ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 31 agosto 2017. A cura di Giuseppe Lonero

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  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 16692 del 06 luglio 2017: in tema di condono tombale e suoi effetti, rispetto all’avviso di recupero di credito di imposta da agevolazione

    Con la sentenza n. 16692 del 06 luglio 2017, le Sezioni Unite si pronunciano su tema abbastanza controverso in giurisprudenza, quale l’esclusione oppure meno del potere di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria al fine di verificare la sussistenza o meno di un credito d’imposta, nell’ipotesi in cui, il contribuente abbia aderito al c.d. condono tombale.

    La vicenda de qua trae origine dal ricorso proposto da un contribuente avverso un avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione Finanziaria, in quanto all’esito di un processo verbale di constatazione era emerso che la società contribuente aveva avuto un numero di dipendenti sempre inferiore alla media occupazionale del periodo storico di riferimento, l’Agenzia delle entrate recuperò il credito di imposta per incremento occupazionale del quale, la società aveva fruito in base all’art. 7 della Legge n. 388 del 2000.

    Il giudice di secondo grado si è limitato a dichiarare non applicabili le sanzioni, escludendo che l’adesione della società al c.d. condono tombale impedisca l’esercizio dei poteri di accertamento del Fisco e riconoscendo la correttezza della sentenza, emessa in primo grado, quanto al metodo di calcolo della media occupazionale riferita al periodo oggetto di contestazione, che ha ritenuto calcolato in maniera corretta secondo un mero criterio matematico.

    Le Sezioni Unite sono dunque adite dalla Sezione tributaria al fine di stabilire se l’effetto preclusivo di ogni accertamento stabilito dalla combinazione dall’art. 9, comma 9 e 10, della Legge n. 289 del 2002 riguardi l’intera situazione tributaria e non, soltanto i debiti del contribuente verso l’Amministrazione Finanziaria, ma anche i crediti vantati nei confronti del medesimo Fisco, con particolare riguardo ai crediti generati da agevolazioni.

    L’art. 9, comma 9 e 10, della Legge n. 289 del 2002 sancisce che: “9. La definizione automatica, limitatamente a ciascuna annualità, rende definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all'applicabilità di esclusioni. Sono fatti salvi gli effetti della liquidazione delle imposte e del controllo formale in base rispettivamente all'articolo 36-bis ed all'articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, nonchè gli effetti derivanti dal controllo delle dichiarazioni IVA ai sensi dell'articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni; le variazioni dei dati dichiarati non rilevano ai fini del calcolo delle maggiori imposte dovute ai sensi del presente articolo. La definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell'imposta sul valore aggiunto, nonchè dell'imposta regionale sulle attività produttive. La dichiarazione integrativa non costituisce titolo per il rimborso di ritenute, acconti e crediti d'imposta precedentemente non dichiarati, ne´ per il riconoscimento di esenzioni o agevolazioni non richieste in precedenza, ovvero di detrazioni d'imposta diverse da quelle originariamente dichiarate.

    1. Il perfezionamento della procedura prevista dal presente articolo comporta:
      a)la preclusione, nei confronti del dichiarante e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario;
      b)l'estinzione delle sanzioni amministrative tributarie, ivi comprese quelle accessorie;
      c) l'esclusione della punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5 e 10 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, nonchè per i reati previsti dagli articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491-bis e 492 del codice penale, nonchè dagli articoli 2621, 2622 e 2623 del codice civile, quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria; i predetti effetti operano a condizione che, ricorrendo le ipotesi di cui all'articolo 14, comma 5, della presente legge si provveda alla regolarizzazione contabile di tutte le attività, anche detenute all'estero, secondo le modalità ivi previste, ferma restando la decadenza dal beneficio in caso di parziale regolarizzazione delle attività medesime. L'esclusione di cui alla presente lettera non si applica ai procedimenti in corso.”

    Un primo orientamento delle Sezioni Unite (sentenza n. 14828 del 05 giugno 2008) ha emanato il seguente principio di diritto: “con riferimento alla definizione automatica stabilita dalla Legge n. 289 del 2002, art. 9, la presentazione della relativa istanza preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d’imposta definite in via agevolata, ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto. Ciò perché il condono pone il contribuente di fronte ad una libera scelta fra trattamenti distinti, quali coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo eventualmente il rimborso delle somme indebitamente pagate, o corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto eventualmente già corrisposto in via ordinaria.

    L’anzidetto principio di diritto riprende una statuizione precedente, secondo la quale il condono pone il contribuente davanti ad un bivio: o soggiacere alla pretesa dell’Amministrazione Finanziaria, in modo da definire la pendenza tributaria attraverso la richiesta del beneficio oppure ricorrere ai rimedi giuridici. Secondo tale teoria, il c.d. condono tombale elide i debiti del contribuente verso il Fisco, ma non opera sugli eventuali crediti, dato che il comma 9 dell’art. 9 della Legge n. 289 del 2002 prevede che la definizione automatica delle imposte non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’IVA, nonché dell’imposta regionale sulle attività produttive, non impedendo inoltre all’Amministrazione finanziaria di poter procedere al fine di procedere al recupero dei propri crediti verso il contribuente.

    Negli ultimi anni, l’orientamento delle Sezioni Unite ha subito un profondo mutamento in tema di condono tombale.

    I giudici delle Sezioni Unite ritengono infatti che il predetto condono elida da una parte i debiti del contribuente verso il Fisco e dall’altra, comporti la preclusione, nei confronti del medesimo contribuente e dei soggetti coobbligati, di ogni accertamento tributario, anche dell’eventuale accertamento volto al recupero del credito d’imposta. 

    Con la sentenza in commento, i giudici delle Sezioni Unite spiegano che il condono opera limitatamente ai debiti tributari del contribuente, in quanto si palesa come una forma atipica di definizione del rapporto tributario, con il fine precipuo di recuperare le risorse finanziarie e conseguentemente, ridurre il contenzioso giudiziario.

    Nello specifico, i giudici di legittimità spiegano che la definitività della liquidazione riguarda l’imposta lorda al fine di rendere definitivo l’imponibile, in base al quale l’imposta lorda si quantifica, in quanto il condono dell’imponibile esclude la possibilità di effettuare un accertamento nei confronti del medesimo contribuente.

    In merito alla disposizione contenuta nel comma 9 dell’art. 9 della Legge n. 289 del 2009, sulla “definizione automatica non modifica l'importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell'imposta sul valore aggiunto, nonchè dell'imposta regionale sulle attività produttive.”, si deve interpretare alla luce della considerazione che il prelievo, effettuato mediante condono, sostituisce il prelievo ordinario al fine di far rimanere invariata la dichiarazione originaria dalla quale fare nascere la definizione agevolata.

    In tale quadro normativo, non va dimenticato che i crediti abbattono l’imposta netta e che, qualora siano eccedenti, devono generare importi da rimborsare. Solo in occasione di tale rimborso, è concesso all’Amministrazione Finanziaria effettuare verifiche anche a mezzo di avvisi di accertamento, qualora lo si ritenga necessario.

    Alla luce delle suddette considerazioni, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “In tema di c.d. condono tombale, non è inibito all’erario l’accertamento riguardante un credito da agevolazione esposto in dichiarazione, in quanto il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del Fisco, che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio.

  • Corte di Giustizia UE, sentenza C-254/16: in tema di termini per il rimborso dell’eccedenza IVA

    La Corte di Giustizia viene adita, a mezzo di rinvio pregiudiziale, dal Tribunale ungherese al fine di pronunciarsi in tema di IVA, sulla proroga del termine di rimborso e sull’esclusione del versamento degli interessi di mora.

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’art. 183 della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio, datata 28 novembre 2006, relativa al sistema comune sull’IVA.

    La domanda è sorta in seno alla controversia tra un contribuente ungherese e la Direzione risorse dell’Amministrazione nazionale delle imposte e delle dogane dell’Ungheria, in merito al versamento degli interessi di mora sul rimborso dell’eccedenza IVA.

    Il contesto normativo esaminato dalla predetta Corte è il seguente.

     A livello comunitario, l’art. 183 della Direttiva IVA sancisce che: “Qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’IVA dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo, o procedere al rimborso secondo modalità da essi stabilite.”  

    Il diritto ungherese invece nell’art. 37, paragrafo 4, prevede che: “la scadenza della concessione di un sostegno al bilancio dovuto a un contribuente è disciplinata dagli allegati della legge medesima o da una legge speciale. Il sostegno al bilancio e l’IVA domandata devono essere concessi a decorrere dalla data di ricevimento della domanda o della dichiarazione e, al più tardi, rispettivamente, entro 30 giorni e entro 75 giorni successivi alla data in cui divengono esigibili. Qualora l’amministrazione tributaria riconosca il sostegno al bilancio, la concessione di detto sostegno avviene entro i 30 giorni successivi all’entrata in vigore della decisione adottata al riguardo.

     L’articolo 37, paragrafo 4, lettera c), del codice di procedura tributaria prevede che: “se il controllo della regolarità della domanda di concessione è stato avviato entro 30 giorni dalla data di ricevimento della domanda (dichiarazione) e, a seguito di ostacoli al controllo, è stata inflitta un’ammenda o l’interessato è stato oggetto di un ordine di comparizione, il termine di concessione è calcolato a decorrere dal giorno della notifica del verbale.”

    L’articolo 37, paragrafo 6, del codice di procedura tributaria sancisce che: “quando l’amministrazione finanziaria provvede tardivamente al rimborso, essa versa un interesse di importo equivalente agli interessi di mora per ciascun giorno di ritardo. Tuttavia, anche in caso di ritardata esecuzione, nessun interesse è dovuto quando il mancato rimborso è dovuto a una carenza di diligenza del contribuente o della persona tenuta a comunicare le necessarie informazioni.”

    La vicenda trae origine dalla richiesta, avanzata da una contribuente impresa ungherese, che opera nel settore del commercio di cereali, rivolta all’Amministrazione finanziaria al fine ottenere il rimborso di un’eccedenza di IVA.

    L’Amministrazione tributaria avvia pertanto una procedura di controllo sulla regolarità dell’anzidetta domanda, richiedendo documenti alla contribuente. Quest’ultima li fornisce però in ritardo.

    L’anzidetta Amministrazione opera solo un parziale rimborso dell’eccedenza dell’IVA. La contribuente invece chiede un’ulteriore somma di rimborso, rappresentante gli interessi di mora, decorrenti dal momento in cui era scaduto il termine per rimborsare l’eccedenza di Iva.

    A tal riguardo, l’Amministrazione giustifica il proprio ritardo, sostenendo che il protrarsi del controllo fiscale è dipeso dalla mancata produzione in maniera celere da parte della contribuente dei documenti richiesti. Inoltre, la mancata collaborazione da parte della contribuente viene anche sanzionata in sede amministrativa.

    Il giudice ungherese adisce la Corte di Giustizia perché sostiene che la norma interna non sia conforme rispetto ai precetti comunitari, nella parte in cui, il differimento del rimborso dell’eccedenza IVA, protrattosi a causa della verifica fiscale ed a causa della condotta del contribuente, possa far venire meno il versamento degli interessi di mora. Il predetto giudice ritiene anche che la giurisprudenza della Corte non contenga delle indicazioni sufficientemente chiare in merito alle conseguenze di ammende inflitte dall’amministrazione tributaria ed inoltre, sostiene che tale principio sia violato dall’Amministrazione che ha effettuato una interpretazione letterale della normativa nazionale in esame, protraendo verifiche fiscali per un periodo illimitato mediante anche l’irrogazione di un’ammenda al soggetto passivo per inadempimento dell’obbligo di comunicare dati senza essere tenuta a versare gli interessi.

    In via preliminare, la Corte di Giustizia rammenta che: “sebbene l’art. 183 della Direttiva IVA non preveda l’obbligo di versare interessi sull’eccedenza di IVA a credito né il dies a quo di decorrenza degli interessi stessi, tale circostanza non consente, di per sé, di concludere che l’articolo medesimo debba essere interpretato nel senso che le modalità stabilite dagli Stati membri ai fini del rimborso dell’eccedenza di IVA siano dispensate da qualsivoglia controllo riguardo al diritto dell’Unione”.

    La Corte di Giustizia ha precisato che le modalità di rimborso dell’eccedenza di IVA attuate da uno Stato membro non devono assolutamente ledere il principio della neutralità fiscale, gravando il soggetto passivo del peso dell’anzidetta imposta. Si deve anzi consentire al soggetto passivo di recuperare, in condizioni adeguate, la totalità del credito risultante da detta eccedenza di IVA, obbligando conseguentemente l’amministrazione fiscale a rimborsare l’eccedenza entro un termine ragionevole. A tal proposito, la Corte di Giustizia ha statuito, in occasioni simili, che: “Detto termine può essere prorogato, in line a di principio, affinchè sia svolta una verifica fiscale, senza che un termine così prorogato debba essere considerato irragionevole, semprechè la proroga non vada al di là di quanto sia necessario ai fini della proficua conclusione della procedura di verifica.” 

    I giudici della Corte rilevano inoltre che una normativa interna che riconosce alle autorità tributaria la facoltà di avviare un’indagine fiscale in qualsiasi momento, incluso in un periodo vicino alla scadenza del rimborso dell’eccedenza di IVA, espone di prorogare in modo significativo il termine per effettuare quest’ultimo, esponendo il soggetto passivo a svantaggi pecuniari, ma che anche come conseguenza di non consentire a quest’ultimo di prevedere la data a decorrere dalla quale potrà disporre dei fondi corrispondenti all’eccedenza di IVA, costituendo un onere supplementare.

    Il giudice del rinvio si interroga, pertanto, se sia legittima la richiesta del versamento di interessi di mora, dovuti per il ritardo, causato dalla condotta del soggetto passivo, che non collabora con l’Amministrazione fiscale al fine di effettuare il controllo, comportando un inevitabile ritardo nello svolgimento della procedura di verifica. 

    I giudici della Corte ritengono che la norma ungherese violi il principio della neutralità fiscale, in quanto “l’eccedenza di Iva deve essere rimborsata entro un termine ragionevole e, se così non avviene, le perdite pecuniarie così generate a danno del soggetto passivo devono essere compensate dal pagamento di interessi di mora.”  

    Alla luce delle suestese considerazioni, la Corte di Giustizia dichiara quanto segue: “Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, ai sensi della quale, quando l’amministrazione tributaria avvia una procedura di verifica fiscale ed è irrogata un’ammenda a un soggetto passivo per mancata cooperazione, la data del rimborso dell’eccedenza di imposta sul valore aggiunto può essere differita sino alla notifica, a tale soggetto passivo, del verbale della suddetta verifica e può essere negato il versamento degli interessi di mora, anche allorchè la durata della procedura di verifica fiscale è eccessiva e non è interamente imputabile alla condotta del soggetto passivo.

  • Corte Costituzionale, sentenza n. 177 del 13 luglio 2017: in tema di imposta di registro, con particolare riguardo agli atti soggetti a registrazione in termine fisso ed accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA

    La Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 8, comma 1, lett. c), della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, nella parte relativa all’assoggettamento all’imposta di registro in misura proporzionale dell’uno per cento, delle pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento ed accertano crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA.

    I giudici della Commissione tributaria provinciale di Napoli sostengono che l’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986 (Approvazione del Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), sia costituzionalmente illegittimo rispetto agli artt. 3, 10, 24 e 53 della Costituzione, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro nella misura proporzionale dell’uno per cento, anziché in misura fissa, gli “atti dell’Autorità giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio (…) c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale”, anche nel caso di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette all’IVA.

    La vicenda trae origine dal ricorso proposto da un curatore del fallimento avverso l’avviso di liquidazione, emesso dall’Agenzia delle Entrate, relativamente all’imposta di registro proporzionale a un decreto con il quale il Tribunale ordinario di Napoli, definendo un giudizio di opposizione allo stato passivo del fallimento, ha ammesso al concorso un credito in precedenza escluso, ai sensi dell’art. 99 del R.D. n. 267 del 16 marzo 1942.

    La norma de qua, secondo i giudici della commissione tributari, viola l’art. 3 della Costituzione per lesione del principio di eguaglianza, in quanto appare essere del tutto irragionevole trattare in maniera differenziata le pronunce di accertamento di crediti derivanti da operazioni soggette ad IVA e le pronunce di condanna al pagamento degli stessi crediti, per le quali la nota II all’art. 8 della Tariffa prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa.

    La Commissione tributaria provinciale sostiene che sussista la violazione dell’art. 10 della Costituzione, a causa della lesione del principio di concorrenza, garantito peraltro dal diritto comunitario, in quanto l’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa porrebbe il creditore del fallito, in una posizione deteriore rispetto a un creditore che agisca contro un debitore non fallito.   

    Si ravvisa la violazione dell’art. 24 della Costituzione, per lesione del diritto di difesa sia nei confronti del creditore che del fallimento. La predetta violazione si configura in danno del creditore, in quanto non troverebbe alcuna convenienza ad azionare le proprie pretese nell’eventuale giudizio di opposizione, essendo costretto a sostenere un costo certo e notevole, pari all’uno per cento della pretesa creditoria vantata. Il fallimento, invece, avrebbe maggiore interesse a non continuare alcuna azione in giudizio, in quanto l’ammissione al passivo del credito ed il suo pagamento con la falcidia concorsuale si tradurrebbe per la massa dei creditori in un costo inferiore a quello che si realizzerebbe con il pagamento in prededuzione dell’importo versato a titolo di imposta di registro proporzionale a quello che otterrebbe il creditore, che verrebbe ad ottenere in un’eventuale accoglimento della propria domanda nel giudizio di opposizione.

    La succitata norma violerebbe infine l’art. 53 della Costituzione, a causa della lesione del principio di capacità contributiva, in quanto il creditore di una prestazione soggetta ad IVA sarebbe tenuto al pagamento dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, indipendentemente dalla sua attività o scelta processuale e per il solo fatto che è stato costretto ad agire in ambito endo-fallimentare, non potendo agire in via ordinaria nei confronti del debitore fallito.

    I giudici delle leggi riprendono un orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale: “la sentenza che a seguito di opposizione ammette al passivo del fallimento un credito in precedenza escluso deve essere assoggettata all’imposta proporzionale dell’uno per cento, prevista dall’art. 8, comma 1, lettera c), della Tariffa, parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986.”. Tale orientamento trae origini da pronunce emesse in seguito all’esito di un giudizio di cognizione, contenente l’accertamento, nei confronti della procedura fallimentare, dell’esistenza e dell’efficacia del credito con l’effetto di consentire al contribuente la partecipazione al concorso e la possibile soddisfazione delle sue ragioni in sede di riparto.

    I giudici delle leggi riprendono un importante principio di diritto, enunciato dalla Corte di Cassazione, sez. V, con sentenza del 19 ottobre 2012 n. 17947, nella quale si legge: “In definitiva, il legislatore, nell’ambito delle tipologie di atti dell’Autorità giudiziaria elencate nell’art. 8 della Tariffa, ha individuato in modo specifico e puntuale, nell’esercizio della sua discrezionalità, quelle (…) da assoggettare, in deroga alla previsione generale, ad imposta in misura fissa anziché proporzionale: ne deriva che, pur se in astratto anche le disposizioni tributarie recanti benefici fiscali sono suscettibili di interpretazione estensiva (…), la norma in esame, per le sue caratteristiche suddette, non lascia spazio all’interprete per ampliare la precisa portata applicativa.

    In particolare, i giudici della Corte Costituzionale sono chiamati ad esaminare la violazione dell’art. 3 della Costituzione in relazione alla disciplina agevolativa che si applica all’imposta di registro in misura fissa alle pronunce di condanna al pagamento dei crediti derivati da operazioni soggette ad IVA. Sostengono, a tal riguardo, che “norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità.” e pertanto, i giudici delle leggi sostengono che sia necessario verificare se la ratio dell’agevolazione si possa considerare comune anche alla categoria delle pronunce di accertamento di crediti nascenti da operazioni soggette all’IVA, per le quali però, non si prevede la possibilità di applicare l’imposta in maniera fissa.

    La Consulta ritiene che l’agevolazione predetta trova orine nel principio di alternatività fra l’imposta di registro l’IVA, ex art. 40 del D.P.R. n. 131 del 1986, finalizzato ad evitare il fenomeno della doppia tassazione, determinati dalla simmetria del sistema IVA-registro. A tal proposito, i giudici specificano che la condizione necessaria al fine di ottenere l’anzidetto beneficio è che l’operazione ricada nell’ambito dell’applicazione IVA, delineato dagli artt. 2, 3, 4 e 5 del D.P.R. n. 633 del 1972.

    In merito agli atti giudiziari, invece, l’ambito di applicazione dell’art. 8 della Tariffa, trova spazio nei provvedimenti di condanna “per la parte in cui dispongono il pagamento di corrispettivi o prestazioni soggetti all’imposta sul valore aggiunto”.

    Alla luce delle suddette considerazioni, i giudici della Corte Costituzionale dichiarano l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, lettera c) della Tariffa, Parte prima, allegata al D.P.R. n. 131 del 1986, nella parte in cui assoggetta all’imposta di registro proporzionale, anziché in misura fissa, anche le pronunce che definiscono i giudizi di opposizione allo stato passivo del fallimento con l’accertamento dei crediti derivanti da operazioni soggette all’IVA, sulla base della “ratio sottesa all’alternatività fra l’imposta di registro e l’IVA risulta comune a entrambe le situazioni messe a confronto ed esige pertanto che l’ambito di applicazione del beneficio fiscale sia esteso alle pronunce in questione, non essendo rilevante che il pagamento del corrispettivo soggetto ad IVA, in sede di riparto dell’attivo fallimentare, sia un evento futuro e incerto nell’an e nel quantum, ben potendo valere questa stessa affermazione anche per il pagamento coattivo in seguito a condanna, che dipende comunque dalla capienza del patrimonio del debitore.

  • Corte Costituzionale, sentenza n. 199 del 14 luglio 2017: in tema di produzione di nuovi documenti in appello, non esibiti nel primo grado di giudizio

    La Corte Costituzionale viene investita, dalla Commissione tributaria regionale della Campania, al fine di pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 58, comma 2, D. Lgs. n. 546 del 1992; ritenendo che la predetta disposizione viola gli articoli 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, “nonché con i criteri di razionalità e con i principi generali dell’ordinamento.

    Il giudice della Commissione tributaria regionale sostiene che la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha accolto un ricorso proposto avverso il preavviso di fermo amministrativo relativo ad un’autovettura inviatogli da Equitalia Sud Spa per conto dell’Agenzia delle Entrate, relativamente a dieci cartelle di pagamento per tributi TARSU, IVA, IRPEF, IRAP ed altro dal 2005 al 2011.

    In particolare, la ricorrente ha dedotto l’omessa notifica delle cartelle richiamate nel preavviso e la decadenza dal diritto a quelle esazioni tributarie, nonché la necessità di usare la predetta auto per accompagnare il figlio minorenne portatore di grave handicap.

    La CTP annulla il preavviso di fermo, rilevando la mancata prova documentale della notifica delle cartelle ad esso prodromiche, pur rigettando la domanda di annullamento di queste ultime e quella di declaratoria di decadenza. Equitalia Sud spa propone appello avverso la sentenza di primo grado, producendo la documentazione relativa alla notifica delle predette cartelle e sostenendo anche l’erroneità della decisione impugnata per inammissibilità ed infondatezza della domanda di annullamento del preavviso di fermo, nonché per difetto di prova circa la dedotta necessità del contribuente di accompagnare con l’autovettura il figlio minorenne portatore di handicap grave.

    Il giudice rimettente sostiene che l’art. 58, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992 sia costituzionalmente illegittimo “sia in sé che in relazione al comma 1 della stessa norma”, in quanto “sembra far salva indiscriminatamente la possibilità di produzione in secondo grado di nuovi documenti.”

    Il giudice a quo precisa che, nella prassi giurisprudenziale, si è consolidata una rigida interpretazione letterale della norma contenuta nell’art. 58, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, che avvalla la legittimità della produzione di nuovi documenti in appello pur quando essi, come nella specie, già all’epoca del giudizio di primo grado siano in possesso della parte, la quale per mera inerzia non li ha prodotti in giudizio.

    Nello specifico, l’art. 58 del D. Lgs. n. 546 del 1992 prevede quanto segue: “Il giudice d'appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile. E' fatta salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti.

    Sulla base di quanto previsto dalla norma de qua, il giudice rimettente sostiene che vi sia la violazione degli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione ed in particolare, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU).

    In relazione all’art. 3 della Costituzione, il giudice de quo ravvisa una disparità di trattamento tra le parti in giudizio, a favore di quella “facultata a produrre per la prima volta in appello documenti già in suo possesso nel grado anteriore ed in danno della controparte.” 

    In relazione con l’art. 24 della Costituzione, l’anzidetto giudice rileva la violazione del diritto di difesa in quanto impedisce “artatamente alla controparte la proposizione di motivi aggiunti in primo grado e quindi conduce alla perdita di un grado di giudizio.”

    Infine, rispetto all’art. 117 della Costituzione, il giudice de quo sostiene che si verifichi dell’art. 6 della CEDU, che sancisce un equo processo.

    La Consulta ritiene non fondata la questione di legittimità dell’art. 58, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992 sulla base delle seguenti motivazioni.

    Per quanto attiene alla censura di disparità di trattamento tra le parti in giudizio, i giudici della Corte Costituzionale sostengono che entrambe le parti processuali possano produrre per la prima volta in appello documenti già in loro possesso nel grado anteriore.

    In relazione alla violazione dell’art. 24 della Costituzione, la Consulta sostiene che non sussiste alcuna compressione del diritto di difesa, in quanto l’attività probatoria, rimasta preclusa nel giudizio di primo grado, può anche essere esperita in grado di appello.

    I giudici della Corte Costituzionale sostengono anche che la scelta discrezionale del legislatore, effettuata al fine di contemperare il regime delle preclusioni, consente di evitare il dilungarsi del giudizio a causa del procrastinarsi dei tempi dedicati all’istruzione probatoria; infine, la Consulta dichiara che non sussiste alcuna violazione dell’art. 24 della Costituzione, sulla sorta di pacifica giurisprudenza che ritiene che “la garanzia del doppio grado non gode, di per sé, di copertura costituzionale”.