ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale al 31 gennaio - 28 febbraio 2017. A cura di Dalila Uccello

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  • Corte Costituzionale – Sentenza 24 gennaio 2017, n. 17

    Oggetto: art. 275, 4° comma, cod. proc. pen. - custodia cautelare in carcere – artt. 3, 13, 24, 31 e 111 Cost. – minore infraseienne.

    Dispositivo: Infondatezza

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 275, 4° comma, Cod. Proc. Pen., sollevata dal giudice a quo «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni», ne ha escluso la fondatezza.  

    Nella specie, il giudice a quo lamentava che il compimento del sesto anno d’età da parte della minore richiederebbe il rispristino della misura custodiale in carcere e, pertanto, ne censurava l’irragionevole «situazione di automatismo», derivante dall’applicazione dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen..

    Ad avviso del rimettente, siffatta circostanza impedirebbe al giudice di “apprezzare le peculiarità del caso concreto”, caratterizzato dalla contemporanea assenza dell’altro genitore, pure ristretto in custodia cautelare in carcere, evocando i parametri costituzionali ricordati.

    Secondo la Consulta, si profila “una pretesa di tutela dalla ratio del tutto eccentrica, rispetto al contesto normativo desumibile dalle disposizioni del codice di procedura penale e dell'ordinamento penitenziario, attualmente orientate nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre.”

    Il giudice a quo evidenzia come l’«automatismo» disposto dalla norma censurata contrasterebbe, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., per effetto dell’ingiustificata differenziazione tra minori di sei anni di età e soggetti di poco maggiori, a fronte della tutela ai minori disposta dall’ordinamento penitenziario, la quale assicura una tutela peculiare ai figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni (così dispongono gli artt. 21-bis, 47-ter, 47-quinquies della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).

    In secondo luogo – precisa il rimettente - sarebbe violato l’art. 31 Cost., che, garantendo specifica protezione all’infanzia, intenderebbe impedire che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall’assenza dei genitori (assenza che – torna a evidenziare il giudicante - riguarderebbe entrambe le figure genitoriali).

    Infine, per il giudice rimettente, «sembrerebbe inoltre lesa l'effettività dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto in via generale dall'art. 111 Cost. e, in via particolare, dall'art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost.».

    Ad avviso della Corte, la questione, per come posta, non è fondata.

    Infatti, l’individuazione normativa del limite dei sei anni di età del minore per l’applicazione del divieto di custodia cautelare in carcere, non può essere accostata alle presunzioni legali assolute che comportano l’applicazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, con l’effetto di impedire al giudice di tenere conto delle situazioni concrete o delle condizioni personali del destinatario della misura o della pena. Invero, “si tratta di un divieto di carattere generale, che prescinde, cioè, dal titolo di reato e non è riferibile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen.”

    Il Giudice delle Leggi, sulla scorta di indirizzi consolidati della giurisprudenza di legittimità, ricorda che la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria in presenza di minori infraseienni, risiede nella “necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l'assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione”.

    Il divieto in questione è dunque frutto del giudizio di valore operato dal legislatore.

    La Corte ripercorrendo l’evoluzione normativa della norma censurata, osserva come originariamente, l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., escludesse la custodia cautelare in carcere – facendo salve esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - quando imputata fosse «una persona incinta o che allatta la propria prole»; con l’art. 5, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 (recante “Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa”), il confine dell’interesse del minore in tenera età al mantenimento di un rapporto continuativo con una figura genitoriale fu spostato in avanti, e il comma 4 dell’articolo in esame, venne modificato, nel senso che non potesse disporsi la custodia cautelare in carcere quando imputati fossero una donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre fosse deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

    Da ultimo, è stata la legge 21 aprile 2011, n. 62 (“Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”), all’art. 1, comma 1, ad aver riformulato il comma 4 dell’art. 275 cod. proc. pen., ampliando ulteriormente la tutela dell’interesse del minore: attualmente, la custodia cautelare in carcere non può essere né disposta, né mantenuta, quando imputati siano una donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.

    In tale contesto, la disposizione non preclude in assoluto alla madre, imputata per gravi reati, l’accesso alla misura cautelare più idonea a garantire il suo rapporto col figlio minore in tenera età, ma stabilisce che questo accesso trova un limite, laddove il minore abbia compiuto il sesto anno d’età. Sulla base di dati di esperienza, tenuti in conto nei lavori preparatori della legge n. 62 del 2011 (Senato della Repubblica - Commissione II - giustizia, seduta n. 226 del 22 marzo 2011), la scelta legislativa appare non irragionevolmente giustificata dalla considerazione che tale età coincide con l’assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l’inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre.

    Circa il parallelismo delineato dal giudice a quo, con riferimento alle funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere, la Corte ha rilevato come le rispettive esigenze di difesa sociale abbiano natura profondamente diversa: infatti, “le misure cautelari, a differenza della pena, sono volte a presidiare i pericula libertatis, cioè ad evitare la fuga, l'inquinamento delle prove e la commissione di reati”. Ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l’interesse del minore è, nei due casi, differente, con la conseguenza che “il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l'interesse del minore fornisca esiti non coincidenti”. 

    Per le ragioni riportate sopra, la Consulta dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, Cod. Proc. Pen., sollevate.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 26 gennaio 2017, n. 21

    Oggetto: Artt. 197 bis, comma 3° e 6°e 192, comma 3°, cod. proc. pen. – testimonianza resa dalle persone di cui all‟art. 197-bis cod. proc. pen..

    Dispositivo: Illegittimità costituzionale

    Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 197-bis, comma 6° del Cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’applicazione della disposizione di cui all’art. 192, comma 3, Cod. proc. pen. anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate dall’art. 197-bis, comma 1 cod. proc. pen., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, per violazione dell’art. 3 Cost.  

    La dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale – e per le ragioni che verranno di seguito illustrate - all’art. 197-bis, comma 3°, cod. proc. pen.

    Il giudizio oggetto della pronuncia verteva su un procedimento che vedeva tre imputati rinviati a giudizio per il reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per plurime cessioni di hashish ad altra persona.

    Nella specie, nel corso dell’istruttoria dibattimentale era stato sentito come testimone un imputato di reato probatoriamente collegato, assolto con sentenza irrevocabile «“perché il fatto non sussiste”, non essendo provato che la droga da lui acquistata non fosse stata presa per uso personale».

    Questo testimone, come osserva il giudice rimettente, aveva la qualità di persona già imputata di reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., essendogli stata contestata la detenzione ai fini di spaccio dello stupefacente acquistato dalle persone imputate nel giudizio a quo. Infatti, secondo il giudice rimettente, la prova sulla natura della sostanza riverberava i suoi effetti su entrambi i processi, mentre la prova sulla detenzione della droga da parte del testimone costituiva un indizio a suo carico e a carico degli imputati.

     Conseguentemente la sua deposizione dovrebbe essere valutata secondo i canoni stabiliti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., essendo «idonea a fornire piena prova solo in presenza di “altri elementi di prova”», i quali non emergerebbero dagli atti.

    La situazione normativa sarebbe analoga a quella già decisa con la sentenza n. 381 del 2006 di questa Corte, in quanto l’intervento nei confronti di un coimputato di una «sentenza di assoluzione piena “perché il fatto non sussiste”» costituirebbe una «circostanza idonea ad eliminare qualsiasi “stato di relazione” di quel dichiarante rispetto ai fatti oggetto del procedimento», sì da far assimilare «almeno giuridicamente» la sua situazione a quella «di indifferenza del teste ordinario».

    Ad avviso del rimettente, la disciplina censurata - oltre che irragionevole - sarebbe in contrasto con il principio di eguaglianza, poiché parifica la posizione «dell’imputato in procedimento connesso o di reato collegato, assolto con sentenza irrevocabile, a quella della persona dichiarante ai sensi dell’art. 210 cod. proc. pen.; e, per converso, la diversific[herebbe] profondamente da quella del testimone ordinario, tanto sotto il profilo dell’obbligo di assistenza difensiva, quanto sotto quello della limitazione probatoria delle dichiarazioni». Il legislatore in tale modo avrebbe «sovrapposto e confuso la sfera della limitata capacità testimoniale con quella dell’attendibilità in concreto», la quale atterrebbe «al principio del libero convincimento del giudice».

    L’applicabilità o meno della regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. sarebbe questione chiaramente rilevante, dato che la «deposizione del coimputato per reato connesso» costituirebbe «l’elemento portante della ipotesi di accusa e la valutazione in ordine alla necessità o meno di riscontri alle sue asserzioni può comportare la differenza tra affermazione di penale responsabilità degli imputati o loro assoluzione».

    La Corte ritiene fondata la questione sollevata dal giudice a quo, peraltro analoga ad una fattispecie già trattata – con la sentenza n. 381 del 2006 – suscettibile di estensione. 

    Così argomentando, il Giudice delle Leggi ribadisce che «l‟assetto normativo della prova dichiarativa, in esito alla novella del 1° marzo 2001, n. 63, di attuazione del „giusto processo‟, evidenziasse una complessiva „strategia di fondo‟ del legislatore: precisamente, quella di “enucleare una serie di figure di dichiaranti nel processo penale in base ai diversi „stati di relazione‟ rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, giunge fino alla forma „estrema‟ di coinvolgimento, rappresentata dal concorso del dichiarante nel medesimo reato”». 

    Muovendo dall’esame dei predetti, diversi “stati di relazione” individuati dalle norme del codice di rito, la Consulta è giunta alla conclusione che assimilare le dichiarazioni della persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato, assolta “per non aver commesso il fatto”, alle altre dichiarazioni previste dal comma 1 dell’art. 197-bis cod. proc. pen. «appare per un verso irragionevole e, per altro verso, in contrasto con il principio di eguaglianza» (sentenza n. 381 del 2006). 

    Alle medesime conclusioni non può non pervenirsi nel caso di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, che costituisce una formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza.

    Ne deriva che l’assoggettamento delle dichiarazioni della persona assolta alla regola legale di valutazione enunciata nell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., risulta priva di giustificazione sul piano razionale. Per effetto di tale regola, infatti, l’efficacia di un giudicato di assoluzione – che pure espressamente esclude, per il dichiarante, qualsiasi responsabilità rispetto ai fatti oggetto del giudizio – risulta sostanzialmente svilita proprio dalla perdurante limitazione del valore probatorio delle sue dichiarazioni (sentenza n. 381 del 2006).

    Riguardo anche alla violazione del principio di eguaglianza, «la presunzione di minore attendibilità, scaturente dalla regola di valutazione probatoria in questione, risulta irragionevolmente discordante rispetto alle regulae iuris che presiedono, invece, alla valutazione giudiziale delle dichiarazioni rese dal teste ordinario; e ciò nonostante le tipologie di dichiaranti in comparazione risultino omogenee, in quanto connotate dalla comune peculiarità della condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio: l’una sussistente ab origine, l’altra necessariamente sopravvenuta ed indotta dall’assoluzione divenuta irrevocabile».

    Per effetto del richiamo della norma censurata all’art. 192, comma 3°, Cod. proc. pen., se ne estende l’incostituzionalità, poiché il suo mantenimento lascerebbe parzialmente in vita l’ingiustificata disparità di trattamento alla quale con la presente decisione è stato posto riparo.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 27 gennaio 2017, n. 28

    Oggetto: Referendum abrogativo dei cd. voucher ex artt. 48, 49 e 50 del D.Lgs. n. 81/2015, come modificato dal D.Lgs. n. 185/2016

    Dispositivo: ammissibilità

    Con la sentenza emarginata in epigrafe, la Consulta si pronuncia sull’ammissibilità della richiesta referendaria promossa da quattordici cittadini italiani (con annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 marzo 2016, serie generale, n. 69), sul quesito così inizialmente formulato: «Volete voi l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81(come modificato al suo terzo comma dal d.lgs. n. 185/2016) , recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”?». Successivamente, integrato con l’aggiunta dell’espressione << voucher >> con cui si indica, nel linguaggio comune, l’istituto di cui si chiede l’abrogazione. 

    Le disposizioni oggetto del quesito referendario disciplinano l’istituto del «lavoro accessorio», introdotto nell’ordinamento dagli artt. da 70 a 73 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30).

    Il lavoro accessorio – inteso quale attività lavorativa di natura meramente occasionale - ricomprendeva, sotto il profilo soggettivo, particolari categorie di prestatori, e, sotto il profilo oggettivo, specifiche attività.

     Tuttavia, l’istituto in esame ha subíto nel tempo numerose, profonde, modifiche, che ne hanno alterato l’originaria disciplina.

    In particolare, ad essere modificata è stata la sua funzione di strumento destinato, per le sue caratteristiche, a corrispondere ad esigenze marginali e residuali del mercato del lavoro. 

    Tale modifica appare già emblematicamente attestata dal cambiamento della denominazione della rubrica del Capo II del d.lgs. n. 276 del 2003 in cui risultano inserite le originarie previsioni normative («Prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti») rispetto a quella recata dal Capo VI del d.lgs. n. 81 del 2015, («Lavoro accessorio»), nel quale sono inseriti gli articoli di cui si chiede l’abrogazione referendaria, in quanto viene a mancare qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa quale requisito strutturale dell’istituto.

    Ai fini del giudizio di ammissibilità, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, questa Corte ha individuato quattro distinti complessi di ragioni di inammissibilità del referendum abrogativo. In particolare, sono ritenute inammissibili: 1) le richieste che incorrono in una delle cause di inammissibilità testualmente indicate dal secondo comma dell’art. 75 Cost. (leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali), la cui interpretazione però non deve limitarsi a quella letterale ma deve, invece, essere integrata con quella logico-sistematica, affinché siano sottratte al referendum anche «le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75, che la preclusione debba ritenersi sottintesa» (sentenza n. 16 del 1978); 2) quelle aventi ad oggetto una pluralità di domande eterogenee e carenti di una matrice razionalmente unitaria; 3) quelle aventi ad oggetto non un atto avente forza di legge ordinaria, ma la Costituzione, le leggi di revisione costituzionale, le altre leggi costituzionali di cui all’art. 138 Cost.; 4) quelle aventi ad oggetto le disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente obbligato. 

    Ad avviso della Corte, il quesito in esame non è riconducibile, né direttamente né indirettamente, a materie sottratte dall’art. 75 Cost. al vaglio  referendario, e rispetta anche le indicazioni della giurisprudenza costituzionale relative alla chiarezza, omogeneità e univocità desumibile «esclusivamente dalla finalità “incorporata nel quesito”, cioè dalla finalità obiettivamente ricavabile in base alla sua formulazione ed all’incidenza del referendum sul quadro normativo di riferimento» (così sentenza n. 24 del 2011).

    Per le ragioni sopra illustrate, la Consulta dichiara ammissibile la richiesta di abrogazione.

  • Corte Costituzionale – Sentenza 24 febbraio 2017, n. 45

    Oggetto: combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) – convinzione dello straniero - violazione dell'art. 3 Cost.

    Dispositivo: Inammissibile

    La Corte Costituzionale con la pronuncia in epigrafe, dichiara inammissibile la questione di illegittimità costituzionale, avente ad oggetto il combinato disposto degli artt. 4, comma 3°, e 5, comma 5°, del T.U. sull’immigrazione e sulle condizioni dello straniero, poiché il giudice rimettente non ha fornito una disamina completa del diritto vivente esistente sul punto. 

    Nella specie, il rimettente rilevava il contrasto del suddetto combinato disposto in riferimento all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non consente alla pubblica amministrazione di rilasciare il permesso di soggiorno al cittadino extracomunitario, che abbia ottenuto la regolarizzazione della propria posizione lavorativa irregolare, ai sensi dell’art. 1-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), previo accertamento della pericolosità sociale dello stesso, qualora abbia riportato condanna per uno dei reati indicati dal citato art. 4, comma 3, rientrante tra quelli previsti dall’art. 381 del codice di procedura penale. 

    In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia come dall’applicazione del citato «combinato disposto», dipenda il rilascio del nulla osta, ai sensi dell’art. 1-ter, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009, che consente al cittadino straniero di ottenere il permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

    Tuttavia, la condanna da questi riportata, nei termini sopra indicati, gli impedisce, in virtù delle norme censurate, di essere ammesso nel territorio nazionale (il citato art. 4, comma 3) e di ottenere il permesso di soggiorno (il richiamato art. 5, comma 5), senza che occorra accertarne in concreto la pericolosità sociale, il cui mancata accertamento determina, ad avviso del rimettente, la conseguente illegittimità del provvedimento impugnato.

    Il giudice a quo riconduce il dubbio di costituzionalità della disciplina censurata a due sentenze della stessa Corte Costituzionale a raffronto: la sentenza n. 172 del 2012, per la quale “la condanna non è di per sé sola ostativa al rilascio di detto nulla osta”, poiché, “il rigetto dell'istanza di regolarizzazione è condizionato all'accertamento che il medesimo rappresenta una minaccia per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato ”; e la sentenza n. 148 del 2008, per la quale, in virtù dell’automatismo espulsivo derivante dal «combinato disposto» stabilito dalle norme censurate, egli non potrebbe ottenere «per il futuro» il permesso di soggiorno.

    Secondo il rimettente si profila «una irragionevolezza intrinseca di sistema», poiché, sebbene il procedimento di emersione del lavoro irregolare ex art. 1-ter, comma 7, del d.l. n. 78 del 2009 «è sostanzialmente unitario ed unitaria ne è la ratio», un’interpretazione costituzionalmente orientata sarebbe impedita dal diritto vivente. 

    Ad avviso del giudice a quo, infatti, la presunzione assoluta di pericolosità sociale, desunta dalla condanna per uno dei reati indicati nel citato art. 4, comma 3, applicata alla fattispecie di emersione del lavoro irregolare, sarebbe irragionevole, arbitraria e lesiva dell’art. 3 Cost.

    La Corte Costituzionale reputa la questione inammissibile, non avendo il rimettente “adeguatamente motivato la premessa interpretativa, incorrendo in lacune e contraddizioni che minano la valutazione in ordine alla rilevanza della sollevata questione, senza dare compiutamente dato conto dell'esistenza di un diritto vivente, nei termini dallo stesso ipotizzati, come sarebbe stato invece necessario” (tra le più recenti, sentenze n. 240 e n. 203 del 2016, ordinanza n. 177 del 2016). 

    Osserva la Corte come il TAR rimettente si sia limitato al mero richiamo di quattro sentenze, ma che in realtà, ben tre di queste neppure riguardano il rilascio del permesso di soggiorno in relazione al procedimento di emersione del lavoro irregolare (ossia TAR Puglia, Bari, sezione seconda, sentenza 21 maggio 2015, n. 763; TAR Toscana, Firenze, sezione seconda, sentenza 7 aprile 2015, n. 556; TRGA Trentino-Alto Adige, Bolzano, sentenza 16 aprile 2014, n. 101).

    Pertanto, non è da ritenersi corretto l’assunto del giudice a quo, in ordine all’esistenza di un diritto vivente che lo avrebbe costretto necessariamente verso l’esegesi che egli sospetta affetta da incostituzionalità (ordinanza n. 194 del 2012), con conseguente inadempimento dell’onere di sperimentare la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata (per tutte, sentenza n. 203 del 2016).

  • Corte Costituzionale – Sentenza 24 febbraio 2017, n. 46

    Oggetto: Particolare tenuità del fatto – violazione degli artt. 24 e 111 Cost. – applicazione dell'art.131-bis c.p. nel procedimento innanzi al G.d.P. 

    Dispositivo: Inammissibilità

    La Corte Costituzionale dichiara la sollevata questione in ordine al contrasto dell’art. 131-bis c.p. con gli artt. 24 e 111 della Cost. inammissibile, per la riscontrata carenza di motivazione dell’ordinanza di rimessione. 

    Nella specie, il giudice rimettente sollevava la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. e dell’art. 4 del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, nonché agli artt. 3 e 48 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000, «nella parte in cui manca la previsione che l'imputato possa esprimere al Giudice, e questi ne debba tener conto in maniera vincolante, il proprio dissenso in ordine alla definizione del processo con sentenza declaratoria di non punibilità per tenuità del fatto; sentenza, da cui scaturisce per dettato normativo la iscrizione nel casellario giudiziale».

    Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata persegue finalità di deflazione processuale, ma si pone in contrasto con «principi e valori di rango costituzionale», soprattutto quando, come nel caso di specie, la definizione del giudizio avviene con sentenza pronunciata prima del dibattimento, ove il giudice si troverebbe «a dover verificare, pre-dibattimentalmente (quindi attraverso l’esame dei soli documenti contenuti nel fascicolo del dibattimento – e pertanto attraverso l’esame del capo di imputazione contenuto nel decreto di citazione a giudizio, il certificato del Casellario giudiziale ed eventuali atti dal contenuto irripetibile) soltanto la particolare tenuità dell’offesa, le modalità della condotta, la esiguità del danno o del pericolo derivato dal reato e la non abitualità del comportamento», così abdicando alle sue «prerogative di accertare il fatto in posizione di estraneità, e quindi di terzietà ed imparzialità, che costituiscono la essenza stessa della Giurisdizione […]»; così sacrificando il principio del libero convincimento del giudice, «chiamato ad avallare, senza contraddittorio, le prospettazioni e valutazioni del PM», e pregiudicando anche l’imputato, che, «senza la benché minima possibilità di difendersi, potrebbe vedersi attinto da sentenza di non doversi procedere ex art. 131-bis Cp., per il solo fatto di essere stato rinviato a giudizio». 

    Ciò – ad avviso del ricorrente -  comporta una lesione dell’onorabilità dell’imputato e gli impedisce, pur se innocente, di usufruire in un secondo momento, qualora dovesse commettere un fatto penalmente rilevante, della declaratoria di non punibilità per la particolare tenuità del fatto.

    Secondo il giudice a quo, la norma censurata violerebbe «il diritto alla difesa (art. 24 Cost.)», «il diritto ad un giusto processo» (art. 111 Cost.)», «il diritto a non essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna (cd. Presunzione di non colpevolezza – art. 27 Cost. e art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)», «il diritto alla tutela della propria onorabilità e reputazione ([artt.] 2 e 3 Cost. ed art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea)», nonché il «principio di ragionevolezza in quanto il Giudice irragionevolmente è chiamato ad esprimere una valutazione in ordine alla gravità o tenuità del fatto, rimanendo tuttavia vincolato in maniera esclusiva alle valutazioni espresse dal P.M. a seguito delle indagini preliminari».

    La Corte, prendendo le mosse dal dato normativo, rileva come il legislatore, con il d.lgs. n. 28 del 2015, abbia introdotto, una causa generale di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, che costituisce «una disposizione sensibilmente diversa da quella dell'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000, perché configura la “particolare tenuità dell'offesa” come una causa di non punibilità, invece che come una causa di non procedibilità, con una formulazione che, tra l'altro, non fa riferimento al grado della colpevolezza, all'occasionalità del fatto (sostituita dalla “non abitualità del comportamento”), alla volontà della persona offesa e alle varie esigenze dell'imputato» (così sentenza n. 25 del 2015).

    Evidenzia la Consulta come “il giudice rimettente non spieghi perché dovrebbe trovare applicazione la nuova causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. e non l'istituto, proprio del processo davanti al giudice di pace, disciplinato dall'art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000”, a fronte del contrasto esistente nella giurisprudenza della Corte di cassazione proprio sull’applicabilità della causa di non punibilità dell’art. 131-bis cod. pen., anche nei giudizi davanti al giudice di pace (in senso negativo, quinta sezione, 15 settembre 2016, n. 47523; quinta sezione, 15 settembre 2016, n. 47518; quinta sezione, 14 luglio 2016, n. 45996; in senso affermativo, quarta sezione, 19 aprile 2016, n. 40699). 

    In particolare, rileva la Corte, il giudice rimettente non ha spiegato per quale ragione l’art. 131-bis cod. pen. sarebbe applicabile anche nei giudizi davanti al giudice di pace e che, dunque, sotto tale aspetto è riscontrabile un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate.