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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Costituzionale



Osservatorio sulla Giustizia Costituzionale Marzo - Aprile 2016. A cura di Dalila Uccello

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  • Corte Costituzionale - Sentenza 9 marzo 2016, n. 49

     

    Oggetto: Procedimento amministrativo – inefficacia SCIA – art. 84-bis, comma 2, lettera b) L.R. n. 1/2005 – poteri di autotutela dell’Amministrazione – governo del territorio e art. 117, comma 3, Cost.

    Dispositivo: fondatezza.

    Con la sentenza in epigrafe, la Corte Costituzionale ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 84-bis, comma 2, lettera b) della Legge della Regionale n. 1/2005, sollevata dal TAR xxx.

    Nell’ordinanza di rimessione, il TAR xxx sollevava la questione di legittimità costituzionale della citata norma poiché ne riscontrava il contrasto con l’art. 117, comma 3, lettera g) e m) della Costituzione, e con l’art. 19, comma 3, della Legge n. 241/1990 (d’ora in poi “L.P.A.”).

    Nella specie, la norma prevedeva che l’Amministrazione potesse adottare provvedimenti inibitori e sanzionatori nonostante il decorso del termine di trenta giorni, senza tuttavia effettuare le valutazioni di cui all’art. 19, comma 3, della L.P.A., in caso di difformità urbanistiche o edilizie, aventi ad oggetto la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti il governo del territorio.

    In realtà, secondo quanto previsto dall’art. 19, comma 3, l’Amministrazione deve accertare l’eventuale carenza dei requisiti e dei presupposti entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della SCIA. Invero, la scadenza di tale termine costituisce un evento decadenziale, che preclude l’adozione di provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli effetti, salvo che le dichiarazioni sostitutive attestanti fatti, qualità e stati personali posti alla base della SCIA si rivelino, successivamente false o mendaci, oppure nel caso in cui l’attività intrapresa in assenza dei requisiti e dei presupposti di legge metta in pericolo il patrimonio artistico e culturale, l’ambiente, la salute, la sicurezza pubblica o la difesa nazionale.

    Qualora tali ipotesi non sussistano – come nel caso di specie - l’Amministrazione non perde ogni possibilità di intervento tardivo, ma il relativo potere non potrà essere correlato alla semplice verifica della assenza dei requisiti e dei presupposti previsti dalla legge, o da atti amministrativi generali, per l’esercizio delle attività, ma alle valutazioni di opportunità e al bilanciamento degli interessi di cui agli artt. 21-quinquies e 21-nonies della L.P.A.

    Va precisato, inoltre, che ai sensi dell’art. 19, comma 6-bis, della L.P.A., come aggiunto dall’art. 5, comma 2, lettera b), numero 2) del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 12 luglio 2011, n. 106, il sistema dei controlli sulla SCIA è applicabile nella sua integralità alla materia edilizia, con la differenza che il termine per l’intervento inibitorio o repressivo dell’Amministrazione è ridotto da sessanta a trenta giorni.

    Il giudice a quo rileva inoltre come l’abrogazione dell’art. 84-bis della citata legge regionale, per effetto dell’art. 254, comma 1, lettera a), della legge della Regionale 10 novembre 2014, n. 65, non assume alcun rilievo nella fattispecie oggetto del giudizio.

    A ben vedere, come già rilevato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 151/2014, “lo ius superveniens non può rilevare nel giudizio di costituzionalità sollevato dai giudici amministrativi, poiché, secondo il principio tempus regit actum, la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato va condotta con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione”.

    Alla stregua del suddetto principio, pertanto, non assumono rilievo le modifiche che la legge 7 agosto 2015, n. 124 ha apportato all’art. 19 L.P.A. per la semplificazione amministrativa sulla riduzione del termine che l’Amministrazione è tenuta ad osservare per l’esercizio dei poteri inibitori e sanzionatori.

    Ad avviso del rimettente, il contrasto tra la disciplina statale e quella regionale comporta quindi la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sia con riguardo alla violazione dei principi fondamentali della materia edilizia, rientrante in quella più generale del «governo del territorio» oggetto di competenza concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., sia con riguardo al mancato rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali stabiliti con legge dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

    Ciò in quanto, la disciplina regionale impugnata altera gravemente l’equilibrio tra i due valori sopra menzionati, a sfavore della tutela dell’affidamento del privato, che la norma incriminata non tiene in alcuna considerazione.

    Secondo il rimettente, la disposizione censurata sarebbe affetta da illegittimità costituzionale, in quanto consentirebbe all’Amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della SCIA, in un numero di ipotesi più ampio rispetto a quello previsto dai commi 3 e 4 dell’art. 19 della L.P.A.

    È pacifico secondo la giurisprudenza costituzionale che, nell’ambito della materia concorrente inerente il “governo del territorio”, i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale (così sentenze n. 259 del 2014, n. 139 e n. 102 del 2013, n. 303 del 2003). Pertanto, la Consulta ritiene fondata la questione di legittimità sul punto, sussistendo il contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 117, comma 3, Cost.

    Il giudice a quo, con una dettagliata ricostruzione della segnalazione di inizio attività, precisa che, lungi dall’esaurirsi in una mera dichiarazione o segnalazione, tale fattispecie ha una struttura complessa, che si sviluppa in due fasi: una prima fase di ordinaria attività di controllo dell’Amministrazione (rispettivamente nei termini di sessanta e trenta giorni); una seconda fase, ulteriore, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa.

    A ben vedere, questa seconda fase ulteriore va integrare il titolo abilitativo, che costituisce, con essa, un tutt’uno inscindibile, il cui perno è costituito proprio dall’autotutela - istituto di portata generale – che si colloca nello snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo - ossia il suo riesercizio, e la tutela dell’affidamento del privato.

    In realtà, è proprio la fase di formazione dei titoli abilitativi a costituire il momento in cui il legislatore coniuga le esigenze di certezza delle situazioni giuridiche maturate a seguito della DIA (ormai SCIA) alle ragioni di tutela dell’interesse pubblico urbanistico.

    Ne discende che anche per questa parte, la disciplina in questione costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio».

    Con riguardo ai principi fondamentali riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di chiarire più volte che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenze n. 272 del 2013 e n. 237 del 2009).

    Invero, nel caso di specie la normativa regionale citata, nell’attribuire all’Amministrazione un siffatto potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale, incidendo quindi sui punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo e il suo ambito di esercizio che non supera il vaglio di costituzionalità del Giudice delle leggi.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 23 marzo 2016, n. 57

     

    Oggetto: Rito abbreviato ed ergastolo – Art. 4 ter, commi 2 e 3 del D.L. 4 aprile 2000, n. 82, conv. con modificazioni dall’art. 1, comma 1, dalla L. 5 giugno 2000, n. 144 – Successione leggi nel tempo e principio del favor rei – Art. 7, comma 1 (a seguito della declaratoria di incostituzionalità) e comma 2, del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, conv. con modificazioni in L. 19 gennaio 2001, n. 4 – Sentenza Scoppola: quando il giudicato può essere recessivo – Artt. 3 e 117, comma 1, Cost.

    Dispositivo: inammissibilità.

    Il giudice delle indagini preliminare del Tribunale di XXX (d’ora in poi “GIP”), solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-ter, commi 2 e 3, del D.L. 7 aprile 2000, n. 82 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, commi 1, dalla L. 5 giugno 2000, n. 144 e dell’art. 7, comma 1 del D.L. 24 novembre 2000, n. 341, in riferimento agli artt. 3 e 117, comma 1 della Costituzione, quest’ ultimo in relazione all’art. 7, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti “CEDU”), con i motivi che verranno illustrati di seguito.

    Nella controversia oggetto della rimessione, l’interessato chiedeva alla corte d’assise d’appello la definizione del processo con il rito abbreviato, all’esito del quale, con sentenza dell’11 marzo 2002, era stato condannato alla pena dell’ergastolo.

    Il giudice rimettente osserva che l’esame delle questioni dovrebbe essere operato alla luce dell’orientamento consolidato della Corte di cassazione, secondo cui, in seguito alla sentenza Scoppola, “il condannato alla pena dell’ergastolo con sentenza passata in giudicato può ottenere in sede esecutiva la riduzione della pena ex art. 442 del codice di procedura penale, a condizione che abbia chiesto e sia stato ammesso al rito abbreviato tra il 2 gennaio e il 24 novembre 2000, con applicazione del D.L. n. 341 del 2000 che ripristinava l’ergastolo senza isolamento diurno” (Corte di cassazione, prima sezione penale, 17 maggio 2013, n. 23931).

    Il giudice a quo non manca di evidenziare, inoltre, come la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 210 del 2013 abbia riconosciuto il dovere dello Stato di conformare l’ordinamento ai principi affermati dalla Corte EDU, concludendo che con ragione le Sezioni Unite avevano ritenuto che la sentenza Scoppola obbligasse l’Italia a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovano nelle medesime condizioni.

    Secondo quanto disposto con la citata pronuncia, la Consulta stabiliva che la formazione del giudicato non avrebbe ostacolato l’adempimento di quest’obbligo, in quanto sarebbe diventato recessivo in presenza di sopravvenienze relative alla punibilità e al trattamento punitivo.

    Trova, quindi, conferma la possibilità per il giudice di intervenire sul titolo esecutivo, anche se coperto da giudicato penale, per modificare la pena, quando:

       - La misura della norma è prevista da una norma di cui è stata riconosciuta l’illegittimità convenzionale;
       - Quando tale riconoscimento sorregge un giudizio altamente probabile di illegittimità costituzionale della stessa norma, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

    Ad avviso del rimettente, ricorrerebbe una fattispecie complessa, caratterizzata dalla coesistenza di posizioni giuridiche di distinta natura: il diritto potestativo di concludere il processo con un rito alternativo (l’abbreviato) e la posizione giuridica soggettiva parallela «di vedere definito il giudizio» applicando la disciplina sostanziale di riferimento «favorevole» in vigore nel momento in cui era sorta la specifica posizione processuale.

    In questo modo, osserva il GIP, “verrebbero differenziate in modo irrazionale due categorie di imputati”: da un lato vi sarebbero quelli che erano riusciti a chiedere il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore del decreto-legge di interpretazione autentica, i quali potrebbero, per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale, beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di trenta anni di reclusione; dall’altro quelli che, per una «pura congiuntura del caso», legata alla fissazione della data della prima udienza in grado d’appello, non avevano potuto esercitare «in concreto» quel diritto potestativo, riconosciuto dall’art. 4-ter del d.l. n. 82 del 2000 attraverso il rinvio all’art. 442 cod. proc. pen., come modificato dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999.

    I giudici della Consulta, prendendo le mosse dalle vicende relative alla successione della legge 479/1999 e il D.L. n. 341/2000 operanti modifiche all’art. 442 c.p.p., ribadiscono i limiti della sentenza emessa dalla Corte EDU in relazione al caso Scoppola contro Italia.

    A ben vedere, nel caso Scoppola, il ricorrente aveva chiesto il giudizio abbreviato prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 del D. n. 341 del 2000 (quando era previsto che la condanna all’ergastolo con isolamento diurno, che avrebbe dovuto essergli inflitta, andasse sostituita con la pena di trenta anni di reclusione), ma, nonostante ciò, per effetto della sopravvenuta norma interpretativa dell’art. 7, comma 1, era stato condannato all’ergastolo.

    Ciò premesso, l’utilizzabilità del procedimento esecutivo per conformarsi alla sentenza della Corte EDU, come addotto dal rimettente. è possibile solo nell’ipotesi in cui «si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo, ma possa trovare un rimedio direttamente in sede esecutiva». Tuttavia, la diversità della vicenda in questione dal caso Scoppola, fa propendere per l’immediata esclusione del contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. Alla luce di ciò non sussiste nessun ragionevole motivo che giustifichi un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione.

     

  • Corte Costituzionale - Sentenza 5 aprile 2016, n. 68

     

    Oggetto: Perequazione inerente all’urbanistica contrattata – art. 17, comma 1, lett. g) D.L. 12 settembre 2014, n. 133, conv., con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della L. 11 novembre 2014, n. 164 – contributo straordinario e interesse pubblico urbanistico - artt. 3, 23, 117, comma 3, lett. g) e comma 4, 118, 119 e 120 Cost.

    Dispositivo: inammissibilità.

    La norma impugnata si inserisce in un impianto normativo volto regolare «la c.d. perequazione inerente all’urbanistica contrattata, ovvero quella forma di perequazione diretta alla riappropriazione di quota parte del valore che l’amministrazione determina con le decisioni in materia urbanistica», che, ad avviso della ricorrente risulterebbe incostituzionale sotto molteplici profili.

    Chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 comma 1, lett. g) D.L. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della L. 11 novembre 2014, n. 164, sollevata dalla Regione xxx, in riferimento agli artt. 3, 23, 117, terzo e quarto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, la Corte Costituzionale dichiara la questione inammissibile.

    In primo luogo, la Regione ricorrente rilevava l’illegittimità del «contributo straordinario», che, siccome effettuato autoritativamente e senza contrattazione alcuna con la parte privata, si porrebbe in contrasto con l’art. 23 Cost., a causa dell’ampia discrezionalità amministrativa assegnata dalla norma alle amministrazioni comunali.

    In particolare, la disposizione risulterebbe contraddittoria rispetto allo scopo di dettare una norma di principio finalizzata a garantire uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale, in quanto, facendo salve “le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali”, renderebbe il principio cedevole di fronte a legislazioni regionali e strumenti urbanistici comunali.

    A causa dell’amplissima discrezionalità amministrativa che la disposizione impugnata attribuisce alle amministrazioni comunali, la Regione rileva in essa ulteriori profili di illegittimità inerenti la lesione delle competenze legislative regionali, la violazione del principio di ragionevolezza e di riserva relativa di legge.

    L’impossibilità di ascrivere le questioni dedotte dalla Regione all’ambito del riparto di competenze tra Stato e Regioni, e il fatto che si tratta dell’unico tema che può formare oggetto di ricorso in via principale, portano la Corte Costituzionale a dichiararne l’inammissibilità.

    Ad avviso della Consulta, siffatta norma va riletta per intero, tenendo in considerazione l’inciso per il quale «sono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali», che lascia quindi alle Regioni la possibilità di incidere in senso modificativo rispetto alla disciplina censurata.

    La Corte Costituzionale fa presente il costante orientamento per il quale le Regioni, nei giudizi in via principale, possano far valere il contrasto con gli artt. 117, 118 e 119 e 120 Cost., «solo in caso di invasione della propria sfera di competenza, intesa come menomazione della sfera regionale di attribuzioni da parte della legge statale», senza che possano avere rilievo denunce di illegittimità o di violazione di princìpi costituzionali che non ridondino in lesioni di sfere di competenza regionale (ex plurimis, sentenza n. 251 del 2015).

    Non presenta la norma censurata alcun profilo di ridondanza rispetto alla sfera di competenza attribuita al legislatore regionale, la Consulta rileva la carenza di un concreto e attuale interesse a ricorrere per la Regione, dal momento che nessuna turbativa può ragionevolmente lamentare alle proprie competenze legislative.

    In proposito, va rammentato il principio giurisprudenziale per il quale: “Nei giudizi di legittimità costituzionale proposti in via principale – che abbiano ad oggetto questioni relative a disposizioni contenute nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione – deve necessariamente sussistere, nella parte ricorrente, un interesse attuale e concreto a proporre l’impugnazione, per conseguire, attraverso il provvedimento richiesto, un’utilità diretta e immediata; diversamente il ricorso risulta inammissibile. Poiché l’unico interesse che le Regioni sono legittimate a far valere è quello alla tutela del riparto delle competenze legislative delineato dalla Costituzione, esse hanno titolo a denunciare soltanto le violazioni che siano in grado di ripercuotere i loro effetti, direttamente e immediatamente, sulle prerogative costituzionalmente loro riconosciute” (ex plurimis, sentenza n. 216 del 2008).

  • Corte Costituzionale - Sentenza 7 aprile 2016, n. 76

     

    Oggetto: Adozione – artt. 35, comma 3 e 36, comma 4 della Legge 4 maggio 1983, n. 184 – rapporto genitoriale –– art. 41 della Legge n. 218/1995 e art. 44, comma 1, lett. b) della Legge n. 184/1983 – necessaria diversità dei sessi - Artt. 2, 3, 30, 31 e 117, comma 1 Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU

    Dispositivo: inammissibilità.

    La questione oggetto della sentenza in epigrafe, trae origine dalla richiesta di riconoscimento di una sentenza straniera, con la quale era stata disposta l’adozione piena di una minore in favore della ricorrente con responsabilità genitoriale congiunta a quella della madre biologica, con la quale si era unita in matrimonio all’estero.

    Il Tribunale per i minorenni di XXX (d’ora in poi il “Tribunale”) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184, per violazione degli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti “CEDU”).

    Nella specie, procedendo ai sensi dell’art. 41 della L. n. 218/1995, il rimettente rileva che pur sussistendo «tutte le condizioni di carattere procedurale e processuale» richieste dalla legge per il riconoscimento del provvedimento straniero, tuttavia, al riconoscimento di siffatto provvedimento ostava la sua contrarietà all’ordine pubblico interno.

    Invero, la lettura prevalente e maggioritaria - corrispondente a “diritto vivente”- degli artt. 41 della legge n. 218 del 1995 e 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983 (sull’adozione in casi particolari), dovrebbe indurre il giudice a quo a escludere che “un minore possa essere adottato da persona che sia coniuge del genitore nell’ambito di un matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, costituendo la necessaria diversità dei sessi un presupposto implicito e inderogabile della disciplina adottiva, tale da essere ricondotto all’area semantica dell’Ordine pubblico interno”.

    Sul punto, il rimettente ricorda una pronuncia della Prima Sezione della Corte di cassazione (sent. n. 3572 del 14 febbraio 2011), secondo la quale l’adozione disposta ai sensi dell’art. 36, comma 4, della legge n. 184 del 1983, non avrebbe introdotto alcuna deroga al principio generale enunciato al comma 3 del precedente art. 35, che stabilisce che il riconoscimento del provvedimento di adozione di un minore pronunciato all’estero, non può avere luogo ove contrario «ai principi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori».

    Tra questi principi – secondo il giudice a quo – vi sarebbe anche quello secondo cui l’adozione è permessa solo a coniugi «uniti in matrimonio» ai sensi dell’art. 6 della legge n. 184 del 1983, che, nell’ordinamento italiano, è consentito solo a persone di sesso diverso.

    Tuttavia, il rimettente ritiene che non possa più essere considerato contrario all’ordine pubblico il matrimonio contratto tra persone del medesimo sesso all’estero.

    Invero, nel nostro ordinamento, detto matrimonio, sebbene improduttivo di effetti giuridici, non sarebbe inesistente (così Corte di cassazione, sezione prima civile, 15 marzo 2012, n. 4184).

    Inoltre, il giudice a quo evocando talune decisioni in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe affermato che la coppia formata da persone dello stesso sesso è da considerare “famiglia” (sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, e sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria), ricorda come la stessa Corte costituzionale avrebbe riconosciuto la tutela ex art. 2 Cost. alla coppia omosessuale in quanto formazione sociale (sentenza n. 170 del 2014).

    Per queste ragioni, il Tribunale ritiene che la disciplina «in materia di riconoscimento dell’adozione perfezionatasi all’estero» sia censurabile, in primo luogo, poiché gli artt. 35 e 36 della legge n. 184 del 1983 violerebbero gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto intendono l’omosessualità dei genitori come impedimento assoluto di riconoscimento; in secondo luogo, rileva l’ulteriore contrasto con gli artt. 2, 3, 30, 31 e 117 Cost., quest’ultimo in riferimento agli artt. 8 e 14 della CEDU, in quanto il divieto assoluto di riconoscimento della decisione straniera cancellerebbe «in modo netto e irrazionale» la possibilità, per il giudice italiano, di condurre un vaglio sull’effettivo interesse del minore, vanificando tutti i principi in materia di matrice internazionale ed europea (in particolare, si ricordano la Convenzione sui diritti del fanciullo, stipulata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).

    La Consulta rileva come il giudice rimettente abbia compiuto un errore nell’incipit del suo iter logico-argomentativo, dal momento che ha ancorato un immediato riferimento all’art. 41 della legge n. 218/1995 per il riconoscimento da effettuare.

    Rilevano i giudici come siffatta norma preveda ben due diversi procedimenti per giungere al riconoscimento del provvedimento straniero.

    Il comma 1 stabilisce, quale regola di carattere generale, il riconoscimento “automatico” attraverso il rinvio agli artt. 64, 65 e 66 della medesima legge; al comma 2, invece, opera un riferimento alla disciplina specifica contenuta nella legge n. 184 del 1983, anzitutto, agli artt. 35 e 36 di tale legge, i quali prevedono che il riconoscimento in parola sia subordinato ad un vaglio da parte del Tribunale per i minorenni.

    La Consulta rileva che “la giustificazione che il giudice a quo fornisce in ordine all’esistenza della propria potestas iudicandi esibisce un difetto di motivazione sulla rilevanza: se egli avesse ritenuto che la sentenza straniera dovesse essere riconosciuta “in modo automatico”, ai sensi del comma 1 dell’art. 41 della legge n. 218 del 1995, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile la domanda, poiché, in tale ipotesi, il provvedimento straniero potrebbe essere direttamente presentato all’ufficiale di stato civile per la trascrizione; se, invece, avesse adeguatamente motivato in ordine al fatto che la legge n. 218 del 1995 gli consentiva di svolgere un “giudizio” ai fini del riconoscimento della sentenza di adozione pronunciata all’estero, avrebbe dovuto fare riferimento unicamente all’art. 41, comma 2, della legge n. 218 del 1995 e alle pertinenti disposizioni della legge n. 184 del 1983”.

    Il giudice rimettente, ad avviso del Collegio, ha quindi erroneamente ricondotto la fattispecie oggetto del proprio giudizio ad una disposizione – appunto il citato art. 36, comma 4 – volta ad impedire l’elusione, da parte dei soli cittadini italiani, della rigorosa disciplina nazionale in materia di adozione di minori in stato di abbandono, attraverso un fittizio trasferimento della residenza all’estero.

    L’inadeguata individuazione, da parte del giudice rimettente, del contesto normativo determina, dunque, un’erronea qualificazione dei fatti sottoposti al suo giudizio, tale da riverberarsi sulla rilevanza delle questioni proposte (ex plurimis, ordinanze n. 264 del 2015 e n. 116 del 2014).

    Per questi motivi, dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 4 maggio 1983, n. 184 in relazione alle norme indicate.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 13 aprile 2016, n. 84

     

    Oggetto: Procreazione medicalmente assistita – art. 6, comma 3, ultimo capoverso e art. 13 comma 1,2 e 3 della L. n. 40/2004 – revoca del consenso – tutela dell’embrione e tutela della ricerca scientifica – art. 2, 9, 13, 32,33 Cost. – donazione di embrioni alla ricerca.

    Dispositivo: inammissibilità.

    Le questioni di legittimità costituzionale portate all’esame di questa Corte, pronunciatasi con la sentenza in epigrafe, sono state sollevate nell’ambito di un procedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c., nel quale la ricorrente chiedeva la riconsegna degli embrioni prodotti risultati non impiantabili a seguito di trattamento di procreazione medicalmente assistita (di seguito, breviter, la “PMA”).

    In ragione della rilevanza della questione ai fini della controversia, il Tribunale adito solleva la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo capoverso e dell’art. 13, commi da 1 a 3, della legge n. 40 del 2004, per violazione degli artt. 2, 3, 9, 13, 31, 32 e 33 della Cost.

    Sulla questione inerente il divieto assoluto di effettuare qualsiasi ricerca sull’embrione non finalizzata alla tutela dello stesso, il rimettente prospetta «la completa negazione delle esigenze individuali e collettive sottese all’attività di ricerca scientifica, proprio in quei settori quali la terapia genica e l’impiego delle cellule staminali embrionali, che la comunità medico-scientifica ritiene fra i più promettenti per la cura di numerose e gravi patologie».

    Sulla questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge citata, avente ad oggetto la revoca del consenso al trattamento di PMA dopo la fecondazione dell’ovocita, il giudice rimettente rileva come esso rappresenterebbe “una palese violazione del principio regolativo del rapporto medico/paziente, poiché il paziente verrebbe espropriato della possibilità di revocare l’assenso al medico di eseguire atti sicuramente invasivi della propria integrità psico-fisica”.

    È di immediata evidenza come la questione di legittimità costituzionale sollevata abbia ad oggetto il bilanciamento di valori contrapposti, quali l’interesse alla tutela dell’embrione e quello allo sviluppo della scienza con la ricerca, che non si può che dirimere con una modifica dell’assetto normativo.

    Specie in relazione alla censura riguardante l’art. 13: ove si sollecita una pronuncia additiva tale da comportare un temperamento dell’assolutezza del divieto, nell’ipotesi in cui venga accertato in concreto che l’embrione non sia più impiegabile a fini procreativi.

    In particolare, si vuole che esso possa essere utilizzato - previa acquisizione del consenso dei generanti - per altri scopi «costituzionalmente rilevanti», quale quello della ricerca scientifica bio-medica ai fini della tutela della salute, come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività.

    I giudici della Consulta rilevano anzitutto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, ultimo capoverso, della citata legge, dichiarandone l’inammissibilità per il carattere meramente ipotetico, e non attuale, della sua rilevanza. Lo stesso Tribunale rimettente riferisce, infatti, che la ricorrente, dopo avere, in un primo momento, dichiarato di non volersi sottoporre all’impianto in utero dell’unico embrione sicuramente non affetto da patologie, ha poi comunque accettato di portare a termine il trattamento di PMA. Alla luce di ciò, tale intento, pro futuro, non vale a rendere “attuale” la questione della revoca del consenso nell’ambito del giudizio principale.

    Ad avviso del Collegio, in realtà la questione, così sollevata, rimanda ad un conflitto gravido di implicazioni etiche oltreché giuridiche: si tratta del conflitto tra scienza e diritti dell’embrione, in ordine alla cui soluzione non sussiste un generale consenso, ma solo diverse (e divergenti) opinioni, aventi come denominatore comune la tutela dell’embrione.

    È costantemente ribadito in giurisprudenza che l’embrione, «quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico»; ciò in quanto «il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova […] giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista».

    Da ciò non può quindi che ribadirsi la dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente individuato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.» (Sentenza n. 229 del 2015).

    Alla luce di ciò, la tutela dell’embrione non è suscettibile di affievolimento per il solo fatto che si tratti di embrioni affetti da malformazione genetica, tant’è che è sanzionata penalmente la condotta di soppressione anche di embrioni malati (sentenza n. 229 del 2015).

    Va inoltre rilevato per completezza, che il divieto di sperimentazione sugli embrioni in analisi è stato censurato da ultimo dalla Corte di Strasburgo, non tanto per contrasto con l’art. 8 CEDU, quanto in base alla considerazione per la quale gli embrioni non possono essere ricondotti al rango di “beni” (Causa: Parrillo contro Italia, Grande Chambre, sentenza del 27 agosto 2015).

    In particolare, sul divieto di donazione di embrioni umani alla ricerca scientifica alla luce delle complesse problematiche di ordine etico connesse alla materia e del fatto che non c’è un vasto consenso europeo sul punto, la Corte ha ritenuto che il Governo non abbia ecceduto l’ampio margine di discrezionalità di cui godeva nel caso di specie.

    Pertanto, la Consulta ritiene giuridicamente inaccettabile la pretesa dei genitori di considerarsi “proprietari” degli embrioni che abbiano generato come se questi fossero mero materiale biologico e non loro figli. Ciò consequenzialmente alla convinzione che la sperimentazione si basa necessariamente sul consenso informato del paziente, che, quindi, nel caso di specie non può esserci, in quanto l’embrione, non essendo persona ma principio, non può prendere una decisione su ciò che lo concerne, tanto meno quando questa implichi la sua estinzione.

    In conclusione, i giudici sostengono fortemente che il rispetto dovuto alla vita (ancorché solo “in nuce”) non dovrebbe consentire di equiparare l’ “uccidere” al “lasciar morire”.

    La Corte, in sintesi afferma che “la linea di composizione tra gli opposti interessi, che si rinviene nelle disposizioni censurate, attiene all’area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”.

    Non potrebbe in ogni caso introdursi nel tessuto normativo una scelta di così elevata discrezionalità, per i profili assiologici che la connotano, attraverso un intervento additivo, pertanto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi da 1 a 3, e dell’art. 6 ult. cpv. della legge n. 40 del 2004 è inammissibile.

  • Corte Costituzionale - Sentenza 22 aprile 2016, n. 90

     

    Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità – art. 8, comma 3 della Legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 10/1991 – art. 42, comma 3 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Protocollo addizionale CEDU.

    Dispositivo: infondatezza.

    Con la pronuncia in epigrafe, la Corte Costituzionale dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 15 aprile 1991, n. 10, sollevata dal giudice rimettente, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (d’ora in poi “CEDU”).

    La questione trae origine da un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità espropriativa, promosso dalla Società xxx (di seguito, breviter, la “Società”), in relazione ad una vicenda espropriativa, riguardante un’area di proprietà della società stessa, volta alla realizzazione di opere di risanamento di un’ex discarica, da parte del Comune di xxx (di seguito, breviter, il “Comune”).

    Il giudice a quo, rinviando ad un orientamento della Corte costituzionale, osserva che «la determinazione dell’indennità espropriativa non può prescindere dal valore effettivo del bene espropriato» e che, «pur non avendo il legislatore il dovere di commisurare integralmente l’indennità al valore di mercato, quest’ultimo parametro rappresenta un importante termine di riferimento ai fini della individuazione di una congrua indennità in modo “da garantire il giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui”».

    In particolare, il giudice rimettente ricorda la sentenza n. 181 del 2011, con la quale la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del criterio del valore agricolo medio (previsto per le aree non edificabili), in quanto «non teneva conto delle caratteristiche specifiche del bene espropriato quali la posizione del suolo, del valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione) e di quant’altro può incidere sul valore venale di esso».

    Il giudice a quo ritiene che il criterio utilizzato dall’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 sia «del tutto simile» al criterio del valore agricolo medio, ritenuto illegittimo in quanto «elusivo del legame che l’indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato», secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e non «rispondente all’esigenza di garantire un serio ristoro più volte espressa dalla giurisprudenza costituzionale».

    Il rimettente fonda la rilevanza della questione, sottolineando la differenza che, secondo le conclusioni del CTU, sussiste tra l’indennità calcolata in base alla norma censurata e l’indennità «determinata sulla base del valore di mercato dell’area ablata che, a seconda delle modalità di calcolo seguite, può risultare pari a euro 1.008.235,00 ovvero a euro 353.850,00».

    Come anticipato, il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provinciale citata, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, poiché il criterio indicato dalla norma censurata sarebbe «elusivo del legame che l’indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato».

    In via preliminare, occorre precisare che la norma censurata dal giudice rimettente è ancora vigente, ma non si trova, attualmente, nell’art. 8, comma 3, della legge provinciale citata, bensì nell’art. 7-quater della medesima legge, a seguito delle modifiche recate ad essa dalla legge provinciale 13 novembre 2009, n. 9.

    La disposizione oggetto del presente giudizio, dunque, è rimasta inalterata nel suo contenuto, ma ne è mutata la collocazione. Ciò premesso, lo scrutinio della Corte adita verterà sul citato art. 8, comma 3.

    Ad avviso della Consulta, la questione di legittimità costituzionale non è fondata.

    L’art. 8, comma 3, della legge citata, in realtà si differenzia dalle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalle sentenze alle quali il giudice a quo nell’ordinanza di rimessione rinvia, in quanto in esse è stato censurato il carattere astratto del criterio di determinazione dell’indennità, corrispondente ad un «valore agricolo medio» definito ogni anno in base a due elementi: la zona agraria e il tipo di coltura.

    L’automaticità e l’astrattezza del meccanismo di quantificazione previsto da quelle norme conducevano a determinare un’indennità che non teneva conto delle caratteristiche specifiche del terreno e che, dunque, poteva essere priva di un ragionevole legame con il valore di mercato del bene.

    La norma censurata prevede, invece, un’indennità che «consiste nel giusto prezzo», da individuare «entro i valori minimi e massimi» stabiliti dalla commissione provinciale estimatrice.

    Poiché i valori agricoli variano tra un minimo e un massimo per aree situate nella stessa zona e oggetto della stessa coltura, ciò significa che la commissione dovrà dare rilievo a elementi diversi dal tipo di coltura, cioè alle altre caratteristiche del terreno. Ciò concorre a dimostrare la differenza tra il criterio utilizzato dalla disposizione oggetto del presente giudizio rispetto a quello contenuto nelle disposizioni richiamate dal giudice a quo.

    Alla luce di queste considerazioni, il Collegio ritiene che quanto fin qui esposto dimostra l’infondatezza dell’assunto posto a base dell’ordinanza di rimessione.