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Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Unione Europea



Osservatorio sulla Giurisprudenza dell'Unione Europea aggiornato al 30 aprile 2017. A cura di Stefania Siciliano

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  • Sentenza della Corte di Giustizia (Seconda Sezione) del 9 marzo 2017, C-398/15 Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Lecce contro S.M.

    Con ricorso del 12 dicembre 2007 il Sig. Manni ha convenuto in giudizio la Camera di commercio di Lecce per chiedere la cancellazione dei suoi dati personali dal registro delle imprese relativi al suo stato di amministratore unico e liquidatore di una società immobiliare dichiarata fallita e cancellata dal registro delle imprese all’esito della liquidazione.

    Con sentenza del 2011 il Tribunale di Lecce ha accolto la domanda del Sig. M. ordinando alla Camera di commercio di Lecce la trasformazione in forma anonima di tali dati.

    La Corte Suprema di Cassazione investita dalla Camera di commercio di Lecce di un ricorso per cassazione avverso tale sentenza, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

    • se l’articolo 3 della direttiva 68/151 (che disciplina il sistema di pubblicità attuato con il registro delle imprese) e l’articolo 6, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 95/46, debbano essere interpretati nel senso che gli Stati membri possono, o addirittura devono, consentire alle persone fisiche di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettere d) e j) della direttiva 68/151 di chiedere all’autorità incaricata della tenuta del registro delle imprese, decorso un certo periodo di tempo dopo lo scioglimento della società interessata e in base ad una valutazione da compiersi caso per caso, di limitare l’accesso ai dati personali, iscritti in detto registro, che le riguardano.

    La Corte, nel decidere la questione pregiudiziale, rileva innanzitutto che il sistema di pubblicità attuato con il registro delle imprese è finalizzato a garantire che l’obbligo della pubblicità per le società concerna almeno la nomina, la cessazione dalle funzioni, nonché le generalità delle persone che hanno il potere di obbligare la società di fronte ai terzi e di rappresentarla in giudizio o partecipano all’amministrazione, all’ispezione o al controllo della società;  devono, inoltre, essere resi pubblici la nomina e le generalità dei liquidatori e, in linea di principio, i loro rispettivi poteri.   Tali indicazioni concernenti persone fisiche identificate o identificabili ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 68/151, costituiscono «dati personali» di cui all’articolo 2, lettera a), della direttiva 95/46, in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte, la circostanza per cui dette informazioni si inseriscono nel contesto di un’attività professionale non è idonea a privarle di tale qualificazione. 

    Peraltro, nel trascrivere e conservare dette informazioni nel registro e nel comunicarle, se del caso, a terzi su richiesta, l’autorità incaricata della tenuta del registro effettua un «trattamento di dati personali», per il quale essa è «responsabile».

    La direttiva 95/46 mira a garantire un livello elevato di protezione delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone fisiche, in particolare del diritto alla vita privata, con riguardo al trattamento dei dati personali (v. sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google, C-131/12, EU:C:2014:317).  In tal senso, l’articolo 7 della Carta garantisce il diritto al rispetto della vita privata, mentre l’articolo 8 della medesima proclama espressamente il diritto alla protezione dei dati personali.  

    Ciò premesso - rileva la Corte - ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 95/46, gli Stati membri dispongono che i dati personali debbano essere conservati in modo da consentire l’identificazione delle persone interessate per un arco di tempo non superiore a quello necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono rilevati o sono successivamente trattati. Quando tali dati sono conservati oltre il suddetto arco di tempo per motivi storici, statistici o scientifici, gli Stati membri prevedono garanzie adeguate; spetta al responsabile del trattamento garantire il rispetto di tali principi. In caso di inosservanza di tali prescrizione gli Stati membri garantiscono alla persona interessata, il diritto di ottenere dal responsabile del trattamento, a seconda dei casi, la cancellazione o il congelamento dei dati di cui trattasi (v., in tal senso, sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google, C-131/12, EU:C:2014:317). Peraltro gli Stati membri riconoscono alla persona interessata il diritto di opporsi in qualsiasi momento, per motivi preminenti e legittimi, derivanti dalla sua situazione particolare, al trattamento di dati che la riguardano, salvo disposizione contraria prevista dalla normativa nazionale. In caso di opposizione giustificata, il trattamento messo in atto dal responsabile di quest’ultimo non può più riguardare tali dati (v. sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google, C-131/12, EU:C:2014:317, punto 76).

    Ciò posto per determinare se gli Stati membri debbano prevedere, per le persone fisiche di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 68/151 il diritto di chiedere alle autorità incaricate della tenuta del registro la cancellazione o il congelamento, decorso un certo periodo di tempo, dei dati personali iscritti in detto registro, o di limitarne l’accesso, la Corte di Giustizia ricerca, innanzitutto, la finalità di tali iscrizione, che  viene individuata nella tutela degli interessi dei terzi rispetto alle società per azioni e alle società a responsabilità limitata, dal momento che queste offrono come unica garanzia per i terzi il proprio patrimonio sociale. Inoltre scopo della direttiva è fornire la certezza del diritto nelle relazioni tra le società ed i terzi, in previsione di un incremento degli scambi commerciali fra gli Stati membri in seguito all’istituzione del mercato comune. 

    Per quanto concerne, inoltre, la questione se sia necessario che tali dati restino iscritti nel registro e/o siano accessibili per qualunque terzo, su richiesta, anche dopo la cessazione dell’attività e lo scioglimento della società interessata -  osservano i Giudici di Lussemburgo - che la citata direttiva non specifica nulla a tale proposito; tuttavia è pacifico che, anche dopo lo scioglimento di una società, possano residuare diritti e rapporti giuridici ad essa relativi.

    Al riguardo – evidenzia la Corte - alla luce della eterogeneità dei termini di prescrizione previsti dai diversi diritti nazionali nei diversi settori del diritto, risulta impossibile identificare un termine univoco, a far data dallo scioglimento di una società, allo spirare del quale non sarebbe più necessaria l’iscrizione nel registro e la pubblicità dei dati citati.

    In tali circostanze, gli Stati membri, non sono tenuti a garantire alle persone fisiche di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettere d) e j), della direttiva 68/151 il diritto di ottenere, in ogni caso, decorso un certo periodo di tempo dallo scioglimento della società di cui trattasi, la cancellazione dei dati personali che le riguardano, iscritti nel registro o il congelamento degli stessi nei confronti del pubblico. Deve, peraltro, ritenersi che tale interpretazione non sfocia in un’ingerenza sproporzionata nei diritti fondamentali delle persone interessate, ed in particolare nel loro diritto al rispetto della vita privata, nonché nel loro diritto alla tutela dei dati personali, garantiti dagli articoli 7 e 8 della Carta. 

    Tuttavia – rileva la Corte -  nonostante, l’esigenza di tutelare gli interessi dei terzi, non si può escludere che possano sussistere situazioni particolari in cui ragioni preminenti e legittime connesse al caso concreto della persona interessata giustifichino, in via eccezionale, che l’accesso ai dati personali ad essa relativi iscritti nel registro sia limitato, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società di cui trattasi, ai terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione.

    A tale proposito, la decisione finale circa la possibilità che le persone fisiche di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettere d) e j), della direttiva 68/151 chiedano all’autorità incaricata della tenuta del registro una simile limitazione dell’accesso ai dati personali che le riguardano, in base ad una valutazione da compiersi caso per caso, spetta ai legislatori nazionali.

     Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, la Corte risponde alle questioni sollevate dichiarando che spetta agli Stati membri determinare se le persone fisiche di cui all’articolo 2, paragrafo 1, lettere d) e j), della direttiva 68/151 possano chiedere all’autorità incaricata della tenuta del registro di verificare, in base ad una valutazione da compiersi caso per caso, se sia eccezionalmente giustificato, per ragioni preminenti e legittime connesse alla loro situazione particolare, decorso un periodo di tempo sufficientemente lungo dopo lo scioglimento della società interessata, limitare l’accesso ai dati personali che le riguardano, iscritti in detto registro, ai terzi che dimostrino un interesse specifico alla loro consultazione.

  • Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 7 marzo 2017 C-638/16, X e X contro État belge

    La domanda pregiudiziale in esame verte sul diritto dei cittadini di un paese terzo di presentare una domanda di visto  per motivi umanitari, sulla base dell’articolo 25 del codice dei visti, presso la rappresentanza dello Stato membro di destinazione situata nel territorio di un paese terzo, con l’intenzione di presentare, al momento dell’arrivo in tale Stato membro, una domanda di protezione internazionale e, pertanto, di ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno la cui validità non sia limitata a 90 giorni.

    Evidenzia, al riguardo,  la Corte che l’articolo 1 del regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, che istituisce il codice dei visti, come modificato dal regolamento (UE) n. 610/2013 è diretto a fissare le procedure e le condizioni per il rilascio dei visti di transito o per soggiorni previsti sul territorio degli Stati membri non superiori a 90 giorni su un periodo di 180 giorni. 

    Ne discende, pertanto, secondo la Corte che domande simili a quelle di cui al procedimento in oggetto, ancorché formalmente presentate sulla base dell’articolo 25 del codice dei visti, non rientrano nell’ambito di applicazione del suddetto codice.

    Inoltre, dal momento che ad oggi, il legislatore dell’Unione non ha adottato alcun atto per quanto riguarda le condizioni di rilascio, da parte degli Stati membri, di visti o di titoli di soggiorno di lunga durata a cittadini di paesi terzi per motivi umanitari, le domande in discussione nel procedimento principale rientrano nell’ambito di applicazione unicamente del diritto nazionale.

    Invero – evidenzia la Corte -  la conclusione contraria equivarrebbe, laddove il codice dei visti è stato concepito ai fini del rilascio di visti per soggiorni sul territorio degli Stati membri non superiori a 90 giorni su un periodo di 180 giorni, a consentire ai cittadini di paesi terzi di presentare, basandosi sul codice in parola, domande di visto finalizzate ad ottenere il beneficio di una protezione internazionale nello Stato membro di loro scelta, il che lederebbe l’impianto generale del sistema istituito dal regolamento n. 604/2013.

  • Sentenza della Corte (Grande Sezione) del 14 marzo 2017 C-157/15, Samira Achbita e Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding contro G4S Secure Solutions NV

    Con tale questione, il giudice del rinvio chiede alla Corte di Giustizia se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto di indossare un velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta in via generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, costituisce una discriminazione diretta vietata da tale direttiva.

    Tale direttiva all’articolo 1 stabilisce i principi che mira a perseguire, individuati nella lotta alle discriminazioni fondate su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

    Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, per «“principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1» della medesima direttiva. In particolare sussiste discriminazione diretta quando una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra che si trova in una situazione analoga, sulla base di uno qualsiasi dei motivi, tra i quali la religione.

    Per quanto riguarda la nozione di «religione», occorre rilevare che il legislatore dell’Unione ha fatto riferimento alla CEDU che prevede, al suo articolo 9, che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, e che tale diritto include, in particolare, la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

    Tratteggiato il quadro sistematico della disposizione in esame la Corte, nel decidere, valuta in primo luogo se dalla norma interna di cui al procedimento principale emerge una disparità di trattamento tra lavoratori a seconda della loro religione o delle loro convinzioni e, in caso affermativo, se tale disparità di trattamento costituisca una discriminazione diretta.

    Nel caso di specie - rileva la Corte - la norma interna del procedimento principale si riferisce al fatto di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose e riguarda, quindi, qualsiasi manifestazione di tali convinzioni, senza distinzione alcuna. 

    Si deve, pertanto, considerare – osservano i Giudici di Lussemburgo - che detta norma tratta in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa, imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni. Ne deriva, quindi,  che una norma interna come quella di cui trattasi nel procedimento principale non istituisce una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

    Tuttavia – prosegue la Corte - siffatta norma interna di un’impresa privata può, invece, costituire una discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, qualora venga dimostrato che l’obbligo apparentemente neutro da essa previsto comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che tale politica sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare. 

     Nel caso di specie, la Corte conclude affermando che  per quanto riguarda il rifiuto da parte di una lavoratrice, quale la sig.ra A., di rinunciare ad indossare il velo islamico nello svolgimento delle proprie attività professionali a contatto con i clienti della G4S, spetta al giudice del rinvio verificare se, tenendo conto dei vincoli inerenti all’impresa, e senza che quest’ultima dovesse sostenere un onere aggiuntivo, sarebbe stato possibile per la G4S, di fronte a siffatto rifiuto, proporle un posto di lavoro che non comportasse un contatto visivo con tali clienti, invece di procedere al suo licenziamento. 

  • SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA (Quarta Sezione) 5 aprile 2017 Nelle cause riunite C-217/15 e C-350/15, M. O. (C-217/15), L. B. (C-350/15) contro Italia

    Il sig. O. e il sig. B. sono imputati dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per il reato previsto e punito dall’articolo 10 ter del decreto legislativo n. 74/2000, in combinato disposto con l’articolo 10 bis del medesimo, perché nella loro qualità di legali rappresentanti di società, avrebbero omesso di versare, entro i termini previsti dalla legge, l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale per i periodi di imposta di cui ai procedimenti principali. 

    Con la questione in oggetto il giudice del rinvio chiede alla Corte di Giustizia se l’articolo 50 della Carta e l’articolo 4 del protocollo n. 7 alla CEDU debbano essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell’IVA dopo l’irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti.

    Rileva la Corte che l’applicazione del principio del ne bis in idem sancito dall’articolo 50 della Carta presuppone in primo luogo, che sia la stessa persona ad essere oggetto delle sanzioni o dei procedimenti penali di cui trattasi, così come rivela la formulazione letterale dell’ articolo in esame, secondo il quale «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge», nonché la stessa giurisprudenza della Corte relativa al principio del ne bis in idem, secondo la quale detto principio non può, in ogni caso, essere violato se non è la stessa persona ad essere stata sanzionata più di una volta per uno stesso comportamento illecito. 

    Nel caso di specie – osserva la Corte -  risulta che le sanzioni tributarie di cui ai procedimenti principali sono state inflitte a due società dotate di personalità giuridica, ossia la S.A. COM XXXXXXXX e Commercio e la E. XXXXXXX, mentre i procedimenti penali di cui trattasi riguardano il sig. O. ed il sig. B., che sono persone fisiche. Difetta, pertanto, la condizione per l’applicazione del principio del ne bis in idem secondo la quale la stessa persona deve essere oggetto delle sanzioni e dei procedimenti in questione, circostanza che spetta tuttavia al giudice del rinvio verificare.

    In definitiva, quindi, la Corte di Giustizia risponde alla questione posta dichiarando che l’articolo 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente di avviare procedimenti penali per omesso versamento dell’IVA dopo l’irrogazione di una sanzione tributaria definitiva per i medesimi fatti, qualora tale sanzione sia stata inflitta ad una società dotata di personalità giuridica, mentre detti procedimenti penali sono stati avviati nei confronti di una persona fisica.