ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Civile



Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 30 novembre 2016. A cura di Giovanna Nalis

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  • 1. Corte di Cassazione, sezione sesta, sentenza n. 18810 del 26 settembre 2016, abuso del processo: frazionamento abusivo del credito solo rispetto ad un unico rapporto obbligatorio.

    Il ricorrente del caso in esame denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 111 Cost., lamentando l’erronea interpretazione del principio nomofilattico espresso dalle Sezioni Unite nella pronuncia del 15.11.2007 n. 23276.

    Secondo il principio espresso dalle Sezioni Unite nel 2007, al creditore non è consentito agire in giudizio per chiedere l’adempimento frazionato, contestuale o sequenziale, di un credito che si riferisce a richieste giudiziali avanzate in forza di un unico rapporto obbligatorio.

    Il ricorrente precisa invece che i propri crediti riguardano singoli incarichi ricevuti da una compagnia assicuratrice relativamente a diversi sinistri.

    La censura è considerata fondata.

    Le Sezioni Unite hanno enunciato il principio su un credito nascente da una situazione soggettiva unitaria, cioè da unica obbligazione che, senza alcuna ragione apprezzabile, era stata frazionata con la richiesta di quattro decreti ingiuntivi. Hanno ravvisato abuso del processo nella disarticolazione di un rapporto sostanzialmente unico (fornitura di merce effettuata con unico ordinativo, oggetto di distinte fatture).

    Il tribunale, quale giudice di appello del giudice di pace, ha invece forzato il senso dell’insegnamento delle Sezioni Unite. L’unitarietà del rapporto obbligatorio cui si può ricollegare l’abusività del frazionamento implica infatti che unica sia la prestazione in relazione a un’obbligazione che sia stata considerata unitariamente in sede contrattuale e le cui sorti siano quindi isolabili logicamente e materialmente. È solo rispetto a un rapporto singolo che si può configurare un frazionamento abusivo.

    Inoltre, poiché ogni sinistro comporta un singolo irripetibile danno e una specifica risposta in perizia, è possibile che vi sia adempimento in uno degli incarichi e inesatto o assente adempimento in un altro. È pertanto arduo percepire la unitarietà dell’obbligazione. 

    È stata, dunque, erroneamente sussunta nell’ipotesi di violazione delle norme relative alla buona fede contrattuale la richiesta azionata per via giudiziaria per il credito relativo alla prestazione in questione, senza aver chiaro il necessario vincolo che deve esservi quanto all’unitarietà intrinseca del rapporto controverso.

    Il frazionamento del credito è considerato un’ipotesi di abuso del processo, proiezione dell’abuso del diritto, in applicazione del principio di buona fede. Nell’attuale ordinamento giuridico quest’ultimo costituisce un principio fondamentale nel sistema delle obbligazioni. La giurisprudenza ha determinato un’estensione dell’applicazione del principio di buona fede ed in particolare le citate Sezioni Unite nel 2007 hanno statuito che gli obblighi di buona fede riguardano anche la fase patologica del contratto.

  • 2. Corte di Cassazione, sezione terza, sentenza n. 20915 del 17 ottobre 2016, unitarietà del danno non patrimoniale: danno biologico terminale e danno c.d. catastrofale.

    L’art. 2059 c.c. stabilisce che il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge. La norma, negli ultimi anni, è stata oggetto di importanti pronunzie giurisprudenziali.

    Secondo una lettura costituzionalmente orientata, il danno non patrimoniale è tipico, poiché risarcibile nei casi espressamente previsti dalla legge e per violazione di un interesse costituzionalmente tutelato. Inoltre, è stata affermata l’unitarietà della nozione di danno non patrimoniale, per cui la distinzione tra le varie voci di danno, biologico, morale ed esistenziale, costituisce solo una sintesi descrittiva della fattispecie. L’art. 2 della Costituzione consente di affermare, in virtù di un processo evolutivo, che i diritti risarcibili non sono un numero chiuso ma oggetto di continua valutazione dell’interprete, tuttavia nel considerare tutti i danni sofferti dalla vittima in concreto, sussiste il limite di non duplicare il risarcimento attribuendo nomi diversi ad identici pregiudizi.

    In tale contesto va inserita la sentenza in esame, la quale opera alcune specificazioni e attesta comunque  un’incertezza interpretativa tutt’oggi esistente.

    Il Caso. T., avendo riportato gravi lesioni nell’ambito di un sinistro stradale mentre attraversava il lungomare, muore dopo quindici giorni di coma. I genitori, e in seguito i fratelli, agiscono per il risarcimento dei danni subiti.

    Nella pronunzia il danno biologico terminale è distinto dal danno catastrofale e si afferma che entrambi possono coesistere: il primo danno attiene alle lesioni quantificabili con il ricorso alle tabelle, mentre il secondo ha bisogno di una liquidazione che applichi un criterio equitativo puro, poiché anche se è temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.

    Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano il mancato riconoscimento del danno conseguente alla perdita del bene-vita, a seguito di un atto illecito. La contestazione non è volta al mancato riconoscimento in favore del defunto del danno da morte (c.d. danno catastrofale), ma alla inadeguata liquidazione nel caso di specie del danno biologico in favore del de cuius, in ragione della morte intervenuta a soli 15 giorni di distanza dall’incidente. Nel liquidare l’intero pregiudizio areddituale riconducendolo sotto la voce del danno biologico, il giudice di merito avrebbe dovuto procedere ad una adeguata personalizzazione del danno che tenesse conto delle circostanze del caso concreto, senza limitarsi ad una applicazione automatica dei valori tabellari, riconoscendo così le componenti morale ed esistenziale del danno non patrimoniale.

    Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano il mancato riconoscimento del danno da perdita del rapporto parentale (oltre che del danno morale terminale).

    Con il terzo motivo si denuncia l’omesso riconoscimento di un integrale risarcimento del danno, ed in particolare che la corte d’appello abbia negato il riconoscimento delle voci di danno iure proprio biologico, morale e da perdita del rapporto parentale. Tale liquidazione deve essere eseguita in rapporto al pregiudizio individualmente subito da ciascun congiunto. Inoltre, si ribadisce la mancata liquidazione del danno biologico terminale, sorto in capo alla vittima e poi trasferitosi agli eredi, riconducibile alla lesione del diritto alla salute costituzionalmente garantito. In particolare si critica il criterio di quantificazione adottato, che è quello dell’invalidità temporanea pro die, moltiplicato per i giorni di coma, senza alcuna personalizzazione. Infine si contesta che non sia stata riconosciuta la risarcibilità della voce di danno iure proprio costituita dalla perdita del rapporto parentale.

    Il ricorso è accolto riguardo alla quantificazione della voce del danno non patrimoniale, entrata nel patrimonio dei ricorrenti iure successionis.

    La Suprema Corte, infatti, ha più volte affermato che in caso di sinistro mortale che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell’evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale). La Corte d’appello non ha rispettato i parametri di corretta liquidazione di tale voce di danno. Come questa Corte ha anche di recente ribadito (v. Cass. n. 23183/2014), laddove la liquidazione del danno biologico terminale può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all’invalidità temporanea, in relazione al danno cd. catastrofale la natura peculiare del pregiudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della “enormità” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.

    Il ricorso va accolto anche laddove lamenta la mancata liquidazione, in favore dei congiunti del defunto, del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale conseguente in capo a ciascuno di essi dalla morte del ragazzo, che al momento dell’incidente viveva ancora in famiglia con i genitori e i due fratelli.

    Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono del mancato riconoscimento in loro favore del danno patrimoniale futuro, già riconosciuto in primo grado.

    Tale ultimo motivo è considerato infondato, poiché la corte d’appello non ha escluso, in assoluto, la riconoscibilità di tale voce di danno in favore dei familiari superstiti della vittima di un sinistro, ma ha motivatamente escluso, in concreto, sulla base del giudizio prognostico formulato con i dati a disposizione, che parte dei futuri guadagni del giovane sarebbero stati senz’altro devoluti almeno in parte ai suoi familiari.

  • 3. Corte di Cassazione, inapplicabilità dell’art. 2054 c.c. se il sinistro provocato da un veicolo avviene su una pista di sci non aperta per uso stradale.

    Esistono diversi modelli speciali di responsabilità rispetto a quello generale previsto dall’art. 2043 c.c., secondo il quale il fatto illecito è per definizione doloso o colposo. L’art. 2054 del codice civile, rubricato circolazione di veicoli, disciplina ipotesi di responsabilità oggettiva e “aggravata” di rilevante applicazione nella prassi. Secondo l’opinione prevalente, il primo comma dell’art. 2054 c.c. stabilisce una responsabilità aggravata della posizione del danneggiante, che per andare esente da responsabilità deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare i danno dimostrando,  secondo l’interpretazione restrittiva accolta dalla giurisprudenza, che l’evento si è verificato esclusivamente per causa imputabile al danneggiato o a un terzo, o per caso fortuito o forza maggiore. In caso di scontro tra veicoli, sussiste inoltre la presunzione di corresponsabilità prevista dal secondo comma dell’art. 2054 c.c., in base alla quale, fino a prova contraria, ciascuno dei conducenti ha concorso nella stessa misura a cagionare il danno. Per la giurisprudenza tale principio costituisce criterio di distribuzione della responsabilità che opera quando sia impossibile accertare le modalità del sinistro o stabilire con certezza l’incidenza delle singole condotte colpose. Il terzo comma disciplina una responsabilità oggettiva per fatto altrui, che ammette prova liberatoria nel caso in cui la circolazione sia avvenuta contro la propria volontà. Il quarto comma, considerata norma di chiusura, integra una vera e propria responsabilità oggettiva.  

    La natura della responsabilità incide dunque sull’onere della prova.

    La legge impone inoltre che i veicoli a motore siano necessariamente assicurati per potere circolare sulle strade pubbliche.

    Ex art. 2054 c.c., primo comma, il conducente è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o cose dalla circolazione se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. 

    La Suprema Corte statuisce che nel caso di sinistro provocato da un veicolo su pista da sci  non si applica l’art. 2054 c.c.

    Secondo la corte d’appello pronunziatasi sul caso in esame, il giudice di primo grado ha errato nell’applicare l’articolo 2054 c.c. poiché tale norma riguarda la circolazione dei veicoli su strada pubblica, soggetta a uso pubblico o comunque adibita al traffico veicolare, mentre su una pista da sci, come nel caso di specie, è vietato il transito di veicoli (articolo 16 l. 363/2003), e pertanto sarebbe applicabile solo l’articolo 2043 c.c..

    Per i ricorrenti, invece, la pista di sci deve essere considerata area pubblica: il divieto di transito dei veicoli non toglie la natura di area pubblica, per cui ai fini della responsabilità extracontrattuale deve applicarsi l’articolo 2054 c.c.; e anche qualora la pista di sci fosse considerata area privata, essa è comunque ad uso pubblico, per cui sarebbero applicabili l’articolo 2054 c.c. e ratione temporis l’articolo 1 l. 990/1969. Anche la posteriore 1. 363/2003, all’articolo 19, stabilisce che nel caso di scontro tra sciatori si presume fino a prova contraria che ognuno abbia concorso ugualmente a produrre il danno.

    La Cassazione ritiene che la questione vada affrontata attraverso il concetto di circolazione dei veicoli, come emerge dalla rubrica dell’art. 2054 c.c.. II testo della norma non indica uno specifico significato giuridico del concetto di circolazione, che deve quindi attingersi dal sistema in cui la norma codicistica era venuta ad inserirsi. Si fa riferimento in particolare al r.d. 8 dicembre 1933 n. 1740, Testo unico di norme per la tutela delle strade e per la circolazione, articolo 23 (Libertà di circolazione) primo comma e articolo 120 (Responsabilità del conducente e del proprietario dei veicoli) primo comma e terzo comma; al d.p.r. 15 giugno 1959 n. 393, Testo unico delle norme sulla circolazione stradale, articolo 2 (Definizione e classificazione delle strade); al successivo d.lgs.  30 aprile 1992 n. 285 - Codice della strada in vigore quando accadde il sinistro - articolo 2 primo comma e articolo 3 (Definizioni stradali e di traffico) primo comma, n.9. 

    Dal quadro delineato emerge che la circolazione presuppone quindi una strada o un’area - pubblica o destinata ad uso pubblico - ad essa equiparata; e ciò significa che, se un veicolo senza rotaie viene guidato in una zona priva di tale caratteristica, la circolazione in senso giuridico non sussiste, onde non sono applicabili…né l’articolo 2054 c.c. né la normativa attinente all’assicurazione obbligatoria per la conseguente responsabilità.

    Si ricava, dunque, che l’introduzione di un’autovettura in un’area destinata esclusivamente all’esercizio di uno sport come lo sci, che non si pratica mediante veicoli a motore o comunque mediante veicoli indicati dal Codice della strada come idonei a realizzare una circolazione nel senso delineato dalle norme di riferimento, non conduce all’applicabilità dell’articolo 2054 c.c. e della correlata assicurazione obbligatoria nell’ipotesi in cui il veicolo venga a contatto con uno sciatore. E qualora si voglia qualificare l’attrezzo di tale sport come un veicolo, questo non rientra tra i veicoli soggetti alla disciplina dei Codice della strada (Cfr. Cass. sez. 3, 30 luglio 1987 n. 6603 che lo riconosce non annoverato tra i veicoli soggetti alla disciplina del Codice della strada dell’epoca - d.p.r. 15 giugno 1959 n. 393 -, deducendone che non è neanche assoggettato alla disciplina dell’art. 2054 c.c., riguardante la responsabilità civile per la circolazione dei veicoli, di diretta derivazione e specifico collegamento con quella del codice della strada, con la conseguenza che la tutela delle persone danneggiate dalla circolazione di persone munite di tale particolare attrezzo è disciplinata dall’art. 2043 c.c.; ma anche nel Codice della strada vigente all’epoca del sinistro in questione - v. in particolare articoli 46 ss. d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 - lo sci non figura tra i veicoli considerati, a differenza della slitta).

    Al fine di sostenere l’estraneità del sinistro in questione rispetto alla disciplina di cui all’articolo 2054 c.c., si invoca inoltre una specifica legge regionale della Regione Toscana, la L.R. 13 dicembre 1993 n. 93, che, all’articolo 9, dopo avere nel primo comma affermato che l’uso delle piste da sci è pubblico, nel terzo comma stabilisce: Nel periodo di innevamento è vietato percorrere le piste a piedi e con mezzi diversi dagli sci, fatta eccezione per i mezzi meccanici addetti al servizio delle piste e degli impianti. Tale norma conferma come l’apertura al pubblico, ossia ad un numero indeterminato di persone, non è sufficiente a rendere l’area addetta alla circolazione, poiché l’apertura può essere finalizzata ad attività del tutto diverse, come, nel caso di specie, uno sport quale lo sci: dunque una cosa è l’accesso e un’altra la circolazione. 

    Si denuncia inoltre violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1227 e 2054 c.c.

    Secondo i ricorrenti erra la corte territoriale nell’affermare che a carico dei R. non è emerso alcun concreto elemento di colpa poiché “sciava regolarmente sulla pista quando essa era ancora aperta e si trovò davanti l’autoveicolo dei D. proveniente in direzione opposta”; in tal modo la corte avrebbe omesso di considerare che il veicolo del D. era fermo - ciò risulterebbe dalla testimonianza di M.S.- e “non in circolazione come dalla stessa falsamente affermato”. Si tratterebbe di un fatto decisivo perché comportante la corresponsabilità del R. ex articolo 1227 c.c, “ben potendo lo stesso, come del resto fatto dal suo compagno di sciata, evitare di finire contro l’ostacolo fermo, perfettamente avvistabile ed in effetti avvistato”; altresì ne discenderebbe l'applicabilità dell’articolo 2054 c.c. poiché la giurisprudenza di legittimità include nel concetto di circolazione anche l’arresto del veicolo su area pubblica. 

    La Cassazione, ribadendo che  bisogna escludere che nel caso di specie vi sia stata circolazione, osserva inoltre che i ricorrenti prospettano inammissibilmente una versione alternativa degli esiti probatori. La corte territoriale, infatti, ha negato ogni corresponsabilità nella causazione del sinistro in capo al R. affermando che sciava regolarmente, e che si trovò davanti un ostacolo del tutto imprevedibile senza poterlo avvistare con sufficiente anticipo per evitare lo scontro. Non è dunque stata omessa l’analisi del profilo dell’eventuale corresponsabilità.

  • 4. Corte di Cassazione, sezione prima, sentenza n. 212740 del 27 ottobre 2016, immediata operatività della clausola risolutiva espressa al momento del verificarsi della condotta prevista.

    Un comune ed una società privata stipulavano un contratto per la realizzazione di lavori per la sistemazione di una strada da ultimare entro un determinato termine, con penali in caso di ritardi, prevedendo in particolare che qualora i lavori fossero iniziati o ultimati con ritardo superiore al 30 % del tempo previsto, si sarebbe proceduto alla risoluzione in danno dell’appaltatore. Inoltre, quest’ultimo versava una somma a titolo di cauzione. 

    Avvalendosi della suddetta clausola, il committente risolveva il contratto e incamerava la cauzione. La società conveniva in giudizio l’ente affinché fosse accertata l’illecita risoluzione del contratto, comunque adottata in violazione del principio di buona fede, con condanna alla restituzione della cauzione ed al pagamento dei danni. Il Comune chiedeva invece la condanna al risarcimento dei danni. Il Tribunale respingeva la domanda della società e la condannava, accogliendo la riconvenzionale, al risarcimento dei danni per il committente. La Corte d’appello riformava la decisione assunta in primo grado, rilevando che il contratto non aveva regolato la procedura di risoluzione secondo la legge quadro dei contratti pubblici ed essa era pertanto illegittima, e determinando la condanna alla restituzione della cauzione ed al pagamento delle spese processuali. Il Comune ha presentato ricorso per cassazione.

    La vicenda è evidentemente precedente all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 50/2016).

    La Suprema Corte esamina insieme diversi motivi di ricorso per connessione: la questione attiene al fatto se, in tema di appalto d’opera pubblica, ai fini dell’applicabilità di una clausola risolutiva espressa debba necessariamente venire in rilievo la disciplina procedimentale di cui al D.P.R. n. 554 del 1999, art. 119, e se, ai fini di tale disciplina, l’ipotesi del mancato inizio dei lavori sia equiparabile a quella del ritardo nel corso dell’adempimento.

    La Cassazione non condivide la decisione assunta dalla Corte d’appello.

    Il D.P.R. n. 554 del 1999, art. 119, abrogato dal D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 256, con decorrenza 1 luglio 2006, ma astrattamente applicabile ratione temporis nel caso in esame, disciplina la “risoluzione del contratto per grave adempimento, grave irregolarità e grave ritardo”.

    La disciplina relativa al ritardo dell’appaltatore, contenuta nei commi da quattro a sei, è funzionale a deliberare la risoluzione in base alla sequenza procedimentale ivi stabilita. Ma tale disciplina non esclude che il contratto di appalto possa essere munito di una clausola risolutiva espressa e, quindi, soggetto ai rimedi privatistici di diritto comune (v. implicitamente Sez. 1- n. 3455-15).

    La P.A. può dunque avvalersi tanto dell’una, quanto dell’altra disciplina innanzi al giudice ordinario. 

    L’operatività della clausola non richiede altro che la constatazione dell’inadempimento così come in essa dedotto, essendo state le parti a collegare la risoluzione a quel determinato inadempimento. Se l’inadempimento è quello previsto dalla clausola risolutiva espressa, è inutile discutere della corrispondenza a buona fede del comportamento del creditore che intenda avvalersene, non potendosi dunque ravvisare violazione e falsa applicazione degli articoli 1175 e 1375 c.c. 

    In pratica: (i) affinché una clausola contrattuale sia riconducibile al paradigma normativo della risolutiva espressa, occorre che la stessa individui l’obbligazione il cui inadempimento può determinare la risoluzione di diritto e che lo faccia espressamente (v. per tutte Sez. 3^ n. 12285- 14); (ii) la clausola va sì interpretata secondo buona fede, al pari del contratto (art. 1366 c.c.), ma nel senso che le parole in essa impiegate non devono essere intese in un significato tale da violare il ragionevole affidamento; (iii) pertanto, una volta intesa nel senso sopra detto, come cioè implicante che un determinato inadempimento è stato considerato ai fini della risoluzione espressa, e una volta appurato che la parte legittimata abbia inteso avvalersi della detta clausola, non c'è spazio per una distinta valutazione finalizzata a giustificare l’effetto risolutorio.

    La Cassazione ha dunque accolto il ricorso del Comune.

    La clausola risolutiva espressa, ex art. 1456 c.c., è la pattuizione con la quale i contraenti convengono espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. Essa ha la funzione di esonerare la parte dal provare l’importanza dell’inadempimento. La risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola.