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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Temi e Dibattiti



Salute collettiva e libertà fondamentali.

Di Fausto Gaspari.
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Salute collettiva e libertà fondamentali

 

Di FAUSTO GASPARI[1]

 

Mi hanno chiesto spesso, da quando è iniziata l’emergenza sanitaria procurata dalla diffusione del Covid-19, cosa ne pensassi degli interventi adottati dal Governo per farvi fronte.

 

Per dare una risposta (facendo attenzione a non farsi troppo prendere dall’emotività), potrebbero farsi centinaia di considerazioni o, al contrario, nessuna, riconoscendo che l’esecutivo, considerata l’inedita situazione in cui si inserisce la sua azione, possa, al fine di salvaguardare il “fondamentale” diritto alla salute della collettività, limitare diritti – altrettanto fondamentali – della persona e che tali limitazioni possano avvenire (o, in un certo senso, siano necessariamente state apportate) finanche in deroga ai naturali schemi predisposti dalla Carta costituzionale.

 

Contrariamente alle mie intenzioni, non ho potuto fare a meno (per inclinazione naturale) di rifuggire dalla seconda delle alternative e riflettere, in termini di diritto, sulle limitazioni alle libertà fondamentali che gli interventi di contrasto all’epidemia hanno determinato e stanno ancora (seppur in maniera meno aggressiva rispetto alla prima fase) determinando.

 

Il presente contributo, allora, lungi dal voler esporre le centinaia di possibili considerazioni sul tema (tedierei me stesso, prima ancora che il lettore), con il pretesto di analizzare più da vicino una delle misure introdotte dal d.P.C.M. 26 aprile 2020 (quella relativa alla possibilità di effettuare spostamenti per incontrare i propri “congiunti”) rappresenta l’occasione per riflettere (stimolando apprezzamenti di più ampia portata) su un contegno normativo per numerosi profili (che non potranno qui essere tutti affrontati) criticabile.

 

Prima di affrontare la questione cui è dedicato il presente contributo, tuttavia, sono necessarie delle brevi premesse, per evitare di incorrere in un errore di fondo (a mio parere) estremamente pericoloso.

 

Se gli atti extraordinem adottati dall’esecutivo, nella fase cruciale e maggiormente critica della pandemia, sono stati giustificati dalla necessità di salvaguardare la salute collettiva, giustificando una forte compressione delle libertà fondamentali ed una sorta di “sospensione” della Costituzione (lo “stato d’eccezione” dovuto all’emergenza sanitaria, sebbene non espressamente previsto nella Carta costituzionale, piaccia o meno, si è di fatto imposto), ora, ferma la necessità di garantire il fondamentale diritto alla salute, la regolamentazione della indispensabile fase di convivenza con il virus (cd. “Fase 2”) non può continuare a giustificare forzature tanto ampie del dettato costituzionale, dietro lo scudo dell’argomento in base al quale l’importanza della salute dell’individuo (e, quale conseguenza, della collettività) non ammette le esitazioni che l’effettivo rispetto del dato costituzionale rischierebbe di determinare.

 

Del resto, non occorre un virologo per comprendere che passeranno mesi prima che l’emergenza possa dirsi definitivamente lasciata alle spalle. Diventa fondamentale, allora, oltre al diritto alla salute (“fondamentale”, come in tanti ormai avranno imparato) tornare a porre attenzione alla legittimità degli interventi e, non in secondo luogo, alla proporzionalità delle misure adottate.

 

In questo senso, da un lato, non potranno più accettarsi forme di intervento di dubbia legittimità costituzionale (sono note, ad esempio, le critiche, del tutto condivisibili, alle quali rimando, relative all’eccessivo ricorso allo strumento del d.P.C.M. ed alla conseguente elusione della riserva di legge) e, dall’atro, sembra giunto il tempo di tornare a ragionare sui limiti di operatività della generale deroga ai diritti fondamentali fortemente limitati (se non annullati) dalle misure normative di contenimento dell’epidemia.

 

Questo scrupolo è suggerito dallo stesso articolo 32 della Costituzione che, invero, dopo aver riconosciuto la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, si preoccupa, in un certo senso, di temperare l’intervento del legislatore, stabilendo che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

 

Occorre chiedersi, allora, quando questi limiti debbano dirsi superati, fino a quando possa essere considerata temporanea la misura e se, come sostiene chi scrive, l’irragionevolezza dell’intervento possa rendere la disposizione in contrasto con il dettato costituzionale.

 

È in quest’ottica che, a mio parere, va affrontata la questione relativa all’interpretazione del concetto di “congiunto” e della possibilità di farvi rientrare chi è legato da un rapporto di amicizia, quale (considerati i “chiarimenti” resi dal Governo) “stabile legame affettivo” o soggetto con cui si intrattiene un rapporto caratterizzato “da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.

 

La disposizione di interesse è l’articolo 1, comma 1, lett. a) del d.P.C.M. 26 aprile 2020 e, in particolare, il periodo in cui, dopo aver riprodotto lo schema comune ai precedenti decreti, in base al quale “sono consentiti solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”, ha intesto precisare una delle tre motivazioni che giustificano gli spostamenti all’interno dei confini regionali, ossia quella relativa alle situazioni di necessità. Prosegue la disposizione, infatti, stabilendo che “si considerano necessari gli spostamenti per incontrare congiunti purché venga rispettato il divieto di assembramento e il distanziamento interpersonale di almeno un metro e vengano utilizzate protezioni delle vie respiratorie”.

 

Ora, in disparte le argomentazioni (che pure avrebbero ragione di porsi) in ordine alla reale portata delle prescrizioni relative alle misure da rispettare allorquando si incontrino i propri congiunti, ciò che è parso (evidentemente non solo a chi scrive) particolarmente critico è proprio il concetto di congiunti.

 

Considerate le difficoltà interpretative suscitate dall’introduzione di tale concetto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha reso una FAQ con la quale ha “chiarito” (il virgolettato ha preciso intento satirico) che “L’ambito cui può riferirsi la dizione “congiunti” può indirettamente ricavarsi, sistematicamente, dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile.

Alla luce di questi riferimenti, deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)”.

 

Letto il chiarimento, il dubbio non è parso risolto e, pertanto, lo scorso 3 maggio, il Ministero dell’Interno ha diramato una circolare, nella quale ha inteso precisare che la definizione di congiunti comprende “i coniugi, i rapporti di parentela, affinità e di unione civile” nonché, richiamando sul punto una pronuncia della Cassazione[2], “le relazioni connotate da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”.

 

Ai congiunti, oltre ai parenti (fino al sesto grado), ai coniugi e agli affini (fino al quarto grado), ai conviventi di fatto ed al partner di un’unione civile, sostanzialmente, dalla nota del Viminale – seppur implicitamente – traspare l’intento di voler aggiungere solamente i fidanzati, escludendo, pertanto, gli amici dalla cerchia dei soggetti a cui è consentito far visita.

 

Ora, posto che – diversamente da quanto emerge dagli organi di stampa – i chiarimenti governativi, a mio modo di vedere, non hanno indiscutibilmente escluso dal concetto di congiunti (e dalla conseguente possibilità di farvi visita) gli amici, occorre chiarire che tanto le FAQ, quanto le circolari diramate dai Ministeri non costituiscono fonti del diritto e, pertanto, in caso di ricorso, non vincolerebbero il giudice che fosse chiamato ad interpretare la disposizione cui i chiarimenti si riferiscono, prescindendo da quello che era stato il reale intento dell’esecutivo (la voluntas legis direbbe qualcuno).

 

Un’interpretazione diversa, una contronarrazione rispetto a quella che sembra prevalere, pertanto, non solo non appare vana, ma assume importanza proprio nell’ottica dell’eventuale tutela rispetto a sanzioni che dovessero essere comminate al riguardo.

 

A suggerire un’interpretazione diversa rispetto a quella che sembra sia comunemente condivisa, del resto, sono diverse ragioni, di carattere lessicale oltre che logico-sistematiche.

 

Quanto al profilo lessicale, innanzitutto, un’attenta analisi del dato letterale, anziché escludere la possibilità di far visita ad un amico, pare confermarla. Dopo aver chiarito che la portata del termine “congiunti” può ricavarsi dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla “giurisprudenza in tema di responsabilità civile”, infatti, la FAQ della Presidenza del Consiglio elenca prima una serie di legami che permettono oggettivamente di ricondurre un soggetto all’interno del concetto di “congiunto” (facendo riferimento ai coniugi, ai partner conviventi, ai partner delle unioni civili, ai parenti fino al sesto grado ed agli affini fino al quarto grado) e finisce per introdurre (più o meno volontariamente), poi, laddove si riferisce a “le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo”, non un’ulteriore specifica ed esclusiva tipologia di legame, ma una categoria residuale, con riferimento alla quale si tratta di stabilire chi possa, appunto, considerarsi legato/a da uno stabile legame affettivo.

 

Detta operazione ermeneutica, se non si ammette che non è possibile compiere una qualificazione secondo diritto attraverso un concetto (in definitiva, un sentimento) che non ha portata giuridica, deve necessariamente indurre l’interprete a chiedersi se i) l’amicizia possa considerarsi un legame affettivo; ii) quando un legame (in questo secondo caso, partendo dall’assunto che ci si riferisca solo a legami sentimentali) possa dirsi “stabile”.

 

Quanto al punto sub i), in definitiva, si tratta di comprendere quali sentimenti possano essere ricondotti all’interno del concetto di “legame affettivo”. Al riguardo, si dovrebbe chiarire per quale ragione nel concetto di legame affettivo dovrebbe rientrare un rapporto tra fidanzati o tra amanti (l’imbarazzo del giurista a definire un rapporto del genere testimonia le difficoltà a conferirgli una portata giuridica) ma non un rapporto di amicizia.

 

Quanto al quesito segnalato sub ii), non si farà difficoltà a comprendere come non possa essere definita la stabilità di un rapporto, se solo si pensa semplicemente all’ipotesi in cui a taluno venga contestata questa circostanza in un verbale che dovesse poi essere impugnato, passando per il prefetto, davanti all’organo giurisdizionale.

 

Operazioni non dissimili, che per questa ragione non è il caso di ripetere, poi, valgono con riguardo a “le relazioni connotate da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”, cui ha fatto riferimento la circolare del Viminale del 3 maggio che, sebbene perseguisse chiaramente l’intento di escludere gli amici dalla definizione di congiunti, non è riuscita (a mio modo di vedere) nello scopo.

 

Come si anticipava, inoltre, vi sono anche delle considerazioni di carattere logico-sistematico a far propendere per l’interpretazione che si sta sostenendo.

 

Se si afferma che la disposizione permetterebbe di incontrare la fidanza, sull’assunto che solo in questo caso sussista uno “stabile legame” (o, allo stesso modo, che solo in tal caso vi sia una “relazione connotata da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti”), ma non un amico, si parte necessariamente dal presupposto che si sia comunque inteso permettere di incontrare una persona senza che vi sia un vincolo giuridico a testimoniarne il legame (un matrimonio, un’unione civile o persino una convivenza, in qualche modo documentabile).

 

Pragmaticamente, quindi, non può non sostenersi che tale fenomeno sfugge totalmente alla possibilità di essere controllato (a valle) e, quindi, regolamentato (a monte). Per intenderci: se in occasione di un controllo dichiaro che sto andando a far visita alla ragazza (o) con cui sto insieme da dieci anni, come è possibile dimostrare il contrario? Come potrebbe, quella dichiarazione, essere considerata non veritiera? Chi potrebbe sostenere, se vado a far visita alla mia (o) migliore amica (o), che non si tratta della mia (o) compagna (o)? Quando è possibile, inoltre, qualificare un legame (in ipotesi, esistente) come stabile? Per non incorrere nelle sanzioni previste dal decreto, (sia consentita una nota ironica) è il caso di dire alla ragazza che frequento da sei mesi che ho intenzione di fare sul serio?

 

L’esercizio interpretativo che il giurista è chiamato a svolgere al riguardo, perciò, conduce sempre alla soluzione per la quale, entro i confini regionali, è possibile spostarsi per andare ad incontrare il proprio partner ed i propri amici (sempre nel rispetto, resta inteso, del divieto di assembramento).

 

A suggerire che anche gli amici possano essere considerati “congiunti”, poi, sono la ragionevolezza e la proporzionalità che dovrebbero ispirare il provvedimento amministrativo (il d.P.C.M., infatti, occorre ricordarlo, per quanto di carattere normativo, resta un atto amministrativo).

 

Se si seguisse la diversa soluzione per la quale gli amici dovrebbero risultare esclusi dai congiunti cui poter far visita, infatti, si produrrebbe il paradosso in base al quale, nel rispetto delle disposizioni normative, potrei incontrare (tralasciando il fatto che, personalmente, non ne ho entro i confini della Regione di domicilio) il figlio del cugino di mio padre (che, scherzi a parte, avrebbe serie difficoltà a riconoscermi), ma non l’amico che conosco da dieci anni.

 

In definitiva, se è vero che, come bisogna riconoscere, gli sforzi dell’esecutivo sono diretti, di fatto, ad impedire incontri tra amici, non può non sottolinearsi come detta opzione, oltre che irragionevole, è biasimabile perché muove da un pregiudizio.

 

Permettere di incontrare i propri conoscenti (un amico, una ragazza con cui si è iniziata da poco una frequentazione, ecc.), infatti, non significa consentire party (per riprendere un termine tanto caro al Pres. Conte) sfrenati. Ad impedire normativamente tale circostanza sono le disposizioni relative alle misure di sicurezza previste per le occasioni di incontro che, del resto, allo stesso modo, sono dirette ad impedire affollate rimpatriate familiari.

 

Non si comprende, allora, l’accanimento del Governo verso le relazioni sociali, che determina l’effetto di realizzare una non più accettabile discriminazione verso chi, come chi scrive, solo, senza famiglia entro i confini regionali e senza una relazione stabile, senza uscire per andare al lavoro dal 9 marzo, non può neanche incontrare un amico.

 

Ora, com’è immaginabile, riflessioni come quelle che si sono fatte nel presente contributo potrebbero apparire un “capriccio”, un atto di irresponsabilità da parte di chi non comprende la serietà della situazione. La critica è troppo facile e, d’altronde, si presta ad altrettanto facili obiezioni.

 

Chi scrive è fin troppo consapevole della serietà della situazione, come credo si possa affermare lo siano orami tutti gli italiani. Ci sono gesti, noto sempre più spesso, che stanno diventando naturali: rispettare la distanza, procedere nel lato opposto del marciapiede, stare in fila in maniera composta. Tutti gesti inimmaginabili fino a pochi mesi fa. Questi comportamenti dovrebbero permetterci di capire che è il momento di affidarsi al buon senso della collettività, ammettendo che ci sono aspetti che il diritto (a dirlo è qualcuno che nel diritto crede profondamente) non può regolamentare e che, per evitare di fare più danni che altro, dovrebbe lasciare al senso di responsabilità del cittadino.

 

Ai cittadini va raccomandato (poiché non può essere introdotta, come prescrizione, qualcosa che non è controllabile, come il nipotino che abbraccia il nonno con o senza mascherina) il rispetto delle misure di sicurezza. Ma non può il diritto disporre quali incontri sono legittimi e quali no. L’effetto, come si è visto, è del tutto irragionevole e non risponde in alcun modo alla ratio dell’intervento (che dovrebbe ridurre occasioni di contagio, che – a quanto mi par di capire (anche in tal caso mi sia permesso un inciso satirico) – il legame di parentela non esclude).

 

Del resto, sono i principi di parità di trattamento, di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa (troppo cari allo studioso del diritto amministrativo per essere ignorati) a suggerire quanto si è cercato di esprimere in queste righe.

 

NOTE:

[1] Avvocato amministrativista e Cultore della materia di Diritto Amministrativo.

[2] Corte di Cassazione, Sez. IV, Sent. 10 novembre 2014, n. 46351.