ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Penale



Osservatorio sulla Giurisprudenza Penale al 31 agosto 2016. A cura di Loretta Rapisarda

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  • Corte di Cassazione, Sezione V penale, Sentenza 19 agosto 2016, n. 35119

    Abrogazione della norma incriminatrice e sorte delle statuizioni civili 

    Nella pronuncia in esame la Corte di Cassazione offre alcuni interessanti spunti di riflessione in merito agli effetti che l’abrogazione di una fattispecie di reato produce sulle statuizioni civili adottate dal giudice penale.  

    Preliminarmente, preso atto dell’intervenuta abrogazione del reato di ingiuria a seguito dell’entrata in vigore del D.lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016, la Suprema Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

    Ritiene necessario, invece, “porsi il quesito relativo all’incidenza sulle statuizioni civili scaturenti dalla sentenza di condanna pronunciata in entrambi i gradi di merito”.

    Per risolvere la questione i giudici di legittimità fanno una significativa distinzione tra le ipotesi in cui l’abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna e quelle in cui, invece, sia successiva al passaggio in giudicato della sentenza.

    Il problema interpretativo assume connotati differenti nelle due ipotesi e solo nel primo caso è realmente problematica la sorte delle statuizioni civili, poiché, venendo meno la possibilità di una pronuncia definitiva di accertamento della responsabilità penale, viene conseguentemente meno anche il presupposto dell’obbligazione risarcitoria. 

    Nessun dubbio, invece, nelle ipotesi di procedimenti conclusi con sentenza di condanna definitiva, per i quali l’abrogazione della norma penale “comporta la revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione limitatamente ai capi penali e non anche a quelli civili, la cui esecuzione ha comunque luogo secondo le norme del codice di procedura civile”.

    Ed infatti, come ormai comunemente sostenuto dalla giurisprudenza, “la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis ai sensi dell’art. 2, comma secondo, cod. pen., non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci nei confronti della parte danneggiata”.

    Nella pronuncia in commento i giudici di legittimità osservano come l’art. 2 c.p., che regola la successione di norme penali nel tempo, disciplina espressamente la sola cessazione dell’esecuzione e degli effetti penali della condanna, nulla statuendo in merito agli effetti civili. 

    Ne deriva, pertanto, che per il diritto del danneggiato al risarcimento dei danni trovano applicazione i principi generali sulla successione delle leggi stabiliti dall’art. 11 preleggi, piuttosto che quelli contenuti nel citato art. 2 c.p., e, di conseguenza, la condanna al risarcimento dei danni a carico dell’imputato rimane ferma.

    Tali principi, a parere della Consulta, non trovano applicazione nei casi in cui l’abolitio criminis sia intervenuta prima del passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

    Ed invero, osserva la Cassazione, “nel giudizio di impugnazione, venendo meno la possibilità di una pronunzia definitiva di condanna agli effetti penali perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che, nel giudizio di legittimità, dovrebbero essere revocate le statuizioni civili adottate in quelli di merito”.

    Per avvalorare le proprie affermazioni, i giudici di legittimità rilevano come dette conclusioni non possono ritenersi contraddette dal fatto che l’art. 578 c.p.p. attribuisca il potere al giudice dell’appello e alla Corte di Cassazione di decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni che concernono gli interessi civili in caso di estinzione del reato per amnistia o prescrizione.

    La norma richiamata, costituendo una vera e propria eccezione alla regola, opera esclusivamente per le ipotesi di dichiarazione di estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, mentre “la carenza di analoga previsione anche per il caso dell’abrogatio cum abolitio sembra confermare proprio il principio generale secondo cui in tal caso viene meno anche il primo presupposto dell’obbligazione restitutoria o risarcitoria per cui è concesso l’esercizio nel processo penale dell’azione civile, con la conseguenza che al giudice di legittimità non è consentito esaminare il ricorso ai limitati fini di una loro eventuale conferma”. 

    La pronuncia rileva, inoltre, come la soluzione offerta al problema è ulteriormente confermata dalla scelta del legislatore, che nel D.lgs. n.7/2016 non ha espressamente previsto e regolato la sorte degli interessi civili nell’ipotesi in cui la depenalizzazione sia sopravvenuta nel corso del procedimento penale.

    Secondo la Cassazione “il significato di tale scelta non può che essere interpretato alla luce del canone dell’ubi voluit dixit, apparendo del tutto non sostenibile la tesi opposta di una lacuna involontaria da parte del legislatore delegato, attesa la contestualità nell’adozione dei testi normativi”.

    Un ultimo ed ulteriore argomento su cui fa leva la Cassazione per confermare la propria tesi è il fatto che le conclusioni a cui essa giunge sono senz’altro compatibili con i principi della Carta fondamentale,  stante la preminenza delle esigenze di interesse pubblico connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi rispetto a quelle collegate alla risoluzione delle liti civili.

    Ad avviso della Consulta la caducazione delle statuizioni civili non comporterebbe, come invece sostenuto da altra parte della giurisprudenza, una rilevante compromissione del diritto di difesa del danneggiato, il quale, al fine di soddisfare le sue istanze risarcitorie, potrebbe instaurare un nuovo giudizio innanzi al giudice civile, a nulla rilevando l’aggravio di costi a suo carico né la dilatazione dei tempi del processo poiché, “una volta che il danneggiato, 'previa valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi insiti nella opzione concessagli', scelga di esercitare l’azione civile nel processo penale, anziché nella sede propria, 'non è dato sfuggire agli effetti che da tale inserimento conseguono”.

    Ed invero, “l’eventuale impossibilità, per il danneggiato, di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento del danno nella sede civile, di modo che ogni separazione dell’azione civile dall’ambito del processo penale non può essere considerata una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, giacché la configurazione di quest’ultima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, è affidata al legislatore”. 

    Alla luce di tali argomentazioni, la sentenza n.35119 del 19 agosto 2016 conclude affermando che “la soluzione da adottare, considerato il silenzio del legislatore, appare quella della generale caducazione delle statuizioni civilistiche per effetto dell’abrogazione del reato oggetto del procedimento”.

    In verità, è necessario dare atto del fatto che sulla questione affrontata dalla Cassazione con la sentenza in esame si registra anche un ulteriore e contrapposto orientamento giurisprudenziale il quale ammette che il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, possa decidere anche sull’impugnazione agli effetti civili.

  • Tribunale di Monza, Sezione Penale, Sentenza 22 Agosto 2016, n. 2312

    Trattamenti crudeli, disumani e degradanti 

    In tema di violazione dei diritti fondamentali il nostro ordinamento è affetto da un profondo deficit di tutela mancando ancora oggi una norma incriminatrice ad hoc per le condotte inquadrabili nel tipo legale “tortura”, così come definito dalle fonti normative e giurisprudenziali di matrice sovranazionale. 

    La sentenza in esame mette in evidenza proprio la necessità di introdurre nel nostro codice penale il reato di tortura al fine di contrastare quei comportamenti, purtroppo sempre più diffusi, volti a trattamenti crudeli, disumani e degradanti.

    La vicenda da cui il caso di specie trae origine, in particolare, è quella di un (sedicente) manager nel campo della moda che, dopo aver irretito una giovane aspirante modella, istaura con lei una relazione sentimentale degenerata rapidamente in un rapporto violento ed umiliante.

    In particolare, la vittima viene segregata presso l’abitazione dell’uomo e costretta a subire atti di violenza di ogni tipo, anche a connotazione sessuale, e progressivamente viene introdotta in un clima di sopraffazione e abuso del quale resterà letteralmente prigioniera per sei mesi, senza poter avere contatti liberi con il mondo esterno.

    Condotte di tal genere sarebbero, secondo la sentenza, riconducibili al tipo legale “tortura”.

    In assenza di una fattispecie incriminatrice ad hoc, tuttavia, il Tribunale di Monza riconduce la condotta tenuta dall’imputato a tre differenti fattispecie di reato.

    Il primo reato contestato dal pubblico ministero, e di cui il Tribunale ravvisa nel caso di specie sia l’elemento materiale che quello psicologico, è il reato di sequestro di persona.

    In particolare, il Collegio evidenzia, come del resto sostenuto da costante giurisprudenza, che “l’elemento materiale del reato di sequestro di persona consiste nella limitazione della libertà fisica e di locomozione, e ai fini della configurabilità della fattispecie in esame non si richiede una privazione assoluta delle medesime, essendo sufficiente anche una relativa impossibilità di recuperare la propria libertà di scelta e di movimento”. 

    Nel caso di specie, la privazione della libertà personale era consistita nella limitazione di ogni libertà di movimento autonomo, considerato che la persona offesa poteva uscire di casa solo se accompagnata dall’imputato, nonché nell’impedimento delle comunicazioni con parenti ed amici, che potevano aver luogo solo in presenza dell’imputato.

    Sottolinea, inoltre, il Tribunale come “ai fini della configurabilità dell'elemento materiale del delitto di sequestro di persona, non è necessario che la costrizione si estrinsechi con mezzi fisici, dovendosi ritenere sufficiente qualsiasi condotta che, in relazione alle particolari circostanze del caso, sia suscettibile di privare la vittima della capacità di determinarsi ed agire secondo la propria autonoma ed indipendente volontà”.

    La pronuncia in commento precisa come non ha, invece, alcuna rilevanza il comportamento del soggetto passivo del reato, per cui a nulla rileva il fatto che egli non abbia concretamente tentato di sottrarsi al controllo pressante dell’agente.

    Accertato l’elemento materiale del reato di cui all’art. 605 c.p., il giudice ravvisa nel caso di specie anche l’esistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie, ossia il dolo generico sub specie di dolo intenzionale “dal momento che l’imputato ha deliberatamente posto in essere una serie di condotte preordinate a porre la giovane in una condizione di completo isolamento esterno”.

    Per quanto riguarda, invece, la seconda fattispecie di reato contestata la questione è più complessa.

    Ed invero, la condotta violenta dell’imputato, avvezzo ad aggredire sia fisicamente che psicologicamente la compagna, viene inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p.

    In particolare, il reato di maltrattamenti contro famigliari o conviventi si estrinseca “con più atti che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento da un’unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o morale del soggetto passivo infliggendogli abitualmente tali sofferenze”.

    Ritiene il Tribunale che “nel caso di specie non vi può essere alcun dubbio sul fatto che l’imputato abbia determinato nella vittima, mediante il compimento rituale delle singole condotte stigmatizzate dall’accusa, uno stato di incessante disagio e avvilimento, costringendola a sostenere drammatiche condizioni di vita per un arco temporale di circa sei mesi”. 

    La pronuncia in esame mette in evidenza la carenza del nostro sistema punitivo, affermando che “In mancanza di una norma incriminatrice ad hoc, tutte le predette condotte – agevolmente inquadrabili, anche considerate di per sé sole, nel tipo legale “tortura”, come definito dalle fonti normative e giurisprudenziali di matrice sovranazionale – non possono che essere ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 572 c.p., di cui ricorrono tutti gli elementi oggettivi e soggettivi”.

    Ed invero, tale ipotesi di reato si applica pacificamente anche al di fuori del vincolo matrimoniale nonché, secondo la più recente giurisprudenza, anche a condotte poste in essere al di fuori di un contesto di convivenza, purchè ad essere coinvolti siano pur sempre soggetti legati da una relazione affettiva “qualificata”.

    Ed invero, la Suprema Corte ha affermato in diverse circostanze che “il richiamo contenuto nell'art. 572 cod. pen. alla "famiglia" deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo attribuisce rilievo a situazioni di carattere oggettivo quali la durata della relazione o, appunto, la sussistenza di una condizione di coabitazione, senza pretesa alcuna di indagare la qualità dei rapporti affettivi esistenti tra i soggetti coinvolti”.

    Infine, il Tribunale ritiene l’imputato penalmente responsabile anche per il delitto di cui all’art. 609 bis c.p.

    Dai fatti accertati in sentenza viene in evidenza come l’imputato abbia costantemente imposto pratiche erotiche non gradite alla persona offesa, come rapporti orali, penetrazioni sia vaginali che anali, anche compiute con oggetti.

    Premesso che il Tribunale non dubita della connotazione sessuale di tali atti, ritiene “insostenibile” la tesi difensiva per cui l’imputato abbia potuto aver equivocato in ordine alla sussistenza del consenso della persona offesa.

    A tal proposito il Tribunale afferma: “È appena il caso di rilevare che, perché di rapporto consensuale si possa parlare, è necessario che il consenso sia libero e non viziato, e che nessuna relazione sentimentale esistente tra i soggetti coinvolti autorizza a presumerne la sussistenza, che va al contrario verificata in relazione al singolo atto sessuale”.

    La pronuncia in commento ritiene, inoltre, necessario evidenziare che per giurisprudenza costante “Ai fini della configurabilità del delitto di violenza carnale, non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata. Neppure è necessario che l'uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall'inizio fino al congiungimento: è sufficiente, invece, che il rapporto sessuale non voluto dalla parte offesa sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta”.

    Deve, pertanto, essere ribadita, a parere del giudicante, l'unicità del concetto di violenza, non suscettibile di connotazioni diverse nei rapporti tra estranei o nei rapporti tra i coniugi.

    Alla luce di tali considerazioni, “Deve dunque ritenersi pienamente integrato nei suoi elementi materiali il delitto di violenza sessuale cd. per costrizione mediante violenza e minaccia, di cui ricorre anche l’elemento soggettivo sub specie di dolo intenzionale, atteso che l’imputato ha agito proprio allo scopo di realizzare l’evento, consistito nel compimento degli atti sessuali contro la volontà della persona offesa”.

  • Corte di Cassazione, Sezione V penale, Sentenza 26 agosto 2016, n. 35540

    Espressioni pregiudizievoli della reputazione e reato di diffamazione 

    Con la sentenza in commento la V Sezione della Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso dell’imputata condannata ex art. 595 c.p., per aver offeso, nel corso di un’udienza pubblica tenutasi dinanzi al Giudice di Pace, la reputazione dei coimputati nello stesso procedimento, affermando: questi “non sono persone, ma animali”. 

    Il giudice di legittimità ritiene il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato sotto diversi profili.

    Nel caso di specie, l’imputata da un lato mette in dubbio la ricorrenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato di diffamazione contestatole, dall’altro deduce la ricorrenza della scriminante di cui al secondo comma dell’art. 599 c.p..

    Sotto il primo profilo, ad avviso della V Sezione “il termine “animali” utilizzato nel rivolgersi alle p.o. si presenta offensivo dell’onore e decoro dei destinatari, con esso volendosi attribuire alle persone offese mancanza di senso civico e di educazione, caratteristica questa, secondo la comune sensibilità, lesiva dell’altrui reputazione”.

    Secondo la Cassazione, infatti, “Se il bene giuridico tutelato dalla norma ex art. 595 c.p., è l’onore nel suo riflesso in termini di valutazione sociale (alias reputazione) di ciascun cittadino e l’evento è costituito dalla comunicazione e dalla correlata percezione o percepibilità, da parte di almeno due consociati, di un segno (parola, disegno) lesivo, che sia diretto, non in astratto, ma concretamente ad incidere sulla reputazione di uno specifico cittadino, l’espressione oggetto di contestazione è obiettivamente pregiudizievole della reputazione della persona offesa, concretizzando un pregiudizio anche la divulgazione di qualità negative idonee ad intaccarne l’opinione tra il pubblico dei consociati”.

    Quanto, invece, alla applicabilità della scriminante di cui all’art. 599, comma 2, c.p., dedotta con il secondo motivo di ricorso, la sentenza rileva come nella fattispecie in esame non viene ravvisato alcun fatto ingiusto altrui che abbia potuto determinare lo stato d’ira dell’imputata, tanto da consentire di ritenere non punibile la sua condotta.

    In particolare, sostiene la Cassazione, “il fatto ingiusto non può ritenersi integrato dall’avere le parti offese querelato la L. in relazione ai fatti per cui era processo, avendo le stesse esercitato un legittimo diritto”, “né vi è prova”, continua la Corte, “che l’imputata fosse stata calunniata e che ciò avesse determinato la sua reazione offensiva nei confronti delle parti civili. Piuttosto, è emerso inequivocabilmente come la stessa nutrisse ragioni di astio nei confronti del M. e della N., legate, a futili litigi tra condomini”.

    La declaratoria di inammissibilità del ricorso, ad avviso della Corte, preclude inoltre la possibilità di valutare la richiesta di applicazione delle disposizioni relative al novello art. 131bis c.p. in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotte dal Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67.

    Ed invero, si legge in motivazione: “una volta ritenuta la possibilità di rilevare in sede di legittimità la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., sulla base di più pronunce di questa Corte, non essendo a ciò di ostacolo la natura del giudizio per cassazione, la causa di non punibilità non può essere rilevata nel caso in cui il ricorso per cassazione si presenti inammissibile”.

    I giudici di legittimità concludono affermando che: “Depongono senz’altro per tale interpretazione i principi più volte affermati da questa Corte a S.U., secondo cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, ogni possibilità di dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., sia nel senso di farle valere, sia di rilevarle di ufficio”.

  • Corte di Cassazione, Sezione III penale, Sentenza 24 agosto 2016, n. 35422

    Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone 

    La sentenza n. 35422 del 24 agosto 2016 ribadisce alcune affermazioni di principio in tema di emissioni rumorose, soffermandosi, in particolare, sul rapporto tra le fattispecie previste dal primo e dal secondo comma dell’articolo 659 c.p. 

    In via preliminare, la III Sezione penale della Corte di Cassazione, seguendo l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, chiarisce che “In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26 ottobre 1995, n. 447, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalle disposizioni normative in materia; B) il reato di cui al comma primo dell'art. 659, cod. pen., qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; C) il reato di cui al comma secondo dell'art. 659 cod. pen., qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quelle relativa ai valori limite di emissione sonore stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla legge n. 447 del 1995”.

    Per quanto riguarda l’illecito penale, la Corte riafferma il principio di diritto, già ampiamente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità, per cui “In tema di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, le due ipotesi dell'art. 659 cod. pen. costituiscono distinti titoli di reato, con conseguente ammissibilità del concorso formale tra le due norme”.

    In particolare, “l'abuso previsto dal secondo comma è solo quello costituito da una violazione delle disposizioni della legge o delle prescrizioni dell'autorità che disciplinano l'esercizio della professione o del mestiere: un tipico esempio di abuso rientrante in questa previsione è costituito dallo svolgimento dell'attività rumorosa in orari diversi da quelli previsti dalla legge o dai regolamenti che disciplinano l'esercizio della specifica attività”, rientra, invece, nella previsione del primo comma dell’art. 659 c.p. “l'abuso che si concretizza nella emissione di rumori eccedenti la normale tollerabilità ed idonei a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone”, indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono.

    Nel caso in esame, l'attività svolta dagli imputati non solo era stata condotta in spregio delle prescrizioni amministrative, ma anche arrecando concreto e grave disturbo alle occupazioni e, soprattutto, al riposo delle persone, trattandosi di illeciti commessi in orario notturno. 

    La Cassazione conclude confermando la decisione del Tribunale che, a Suo avviso, ha fatto applicazione dei citati indirizzi nomofilattici e, di conseguenza, “Ha quindi, correttamente, sussunto le condotte accertate in entrambe le ipotesi di cui all'art. 659, cod. pen., ritenendone il concorso formale ed escludendo la depenalizzazione di quella di cui al secondo comma”.

  • Corte di Cassazione, Sezione III penale, Sentenza 31 agosto 2016, n. 35850

    Configurabilità del reato di cui all’art. 137, comma 1, del Dlgs 152/2006 nel caso di scarico di acque reflue industriali derivanti da un centro di emodialisi 

    Con la sentenza n. 35850 del 31 agosto 2016, la Terza Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, occupandosi di inquinamento idrico, esamina nel dettaglio cosa debba intendersi per “scarico di acque reflue industriali”. 

    Nel caso di specie la condotta contestata riguardava lo scarico di acque reflue prodotte da un Centro di emodialisi.

    A parere dell’imputata tali scarichi non sono assimilabili a reflui industriali poiché manca la menzione di tali attività tra quelle i cui scarichi vengono definiti “industriali”.

    Tuttavia tale conclusione non è condivisa dalla Cassazione, che conferma la sentenza impugnata.

    L’illecito in materia di scarichi assume rilevanza penale, ai sensi dell’art. 137 del D.Lgs. n. 152/2006, quando vengono effettuati, senza autorizzazione, scarichi di acque reflue industriali.

    La natura di refluo scaricato costituisce, pertanto, il criterio di discrimine tra la tutela punitiva di tipo amministrativo e quella strettamente penale.

    Affinché possa dirsi integrata la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 137, comma 1, del D.Lgs. 152/06, sono necessari due elementi: lo scarico delle acque reflue e la natura industriale delle medesime.

    Lo scarico viene definito dall'art. 74 comma 1 lett. f) del D.Lgs. 152/06 come “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo recettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”.

    Per quanto riguarda, invece, la natura industriale delle acque, la Cassazione ha chiarito come “Ai fini della tutela penale dall'inquinamento idrico nella nozione di acque reflue industriali ex art. 74, comma 1, lett. h, del d.Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 (come modificato dal d.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4) rientrano tutti i tipi di acque derivanti dallo svolgimento di attività commerciali e produttive, in quanto detti reflui non attengano prevalentemente al metabolismo umano ed alle attività domestiche di cui alla nozione di acque reflue domestiche, come definite dall'art. 74, comma 1, lett. g)”.

    Pertanto, per accertare la responsabilità penale dell’agente, è necessario considerare le acque che derivano da attività produttive come categoria residuale che comprende tutti i reflui che non siano ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica.

    Ed invero, “Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte il criterio distintivo tra insediamenti civili e insediamenti produttivi deve essere ricercato in concreto sulla base dell'assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per quantità e qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti abitativi.”, a nulla rilevando, invece, che l’insediamento sia effettuato in un edificio che abbia destinazione industriale.

    Alla luce di tali considerazioni, i giudici di legittimità concludono affermando che “Le acque reflue prodotte da un centro dì emodialisi, quindi, in quanto provenienti da una attività che ha ad oggetto l'effettuazione di prestazioni terapeutiche, sono caratterizzate dalla presenza di sostanze estranee sia al metabolismo umano che alle attività domestiche; non possono, quindi, essere qualificate come acque reflue domestiche ma vanno qualificate come acque reflue industriali”.

    Inoltre, la pronuncia in commento mette in evidenza come con riferimento alla materia dei rifiuti sanitari la stessa Corte di Cassazione in passato “ha ritenuto che le acque di emodialisi rientrano nella nozione di rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo di cui al d.P.R. 15 luglio 2003, n. 254, in quanto la presenza di sangue nelle stesse è da sola sufficiente a farle rientrare nella predetta categoria”.