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Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 31 settembre 2018. A cura di Giuseppe Lonero

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 21065 del 24 agosto 2018: sul reddito di impresa e le spese relative a più esercizi.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione si pronunciano in tema di accertamento sui redditi d’impresa in relazione alle spese inerenti a più esercizi.

    La vicenda trae origine dal ricorso proposto da una società contribuente, avverso l’avviso di accertamento in tema di IRPEG, IRAP ed IVA, inerente all’attività di compravendita di automobili in concessionaria.

    L’Amministrazione finanziaria rileva che il contribuente ha svolto lavori di manutenzione straordinaria non scorporabili su immobili che teneva in locazione o in leasing e che ha provveduto a portare in ammortamento i relativi costi nel quinquennio. L’Amministrazione contesta anche l’anzidetta procedura di bilancio, reputando invece che sia applicabile il principio contabile n. 24, invocando l'art. 74, comma 3 del T.U.I.R. nel testo vigente all’epoca dei fatti e le relative risoluzioni ministeriali e conseguentemente, i costi per migliorie e spese incrementative su beni di terzi - non separabili dai beni sui quali vengono sostenuti - sono iscrivibili tra le immobilizzazioni immateriali e sono assoggettati ad ammortamento “nel periodo minore tra quello di utilità futura delle spese sostenute e quello residuo della locazione, tenuto conto dell’eventuale periodo di rinnovo se dipende dal conduttore”.

    Ed ancora, sotto un altro profilo, l’Amministrazione sostiene che i premi e gli sconti o bonus devono essere sottoposti ad Iva, seguendo un protocollo della concedente casa madre. Nella ricostruzione dell’Ufficio, tali dazioni di denaro trovavano origine nel contratto di concessione che la contribuente ha stipulato con l’importatrice società contribuente ed appare coerente con l’attività prevista, costituendone meri accessori.

    La società contribuente osserva invece che: “l’art. 74, comma 3 T.U.I.R., nel testo vigente all’epoca dei fatti non fissava affatto un criterio predefinito, ma rinviava ai canoni di diritto civile, lasciando quindi all'imprenditore un margine di manovra anche nella scelta dell'ammortamento secondo i criteri di contabilità. Richiamava trattarsi di spese per l’adeguamento della sede (in locazione) e dell’officina (in leasing) per l’adeguamento agli standards voluti da Volkswagen ogni quattro/cinque anni, di talchè corretto era qualificare l’utilità in detto periodo e, per conseguenza, praticare l'ammortamento sullo stesso lasso temporale. Dall’altro lato, qualificava i bonus come promessa unilaterale del concedente, condizionati al verificarsi di un fatto futuro ed incerto, estraneo alla disponibilità del concessionario, che può impegnarsi a raggiungere quegli obbiettivi quantitativi e qualitativi, ma senza alcuna sicurezza di successo. Specularmente, affermava che nessuna obbligazione potesse dirsi sorta, nè alcun potere cogente era in capo al concedente per ottenere il comportamento del concessionario, escludendosi ogni profilo sinallagmatico tra prestazione e controprestazione, per cui il bonus pagato non poteva considerarsi in alcun modo corrispettivo, ma semplice dazione di denaro non soggetta ad Iva.

    I giudici di primo grado si pronunciano favorevolmente nei confronti della società contribuente. L’Agenzia delle entrate propone appello avverso tale decisione, ma il giudice di secondo grado conferma la decisione in primo grado. L’Amministrazione finanziaria propone ricorso per cassazione.

    La prima quaestio iuris affrontata dagli Ermellini concerne l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 74, comma 3, del D.P.R. n. 917 del 1986 e la contestuale falsa applicazione dell’art. 74, comma 4, della medesima norma, nonché l’art. 2426, n. 5, c.c. ovvero, l’Amministrazione finanziaria chiede l’interpretazione delle predette norme in tema di ammortamento delle migliorie apportate sui beni altrui.

    Il Collegio osserva che la problematica, sollevata con il caso trattato, è stata già oggetto di studio in occasione di precedenti pronunce.

    Nello specifico, i giudici di via Cavour valorizzano e sostengono l’autonomia privata in alternativa a quanto prevede invece la norma, invitando ad effettuare una verifica specifica del caso al fine di constatare l’utilità delle migliorie apportate, in funzione dello scopo perseguito con il contratto che fonda la disponibilità del contribuente sulla res meliorata.

    Nel caso di specie, la CTR ha accertato che le migliorie fossero funzionali ai requisiti richiesti dalla concedente società ogni quattro o cinque anni, deducendone nello stesso arco temporale di vita anche l’esplicarsi dell’utilità ricavabile dal contribuente, calibrando correttamente l’ammortamento sullo medesimo periodo.

    Sotto tale profilo, non può assolutamente trovare accoglimento la tesi ermeneutica della difesa dell’Amministrazione finanziaria limitatamente alla locuzione normativa “spese di impianto” come le spese necessarie per: impiantare, avviare, costituire, iniziare ad esercitare un’attività economica organizzata. In particolare, il Collegio spiega che: “è proprio il tenore del quadro normativo ad indirizzare verso questa seconda interpretazione, ove si riferisce appunto a criteri di durata quali l’utilità residua del bene o la durata del contratto, criteri che sono connaturali alla riedizione delle spese, quando non addirittura alla loro ricorrenza temporale ciclica per mantenere in efficienza l'impianto. Tali sono appunto le spese di ammodernamento e ristrutturazione d’immagine richieste dalla concedente alla concessionaria per restare a far parte della propria rete di vendita.”

    Gli Ermellini ritengono pertanto che la CTR abbia deciso correttamente.

    Con il secondo motivo, invece, si contesta la falsa applicazione dell’art. 633, art. 2, comma 3, lett. a) D.P.R. 26 ottobre 1972.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno statuito che: “ove ben si distingue tra bonus “quantitativi” che fanno parte dell’attività tipica del concessionario, qual è appunto la vendita di auto, e che quindi sono soggetti ad Iva, separandoli dai bonus “qualitativi” in cui vi è una promessa unilaterale del concedente ed il bonus non è il “prezzo” dell’adeguamento del concessionario agli standards proposti dal concedente, seppure - avvisa la Sezione - in tali ipotesi occorre guardare al contratto per inquadrare correttamente il profilo civilistico da cui far discendere il momento fiscale; ed in questo senso costituiscono indici probatori il potere coercitivo esercitabile dalla concessionaria per ottenere l’adempimento delle obbligazioni, oppure il carattere automatico del bonus al verificarsi di fatti estranei alla volontà delle parti, ovvero l’estraneità del risultato alla disponibilità delle parti. Peraltro, la Sezione ha affermato non potersi sindacare in Cassazione la portata del contratto di concessione, trattandosi di apprezzamento squisitamente di fatto che è inibito al giudice di legittimità (cfr. ord. 7618/2017).

    Alla luce di quanto sopra esposto, gli Ermellini ritengono che le pretese erariali non possono essere accolte, in quanto la sentenza impugnata “contiene un accertamento di fatto in sè coerente, basato sui criteri legali di interpretazione del contratto (artt. 1362-1370 c.c.) da cui sono tratte le conseguenze inerenti il caso concreto. Per converso, l’Agenzia non ha dedotto l’errata applicazione dei predetti criteri ermeneutici ma si è limitata piuttosto a prospettare un accertamento diverso da quello operato dal giudice di merito che non può essere apprezzato in sede di giudizio di legittimità.

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 21297 del 29 agosto 2018: sul requisito della territorialità in tema di IVA.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione sono chiamati a pronunciarsi sul requisito di territorialità in tema di IVA.

    L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione al fine di ottenere la cassazione della sentenza emessa dalla CTR della Liguria, concernente l’avviso di accertamento di rettifica della dichiarazione IVA, in quanto il contribuente ha provveduto ad emettere delle fatture attive per operazioni non imponibili o in sospensione d’imposta ex artt. 8 e 9 del D.P.R. n. 633 del 1972, in assenza di documenti idonei ad attestare il regime applicato.

    La società contribuente contesta altresì le violazioni e l’omessa regolarizzazione delle fatture irregolari, ricevute in assenza delle bollette doganali e delle lettere d’intento, nonchè la presentazione della dichiarazione annuale con dati erronei.

    L’impugnazione della contribuente viene accolta dalla CTP di Genova, decisione confermata successivamente dalla CTR della Liguria, che tra l’altro osserva che i lavori su navi di provenienza estera si fondavano su un contratto di appalto, conseguentemente appare applicabile il regime di esenzione Iva indipendentemente dalla destinazione futura della nave.

    La Corte accoglie il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, ritendo che sussiste un’assenza di prova da parte del contribuente della condizione di temporanea importazione delle navi estere sulle quali erano stati realizzati i lavori.

    Gli Ermellini offrono l’interpretazione del concetto di “servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali” e non “si considerano effettuati nel territorio dello Stato”. Conseguentemente, l’operazione non è assoggettabile al regime dell’IVA per difetto del difetto di territorialità ai sensi e per gli effetti dell’art. 7, comma 6, del D.P.R. n. 633/1972.

    L’art. 176, comma 1, del D.P.R. n. 43 del 1973 prevede inoltre che: “La temporanea importazione ai sensi del comma 1 precedente art. è consentita a condizione che le merci da importare siano destinate a ricevere uno o più dei trattamenti appresso indicati e che sia possibile accertare l'impiego delle merci stesse nei prodotti da ottenere: (...) c) riparazione, compresi il riattamento e la messa a punto.”.

    Il Collegio osserva che, dallo studio delle predette norme, si evince che: “il Legislatore, ai fini del riconoscimento del regime della non imponibilità, ha considerato: a) la tipologia oggettiva dell'intervento; b) la natura del bene “di provenienza estera” “non ancora definitivamente importato” (ovvero “su beni nazionali” e simili se questi debbono essere “destinati ad essere esportati” da o per conto di soggetto “non residente”).

    La Suprema Corte di Cassazione sostiene che la disciplina applicabile è la seguente: “l’art. 179 c.n., applicabile anche alle navi straniere ex art. 185 c.n., prevede che le navi, al momento dell’arrivo in porto, debbono far pervenire una dichiarazione all’autorità marittima per fornire tutte le informazioni relative al viaggio, ai passeggeri, al carico ed altro; l’art. 723 del Regolamento CE n. 2454/1993 disciplina poi l’ipotesi dell’ammissione temporanea dei mezzi di trasporto adibiti alla navigazione marittima nelle acque interne che (comma 2) “possono restare nel territorio doganale della Comunità per tutto il tempo necessario allo svolgimento delle operazioni per cui è richiesta l’ammissione temporanea, quali l’inoltro, lo sbarco o l’imbarco dei passeggeri, lo scarico e il carico delle merci, il trasporto e la manutenzione”; la Convenzione di Ginevra del 18 maggio 1956, infine, prevede che i mezzi navali extra comunitari possano accedere nel territorio doganale con un documento di importazione temporanea, definito come “il documento che permette di riconoscere l’imbarcazione o l’aeromobile e d’accertare la prestazione della garanzia o il deposito dei diritti e tasse di importazione, e detta le condizioni, oggettive e temporali, che regolano la permanenza nelle acque comunitarie delle imbarcazioni.

    Ed ancora, i giudici del Collegio aggiungono in motivazione che: “L’autorità marittima del primo porto di approdo nazionale, a tal fine, rilascia alle imbarcazioni battenti bandiera estera (non comunitaria) il cd. costituto in arrivo - che costituisce il documento con cui vengono attestate le formalità di arrivo e partenza - avente la durata di 12 mesi e che deve poi essere restituito all'atto della partenza verso un porto estero.”. Con tale atto si prova che l’imbarcazione straniera si trova sulle acque nazionali, in regime di importazione temporanea.

    La natura di regime agevolativo determina inoltre che la prova dei presupposti per poter beneficiare di tale agevolazione, è a carico del contribuente, sul quale incombe l’onere di dimostrare che la nave si trova sul territorio nazionale in regime di “importazione temporanea”. Tale prova può essere raggiunta con l’esibizione del predetto documento.

    Gli Ermellini precisano infine che deve essere escluso che la mera esistenza di un contratto di appalto per l’esecuzione dei lavori possa considerarsi un requisito sufficiente a legittimare la richiesta di ammissione dell’imbarcazione extracomunitaria al regime di temporanea importazione, avendo un’incidenza neutra rispetto agli altri presupposti.

  • Cassazione civile, Sezione tributaria, sentenza n. 21299 del 29 agosto 2018: sul mancato versamento IVA.

    La controversia esaminata dagli Ermellini, trae origine dal ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, al fine di ottenere la cassazione della sentenza emessa dalla CTR del Lazio, con la quale, in riforma della pronuncia di primo grado, ha annullato l’atto di contestazione di sanzioni a carico della contribuente, la quale ha scelto la procedura di liquidazione dell’Iva di gruppo, per la tardiva prestazione della polizza fideiussoria all’atto del trasferimento dell’eccedenza di credito Iva per il 2003, eccedenza poi indebitamente utilizzata per la compensazione di debiti Iva di gruppo.

    A parere della CTR, il credito IVA non appare essere in discussione e la tardiva presentazione della garanzia fideiussoria non ha prodotto alcun danno all’erario, in quanto la violazione ha carattere formale non sanzionabile.

    Il Collegio accoglie il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria.

    Gli Ermellini osservano che il D.M. 13 dicembre 1979, in attuazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 73, u.c., ha introdotto delle disposizioni in merito agli adempimenti e alle procedure necessarie in tema di liquidazioni periodiche, di dichiarazione annuale e di versamenti del tributo da parte dei soggetti appartenenti a uno stesso gruppo, prevedendo infatti che: “per le eccedenze di credito risultanti dalla dichiarazione annuale dell’ente o società controllante ovvero delle società controllate, compensate in tutto o in parte con somme che avrebbero dovuto essere versate dalle altre società controllate o dall’ente o società controllante, si applicano le disposizioni del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 38-bis. Le garanzie devono essere prestate dalle società il cui credito sia stato estinto, per l’ammontare relativo, in sede di presentazione della dichiarazione annuale. In caso di mancata prestazione delle garanzie l’importo corrispondente alle eccedenze di credito compensate deve essere versato all’ufficio entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale”.

    La Suprema Corte osserva che l’anzidetta a norma: “da un lato opera un rinvio recettizio all’art. 38 bis cit. e, dall’altro, impone che le garanzie suddette debbono essere prestate in sede di presentazione della dichiarazione annuale della società il cui credito è stato soddisfatto nel modo suindicato, occorrendo altrimenti versare all'Ufficio finanziario, entro il termine di presentazione della dichiarazione, l’importo corrispondente alle eccedenze di credito compensate (Cass. n. 25328 del 16/12/2015; Cass. n. 4843 del 11/03/2015; Cass. n. 6835 del 20/03/2009; Cass. n. 28692 del 23/12/2005).

    Alla luce del costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, gli Ermellini statuiscono che: “l’omessa (o la tardiva) presentazione della garanzia integra un comportamento - di omesso versamento dell'imposta risultante dalla dichiarazione alla prescritta scadenza oggettivamente sanzionabile a norma del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13.”.

    I giudici della Suprema Corte sottolineano, in conclusione, che le garanzie richieste dall’art. 6, comma 3, D.M., sono finalizzate ad assicurare il recupero di quanto dovuto all’erario qualora sia accertata, successivamente all’estinzione del credito mediante compensazione, la mancanza dei presupposti giustificativi della definizione agevolata dell’Iva infragruppo.