ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Civile



Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 31 ottobre 2016. A cura di Gemma Bellia

   Consulta il PDF   PDF-1   

  • 1. Corte di Cassazione, sez. III, n. 18995 del 27 settembre 2016: In mancanza di rivalsa da parte del garante, il debitore non ha titolo per richiedere al soggetto garantito la restituzione di quanto percepito in eccedenza.

    Con la sentenza in commento la Corte chiarisce che il debitore di un rapporto obbligatorio il cui adempimento sia stato garantito da una garanzia a prima richiesta ha diritto a ripetere dal garantito quanto percepito in eccedenza mediante l’intera escussione della garanzia, rispetto all’importo del suo effettivo credito, soltanto se sia stato vittoriosamente escusso dal garante che abbia pagato al beneficiario.

    Nel caso di specie le parti stipulavano un contratto d’appalto rispetto al quale le obbligazioni dell’impresa appaltatrice erano garantite mediante un contratto autonomo di garanzia incorporato in una polizza fideiussoria.

    A fronte di una predisposizione organizzativa ritenuta inappropriata per l’esecuzione del contratto, la committente si scioglieva dallo stesso incassando l’intero importo della polizza fideiussoria rilasciata a titolo di cauzione.

    Successivamente, il giudice accertava che il credito della committente verso l’appaltatrice - commisurato alla necessità di riappaltare a terzi l’esecuzione dei lavori ed al maggior costo di essi - era pari, non all’intero importo garantito dalla polizza fiudeiussoria ed incassato, ma ad un importo minore.

    Pertanto, l’impresa appaltatrice chiedeva in appello che l’eventuale somma liquidata in favore della controparte a titolo di danni si compensasse con quella incassata dalla committente con la polizza fideiussoria e che la committente fosse condannata a restituire la differenza incassata in esubero.

    La Corte d’appello rigettava tale richiesta ritenendo che l’appaltatrice, non avendo provato né allegato di aver subito la rivalsa da parte del garante, fosse priva di legittimazione sostanziale a richiedere la restituzione di somme pagate da un altro soggetto.

    La parte soccombente ricorreva, pertanto, in Cassazione, contestando la violazione di legge per errata applicazione degli artt. 2033, 2036 e 1950 c.c., nonché la violazione dei principi generali in tema di negozio autonomo di garanzia.

    La ricorrente sosteneva che l’azione di ripetizione nei confronti della committente sarebbe stata legittimata dal solo fatto della esposizione del debitore all’azione del garante, a prescindere dall’effettivo esercizio dell’azione di rivalsa da parte dello stesso. 

    La Corte di Cassazione rigetta il ricorso ritenendo che la sentenza d’appello abbia fatto “corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale nel contratto autonomo di garanzia il debitore può agire nei confronti del garantito per recuperare quanto da questi percepito in eccedenza dal garante rispetto al danno effettivamente subito, soltanto se e nei limiti in cui abbia subito dal garante il diritto di rivalsa”. 

    Nel rigettare il ricorso la Corte argomenta analizzando la struttura del contratto autonomo di garanzia, il quale “si caratterizza per il fatto che nessun rapporto sorge tra il garante ed il garantito”.

    Pertanto, afferma la Corte, il garante che abbia pagato in eccedenza potrà agire in rivalsa, per recuperare la differenza, non verso il creditore garantito, ma verso il debitore principale (salvo il caso di pagamento eseguito dal garante nonostante la consapevolezza della mala fede del beneficiario).

    A sua volta, il debitore avrà diritto a ripetere dal garantito quanto percepito in eccedenza mediante l’intera escussione della garanzia, rispetto all’importo del suo effettivo credito, “soltanto se sia stato vittoriosamente escusso dal garante che abbia pagato il beneficiario (Cass. S.U. n. 3947 del 2010)”.

    Pertanto, il debitore di un rapporto obbligatorio il cui adempimento sia stato garantito da un contratto autonomo di garanzia non è legittimato a ripetere dal garantito quanto percepito in eccedenza per il solo fatto della sua esposizione all’azione del garante, ma occorre che sia stato assoggettato a rivalsa.

    Infatti, in mancanza di rivalsa da parte del garante, il debitore “non ha titolo” ed è privo di “legittimazione sostanziale” per “richiedere al garantito una somma percepita indebitamente non da lui, ma da altro soggetto, ovvero dal prestatore della garanzia”.

  • 2. Corte di Cassazione, Sez. VI, del 22 settembre 2016: L’esclusione della responsabilità da cose in custodia per comportamento imprudente del danneggiato supera il controllo di proporzionalità con il diritto fondamentale alla vita di cui all’art. 2 della CEDU.

    Nell’ordinanza in commento la Corte di Cassazione - adita con ricorso per revocazione - enunciava il principio di diritto secondo il quale “supera il controllo di proporzionalità richiesto dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di tutela del diritto fondamentale alla vita, oggetto dell’art. 2 della  Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la decisione di merito che, pure ammessa la violazione di generali obblighi di precauzione in capo a pubbliche autorità, escluda un obbligo risarcitorio in capo a queste ultime per avere ricostruito in fatto quale unica causa della morte di un individuo (nella specie per essere entrato in mare agitato in assenza delle prescritte segnalazioni di pericolo a carico del Comune) la sua condotta negligente di assunzione colpevole e volontaria di un rischio grave per la vita”. 

    Nel caso di specie un uomo annegava mentre faceva il bagno in un tratto di mare prospiciente il litorale comunale.

    La Corte d’appello condannava il Comune a risarcire i congiunti dell’uomo annegato, poiché quel tratto di mare era privo di un adeguato servizio di assistenza alla balneazione e di salvataggio, nonché di segnalazioni in ordine alla sua pericolosità.

    La Corte di Cassazione, tuttavia, in accoglimento del ricorso del Comune, decidendo nel merito, respingeva definitivamente la domanda di risarcimento escludendo la configurabilità della responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c., e in ogni caso, l’esistenza di nesso causale tra “l’annegamento di un bagnante e la prospiciente spiaggia”.

    La Suprema Corte argomentava sulla scorta dell’assunto che l’omissione di segnalazione da parte del Comune fosse eziologicamente irrilevante a fronte di una causa sopravvenuta di per se stessa idonea a causare l’evento mortale, identificabile nella volontaria esposizione di un uomo capace di intendere e di volere ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza.

    Gli eredi proponevano ricorso per la revocazione della predetta sentenza   contestando, nei primi due motivi pretesi errori di percezione da parte della Corte e, nel terzo motivo la violazione dell’art. 46 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che impone all’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo ed in particolare, l’ingiustizia della sentenza impugnata per violazione della costante interpretazione della Corte dei diritti dell’Uomo dell’art. 2 CEDU sul diritto alla vita.

    La Corte di Cassazione rigetta il ricorso per revocazione.

    I primi due motivi sono giudicati dalla Corte inammissibili, in quanto non riconducibili al paradigma dell’errore revocatorio, sostanziandosi in errori valutazione di elementi probatori acquisiti agli atti e non di errori percettivi.

    Anche la riferita violazione dell’art. 2 della Convenzione dei diritti dell’uomo sotto il profilo del mancato assolvimento degli obblighi di comunicazione precauzionale che pacificamente gravano sul Comune, è stata ritenuta non meritevole di accoglimento.

    La Corte argomenta chiarendo il modo di atteggiarsi del nostro ordinamento rispetto alla tutela diritti fondamentali resi oggetto di protezione dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

    Quando vengono in gioco tali diritti, i giudici nazionali sono chiamati ad una “applicazione rigorosa e ad una valutazione molto attenta di ogni elemento anche in fatto della relativa fattispecie”.

    Infatti, la stessa Corte Europea dei diritti dell’Uomo ammette “un margine di apprezzamento discrezionale” in capo ai singoli Stati nel “modulare le risposte di tutela di quei diritti nelle fattispecie concrete”.

    Tale margine di discrezionalità trova il suo limite nella rispondenza degli strumenti di tutela apprestati dall’ordinamento al principio di proporzionalità e di adeguatezza  inteso come “equilibrio raggiunto tra l’esigenza dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali”.

    La Corte chiarisce, infatti, che il principio di proporzionalità, riferito al campo dei diritti fondamentali e della teoria generale del diritto si identifica nella “esigenza di conciliazione tra due principi o norme generali che si trovano, in una determinata situazione o classe di situazioni, in posizione evidentemente antinomica, al fine di stabilire se e quali sacrifici imporre all’uno o all’altro in esito alla comparazione delle relative valutazioni assiologiche”. 

    La  valutazione in ordine al rispetto del predetto canone di proporzionalità prescinde “dai limiti procedurali interni dei sistemi giurisdizionali”, né importa “da quale organo interno al sistema giudiziario statuale” sia resa la “risposta giurisdizionale”, purché adeguata e proporzionata secondo quanto emerge dalla motivazione adottata dai giudici nazionali.

     Nel caso in esame il controllo di proporzionalità è stato operato in modo “adeguato” dal giudice di merito e ciò “si evince dal principio di diritto” enunciato dalla Corte secondo cui “la persona che, pur capace di intendere e di volere , si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, tiene una condotta che costituisce causa esclusiva dei danni eventualmente derivati , e rende irrilevante la condotta di chi essendo obbligato a segnalare il pericolo, non vi abbia provveduto”.

    Tale assunto è conforme al principio di proporzionalità perché “contempera adeguatamente l’esigenza di tutela del diritto alla vita da parte dello Stato e dei pubblici poteri […] con quella -  altrettanto imperiosa e dettata da elementari esigenze di ragionevolezza - di non accollare alla collettività le conseguenze dannose, soprattutto di natura economica, che derivino da condotte che siano qualificate come assurte in via esclusiva a volontaria e consapevole esposizione al rischio serio o grave per la vita da parte della potenziale vittima e quindi unica causa del danno da questa patito, quand’anche al bene primario della vita stessa.

    La Corte, dunque -  riconosciuta l’esistenza di un “margine di apprezzamento” per i singoli Stati nell’apprestamento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali sanciti nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali-  mostra di condividere l’operazione di bilanciamento effettuata nella pronuncia di merito in quanto conforme al principio di proporzionalità.

    Per il detto margine di apprezzamento, “la tutela del diritto alla vita da parte dei pubblici poteri non può spingersi al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, qualificata unica causa della lesione a quel diritto, del titolare di quel diritti”.

    Pertanto, la sentenza oggetto di revocazione che, a seguito di un giudizio di bilanciamento tra esigenze contrapposte, nega il risarcimento del danno agli eredi del de cuius “supera il controllo di proporzionalità richiesto dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in tema di tutela del diritto fondamentale alla vita, oggetto dell’art. 2 della  Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. 

  • 3. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 17989 del 13 settembre 2016: “Il modo di intendere il requisito della liquidità” nelle obbligazioni pecuniarie portabili.

    In questa pronuncia, la Corte di Cassazione, nella composizione a Sezioni Unite, chiarisce la controversa nozione di “obbligazione pecuniaria portabile” di cui al terzo comma dell’art. 1182 c.c., ai fini della individuazione della competenza territoriale, ex art. 20 c.p.c.

    La Corte, nella sua argomentazione, portate in rassegna le posizioni della giurisprudenza in materia e, procedendo ad un’analisi di tipo sistematico, dichiara di aderire all’orientamento interpretativo tradizionale, seppure non tralasciando di “puntualizzarne” la portata.

    Il risultato di questa operazione è un’ interpretazione restrittiva della nozione di “obbligazione pecuniaria portabile”, che trova la sua sintesi nel principio di diritto elaborato dalla stessa Corte.

    Nel caso in esame, la  società creditrice conveniva in giudizio - presso il foro del domicilio del creditore -  la società debitrice, per il pagamento di una somma, il cui importo non era stato predeterminato nel contratto. 

    La parte attrice invocava l’applicazione del terzo comma dell’art. 1182 c.c., che, in combinato disposto con l’art. 20 c.p.c., individuava, quale giudice competente per le controversie in materia di obbligazioni pecuniarie,  quello del luogo di domicilio del creditore al tempo della scadenza.

    La società convenuta eccepiva l’incompetenza del Tribunale adito, lamentando che, data l’assenza di determinazione della prestazione, avrebbe dovuto trovare applicazione il quarto comma dell’art. 1182 c.c., con il conseguente radicamento della competenza nel luogo di domicilio del debitore al tempo della scadenza.  

    Il giudice accoglieva l’eccezione sollevata da parte convenuta.

    La società attrice proponeva ricorso per regolamento di competenza. 

    Ordinanza di rimessione

    La Sesta Sezione, investita del regolamento di competenza, avendo rilevato l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine al “concetto di obbligazione pecuniaria rilevante ai sensi dell’art. 1182, terzo comma c.c.” ha proposto - con ordinanza n.23527 del 17.11.2015-  l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite sulla questione : “se sia applicabile l’art. 1182 c.c. terzo comma, qualora nel contratto non risulti predeterminato l’importo del corrispettivo di una prestazione, ma tale importo venga autodeterminato dall’attore nell’atto con cui fa valere la propria pretesa creditoria”. ù

    Il  contrasto giurisprudenziale

     

    Secondo un primo orientamento, quando la somma di denaro oggetto dell’obbligazione non è stata determinata dalle parti, o, in sostituzione, liquidata dal giudice, mediante operazioni diverse dal semplice calcolo aritmetico, l’obbligazione è querable, con la conseguente applicazione del quarto comma dell’art. 1182 c.c. che identifica il forum destinatae solutionis nel domicilio del debitore al tempo della scadenza (cfr. Cass. 22326/2007).

    Il secondo orientamento, invece, sancisce l’operatività del terzo comma dell’art. 1182 c.c. quando, nelle cause relative ai diritti di obbligazioni pecuniarie, l’attore abbia agito per il pagamento di una somma da lui puntualmente indicata, risultando irrilevante che la prestazione richiesta non sia convenzionalmente prestabilita. Secondo tale impostazione, dunque, la maggiore o minore complessità dell’indagine sull’ ammontare effettivo del credito non incide sulla individuazione della competenza territoriale, ma attiene esclusivamente alla successiva fase di merito. 

    I motivi della decisione

    La Corte, portati in rassegna i contrapposti orientamenti giurisprudenziali sul punto, ed evidenziando il ricorso nella prassi a talune “vie di fuga” per aggirare il contrasto, chiarisce come, nella giurisprudenza di legittimità sia ormai pacifica l’identificazione delle obbligazioni portabili nelle obbligazioni “liquide”. 

    Pertanto, osserva che il reale termine del contrasto non attiene alla “necessità” del requisito della liquidità, che non sarebbe in discussione, ma attiene, piuttosto, al “modo” di intendere tale requisito. 

     La Corte riferisce che l’orientamento tradizionale definisce “liquide” le obbligazioni pecuniarie derivanti da titolo convenzionale e giudiziale che ne abbia stabilito la misura, con la precisazione che la liquidità sussiste anche nell’ipotesi in cui l’ammontare del credito possa essere “determinato con un semplice calcolo aritmetico” e senza indagini ed operazioni ulteriori. (Cfr. ex multis, Cass. 391/1966, 3422/1971, 342/1972, 3538/1995, 2591/1997, 9092/2004, 21000/2011). 

    Risulta “sufficiente”, pertanto, “ad integrare il requisito della liquidità dell’obbligazione, al fine di rendere quest’ultima portabile, la quantificazione della propria pretesa da parte dell’attore”.

    Devono, invece, definirsi “illiquide” quelle obbligazioni pecuniarie per il cui adempimento è necessario un “passaggio ulteriore”, ossia, “un ulteriore titolo convenzionale o giudiziale”.

    Osserva la Corte come tale definizione risulti avvalorata da una valutazione di ordine sistematico.

    Infatti, la  nozione di obbligazione portabile “non rileva solo ai fini dell’individuazione del forum destinatae solutionis, ma anche ai fini del prodursi della mora ex re, ai sensi dell’art. 1219, secondo comma, n. 3 c.c., che esclude la necessità della costituzione in mora quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore”.

    Dal tenore letterale di questa disposizione si desume che la mora ex re non opera per le obbligazioni pecuniarie illiquide.

    Peraltro, osserva la Corte, “se tra le obbligazioni portabili […] rientrassero quelle illiquide, la mora […] scatterebbe automaticamente anche a carico del debitore la cui prestazione non sia in concreto possibile, perché l’ammontare della sua prestazione è ancora incerto”.

    Questo condurrebbe ad un paradosso, perché si delineerebbe un assetto “contrario al sistema” che, invece,  espressamente, “esclude la responsabilità del debitore la cui prestazione sia impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.)”. 

    Sempre nell’ottica di un’osservazione sistematica, la Corte afferma che “l’interpretazione restrittiva” della nozione di obbligazione portabile risulta coerente con il principio del favor debitoris.

    La Corte, pertanto, aderisce all’interpretazione restrittiva dell’art. 1182 c.c., conformandosi, così, all’orientamento tradizionale, seppure con una “puntualizzazione”.

    Precisa, infatti, che quando si fa riferimento ad una “liquidità scaturente da semplici operazioni aritmetiche”, si intende che la somma dovuta deve risultare “direttamente” o “indirettamente” dal titolo.

    Questo significa che, nell’ultima ipotesi, i criteri per determinarlo devono essere “stringenti”, “tali, cioè, che la somma risultante dalla loro applicazione sia necessariamente una ed una soltanto”.

     Qualora “il risultato dell’applicazione dei predetti criteri non fosse obbligato, residuando un margine di scelta discrezionale, il credito non potrebbe dirsi liquido, perché quel margine di discrezionalità non potrebbe essere superato se non mediante un ulteriore titolo”.

    Conclude la Corte affermando che, il fatto che la liquidità del credito sia determinata dalla domanda, non consente in alcun modo all’attore “di dare dei fatti una qualificazione giuridica diversa da quella prevista dalla legge, o di allegare fatti privi di riscontro probatorio”.

    Tali fatti, sono accertati allo stato degli atti dal giudice, ai soli fini della competenza (art. 38, ultimo comma, c.p.c.).

    Il Principio di diritto

    “ Le obbligazioni pecuniarie da adempiersi al domicilio del creditore, secondo il disposto dell’art. 1182, terzo comma, c.c., sono - agli effetti sia della mora ex re ai sensi dell’art. 1219 c.c., comma secondo, n. 3 c.c., sia della determinazione del forum destinatae solutionis ai sensi dell’art. 20 ultima parte. c.p.c. – esclusivamente quelle liquide, delle quali, cioè, il titolo determini l’ammontare, oppure indichi i criteri per determinarlo senza lasciare alcun margine di scelta discrezionale, e i presupposti della liquidità sono accertati dal giudice, ai fini della competenza, allo stato degli atti, secondo quanto dispone l’art. 38, ultimo comma, c.p.c.”. 

  • 4. Corte di Cassazione, sez. I, n. 19196 del 28 settembre 2016: L’ intento comune delle parti di alterare la par condicio creditorum non può determinare la nullità del contratto.

    Con la sentenza in commento la Corte chiarisce che l’intento comune delle parti di alterare, attraverso la stipulazione di un contratto, la par condicio creditorum di una possibile futura procedura concorsuale non può essere considerato di per sé motivo illecito comune, tale da determinare la nullità del contratto stesso.

    Nel caso di specie una banca proponeva ricorso ex art. 101 l. fall. per essere ammessa tardivamente in via ipotecaria al passivo del fallimento di una s.r.l. per il credito derivante da un contratto di mutuo edilizio garantito da ipoteca.

    Il Fallimento negava l’ammissione del credito ed eccepiva la nullità del contratto di mutuo asserendo che lo stesso fosse stato stipulato esclusivamente al fine di determinare una situazione d’indebito vantaggio per la banca nella prospettiva di una possibile e futura procedura concorsuale. Condotta che, secondo il Fallimento, integrava un’ipotesi di bancarotta preferenziale in concorso con la banca.

    Il Tribunale, condividendo le censure formulate dal Fallimento dichiarava la nullità del contratto di mutuo e della relativa iscrizione di ipoteca ritenendo che lo stesso fosse stato stipulato al fine esclusivo di pregiudicare le ragioni degli altri creditori e dunque per un motivo illecito e comune alle parti.

    La Corte d’appello confermava la sentenza di primo grado, aggiungendo alle cause di nullità rilevate dal giudice di prime cure l’elusione di norme imperative ex art. 1344 c.c. realizzata attraverso la costituzione di ipoteca.

    La Corte di Cassazione, adita per violazione e falsa applicazione degli artt. 1343, 1345 e 1418 c.c. , in ordine alla pretesa nullità del contratto di mutuo edilizio  e della iscrizione di ipoteca; e per violazione e falsa applicazione dell’art. 1344 c.c.,  in ordine alla presunta frode alla legge, accoglie il ricorso.

    La Suprema Corte aderendo alla pregressa giurisprudenza in materia chiarisce che il negozio lesivo dei diritti o delle aspettative dei creditori non è, di per sé, illecito.

    Tale asserzione discende da una valutazione di ordine sistematico: “non esiste, infatti, una norma che vieti, in via generale, di porre in essere attività pregiudizievoli per i terzi”.

    Infatti, non esiste alcuna norma, speculare a quella che sancisce l’invalidità del contratto in frode alla legge, che commini l’invalidità del contratto in frode ai terzi.

    Da ciò discende che il negozio posto in essere con la volontà di pregiudicare le ragioni degli altri creditori, o di vanificare un’aspettativa giuridica tutelata o di impedire l’esercizio di un diritto, non è nullo, perché, in assenza di una norma che ne preveda in generale l’invalidità, non è idoneo a determinare la violazione di una norma imperativa o l’elusione della legge. 

    Infatti, il solo motivo illecito che, se comune e determinante, può condurre alla nullità del contratto “si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero, poiché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa”.

    La mancata operatività della sanzione della nullità non lascia, tuttavia, i soggetti danneggiati da tali operazioni negoziali privi di tutela, in quanto l’ordinamento appresta dei “rimedi speciali”, “correlati alle varie ipotesi di pregiudizio” di cui essi stessi possano risentire.

    Né il richiamo all’ipotesi di bancarotta preferenziale può giovare all’accertamento dell’illiceità della causa del negozio, in quanto, “la violazione dell’art. 216, comma 3, l. fall. non determina la nullità del contratto, ma è presupposto per il differente rimedio della revocazione degli atti lesivi della par condicio creditorum”.

    Tale considerazione risulta avvalorata dalla clausola di salvezza, di cui all’art. 1418 c.c., comma 1, che, in materia di nullità virtuali, “impone all’interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti dalla norma”.