione dell’art. 117 co. 2 lett. e), Cost.

- In particolare, viene censurato il comma 3 dell’art. 53 bis, laddove demanda alla Regione l’individuazione dei requisiti organizzativi e finanziari minimi e dei parametri di aumento dell’energia prodotta, concernenti le procedure di gara. Tale individuazione, invece, è affidata allo Stato dall’art. 15 co. 6-ter lett. c) del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge n. 122 del 2010, che sostituisce il co. 2 dell’art. 12 del d.lgs. n. 79 del 1999.

- In secondo luogo, vengono censurati anche i commi 7, 8, 9, 10 del predetto art. 53 bis. Il comma 7, infatti, stabilisce che la Regione, allo scadere delle concessioni, acquisisce le opere e gli impianti afferenti alle grandi derivazioni idroelettriche e li conferisce a società patrimoniali di scopo, con partecipazione totalitaria di capitale pubblico incedibile. Tali società patrimoniali metteranno a disposizione del soggetto affidatario, individuato sia con la procedura di cui ai commi 2 e 8 sia con quelle di cui al comma 9, le infrastrutture e gli impianti afferenti alla derivazione.

L’individuazione del soggetto affidatario si pone in palese contrasto con la normativa statale, dal momento che l’affidamento mediante gare ad evidenza pubblica verrebbe rimesso alla mera discrezionalità del soggetto affidante, cui è demandata la scelta tra le dette procedure di gara e l’affidamento diretto, sia pure a condizione che siano soddisfatti i requisiti prescritti dalle vigenti direttive comunitarie e norme nazionali;  queste ultime, tuttavia, nel settore de quo prescrivono l’indizione di gare ad evidenza pubblica, senza alternative. Il comma 9, addirittura, stabilisce che l’affidamento diretto sia addirittura l’unica forma, con i requisiti sopra indicati. FT




Inserito in data 03/01/2012
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 22 dicembre 2011, n. 340

 

Conflitto di attribuzioni tra Ministero dell’Economia e Provincia Autonoma di Trento e Bolzano

 

Dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato nei confronti dello Stato dalla Provincia autonoma di Bolzano, in relazione all’e-mail del Ministero dell’economia e delle finanze con cui, sul presupposto dell’applicabilità dell’obbligo di comunicazione dei dati sul patrimonio ai sensi dell’art. 2 comma 222 della legge n. 191 del 2009 (Finanziaria 2010) anche nei confronti dei Comuni delle Province autonome di Trento e Bolzano e delle Province stesse, avrebbe sollecitato gli stessi a fornire “i dati identificativi a) degli immobili, edifici e terreni, di proprietà degli stessi Comuni, Province e Regioni; b) degli immobili, edifici e terreni, utilizzati o detenuti a qualunque titolo, dallo stesso Comune, Provincia, Regione, di proprietà dello Stato o di altri soggetti pubblici”.

L’e-mail impugnata ha una portata puramente informativa e, conseguentemente, non ha alcuna portata vincolante nei confronti delle amministrazioni alle quali è indirizzata, non contenendo alcuna manifestazione di volontà, che sia peraltro riconducibile ad un organo dell’amministrazione legittimato a rappresentare lo Stato e ad esprimerne appunto la volontà all’esterno, che si risolva nell’affermazione di una competenza propria dello Stato nell’ambito indicato. FT

 



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Inserito in data 23/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 20 dicembre 2011, n. 6990

 

Criteri sul permesso di soggiorno dello straniero che esercita il diritto al ricongiungimento familiare

A)I Giudici amministrativi ribadiscono la necessità di dare rilievo, in sede di rilascio o diniego, anche alla natura ed alla effettività dei vincoli familiari dell’interessato e, per lo straniero già soggiornante in Italia, alla durata del suo soggiorno;

B)L’obiettivo è, palesemente, quello di garantire il rilievo di situazioni soggettive fondamentali per il singolo ed evitare, in caso di sopravvenuti motivi di diniego, la frammentazione di nuclei familiari frattanto formatisi sul territorio nazionale;

C)E’, pertanto, illegittimo il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno emesso in assenza di valutazione di simili elementi, tracciati dall’art. 5 – comma 5’ D. Lgs. 286/98, introdotto dal D. Lgs. 5/07, e come letti dalla consolidata giurisprudenza amministrativa. CC



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Inserito in data 23/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 21 dicembre 2011, n. 6781

 

Accesso agli atti di procedimento disciplinare e tutela diritto alla riservatezza del controinteressato

A)Il Consiglio di Stato riconferma l’esperibilità dell’accesso, specie se avente ad oggetto dati sensibili quali quelli giudiziari del caso in esame, a limiti estremamente rigidi e di assoluta necessarietà;

B)Simili paletti condizionano, ovviamente, anche l’eventuale riesame in autotutela, da parte della P.A., di un proprio precedente diniego;

C)Deve valutarsi come prioritaria la tutela alla riservatezza propria di controparte, specie in assenza della stretta indispensabilità del bisogno di colui che intenderebbe accedere. CC



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Inserito in data 23/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 22 dicembre 2011, n. 6786

 

Giurisdizione esclusiva G.A. sui provvedimenti sanzionatori CoReCom, in quanto Organo decentrato AgCom

A)Natura provvedimentale e, quindi, portata pubblicistica propria della deliberazione sanzionatoria emessa da CoReCom a fronte di un grave inadempimento contrattuale di un gestore di telefonia mobile;

B)Al di là dell’oggetto del contendere, la questione è risolta dinanzi ad un Organo di chiara natura pubblicistica, espressione, in ambito regionale, di un’Autorità amministrativa;

C)Si spiega, così, l’attribuzione al G.A. in sede esclusiva, come disposto, tra l’altro, dall’art. 133 co. 1 lett. l) del nuovo C.p.a. CC



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Inserito in data 23/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 dicembre 2011, n. 338

 

Indennità di espropriazione ed omessa o irrisoria denuncia a i fini ICI; disparità sul ristoro

A)I Giudici della Consulta, leggendo la portata degli artt. 16, comma 1, D.Lgs n. 504/92 e 37, comma 7, D.P.R. n. 327/01, ne sanciscono l’illegittimità costituzionale nella parte in cui tali disposizioni non prevedevano la possibile variazione della “sanzione” riduttiva dell’indennità di esproprio, in capo a chi, a seguito di dichiarazione ICI infedele, avesse compiuto successivi atti di ravvedimento o di spontanee rettifiche;

B)Tale disciplina iniquamente sanzionatoria, riguardando anche le ipotesi di omessa dichiarazione/denuncia ICI, finiva inoltre col garantire all’evasore un ristoro comunque non spettantegli;

C)Palese vulnus, pertanto, degli artt. 3 e 42 – 3’ comma – Cost., nonché degli artt. 1 e 6 del primo Protocollo CEDU, ove tali norme intendono perseguire un ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l’ammontare della indennità dovuta. CC



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Inserito in data 22/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 dicembre 2011, n. 6546

 

Appalti:  la stazione appaltante è tenuta ad applicare le clausole inserite nella lex specialis in modo rigoroso e incondizionato

Le clausole, inserite nella lex specialis, relative ai requisiti di partecipazione o alle cause di esclusione sono ritenute connesse ad esigenze di certezza e celerità, oltre che a garanzie di imparzialità dell'azione amministrativa e di par condicio tra i concorrenti. SL



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Inserito in data 22/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 dicembre 2011, n. 6539

 

Il ricorso in giudizio avverso l’aggiudicazione provvisoria, non esclude la necessità di impugnare anche l’aggiudicazione definitiva

L’aggiudicazione definitiva, infatti, anche laddove si limita a recepire i risultati dell’aggiudicazione provvisoria, comporta comunque una nuova ed autonoma valutazione degli interessi pubblici sottostanti. SL



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Inserito in data 22/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 14 dicembre 2011, n. 6537

 

Condizioni di ammissibilità del ricorso cumulativo nel processo amministrativo.

Il ricorso cumulativo è quello con il quale vengono impugnati più provvedimenti amministrativi.  Nel processo amministrativo, tuttavia, a differenza di quanto accade in ambito civile il cumulo delle domande può essere giustificato soltanto da una connessione oggettiva ovvero da una contestuale connessione oggettiva e soggettiva.

La ratio di tale indirizzo si fonda:1) sull’esigenza di evitare la confusione tra controversie diverse con conseguente aggravio dei tempi del processo; 2) sulla necessità di impedire l’elusione delle disposizioni fiscali, atteso che con il ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi. SL



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Inserito in data 21/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 dicembre 2011, n. 6625

 

Giudizio amministrativo: ordine di priorità nell’esame dei motivi del ricorso  e principio dispositivo

L’ordine del giudice nella disamina delle censure proposte dalla parte ricorrente non può prescindere dal principio dispositivo, che regola tutti i processi  ad impulso di parte, ed in particolare il processo amministrativo.

La graduazione dei petita va, pertanto, affrontata dal giudice non già in base al puro strumento logico, ma in base ai principi propri del giudizio: correlando cioè, detta graduazione all’interesse di cui la parte ricorrente chiede tutela.

Ciò comporta la necessità di esaminare in via prioritaria quelle censure dal cui eventuale accoglimento deriverebbe un effetto pienamente satisfattivo della pretesa della parte medesima. SL



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Inserito in data 20/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 15 dicembre 2011, n. 6613

Sui Limiti all’Efficacia del Giudicato Amministrativo e le Azioni Esercitabili in sede di Ottemperanza

Al giudice amministrativo non è preclusa in sede di ottemperanza l'individuazione della corretta portata della decisione.

Ai sensi dell'art. 2909 c.c., il giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il "titolo" della stessa azione ed il "bene della vita" che ne forma oggetto; entro tali limiti, il giudicato copre il "dedotto ed il deducibile ", cioè non soltanto le questioni di fatto e di diritto fatte valere in via di azione e di eccezione e, comunque, esplicitamente investite dalla decisione, ma anche le questioni che, pur non dedotte in giudizio, costituiscano un presupposto logico ed indefettibile della decisione stessa, restando salva ed impregiudicata soltanto la <sopravvenienza di fatti e situazioni nuove>, verificatisi dopo la formazione del giudicato.

La circostanza che l’atto di cui si chiede di accertare la incompatibilità con l’accertamento regiudicato è antecedente alla decisione stessa, non configura condizione ostativa alla percorribilità del rimedio della ottemperanza, in quanto quest’ultimo non può essere limitato agli atti formatisi posteriormente alla formazione del giudicato stesso. Esso può concernere anche atti antecedenti: altrimenti, il soggetto leso sarebbe costretto ad intraprendere un’autonoma azione di accertamento della (sopravvenuta) nullità del provvedimento adottato in violazione del giudicato, e ciò colliderebbe con l’art. 111 della Costituzione in punto di ragionevole durata del processo e concentrazione dei giudizi.

La circostanza che l’eventuale condizione per ottenere la ripetizione delle somme indebitamente versate (nel caso di specie, ai sensi dell’art. 38 D.P.R. 380/2001) riposi in una pronuncia di nullità dell’atto, implica che pacificamente la detta azione possa essere esercitata in sede di rimedio di ottemperanza. FT



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Inserito in data 20/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 dicembre 2011, n. 332

Conflitto di attribuzione, ordinanza istruttoria del Tribunale nel giudizio contro consiglieri regionali

Sussiste il conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione all’ordinanza di ammissione di mezzi istruttori, adottata dal Tribunale di Venezia nell’ambito di un giudizio civile promosso contro alcuni consiglieri regionali, per il risarcimento dei danni derivanti da talune loro dichiarazioni, reputate diffamatorie. L’atto impugnato è lesivo della prerogativa della insindacabilità, accordata ai consiglieri regionali dall’art. 122, quarto comma, della Costituzione.

L’eccezionale guarentigia di cui all’art. 122, quarto comma, Cost. – la quale non mira ad assicurare una posizione di privilegio ai consiglieri regionali, ma a preservare da interferenze e condizionamenti esterni le determinazioni inerenti alla sfera di autonomia costituzionalmente riservata al Consiglio regionale – ricomprende tutte quelle attività che costituiscono esplicazione di una funzione tipica, affidata a tale organo dalla stessa Costituzione o da altre fonti normative cui la prima rinvia. Come per l’analoga guarentigia prevista a favore dei membri del Parlamento dall’art. 68, primo comma, Cost., l’immunità in parola si estende, peraltro, anche a quei comportamenti che, pur non rientrando fra gli atti tipici, siano collegati da nesso funzionale con l’esercizio delle attribuzioni proprie dell’organo di appartenenza, tra cui, in particolare, la divulgazione esterna delle opinioni espresse in sede consiliare. FT



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Inserito in data 20/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 dicembre 2011, n. 331

Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, presunzione di adeguatezza della custodia cautelare

Le fattispecie criminose cui la presunzione in esame è riferita possono assumere le più disparate connotazioni: l’eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto non consente di enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminologiche del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari.

Ciò che vulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario – non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso. FT



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Inserito in data 20/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 dicembre 2011, n. 329

Minore Extracomunitario, Subordinazione dell’Indennità di Frequenza al permesso di soggiorno

Dalla limitazione connessa ad una presenza nel territorio dello Stato di un periodo minimo di cinque anni, deriva, da un lato, la violazione del principio di uguaglianza e dei parametri costituzionali che assicurano la protezione di diritti primari dell’individuo (quali l’istruzione, art. 34; la salute, art. 32; e l’assistenza sociale, art. 38), nonché dei doveri di solidarietà economica e sociale (art. 2); dall’altro, la violazione del dovere di esercitare la potestà legislativa nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.), essendosi introdotto un regime discriminatorio nei confronti di cittadini stranieri incompatibile pure con i principi affermati in riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la legge 3 marzo 2009, n. 18.

La provvidenza presa in esame, per i requisiti che ne condizionano il riconoscimento, rappresenta una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito in relazione alle condizioni soggettive e alle diminuite capacità di guadagno, ma a fornire alla persona un minimo di sostentamento: in linea, evidentemente, con i principi di inderogabile solidarietà sociale, assunti quale valore fondante degli stessi diritti inalienabili dell’individuo, che non ammettono distinzioni di sorta in dipendenza di qualsiasi tipo di qualità o posizione soggettiva e, dunque, anche in ragione del diverso status di cittadino o di straniero.

Ciò che assume valore dirimente agli effetti del sindacato di legittimità, non è la denominazione o l’inquadramento formale della singola provvidenza, quanto, piuttosto, il concreto atteggiarsi di questa nel panorama delle varie misure e dei beneficii di ordine economico che il legislatore ha predisposto quali strumenti di ausilio ed assistenza in favore di categorie “deboli”. Per la compatibilità costituzionale delle scelte legislative occorre, infatti, verificare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale, la misura presa in considerazione integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento di “bisogni primari” inerenti alla sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare.

Il condizionamento imposto ai fini del riconoscimento del beneficio per i minori stranieri, rappresentato dalla titolarità della carta di soggiorno, finisce per determinare per un periodo minimo di cinque anni – quello richiesto per il rilascio della carta – una sostanziale vanificazione, incompatibile non soltanto con le esigenze di “effettività” e di soddisfacimento che i diritti fondamentali naturalmente presuppongono, ma anche con la stessa specifica funzione della indennità di frequenza, posto che l’attesa del compimento del termine di cinque anni di permanenza nel territorio nazionale potrebbe comprimere sensibilmente le esigenze di cura ed assistenza di soggetti che l’ordinamento dovrebbe invece tutelare, se non addirittura vanificarle in toto. FT



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Inserito in data 18/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 16 dicembre 2011, n. 24

Termini appello incidentale; Difetto di giurisdizione, nuovo Giudice ed effetti traslatio iudicii

  1. L’Adunanza illustra l’applicabilità degli artt. 333 e 334 c.p.c. alla luce del nuovo Codice del Processo amministrativo, chiarendo la portata del relativo art. 96;
  2. Le impugnazioni incidentali, in sostanza, benché autonome, possono discendere da quella principale e, come tali, godere di un termine che vada anche oltre quello lungo, previsto per il gravame maggiore;
  3. Ha attitudine di giudicato formale la sentenza che declina la giurisdizione, secondo l’art. 59 – comma 2’ - L. 69/09 ed in forza dell’interpretazione costante delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione;
  4. Pertanto, se riassunto il giudizio dinanzi al Giudice ad quem prima del passaggio in giudicato della sentenza che lo individua, le parti vi sono vincolate; allo stesso modo, del resto, il Giudice della riassunzione non può più contestare con sentenza la propria giurisdizione;
  5. L’Adunanza chiarisce, infatti, il principio secondo cui il regolamento preventivo di giurisdizione, dopo una sentenza che declina la giurisdizione, è precluso anche nel giudizio riassunto. CC


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Inserito in data 18/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 14 dicembre 2011, n. 23

Trasferimento d’ufficio e indennità ex art. 1 L. 86/01. Occorre distanza non inferiore a dieci Km

  1. Il Supremo Consesso amministrativo chiarisce il contrasto interpretativo sorto tra quanti ritenevano non più vigente il suddetto requisito, valutandolo proprio dell’indennità di missione e, come tale, non estensibile a tutte le Amministrazioni statali;
  2. E chi, invece, valutava come assimilabile anche ai dipendenti della Polizia di Stato, protagonisti dell’ordinanza di rimessione in questione, il requisito della distanza di non meno di dieci Km tra il Comune di provenienza e quello di destinazione;
  3. L’Adunanza avalla quest’ultimo orientamento, posto che la norma del 2001, non derogando rispetto alla precedente previsione del 1987, non ha indugiato riguardo ai presupposti chilometrici, in essa previsti, occorrenti per il conseguimento della suddetta indennità;
  4. Ciò comporta, quindi, che la relativa erogazione è subordinata alla vigenza del requisito, sopra menzionato, della distanza minima. CC


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Inserito in data 18/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 16 dicembre 2011, n. 330

Spesa farmaceutica e criteri di ripartizione della competenza legislativa tra Stato e Regioni

I Giudici costituzionali, ricordando la pregnanza della questione relativa alla spesa farmaceutica e l’attinenza della stessa alla tutela alla salute, statuiscono l’illegittimità dell’art. 11, comma 6’, D. L. n. 78/10 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), come convertito dalla L. n. 122/10, nella parte in cui esso comma non prevede alcun coinvolgimento delle Regioni nel confronto tecnico dallo stesso disciplinato. CC



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Inserito in data 18/12/2011
CORTE DEI CONTI, Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello, 13 dicembre 2011, n. 858

Danno erariale per errata procedura espropriativa; è grave la responsabilità del Funzionario

  1. Non ha rilievo alcuno la mancata conclusione del procedimento espropriativo, da cui scaturisce il danno lamentato, nei termini fissati;
  2. I Giudici contabili ravvedono, infatti, una piena responsabilità del Dirigente anche laddove egli, pur dimostrando la propria estraneità al mancato rispetto dei termini, non abbia fatto quanto era necessario ad evitare un grave pregiudizio alle Finanze pubbliche;
  3. E’ evidente la negligenza dallo stesso mantenuta, posto che, data la complessità della procedura espropriativa, egli avrebbe dovuto unificare il tutto sotto il proprio impulso procedimentale. CC

 



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Inserito in data 16/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 dicembre 2011, n. 6501

Poteri del g. a. in sede di ottemperanza per dare esecuzione al giudicato.

Nel giudizio di ottemperanza il vincolo che deriva al giudice dalla domanda di parte attiene solo al risultato e non al quomodo per raggiungere tale risultato. SL



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Inserito in data 16/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 dicembre 2011, n. 6493

Informative antimafia: potere discrezionale della Prefettura

Il potere discrezionale della Prefettura comporta una valutazione lata di interessi contrapposti: quello relativo alla libertà di impresa e quello relativo alla tutela dell'uso delle risorse pubbliche. SL



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Inserito in data 16/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 dicembre 2011, n. 6489

A quale giudice spetta la giurisdizione nel caso in cui un pubblico dipendente si trattenga in servizio oltre i limiti di età?

Se si tratta di un rapporto di lavoro privatizzato la giurisdizione spetta al g. o., poiché il provvedimento che dispone o nega il trattenimento in servizio incide sempre sul rapporto di lavoro in corso. SL



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Inserito in data 16/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, ordinanza 7 dicembre 2011, n. 5364

La tessera del tifoso è legittima: illegittime sono le card abbinate.

L'abbinamento inscindibile (e quindi non declinabile dall'utente) tra il rilascio della tessera di tifoso e la sottoscrizione di un contratto con un partner bancario per il rilascio di una carta di credito prepagata, potrebbe condizionare indebitamente la libertà di scelta del tifoso-utente. SL



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Inserito in data 12/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 2 dicembre 2011, n. 21

Interpretazione Bandi di Concorso, Clausole che richiedono una determinata Età per l’Ammissione

Quando la legge ricollega il verificarsi di determinati effetti (quale la perdita di un requisito di ammissione ad un concorso) al compimento di una data età, essi decorrono dal giorno successivo a quello del compleanno. Il limite d'età fissato, pertanto, deve intendersi superato quando ha inizio, dal giorno successivo al compimento, il relativo anno. Sulla scorta di tale impostazione, a nulla rileva la formulazione utilizzata dalla lex specialis, in quanto il compimento del’anno di vita si realizza allorquando il suddetto anno è stato interamente vissuto. FT



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Inserito in data 12/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 dicembre 2011, n. 328

Lavori Pubblici, Qualificazione delle Imprese, Competenza Legislativa Regioni a Statuto Speciale

a) Dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna n. 14 del 2002, laddove - per la realizzazione di lavori pubblici che si svolgono nell’ambito del territorio regionale - delineano un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, stabilendo che tale qualificazione costituisce condizione sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti ai fini della partecipazione alle gare d’appalto. Detta qualificazione è affidata ad un organismo diverso da quelli individuati dalla normativa statale (SOA), chiamato ad applicare criteri differenti rispetto a quelli individuati dal legislatore statale nel d.lgs. n. 163 del 2006;

b) Riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni ad autonomia speciale, titolari - in virtù dello statuto speciale - di competenza primaria nella materia «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione»: la Regione deve esercitare la propria competenza primaria in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali. In particolare, tra queste ultime vanno ascritte le disposizioni del Codice degli appalti, per la parte in cui sono correlate all’art. 117 co. 2 lett. e) Cost. (tutela della concorrenza). La legislazione regionale, quindi, non può avere un contenuto difforme dalle disposizioni di quest’ultimo, né alterare il livello di tutela garantito dalle norme statali;

c) La disciplina della qualificazione e selezione delle imprese è riconducibile all’ambito della tutela della concorrenza, di esclusiva competenza del legislatore statale, che può stabilire una regolamentazione integrale e dettagliata delle procedure di gara, la quale, può influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni. FT



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Inserito in data 12/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 dicembre 2011, n. 6375

Trasformazione Fondo Occupato dalla PA, Risarcimento Danni: Litisconsorzio, Prescrizione, Quantificazione

a) Controversie relative ad attività di occupazione e trasformazione irreversibile di un bene da parte della PA a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, laddove il procedimento non sia sfociato in un tempestivo atto traslativo, ovvero sia stato caratterizzato dalla presenza di atti dichiarati illegittimi:

b) Non si ha litisconsorzio necessario ai sensi dell’art. 102 cpc in caso di giudizio risarcitorio per un atto illecito del quale più soggetti siano chiamati a rispondere solidalmente, e dei quali solo alcuni siano stati convenuti in giudizio. Tale regola trova una deroga eccezionale soltanto nei casi in cui la responsabilità di uno dei danneggianti si ponga in rapporto di dipendenza con la responsabilità di altri danneggianti, nonché nell’ipotesi in cui sia la legge stessa che imponga esplicitamente il litisconsorzio necessario tra coobbligati solidali;

c) Al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario solo allorquando l’azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all’adempimento di una prestazione inscindibile, incidente su una situazione giuridica inscindibilmente comune a più soggetti, di modo che, se emanata in assenza del contraddittorio di tutte le parti interessate, la emananda sentenza sia priva di alcuna pratica utilità.

e) La sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità dell’art. 43 del dPR 327/2001 (procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo) e la successiva recente introduzione dell’art. 42 bis non incide sul principio dell’estraneità della fase risarcitoria al procedimento espropriativo propriamente detto, mutando unicamente lo strumento tecnico-giuridico attraverso il quale si realizza l’effetto traslativo della proprietà in favore dell’Amministrazione.

f) Deve escludersi che il dies a quo della prescrizione possa coincidere con l’irreversibile trasformazione dell’immobile. L’occupazione sine titulo, infatti, costituisce illecito permanente, il cui termine quinquennale di prescrizione decorre a partire da ogni momento dell’illecita occupazione.

g) Alla proposizione della sola domanda di risarcimento per equivalente non può attribuirsi un implicito effetto abdicativo del diritto di proprietà a favore della PA . Di conseguenza, il giudice di prime cure chiamato a procedere alla quantificazione del danno risarcibile, deve individuarne il dies ad quem nel momento della cessazione dell’illecita occupazione. Qualora tale evento non sia ancora avvenuto, il percorso idoneo a consentire una compiuta definizione della controversia è destinato ad articolarsi o in un accordo traslativo avente ad oggetto il trasferimento della proprietà, o in un decreto di acquisizione ex art. 42 bis d.P.R. nr. 327/2001;

h) Il meccanismo disciplinato dall’art. 34 co. 4 c.p.a. consente di rimettere alle parti il raggiungimento di un accordo sulla somma da offrire a titolo di risarcimento, e quindi anche sulla determinazione del valore venale dell’immobile quale parametro di riferimento. Quanto ai criteri con cui commisurare il danno, alla stregua dell’art. 42 bis, dovrà distinguersi fra danno da perdita da proprietà (corrispondente al valore venale del suolo al momento della cessione dello stesso al Comune) e danno da mancato uso (da calcolarsi in misura del 5 % di tale valore giusta il meccanismo “forfettario” introdotto dal menzionato articolo). FT



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Inserito in data 12/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 2 dicembre 2011, n. 6369

Autonomia dell’Azione Risarcitoria, Riproposizione in separato giudizio, Applicabilità dell’art. 1227 cc FT

a) La domanda risarcitoria ha una propria autonomia rispetto alla domanda impugnatoria, per la diversità dei presupposti di fatto e di diritto sulla quale si fonda; il giudice è quindi tenuto a pronunziarsi su di essa ai fini della esatta corrispondenza tra il decisum e il petitum e, in assenza di una pronunzia espressa, non può considerasi formato il giudicato. Qualora il giudice ometta di pronunziarsi su una delle domande proposte e non ricorrano gli estremi per una sua reiezione implicita, deve sempre riconoscersi alla parte che aveva formulato la domanda, di coltivare la domanda nell’ambito di un separato giudizio. Infatti, la parte ha la facoltà alternativa di fare valere la omissione in sede di gravame o di riproporre la domanda in separato giudizio, posto che la presunzione di rinuncia di cui all'art. 346 cpc ha valore meramente processuale e non anche sostanziale. Ne consegue che, riproposta la domanda in separato giudizio, non è in tale sede opponibile il giudicato esterno per omessa pronunzia;

b) L’art. 1227 c.c. co. 1 dispone che, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo l’entità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate e, al co. 2, precisa che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza. Qualora la sentenza favorevole non venga eseguita, pur non essendo stata sospesa in appello, il ricorrente vittorioso in primo grado omette di azionare il rimedio giurisdizionale previsto a suo favore dalla L. 205/2000, art. 10. Il ricorrente, nell’ambito della diligenza del danneggiato, avrebbe dovuto azionare i rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento al fine di ottenere, nelle more dell’esaurimento del giudizio di appello, l’esecuzione delle favorevoli statuizioni contenute nella sentenza. Ciò è vero a maggior ragione, qualora l’eventuale proposizione del ricorso per l’esecuzione della sentenza Tar non presenti alcuna incertezza di esito, poichè da un lato la PA ha l’obbligo di eseguire e dall’altro l’esecuzione stessa non presenta margini ulteriori di discrezionalità. La valorizzazione del comportamento processuale della ricorrente rilevabile ex art. 1227 c.c. può portare a ritenere sproporzionato in eccesso il risarcimento disposto dalla sentenza ed alla sua conseguente riduzione. FT



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Inserito in data 11/12/2011
CORTE DI GIUSTIZIA, GRANDE SEZIONE, 6 dicembre 2011, C-329/11

Monito dei Giudici di Lussemburgo sulla Direttiva rimpatri

  1. La pena detentiva nei confronti di un soggetto irregolare sembrerebbe eludere l’effetto utile proprio della Fonte comunitaria, quale quello di agevolare il rientro in Patria del clandestino;
  2. La suddetta misura, infatti, sarà attuabile solo come extrema ratio, laddove le modalità più blande previste dalla Direttiva siano state infruttuose;
  3. La Corte Europea non valuta più illegittima la previsione, da parte di ciascuno Stato membro, del reato di clandestinità, purchè conforme ai principi CEDU CC


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Inserito in data 11/12/2011
CORTE DI GIUSTIZIA, TERZA SEZIONE, 8 dicembre 2011, C-81/10

Il Collegio UE, confermando il primo grado, è caustico sugli Aiuti di Stato

  1. France Telecom ha goduto di un indubbio vantaggio, avvalendosi per un lungo lasso di tempo di un regime fiscale privilegiato;
  2. Questo, sfociando in un’imposizione minore a titolo di tassa professionale, è assimilabile ad un Aiuto di Stato illegittimo, perché incompatibile con il mercato comune. CC


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Inserito in data 11/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 dicembre 2011, n. 6428

Sopravvenuta revoca dell’alloggio pubblico: è valutazione discrezionale o mero epilogo di locazione?

  1. In caso di decadenza per modifica dei criteri reddituali del primo assegnatario questi è in una posizione di diritto soggettivo;
  2. Non vi è, quindi, alcuna discrezionalità della P.A. nella valutazione di tali limiti, ma solo una modifica nello svolgimento del rapporto locativo;
  3. Il riparto di giurisdizione, conferma il CdS, segue la posizione soggettiva quindi G.O. CC


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Inserito in data 11/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 7 dicembre 2011, n. 6465

Appalti pubblici: atto del Prefetto, per presunte infiltrazioni, in sede di informativa antimafia

  1. La portata interdittiva del provvedimento prefettizio non è sindacabile dalla stazione appaltante, data la provenienza;
  2. Né è discutibile l’attività svolta, in quanto rientrante nell’ambito di un Protocollo di Legalità redatto dalla Prefettura con il Comune CC


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Inserito in data 09/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 1 dicembre 2011, n. 6349

La Regione, all’atto dell’approvazione dello strumento urbanistico, può apportare modifiche cc.dd. obbligatorie, concordate e facoltative. SL



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Inserito in data 09/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 dicembre 2011, n. 6397

L’amministrazione è autovincolata all’osservanza del bando anche se illegittimo e non può disapplicarlo, salvo autotutela. Conseguentemente, i partecipanti alla procedura hanno interesse ad ottenere il rispetto delle regole del bando ove la loro violazione pregiudichi le proprie “chances” di successo. SL



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Inserito in data 09/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 novembre 2011, n. 6321

La SSIS in quanto ente distinto dall’Università non consente al relativo personale di partecipare ai concorsi riservati ai dipendenti di quest’ultima. SL



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Inserito in data 09/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 novembre 2011, n. 6315

Non è consentita la CIG per l’impresa che ha subito una drastica riduzione di forniture da parte della principale committente.

Una deroga ai limiti temporali di cui agli artt. 3 e 4 l.164/75 è consentita solo per eventi “oggettivamente inevitabili”, cui non rientra detta ipotesi. SL



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Inserito in data 06/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 24 novembre 2011, n. 6240

Mancata osservanza puntuali prescrizioni su modalità/oggetto di dichiarazioni da fornire in sede di gara: non può essere escluso chi partecipa con tutti i requisiti richiesti, se la lex specialis non prevede espressamente l'esonero per quest’ipotesi. L’omissione non danneggia interessi presidiati dalla legge ed è considerata un falso innocuo, che non può provocare l'esclusione, le cui ipotesi sono tassative. FT



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Inserito in data 06/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 25 novembre 2011, n. 6261

a) Concerne la Giurisdizione esclusiva del GA il risarcimento del danno conseguente allo spossessamento dell’area su cui è stata realizzata l’opera durante la vigenza del provvedimento di occupazione; ciò ancorché il vulnus al diritto soggettivo debba ricondursi in parte all’esplicazione dei pubblici poteri e in parte al perseguimento con comportamenti sine titulo e mezzi impropri di finalità pubblicistiche;
b) Sempre devoluto alla giurisdizione del GA il risarcimento danni per il mancato godimento, qualora gli atti del procedimento ablativo siano venuti comunque meno o siano stati annullati. Rientrano nella giurisdizione del GO le domande relative all’occupazione usurpativa, in assenza di provvedimenti. FT



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Inserito in data 06/12/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 2 dicembre 2011, n. 325

L. reg. Puglia 19/2010 (Finanziaria per il 2011) – costituzionalmente illegittima

 a) laddove include tra i soggetti esenti dal pagamento del ticket categorie non comprese dalla legislazione statale in materia di salute e finanza pubblica, violando l’art 117 co 3 Cost;

b) laddove prevede l’abrogazione del divieto di transito con mezzi a motore in un parco naturale, in contrasto con la legge statale sulle aree protette  e in modo non conforme agli standard minimi di tutela validi sul territorio nazionale, violando l’art 117 comma 2 lett s) Cost;

c) laddove istituisce un’Agenzia regionale per la promozione della legalità con funzioni analoghe ad un’Agenzia nazionale istituita con L 50/2010, violando l’art 117 co 2 lett h) Cost;

d) laddove, in attesa del completamento del sistema automatico di rilevazione delle presenze, proroga l’erogazione del compenso per lo straordinario al personale regionale: la Finanziaria Statale 2008 obbliga le PA a predisporre la rilevazione, ulteriori ritardi comportano disparità di trattamento con le altre PA, in contrasto con l’art 3 Cost e con l’art 117 co 3 Cost;

e)  laddove prevede che ai componenti esterni della Giunta regionale si applichino la disciplina dell’aspettativa senza assegni per lo svolgimento di cariche pubbliche dei consiglieri regionali: la regione ha previsto oneri previdenziali, in contrasto con l’art 117 co 2 lett o) Cost (comp. statale esclusiva) e con l’art 3 Cost per disparità di trattamento tra cariche elettive. FT

 



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Inserito in data 06/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 28 novembre 2011 n. 6268

L’eventuale incompletezza o limitazione dell’impegno alla costituzione della garanzia fideiussoria non determina l’esclusione dell’offerta: esonero solo in caso di assenza radicale del previsto impegno. FT 



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Inserito in data 05/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 1 dicembre 2011, n. 6351

Occupazione sine titulo:la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 43 d.lgs. n.327/01 non comporta l’applicabilità dell’istituto dell’accessione ex art. 938 c.c. SL



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Inserito in data 05/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 novembre 2011, n. 6333

a) Concessione edilizia: il costo di costruzione ha natura impositiva e trova la sua ratio nell’incremento patrimoniale che il titolare del permesso di costruire consegue.

b) La causa giuridica del pagamento è, dunque, nella fruizione dell’atto abilitativo all’edificazione a mezzo della effettiva realizzazione dell’intervento assentito. SL



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Inserito in data 05/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 novembre 2011, n. 6326

a) L’esperienza didattica non è estranea all’ambito di valutazione finalizzata alla ammissione in ruolo dei ricercatori universitari;

b) Potere di controllo del rettore sugli atti della commissione: a fronte di palesi illegittimità (anche non meramente formali) non può ritenersi esente dall’obbligo di opporre un proprio motivato diniego. SL



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Inserito in data 05/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 novembre 2011, n. 6205

Attività di mediazione assicurativa: legittima anche senza iscrizione all’albo se esercitata prima  del d.lgs.209/05(cod. ass.)SL



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Inserito in data 02/12/2011
CORTE DEI CONTI, SECONDA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE, 14 novembre 2011, n. 599

Sistema pensionistico nell’ambito delle Forze armate:

  1. L’assegno di parziale omogeneizzazione stipendiale non è base pensionabile;
  2. Non vi si applica, pertanto, la maggiorazione del 18% prevista dall'art. 16 della Legge n. 177 del 1976 CC


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Inserito in data 02/12/2011
CORTE DEI CONTI, SECONDA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D'APPELLO, 22 novembre 2011, n. 615

Attività libero-professionale c.d. intramuraria: il medico deve essere previamente autorizzato

  1. La ASL di appartenenza presta consenso solo in caso di piena compatibilità della nuova attività con quella istituzionale
  2. L’attività libera, infatti, “deve garantire l’assolvimento dei compiti di istituto e la piena funzionalità dei servizi”
  3. Attività dolosa in assenza di detti parametri: il sanitario è tenuto a restituire il quantum indebitamente percepito
  4. Non vi è danno all’immagine P.A., mancando prova di una seria compromissione all’efficienza dell’apparato sanitario CC


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Inserito in data 02/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 novembre 2011, n. 6309

Consorzio volontario tra Comuni ed esercizio del diritto di recesso da parte di un Ente membro:

  1. trattasi di rapporto paritetico in cui non è in gioco alcun potere autoritativo; quindi difetto di giurisdizione G.A.
  2. non può esservi G.O. per le sole questioni patrimoniali; un’unica vicenda non si scinde ai fini di giurisdizione CC


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Inserito in data 02/12/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 30 novembre 2011, n. 6344

Il CdS chiarisce la revocazione di sentenza, ex art. 106 C.p.a. che rinvia all’art. 395 n. 5 c.p.c.:

  1. la contrarietà, cui la norma richiama, deve sussistere rispetto ad un precedente avente forza di giudicato tra le parti
  2. occorre, però, a pena di irrevocabilità nuova pronuncia, che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e oggetto CC


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Inserito in data 28/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 25 novembre 2011, n. 321

Illegittima per violazione dell’art 3 Cost legge della regione Puglia, laddove riserva la direzione dei SerT al solo personale medico, con esclusione degli psicologi: preclusione irragionevole FT



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Inserito in data 28/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 25 novembre 2011, n. 320
  1. Illegittima norma della regione Lombardia che stabilisce il conferimento in proprietà di reti, .impianti e altre dotazioni del servizio idrico a società patrimoniali d’ambito a capitale pubblico;
  2. Art 113 co 13 TUEL abrogato per incompatibilità dall’art 23 bis co 5 del dl 112/2008 che stabilisce il principio che le reti sono di proprietà pubblica: il conferimento a società di diritto privato a capitale pubblico è vietato. Alla proprietà pubblica consegue il regime del demanio accidentale: divieto di cessione e mutamento di destinazione. Le reti degli enti pubblici territoriali rientrano tra i beni demaniali anche ex art 822 co 2 e 824 co 1 cc; lo conferma l’art 143 dlgs 152/2006;
  3. L’art 113 co 13 non ha ripreso vigore con l’abrogazione dell’intero art. 23-bis (dPR 113/2011);
  4. L’abrogazione tacita del comma 13 dell’art 113 preclude alla Regione la disciplina del regime della proprietà di beni del demanio accidentale di enti pubblici territoriali, materia ascrivibile all’ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato (art 117 co 2 lett l);
  5. Illegittima per violazione dell’art 3 Cost legge della regione Puglia, laddove riserva la direzione dei SerT al solo personale medico, con esclusione degli psicologi: preclusione irragionevole. FT


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Inserito in data 28/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 23 novembre 2011, n. 310

a) Art 55 L 69/2009, notifica eseguita direttamente dall’Avvocatura senza intermediazione dell’ agente notificatore, anche mediante il servizio postale: si applica al giudizio di costituzionalità:

b) Compatibilità della carica di Presidente e Assessore della Giunta provinciale e di Sindaco e Assessore di comuni del territorio regionale con quella di Consigliere regionale: illegittima la norma regionale in contrasto con il principio generale di non cumulo espresso dagli artt 65 dlgs 267/00 e 3 L 165/04;

c) Deroghe al principio del pubblico concorso (art 97 co 3 Cost.): illegittime norme regionali che trasferiscono alla Reg. Calabria dipendenti amministrativi di Azienda forestale soppressa e che prevedono la copertura di posti di qualifica dirigenziale vacanti nei ruoli della Regione tramite corso-concorso a cui possono partecipare i dipendenti regionali in possesso dei requisiti. Le deroghe trovano giustificazione solo laddove consentano il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa PA, purché circoscritte rigorosamente e subordinate ad accertamento di specifiche necessità della PA e a svolgimento di verifiche dell’attività svolta;

d) Norma regionale illegittima, viola la durata limite degli incarichi dirigenziali conferiti a soggetti esterni ai ruoli della PA conferente, stabilita dall’art 19 co 6 ter dlgs 165/01, norma statale in materia di ordinamento civile (art. 117 comma 2 lettera l Cost.);

e) Illegittimità di norme che prorogano i termini per la stabilizzazione di lavoratori precari: contrastano con le nome statali di coordinamento della finanza pubblica (contenimento della spesa);

f) Illegittime norme regionali che prevedono privilegi per enti pubblici, enti locali e consorzi che propongono iniziative energetiche da fonti rinnovabili: contrastano con il principio per cui la produzione di energia avviene in regime di libero scambio incompatibile con i privilegi pubblici. FT



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Inserito in data 28/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 23 novembre 2011, n. 309
  1. Legislazione regionale lombarda, ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione: l’intervento senza il vincolo della sagoma contrasta col dPR 380/2001 e con l’art 117 co 3 Cost.
  2. Lesiva dell’art 117 co 3 Cost. anche  la disposizione che qualifica come disciplina di dettaglio norme statali e prevede la disapplicazione della legislazione di principio in materia di governo del territorio (art 3 dPR 380/2001) che definisce le categorie di interventi edilizi. FT


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Inserito in data 27/11/2011
CORTE DEI CONTI, TERZA SEZIONE APPELLO, 15 novembre 2011, n. 765

Danno erariale per superamento dei consueti termini di chiusura procedimento autorizzatorio: il Pubblico Dipendente non incorre in colpa grave se prova la necessità di un’istruttoria articolata e complessa CC



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Inserito in data 27/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 novembre 2011, n. 6130

L’intervento del SSN non è equo a favore degli Ospedali pubblici e delle strutture a questi equiparate:

  1. La divergenza si giustifica in ragione della preminente tutela degli interessi della collettività cui i primi rispondono
  2. Il recupero debiti nelle strutture complementari spetta, pertanto, all’Ente proprietario e non alla mano pubblica CC


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Inserito in data 27/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 novembre 2011, n. 6194

Licitazione privata per appalto servizi pulizia locali – indetta nuova gara da parte dell’Amministrazione:

A. Essa non incorre né in violazione di legge né in eccesso di potere ove decida di non prorogare il contratto in corso

B. Tale principio, di derivazione comunitaria, induce all’esperimento di nuova procedura senza alcun onere motivazionale CC



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Inserito in data 27/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 25 novembre 2011, n. 322

Art. 245 cod. civ. Azione per il disconoscimento di paternità e relativo termine annuale:

  1. Illegittimità ove la norma non preveda, per l’incapace naturale, di sospendere il termine per l’avvio dell’azione
  2. Tale lacuna comporta, dato il tenore degli argomenti coinvolti, un indubbio vulnus ai parametri di cui artt. 3 e 24 Cost.
  3. La sospensione, infatti, prevista per l’infermo di mente, consente a questi una tutela maggiore:disparità di trattamento
  4. Violazione anche dell’art. 24 Cost. laddove, inevitabilmente, diverge il modus di tutelare situazioni personalissime CC


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Inserito in data 25/11/2011
CORTE DI GIUSTIZIA, TERZA SEZIONE, 24 novembre 2011, C-379/10

È contraria al diritto dell’Unione europea la previsione di cui all’art. 2, commi 1 e 2, legge n. 177/88, che limita la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado alle sole ipotesi di dolo o colpa grave ed esclude tale responsabilità, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o di valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale medesimo. DT



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Inserito in data 24/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, sentenza 16 novembre 2011, n. 20

 

a) Art 13 Cpa, competenza territoriale inderogabile del TAR: la delibera del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (organo nazionale) ha efficacia sull’intero territorio nazionale;

b) Si radica la competenza del TAR Lazio Roma, senza che rilevi il criterio della sede di servizio ;

c) Se il ricorso introduce più controversie, una spettante ad un TAR periferico ed altra al TAR Lazio va conservata l’unità del giudizio dianzi al TAR Lazio che conosce atti ad efficacia ultraregionale;

d) Il Cpa non detta una regola per il mutamento di competenza territoriale per ragioni di connessione;

e) Assume portata generale il principio della concentrazione del giudizio dinanzi allo stesso giudice che realizza i valori della effettività della tutela e della ragionevole durata del processo;

f) L’esigenza di unitarietà è confermata dall’art 32: è sempre possibile il cumulo di domande connesse. FT



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Inserito in data 24/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2011, n. 308

 

a) Norme della regione Molise che individuano aree inidonee alla produzione di energie rinnovabili: Illegittimo il divieto arbitrario, generalizzato e indiscriminato di localizzazione degli impianti, senza un’istruttoria che ponderi gli interessi coinvolti, prevista dalle linee guida nazionali;

b) La Regione non ha osservato lo svolgimento del procedimento prefigurato dalla normativa statale che costituisce corretta proiezione delle competenze costituzionali rilevanti nel settore FT



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Inserito in data 24/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 11 novembre 2011, n. 306

 

Art 2 co 5 e 10 bis d.lgs 286/98 (TU immigrazione) e 331 co 4 cpp: manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativamente alla parte in cui non prevedono che, in caso di azione giudiziaria a tutela di diritti fondamentali, il giudice adito sia tenuto alla denuncia al PM o alla segnalazione all’autorità amministrativa competente per l’espulsione FT



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Inserito in data 24/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2011, n. 305

 

Inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dal PdCM in merito ad una delibera della Giunta regionale veneta che deroga al regime di cacciabilità degli uccelli migratori: il conflitto comprende ogni ipotesi in cui dall’illegittimo esercizio di un potere consegua  la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate ad altro soggetto; ma l’atto deve essere idoneo a recare pregiudizio alla sfera di competenze vantate dal ricorrente.

 Se la lesione si esaurisce nella mera erronea applicazione di legge manca la materia del conflitto FT



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Inserito in data 23/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 novembre 2011, n. 6114

 

Giudizio di non  idoneità prove orali concorso notaio: legittimo in presenza di insufficienze anche nel caso di accertata illogicità di alcune carenze sindacabili dal g.a.  SL



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Inserito in data 23/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 novembre 2011, n. 6107

 

Procedimento di assegnazione sedi vincitori concorso pubblico: non è prevista la previa consultazione sindacale. SL



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Inserito in data 23/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 18 novembre 2011, n. 6103

 

Licenziamento annullato: é automatica la “restitutio ad integrum” anche ai fini economici. SL



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Inserito in data 23/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, PARERE 18 novembre 2011, n. 4318

 

a) Nuove tabelle sul danno biologico: rischiano di essere disapplicate dai giudici civili perché contrarie ai principi fissati dal legislatore;

b) I nuovi coefficienti previsti anche per il caso di lievi lesioni fisiche porterebbero, di fatto, alla configurazione di una sola tabella risarcitoria;

c) I coefficienti moltiplicatori del punto, per i danni gravi, crescerebbero in relazione alla gravità del danno in una misura non più che proporzionale, come invece la legge impone. SL



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Inserito in data 19/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 10 novembre 2011, n. 301

 

Manifestamente infondata la q.l.c. art. 250 c.c.,sollevata riguardo agli artt. 2, 3 e 24 Cost.:

a)       La Consulta, in base a precedenti e alla Convenzione di NY sui diritti del fanciullo, valuta parte il minore di anni sedici;

b)       Come in materia adottiva per analogia art. 336 c.c., anche in tema di riconoscimento questi può essere sentito;

c)       Interpretazione costituzionalmente orientata  art. 250 vuole che il Giudice valuti e nomini rappresentante processuale. CC



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Inserito in data 19/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 novembre 2011, n. 6078

 

Rimborso quota di tariffa non dovuta per il servizio di depurazione, post sentenza Consulta n. 335/08:

a)   L’accesso agli atti va compiuto nei riguardi del gestore servizio idrico integrato, quale gestore di pubblico servizio;

b)   Non è l’ATO, come conferma il CdS evocando l’art. 23 L. 241/90, che ha formato e detiene stabilmente il documento CC



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Inserito in data 19/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 novembre 2011, n. 6077

 

Improcedibilità del giudizio per cessazione materia del contendere se viene meno il silenzio su autorizzazione richiesta:

P.A. sostiene, però, spese giudizio poiché ha rilasciato l’autorizzazione dopo notifica dell’appello avverso silenzio CC



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Inserito in data 19/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 novembre 2011, n. 6072

 

Revoca dell’aggiudicazione - DURC negativo per mancata sanatoria di un debito, come risultante da sentenza:

a)   questa, passata in giudicato, fa stato non solo circa la persistenza del debito, ma anche della carente affidabilità

b)   anche in caso di voluta e tentata regolarizzazione DURC, la sentenza in esso statuita vincola la stazione appaltante CC



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Inserito in data 18/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, sentenza 14 novembre 2011, n. 19

a) Le circolari pur se dirette ad organi periferici hanno indubbia rilevanza esterna quando non siano espressione di mera attività interpretativa. Se incidono negativamente sull’atto individuale sono congiuntamente impugnabili insieme all’atto applicativo;

b) La competenza territoriale delle circolari viene, pertanto, attratta a quella degli atti delle autorità centrali (Tar lazio). SL



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Inserito in data 18/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 novembre 2011, n. 5997

La nuova domanda di sanatoria concretizza un comportamento implicito di adesione al precedente operato del Comune esplicatosi nei provvedimenti impugnati, conseguentemente il ricorso proposto avverso questi ultimi deve  essere dichiarato improcedibile. SL



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Inserito in data 18/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 novembre 2011, n. 5998

Errore di fatto ai fini revocatori: falsa rappresentazione della realtà processuale.

- non deve mai coinvolgere l’attività valutativa del giudice;

- non deve rappresentare un punto controverso sul quale è intervenuta la   pronuncia del giudice(c.d. errore sul giudizio);

-deve essere rilevabile con immediatezza ex actis;

-deve essere legato da un nesso di causalità necessaria  di carattere logico- giuridico con la pronuncia del g.a.). SL



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Inserito in data 18/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 14 novembre 2011, n. 6010

L’autonomia dell’ordinamento sportivo non sussiste allorché siano coinvolte situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico. SL



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Inserito in data 15/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 novembre 2011, n. 294
  1. Esigenza di uniformità (art 3,51 Cost):i principi della L 165/04 vincolano il legislatore regionale;
  2. Obbligatorio il parallelismo tra cause di ineleggibilità sopravvenuta e cause di incompatibilità;
  3. Illegittima L Reg Sicilia 29/51 ove non prevede incompatibilità tra l’ufficio di deputato regionale e l’ufficio di presidente/assessore provinciale, a tutela di buon andamento ed imparzialità;
  4. Illegittimo art 10 sexies, ove prevede per l’opzione il termine di 10 gg dal passaggio in giudicato;
  5. Il dies a quo vanifica il divieto consentendo il cumulo di cariche fino a un momento indeterminato;
  6. Le norme statali per i consiglieri regionali (L 154/81) e gli amministratori locali (d.lgs. 267/00) prevedono che il termine di 10 gg per l’opzione decorre dalla notifica del ricorso. FT


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Inserito in data 15/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 10 novembre 2011, n. 299
  1. Regola del pubblico concorso (art 97 Cost):  deroghe legittime solo se funzionali al buon andamento laddove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico che le giustifichino;
  2. Compatibili le condizioni di accesso intese al consolidamento di pregresse esperienze lavorative;
  3. Intollerabile la riserva integrale dei posti disponibili, salvo circostanze eccezionali. FT


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Inserito in data 15/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2011, n. 303
  1. Questioni di legittimità costituzionale dell’art 32 commi 5, 6, 7 L 183/2010 (cd Collegato lavoro);
  2. Conversione contratto a tempo determinato, risarcimento per illegittima estromissione alla scadenza FT
  3. La forfetizzazione dell’indennità non viola l’art 3 Cost, sotto il profilo dell’irragionevolezza FT
  4. L’indennità integra la garanzia della conversione in un contratto di lavoro a tempo indeterminato  e copre solo il periodo intermedio dalla scadenza del termine alla sentenza, dopo la quale il datore è obbligato alla riammissione in servizio, pena lo svuotamento di tutela;
  5. L’indennità non può crescere col tempo sino a valori imprevedibili: cade l’ipotesi di sproporzione;
  6. Irrilevanti gli inconvenienti indipendenti da sperequazioni volute dalla legge (durata processi);
  7. La novella è applicabile a tutti i giudizi in corso, nel merito ed in sede di legittimità;
  8. Nessuna violazione art 4 Cost: misure proporzionate ed effettive contro abusivo ricorso al termine;
  9. Nessuna violazione dell’art 24 Cost: intatta la tutela e le attribuzioni dell’autorità giudiziaria;
  10. Rispettato il veto al legislatore (art 6 CEDU) di interferire nell’amministrazione della giustizia;
  11. Nessuna violazione dell’art 111 Cost: non viene privilegiata una parte, tanto meno pubblica. FT

 



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Inserito in data 15/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 11 novembre 2011, n. 304
  1. Legittima la devoluzione al giudice civile della querela di falso nel processo amministrativo;
  2. Prevale esigenza di certezza erga omnes e di una sede e un modello processuale unitari rispetto a quella di concentrazione dei singoli giudizi: consentendo l’accertamento incidentale da parte del GA, l’atto pubblico non farebbe più fede “fino a querela di falso”;
  3. Nessuna violazione dell’art 76 Cost: l’omissione del legislatore delegato che non fa in parte uso della delega conferitagli non determina violazione del parametro costituzionale evocato. FT


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Inserito in data 12/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 novembre 2011, n. 5940

Non occorre conoscere la motivazione del provvedimento, se ne è immediatamente percepibile la lesività:

  1. Il CdS conferma la scarsa importanza di conoscere integralmente il provvedimento se esso comprime i diritti del singolo
  2. Occorre, quindi, contemperare il diritto di difesa con rispetto dei termini decadenziali, a pena di ricorso tardivo
  3. Dies a quo decorre dalla conoscenza atto, configuratasi o nella comunicazione o, in assenza, nel percepirne la gravità
  4. La motivazione, se conosciuta successivamente, può sempre essere impugnata in seguito con motivi aggiunti CC


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Inserito in data 12/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 11 novembre 2011, n. 5956

Non è eccesso di potere se l’Amministrazione rigetta istanze di finanziamenti da parte di imprese: questi, se valutati come aiuti di Stato dall’UE, non sono cumulabili con altre forme agevolative di diversa provenienza CC



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Inserito in data 12/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 7 novembre 2011, n. 293

Illegittimità costituzionale dell’art. 11, commi 13 e 14 D.L. n. 78/10 – Sanità pubblica:

  1. Il singolo, la cui salute è irreversibilmente danneggiata, ha diritto al risarcimento ex art. 2043 c.c. e a indennizzo
  2. Questo, diversamente dalla suddetta norma, deve essere costantemente rivalutato sulla base del tasso inflattivo
  3. La menomazione al bene salute è fin troppo grave, alla luce del combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost e 25 CEDU CC


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Inserito in data 12/11/2011
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA, 11 novembre 2011, n. 812

Materia elettorale: soglia di sbarramento del 5% ex art. 4 comma 3bis L. R. 35/97 per assegnazione seggi

  1. Il Legislatore siciliano ha inteso promuovere la candidatura di soggetti già aventi un certo seguito elettorale
  2.  Anche per attribuire premio di maggioranza non si computano voti dati a liste che, ex comma 3-bis art. 4, non hanno seggi CC


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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 novembre 2011 n. 5888

DASPO: Divieto di accesso agli impianti sportivi siti sul territorio nazionale:

  1. Sanzionabili le condotte non solo realizzate “in occasione” di manifestazione sportiva;
  2. anche quelle poste in essere “a causa” della manifestazione sportiva stessa CC


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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 8 novembre 2011 n. 5889

Servizi aeroportuali. ENAC responsabile per condotta dilatoria del gestore in caso di tardive indicazioni:

  1. Violazione standards minimi di sicurezza controllo bagagli da stiva e tardiva indicazione del relativo regime tariffario
  2.  Grava sull’Amministrazione prova proprio errore scusabile; opera presunzione semplice di colpevolezza ex art. 2727 c.c. CC


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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 novembre 2011 n. 5857

E’ inammissibile la domanda di revocazione fondata sull’erroneo apprezzamento delle risultanze del fatto stesso. SL



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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 4 novembre 2011 n. 5856

Rinnovazione della notifica: è ordinata dal g. a. solo se l’esito negativo dipende da causa non imputabile al notificante. SL



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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2011 n. 5740

Difformità tra bando e lettera d’invito: prevale il primo quale lex specialis della procedura concorsuale. È idonea in concreto a pregiudicare l’applicazione imparziale ed uniforme delle regole nei confronti di tutti i partecipanti. SL



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Inserito in data 09/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 ottobre 2011 n. 5743

L’inquadramento dei p.i. in una determinata qualifica può aver luogo solo qualora sussista in pianta organica il relativo posto disponibile.

Non è possibile accedere alla qualifica di dirigente pubblico in forza del giudicato azionato. SL



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Inserito in data 07/11/2011
Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2011 sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e familiare

Il Parlamento sottolinea la necessità di uno sviluppo uniforme dei sistemi di ADR in tutta l'Unione europea, richiamando l'attenzione sulla "conciliazione paritetica" italiana quale esempio di migliore prassi ed evidenziando il ruolo cruciale che tali sistemi rivestono non solo in materia di consumo, ma anche nelle controversie familiari o che vedono opposte PMI e nell'ambito della libertà di stampa e dei diritti della personalità. DT




Inserito in data 06/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 27 ottobre 2011

Da rimuovere insegna pubblicitaria apposta senza previo titolo abilitativo in loco legato a vincolo CC



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Inserito in data 06/11/2011
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIANA, 24 ottobre 2011, n. 683

Pubblico incanto per appalto:dispensa dalla gara per divario tra quanto dichiarato e le attestazioni CC



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Inserito in data 06/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 28 ottobre 2011, n. 286

Art 17 co 30 ter L 102/09: infondata questione di legittimità in relazione agli artt 2-3-24-97 Cost.;

L’azione di risarcimento per danno all’immagine della PA è esercitabile verso il dipendente solo in caso di sentenze irrevocabili di condanna per delitti contro la PA (art 314 ss cp);

Non è irragionevole non estenderla a condotte non costituenti reato o costituenti reato diverso;

La tutela dei diritti dei soggetti collettivi  può non essere la stessa delle persone fisiche;

La garanzia dell’ art 24 Cost opera entro i confini del contenuto del diritto stabiliti dalla legge;

Correlazione tra efficacia, efficienza e imparzialità che conformano all’interno l’azione della PA e la loro proiezione esterna: adeguata la tutela assicurata dal legislatore. FT



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Inserito in data 06/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 28 ottobre 2011, n. 284

Art 10 co 6 bis dPR 115/02, contributo unificato nei giudizi di opposizione a sanzione amministrativa: questione di legittimità in relazione ad art 3-24-113 Cost. inammissibile per difetto di rilevanza, non è stato chiarito se il contributo fosse stato pagato o meno FT



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Inserito in data 06/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 28 ottobre 2011, n. 280

Art 16 L Reg Piemonte 18/86 dichiarato illegittimo in relazione agli artt 119 e 23 Cost., in quanto istituisce un tributo in mancanza di una legge dello Stato che lo consenta;

Contributo dovuto dal gestore di un impianto di trattamento di rifiuti: è un tributo perché consiste in una prestazione doverosa, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti, ed è collegata alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante;

Ai sensi del previgente art 119, la potestà legislativa tributaria regionale non è esercitabile in mancanza di una legge statale che definisca gli elementi essenziali del tributo. FT



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Inserito in data 06/11/2011
CORTE COSTITUZIONALE, ORDINANZA 28 ottobre 2011, n. 273

Infondate questioni di legittimità costituzionale dell’art 23 co 5 L 186/82 in relazione all’art 3 Cost.: l’anzianità acquisita come magistrato TAR, dopo la nomina a consiglieri di Stato, è conservata solo dai primi referendari e referendari TAR in servizio alla data del 12 maggio 1982;

Infondati i profili di irragionevole discriminazione nei confronti dei consiglieri di Stato che alla data del 12 maggio 1982 non erano in servizio come referendari o primi referendari di TAR. FT



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Inserito in data 03/11/2011
CONSIGLIO DI STATO, ordinanza 20 ottobre 2011, n. 4635

Necessario ripetere la gara nel caso di illegittima esclusione di un concorrente accertata dopo l'esame delle offerte qualora sia necessario l'accertamento discrezionale. SL



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Inserito in data 28/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 24 ottobre 2011, n. 5695

Atti di indirizzo ed atti di gestione: il Sindaco non può far parte della Commissione di edilizia urbana.SL

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Inserito in data 28/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 24 ottobre 2011, n. 5696

Ricorso inammissibile per genericità dei motivi ove il giudice non sia in grado di comprendere petitum e causa petendi.SL

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Inserito in data 28/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 24 ottobre 2011, n. 5699

Ricorso silenzio- inadempimento: inammissibile nel caso di mancato avvio delle procedure di concertazione in materia di p.i. SL

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Inserito in data 25/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 ottobre 2011, n. 5595

Art 63 d.lgs. 165/01: sui rapporti di lavoro pubblico privatizzati la giurisdizione è del GO, restano devolute al GA le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione: una volta avvenuta la nomina, la giurisdizione è del GO (ritardi nell'adozione; questioni economiche). FT



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Inserito in data 25/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 ottobre 2011, n. 5638 Soggetti onerati della dimostrazione dell'assenza di fattori pregiudizievoli ex art. 38 d.lgs. 163/06: per le società di capitali solo ad amministratori muniti di poteri di rappresentanza e direttore tecnico, unici in grado di determinare in concreto le scelte imprenditoriali. Vietate applicazioni estensive. FT

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Inserito in data 25/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 ottobre 2011, n. 5639 Ratio art. 46 d. lgs. 163/06:
a) contemperamento tra favor partecipationis e par condicio tra i concorrenti;
b) evitare che l'esito sia alterato da carenze formali nella documentazione comprovante i requisiti.

La P.A. dispone la regolarizzazione se gli atti tempestivamente depositati in sede di gara contengono indizi di sussistenza dei requisiti di partecipazione. Differente l'attività del giudice: egli può indagare aspetti controversi nel procedimento, ma non integrare la mancante istruttoria. FT


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Inserito in data 25/10/2011
CORTE COSTITUZIONALE, 21 ottobre 2011, n. 277

Artt. 1, 2, 3, 4 L. 60/1953: costituzionalmente illegittimi ove non prevedono l'incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con più di 20.000 abitanti. FT



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Inserito in data 23/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ IV, 20 ottobre 2011, n. 5633

Correzione scritti per Concorso Notaio: carenza d'istruttoria se il Giudice evita di stimare giudizi resi CC

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Inserito in data 23/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 ottobre 2011, n. 5634

Inammissibilità gravame atto presupposto non consente quello atto consequenziale per vizi dal primo nascenti CC

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Inserito in data 23/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 ottobre 2011, n. 5660

Pubblico dipendente definitivamente condannato:P.A. deve emolumenti previo defalco tempo proprio della pena CC

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Inserito in data 23/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 21 ottobre 2011, n. 5663

Occupazione sine titulo di alloggio di edilizia residenziale pubblica – Decreto di rilascio:

A)   Anche in materia di edilizia popolare vige l'ordinario riparto di giurisdizione fondato sulla posizione soggettiva;

B)   Si conferma, quindi, la potesta iudicandi del G.O., poiché prevale il diritto soggettivo al mantenimento alloggio CC

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Inserito in data 21/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 ottobre 2011, n. 5619

Affidamento servizio igiene pubblica: causa di esclusione la mancata sottoscrizione dell'offerta di gara

A) La sigla è richiesta dal disciplinare di gara al solo fine di garantire la corretta autenticità ed integrità dell'offerta;

B) Nessuna discrezionalità dell'impresa per derogare al richiesto formalismo, a tutela della parità tra i candidati. CC


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Inserito in data 21/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 ottobre 2011, n. 5623

Diniego domanda accesso agli atti: infondata q.l.c. dell'art. 95, comma 6, c.p.a., per eccesso di delega

A)         Occorre patrocinio da parte di un avvocato abilitato alle giurisdizioni superiori, a garanzia del diritto alla difesa

B)          Obbligatorietà assistenza tecnica, stante la natura meramente pratica dell'accesso, relativo all'ostensibilità di atti CC

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Inserito in data 19/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 13 ottobre 2011, n. 18

Interessi legali e rivalutazione: calcolo separato sull'importo nominale del credito retributivo;

Escluso il computo di interessi e rivalutazione monetaria sulla somma dovuta quale rivalutazione;

Escluso riconoscimento di altri interessi e rivalutazione sulla somma dovuta a titolo di interessi FT

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Inserito in data 19/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 18 ottobre 2011, n. 5571

Diritto di accesso ad atti d'esecuzione del contratto tra PA e ATI (progetto definitivo Superstrada);

Eventuali carenze del progetto o inadempienze nella redazione non attengono all'azione amministrativa: manca l'interesse diretto, concreto e attuale alla conoscenza del progetto. Carente anche il genuino interesse ambientale che giustifica l'informativa ambientale (d.lgs. 195/2005);

Inammissibile l'uso strumentale della disciplina per finalità del tutto diverse (economico/patrimoniali) FT

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Inserito in data 18/10/2011
CORTE COSTITUZIONALE, 5 ottobre 2011, decisione in tema di giudizi in materia elettorale La Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla sospensione del giudizio amministrativo in caso di querela di falso.

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Inserito in data 18/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 ottobre 2011, n. 5533

Cessazione materia del contendere: decisione nel merito, non ha valenza meramente processuale;

Contenuto: accerta la piena soddisfazione della pretesa da parte di successive determinazioni della PA;

Improcedibilità, criteri rigorosi: può tradursi nell'elusione dell'obbligo di pronunciare sulla domanda;

Esclusa se residuano possibili pregiudizi o ulteriori iniziative attivate o attivabili dall'interessato FT

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Inserito in data 18/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 ottobre 2011, n. 5534

Strumenti urbanistici: scelte discrezionali insindacabili, salvo error facti, abnormità e irrazionalità;

Mutamento destinazione: necessaria specifica motivazione solo se lede posizioni differenziate. FT

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Inserito in data 18/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 ottobre 2011, n. 5537

Opere abusive realizzate su immobile sito in area assoggettata a vincolo idrogeologico e paesaggistico:

Situazione di inedificabilità assoluta ex art 33 L 47/85, non è rilasciabile il titolo in sanatoria FT

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Inserito in data 18/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 14 ottobre 2011, n. 5539

Contributo concessorio ex art 6 L 10/77: dovuto per le trasformazioni edilizie produttive di vantaggi;

Il cambio destinazione non autorizzato (senza opere) da commercio all'ingrosso a commercio al minuto è rilevante: comporta passaggio tra categorie funzionalmente autonome ed aumento del carico urbanistico;

Esonero dal costo di costruzione: non concerne variazioni utilizzabili a servizio di attività commerciale FT

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Inserito in data 16/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III. 13 ottobre 2011, n. 5532 Sopravvenuta carenza di interesse ove,nelle more, Amministrazione conformi l'azione alla prima pronuncia CC

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Inserito in data 14/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 ottobre 2011, n. 5519

Si al giudizio di opinabilità: discrezionalità tecnica AEEG che fissa criteri per cogenerazione calore CC

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Inserito in data 14/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 ottobre 2011, n. 5524

GdF: conferma al rilievo pregresse sanzioni disciplinari per l'inidoneità all'avanzamento di carriera CC

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Inserito in data 14/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 ottobre 2011, n. 5531

Affidamento lavori assetto idrogeologico ambientale: stazione appaltante esclude per grave inadempimento

A)                 D.u.r.c. negativo all'atto di presentare domanda;si esclude impresa interessata senza alcuna valutazione sulla gravità;

B)                 Non rileva un adempimento tardivo;l'impresa deve avere una regolarità contributiva costante per tutta la procedura CC

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Inserito in data 13/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5394

Nel caso di a.t.i. costituende, la cauzione provvisoria a corredo dell'offerta deve essere intestata a tutte le associate. SL

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Inserito in data 13/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 ottobre 2011, n. 5498

Esito valutazione anomalia dell'offerta: deve essere puntualmente motivato anche se positivo. SL

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Inserito in data 13/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 ottobre 2011, n. 5497

Il servizio di tesoreria è in via generale un servizio gratuito, esente da versamento in  sede di gara. SL

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Inserito in data 13/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 ottobre 2011, n. 5502

La regola dell'ordinario sviluppo della progettazione su tre livelli progressivi di specificazione non è inderogabile. SL

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Inserito in data 10/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 ottobre 2011, n. 5496 Possibile l'avvalimento anche se il bando richiede un capitale minimo superiore a quello posseduto;

La solvibilità dell'affidatario della riscossione è comunque assicurata dall'impresa ausiliaria. Essa si impegna anche verso la PA a mettere a disposizione le risorse di cui l'affidatario sia carente. FT


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Inserito in data 10/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 ottobre 2011, n. 5495 Art 14 co 5 d.lgs. 164/2000, gare per la distribuzione del gas naturale: divieto di partecipazione per società che gestisce servizi pubblici locali in affidamento diretto o senza procedura a evidenza pubblica;

Il divieto si applica pure alla gara per l' individuazione del promotor nel modello del project financing. FT


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Inserito in data 07/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V,  5 ottobre 2011, n. 5449

Istanze contributi per la ricostruzione ex L. 219/81: rifiuto del Dirigente conclude il procedimento CC

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Inserito in data 07/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI,  6 ottobre 2011, n. 5482

Sospensione dalla qualifica ippica; non è errore tecnico se è la stessa struttura a ripetere le analisi:

a)       I nuovi controlli non impugnano i primi, ma sono solo mezzo di confronto per maggiore certezza scientifica dell'esito

b)       Quale riesame, può parteciparvi il privato interessato:piena garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa CC

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Inserito in data 07/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI,  6 ottobre 2011, n. 5484

È il contratto vigente all'instaurazione del rapporto di lavoro che fissa l'appartenenza alle fasce CC

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Inserito in data 07/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 6 ottobre 2011, n. 5485

Diniego approvazione piano di lottizzazione di iniziativa privata; questo deve rispettare il PRG:

a)       Giunta e Consiglio comunale non possono discostarsi dallo strumento generale, altrimenti è eccesso di potere

b)       Ogni valutazione, pur spettando agli Organi comunali, deve conformarsi ad esso in vista di una maggiore conformità CC

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Inserito in data 06/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 settembre 2011, n. 5412

Anche in caso di totale assenza di concessione edilizia è applicabile la sanatoria ex art. 12 l.n.47/85. SL

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Inserito in data 06/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5393

La diffida è un atto stragiudiziale che deve essere sottoscritto direttamente dalla parte o da un procuratore speciale. SL

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Inserito in data 06/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5394

Non vi è responsabilità “da contatto” della P.a. nel caso in cui sanzioni il debitore per inadempimento senza preventiva escussione della fideiussione. SL

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Inserito in data 06/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5403

Il diritto di riscatto deve essere esercitato con preavviso nelle concessioni di servizi già affidati e non ancora scaduti. SL

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Inserito in data 03/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 settembre 2011, n. 5384

1. Dimissioni pubblico dipendente: irrevocabili con l'accettazione della PA, che non ha natura recettizia;

2. Accettazione, carattere costitutivo ed effetto estintivo: le dimissioni ne sono solo il presupposto;

3. Irrilevante revoca dimissioni, la PA non ha obbligo di provvedere: si è già prodotto l'effetto estintivo;

4. Non c'è un diritto all'aspettativa per motivi di famiglia, solo un interesse valutabile discrezionalmente. FT

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Inserito in data 03/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5391

1. Opposizione di terzo: legittimato non solo chi aspira allo stesso vantaggio specifico ottenuto dal ricorrente vittorioso, ma anche chi difende un bene inciso negativamente dalla sentenza opposta;

2. Annullamento diniego permesso di costruire: legittimati i confinanti o residenti nell'area edificata;

4. Ricorso al giudice dell'ottemperanza contro gli atti commissariali: legittimati anche soggetti terzi. FT

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Inserito in data 03/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5406

1. Recesso dell'impresa dal raggruppamento  durante la procedura di gara: non sana le cause di esclusione;

2. Il recesso eluderebbe le norme sul possesso dei requisiti alla scadenza della presentazione delle domande FT

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Inserito in data 03/10/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 settembre 2011, n. 5410

1. Revisione patente ex art. 126 bis, comunicazione variazioni di punteggio da parte dell'Anagrafe nazionale;

2. La comunicazione non è presupposto del provvedimento sanzionatorio: lo è solo la decurtazione dei punti;

3. Mancata comunicazione: mera irregolarità. Unico effetto lo spostamento del termine per l'impugnazione. FT

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Inserito in data 30/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 settembre 2011, n. 5405 Impianti illuminazione pubblica: 
a) L'Ente pubblico può disporne il riscatto senza obbligo di previa determinazione indennizzo, spettante ad apposito Collegio arbitrale;
b) Non c'è sviamento di potere se l'Ente ingiunge riscatto impianti senza previa indizione di gara per l'affidamento, sempre successivo. CC
 


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Inserito in data 30/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 settembre 2011, n. 5411

Detenzione sostanze stupefacenti: non è illogico che l'Amministrazione decida di escludere il candidato dall'arruolamento CC

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Inserito in data 30/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 29 settembre 2011, n. 5417

No al rimborso di somme date come condono edilizio:prescrizione decennale del credito, dies a quo dal provvedimento di diniego CC

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 23 settembre 2011, n. 5355 Giudizi di avanzamento dei militari: connotati da un elevato tasso di discrezionalità, sono sindacabili dal g.a. solo nei casi di manifesta illogicità o sviamento.  SL

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 23 settembre 2011, 5346 Il termine decadenziale per l'impugnazione del permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza o dell'entità delle violazioni urbanistiche.  Detta piena conoscenza deve essere ancorata all'ultimazione dei lavori, oppure al momento in cui la costruzione realizzata rivela in modo certo ed inequivoco le essenziali caratteristiche dell'opera; lì dove cioè non si possono avere dubbi in ordine alla reale portata dell'intervento edilizio. SL

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 23 settembre 2011, n. 5347 Il piano attuativo di uno strumento urbanistico generale non può essere configurato come mera  conferma della precedente pianificazione generale: poiché adottato in tempi diversi e su presupposti non necessariamente identici. SL

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 23 settembre 2011, n. 5352 Concorsi pubblici: non esiste alcun “diritto” allo scorrimento della graduatoria  degli idonei.
L'esercizio di operare lo scorrimento di graduatoria è di norma sottratto al sindacato di legittimità del g.a., in quanto espressione di una funzione propria ed esclusiva di gestione dei pubblici uffici. SL


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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 settembre 2011, n. 5357 Delimitazione tra demanio marittimo e proprietà privata: la P.a. non esercita un potere autoritativo costitutivo, ma si limita ad accertare l'esatto confine demaniale. SL

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 settembre 2011, n. 5363 La responsabilità per pratica commerciale scorretta è estesa anche alla società originariamente titolare del servizio, se prima dell'intervenuta cessione del servizio, conosceva o avrebbe dovuto conoscere la condotta fraudolenta perpetrata in  danno deiconsumatori. SL

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Inserito in data 29/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 26 settembre 2011, n. 5366 Informativa antimafia: un rapporto familiare stretto con un soggetto appartenente alla malavita organizzata rappresenta un rilevante e concreto pericolo di infiltrazione mafiosa. SL

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Inserito in data 26/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 settembre 2011, n. 5279

ATI:  obbligo di presentazione di giustificazione preventiva ha solo funzione acceleratoria in caso di accertamento offerte anomale.

Non si varia composizione ATI, come presentata in sede di offerta, ove è legittimata ciascuna partecipante


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Inserito in data 26/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 21 settembre 2011, n. 5309 Ottemperanza: si al Commissario ad acta che esegue sentenza pur in diversità presupposti iniziali .

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Inserito in data 26/09/2011
LA RIFORMA DEI REATI A TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE

Il 22 settembre 2011 il CdM ha approvato il disegno di legge delega Galan per la riforma della disciplina sanzionatoria in materia di reati contro il patrimonio culturale: carcere e pene più severe per chi danneggia i beni culturali.

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Inserito in data 24/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 settembre 2011, n. 5153 ATI, subentro del mandante a mandatario colpito da interdittiva antimafia: giurisdizione ordinaria.

Stazione appaltante di natura privata,rapporto in fase successiva ad aggiudicazione/stipulazione.


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Inserito in data 24/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 settembre 2011, n. 5187 Cooptazione, requisiti:
a) imprese di modeste dimensioni tali da non potere far parte di ATI;
b) ammontare complessivo qualificazioni possedute almeno pari ad importo lavori ad essa affidati;
c) i lavori eseguiti dalle cooptate non devono superare il 20% dell'importo complessivo; 
d) Necessaria pure inequivoca dichiarazione di cooptazione.In assenza sussiste ATI orizzontale o verticale.


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Inserito in data 23/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 settembre 2011, n. 5087 Inibizione commercio itinerante,valutazione interesse pubblico:completezza istruttoria,razionalità.

Inibizione commercio itinerante :non necessaria puntuale individuazione singolo sito da proteggere.


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Inserito in data 23/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 14 settembre 2011, n. 5130 Informativa antimafia atipica: stazione appaltante valuta discrezionalmente informazioni ricevute.

Informativa antimafia tipica: la misura interdittiva deriva direttamente dall'atto del Prefetto.

Non necessario accertamento definitivo in sede penale sulla contiguità tra impresa e malavita.

Sufficiente la qualificata probabilità che si determini ingerenza nell'impresa della malavita.

Giudizio discrezionale sindacabile solo per illogicità/irrilevanza dei fatti sintomatici accertati.

Mera parentela: senza ulteriori elementi non basta a dimostrare il tentativo di infiltrazione.


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Inserito in data 22/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 settembre 2011, n. 5242 Edilizia abusiva: conferma revoca della confisca purché la modifica al PRG sia compatibile con le opere già esistenti sui suoli.

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Inserito in data 22/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 settembre 2011, n. 5259 Spetta all'appellante precisare gli atti impugnati e relativi vizi,  anche per quelli presupposti,ex artt. 24 e 111 Cost.

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Inserito in data 22/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 19 settembre 2011, n. 5265

Retroattività giurisprudenza comunitaria ex art. 2 cod.pen.: non esiste più il reato di permanenza irregolare nello Stato in violazione di provvedimento di espulsione ex art. 14 comma 5-ter T.U. 286/98. Annullati, quindi, provvedimenti amministrativi negativi dell'emersione del lavoro irregolare, adottati in base ad un fatto non  più visto come reato.

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Inserito in data 22/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 20 settembre 2011, n. 5289 Occupazione sine titulo: in ottemperanza si quantifica danno per risarcire compressione diritto dominicale.

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Inserito in data 19/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 settembre 2011, n. 5098

Congruità offerta anomala: valutazione tecnica sindacabile per illogicità manifesta o travisamento

Il procedimento di giustificazione mira a verificare la serietà dell'offerta, che resta immutabile.

Vietati aggiustamenti dell'offerta anomala in itinere attraverso rimodulazione di voci di costo.


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Inserito in data 19/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 settembre 2011, n. 5230

Espropriazione illegittima: realizzazione dell'opera pubblica non impedisce restituzione dell'area.

La realizzazione dell'opera pubblica non è titolo dell'acquisto idoneo a trasferire la proprietà.

Il proprietario nell'ottemperanza può chiedere anche  la restituzione e la riduzione in pristino.

Risarcibile non danno da perdita della proprietà ma da illegittima occupazione:illecito permanente.

Dies a quo: scadenza termine occupazione legittima/immissione in possesso in caso di annullamento.

Dies ad quem: acquisto legittimo della proprietà dell'area o restituzione da parte della PA.

Dichiarazione di illegittimità dell'art 43 DPR 327/01: non più consentita l'acquisizione sanante.

La PA può ottenere la proprietà solo acquisendo il consenso (contratto) o con un nuovo esproprio.


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Inserito in data 19/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 16 settembre 2011, n. 5253

Revocazione per errore di fatto: elimina ostacolo materiale fra la realtà e la percezione del giudice.

Revocazione per errore di fatto: inammissibile su un aspetto oggetto di analitico capo della sentenza.

Revocazione: non è errore di fatto quello che coinvolge l'attività valutativa dell'organo decidente.


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Inserito in data 19/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 16 settembre 2011, ord. coll. n. 5207

Accordi tra PA aggiudicatrici ove l'esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico.

Profili di contrasto del partenariato pubblico-pubblico coi principi europei  sulla concorrenza.


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Inserito in data 15/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 8 settembre 2011, n. 5054 Vige art. 37 R.D. 1706/38:Farmacista deve tuttora indicare data spedizione e prezzo anche per farmaci industriali .

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Inserito in data 15/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 settembre 2011, n. 5085 Mobilità volontaria esterna: il contratto è ceduto, quindi causa mera modifica soggettiva e, come tale, G.O.

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Inserito in data 15/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 settembre 2011, n. 5090 Edilizia: non si compensano le somme dovute a cambio di destinazione ed a sanatoria, perché distinte.

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Inserito in data 15/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 12 settembre 2011, n. 5112 Indetto nuovo concorso e diniego scorrimento pregressa graduatoria:P.A. deve adeguatamente motivare dato il pieno titolo degli idonei.

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Inserito in data 14/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV,  7 settembre 2011, n. 5025 Riconoscimento di idoneità alle funzioni direttive superiori dei magistrati ordinari: svincolato da automatismi, si deve tenere conto dell'intera vita professionale.

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Inserito in data 14/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 7 settembre 2011, n. 5028 Decadenza del permesso di costruire: automatica nel caso di sopravvenienza di nuove e contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che l'interessato abbia già dato inizio ai lavori.

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Inserito in data 14/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2011, n. 5068 Il tratto distintivo tra la concessione e l'appalto di servizi è dato dalla modalità della remunerazione e dall'assunzione dei rischi nella gestione del servizio.

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Inserito in data 14/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2011, n. 5066 La violazione del patto di integrità comporta per l'impresa che lo ha sottoscritto una responsabilità patrimoniale, che può concretarsi anche nell'escussione della cauzione provvisoria.

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Inserito in data 11/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 settembre 2011, n. 5050

Revoca della gara prima dell'aggiudicazione: legittima se motivata da risparmi economici per la PA.

Nuova valutazione interesse pubblico: attiene al merito insindacabile dell'azione amministrativa.

Norme sulla partecipazione: la democraticità va presidiata nella sostanza, non nella mera forma.

L'indennizzo ex art 21 quinquies L 241/90 presuppone la legittimità del provvedimento di revoca.

Indennizzo ex art 21 quinquies L 241/90: non occorre accertare la colpa d'apparato della PA.

Indennizzo ex art 21 quinquies L 241/90: solo danno emergente, incluse le spese di partecipazione.


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Inserito in data 11/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 8 settembre 2011, n. 5051

ATI mista: l'esecuzione della prestazione principale è riservata all'impresa mandataria.

ATI mista: la mandante non può accollarsi la responsabilità solidale per le prestazioni principali.


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Inserito in data 11/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2011, n. 5072 Giudizi con oggetto differente sul medesimo rapporto: effetti preclusivi del giudicato precedente.

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Inserito in data 11/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2011, n. 5074 Violazione procedimento elettorale e alterazione del voto: attendibilità e concretezza del nesso.

Nullità competizione elettorale: non basta mera ipotesi che la violazione abbia alterato il voto.

Nullità verbali operazioni elettorali, principi: strumentalità delle forme e raggiungimento dello scopo. 

Omessi adempimenti formali: mere irregolarità se non ledono autenticità, genuinità e correttezza.

Necessaria prova effettiva rilevanza per la correttezza, autenticità e genuinità delle operazioni.


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Inserito in data 11/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 9 settembre 2011, n. 5077

Retribuzione pubblico dipendente:prescrizione decennale solo se è la PA a determinare an e quantum.

Retribuzione pubblico dipendente:prescrizione breve del credito derivante da legge o CCNL.

La rivalutazione monetaria del credito retributivo è soggetta al termine breve di prescrizione.

Prescrizione retribuzione: esteso ad accessori solo atto interruttivo su iniziativa del lavoratore.

Riconoscimento di debito della PA: inidoneo ad interrompere la prescrizione degli accessori.

Pagamento sola sorte capitale: ha solo effetto estintivo, non è un riconoscimento degli accessori.

Pagamento sola sorte capitale in acconto o salvo conguaglio: c'è riconoscimento degli accessori.


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Inserito in data 09/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 settembre 2011, n. 4988 Periodo di prova: è eccesso di potere la risoluzione del rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità fisica.

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Inserito in data 09/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 3 giugno 2011, n. 5016 Emersione lavoro nero: legittimato ad agire il lavoratore straniero, vero portatore di interessi legittimi tutelabili ex lege 102/09.

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Inserito in data 09/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 6 settembre 2011, n. 5020 Riduzione distretti sanitari: la scelta del medico è assicurata nei limiti oggettivi dell'organizzazione dei servizi sanitari.

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Inserito in data 09/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V,  8 settembre 2011, n. 5047 Fornitura gas: per tutelare la concorrenza occorre individuare bacini di utenza anche senza relativi criteri di gara.

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Inserito in data 07/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 settembre 2011, n. 4896

Nei concorsi pubblici i requisiti generali che legittimano la nomina e l'instaurazione del rapporto di lavoro (quale il possesso del pertinente titolo di studio), devono permanere in costanza di servizio; pertanto, nell'ipotesi di mancanza successivamente accertata del requisito legale, l'amministrazione deve escludere dal concorso il candidato, con la conseguente cessazione del rapporto di servizio.In tal caso il provvedimento è atto interamente vincolato e come tale non assistito dalle garanzie partecipative e motivazionali previste dalla l. n. 241 del 1990 e può intervenire in qualunque momento successivo al reclutamento.

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Inserito in data 07/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 settembre 2011, n. 5002 Revoca gara d'appalto, quasi ultimata: diritto al risarcimento del danno, a titolo di responsabilità precontrattuale, per le ditte partecipanti.

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Inserito in data 07/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 5 settembre 2011, n. 5000 Non basta la parziale incompletezza di un messaggio pubblicitario per determinarne il carattere “ingannevole” (artt.20-21 Cod. Cons.). E' necessario che esso sia oggettivamente idoneo ad influire sulla libertà di scelta del consumatore.

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Inserito in data 07/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 agosto 2011, n. 4864 E' necessario il consenso dell'originario concessionario nel caso di subingresso nella concessione demaniale marittima.

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Inserito in data 05/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 agosto 2011, n. 4863 Cittadini comunitari residenti privi di documento italiano: votano nelle liste elettorali aggiunte.

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Inserito in data 05/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 settembre 2011, n. 4906 Contributo concessorio e oneri connessi: la determinazione è atto vincolato, non serve motivazione.

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Inserito in data 05/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 2 settembre 2011, n. 4910

Erronea declaratoria di improcedibilità: sentenza appellata va riformata senza rinvio in 1° grado.

Erronea declaratoria di improcedibilità: vizio del contenuto, non della procedura ex art. 35 L. TAR.

Reiterato scavalcamento di dipendente anziano con ineccepibile CV: non è sintomo di mobbing.


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Inserito in data 05/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 settembre 2011, n. 4960 Occupazione illegittima riconducibile all'esercizio di potere: azione risarcitoria alla giurisdizione esclusiva del GA .

Illegittimità art 43 dPR 327/01: serve comunque un accordo che trasferisca la proprietà alla PA .

Principi CEDU: diretta rilevanza nell'ordinamento ex art 117 co 1 Cost /art 6 F Trattato Maastricht.

La legge in diretto contrasto con la CEDU è incostituzionale per violazione dell'art 117 Cost. 

Canone interpretativo della legge italiana: unico significato coerente con la giurisprudenza CEDU.

Giurisprudenza CEDU: la PA non diventa proprietaria in assenza di titolo previsto dalla legge.

Ablazione sine titulo,art 1 all 1 CEDU:prescrizione risarcimento contraria a principio di legalità.

Trasformazione irreversibile dell'area/realizzazione dell'opera: non fa decorrere la prescrizione.

Ablazione sine titulo: perdura il diritto di proprietà e, perciò, l'illecito permanente della PA.


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Inserito in data 04/09/2011

SPECIALE PROCESSO CIVILE

Il 1 settembre 2011 è stato approvato dal CdM il D.Lgs. in tema di semplificazione dei riti: ricondotti essenzialmente a tre i procedimenti speciali attualmente esistenti.

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Inserito in data 03/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 settembre 2011, n. 4958 Sul procedimento di notificazione del ricorso.

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Inserito in data 02/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 giugno 2011, n. 3897 Tariffe aeree: obbligo di trasparenza e correttezza nelle procedure di acquisto on line.

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Inserito in data 02/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 agosto 2011, n. 4854 Autorizzazione paesaggistica:si all'annullamento se non motivata e riguardante vincoli conservativi.

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Inserito in data 02/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 30 agosto 2011, n. 4881 Variante al p.r.g.: scelta classificatoria rientra nella discrezionalità P.A. per buon uso territorio.

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Inserito in data 02/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 settembre 2011, n. 4903 Diniego concessione in sanatoria edilizia:non vi è silenzio-assenso se il condono è infedele con dolo.

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Inserito in data 02/09/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 1 settembre 2011, n. 4905 Gara di appalto:accesso differito possibile per eludere turbative prima del termine del procedimento .

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Inserito in data 31/08/2011
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIA, 28 luglio 2011, n. 509 Affidamento con offerta più vantaggiosa: rispetto dei tempi e modi imposti dal disciplinare di gara.

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Inserito in data 31/08/2011
CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA PER LA REGIONE SICILIA, 28 luglio 2011, n. 532 Calcolo buonuscita: conferma principio del "godimento attuale ed effettivo" delle voci necessarie al relativo computo,



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Inserito in data 31/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 agosto 2011, n. 4817 Polizza incerta: esclusione da gara per garantire par condicio tra i concorrenti. Recede il principio del favor partecipationis.

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Inserito in data 31/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 agosto 2011, n. 4818 Indennizzo per patologia da causa di lavoro: non si contesta il diniego se basato su atti presupposti non impugnati.

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Inserito in data 30/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 agosto 2011, n. 4807 Atto di conferma sopravvenuto: improcedibile l'impugnazione del precedente provvedimento.

Dipendente sottoposto a custodia cautelare: discrezionalità della PA nella sospensione. 

Art 91 DPR 3/57, motivazione sintetica sospensione: tutela della PA o gravità dei fatti contestati .



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Inserito in data 30/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 25 agosto 2011, n. 4809 Offerta riferita a diverso appaltante: se riguarda elementi essenziali non è mero errore materiale.

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Inserito in data 30/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 agosto 2011, n. 4812 La condanna penale non è automatica causa di esclusione dai concorsi: serve specifica valutazione.

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Inserito in data 30/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 agosto 2011, n. 4814 D.Lgs. 163/06-referenze bancarie:la richiesta di dichiararne il possesso non aggrava il procedimento.

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Inserito in data 30/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 26 agosto 2011, n. 4816 Ottemperanza, impugnabilità atti del commissario: ricorso ordinario se residua discrezionalità.

Impugnazione atti commissario: in assenza di discrezionalità decide il giudice dell'ottemperanza.


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Inserito in data 26/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 agosto 2011, n. 4801 Appalti - verifica di anomalia: mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione, a garanzia di una seria esecuzione del contratto.

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Inserito in data 26/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 agosto 2011, n. 4805 Non va interposta la comunicazione dell'avvio del procedimento all'assessore assoggettato alla revoca, la cui opinione è irrilevante secondo la normativa attuale.

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Inserito in data 26/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 25 agosto 2011, n. 4806 Devono svolgersi in seduta pubblica gli adempimenti concernenti la verifica dell'integrità dei plichi contenenti l'offerta, sia che si tratti di documentazione amministrativa che di documentazione riguardante l'offerta tecnica ovvero l'offerta economica. Il mancato rispetto del principio di pubblicità delle sedute della Commissione comporta l'invalidità derivata di tutti gli atti di gara.

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Inserito in data 25/08/2011
TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I-ter, 25 luglio 2011, n. 6637 Esclusione da una gara di appalto di un operatore economico per debiti con l'Agenzia delle entrate: carenze dei requisiti soggettivi.

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Inserito in data 25/08/2011
TAR VENETO, SEZ. II, 13 luglio 2011, n. 1219 Ammissibilità nel giudizio amministrativo della domanda di pronuncia costitutiva ex. art.2932 c.c., nel caso di inadempimento delle obbligazioni derivanti da una convenzione di lottizzazione.

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Inserito in data 25/08/2011
TAR LAZIO - LATINA, SEZ. I, 3 agosto 2011, n. 667 PUBBLICO IMPIEGO: è legittimo irrogare quale sanzione disciplinare una pena pecuniaria che prevede la decurtazione di 1/30 della mensilità dello stipendio nel caso in cui un pubblico dipendente si rechi in ufficio in ritardo.

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Inserito in data 25/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 26 luglio 2011, n. 4465 In caso di assoluzione sussiste il diritto al rimborso per le spese legali sostenute dal dipendente statale  nel giudizio disposto innanzi alla Corte dei conti per presunto danno erariale.

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Inserito in data 23/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 luglio 2011, n. 4502 Quote rosa: costituisce atto di alta amministrazione la nomina di un assessore regionale, avverso il quale è configurabile una legittimazione ad agire per violazione dell'art. 51 Cost.

Le norme-principio hanno anche valore programmatico e sono obbligatorie per il legislatore ordinario, quando le norme stesse sono contenute in una Costituzione di tipo rigido o in altre leggi formalmente costituzionali, e per l'Amministrazione, quando poste dalla legge o altri atti equiparati
.


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Inserito in data 23/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 19 agosto 2011, n. 4793 L'annullamento dell'aggiudicazione di una gara è legittimo quando è disposto in ossequio al divieto di aggiudicare più di un lotto alla stessa ditta, così come previsto nel bando.

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Inserito in data 23/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 22 agosto 2011, n. 4797 Accordi ex art. 11 legge n. 241/1990: l'esistenza di un potere discrezionale dell'Amministrazione non esclude che il giudice debba fare diretta applicazione anche della disciplina civilistica sull'inadempimento del contratto.

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Inserito in data 22/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 agosto 2011, n. 4707 Revocazione: termine dimidiato se la controversia rientra fra quelle di cui all'art. 119, comma 2, e 120 c.p.a.

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Inserito in data 22/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 agosto 2011, n. 4712 Vincolatività ed inderogabilità dell'art. 75 D. Lgs. 163/2006: non è consentito alla stazione appaltante fissare la cauzione in misura inferiore al 2% del valore complessivo dell'appalto.

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Inserito in data 22/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 5 agosto 2011, n. 4713 Esclusione obbligatoria in caso di violazioni anche solo formali del bando, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale circa la rilevanza dell'inadempimento da parte dell'Amministrazione.

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Inserito in data 22/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 5 agosto 2011, n. 4717 Interessanti chiarimenti sull'istituto della cessione volontaria.

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Inserito in data 22/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 17 agosto 2011, n. 4792 1. Art. 43 c.p.a.: ricorso per motivi aggiunti ammissibile anche quando le parti della nuova impugnazione non coincidono del tutto con quelle del ricorso iniziale.

2. Appalti: l'annullamento di una clausola non comporta la caducazione dell'intero disciplinare di gara.

3. Appalti: in caso di dichiarazione non veritiera la sanzione dell'esclusione costituisce la conseguenza necessaria.


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Inserito in data 19/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 10 agosto 2011, n. 4763 Concessione edilizia: previsioni urbanistiche e piano attuativo rilevano sine die anche dopo la scadenza.

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Inserito in data 19/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV,  10 agosto 2011, n. 4769 Diniego di accesso: non è possibile quando i documenti consentono la difesa in giudizio dell'istante.

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Inserito in data 19/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 10 agosto, n. 4772 Rimette alla Corte cost. questione di legittimità costituzionale dell'art. 78 L 133/2008 (disposizioni urgenti per Roma capitale).

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Inserito in data 19/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 agosto 2011, n. 4776 Ordini professionali: legittimati a difendere interessi collettivi e non di singoli iscritti.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE, 3 agosto 2011, n. 3189 Status di rifugiato: ammissibilità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica finchè rimedio generale.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 2 agosto 2011, n. 4565 Lavoro precario: la prescrizione quinquennale delle somme dovute al lavoratore decorre dalla fine del rapporto.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 agosto 2011, n. 4578 DIA: modulo di semplificazione procedimentale e non strumento di liberalizzazione. Contrasto con Adunanza Plenaria n. 15/2011.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 agosto 2011, n. 4583 Penale da inadempimento: necessario l'accertamento di un danno al pubblico interesse.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 2 agosto 2011, n. 4590 Illecita occupazione: la PA deve restituire il bene e liquidare il danno al 5% del valore venale per anno.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 9 agosto 2011, n. 4723 Ulteriori chiarimenti sulla teoria dei controlimiti.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 agosto 2011, n. 4749 Permanenza al lavoro: non è diritto soggettivo; la PA valuta discrezionalmente in uno con propria economia.

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Inserito in data 17/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 9 agosto 2011, n. 4754 Informativa antimafia atipica: atto non vincolante che deve essere adeguatamente motivato.

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Inserito in data 09/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 13 luglio 2011, n. 12 Infrastrutture ricomprese nella rete nazionale di gasdotti: competenza funzionale del TAR Lazio.

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Inserito in data 09/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 28 luglio 2011, n. 14 Reclutamento personale: lo scorrimento in graduatoria la regola,il nuovo concorso va motivato.

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Inserito in data 09/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 1 agosto 2011, n. 16 Imprese pubbliche, appalti estranei ai settori speciali: la giurisdizione del GO.

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Inserito in data 09/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 4 agosto 2011, n. 17 Societa' controllate da partecipate strumentali, settori preclusi: si applica l'art. 13 Decreto Bersani.

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Inserito in data 07/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 30 giugno 2011, n. 3934 Tardiva assunzione P.I: Risarcimento equitativo delle paghe fino al pieno collocamento in servizio.

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Inserito in data 07/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 30 luglio 2011, n. 4535 Riforma scuole secondarie Discrezionalita':validita' Regolamenti ministeriali pur in assenza di CNPI.

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Inserito in data 07/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 3 agosto 2011, n. 4629 Gara d'appalto:esclusione valida solo in caso di prova della negligenza e relativo congruo motivo.

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Inserito in data 07/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 agosto 2011, n. 4660 Mancato arruolamento: danno materiale risarcibile in via equitativa; quello morale solo se provato.

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Inserito in data 07/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 3 agosto 2011, n. 4661 Accesso agli atti:confermata legittimazione avverso silenzio solo in caso di interesse qualificato.

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Inserito in data 04/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 15 giugno 2011, n. 3648 Mobbing: l'ordine di servizio illegittimo non è sintomatico in sé di un disegno persecutorio.

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Inserito in data 04/08/2011
TAR LAZIO ROMA, SEZ. II, 3 maggio 2011, n. 3766 Impugnativa inutile al ristoro in forma specifica: l'omissione non esclude il risarcimento.

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Inserito in data 04/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 20 luglio 2011, n. 11 Graduatorie degli insegnanti: l'accertamento della giusta posizione spetta al Giudice Ordinario.

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Inserito in data 04/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 28 luglio 2011, n. 13 Gare d'appalto: la busta contenente l'offerta tecnica deve essere aperta in seduta pubblica.

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Inserito in data 04/08/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 29 luglio 2011, n. 15 SCIA: ammessa azione di accertamento prima della scadenza del termine ex art. 19 co. 3 L. 241/1990.

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Inserito in data 18/06/2011
CONSIGLIO DI STATO - ADUNANZA PLENARIA,  3 giugno 2011, n. 10 Sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti unilaterali prodromici ad una vicenda societaria, con cui un ente pubblico delibera di costituire una società, o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima.

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Inserito in data 08/06/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 24 maggio 2011, n. 9

In materia di pubblici concorsi le disposizioni normative sopravvenute in materia di ammissione dei candidati, di valutazione dei titoli o di svolgimento di esami di concorso e di votazioni non trovano applicazione per le procedure in itinere alla data della loro entrata in vigore, in quanto il principio tempus regit actum attiene alle sequenze procedimentali composte di atti dotati di propria autonomia funzionale, e non anche ad attività (quale è quella di espletamento di un concorso) interamente disciplinate dalle norme vigenti al momento in cui essa ha inizio. Pertanto, mentre le norme legislative o regolamentari vigenti al momento dell'indizione della procedura devono essere applicate anche se non espressamente richiamate nel bando, le norme sopravvenienti per le quali non è configurabile alcun rinvio implicito nella lex specialis, non modificano, di regola, i concorsi già banditi “a meno che diversamente non sia espressamente stabilito dalle norme stesse. 
Accanto a tale principio di carattere generale è altresì prevista la possibilità che, in via speciale e particolare, tali modifiche possano prodursi ad effetto di normative sopravvenute il cui oggetto specifico sia quel medesimo concorso, quando, evidentemente, il legislatore ragionevolmente ravvisi la necessità di un tale intervento.


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Inserito in data 11/05/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 28 aprile 2011, n. 2542 Il nuovo codice del processo amministrativo prevede expressis verbis all'art. 112, comma 1, lett. e), la proponibilità del rimedio dell'ottemperanza anche ai fini dell'esecuzione dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili.

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Inserito in data 11/05/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III, 5 maggio 2011, n. 2693

La possibilità di proporre nel giudizio di ottemperanza la “connessa domanda risarcitoria” costituisce pertanto una delle più significative innovazioni previste dal codice con riferimento al carattere cognitorio del processo di ottemperanza; la prevalente giurisprudenza precedente, infatti, era ferma nel ritenere inammissibile la proposizione di tale domanda risarcitoria ( cfr, fra le tante, Cons. St., Sez. V, 27 aprile 2006, n. 2374; Sez. IV, 21 ottobre 2004, n. 6914; Sez. IV, 1 febbraio 2002, n. 396).
Il codice ha invece recepito l'indirizzo minoritario che ammetteva la proposizione, in sede di ottemperanza, della domanda risarcitoria dei danni discendenti dall'originario illegittimo esercizio della funzione pubblica, a condizione, inter alios, che venisse introdotta davanti al TAR per evitare la violazione del principio del doppio grado di giudizio (cfr, Cons. St., sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3332).
Tale assunto è sostenuto sia dall'esegesi letterale che da quella storica, ed è conforme alla sistematica del codice stesso il cui articolo 112, nel prescrivere lo svolgimento del giudizio “nelle forme, nei modi e nei termini del processo ordinario”, risulta consentire la “connessione” fra la domanda di esecuzione e quella risarcitoria solo all'applicazione del rito ordinario improntato al principio generale del doppio grado di giudizio.


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Inserito in data 11/05/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 5 maggio 2011, n. 5

La nuova disciplina della competenza, ivi compresi i modi di rilevabilità dell'incompetenza di cui all'art. 15 c.p.a., è applicabile solo ai processi instaurati sotto la sua vigenza, e cioè a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (16 settembre 2010), dovendosi intendere "instaurati" i ricorsi per i quali a tale data sia intervenuta la prima notifica alle controparti con cui si realizza la "proposizione del ricorso" (cfr. Corte cost. 26 maggio 2005 n. 213).  
I
n caso di processi in relazione ai quali sia ancora in corso il termine per la proposizione del regolamento di competenza secondo la previgente disciplina (tenendo conto ovviamente anche della sospensione dei termini nel periodo feriale), in ossequio al disposto dell'art. 2 delle disposizioni transitorie di cui all'allegato III al c.p.a. si deve ammettere l'esercizio del potere nei limiti temporali a suo tempo previsti.


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Inserito in data 02/05/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 29 aprile 2011, n. 2559 Una corretta interpretazione della disposizione contenuta nella lettera b) del secondo comma dell'articolo 129 c.p.a. (a mente del quale il ricorso in materia elettorale deve essere notificato all'ufficio che ha emanato l'atto e alla Prefettura), coerente con la ratio acceleratoria cui è ispirato il giudizio elettorale, ne determina l'incompatibilità con l'applicazione della normativa generale in tema di notifica dei ricorsi alle amministrazioni e agli uffici statali presso la competente Avvocatura Distrettuale dello Stato: ciò sia in ragione della ristrettezza dei termini imposti dal legislatore (che mal si concilierebbe con le stesse esigenze di tutela e difesa delle decisioni degli uffici statali riguardanti l'esclusione delle liste dai procedimenti elettorali), sia dagli specifici compiti cui deve adempiere, proprio secondo il citato articolo 129 c.p.a., l'ufficio che ha emanato l'atto impugnato, quale, in particolare, il provvedere a rendere pubblico il ricorso mediante affissione di una copia integrale in appositi spazi all'uopo destinati sempre accessibili al pubblico, affissione che ha valore di notificazione per pubblici proclami per tutti i contro interessati con effetto dal giorno stesso della affissione, adempimento inconciliabile con la natura e le funzioni dell'Avvocatura dello Stato e strettamente conseguente alla ricevuta notificazione del ricorso.

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Inserito in data 30/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 27 aprile 2011, n. 2527 In tema di sanatoria di opere abusive per incompatibilità ambientale e provvedimenti di demolizione.

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Inserito in data 26/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI,  18 aprile 2011, n. 2359

La norma di cui all'art. 133, comma 1, lett. l) del Codice del processo amministrativo, ai sensi del quale sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla Commissione nazionale per le società e la borsa, trova applicazione anche con riferimento a quelle controversie, aventi ad oggetto l'impugnazione di una sanzione interdittiva inflitta ad un promotore finanziario proposta anteriormente all'entrata in vigore del c.p.a. (16 settembre 2010), non trovando applicazione il principio della sancito dall'art. 5 del Codice di procedura civile, secondo cui la giurisdizione si determina “con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda”.
Tale principio, infatti, come più volte hanno precisato le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass.,SS.UU., 20 settembre 2006, n. 20315; 12 novembre 2002 n. 15885; 25 maggio 2001, n. 225) trova la sua ragion d'essere in esigenze di economia processuale perché è diretto a favorire, e non già ad impedire, la perpetuatio iurisdictionis e trova perciò applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice adito, non invece nel caso inverso in cui il mutamento dello stato di fatto o di diritto comporti l'attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda (in questi termini cfr. anche Cons. Stato, V, 20 maggio 2003, n. 2378).


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Inserito in data 26/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. III,  18 aprile 2011, 2351 La rimozione del Sindaco per grave inosservanza degli obblighi posti a carico di questi relativamente alla raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani ex art. 142, comma 1-bis, D. Lgs. n. 267/2000 (introdotto dal D.L. n. 172/2008, convertito in Legge n. 210/2008, non è correlata ad una responsabilità oggettiva e richiede, pertanto, che le violazioni contestate siano ad esso addebitabili e che il relativo procedimento siano connotato da un'istruttoria accurata, oltre che dall'osservanza delle necessarie garanzie procedimentali.
Nell'ambito della gestione dell'emergenza rifiuti, l'eccezionalità della situazione da fronteggiare non consente di valutare in termini tradizionali la colpa soggettiva del Sindaco, essendo da questi esigibile un impegno eccezionale, all'altezza delle emergenze da affrontare.
La  rimozione del Sindaco e lo scioglimento del Consiglio costituiscono atti di alta amministrazione e, pertanto, non possono non essere caratterizzati da un elevato tasso di discrezionalità nella valutazione dei fatti acquisiti al procedimento.


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Inserito in data 25/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 aprile 2011, n. 2371 La rideterminazione del canone demaniale per le concessioni marittime, in applicazione dell'art. 1, comma 251, 27 dicembre 2006, n. 296 (ritenuto costituzionalmente legittimo da Corte costituzionale 22 ottobre 2010 n. 302), qualora la controversia investa l'esercizio di poteri discrezionali-valutativi nella determinazione del canone e non semplicemente di accertamento tecnico dei presupposti fattuali economico-aziendali (sia sull'an che sul quantum), configura una fattispecie rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo, mentre, diversamente, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario.

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Inserito in data 25/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 18 aprile 2011, n. 2371 L'interesse strumentale al rinnovo della procedura comparativa (nel caso di specie al rinnovo della procedura comparativa) degrada a mero interesse di fatto, laddove a farlo valere sia un soggetto privo di legittimazione, perché non titolare di alcuna situazione giuridica differenziata.
Per quanto sia recentemente emersa una tendenza ad ampliare il contenuto della legittimazione al ricorso nel processo amministrativo (legittimazine talvolta identificata nella mera partecipazione alla gara sebbene illegittima: cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 10 novembre 2008, n. 11) è certo che la legittimazione non possa, comunque, riconoscersi a colui che sia rimasto estraneo alla procedura competitiva di cui si contesta l'esito.
Chi non partecipa alla procedura comparativa, infatti, vanta, rispetto alla legittimità del suo esito un mero interesse di fatto, che in nulla si differenzia dell'astratto interesse alla legalità dell'azione amministrativa.

 


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Inserito in data 25/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 19 aprile 2011, n. 2434 In tema di diritto di accesso dei Consiglieri provinciali e sua azionabilità ai sensi del combinato disposto dell'art. 109 del Regolamento interno del Consiglio provinciale e dell'art.43, comma 2, D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267.

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Inserito in data 25/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 19 aprile 2011, n. 2427 In tema di risarcimento del danno derivante da illegittima aggiudicazione dell'appalto.

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Inserito in data 25/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI,  19 aprile 2011, n. 2438 In tema di abuso di posizione dominante nel mercato dei servizi di comunicazione mobile.

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Inserito in data 14/04/2011
CORTE COSTITUZIONALE, 11 aprile 2011, n. 124 La Corte costituzionale dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma 8, D. Lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui dispone che gli incarichi di funzione dirigenziale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all'art. 23 D. Lgs. n. 165 del 2001, cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo.

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Inserito in data 14/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 12 aprile 2011, n. 2226 in tema di colpa della P.A. e applicazione dell'art. 124 c.p.a.

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Inserito in data 12/04/2011
CORTE COSTITUZIONALE, 7 aprile 2011, n. 113 La Corte costituzionale dichiara costituzionalmente illegittimo l'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non contempla un "diverso" caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, volto specificamente a consentire (per il processo definito con una delle pronunce indicate nell'art. 629 c.p.p.) la riapertura del processo - intesa, quest'ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio - quando la riapertura stessa risulti necessaria, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo.

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Inserito in data 08/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 aprile 2011 n. 2157 All'aggiudicazione provvisoria di un appalto pubblico è attribuita dalla giurisprudenza ormai costante la natura di atto endoprocedimentale, ad effetti instabili e del tutto interinali, e la conseguente inidoneità a produrre la definitiva lesione dell'impresa non risultata aggiudicataria, che si verifica solo con l'aggiudicazione definitiva, la quale non costituisce atto meramente confermativo della prima.
Ne consegue, pertanto, che esclusivamente in riferimento alla aggiudicazione definitiva va verificata la tempestività del ricorso. Difatti, ad eccezione del bando - se immediatamente lesivo - e dell'esclusione della gara, il provvedimento di aggiudicazione definitiva è il solo atto a determinare la lesione delle situazioni giuridiche dei partecipanti, secondo quanto ormai definivamente stabilito dalla menzione dell'aggiudicazione definitiva quale atto impugnabile nei procedimenti di gara che si rinviene negli artt. 120 comma 4 e 121 comma 1 c.p.a.


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Inserito in data 08/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, 7 aprile 2011 n. 2166 In materia di pubblico impiego - come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) - l'impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve trovare integrale applicazione - senza sbarramenti temporali di alcun genere - pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all'attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.
 tale disposizione normativa, peraltro, non è sufficiente a mutare il precedente pacifico orientamento del Consiglio di Stato, secondo cui il diritto del dipendente pubblico alle differenze retributive spettanti per lo svolgimento di mansioni superiori può essere riconosciuto in via generale solo a decorrere dalla data di entrata in vigore del D. L.vo n. 387/1998 (22 novembre 1998), in quanto detto decreto possiede evidente carattere innovativo rispetto alla normativa precedente e non riverbera in alcun modo la propria efficacia su situazioni pregresse (C.d.S., A.P. n. 3/2006).
In conclusione, per il periodo antecedente il 30 giugno 1998  non può essere riconosciuto il diritto alle predette differenze retributive.


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Inserito in data 08/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, 7 aprile 2011 n. 4 L'Adunanza Plenaria rimedita le conclusioni alle quali era pervenuta con la precedente pronuncia n. 11 del 2008

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Inserito in data 07/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, sentenza 6 aprile 2011, n. 2135 in tema di ordinanze emanate in situazione emergenziale in deroga alla legislazione vigente

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Inserito in data 06/04/2011
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA PLENARIA, sentenza 23 marzo 2011, n. 3  La Plenaria si pronuncia sulla pregiudiziale amministrativa alla luce del neonato Codice del processo amministrativo.

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