ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 31 gennaio 2018. A cura di Giuseppe Lonero

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  • Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, sentenza n. 29189 del 06 dicembre 2017: effetti della donazione di un terreno edificabile da un familiare ad un altro, con contestuale sua cessione a titolo oneroso a terzi

    La Suprema Corte di Cassazione viene chiamata a pronunciarsi in merito agli effetti della donazione di un terreno edificabile da parte di un familiare in favore ad un altro, con contestuale cessione a titolo oneroso a terzi.

    La vicenda trae origine dall’esito di un avviso di accertamento effettuato dall’Amministrazione finanziaria nei confronti delle contribuenti D. E., relativamente alla tassazione separata della plusvalenza derivante dalla cessione di un terreno attraverso una donazione simulata alle figlie, le quali contestualmente nel medesimo atto si adoperano a vendere l’anzidetto terreno in favore di una società petrolifera.

    Le contribuenti D. E. propongono impugnazione, rilevando l’infondatezza della pretesa erariale in quanto è basata sull’errata opinione, consistente nel ritenere che l’anzidetta donazione fosse un contratto simulato con il fine precipuo di eludere le imposte.

    Il giudice di primo grado accoglie favorevolmente l’impugnazione della contribuente, annullando integralmente l’accertamento.

    L’Agenzia delle Entrate propone appello avverso la decisione di primo grado e la Commissione regionale accoglie le doglianze dell’Amministrazione finanziaria sulla base della seguente motivazione: “le modalità stesse di confezione del contratto di donazione e contemporanea vendita, nonché l’avvio della pratica edilizia prima di detto contratto, lumeggiassero chiaramente la natura strumentale dell’operazione al fine di eludere l’imposta, stante l’artificiosità della stessa.”.

    La contribuente D. propone, avverso la predetta decisione, ricorso per cassazione.

    I giudici del Collegio accolgono parzialmente il predetto ricorso.

    Il primo motivo di ricorso, concernente l’inapplicabilità astratta della norma tributaria all’ipotesi di interposizione reale di persona, non trova un riscontro positivo nel consolidato orientamento giurisprudenziale.

    Secondo le recenti pronunce della giurisprudenza, assume rilievo l’uso improprio di un istituto giuridico utilizzato solo ed esclusivamente con un fine elusivo, al di là della sua natura o fittizia o reale.

    Con pronuncia del 2017 n. 12317, la Suprema Corte di Cassazione fornisce infatti una chiara lettura interpretativa della disposizione normativa contenuta nell’art. 37, comma 3, del DPR n. 600/1973: “È stato in particolare più volte ribadito che la disciplina antielusiva dell’interposizione, prevista dall’art. 37, comma 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non presuppone necessariamente un comportamento fraudolento da parte del contribuente, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale che costituisce il presupposto d’imposta: ne deriva che il fenomeno della simulazione relativa, nell’ambito della quale può ricomprendersi l’interposizione fittizia di persona, non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo anche mediante operazioni effettive e reali.

    Il Collegio accoglie invece gli altri due motivi di impugnazione inerenti all’omessa valutazione della documentazione, depositata tempestivamente come prova del prezzo ricavato dalla vendita del bene donato percepito dalle figlie donatarie e successivamente, consumato per un loro scopo personale.

    Gli Ermellini sostengono che, alla base di un eventuale giudizio concernente la sussistenza di un negozio giuridico simulato, deve sussistere la prova della condotta mirante a celare una compravendita dietro la veste della donazione.

    A tal proposito, i giudici della Suprema Corte specificano quanto segue: “Non va dimenticato che lo spirito liberale a sostegno della donazione è la volontà di attribuire un arricchimento al donatario, sicchè non assume dirimente rilevo che il donante si configuri come certa la successiva vendita ed appare ovvio che il donatario del bene goda del prezzo della vendita del bene senza per ciò ricevere ed appare ovvio che il donatario del bene goda del prezzo della vendita del bene senza per ciò ricevere apposita donazione del denaro ricavato. Quindi le argomentazioni utilizzate dalla Commissione felsinea a sostegno della conclusione e della simulazione della donazione del terreno e che oggetto di donazione fu la somma ricavata dalla vendita, appaiono allo scopo anodine poiché prive dei requisiti ex art. 2729 c.c., per assumere valenza di prova indiziaria.”  

    Nello specifico, l’art.37, comma 3, del D.P.R. n.600/73 (in materia di presunzioni) sancisce che “in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona”.  

    Con la pronuncia in commento, i giudici della Suprema Corte sostengono che la prova del contratto simulato viene raggiunta, quando si dimostra in giudizio sia l’assenza dello spirito di liberalità sia che il prezzo conseguito dalla vendita perviene alla donante e che successivamente lo trasferisce a titolo di donazione a terzi, come ad esempio un familiare.

    In conclusione, alla luce della pronuncia in commento, il predetto onere della prova ricade direttamente sull’Amministrazione finanziaria, la quale dovrà dimostrare la natura elusiva delle operazioni economiche poste in essere dal contribuente, anche nell’ipotesi in cui le medesime operazioni vengano realizzate attraverso l’interposizione fittizia di terzi.

  • Corte Costituzionale, sentenza n. 264 del 13 dicembre 2017: sulle imposte sui redditi di impresa e versamenti a fondo perduto effettuati da società appartenenti al medesimo gruppo

    La vicenda trae origine dall’ordinanza emessa dalla Commissione tributaria regionale di Venezia, con la quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 88, comma 4, del T.U.I.R. nella parte dedicata a: “Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi”, in riferimento agli artt. 3 e 53, primo comma, della Costituzione.

    La quaestio iuris è nata nel corso di un giudizio d’appello promosso dall'Agenzia delle entrate avverso la sentenza con la quale la Commissione tributaria provinciale di Padova, accogliendo il ricorso presentato da H. A. spa, ha annullato un avviso di accertamento relativo all’anno 2010 in materia di imposta sul reddito delle società e di imposta regionale sulle attività produttive.

    Nello specifico, la società H. A. spa appartiene ad un gruppo controllato da una società holding, avente la propria sede all’estero.

    A mezzo dell’avviso di accertamento impugnato, l’Amministrazione finanziaria ha sottoposto a tassazione la somma di 6.283.671 euro, erogata in favore della predetta società contribuente nell’anno 2010 da altre società che appartengono al medesimo gruppo, ma non socie.

    Gli anzidetti versamenti risultano nel bilancio della società contribuente, inseriti sotto la voce “debiti verso altri finanziatori”. Dall’analisi effettuata sulla contabilità della predetta società è emerso che medesime operazioni sono state effettuate in anni precedenti e che una parte delle somme è stata impiegata al fine di coprire le perdite di esercizio della medesima società, la cui gestione risulta a chiusura del bilancio, costantemente in negativo. Al fine di coprire le perdite, la H. A. spa rinuncia parzialmente ai crediti, mentre i residui importi sono rimasti iscritti a bilancio tra i debiti a breve termine.

    La H. A. spa risulta non aver mai restituito, nemmeno in parte, i finanziamenti ricevuti.

    A parere dell’Amministrazione Finanziaria, le predette somme non sono erogate come mutuo con obbligo di restituzione, ma in realtà celerebbero dei ricavi tassabili come “contributi in denaro (...) in base a contratto”, ai sensi dell'art. 85, comma 1, lettera g), del TUIR.

    Il giudice di primo grado sostiene invece che i contributi ex art. 85, comma 1, lettera g), del TUIR devono considerarsi come quelli percepiti in base a contratti a prestazioni corrispettive: situazione non ricorrenti nel caso di specie. I versamenti delle società consorelle devono essere assimilate a quelli “(...) fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società (...) dai propri soci”, che, alla luce dell’art. 88, comma 4, del TUIR, non costituiscono sopravvenienze attive tassabili.

    Secondo il giudice a quo, l’interpretazione data dal giudice di primo grado all’art. 85, comma 1, lettera g), del TUIR, è condivisibile, in modo da qualificare i versamenti come sopravvenienze attive ai sensi del successivo art. 88 del TUIR.

    Tali versamenti non andrebbero tassati sulla base di un’interpretazione “estensiva” del comma 4 dello stesso art. 88, trattandosi di versamenti fatti da società appartenenti al medesimo gruppo. Il gruppo di società dovrebbe configurarsi come un’unitaria struttura d’impresa, alla quale corrisponde una pluralità di società coordinate e dirette dalla capogruppo, con la conseguenza che i contributi erogati dalle società appartenenti allo stesso gruppo al fine di coprire il passivo di un’altra società del gruppo sarebbero orientati al medesimo obiettivo che muove i soci a versare denaro a fondo perduto o in conto capitale alla società.

    Superando il limite applicativo dell’art. 88, comma 4, del TUIR, si dovrebbe riconoscere in capo alle società del gruppo un interesse conformato alla logica di una strategia imprenditoriale unitaria, per il perseguimento di obiettivi comuni. L’interpretazione estensiva dell’art. 88, comma 4, del TUIR andrebbe esclusa, alla luce della sentenza del 29 ottobre 2014 n. 22917 della Corte di Cassazione.

    Secondo il giudice rimettente, l’interpretazione offerta dalla Suprema Corte vanta un contenuto contrastante con gli artt. 3 e 53, primo comma, Cost., in quanto ne conseguirebbe una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni meritevoli di una disciplina comune. I contributi a fondo perduto o in conto capitale eseguiti da soggetti che, sebbene non soci della società beneficiaria né possessori di strumenti finanziari similari alle azioni, sono parimenti interessati e sarebbero irragionevolmente discriminati, in quanto appartenenti al medesimo gruppo.

    La Consulta ha ritenuto che la questione sollevata dalla Commissione tributaria regionale di Venezia è priva di qualsiasi fondamento, sostenendo che la norma censurata vanta una portata eccezionale, limitando l’estensione al di fuori dei casi in essa espressamente previsti.

    L’art. 88, comma 4, del TUIR introduce nel nostro regime fiscale una disposizione di favore, apparendo indubbio che, in sua mancanza, i versamenti dei soci a fondo perduto o in conto capitale dovrebbero essere considerati sopravvenienze attive, poiché sono componenti positive del reddito delle società.

    Alla luce del costante orientamento giurisprudenziale, la Consulta sostiene che sia necessario verificare se la ratio del beneficio fiscale previsto dalla norma censurata possa essere ugualmente riferita anche alle ipotesi dei versamenti effettuati ad una società da parte di un’altra appartenente al medesimo gruppo, purchè non risulti essere socia della prima.

    Gli Ermellini spiegano che i versamenti effettuati dai soci a fondo perduto o in conto capitale hanno la funzione di dotare la società di mezzi patrimoniali integrativi e sono assistiti da una causa simile a quella del c.d. capitale di rischio, facente parte dei conferimenti.

    L’anzidetta assimilazione comporta, sotto il profilo fiscale, che all’aumento del patrimonio netto ed alla sua irrilevanza reddituale ex art. 88, comma 4, si contrapponga l’aumento del costo di partecipazione, corrispondente al costo dei conferimenti e la non deducibilità dal reddito dell’importo versato ex artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, del TUIR.

    La patrimonializzazione della società è pertanto fiscalmente agevolata in quanto il legislatore equipara gli interessi sottesi ai versamenti dei soci a quelli sottostanti ai conferimenti, riconducendoli al rapporto sociale.

    I giudici della Consulta hanno rilevato pertanto che il trattamento fiscale, previsto dall’art. 88, comma 4, del TUIR trova fondamento nel fatto che, da una parte l’interesse del socio coincide perfettamente con quello della società, dall’altra, nell’ipotesi in cui, tale rapporto non esista, l’interesse del soggetto che procede con il versamento, è indiretto e mediato e pertanto, non assimilabile a quello della società.

    In conclusione, la Consulta emana il seguente principio di diritto: “Il regime fiscale differenziato che il legislatore ha discrezionalmente ritenuto di riservare alle due categorie di versamenti senza obbligo di restituzione, escludendo dal novero delle sopravvenienze attive solo quelli effettuati dai soci a fondo perduto o in conto capitale (nonché, per identità di ratio, gli apporti dei possessori di strumenti partecipativi), non si traduce in una disciplina irragionevole e non impone l'estensione del suo ambito applicativo nel senso auspicato dal rimettente.

  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 29919 del 13 dicembre 2017: procedimento tributario e difesa del contribuente

    Le Sezioni Unite si pronunciano sulla questione inerente il principio secondo il quale, nel processo tributario avente ad oggetto controversie di valore pari o superiore a Euro 2.582,28, l’inammissibilità del ricorso proposto direttamente dalla parte senza assistenza tecnica trovi applicazione soltanto nel giudizio di primo grado oppure anche in quello di secondo grado e pertanto, con riguardo all’ipotesi in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato al fine di impugnare.

    La vicenda trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento, da parte dell’Agenzia delle Entrate, sulla base delle risultanze del processo verbale di constatazione notificato alla A. M. s.r.l., a mezzo del quale accertava, per l’anno 2005, l’omessa contabilizzazione di ricavi ed anche la deduzione di costi non inerenti e di costi non di competenza e, conseguentemente, maggiori IRES, IRAP ed IVA, oltre a interessi e a sanzione pecuniaria.

    La A. M. s.r.l. proponeva ricorso alla CTP di Firenze, sottoscritto dal legale rappresentante della società.

    L’Agenzia Finanziaria, costituitasi nel giudizio, in via preliminare, eccepiva l’inammissibilità del ricorso in quanto sottoscritto dal legale rappresentante della società ricorrente, soggetto non abilitato all’assistenza tecnica dinanzi alle commissioni tributarie, nonostante il valore della controversia superasse Euro 2.582,28 e, nel merito, chiedeva il rigetto del ricorso. La CTP di Firenze rigetta l’eccezione sollevata dall’Amministrazione Finanziaria dato che, società contribuente conferisce l’incarico ad un difensore abilitato.

    La predetta società contribuente propone appello alla CTR della Toscana. Il giudice di secondo grado dichiara l’appello inammissibile.

    In primo luogo, la CTR osserva che, nonostante la controversia fosse di valore superiore a Euro 2.582,28, il ricorso in appello appare “sottoscritto personalmente dal legale rappresentante della società, senza l'ausilio di un difensore abilitato”, in violazione del D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3. Avverso la predetta sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, non notificata, la A. M. s.r.l. decide di proporre ricorso per cassazione.

    La Sezione Tributaria della Suprema Corte trasmette la causa al Primo Presidente che, ai sensi dell'art. 374 c.p.c., comma 2, l’assegna alle Sezioni Unite della Corte, al fine di pronunciarsi sulla questione vertente il principio secondo il quale, nel processo tributario avente a oggetto controversie di valore pari o superiore a Euro 2.582,28, l’inammissibilità del ricorso proposto direttamente dalla parte senza assistenza tecnica trovi applicazione soltanto nel giudizio di primo grado oppure anche in quello di secondo grado e pertanto, con riguardo all’ipotesi in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato al fine di impugnare.

    I giudici delle Sezioni Unite osservano che sussistono due diversi orientamenti. L’indirizzo prevalente è concorde nel ritenere che l’obbligo di rispettare il dovere di munirsi di assistenza tecnica deve essere impartito dal decidente soltanto nel giudizio di primo grado e pertanto, solamente con riferimento all’ipotesi in cui il contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato per proporre l’impugnazione dell’atto impositivo, ma non all’ipotesi in cui ciò accada nel corso del giudizio di secondo grado.

    Alla luce del predetto orientamento, la giurisprudenza di legittimità ritiene che: “l'obbligo del giudice tributario di fissare al contribuente, che ne sia privo, un termine per la nomina di un difensore - previsto, per le controversie di valore eccedente Euro 2.582,28, dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, comma 5, come interpretato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 189 del 2000 e n. 202 (recte: 520) del 2002 e con l’ordinanza n. 158 del 2003 - sussiste solo nell'ipotesi in cui la parte sia “ab initio” sfornita di assistenza tecnica, e non riguarda il giudizio di secondo grado, come si desume sia dall’esplicito riferimento, nella citata giurisprudenza costituzionale, al solo giudizio di prime cure, sia dal tenore letterale dell'art. 12 cit., che si riferisce espressamente alla proposizione delle controversie, e non alla prosecuzione dei giudizi. Ne consegue che, quando la parte si sia munita di assistenza tecnica nel giudizio di primo grado a seguito di ottemperanza all’ordine emesso dal giudice e proponga appello personalmente l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile, non dovendo l’ordine essere reiterato, e l’appello va dichiarato immediatamente inammissibile, attesa la riferibilità di quello impartito in prime cure all'intero giudizio” (Cass. n. 21139 del 2010, cfr anche Cass. 4/4/2008, n. 8778; Cass. 30/6/2010 n. 15448, Cass. 13/9/2013 n. 20929 e Cass. del 18/12/2014 n. 26851).

    I giudici delle Sezioni Unite puntualizzano che la Corte Costituzionale si è espressa sulla questione di legittimità costituzionale del D. Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, comma 5, e art. 18, commi 3 e 4, fornendo un’interpretazione costituzionalmente orientata verso la tutela del diritto di difesa.

    In particolare, l’art. 18, commi 3 e 4, del D.Lgs. n. 546 del 1992 sancisce quanto segue: “Il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore e contenere l’indicazione: a) della categoria di cui all'articolo 12 alla quale appartiene il difensore; b) dell’incarico a norma dell’articolo 12, comma 7, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente; c) dell’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore. Il ricorso è inammissibile se manca o è assolutamente incerta una delle indicazioni di cui al comma 2, ad eccezione di quella relativa al codice fiscale e all'indirizzo di posta elettronica certificata, o non è sottoscritto a norma del comma precedente.

    La Corte Costituzionale sostiene, nella sentenza n. 189 del 2000, che l’art. 18, commi 3 e 4, possa essere interpretato in modo tale da escludere i dubbi prospettati dal giudice a quo circa gli ostacoli che esso avrebbe frapposto “all'esercizio dell'azione avanti al giudice tributario di primo grado (commissione provinciale)” e del diritto di difesa.

    La Corte di Cassazione precisa che l’interpretazione, fornita dalla Consulta, si fonda sulle seguenti argomentazioni: “a) il rinvio operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3, all'art. 12, comma 5 stesso decreto, “assume un significato logico (con interpretazione in armonia con un sistema processuale che deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare) di richiamo complessivo all'intero comma 5 e quindi anche al meccanismo dell'ordine da parte del Presidente della commissione o della sezione o del collegio di “munirsi di assistenza tecnica fissando un termine entro il quale la stessa (parte) è tenuta, a pena di inammissibilità, a conferire l'incarico ad un difensore abilitato””, con la conseguenza che l’inammissibilità scatta - per scelta del legislatore tutt’altro che irragionevole - solo a seguito di ordine ineseguito nei termini fissati e non per il semplice fatto della mancata sottoscrizione del ricorso da parte di un professionista abilitato”; b) tale soluzione era maggiormente in linea con il principio e criterio direttivo dettato dalla Legge di delegazione n. 413 del 1991, art. 30, comma 1, lett. i); c) si trattava “di semplice assistenza tecnica (e non anche di rappresentanza), il cui incarico può essere conferito anche in sede di udienza pubblica (art. 12, comma 3, u.p.)”, con la precisazione che “rientra nella discrezionalità del legislatore la disciplina del diritto di difesa, non essendovi in via generale una scelta costituzionalmente obbligata di assistenza di difensore abilitato”; d) “non osta alla anzidetta interpretazione la considerazione dell'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui questa soluzione comporterebbe la necessità di un'ampia rimessione in termini del contribuente, in quanto il tema del decidere resta circoscritto dal ricorso introduttivo, mentre la possibilità di “motivi aggiunti” è dal legislatore limitata alle sole ipotesi tassative di integrazione dei motivi del ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione tributaria, ed entro termini tassativi dalla notizia del deposito (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24)”.

    Un orientamento minoritario sostiene, invece, che l’ordine del giudice di munirsi dell’assistenza tecnica, a norma dell'art. 12, comma 5, terzo periodo, del D. Lgs. n. 546 del 1992, è applicabile anche al giudizio di appello (Cass. n. 21459 del 2009 e Cass. n. 1100 del 2002).

    La Suprema Corte statuisce che: “l’ordine di munirsi di assistenza tecnica ove impartito dal giudice al contribuente nel giudizio di primo grado nel caso in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato per proporre l’impugnazione dell'atto impositivo, ancorchè astrattamente ammissibile, non debba essere reiterato per il ricorso in appello. Se la parte è stata resa edotta, mediante invito della Commissione Tributaria della necessità che la controversia - a prescindere dal suo svolgimento in uno o in due gradi di merito - richiede l'assistenza tecnica, non vi è ragione che lo stesso invito venga reiterato dalla commissione tributaria regionale. La medesima valutazione va fatta anche con riferimento al caso in cui, come nella fattispecie, il contribuente sia stato comunque messo a conoscenza della mancanza della necessaria assistenza tecnica dall'eccezione della controparte, rendendo quindi, superfluo l'ordine del giudice che non deve, quindi reiterarlo in secondo grado, dovendo ritenersi, inammissibile il ricorso in appello ove la parte sia sfornita di assistente abilitato alla difesa in quanto è stata già resa edotta dell’obbligo di farsi assistere da un difensore abilitato, nonchè della sanzione, la declaratoria di inammissibilità, che, in difetto, ne conseguirebbe. In tale evenienza va anche esclusa alcuna violazione del diritto di difesa in quanto il contribuente è già stato reso edotto, o a seguito di ordine del giudice o di eccezione di parte, della mancanza della necessaria difesa tecnica in primo grado e il perdurare della situazione anche in grado di appello va addebitata a comportamento negligente della parte, con conseguente inammissibilità della impugnazione proposta senza avvalersi della necessaria assistenza tecnica.

    I giudici della Consulta precisano che la reiterazione dell’invito, da parte del giudice di secondo grado, a munirsi dell’assistenza tecnica a una parte che è già stata destinataria di un analogo invito da parte del giudice di primo grado è anche contrastante con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto comporterebbe l’inevitabile rinvio della trattazione della controversia, con un inevitabile allungamento dei tempi di definizione della stessa non giustificato dall'esigenza di assicurare l'effettività della tutela giurisdizionale.

    La Consulta evidenzia anche che appare diversa l’ipotesi in cui l’anzidetta situazione accada per la prima volta in sede: il predetto ordine di munirsi di assistenza tecnica con riferimento al caso in cui il medesimo contribuente non si sia avvalso dell’assistenza di un difensore abilitato per proporre l'impugnazione della sentenza, deve essere impartito nel giudizio di appello in quanto, in tali ipotesi, la parte potrebbe effettivamente non essere a conoscenza dell'obbligo dell’assistenza tecnica e, quindi, non in condizione di ottenere la concreta tutela giurisdizionale dei propri diritti.

    Alla luce delle predette considerazioni, i giudici della Suprema Corte emanano il seguente principio di diritto: “l'ordine impartito dal giudice al contribuente, nel giudizio di primo grado, di munirsi di assistenza tecnica - nel caso in cui lo stesso contribuente non si sia avvalso dell'assistenza di un difensore abilitato per proporre l'impugnazione dell'atto impositivo - ancorchè astrattamente ammissibile anche in grado di appello, non deve essere reiterata, con conseguente inammissibilità dell'appello per la mancanza di “ius postulandi”. L'impugnazione è parimenti inammissibile se la parte, sfornita in grado di appello della necessaria assistenza tecnica, sia stata comunque resa edotta dall'eccezione di controparte, nel giudizio davanti alla Commissione Tributaria provinciale, della necessità dell'assistenza tecnica necessaria, non dovendo tale invito essere reiterato dalla commissione tributaria regionale”.

    In conclusione, le Sezioni Unite mostrano di aderire all’orientamento interpretativo ripreso dalla sentenza citata.

    In particolare, si dà prevalenza all’ipotesi di circoscrivere e pertanto, limitare il più possibile le ipotesi di inammissibilità, applicando il rimedio offerto dall'art. 12.

    Appare differente l’ipotesi del contribuente che in primo grado sia rimasto sprovvisto di difensore, dato che l’ordine di munirsi di assistenza tecnica per errore non è stato impartito dalla Commissione. In tale ipotesi, qualora il contribuente impugni personalmente la sentenza, non vi è alcuna valida ragione giuridica per escludere l’operatività del predetto meccanismo evitando pertanto di reiterare l’invito.

  • Corte di Giustizia UE, sentenza nella Causa C-276/16 del 20 dicembre 2017: in tema di accertamenti doganali e mancata previa audizione del destinatario prima dell’emissione di un avviso di rettifica dell’accertamento

    La Corte di Giustizia dell’UE viene adita nella causa C-276/16, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dalla Suprema Corte di Cassazione, a mezzo di ordinanza del 17 marzo 2016, nel procedimento P. I. s.r.l. contro Agenzia delle Dogane e dei Monopoli al fine di ottenere la pronuncia pregiudiziale vertente sull’interpretazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del consiglio del 12 ottobre 1992 che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) n. 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 novembre 2000 e del principio del rispetto dei diritti della difesa conformemente al diritto dell’Unione.

    Nello specifico, la domanda è stata presentata in occasione di una controversia insorta tra la P. I. s.r.l. e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in merito ad avvisi di accertamento emessi dall’Amministrazione finanziaria, per la ripresa a tassazione dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione per il mancato rispetto dell’obbligo di introdurre fisicamente le merci in un deposito fiscale.

    I giudici della Corte effettuano preliminarmente un breve excursus normativo al fine di inquadrare dal punto di vista del dato legislativo comunitario la vicenda esaminata.

    L’art. 243 del codice doganale prevede che: “Chiunque ha il diritto di proporre ricorso contro le decisioni prese dall'autorità doganale, concernenti l'applicazione della normativa doganale, quando esse lo riguardano direttamente e individualmente. (…) Il ricorso è introdotto nello Stato membro in cui la decisione è stata presa o sollecitata. Il ricorso può essere esperito: a) in una prima fase, dinanzi all'autorità doganale designata a tale scopo dagli Stati membri; b) in una seconda fase, dinanzi ad un'istanza indipendente, che può essere un'autorità giudiziaria o un organo specializzato equivalente, in conformità delle disposizioni vigenti negli Stati membri”.

    L’art. 244 del codice doganale sancisce che: “La presentazione di un ricorso non sospende l'esecuzione della decisione contestata. Tuttavia, l'autorità doganale può sospendere, in tutto o in parte, l'esecuzione della decisione quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l'interessato. Quando la decisione impugnata abbia per effetto l'applicazione di dazi all'importazione o di dazi all'esportazione, la sospensione dell'esecuzione è subordinata all'esistenza o alla costituzione di una garanzia. Tuttavia, non si può esigere detta garanzia qualora, a motivo della situazione del debitore, ciò possa provocare grave difficoltà di carattere economico o sociale”.

    L’art. 245 del codice doganale dispone invece che: “Le norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri”.

    La vicenda processuale trae origine dall’emissione di diversi avvisi di accertamento, a mezzo dei quali l’Amministrazione finanziaria contesta ad una società contribuente il mancato versamento dell’IVA sulle merci importate e non introdotte nel deposito fiscale.

    La Commissione tributaria regionale di Firenze accoglie favorevolmente l’appello proposto dall’Amministrazione finanziaria, ma i giudici della Suprema Corte di Cassazione si pronunciano favorevolmente nei confronti della società contribuente, in quanto ravvisano la violazione del diritto al contraddittorio procedimentale in ambito doganale.

    Gli Ermellini chiedono pertanto alla Corte di Giustizia Ue di verificare se sia legittima la normativa italiana che non prevede nulla, in assenza di contraddittorio preventivo, sull’automatica sospensione dell’esecuzione dell’atto a seguito della presentazione del ricorso.

    Il giudice del rinvio chiede, precisamente, se sussiste una violazione da parte della normativa italiana che consente soltanto all’interessato di chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto fino all’eventuale riforma, facendo un rinvio all’art. 244 del codice doganale e non esiste alcuna previsione normativa sul ricorso amministrativo che sospende automaticamente l’esecuzione di tale atto.

    Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale comunitario, si ritiene che: “il principio generale del diritto dell’Unione del rispetto dei diritti della difesa non si configura come prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti.

    I giudici comunitari aggiungono, inoltre, che non si può configurare nessun pregiudizio difensivo, quando la normativa interna prevede la possibilità per le autorità doganali di sospendere la decisione adottata. Quest’ultima ipotesi viene subordinata al fatto che vi siano validi motivi per ritenere che l’atto impugnato sia incompatibile con la normativa doganale o che vi sia un danno irreparabile al contribuente, a condizione che le predette condizioni siano applicate in maniera restrittiva e limitata.

    Alla luce del nuovo Codice Doganale, il quale sancisce l’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale prima dell’adozione di ogni provvedimento concernete l’applicazione della normativa, i giudici comunitari emanano il seguente principio di diritto: “Il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi deve essere interpretato nel senso che i diritti della difesa del destinatario di un avviso di rettifica dell’accertamento, adottato dall’autorità doganale in mancanza di una previa audizione dell’interessato, non sono violati se la normativa nazionale che consente all’interessato di contestare tale atto nell’ambito di un ricorso amministrativo si limita a prevedere la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecuzione di tale atto fino alla sua eventuale riforma rinviando all’articolo 244 del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal regolamento (CE) 2700/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, senza che la proposizione di un ricorso amministrativo sospenda automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato, dal momento che l’applicazione dell’articolo 244 secondo comma, di detto regolamento da parte dell’autorità doganale non limita la concessione della sospensione dell’esecuzione qualora vi siano motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata con la normativa doganale o vi sia da temere un danno irreparabile per l’interessato.”.

  • Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, sentenza n. 30807 del 22 dicembre 2017: in tema di acquisto della nuda proprietà di un immobile e rimborso dell’IVA

    La Suprema Corte di Cassazione si pronuncia in tema rimborso dell’IVA in occasione dell’acquisto della sola nuda proprietà del bene.

    Il caso di specie trae origine dal ricorso proposto dalla società A. s.r.l. contro l’Agenzia delle Entrate, la quale recupera a tassazione l’IVA per l’anno 2003 in relazione all’acquisto di un immobile da parte della società A. s.r.l., esercente l’attività di gestione dei villaggi turistici.

    L’Amministrazione finanziaria ritiene che la predetta ritenuta sia stata indebitamente rimborsata alla società contribuente, in quanto la medesima ha acquistato solo la nuda proprietà dell’immobile, escludendo la natura di attività di impresa.

    La CTR della Toscana ritiene illegittimo l’avviso di accertamento, poichè ai fini del rimborso dell’IVA non è richiesto il requisito della disponibilità del bene.

    Gli Ermellini ritengono che il ricorso sia fondato.

    I giudici della Suprema Corte inquadrano preliminarmente il caso di specie sotto il profilo normativo. Nello specifico, osservano che l’art. 19, comma 1, del D.P.R. n. 633 del 1972, vigente ratione temporis, sancisce che “Per la determinazione dell'imposta dovuta a norma dell'art. 17, comma 1 o dell'eccedenza di cui dell'art. 30, comma 2, è detraibile dall'ammontare dell'imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell'imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione”.

    L’anzidetta norma deve, inoltre, riceve una lettura in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, del D.P.R. n. 633, che offre una definizione generale della nozione di cessione e precisamente, prevede che costituisce: “cessione di beni gli atti a titolo oneroso che importano il trasferimento della proprietà ovvero costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento su beni di ogni genere”.

    A tal proposito, la Corte di Cassazione osserva che il titolo di trasferimento di un immobile implica il potere di disporre del bene, presupposto che, del resto, caratterizza la definizione di cessione ai fini comunitari prevista dall’art. 14, par. 1, della direttiva 2006/112/CE.

    L’art. 14 stabilisce infatti che “si considera cessione di un bene il trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario”, ed in particolare, gli Ermellini ricordano che la Corte di Giustizia (con sentenza del 6 febbraio 2003, in C-185/01, Auto Lease Holland) statuisce che “la nozione di cessione di un bene non si riferisce al trasferimento di proprietà nelle forme previste dal diritto nazionale vigente, bensì comprende qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l'altra parte a disporre di fatto di tale bene come se ne fosse il proprietario”.

    I giudici della Suprema Corte di Cassazione spiegano, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che un bene, per suscitare un’eccedenza di imposta rimborsabile, deve vantare sia una natura “strumentale”, ovvero che appartenga ad un ciclo produttivo, sia una natura “durevole”, ovvero che la sua vita non si esaurisca nell’arco di un esercizio.

    Il concetto di natura “durevole” di un bene viene tratto, dagli Ermellini, dalla sentenza n. 24779 del 04/12/2015 della Sezione tributaria della Corte di Cassazione ove in motivazione si legge quanto segue: “i costi necessari per acquisire siffatti beni, per un verso, ne costituiscono il naturale metro di valutazione e, per altro verso, rendono necessario procedere al loro ammortamento nel tempo, qualora siano contrassegnati da utilità pluriennale, giacchè il bilancio è retto dal principio di competenza (art. 2423 bis c.c., n. 3), in osservanza del quale se una determinata spesa è destinata a produrre utilità in un arco di tempo eccedente i limiti dell'esercizio in cui è stata sostenuta, il relativo onere deve essere possibilmente imputato anche agli esercizi successivi, in misura proporzionale ai benefici che in tali esercizi detta spesa ha generato. L'ammortamento, difatti, riguarda o può riguardare il costo sostenuto per l’acquisizione o la costruzione di fattori di produzione di durata pluriennale e che partecipano al processo produttivo per un determinato periodo di tempo ultra- annuale. Per tali ipotesi è previsto che il costo non sia computato esclusivamente nell'esercizio nel corso del quale esso è sostenuto (principio di cassa), ma sia, invece, ripartito tra i vari esercizi nel corso dei quali il bene di cui si tratta sarà presumibilmente utilizzato nell'esercizio dell'impresa” (25668/13). In questa cornice il costo non è perciò solo “naturale metro di valutazione” del cespite acquisito, ma, in quanto elemento contabile alla stregua del quale va operato il suo ammortamento, anche concreto indice del fatto - decisivo ai nostri fini - che sostenendo un costo ovvero pagando un prezzo per l'acquisto del bene l'imprenditore ne abbia conseguito la proprietà ovvero un diritto reale di godimento che - come con maggior sintonia rispetto alle fonti Eurounitarie, ancora questa Corte ha recentemente ricordato in relazione al potere assicurato al lesse in relazione al bene oggetto del contratto di leasing (20951/15) - gli assicuri “il potere di disporre di un bene come proprietario”. Da qui perciò la conclusione che se i beni, in relazione al cui acquisto si intenda reclamare il ristoro dell'IVA eccedente all'esito della liquidazione annuale, ancorchè strumentali per non essere idonei ad alcuna utilizzazione autonoma rispetto al loro impiego imprenditoriale, non siano pure riconducibili alla categoria delle immobilizzazioni, nel senso che l'imprenditore non disponga di essi nei termini indicati, non saranno pure ammortizzabili e non consentiranno perciò di dar seguito al rimborso chiesto a mente del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30, comma 3, alinea e lett. c).”

    Nel caso di specie, esaminato dai giudici della Suprema Corte, il trasferimento della nuda proprietà non si accompagna ad un diritto reale di godimento, in quanto tutti i tipici poteri connessi al predetto diritto, spettano all’usufruttuario. Nell’ipotesi in cui, vi sia un bene-merce, la limitata disponibilità appare sufficiente ad integrare i presupposti affinchè l’acquisto produca un’eccedenza rimborsabile ed i giudici precisano a tal riguardo che: “Al di fuori di questa ipotesi, invece, non sussiste, in capo al nudo proprietario, la possibilità giuridica di utilizzare il bene in funzione degli scopi dell'impresa poichè sono assenti tutti i poteri di disposizione e gestione del bene suscettibili di assicurare la fruibilità della res, che, invece, spettano al titolare del diritto di usufrutto, sicchè, proprio in correlazione agli scopi dell’impresa, è assente il requisito dell'inerenza all’attività d'impresa.” 

    In conclusione, gli Ermellini emanano il seguente principio di diritto: “l’acquisto della sola nuda proprietà di un immobile, che non venga in rilievo come bene-merce, non è suscettibile di generare un’imposta rimborsabile o detraibile per carenza della possibilità giuridica di destinare il bene in funzione degli scopi dell’impresa”.