ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Tutela dei diritti umani



Osservatorio sulla Giurisprudenza in materia di Tutela dei Diritti umani aggiornato al 30 giugno 2016. A cura di Lucia Sipala

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  • Sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 marzo 2016– Ricorso n.43611/11– Causa F.G. contro Svezia

    Le circostanze del caso di specie 

    Il 16 gennaio 2014 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo si era pronunciata nel caso F.G Contro  Svezia ed aveva ritenuto legittimo il rifiuto delle autorità svedesi di riconoscere lo status di rifugiato ad un cittadino iraniano convertitosi al cristianesimo sûr place (una volta, cioè, arrivato in Svezia).  

    La camera della Corte Europea aveva stabilito che le autorità svedesi avevano attentamente e correttamente considerato la richiesta di asilo del ricorrente e che le procedure seguite avevano rispettato le garanzie poste a tutela dei richiedenti asilo contro il  rimpatrio arbitrario (c.d.refoulement). 

    Di fronte alla Grande Camera F.G. ribadiva il fatto che, qualora venisse deportato in Iran, rischiava di essere torturato o sottoposto a trattamenti inumani o degradanti in ragione del suo credo religioso. Inoltre, in una lettera inviata alla Grande Camera, il ricorrente la informava del livello di serietà che la sua conversione  al cristianesimo aveva raggiunto, tale da essere considerata oggetto di protezione ai sensi dell’articolo 9, articolo posto a presidio della libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

    Ai sensi dell’ articolo 43 comma 3 della Convezione, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo si pronunciava sulla causa F.G C. Svezia. 

    La valutazione della Grande Camera

    In via preliminare la  Grande Camera affermava che sulla base dell’articolo 2, che tutela il diritto alla vita, e dell’articolo 3, che proibisce la tortura e altri trattamenti inumani e degradanti, gli Stati parte della Convenzione si obbligano a non espellere quelle persone che se rimpatriate rischiano di essere sottoposte a tali trattamenti. 

    In secondo luogo, la stessa aggiungeva che non era compito della Corte  esaminare le richieste in questione, o verificare se gli obblighi scaturenti dalla Convenzione di Ginevra sul diritto dei rifugiati sono stati adempiuti dallo Stato sotto esame. Il compito della Corte era, secondo la Grande Camera, quello di verificare che esistessero garanzie effettive volte a proteggere il richiedente asilo contro rimpatri arbitrari.

    Veniva considerata competenza della Corte, inoltre, considerare se vi erano fondati motivi per credere che la persona rischiava di essere sottoposta a tortura e altri trattamenti inumani e degradanti una volta fatto ritorno ‘a casa’. 

    Se l’esistenza di tale rischio era stabilita, il rimpatrio dell’applicante costituiva una violazione dell’articolo 3 della Convenzione, indipendentemente del fatto che tale rischio fosse dovuto alla situazione generale nel paese di destinazione, alle caratteristiche personali del richiedente asilo, o ad una combinazione delle due circostanze. 

    La Grande Camera distingueva due differenti tipo di rischi sui quali le richieste di asilo possono basarsi: un tipo di rischio derivante da una situazione ‘generale e nota’, che può e deve essere provata dalle autorità nazionali davanti le quali la richiesta di asilo è stata presentata; e un tipo di rischio  a cui è sottoposto quella particolare persona richiedente asilo, che  deve essere provato dallo stessa. 

    Su tale base, la Grande Camera distingueva, nel caso di specie,  la richiesta di asilo fondata sulle attivitá politiche svolte dal ricorrente, e quella fondata sulla conversione al cristianesimo.

    Riguardo alla prima richiesta, la Grande Camera riteneva che le autorità svedesi avevano valutato l’attività del ricorrente in maniera esatta, quando avevano ritenuto che lo stesso non avesse condotto un’attività politica idonea a ritenerlo un attivista di spicco od un oppositore politico importante e quindi suscettibile di essere preso sicuramente di mira dal regime. 

    Riguardo alla seconda richiesta, la Grande Camera notava che in realtà le autorità svedesi non avevano mai effettuato una valutazione appropriata del rischio che l’applicante avrebbe dovuto affrontare come risultato della sua conversione se avesse fatto ritorno in Iran. Inoltre, la Grande Camera riteneva che le  autorità svedesi non avevano avuto modo di valutare i nuovi documenti presentati dal ricorrente davanti ad essa. 

    La grande Camera  riteneva dunque le autorità svedesi doverose di valutare questi documenti onde evitare che una mancata valutazione potesse sfociare in un rimpatrio arbitrario effettuato in violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione. 

  • Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 22 marzo 2016– Ricorso n. 646/10– Causa M.G. c. Turchia

    Le circostanze del caso di specie 

    M.G è una donna vittima di violenza fisica e mentale da parte del proprio marito. 

    Nel 2006 abbandona la dimora coniugale, denuncia il marito e chiede il divorzio.

    Il divorzio viene garantito un anno dopo,  mentre il procedimento penale contro il marito inizia nel 2012.

    Nel periodo che intercorre tra il divorzio e l’inizio del procedimento penale, M.G. e I suoi figli vivono senza nessuna tutela da parte delle autorità turche, non essendo prevista nessuna misura volta a tutelare le vittime non sposate.

    M.G. si rivolgeva alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lamentando la violazione degli articoli 1,3, 5, 6, 8, 13 e 14 della Convenzione.

    La valutazione della Corte

    Preliminarmente la Corte affermava che le autorità turche non erano riuscite a spiegare nè le ragioni del lungo lasso di tempo intercorso tra il riconoscimento del divorzio e l’inizio dell’azione penale, nè la lunga durata del procedimento penale. 

    In secondo luogo, la Corte affermava che la totale mancanza di misure volte a tutelare e proteggere la ricorrente avevano costretto la stessa a vivere un lungo periodo di paura, insicurezza e vulnerabilità e che per ciò tale situazione violava l’articolo 3 della Convenzione, che proibisce la tortura e altri trattamenti inumani e degradanti.

    La Corte valutava poi le doglianze della ricorrente riguardo la violazione dell’articolo 14 della Convenzione e affermava che il fatto che il sistema turco non garantiva misure di protezione per le donne divorziate costituisse una violazione dell’articolo 14 e 3 della Convenzione.

    In questo caso è importante notare come la corte si riferiva alla situazione  di M.G come una situazione strettamente legata clima violento e discriminatorio nei confronti delle donne in Turchia. 

    Secondo la Corte  il termine ‘violenza sulle donne’ descriveva al tempo stesso una  violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione nei confronti delle donne. 

    Pertanto la Corte rilevava una violazione degli articoli 3 e 14 della Convenzione.

  • Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 15 giugno 2016 – Ricorso n. 61495/11- M.G.C c. Romania

    Le circostanze del caso di specie 

    Dall’ agosto al dicembre 2008 l’allora undicenne M.G.C., mentre giocava con le sue coetanee nel giardino in comune con i vicini,  veniva prelevata con la forza e abusata sessualmente dal vicino di casa cinquantaduenne. Successivamente, la stessa veniva abusata sessualmente da altri membri della famiglia del vicino. 

    Solo a seguito della gravidanza della ricorrente, i genitori della stessa  venivano a conoscenza degli abusi inflitti alla ricorrente e denunciavano i vicini. 

    Tuttavia, le autorità romene decidevano di incriminare soltanto il vicino cinquantaduenne per il reato di ‘ rapporti sessuali con minorenne’ anzichè del reato di ‘violenza sessuale su minore,’ reato ben piú grave. 

    Tale decisione era stata persa dal pubblico ministero per due motivi: innanzitutto dalle deposizioni dei testimoni (tutti vicini di casa della ricorrente e compresi quelli denunciati dai genitori per gli abusi sessuali sulla figlia che non erano poi stati imputati dal PM) avevano dichiarato che M.G.C soleva utilizzare ‘abiti succinti’, provocandoli, ed in secondo luogo, dal fatto che non aveva mai riferito ai genitori degli abusi e che continuava a a giocare con le coetanee nel giardino in comune coi vicini si evinceva una forma tacita di consenso.

    Nel 2011 M.G.C ricorreva alla Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo lamentando la violazione dell’articolo 3, che proibisce la tortura e l’inflizione di trattamenti inumani e degradanti, e dell’articolo 8, posto a tutela della vita privata e familiare.

    La valutazione della Corte

    La Corte notava preliminarmente le carenze dell’approccio adottato dalle autorità locali, che non avevano tenuto conto della giovane età della ricorrente ed avevano usato fatti relativi al comportamento della stessa quali il non aver riferito dell’accaduto ai proprio genitori, l’aver continuato a giocare nello stesso giardino con le figlie dei vicini e stereotipi di genere quale l’aver utilizzato ‘abiti succinti’, come fatti provanti il suo tacito consenso ai rapporti sessuali con i vicini. 

    Accecate da tali stereotipi, le autorità romene avevano compromesso irreversibilmente l’amministrazione della giustizia penale. 

    In primo luogo, infatti, non avevano adottato un approccio volta a garantire la massima tutela della vittima minorenne e di conseguenza non avevano dato nessuna rilevanza alla perizia psichiatrica sulla stessa nella quale le si riscontrava una scarsa facoltà di discernimento  dovuta alla sua giovane età. Nessuna considerazione era stata data alla differenza di età tra il vicino e M.G.C.

     Le autorità romene avevano invece  tenuto in considerazione le dichiarazioni dei vicini di casa della ricorrente, tutti maschi e accusati di violenze e minacce sulla ricorrente senza condurre alcuna indagine volta a verificarne la veridicità o volta a constatare le circostanze del caso di specie. Secondo la Corte, infatti, in mancanza di prove dirette di violenza sessuale, le indagini devono essere volte alla ricerca dell’esistenza o meno del consenso da parte della vittima attraverso l’analisi delle circostanze del caso di specie. 

     Per la Corte, tali elementi avevano influenzato la qualificazione del reato:  il vicino di casa veniva imputato del reato di  ‘rapporti sessuali con minorenne’ (punito in Romania col carcere dai 3 ai 10 anni) e non del reato di  ‘ violenza sessuale su minore’ ( punibile con il carcere dai 10 ai 25 anni).

    Infine, senza pronunciarsi sulla colpevolezza del vicino cinquantaduenne, la Corte riteneva che l’approccio adottato dalle autorità romene non si si conformava all’obbligo incombente sugli stati parte della Convenzione di mettere in funzione un sistema penale capace di punire la violenza sessuale e ogni forma di abuso contro i bambini.

    La Corte pertanto rilevava pertanto che vi era stata una violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione.