ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Civile



Osservatorio sulla Giurisprudenza Civile al 30 aprile 2017. A cura di Gemma Bellia

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  • 1. Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 7756 del 27 marzo 2017: L’ambito oggettivo di applicazione della responsabilità dell’appaltatore di cui all’art. 1669 c.c.

     Nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione, nella composizione a Sezioni Unite, chiarisce l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 1669 c.c. - relativo alla responsabilità dell’appaltatore per la rovina e difetti di cose immobili destinate a lunga durata - la cui effettiva delimitazione era oggetto di un contrasto dottrinario e giurisprudenziale.

    La Suprema Corte, aderendo all’orientamento “meno restrittivo”, dirime il contrasto riconducendo al paradigma dell’art. 1669 c.c. anche le opere di ristrutturazione edilizia su immobili preesistenti.

         Il contrasto dottrinario.

    Preliminarmente, la Suprema Corte rileva come l’esatta delimitazione dell’oggetto dell’art. 1669 c.c. sia controversa anche in dottrina. 

    Ritenuta pacifica l’applicabilità dell’art. 1669 c.c. ai casi di ricostruzione o costruzione di una nuova parte dell’immobile, l’orientamento maggioritario ritiene la norma estensibile anche alle ipotesi di interventi manutentivi o modificativi destinati ad avere una lunga durata nel tempo. Questa tesi sarebbe supportata da un argomento di tipo sistematico, in quanto, l’interpretazione restrittiva dell’art. 1669 c.c. si presterebbe a dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost.

    Il codice prevede, infatti, negli artt. 1667 e 1668 c.c. altre figure di responsabilità dell’appaltatore per opere consistenti in mere modificazioni o riparazioni. 

    La lettura restrittiva dell’art. 1669 c.c., secondo tale tesi, condurrebbe all’esito paradossale di sottrarre dal suo ambito di applicazione, con conseguente attrazione nell’orbita dell’art. 1667 c.c., l’ipotesi di opera ricostruita a seguito di demolizione.

    Secondo la tesi minoritaria, invece, l’art. 1669 c.c. sarebbe una norma di carattere speciale rispetto agli artt. 1667 e 1668 c.c., insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguente delimitazione del relativo ambito oggettivo “alle opere eseguite ex novo dalle fondamenta, ovvero quelle dotate di propria autonomia in senso tecnico”. 

         Il contrasto giurisprudenziale.

    La Suprema Corte, dato atto delle letture della norma prospettate dalla dottrina, illustra il contrasto interpretativo formatosi in giurisprudenza, riconducendolo a due principali orientamenti. 

    Secondo un primo orientamento, l’ambito di applicazione dell’art. 1669 c.c. sarebbe circoscritto alle sole opere aventi ad oggetto la costruzione di edifici o altri immobili di lunga durata, con esclusione delle modificazioni o riparazioni apportate ad un edificio o cose immobili preesistenti ex art. 812 c.c.

    Tale argomento si fonderebbe  sul dato letterale, in quanto il legislatore ricomprendendo nel termine “opera”anche quello di “edifici o di altre cose immobili, destinate, per loro natura a lunga durata”, avrebbe individuato quale presupposto e limite di applicazione della responsabilità dell’appaltatore la costruzione di un nuovo edificio  (Cass. 24143/07, Cass. 10685/15).

    Il secondo orientamento, invece, estende l’operatività dell’art. 1669 c.c. anche alle opere realizzate su edifici preesistenti, “allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale”. 

    Tale impostazione ermeneutica contesta l’identificazione del termine “opera” con l’espressione “edificio o cosa mobile destinata a lunga durata”, con la conseguente estensione dell’ambito oggettivo della responsabilità “a qualsiasi intervento, modificativo o riparativo, eseguito successivamente all’originaria costruzione dell’edificio”. (Cass. 24143/07).

    Secondo tale approccio, il termine “costruzione” non atterrebbe esclusivamente alla realizzazione iniziale del fabbricato, ben potendosi riferire anche alle opere successive realizzate sull’edificio pregresso che abbiano i requisiti dell’intervento costruttivo.

         Il percorso argomentativo.

    La Suprema Corte dichiara di aderire all’orientamento “meno restrittivo”, esaminando la disposizione da un punto di vista storico, letterale e teleologico. 

    Procedendo ad una ricognizione delle prassi applicative, la Cassazione osserva come la giurisprudenza prescinda dalla necessità logica di una costruzione ex novo, potendo i “gravi difetti”, rilevanti ai sensi dell’art. 1669 c.c., riguardare anche elementi secondari ed accessori, purché tali da compromettere la funzionalità dell’opera.

    In questa prospettiva, anche le opere di riparazione straordinarie, le ristrutturazioni, i restauri o altri interventi di natura immobiliare possono determinare la rovina o il pericolo di rovina, con conseguente operatività della garanzia dell’appaltatore ex art. 1669 c.c..

    A titolo esemplificativo, sono stati inquadrati nell’ambito della suddetta responsabilità i gravi difetti riguardanti: la pavimentazione interna ed esterna di una rampa di scala e di un muro di recinzione; l’inefficienza di un impianto idrico; l’impianto centralizzato di riscaldamento; un ascensore panoramico esterno ad un edificio; il crollo o il disfacimento degli intonaci esterni dell’edificio.

    Il presupposto applicativo della norma si sposta, pertanto, dal “momento fondativo dell’opera”, ai “gravi difetti della stessa”.

    Tale dato appare rafforzato anche dall’esame letterale della disposizione, atteso che, il sostantivo “costruzione” non deve essere inteso come sinonimo di “nuovo edificio”, ma rappresenta un nomen actionis” che indica, in senso ampio, “l’attività costruttiva”.

    Risulta, infatti “del tutto indifferente” che i gravi difetti riguardino una costruzione interamente nuova.

    Questa lettura si riflette anche sulla natura della responsabilità, in quanto determina uno spostamento del “baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque, da un’ottica pubblicistica ed aquiliana, ad una privatistica e contrattuale.”

         Il Principio di diritto.

    “L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo". 

  • 2. Corte di Cassazione, Sez. III, n. 5044 del 28 febbraio 2017: Il risarcimento del danno da «mobbing immobiliare»

    Nella pronuncia in commento, la Corte di Cassazione chiarisce che il «mobbing immobiliare» consiste nelle “pressioni, anche illegali, dei proprietari «per cacciare gli inquilini», allo scopo di sfruttare meglio l’immobile o in  relazione ad un piano di trasformazione urbanistica”.

    Nel caso di specie, nel contesto di un’azione di licenza per finita locazione, il conduttore, in sede di opposizione, domandava il risarcimento del danno per il mobbing immobiliare messo in atto dal locatore nei suoi confronti nel periodo di durata del contratto.

     Il conduttore lamentava, in particolare, la reiterata proposizione nei suoi confronti, da parte del locatore, di azioni giudiziarie, “tutte infondate e temerarie”, intentate al solo scopo di indurlo a rilasciare l’immobile.

    L’opponente  argomentava invocando l’art. 1575 c.c. che, tra le prestazioni previste a carico del locatore, annovera anche l’obbligo di garantirne il pacifico godimento durante la locazione.

    In primo grado le domande venivano rigettate e la sentenza veniva confermata anche in appello.

    Il conduttore ricorreva, pertanto, in Cassazione denunciando nell’ottavo motivo, violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c, comma 2, n.4 e vizio di motivazione in ordine alla domanda di risarcimento da mobbing immobiliare.

    La Corte territoriale aveva, infatti, dichiarato inammissibile l’azione affermando che la pretesa risarcitoria avrebbe dovuto essere fatta valere, di volta in volta, in relazione ai singoli procedimenti temerariamente intrapresi dal locatore, attraverso l’azione accessoria di cui all’art. 96 c.p.c.

    La suddetta azione prevede una responsabilità aggravata per la parte soccombente che abbia agito in giudizio con mala fede o colpa grave, determinandone la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni. 

    La Corte di Cassazione, ritenendo la suddetta motivazione “chiaramente eccentrica rispetto all’oggetto in ordine al quale avrebbe dovuto essere fornita”, accoglie l’ottavo motivo.

    Osserva la Corte che l’esperimento dell’azione di cui all’art. 96 c.p.c., per ogni singola lite temeraria intentata nei confronti del conduttore, non è compatibile con la figura del mobbing immobiliare che per sua natura indica una “fattispecie ontologicamente plurima”.

    Il mobbing integra, infatti, un illecito per la cui configurazione non è sufficiente un’unica condotta, ma occorre “una pluralità intrinseche di condotte moleste e /o discriminanti non considerate singolarmente bensì nella loro intrinseca connessione”.

    Il solo fatto di un’azione temeraria nei confronti del conduttore non integra, dunque, la condotta di mobbing immobiliare che potrebbe essere configurabile, invero, a fronte di una molteplicità di iniziative giudiziarie infondate e pretestuose.

    Lo strumento di tutela approntato dall’ordinamento per la lite temeraria non risulta, dunque, pertinente con “l’ipotesi in cui vi sia una condotta persecutoria che si sia concretizzata proprio nella continuativa pluralità di iniziative giudiziarie nei confronti del molestato”.

    Rilevato che la Corte territoriale non aveva escluso l’esistenza di una sequenza persecutoria, né l’aveva affermata, e,  preso atto dell’eccentricità della motivazione rispetto alla domanda, la Corte accoglie l’ottavo motivo di ricorso e cassa con rinvio alla Corte d’appello.

  • 3. Corte di Cassazione, Sez. III, n. 4205 del 17 febbraio 2017: Il soggetto trasportato può agire per il risarcimento dei danni sia contro il vettore che contro l’altro conducente

    Nella sentenza in commento, la Corte chiarisce che “il soggetto trasportato può agire per il risarcimento dei danni sia contro il vettore che contro l’altro conducente”.

    Il titolo della responsabilità nei confronti del conducente è di natura extracontrattuale, invece, nei confronti del vettore, il titolo può essere anche di natura contrattuale, ove sussista un contratto o un interesse economico del vettore.

    Sia la responsabilità da contratto che quella da fatto illecito sono assistite da una presunzione.

    L’art. 1681, primo comma, c.c. sancisce, infatti che il vettore è responsabile se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; allo stesso modo, l’art. 2054, primo comma, c.c. prevede che il conducente è obbligato a risarcire il danno se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno.

    Nell’ipotesi di trasporto amichevole o di cortesia, diversamente dall’ipotesi del trasporto gratuito, non opera la presunzione di cui all’art. 1861 c.c., perché manca un titolo contrattuale.

  • 4. Corte di Cassazione, Sez. III, n. 5807 dell’8 marzo 2017: Responsabilità per danno cagionato da cose in custodia e danno da perdita reddituale futura.

    Nella sentenza in esame, la Corte di Cassazione, aderendo ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, individua nella fattispecie di cui all’art. 2051 c.c. , relativa al “danno cagionato da cose in custodia”, una responsabilità di tipo oggettivo

    Tale regime di responsabilità prescinde dall’accertamento del carattere colposo dell’attività o del comportamento del custode e necessita, per la sua configurabilità, del “mero rapporto eziologico tra cosa ed evento”.

    È altresì escluso l’accertamento in ordine alla pericolosità della cosa, dal momento che la responsabilità sussiste “in relazione a tutti i danni da essa cagionati”.

    Risiedendo l’elemento costitutivo della responsabilità oggettiva nel nesso eziologico tra cosa ed evento, anche l’effetto liberatorio del custode opera sullo stesso piano.

    Pertanto, la responsabilità può essere esclusa solo dal caso fortuito, che può essere rappresentato anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale tale da “interrompere del tutto il nesso eziologico tra la cosa e l’evento dannoso o da affiancarsi come ulteriore contributo utile nella produzione del danno”.

    Nell’ipotesi in cui il fatto sopravvenuto non sia idoneo da solo alla produzione causale del danno, esso assurge a concausa dello stesso.

    Se la concausa coincide con la condotta del danneggiato trova applicazione la disciplina del concorso del fatto colposo del creditore di cui all’art. 1227 primo comma che consente di operare una diminuzione dell’entità del risarcimento in misura proporzionale alla gravità della colpa e all’entità delle conseguenze che ne sono derivate. 

    La Corte, infine, affronta la questione relativa al danno da perdita della capacità lavorativa specifica.

    Preliminarmente, la Corte chiarisce che il danno da perdita reddituale futura “costituisce un danno- conseguenza e non un danno in re ipsa”.

    Da ciò discende che l’onere di allegazione e di prova incombe su chi lo richiede.

    Non sussiste, infatti, “alcuna correlazione univoca tra accertamento della riduzione della capacità lavorativa specifica, oggetto di indagine medico- legale, e danno patrimoniale futuro”.

    Pertanto, “se il danno patrimoniale futuro, derivante da lesioni personali, è da valutare su base prognostica ed il danneggiato può avvalersi anche di presunzioni semplici”, una volta provata la riduzione della capacità di lavoro specifica è possibile presumere che anche la capacità di guadagno risulti ridotta, tuttavia, “l’aggravio in concreto nello svolgimento dell’attività già svolta o in procinto di essere svolta deve pur sempre essere dedotto dal danneggiato”.