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Anno XVI - n. 03 - Marzo 2024

  Civile



Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 31 marzo 2016. A cura di Diana Selvaggi

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  • 1. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 6023 del 25 marzo 2016: locazione, opzione e prelazione di immobili di proprietà di enti pubblici; questioni di giurisdizione.

    Le Sezioni Unite si occupano di cartolarizzazione di immobili pubblici e, in particolare, della tutela del conduttore che abbia stipulato un preliminare di compravendita con l’ente pubblico nell’esercizio dell’opzione qualora, successivamente alla sottoscrizione della stessa, l’ente muti determinate condizioni.

    Nella specie, l’appartamento oggetto di acquisto, originariamente inserito fra gli immobili "di pregio" dal D.M. 1 aprile 2003, era stato successivamente riclassificato come "non di pregio", per poi essere di nuovo (dopo l’accettazione dell’offerta) inserito tra gli immobili "di pregio" dal D.M. 13 aprile 2007, con conseguente variazione del prezzo. 

    Il conduttore in primo grado conveniva in giudizio ex art. 2932 c.c. l’INPS che, sul presupposto ed alla luce dell’interesse pubblico e, conseguentemente, dell’invariato potere, nonostante l’esercizio dell’opzione, di (ri)qualificare l'immobile come "di pregio" variando il prezzo già concordato, eccepiva il difetto di giurisdizione ordinaria. 

    Soccombente sia in primo che in secondo grado, l’INPS ricorre in cassazione ma il ricorso viene respinto.  

    La motivazione della sentenza è interessante perché sposta l’attenzione sul cuore del problema, che è l’interazione dell’esercizio della opzione e della prelazione con gli altri elementi essenziali del contratto, nel peculiare iter negoziale che culmini nell’acquisto di un immobile soggetto a cartolarizzazione.

    Richiamando S.U. 9692/2013, infatti, le Sezioni Unite riaffermano il principio secondo cui il conduttore dispone della opzione e, in caso di mancato esercizio, della prelazione.

    In particolare, in virtù della opzione, normativamente equiparata alla proposta irrevocabile, una delle parti si obbliga a rimanere vincolata alla propria dichiarazione, e l'altra ha facoltà di accettarla o meno: con riferimento alla prelazione, invece, il promittente è libero anche di non stipulare il contratto cui si riferisce la prelazione, obbligandosi solo a preferire, ove esso venga concluso, il promissario.

    Rispetto ad essi, il prezzo di vendita è un elemento esterno.

    Al contrario, il prezzo di vendita costituisce elemento imprescindibile dell'offerta, cioè di un atto negoziale unilaterale ricettizio che rientra nella disponibilità del proponente, vincolato dalla legge in quanto ente pubblico o, comunque, società costituita per la realizzazione di dismissione di beni immobiliari pubblici. 

     In entrambi i casi, comunque, l'individuazione del prezzo rientra nella disponibilità dell'offerente e non costituisce un diritto dell'oblato. Solo dopo che l'offerta è stata formulata dal proponente e ricevuta dall'oblato, il prezzo ivi indicato integra una componente dell'oggetto della opzione (o prelazione) ed esce dalla discrezionalità (sia pure solo tecnica) dell'offerente.

    Ne consegue che, una volta esercitata l’opzione da parte della conduttrice, al prezzo individuato dall'INPS al momento dell'offerta in vendita (e, dunque, una volta accertato l'incontro delle due volontà) può dirsi sostanzialmente concluso un preliminare di compravendita, dal quale è derivato il diritto della promissaria acquirente a perfezionare l'acquisto al prezzo fissato in quella sede, da cui discende l’irrilevanza di qualsiasi, successiva, mutazione della qualifica dell'immobile. 

     Il ricorso viene respinto sulla base del principio per cui in tema di dismissione di immobili pubblici, quando il conduttore accetta l'offerta in opzione contenente gli elementi essenziali della vendita, si perfeziona un contratto preliminare che gli attribuisce il diritto di acquistare al prezzo fissato, esercitabile anche con azione ex art. 2932 c.c. davanti al giudice ordinario, essendo ormai uscita la determinazione del prezzo dalla discrezionalità tecnica dell'offerente ed essendo irrilevante il successivo mutamento della qualifica dell'immobile (nella specie, riclassificato come "di pregio").

  • 2. Corte di Cassazione, sezione III^ civile, sentenza n. 5684 del 23 marzo 2016: danno tanatologico e risarcimento.

    Con la brevissima sentenza in commento la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di danno tanatologico per una sostanziale conferma di quanto affermato da Sezioni Unite 15350/15 sul punto.

    La IIIª sezione, in proposito, richiama le S.U. 2008, cui si deve la “reductio ad unum” del danno non patrimoniale, categoria ampia ed onnicomprensiva.

    Due soli i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale: espressa previsione di legge (fatto illecito costituente reato) e lesione di diritti della persona, giusta lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. 

    Ne consegue che il danno esistenziale, “pregiudizio alle attività non remunerative della persona”, causato dal fatto illecito lesivo di un diritto costituzionalmente garantito, costituisce solo un ordinario danno non patrimoniale, che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato. 

    Tutto ciò considerato, nella specie, il ricorso degli eredi, che affermavano la risarcibilità della perdita della vita in sé, quale bene tutelato dalla Costituzione Italiana ed Europea, sia come individuazione di una posizione soggettiva del defunto, trasmissibile agli eredi, sia come danno biologico conducente alla morte, sia come danno tanatologico in quanto tale, viene respinto alla luce del principio per cui “In materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare è insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione - nel primo caso - dell’assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero - nel secondo - della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

  • 3. Corte di Cassazione, sezione II^ civile, sentenza n. 4721 del 10 marzo 2016: testamento, donazioni e reintegrazione della quota di legittima.

    La sentenza in commento si segnala perché, ponendo a sistema le norme del codice civile dedicate alla reintegrazione della quota riservata ai legittimari (articoli 553 e seguenti) fa emergere in tutta la sua rilevanza il tema della tutela dei legittimari. 

    La Corte accoglie il ricorso, nella specie, cassando la sentenza con cui la Corte d’Appello, qualificando come attribuzione di quota di universalità di beni e non come legato una determinata disposizione testamentaria, aveva proceduto alla riduzione delle donazioni compiute in vita dal de cuius, senza previamente procedere alla riduzione di tutte le disposizioni testamentarie, in palese violazione dell’art. 555 comma 2 c.c.  

    Afferma la Corte, in proposito, che l’ordine secondo cui deve operarsi la riduzione delle disposizioni lesive di legittima è tassativo e inderogabile. 

    Ai fini della reintegrazione della quota di legittima, e in virtù del combinato disposto degli articoli 554, 555, 558 e 559 c.c. “[…] devono anzitutto essere ridotte le disposizioni testamentarie (art. 554 cod. civ.); tale riduzione colpisce proporzionalmente tutte le disposizioni testamentarie, sia a titolo universale che a titolo particolare, nei limiti di quanto è necessario per soddisfare il diritto del legittimario (art. 558 comma 1 cod. civ.). Il testatore non può impedire la riduzione delle disposizioni testamentarie, ma può soltanto disporre che una disposizione (c.d. "disposizione privilegiata") sia ridotta dopo che siano state ridotte le altre e ciò non sia stato sufficiente a reintegrare la quota di legittima lesa (art. 558 comma 2 cod. civ.).

     In ogni caso, non è possibile procedere alla riduzione delle donazioni poste in essere dal de cuius se non dopo aver operato la riduzione di tutte le disposizioni testamentarie - anche di quelle privilegiate - e aver constatato che tale riduzione non è sufficiente a reintegrare la quota di riserva spettante al legittimario (art. 555 comma 2 cod. civ.); solo in tal caso, può procedersi alla riduzione delle donazioni, sia dirette che indirette. Siffatta riduzione è soggetta al criterio cronologico, nel senso che va prima ridotta l’ultima donazione e, solo ove tale riduzione si riveli insufficiente per reintegrare la quota di legittima, può risalirsi via via a quelle anteriori, secondo l’ordine cronologico, fino a soddisfare il diritto del legittimario (art. 559 cod. civ.).  Facendo applicazione dei principi sottesi alle norme illustrate con siffatta ricognizione, essenziale e chiara, la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza impugnata enunciando il principio di diritto per cui “ai fini della reintegrazione della quota di legittima lesa, il giudice del merito non può procedere alla riduzione delle donazioni, senza aver prima ridotto tutte le disposizioni testamentarie e aver verificato che la riduzione di esse non è sufficiente a soddisfare il diritto del legittimario”.

  • 4. Corte di Cassazione, sezione IIIª civile, sentenza n. 5261 del 22 marzo 2016: ritardato esercizio del potere amministrativo, lesione dell’interesse legittimo e responsabilità aquiliana della P.A.

    Con la sentenza in commento la Suprema Corte torna ad occuparsi di esercizio illegittimo del potere causa di lesione di interessi legittimi e responsabilità della Pubblica Amministrazione. Non è più in discussione, oltre un decennio dopo Sezioni Unite n. 500 del 1999, la risarcibilità dell’interesse legittimo, che si fonda sulla consapevole ricostruzione dell’’art. 2043 c.c. quale norma primaria, essa stessa fonte del dovere di non arrecare danno ingiusto, e non più e non solo quale norma secondaria, prevista dall’ordinamento al fine di sanzionare una condotta vietata da altre norme.  

    Analogamente, appartiene al passato la tesi della natura contrattuale della responsabilità della Pubblica Amministrazione, da contatto sociale qualificato per violazione di doveri di legalità, imparzialità e correttezza: ad essa si contrappone oggi, con vigore – e ad essa si allinea la sentenza in commento – la contraria tesi della natura extracontrattuale, ex art. 2043 c.c., da cui consegue l’onere per il privato danneggiato di dimostrare l’imputabilità del comportamento alla P.A. a titolo di dolo o colpa. 

    La tesi extracontrattuale, a sua volta, ruota intorno ad una riconsiderazione dell’interesse legittimo come posizione di natura sostanziale e non più solo processuale che, in quanto tale, coesiste con il diritto soggettivo ed è riconosciuto e tutelato costituzionalmente dall’ordinamento.  

    Il caso che ci occupa concerne il tardivo rilascio di un’autorizzazione. 

    Orbene, atteso che la natura extracontrattuale della responsabilità presuppone l’imputabilità a titolo di dolo o colpa, la Corte dà atto di come, prima della sentenza 500 del 1999, la colpa dell’Amministrazione per lesione di diritti soggettivi (l’unica riconosciuta) si presumeva e si operava la distinzione fra lesione da atto e da comportamento.

    La sentenza 500 ha riunito sotto l’egida della responsabilità ex art. 2043 c.c. ogni tipo di lesione arrecata nell’esercizio di un potere, per cui oggi per condannare la P.A. è necessario accertarne l’elemento soggettivo.

    Deve essere chiaro che la colpa non si identifica con il vizio dell’atto né tantomeno, sottolinea la Corte, l’annullamento in autotutela può rappresentare un elemento idoneo ad escludere la colpa della P.A. per non avere tempestivamente provveduto sull’istanza del privato.

    Al contrario, a fronte del ritardo, è necessario accertare se esso sia addebitabile all’amministrazione.

    Ne consegue che nessuna responsabilità oggettiva può essere imputata all’Amministrazione, solo responsabilità per colpa, specifica o generica ex art. 43 c.p. 

     La sentenza in commento ha il pregio di evidenziare tale distinzione e, cassando con rinvio la sentenza impugnata, viste le omissioni e gli evidenti vizi logici in cui era incorsa la Corte d’Appello, enuncia il principio per cui “allorché la illegittimità del provvedimento derivi dal vizio di violazione di legge per mancata osservanza di prescrizioni dettate da norme giuridiche e non risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso concreto il giudice deve ritenere provato l’elemento psichico della condotta, in quanto allorché a cagionare l’illegittimità di un provvedimento (illegittimità che è elemento essenziale della fattispecie risarcitoria) sia il vizio di violazione di legge, in senso stretto, la colpa specifica è comprovata, salvo che non resti positivamente esclusa da elementi acquisiti alla causa che non consentano di muovere all’amministrazione alcun rimprovero, neppure sotto il profilo della colpa generica, per non avere fatto applicazione della normativa, ovvero siano comprovate cause di giustificazione”.