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Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Tributario



Osservatorio sulla Giurisprudenza Tributaria aggiornato al 30 giugno 2017. A cura di Giuseppe Lonero

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  • Corte di Cassazione, sez. trib., sentenza n. 12316 del 17 maggio 2017: in tema di imposte sui redditi, IRPEF e plusvalenza sulle donazioni di immobili a familiari

    In occasione della sentenza n. 12316, la Corte di Cassazione si pronuncia in ordine ad una problematica abbastanza controversa tra gli operatori di settore quale, l’ipotesi di donazione tra parenti di un bene immobile e la successiva vendita del medesimo bene entro i cinque anni dell’avvenuta donazione ed il conseguente avviso di accertamento, emanato dall’Amministrazione finanziaria, che contesta la condotta elusiva del contribuente finalizzata ad evitare il pagamento della plusvalenza sulla cessione successiva del bene in questione.

    La vicenda processuale prende le mosse dalla notifica da parte dell’Amministrazione finanziaria di un atto di accertamento, con il quale si contesta ad un contribuente una condotta elusiva, messa in essere al fine di non pagare la plusvalenza.

    Un contribuente dona al coniuge ed ai figli un terreno edificabile, a mezzo di atto pubblico datato 25 maggio 1999.

    Con atto di vendita del 3 agosto 1999, la moglie ed i figli vendono il predetto terreno ad una società.

    L’Agenzia delle Entrate notifica quindi un avviso di accertamento al fine di contestare l’atto di donazione, seguito dopo brevissimo tempo da un atto di compravendita. L’Amministrazione contesta tale atto perché presenta le caratteristiche di un atto elusivo, finalizzato ad evitare il pagamento della plusvalenza generata dalla vendita dell’immobile, mediante l’interposizione dei familiari nella percezione della plusvalenza da riferire invece al contribuente donante ai sensi dell’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973. L’Agenzia delle Entrate rivendica, a mezzo atto di accertamento, la tassazione della plusvalenza applicando l’IRPEF oltre interessi e sanzioni.

    Il contribuente propone ricorso avverso l’atto impositivo e la Commissione tributaria accoglie la domanda del medesimo contribuente.

    L’Agenzia delle entrate pertanto propone appello avverso tale decisione. Il giudice di secondo grado sostiene che non sussistono elementi sufficienti al fine di far ritenere simulato l’atto di donazione e sottolinea che i donatari risultano aver effettivamente incassato l’importo per il successivo atto di compravendita e che non sussistono elementi probatori solidi che dimostrano la condotta elusiva.

    L’Agenzia delle Entrate pertanto propone ricorso per Cassazione, sostenendo che il giudice di appello non ha applicato correttamente l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 anche in combinato disposto con il principio del divieto di abuso del diritto.

    In particolare, l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 prevede che: “In sede di rettifica o di accertamento d'ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona.”  

    I giudici della Corte sostengono che l’art. 37, comma 3, del D.P.R. n. 600 del 1973 disciplina l’ipotesi di divergenza tra titolare apparente e titolare effettivo di un reddito e riguarda sia l’ipotesi di interposizione fittizia di un soggetto che, a mezzo di un accordo simulato, appare formalmente come possessore di un reddito di cui è titolare effettivo invece il disponente, a carico del quale è previsto che operi l’imposizione fiscale.

    L’art. 37, comma 3, del DPR n. 600 del 1973, secondo giurisprudenza costante, svolge anche una funzione antielusiva e pertanto, comprende casi di interposizione reale, attuata mediante operazioni effettive e non simulate, aventi come scopo l’elusione del pagamento della imposta attraverso l’uso improprio di strumenti negoziali anche collegati tra loro.

    In tale occasione, i giudici del Collegio ritengono che deve trovare applicazione la disciplina probatoria e procedimentale sancita dalla disposizione antielusiva generale prevista dall’art. 37-bis del D.P.R. n. 600 del 1973 e pertanto, il giudice di secondo grado ha correttamente interpretato la norma in esame, in quanto ha escluso la natura simulata della donazione.

    In particolare, il giudice di appello ha motivato la propria decisione sulla base di un importante elemento di fatto quale, l’incasso effettivo da parte dei donatari dell’importo successivo alla vendita del terreno ricevuto in donazione non essendo fornita alcuna prova sulla retrocessione al donatario; non ha invece ritenuto sussistenti altri elementi dimostrativi dell’esistenza di un’attività elusiva considerando implicitamente non risolutivo il mero dato della vicinanza temporanea tra i due negozi giuridici quali, la donazione e la vendita.

    In conclusione, la recente giurisprudenza sostiene che sussista la necessità di maggior rigore probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria al fine di garantire ai contribuenti la possibilità di pianificare i propri rapporti patrimoniali in ambito familiari attraverso l’utilizzo di scelte idonee ad evitare un forte impatto fiscale. L’Amministrazione finanziaria dovrà pertanto fornire una prova effettiva che dimostri la condotta antielusiva del contribuente in danno dell’Erario dello Stato.

  • Corte di Giustizia UE, sentenza nella causa C-624/15 del 18 maggio 2017: in tema di IVA e regime del margine ed esenzione

    La Corte di Giustizia UE è stata chiamata a pronunciarsi pregiudizialmente sull’interpretazione dell’art. 226, punti 11 e 14 dell’art. 314, lett. a) e d), della direttiva 2006/112/CE, emanata in data 28/11/2006, del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2010/45/UE, emanata in data 13/07/2010, da parte del Consiglio.

    La predetta domanda è stata presentata nell’ambito della controversia tra la una società della Lituania e la direzione nazionale presso il Ministero delle Finanze della Repubblica della Lituania c.d. Direzione nazionale delle imposte, in merito al diniego, formulato dalla Direzione nazionale delle imposte, al riconoscimento del diritto di applicare il regime d’imposizione del margine di utile ai fini del calcolo dell’imposta sull’IVA inerente alla vendita di veicoli d’occasione acquistati presso una società danese.

    La Corte di Giustizia, prima di pronunciarsi in merito alla questione pregiudiziale, ricostruisce il quadro normativo comunitario di riferimento.

    In particolare, l’art. 51 della Direttiva Iva stabilisce quanto segue: “È opportuno adottare un regime comunitario d’imposizione applicabile ai beni d’occasione e agli oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, inteso ad evitare la doppia imposizione e le distorsioni di concorrenza tra soggetti passivi”.

    L’art. 226 della Direttiva Iva sancisce che: “Salvo le disposizioni speciali previste dalla presente direttiva, nelle fatture emesse a norma degli articoli 220 e 221 sono obbligatorie ai fini dell’IVA soltanto le indicazioni seguenti: (...) 11) in caso di esenzione, il riferimento alla disposizione applicabile della presente direttiva o alla disposizione nazionale corrispondente o ad altre informazioni che indichino che la cessione di beni o la prestazione di servizi è esente; (...) 14) in caso di applicazione di uno dei regimi speciali applicabili ai beni di occasione e agli oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione, la dicitura “regime del margine – beni di occasione”, o “regime del margine – oggetti d’arte” oppure “regime del margine – oggetti da collezione e di antiquariato”, rispettivamente; (…)”.

    L’art. 313, paragrafo 1, della predetta Direttiva prevede che: “Gli Stati membri applicano alle cessioni di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o d’antiquariato, effettuate da soggetti passivi - rivenditori un regime speciale d’imposizione del margine realizzato dal soggetto passivo - ­rivenditore, conformemente alle disposizioni della presente sottosezione”.

    L’art. 314 della Direttiva Iva sancisce che: “Il regime del margine si applica alle cessioni di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o d’antiquariato effettuate da un soggetto passivo ‑ rivenditore, quando tali beni gli siano stati ceduti nella Comunità da una delle persone seguenti: a) una persona che non sia soggetto passivo; b) un altro soggetto passivo, qualora la cessione del bene da parte di quest’ultimo sia esentata conformemente all’articolo 136; c) un altro soggetto passivo, qualora la cessione del bene da parte di quest’ultimo benefici della franchigia per le piccole imprese prevista agli articoli da 282 a 292 e riguardi un bene d’investimento; d) un altro soggetto passivo‑rivenditore, qualora la cessione del bene da parte di quest’ultimo sia stata assoggettata all’IVA conformemente al presente regime speciale».

    L’art. 315 della Direttiva IVA prevede che: “La base imponibile delle cessioni di beni di cui all’articolo 314 è costituita dal margine realizzato dal soggetto passivo ­rivenditore, diminuito dell’importo dell’IVA relativa al margine stesso. Il margine del soggetto passivo­ - rivenditore è pari alla differenza tra il prezzo di vendita chiesto dal soggetto passivo ­rivenditore per il bene e il prezzo di acquisto”.

    L’articolo 323 dell’anzidetta direttiva IVA enuncia quanto segue: “Il soggetto passivo non può detrarre dall’imposta di cui è debitore l’IVA dovuta o assolta per i beni che gli sono o gli saranno ceduti da un soggetto passivo ­rivenditore, qualora la cessione in questione da parte di quest’ultimo sia assoggettata al regime del margine”.

     L’articolo 325 di tale direttiva infine sancisce che: “Il soggetto passivo­ rivenditore non può far figurare separatamente, sulla fattura che emette, l’IVA relativa alle cessioni di beni che assoggetta al regime del margine”.

    I fatti di causa del procedimento principale. La società contribuente esercita stabilmente l’attività di vendita di autoveicoli d’occasione ed in particolare, nell’anno 2012 ha acquistato veicoli d’occasione che ha rivenduto a persone fisiche e giuridiche e le relative fatture emesse, rinviano agli artt. 69 – 71 della legge danese sull’Iva ed indicano, altresì, il regime di esenzione Iva.

    Al momento della rivendita, la società contribuente ha applicato il regime a margine di cui all’art. 106, paragrafo 2, della legge sull’Iva.

    L’Ispettorato delle imposte effettua un controllo e contesta l’applicazione infondata del regime del margine applicato su 25 veicoli d’occasione dalla stessa contribuente, acquistati presso una società terza e rivenduti a persone fisiche e giuridiche, dal momento che la predetta società terza non aveva applicato il regime del margine ai veicoli venduti.

    La contribuente propone ricorso in primo grado avverso tale decisione al fine di ottenere l’annullamento. In primo grado, viene confermata la contestazione effettuata dall’Ispettorato delle imposte, escludendo solo di versare gli interessi moratori.

    La contribuente impugna la decisione avanti il Tribunale amministrativo regionale della Lituania.

    Il giudice del rinvio pone il seguente quesito: “se un soggetto passivo, che abbia ricevuto una fattura sulla quale vi sia menzione tanto del regime quanto dell’esenzione dall’Iva, abbia il diritto di applicare tale regime, previsto all’art. 314 della direttiva Iva, nonostante da una successiva verifica effettuata dalle autorità tributarie emerga che il soggetto passivo – rivenditore, fornitore dei beni in questione, non aveva applicato detto regime”.

    Alla luce di tale interrogativo, il Tribunale amministrativo regionale sospende il procedimento e sottopone alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: “Se gli articoli 314, lettera a), e 226, paragrafo 11, della direttiva IVA e gli articoli 314, lettera d), e 226, paragrafo 14, della medesima direttiva, non ostino a norme e/o prassi nazionali fondate su tali norme che impediscono a un soggetto passivo di applicare il regime del margine IVA in quanto, in occasione di una verifica fiscale effettuata dalle autorità tributarie, emerga che le fatture IVA per i beni a quest’ultimo forniti recano informazioni/dati inesatti sull’applicazione del regime del margine IVA e/o sull’esenzione dall’IVA, circostanza di cui tuttavia il soggetto passivo non era e non poteva essere a conoscenza; 2) se l’articolo 314 della direttiva IVA debba essere inteso e interpretato nel senso che, anche se la fattura IVA indica che i beni sono esenti dall’IVA (articolo 226, paragrafo 11, della direttiva IVA) e/o il venditore ha applicato il regime del margine ai fini della cessione dei beni (articolo 226, paragrafo 14, della direttiva IVA), il soggetto passivo acquisisce il diritto di applicare il regime del margine IVA solo quando il fornitore dei beni applica effettivamente il regime del margine e debitamente adempie i propri obblighi in materia di pagamento dell’IVA (versa l’IVA sul margine nel proprio Stato)”.

    La pronuncia della Corte di Giustizia affronta una problematica abbastanza diffusa nell’ambito della prassi commerciale dei vicoli usati: l’applicazione del regime speciale del margine per gli acquisti effettuati nell’ambito dell’Unione Europea.

    Nelle ipotesi di cessione di autoveicoli usati tra soggetti appartenenti a differenti Paesi membri dell’Unione, è necessario distinguere se il cedente, anche se non ha indicato l’Iva in fattura, ha effettuato una cessione in regime del margine oppure, ha effettuato una vera e propria cessione intracomunitaria.

    Nella prima ipotesi, l’imposta verrà assolta dal Paese di provenienza del bene oggetto di cessione; nella seconda ipotesi, invece, il cessionario sarà tenuto ad assolvere l’imposta nel suo Paese.

    E’ innegabile che la prima ipotesi comporta un vantaggio economico nei confronti del soggetto passivo che acquista l’autovettura da un altro Paese membro dell’Unione.

    I giudici della Corte ritiene che spetta alle autorità ed ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto alla detrazione. Tale potere viene conferito alle predette autorità, se appare che il medesimo diritto è invocato nell’ipotesi di un’evasione o di un abuso.

    La Corte ha dichiarato che la conseguenza di un abuso o di un’evasione si ripercuote, in linea di principio, anche sul beneficio del diritto all’esecuzione per una cessione intracomunitaria.

    I giudici della Corte hanno infine dichiarato che il diniego del beneficio dell’esenzione, spetta alle autorità ed ai giudici nazionali, qualunque sia il diritto in materia di Iva interessato dall’evasione, ivi compreso, pertanto, il diritto a rimborso dell’Iva.  Inoltre, la Corte sostiene che il diritto all’esenzione dal pagamento dell’IVA non può essere negato ad un soggetto passivo che abbia agito in buona fede ed abbia adottato tutte le misure che gli “si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione non lo conduca a partecipare ad un’evasione tributaria”.

    Secondo consolidata giurisprudenza comunitaria, la determinazione delle misure che possono essere imposte ad un soggetto passivo che intenda esercitare un diritto conferito dalla Direttiva Iva al fine di evitare un’evasione fiscale, dipendono dalle circostanze di fatto che devono essere valutate nello specifico, caso per caso.

    Nel caso di specie, occorre verificare se sussistono i requisiti richiesti dalla norma speciale, in quanto le cessioni di veicoli usati non sono necessariamente assoggettate al regime dell’Iva.

    I giudici della Corte ribadiscono infatti che la doppia menzione del regime del margine e dell’esenzione non può essere considerata come indizio attendibile per configurare un caso di evasione o di irregolarità e nello stesso tempo, sarebbe contrario al principio di proporzionalità chiedere al soggetto passivo di verificare per ogni cessione che il fornitore abbia effettivamente applicato il regime di margine.

    Alla luce di tale considerazione, la Corte ritiene infatti che l’acquirente non perde il diritto di applicare il predetto regime. Le Autorità finanziarie competenti e le autorità giurisdizionali possono comunque dimostrare che il contribuente cedente non ha agito in buona fede o che ha messo in essere una condotta elusiva della norma tributaria.

    La Corte di Giustizia emana pertanto il seguente principio di diritto: “L’articolo 314 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2010/45/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, dev’essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti di uno Stato membro neghino a un soggetto passivo, che abbia ricevuto una fattura sulla quale vi sia menzione tanto del regime del margine quanto dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), il diritto di applicare il regime del margine, anche qualora da una successiva verifica effettuata da dette autorità emerga che il soggetto passivo ­rivenditore, fornitore dei beni d’occasione, non aveva effettivamente applicato detto regime alla cessione dei beni di cui trattasi, a meno che le autorità competenti non dimostrino che il soggetto passivo non ha agito in buona fede o che non ha adottato tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo coinvolga in un’evasione tributaria, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.”

  • Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 13452 del 29 maggio 2017: in tema di processo tributario, notifica postale, ricevuta di spedizione ed omesso deposito

    Le Sezioni Unite si sono pronunciate in tema di processo tributario ed in particolare, sull’individuazione del dies a quo del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell’appellante in caso di notificazione a mezzo posta e sulla rilevanza, ai fini della ritualità dell’anzidetta costituzione e dell’ammissibilità del ricorso e dell’appello e dell’appello, dell’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico.

    I fatti di causa. L’Agenzia delle entrate notifica due avvisi di accertamento, sul presupposto di maggiori ricavi non dichiarati da una vendita immobiliare a due coniugi, relativamente all’anno 2005 per il pagamento di maggiori imposte IRAP ed IVA, nei confronti di una società s.a.s. ed al socio accomandante, invece relativamente all’IRPEF.

    La società ed il socio accomandante impugnano gli atti impositivi. In primo grado, i predetti atti vengono annullati.

    Avverso tale decisione, l’Agenzia delle Entrate ricorre in appello. Il Decidente dichiara inammissibile l’appello per mancato deposito nel termine previsto dall’art. 22, comma 1, del D. Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 delle fotocopie delle ricevute della spedizione delle raccomandate con le quali gli appelli sono stati proposti.

    L’Amministrazione finanziaria ricorre in cassazione, sostenendo che nel dichiarare inammissibili gli appelli proposti per mancato deposito della fotocopia della ricevuta di invio delle raccomandate, la CTR ha erroneamente applicato l’art. 53, comma 2 ed art. 22, comma 1, del D. Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, avendo negato che fossero idonee a provare la spedizione delle raccomandate e la tempestività degli appelli, l’avvenuta esibizione delle raccomandate, l’avvenuta esibizione degli avvisi di ricevimento. L’Agenzia delle Entrate ritiene inoltre che l’avviso di ricevimento della raccomandata, ivi compresa la data di spedizione del plico, vanta la natura di atto pubblico.

    Nello specifico, l’art. 53, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, rubricato come “Forma dell’appello”, sancisce che: “Il ricorso in appello è proposto nelle forme di cui all’art. 20, commi 1 e 2, nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado e deve essere depositato a norma dell’art. 22, commi 1, 2 e 3.”

    L’art. 22, comma 1, del D. Lgs. n. 546 del 1992, rubricato come “Costituzione in giudizio del ricorrente”, prevede che: “Il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d'inammissibilità deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita, o trasmette a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento, l'originale del ricorso notificato a norma degli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta, con fotocopia della ricevuta di deposito o della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale (…)”.

    Il primo quesito sottoposto all’esame delle Sezioni Unite trae origine proprio dalla lettura e dalla conseguenziale applicazione delle norme predette ed in particolare, in riferimento al dies a quo del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell’appellante in caso di notificazione a mezzo posta, da interpretarsi decorrente o dalla ricezione del plico da parte del destinatario o dalla data di spedizione del medesimo plico. Sul punto, sussistono due orientamenti contrastanti.

    Il primo orientamento vanta un regime abbastanza restrittivo. Il dies a quo del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente o dell’appellante in caso di notificazione a mezzo posta deve essere calcolato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, sulla scorta di quanto sancito dall’art. 22, comma 1, del citato decreto legislativo, il quale prevede le modalità di deposito per la costituzione in giudizio del ricorrente, mediante solo la spedizione del ricorso e non la sua ricezione. (Cft. Corte di Cass., sez. trib., sentenza n. 20262 del 14/10/2004; Corte di Cass., sez. trib., sentenza n. 14246 del 19/06/2007; Corte di Cass., sez. trib., sentenza n. 1025 del 18/01/2008 e Corte di Cass., sez. trib., sentenza n. 7373 del 31/03/2011)

    Secondo questo orientamento restrittivo, l’impugnazione deve essere dichiarata inammissibile, rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo e non sanabile neanche con la costituzione in giudizio del resistente, nell’ipotesi in cui il ricorrente non deposita entro tenta giorni dalla proposizione del ricorso non solo la copia del ricorso spedito per posta ma anche la ricevuta di spedizione dell’atto per raccomandata a mezzo del servizio postale.

    Il secondo orientamento sostiene invece che nell’ipotesi in cui, la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio avvenga mediante spedizione a mezzo posta, il termine entro il quale deve essere effettuato il depositato presso la segreteria della commissione tributaria, decorre non dalla data della spedizione, ma dalla data della ricezione del ricorso da parte del destinatario, al fine di evitare che eventuali ritardi o disservizi postali possano causa decadenze a carico del notificante. (Cft. Corte di Cass., sez. trib., sentenza n. 12185 del 15/05/5008)

    Tale orientamento è stato ripreso dalla Corte di Cassazione, sezione tributaria, con la sentenza n. 9173 del 21 aprile 2011. In occasione di tale decisione, la Suprema Corte ha precisato che nel processo tributario le notificazioni sono effettuate sia ai sensi dell’art. 137 cod. proc. civ. e ss. sia tramite posta mediante spedizione dell’atto in plico raccomandato con avviso di ricevimento.

    In merito alle comunicazioni tramite posta mediante spedizione dell’atto in plico raccomandato con avviso di ricevimento, l’art. 16, comma 5, del D. Lgs. n. 546 del 1992 prevede che: “Qualunque comunicazione o notificazione a mezzo del servizio postale si considera fatta nella data della spedizione; i termini che hanno inizio dalla notificazione o dalla comunicazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto.”; ne consegue che il ricorrente, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità, deve depositare la copia del ricorso spedito per posta, presso la segreteria della commissione tributaria adite, unitamente alla fotocopia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale ed i termini decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto, come prevede il predetto art. 16, comma 5, del citato decreto legislativo.

    L’orientamento in esame sostiene, pertanto, che l’art. 20, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992 riproduce il precetto normativo contenuto nel quinto comma dell’art. 16, fatto salvo quanto previsto nell’ultima parte ovvero “i termini che hanno inizio dalla notificazione o dalla comunicazione decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”, in quanto il termine di trenta giorni sancito dall’art. 22 per la costituzione del ricorrente in giudizio ha inizio dalla notificazione del ricorso e naturalmente, non può decorrere dalla data di recapito postale dell’atto al destinatario, come peraltro avviene per la costituzione della parte resistente.

    Il predetto orientamento osserva inoltre che, ai fini della costituzione dell’attore, l’art. 22 del citato decreto legislativo contempla, tra gli atti da depositare, la ricevuta di spedizione postale del ricorso, riconoscendo al ricorrente la possibilità di costituirsi in giudizio anche prima e indipendentemente dal recapito dell’atto al destinatario.

    Le Sezioni Unite, nella sentenza in commento, abbracciano pienamente la tesi sostenuta dal secondo e maggioritario orientamento.

    In particolare, le Sezioni Unite recepiscono i precetti dettati dalla giurisprudenza comunitaria, secondo la quale bisogna ancorare le sanzioni processuali a canoni di proporzionalità, chiarezza e prevedibilità al fine di consentire al processo di giungere al suo epilogo finale, “senza enfatizzare un fin de non recevoir non rinscontrabile nei dati convenzionali di riferimento dell’art. 6 CEDU.” 

    Il secondo quesito sottoposto al vaglio delle Sezioni unite concerne invece l’omesso tempestivo deposito della ricevuta di spedizione postale diretta del ricorso quando risulti in atti l’avviso di ricevimento del relativo plico raccomandato.

    Un orientamento sostiene che la rituale costituzione in giudizio del ricorrente richieda il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, dell’originale del ricorso notificato o di copia dello stesso spedito per posta, unitamente a copia della ricevuta di spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale, a pena di inammissibilità del ricorso senza possibilità di poter sanare tale vizio in alcun modo.

    Secondo un altro orientamento, il deposito, all’atto della costituzione, della ricevuta di spedizione è surrogabile mediante il deposito, sempre all’atto della costituzione, della ricevuta di ritorno, atteso che anche l’avviso di ricevimento del plico raccomandato riporta la data della spedizione, per cui il relativo deposito deve ritenersi perfettamente idoneo ad assolvere la funzione probatoria che la norma assegna all’incombente. L’avviso di ricevimento del plico inoltre costituisce atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 cod. civ. e pertanto, le indicazioni in esso contenute vantano la stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario. Alla luce di quanto detto, la presenza o meno in atti della ricevuta di spedizione postale del ricorso è processualmente ininfluente, qualora sia prodotto tempestivamente l’avviso di ricevimento del plico.

    Le Sezioni Unite abbracciano quest’ultima tesi.

    In particolare, i giudici delle Sezioni Unite sostengono che la ricevuta di ritorno ha alcune parti che vanno compilate a cura del mittente tra le quali il giorno di spedizione. Tali informazioni posso essere riportate anche meccanograficamente dell’ufficio postale incaricato, con la conseguenza che acquistano fede privilegiata.

    Alla luce delle considerazioni sopra esposte, le Sezioni Unite hanno emanato il seguente principio di diritto: “Nel processo tributario, non costituisce motivo d'inammissibilità del ricorso o dell'appello, che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio postale universale, il fatto che il ricorrente o l'appellante, al momento della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata da parte del destinatario, depositi l'avviso di ricevimento del plico e non la ricevuta di spedizione, purchè nell'avviso di ricevimento medesimo la data di spedizione sia asseverata dall'ufficio postale con stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario; solo in tal caso l'avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta di spedizione, laddove, in mancanza, la non idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della data di spedizione sull'avviso di ricevimento può essere superata, ai fini della tempestività della notifica del ricorso o dell'appello, unicamente se la ricezione del plico sia certificata dall'agente postale come avvenuta entro il termine di decadenza per l'impugnazione dell'atto o della sentenza”.

  • Corte di Cassazione, VI sezione, sentenza n. 13571 del 30 maggio 2017: in tema di IRPEF, tassazione separata e pagamento della plusvalenza ex art. 81, comma 1, lett. b) t.u.i.r.

    La Corte di Cassazione si pronuncia in tema di accertamento sulla plusvalenza di un terreno edificabile, fondato solamente sul valore verificato ai fini dell’imposta di registro sulla compravendita.

    Il caso di specie prende le mosse dal ricorso, proposto da una contribuente, avverso un avviso di accertamento inerente l’Irpef sulla plusvalenza realizzata con la cessione di un terreno edificabile. Tale plusvalenza viene calcolata, prendendo in considerazione il valore accertato ai fini dell’imposta di registro.

    La CTR conferma la legittimità dell’atto accertativo nella parte in cui prende come riferimento il valore del bene, quale separatamente accertato ai fini dell’imposta di registro.

    La ricorrente propone pertanto ricorso per cassazione.

    I giudici di legittimità accolgono il motivo di doglianza, relativo alla plusvalenza contestata dall’Amministrazione, proposto in ricorso dalla contribuente.

    La Suprema Corte ritiene che la rettifica del valore del bene compravenduto, operata dall’Agenzia delle Entrate ai fini dell’imposta di registro, sia non idonea a fondare l’accertamento della maggior plusvalenza tassabile ai fini Irpef ed inoltre, la CTR non ha espresso alcuna effettiva valutazione.

    I giudici di legittimità ritengono infatti che la CTR non si è espressa sulla critica specifica mossa dalla contribuente circa, l’errata valutazione dell’area. La decisione di secondo grado non ha preso in considerazione assolutamente l’atto di adesione sottoscritto dall’acquirente ai fini dell’imposta di registro.

    In particolare, l’illegittimità della determinazione della base imponibile sulla valutazione del valore separatamente determinato dall’Ufficio ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, dipende dallo ius superveniens rappresentato dall’art. 5, comma 3, del D. Lgs. n. 147 del 2015, il quale sancisce che: “gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5- bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibilmente soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986 n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990 n. 347”.

    Il D. Lgs. n. 147 del 2015, nell’art. 5 co. 3, ha stabilito che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione ed il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non si può presumere soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro. 

    I giudici forniscono una pronta e chiara interpretazione della norma de quo, al fine di fugare ogni dubbio sulla sua applicazione ovvero, la predetta norma può essere applicata anche ai giudizi in corso “atteso l’intento interpretativo chiaramente espresso dal legislatore e considerato che, come affermato tra le altre da Corte Cost. n. 246 del 1992, il carattere retroattivo costituisce elemento connaturale alle leggi interpretative.”.

    I giudici di legittimità ribadiscono infatti che ove vi sia in una norma il riferimento ad una norma precedente, il legislatore vuole fornire agli operatori di settore non solo una norna con carattere interpretativo ma anche una norma con valore retroattivo, tra l’altro carattere tipico della norma interpretativa.

    Nel caso specifico, il predetto articolo 5, co. 3, del D. Lgs. n. 147 del 2015 prevede infatti che le disposizioni di cui al comma 1 si applicano a decorrere dal periodo di imposta in corso alla data di entrata in vigore del medesimo decreto.

    La Suprema Corte di Cassazione ha, in occasione della decisione in commento, fornito una interpretazione univoca rispetto alle precedenti orientamenti della medesima Corte, confermando il carattere retroattivo dell’art. 5 co. 3 del D. Lgs. n. 147 del 2015.