ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Tutela dei diritti umani



Osservatorio sulla Giurisprudenza in materia di Tutela dei Diritti umani aggiornato al 30 settembre 2016. A cura di Lucia Sipala

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  • Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 5 luglio 2016 – Ricorso n. 23755/07 – Causa B. c. Moldavia

    Le circostanze del caso di specie 

    Il 5 maggio 2007, il ricorrente veniva posto in custodia cautelare in carcere  dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per il reato di appropriazione indebita ai danni della compagnia di gas di cui era amministratore delegato.  

    Il ricorrente impugnava il provvedimento eccependo l'assenza delle ragioni giustificatrici della misura cautelare, tenuto anche conto della sua età e del suo precario stato di salute. 

    La richiesta del pubblico ministero veniva accolta per una durata inferiore di quella da lui richiesta.

    Il provvedimento di custodia cautelare veniva poi esteso per altre tre volte, nonostante l'opposizione del ricorrente, fino al 21 giugno 2007.

    Il 20 luglio la misura cautelare imposta sul ricorrente veniva modificata e il ricorrente veniva posto agli arresti domiciliari. Questi venivano rinnovati il 14 dicembre 2007 per novanta giorni.

    Il 12 marzo 2008 le misure cautelari nei confronti del ricorrente venivano revocate.

    Il 9 giugno 2011 il ricorrente veniva assolto da tutti reati a lui imputati, tranne quello di aver venduto illegalmente il gas della compagnia, per il quale era stato condannato ad una multa di 20,000 lei moldavi.

    Dinnanzi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, il ricorrente lamentava la violazione  dell'articolo 5, paragrafo 1 posto a tutela del diritto alla libertà e alla sicurezza.

    La Camera della Corte riconosceva la violazione dell'articolo 5 paragrafo 3 della Convenzione, secondo il quale “[o]gni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 c del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura.[…]“ perchè le richieste di proroga delle misure cautelari personali nei confronti del ricorrente non erano state sufficientemente motivate. 

    Ai sensi dell' articolo 43 della Convenzione, il governo moldavo chiedeva che il caso fosse rinviato alla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell' Uomo.

    La valutazione della Grande Camera

    In via preliminare, la Grande Camera affermava che lo scopo dell'articolo 5 (3 ) della CEDU fosse quello di porre delle garanzie procedurali a quei casi di privazione della  libertà personale ritenuti legittimi dal paragrafo 1(c) della stessa disposizione.  

    In particolare, tale articolo ha lo scopo di garantire che le misure di custodia cautelare non eccedano una durata ragionevole.

    Secondo la Grande Camera sebbene la sussistenza dell' elemento del  fumus commissi delicti sia una condizione necessaria per l'ottenimento del provvedimento che ordina la custodia cautelare in carcere, questo elemento, da solo, non sufficiente a giustificare una  richiesta di proroga. In questo caso, infatti, le corti interne devono indicare quali altri elementi concreti del caso di specie che giustifichino una proroga di tali misure, se tali elementi sono „rilevanti' e „sufficienti' e se le autorità nazionali hanno agito con la diligenza dovuta ai fini di giustificare una richiesta  di proroga di tali misure. 

    Esempi di elementi  „rilevanti'  e „sufficienti' a giustificare una proroga  sono quelli che si riferiscono alle ipotesi in cui vi sia  il rischio che l'indagato si dia alla fuga, che possa commettere un altro reato dello stato tipo o che possa causare un  disturbo dell'ordine pubblico. 

    Inoltre, la valutazione della ragionevolezza della durata della detenzione provvisoria non può essere compiuta in termini astratti, dovendosi esaminare le specificità del caso concreto. L'elemento di „ragionevolezza' deve essere esaminato anche alla luce del principio della presunzione di innocenza.

    Riconfermando la giurisprudenza univoca della Corte dei Diritti dell' Uomo, la Grande camera ricordava che la misura cautelare degli arresti domicilia costituisce un esempio di privazione di libertà ai sensi dell'articolo 5 della CEDU esattamente come la misura cautelare di custodia in carcere e che la richiesta dell'imputato di essere sottoposto agli arresti domiciliari piuttosto che alla custodia cautelare in carcere non costituisce una rinuncia al suo diritto alla libertà, come aveva invece eccepito il governo moldavo.

    Inoltre, la Grande Camera notava che le richieste di proroga del PM nel caso di specie non erano sufficientemente motivate e ripetitive degli stessi elementi posti alla base della prima richiesta. Secondo la Grande Camera, infatti, le ragioni alla base delle ordinanze che prolungavano la custodia cautelare erano astratte, incoerenti e basate su mere concezioni stereotipate delle circostanze concrete del caso di specie.

    Pertanto la Grande Camera confermava la decisione della Camera della Corte in merito alla violazione dell'articolo 5, paragrafo 3 della CEDU.

  • Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 5 luglio 2016 – Ricorso n. 1799/07 – Causa Z. c. Polonia

    Le circostanze del caso di specie 

    Il ricorrente è il direttore di un giornale polacco a diffusione locale. 

    Il 18 agosto 2004 pubblicava un articolo dal titolo provocatorio in cui si riferiva ai membri del governo locale, senza direttamente citarne i nomi,  chiamandoli „teste vuote', „pigri', „stupidi'. I membri del governo locale, riconoscendosi nell' articolo scritto dal ricorrente, lo denunciavano per diffamazione e chiedevano le pubbliche scuse del ricorrente più la sua condanna al pagamento di una multa da versare ad un opera di beneficienza.

    Il ricorrente veniva quindi  condannato  perchè, secondo il tribunale polacco, la sua pubblicazione costituiva un esempio lampante di abuso del diritto alla libertà di espressione e di violazione delle regole deontologiche del giornalismo.

    L'applicante ricorreva in appello, affermando che l'articolo in questione intendeva essere sarcastico nei confronti di persone che, a detta del ricorrente,  arricchivano le proprie tasche facendo finta di lavorare, grazie anche al comportamento compiacente dei loro capi.

    La corte d' appello confermava la sentenza impugnata.

    Il signor Z. ricorreva quindi alla Corte Europea dei diritti dell' Uomo lamentando una violazione nei suo confronti dell'articolo 10, paragrafo 2, il quale limita l'esercizio della libertà di espressione qualora vi siano da proteggere la reputazione e i diritti altrui.

    La valutazione della Corte

    La corte riteneva che la violazione del diritto a esprimersi liberamente lamentata dal ricorrente possedeva tutti I requisiti necessari per essere considerate legittima ai sensi dell'articolo 10 comma 2 della CEDU. 

    Inoltre, la corte non riteneva necessario valutare ogni doglianza indicata dal ricorrente e affermava pertanto che non vi era dubbio che l'articolo in questione rimaneva nei limiti della „esagerazione ammissibile'. 

    Secondo la Corte Europea dei Diritti Umani, infatti, le autorità giudiziarie polacche non avevano considerato che l'articolo in questione fosse di genere satirico e che la satira in quanto tale, è volte a esagerare e distorcere la realtà al fine di provocare ed agitare i lettori. Di conseguenza, qualunque interferenza col diritto di usare questa forma di espressione artistica deve essere esaminata con particolare attenzione.

    Le Corte riteneva pertanto che nel caso di specie  l'interferenza con il diritto  del ricorrente ad esprimersi liberamente a era sproporzionato in rapporto al fine conseguito e non era quindi necessario in una società democratica.

  • Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 30 giugno 2016 – Ricorso n. 51362/09– Causa T. e M. c. Italia

    I ricorrenti,  T. di nazionalità italiana, e M. , di nazionalità neo-zelandese, sono una coppia dello stesso sesso convivente in Italia.

    Dopo il rifiuto da parte delle autorità italiane di rilasciare al secondo ricorrente un permesso di soggiorno per motivi familiari, sulla base del fatto che la nozione di «familiare» comprendeva soltanto il coniuge, i figli minori, i figli maggiorenni non autosufficienti per ragioni di salute e i genitori a carico che non disponevano di adeguato sostegno nel loro paese di origine, i ricorrenti lasciavano l' Italia per trasferirsi in Olanda.

    I due si univano in matrimonio in Olanda nel maggio 2010 e il secondo ricorrente otteneva un permesso di soggiorno dalle autorità olandesi.

    I ricorrenti si rivolgevano alla Corte Europea dei Diritti Umani lamentando la violazione degli articoli 8 e 14 in quanto il rifiuto da parte delle autorità italiane di rilasciare al secondo ricorrente un permesso di soggiorno per motivi familiari costituisse una discriminazione fondata sull' orientamento sessuale della coppia.

    La valutazione della Corte

    La Corte riconosceva preliminarmente che le decisioni adottate dagli Stati in materia di immigrazione possano, in alcuni casi, costituire un'ingerenza nell'esercizio del diritto al rispetto della vita privata e familiare  soprattutto quando gli interessati abbiano, nello Stato ospitante, dei legami personali o familiari sufficientemente forti che rischiano di essere gravemente compromessi in caso di applicazione della misura in questione.

    Successivamente, la corte definiva poi il termine „vita familiare' alla luce della sentenza Shalk e Kops.

    In quella sentenza la Corte aveva dichiarato che fosse artificioso continuare a considerare che, al contrario di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non potesse conoscere una «vita familiare» ai sensi dell'articolo 8 e riteneva che una coppia omosessuale convivente de facto in modo stabile rientrava nella nozione di «vita familiare» allo stesso titolo di quello di una coppia eterosessuale che si trovava nella stessa situazione. 

    Nel caso di specie, la Corte riteneva non vi fosse alcuna ragione per giungere ad una conclusione diversa rispetto a quella indicata nella sentenza Shalk e Kops, e affermava che un'interpretazione restrittiva della nozione di «familiare» costituisse un ostacolo insormontabile al rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari soltanto per le coppie omosessuali. 

    La Corte, pertanto, riconosceva che vi fosse stata, nel caso di specie, una disparità di trattamento. Tale disparità di trattamento, essendo fondata sull'orientamento sessuale, doveva essere giustificata da ragioni imperiose o da «motivi particolarmente solidi e convincenti». 

    In questo senso, secondo la Corte, in materia di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi familiari a un partner straniero omosessuale, l'esigenza di protezione della famiglia tradizionale non  costituisce un motivo «particolarmente solido e convincente» tale da giustificare, nelle circostanze del caso di specie, una discriminazione fondata sull'orientamento sessuale.

    Le autorità italiane avevano, pertanto, “omesso di trattarli in modo diverso dalle coppie eterosessuali e di tener conto della capacità di queste ultime di ottenere un riconoscimento legale della loro unione, e quindi di soddisfare le esigenze del diritto interno ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari, una possibilità di cui i ricorrenti non godevano”.1

    Alla luce di queste osservazioni, la Corte riteneva che lo Stato italiano avesse violato il diritto dei ricorrenti a non subire alcuna discriminazione fondata sull'orientamento sessuale nel godimento dei loro diritti sanciti all'articolo 8 della Convenzione.