ISSN 2039 - 6937  Registrata presso il Tribunale di Catania
Anno XVI - n. 04 - Aprile 2024

  Giurisprudenza Penale



Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 28 novembre 2017, n. 53683

Le Sezioni Unite negano l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. nei procedimenti innanzi al Giudice di pace. A cura di Giovanni Samuele Foderà
   Consulta il PDF   PDF-1   

1. Con la citata pronuncia viene risolta la vexata queastio «Se la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., sia applicabile nei procedimenti relativi ai reati di competenza del giudice di pace».

Come già anticipato dall'informazione provvisoria diffusa dalla Suprema Corte, al quesito si era data risposta negativa. Si attendevano le motivazioni di questa pronuncia ¹

2. Innanzi tutto un breve cenno al specie, onde consentire al lettore di aver ben chiaro il quadro fattuale in seno al quale emerge il dibattito. 

Il Giudice di pace di Verona con sentenza datata 14 luglio 2015 aveva dichiarato non punibili ai sensi dell’art. 131-bis c.p. gli imputati in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 731 cod. pen.: a questi, in particolare, era stato contestato, in concorso, quali genitori di un minore di aver omesso senza giusto motivo d'impartirgli o di fargli impartire l'istruzione elementare. 

Il Giudice di pace riteneva che l'art. 131-bis c.p. poteva trovare applicazione anche nei procedimenti disciplinati dal d.lgs. n. 274/2000; riteneva, in particolare, che l’istituto in questione si ponesse in rapporto di specialità (art. 15 c.p.) con l'art. 34 decreto cit., il quale prevede la non procedibilità, e non la non punibilità, per i reati connaturati da particolare tenuità. 

Secondo il Giudice di pace quella di cui al codice penale sarebbe la norma speciale, perché caratterizzata da elementi specializzanti rispetto all’altra. In particolare veniva evidenziato «l'ampliamento del numero dei reati; l'applicazione dell'istituto solo a persone che, di fatto, non siano qualificate come delinquenti abituali; la semplificazione dell'applicazione dell'istituto, che non è legato al previo consenso di fatto della persona offesa e non fa venire meno il diritto soggettivo a richiedere il risarcimento del danno in capo alla persona offesa; l'obbligo di compilazione della scheda personale per il casellario giudiziale nel quale deve essere riportato che vi è stato proscioglimento solo per l'applicazione delle regole dettate al nuovo art. 131-bis c.p.».

Il Procuratore generale territoriale ha proposto ricorso instato per l’erronea applicazione dell’art. 131-bis c.p., ritenendo che nel procedimento davanti al Giudice di pace, tale istituto non operi, essendo invece applicabile la causa di esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000.

L’Avvocatura di Stato ha a sua volta segnalato la diversità di disciplina dei due istituti quale conseguenza della diversità dei procedimenti in cui gli istituti sono incastonati nonché per le differenti finalità. 

3. Sostanzialmente due erano gli orientamenti emersi in seno alla giurisprudenza di legittimità.

3.1. Secondo un primo e maggioritario orientamento la causa di non punibilità ex art. 131-bis c.p. non trova applicazione nei giudizi pendenti davanti al Giudice di Pace²

L’inapplicabilità è fatta discendere, si ritiene, dal carattere speciale della disposizione di cui all’art. 34 del citato decreto rispetto all’art. 131-bis c.p., in ragione della ratio conciliativa propria della disciplina dettata nel giudizio dinnanzi al Giudice di pace. 

Plurime, peraltro, sarebbero le differenze sottese ai due istituti. 

Innanzi tutto, differente sarebbe l’ambito applicativo: infatti i reati di competenza del Giudice di pace non conoscerebbero quei limiti edittali segnati dall’art. 131-bis c.p., laddove, invece, quest’ultima disposizione è applicabile ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni.

In secondo luogo, differenti sono i presupposti applicativi: invero, a fronte di un nucleo comune rappresentato dall’accertamento giudiziale del fatto concreto, si osserva che a declaratoria di improcedibilità per la particolare tenuità del fatto nel procedimento davanti al giudice di pace implica la valutazione congiunta degli indici normativamente indicati. Richiede, cioè, l'esiguità del danno o del pericolo, il grado di colpevolezza e l'occasionalità del fatto. A ciò deve aggiungersi la valutazione in merito alla considerazione del pregiudizio che l'ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato, ossia la considerazione di interessi individuali che siano in conflitto con l'istanza punitiva.

Di contro, si osserva, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) «il giudizio di tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto ai sensi dell’art. 133 comma 1 c.p. delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibili e dell’entità del danno o del pericolo»³. A tali presupposti si aggiungono i parametri meglio specificati al comma 2 dell’art. 131-bis, che sancisce la definizione negativa della particolare tenuità del fatto, e al comma 3 stessa norma, che sancisce in positivo quando si ha abitualità del comportamento. Questi parametri, sia quelli negativi che positivi, ostano, se sussistenti, all’applicazione dell’istituto.

In terzo luogo, differente è il ruolo della persona offesa ai fini del perfezionamento della fattispecie: infatti, in base all’art. 34 commi 2 e 3 del citato decreto, è dato desumere, come osserva l’ordinanza di rimessione alle S.U., una “facoltà inibitoria” in capo alla persona offesa. Questa è una previsione evidentemente figlia della natura “eminentemente conciliativa” che sorregge la disciplina dinnanzi al Giudice di pace, disciplina che dà evidente risalto alla figura della persona offesa dal reato; egli esercita un vero e proprio diritto potestativo allorquando sceglie di proseguire o meno nel giudizio, che può venir meno, pro boni pacis, mediante tale conciliazione così esaltando la semplificazione e la snellezza del giudizio medesimo.

Di contro, tale corollario non governa la disciplina sostanziale di cui all’art. 131-bis, nel senso che «l'istituto previsto dall'art. 131-bis c.p. non prevede (salvo che per la particolare ipotesi di cui all'art. 469 cod. proc. pen.) alcun vincolo procedurale conseguente al dissenso delle parti» ⁴.

In ogni caso, poste tali differente, la tesi prevalente giunge a escludere che l’art. 131-bis abbia abrogato tacitamente l’art. 34 cit.. 

Si ripudia, cioè, la tesi di chi in dottrina ha sostenuto che per effetto della novella di cui all’art. 131-bis ha luogo una curiosa discrasia: la disciplina in origine giustificatamente favorable dettata dalla predetta disposizione (e anche dall’art. 27 d.P.R. n. 448/1988 in tema di diritto penale minorile) finisce rispetto alla previsione generale di cui art. 131-bis per diventare sfavorevole. Questo perché esse «non comprendono, a favore degli autori minori e degli autori dei reati di competenza del Giudice di pace, l’ipotesi della tenuità del fatto, da comportamento “non occasionale”, ma pur sempre “non abituale”». E allora, prevede tale Autore che, per superare la possibile incostituzionalità per irragionevolezza delle due previsioni previgenti, occorre considerare come tacitamente abrogata la disposizione riguardante i reati di competenza del giudice di pace, e di integrare nei più favorevoli sensi previsti dal’art. 131-bis, l’altra disposizione riguardante il settore minorile.  

Tale soluzione è solo un flatus vocis non condiviso dall’orientamento prevalente, perché non sussiste alcuna incompatibilità tra le due disposizioni. Il che è confermato, in primis, dai lavori preparatori cui si rinvia, ma soprattutto dall’art. 16 c.p. e, in particolare, dal rapporto di specialità che esso sottende: nell’ambito del rapporto tra codice penale e disposizioni legislative speciali, tale norma stabilisce che le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde in quanto non sia da queste diversamente stabilito. Ed essendo questa l’ipotesi che ricorre nell’ambito de qua, nei giudizi pendenti dinnanzi al Giudice di pace deve trovare applicazione l’art. 34 cit. avendo i connotati di specialità rispetto all’ipotesi generale.

3.2 L’opposto e minoritario orientamento ritiene applicabile la disciplina dell’art. 131-bis anche nei giudizi dinnanzi al Giudice di pace essendo più favorable e purché siano rispettati i limiti edittali. 

Invero, anche tale orientamento muove dall’esistenza di un concorso apparente di norme da risolvere mediante il criterio di specialità, deducendo che sarebbe irragionevole escludere l’applicazione dell’art. 131-bis, che è istituto di diritto sostanziale, proprio nell’ambito dei fatti di minima offensività quali sono quelli dinnanzi al Giudice di pace. Anzi, esigenze di stretta legalità imporrebbero, in omaggio alla tutela totalizzante dei diritti fondamentali della persona, l’applicazione di un istituto di diritto sostanziale qual è quello di cui all’art. 131-bis c.p.. Senza poi dimenticare che le finalità deflattive cui soggiace la nuova disposizione verrebbe elusa ingiustificatamente.

Ciò premesso è dato osservare che, a fronte di un nucleo comune tra le due fattispecie astratte rappresentato dalla dizione semantica apposta in entrambe le rubriche («particolare tenuità del fatto»), tra le stesse disposizioni non vi è coincidenza.  
Infatti:  
- l'art. 131-bis c.p., prevede una causa di esclusione della “punibilità” allorché, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, l'offesa all'interesse protetto sia particolarmente tenue;
- l'art. 34 cit. sancisce una causa di esclusione della “procedibilità” quando il fatto valutato nella sua componente oggettiva (esiguità del danno o del pericolo) e soggettiva (occasionalità della condotta e grado della colpevolezza) sia di particolare tenuità.  
Inoltre:
- la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bis c.p. richiede che sia “sentita” la persona offesa (artt. 411 e 469 c.p.p.);
- l’art. 34 cit. è subordinata, nella fase delle indagini preliminari, alla condizione che “non risulti un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento” e, nella fase del giudizio, alla mancata opposizione sia dell'imputato che della persona offesa (rispettivamente, commi 2 e 3 decreto cit.).

Si osserva conseguentemente, e non diversamente dall’orientamento prevalente, che i predetti istituti presentano profili di assoluta diversità: proprio questa diversità consente di ravvisare ambiti di applicazione separati ma concorrenti.

Ciò significa, in altri termini, che il Giudice di pace ovvero quello territorialmente competente su tali reati potrebbe applicare tanto l’art. 34 qualora ne ricorrano i presupposti ovvero in difetto di questi, e sempre che sussistano quelli di cui all’art. 131-bis, applicare quest’ultimo.

Infatti la disciplina di cui all’art. 34 è subordinata a condizioni più stringenti di quelle richieste dall'art. 131-bis c.p.: l’art. 34 esige che “il fatto” (e non solo l'offesa) sia particolarmente tenue e che non sussista un interesse della persona offesa che possa precludere l'immediata definizione del procedimento. 

Però, “il fatto” previsto dall'art. 34 cit., sebbene rechi una minima offesa all'interesse protetto, può non essere di particolare tenuità perché magari “non occasionale”. Di questo elemento, invece, l'art. 131-bis c.p. prescinde, salve le ipotesi di cui ai commi 2 e 3. 

Inoltre, il diverso ruolo assunto nell’art. 34 cit. dall'interesse della persona offesa pone i due istituti su piani diversi di praticabilità: si subordina l'operatività di quest'ultimo ad una valutazione più ampia di quella richiesta dall'art. 131-bis c.p., che è, invece, ancorato (essenzialmente, anche se non solo) al grado dell'offesa.

Peraltro, qui, non ricorre un rapporto di specialità del tipo genere-a-specie, perché le situazioni poste dalle due fattispecie non presuppongono la medesima situazione di fatto, ma sono solo “parzialmente convergenti” nei termini che seguono:
- può aversi il caso che un fatto non rientrante nella previsione dell'art. 34 ma rientri, invece, nella previsione dell'art. 131- bis: ciò in quanto, per esempio, difettino i presupposti di cui all’art. 34, nel senso che manchi di occasionalità, od osta un interesse della persona offesa alla definizione, o ancora perché, dopo l'esercizio dell'azione penale, vi è opposizione dell'imputato o della persona offesa. In questi casi, sussistendone i presupposti potrà trovare applicazione l’art. 131-bis c.p.;  
- di contro, può darsi il caso che trovi applicazione l’art. 34, anche se l'offesa superi il livello di offensività presupposto dall'art. 131-bis c.p., per esempio, perché ostano alla procedibilità le particolari condizioni di salute dell'imputato.
Non ci sono poi ragioni normative che ostano all’applicazione nel giudizio dinnanzi al Giudice di pace dell’art. 131-bis, perché non emergono ragioni in senso contrario né dall’art. 2 d.lgs. 274/2000 che all’evidenza richiama disposizioni di diritto processual-penale, né dal parere espresso dalla Commissione Giustizia sullo schema di decreto legislativo il 3 febbraio 2015, ove si invitava il Governo a valutare «l'opportunità di coordinare la disciplina della particolare tenuità del fatto prevista dal D.Lgs. 28 ottobre 2000, n. 274, art. 34, in riferimento ai reati del giudice di pace, con la disciplina prevista dal provvedimento in esame». Monito peraltro non accolto e devoluto, di conseguenza, all’interprete.  

4. A fronte del contrasto la Cassazione a S.U. accoglie il primo dei due orientamenti.

Con tale pronuncia il Supremo Collegio dà atto – riprendendo quanto già detto dall’orientamento maggioritario – dell’ambito, della ratio e dei presupposti di operatività dell’art. 131-bis c.p.  Tralasciando questi aspetti, quel che preme rilevare è che l’intento deflattivo che ha spinto il legislatore a intervenire con il d.lgs 28/15 si è manifestato anche attraverso la modifica di alcune disposizioni processuali. Ciò al fine di permettere che tale finalità ricevesse piena attuazione, anche e soprattutto prima della celebrazione del processo. 

A questo proposito le disposizioni “segnate” dalla novella:
- l’art. 411, comma 1, c.p.p., che ha ampliato i casi di archiviazione estendendola anche all’art. 131-bis, anche se tale previsione è stata per così dire ‘bilanciata” da quanto indicato al comma 1-bis consentendo così l’opposizione della persona offesa;
- l’art. 469, comma 1-bis, c.p.p., nel quale è stato introdotta una ipotesi di proscioglimento nel merito prima del dibattimento. Alla persona offesa se è vero che residua la possibilità di opporsi alla richiesta di archiviazione, qui, in funzione paralizzante, non è assegnato alcunché: infatti a questa spetta solo la possibilità di interloquire, se ovviamente compare, nel caso di proscioglimento predibattimentale.
- l’art. 651-bis c.p.p. che regola l’efficacia della sentenza di proscioglimento nel giudizio civile o amministratvo di danno in caso di fatto di particolare tenuità.

E tale intervento è giustificato, sicuramente, in un ottica di omogeneizzazione del tessuto normativo che investe l’ambito di operatività del fenomeno.

Altra nota d’interesse è che l’istituto della particolare tenuità del fatto non era certo una novità nel mondo del diritto penale, esistendo tanto la disciplina di cui all’art. 34 del d.lgs. 274/00 quanto quella di cui all’art. 27 d.P.R. 448/1988. Queste hanno rappresentato il logico sviluppo dell’art. 131-bis, ancorché aventi natura schiettamente processuale, in quanto condizioni di esclusione della procedibilità. 

Questa, si può dire senza timore di smentite, è una considerazione non nuova che già la dottrina aveva messo in luce e che la giurisprudenza aveva prontamente recepito. Il richiamo operato dalla Cass. SU., allora, assolve a conferma di quanto già da altri avvalorato.

La differenza tra queste disposizioni e l’art. 131-bis è però tutta sulla natura giuridica.

La disciplina di cui all’art. 131-bis ha natura sostanziale, si risolve in una causa di esclusione della punibilità in cui, a fronte di un fatto tipico, si esclude, per ragioni di politica criminale, la punibilità.  Si badi che qui la Suprema Corte si riferisca alla punibilità in astratto, in quanto postula la violazione del precetto, e non già una punibilità in concreto la quale richiede il passaggio in giudicato del provvedimento giudiziale e l’esecuzione della pena.

La Cassazione S.U., inoltre, osserva che «[…] la novella del 2015 si è posta come disciplina che – a differenza di quella sulla inoffensività del fatto, normalmente ricondotta, dalla elaborazione giurisprudenziale, all’art. 49, comma 2, c.p. – da corpo alla volontà del legislatore delegante di realizzare attraverso l’opera interpretativa del giudice, la depenalizzazione di un fatto tipico, e pertanto costitutivo di reato, ma da ritenere non punibile in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processale».

E questa è una soluzione più che condivisa in giurisprudenza in quanto la fattispecie de qua postula senza timore di smentita un fatto tipico, colpevole ed antigiuridico, ma anche concretamente offensivo, perché se l’offesa si riveli assente troverà piuttosto applicazione il reato impossibile di cui all’art. 49, comma 2 c.p..

La conseguenza che l’art. 131-bis pone è quella di una depenalizzazione (in concreto) del fatto tipico, perché, da un lato, vi è la necessità di garantire piena attuazione al principio di proporzione e di extrema ratio del diritto penale, dall’altro si impongono istanze di deflazione ed economia processuale .

La vocazione deflattiva dell’istituto, nato per operare nella “giustizia ordinaria”, emerge chiaramente nella Relazione di accompagnamento allo schema dei principi e dei criteri direttivi, laddove si dà atto – come segnalano le S.U. – che tale causa di non punibilità è dichiaratamente estranea rispetto a quegli istituti di mediazione aventi finalità conciliativa. Di tal ché se ne esclude una eventuale conflittualità.

Inoltre «proprio la qualificazione dell’istituto come figura di depenalizzazione in concreto, volta a realizzare il principio dell’ultima ratio, rappresenta la ragione della mancata previsione, in capo alla persona offesa, di un “potere di veto” alla dichiarazione di non punibilità, previsto invece nella disciplina di cui all’art. 34 dinanzi al giudice di pace […]». 

In altri termini, la Cassazione evidenzia come il Legislatore in questa specifica ipotesi abbia dato coerenza alla sua scelta normativa, il potere di veto in capo alla persona offesa sarebbe risultato d’ostacolo alla corretta attuazione del principio di proporzionalità cui è ispirato l’art. 131-bis c.p. Ne consegue – in modo conclusivo – che è di rilevante portata il differente ruolo assegnato nelle procedure in esame alla persona offesa. 

Tale elemento differenziale del particolare ruolo della persona offesa non è però l’unico. 

La Cassazione ne evidenzia altri: il requisito della “occasionalità” del fatto e il criterio dell’eventuale pregiudizio che l’ulteriore decorso del procedimento possa recare all’esigenze dell’indagato o dell’importato, presente nell’art. 34 cit. assente nel disposto normativo di cui all’art. 131-bis c.p..

Si osserva conseguentemente che il potere di veto, è condizione esclusiva del procedimento dinanzi al Giudice di pace. Il che si comprende – secondo il massimo giudice – rievocando la finalità conciliativa che governa tale specifico procedimento. 

Da questo punto di vista si è coerenti rispetto alle diverse pronunce della Corte Costituzionale, da ultimo l’ordinanza n. 50/2016 nella quale il giudice delle leggi, per escludere l’irragionevolezza del sistema speciale che non annovera tra le formule terminative quella del patteggiamento, dà atto della peculiarità del sistema procedimentale dinnanzi al Giudice di pace. Questi caratteri sono tanto peculiari da essere incompatibili con quelli previsti per il tribunale, di tal che non si può disporne l’applicazione. 

Invero, il giudizio di cui al d.lgs. 274/2000, prevede forme alternative di definizione, che non sono previste dal codice di procedura penale: il giudizio dinanzi al Giudice di pace ha una accentuata semplificazione, concerne reati di minore gravità ed ha un apparato sanzionatorio autonomo. Senza dimenticare che è un procedimento in cui il giudice deve favorire la conciliazione delle parti (art. 2, comma 2, e 29, commi 4 e 5) e in cui la citazione a giudizio avviene anche su ricorso della persona offesa (art. 21).

4.1 Fatte queste premesse, la Corte mette in evidenza che la sostanziale diversità di regolamentazione dei due istituti, ancorché entrambi volti a disciplinare il fenomeno giuridico della particolare tenuità del fatto, non comporta automaticamente l’applicazione:
- né del principio di specialità ex art. 15 c.p.;  
- né del principio di operatività nel giudizio dinanzi al giudice di pace dell’art. 131-bis, quale istituto di diritto sostanziale e quindi favorable. 

4.1.1. Si esclude il principio di specialità nell’ambito del rapporto tra l’art. 34 d.lgs. 274 cit e l’art. 131-bis c.p. perché tale specialità non è sussistente. 

Invece, si ritiene che «ognuno dei due precetti [è] portatore di elementi specializzanti che valgono, semmai, a qualificarlo come rapporto di “interferenza”. Ed inoltre si osserva che «dal’tra parte, neanche il ricorso alla nozione di “specialità reciproca” fornisce un criterio risolutivo per il superamento di un ipotetico concorso apparente di norme» e questo sostanzialmente perché «essa non risulta elaborata, dalla giurisprudenza, per la selezione delle fattispecie da far prevalere sull’altra ma per sostenerne la coesistenza».

Sulla base di una coerenza sistematico-argomentatico volta a valorizzare gli elementi differenziali la Corte giunge dunque a sostenere che tra i due cerchi c’è un punto di contatto, ma questo non è bastevole a giustificare la sussistenza di un rapporto di genere-a-specie.

Né tanto meno può giovare la specialità reciproca la quale, appunto, da conto dell’esistenza di una coesistenza.

Per vero, può trovare applicazione quanto indicato dall’art. 16 c.p., norma questa che consente una vis espansiva delle disposizioni del codice penale nella legislazione speciale, purché non sia diversamente stabilito e cioè purché la legislazione speciale non abbia regolamentato la questione (cd. clausola di salvaguardia). 

Tale strumento, secondo le S.U., può trovare applicazione non già con riferimento «ai singoli precetti che compongono l’intero disegno del procedimento o della legge speciale, bensì quegli stessi istituti nel ruolo e nelle funzioni che svolgono all’interno del sistema di riferimento» . 

Ciò significa, insomma, che nell’operare un raffronto avente ad oggetto la stessa materia, non ci si può limitare al solo confronto tra l’art. 34 cit. e l’art. 131-bis, ma occorre estendere lo sguardo interpretativo all’intera disciplina, avuto anche riguardo alla finalità del procedimento, nonché alla disciplina processuale. Ciò si pone in perfetta sintonia con Corte Costituzionale ord. 47/2014, peraltro richiamata in sentenza, la quale ha posto in evidenza come l’attività interpretativa assume un ruolo dirimente, nel senso che il precetto di cui all’art. 60 del d.lgs 274 cit. «non [può] essere valutato isolatamente […] senza cioè tener conto delle connotazioni complessive del “microcosmo punitivo” in cui si inserisce e da cui ripete la propria giustificazione».

Peraltro, «tale processo di tendenziale osmosi fra il procedimento comune e quello dinanzi al giudice di pace, con il limite della concreta applicabilità delle norme dell’uno sull’altro e viceversa, è ribadito anche dall’art. 63 d.lgs 274». In questo senso viene valorizzato il sedime letterale “in quanto applicabili” ove è previsto che, «quando i reati di competenza del giudice di pace siano giudicati da un giudice diverso, anche dinanzi a questo si applicano una serie di norme attinenti agli epiloghi decisori tipici dello speciale procedimento, “in quanto applicabili” […]».

Stessa lettura interpretativa, dice la Corte, deve essere data all’art. 63 con riferimento agli istituti di cui – oltre a quello in esame (art. 34) – agli artt. 33, 35, 43 e 44. 

La conseguenza è che il giudice diverso è tenuto ad applicare la disciplina di cui all’art. 34 con i suoi presupposti in considerazione del citato inciso “in quanto applicabili”. 

Il giudice diverso, cioè, che giudichi per connessione il reato di competenza del giudice di pace soggiace all’applicazione della speciale causa di non punibilità per tenuità, salvo che «per il reato attraente non risulti applicabile l’art. 131-bis c.p., in tal caso operando la norma in questione per tutti i reati giudicati mentre nei confronti dell’art. 34 rimane integra la “causa di non applicabilità” in concreto».

La soluzione sopra detta, peraltro, dice la Corte, è confermata indirettamente dalla legge 103/2017 recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, ove è prevista nel codice penale una nuova causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, che ha tanto il “sapore” di quella prevista dall’art. 35 d.lgs. 274 cit..

4.1.2.  Sotto il profilo di carattere sostanziale dell’art. 131-bis c.p. e della sua attitudine a trovare applicazione ex art. 2, comma 4, c.p. con l’obbligo di operativa in quanto lex mitior, la Cassazione condivide l’assunto tuttavia esclude che esso trovi applicazione nell’ambito del “microcosmo punitivo” del d.lgs. 274 cit.. E questo perché, dice la Corte, la natura sostanziale dell’istituto non piega le ragioni sopra esposte. Conseguentemente si respinge l’argomento “forte” della tesi minoritaria.

In particolare, si dà conto che le caratteristiche dell’art. 131-bis potrebbero venire prese in esame nel giudizio dinanzi al giudice di pace (solo) qualora si superassero le obiezioni mosse, ossia se:
- si ammettesse la possibilità di costruire il rapporto tra l’art. 34 e l’art. 131-bis come concorso apparente di norme poste in rapporto di specialità;
- (oppure se) si ammettesse la loro “convivenza” operativa per i reati di competenza del giudice di pace.
Ma così non è, nel senso che non è questa la posizione fatta propria dalle S.U., le quali ritengono che il procedimento dinanzi al giudice di pace rimane insensibile alle discipline presenti o introdotte nei codici, che abbiano ad oggetto materia già regolamentate dal d.lgs. 274 cit. medesimo.  Differenti, insomma, sono i presupposti e gli effetti riconducibili ai due istituti. Le conseguenze cui giunge la Corte allora sono le seguenti:

In primo luogo, non viene nemmeno in considerazione l’assunta abrogazione tacita dell’art. 34 ad opera dell’art. 131-bis. 

In secondo luogo, l’art. 34 deve essere letto in una ottica sistematica avendo riguardo al microsistema tutto, quello del d.lgs cit., e solo dopo aver svolto quest’opera interpretativa si può passare alla successiva verifica tra quest’ultimo e il novum ex art. 131-bis. La conseguenza che se ne trae è che non bisogna ragionare «in termini di compatibilità/incompatibilità fra gli istituti ma di “concreta applicabilità”» ai sensi dell’art. 16 c.p. all’interno del microcosmo punitivo della disposizione di cui all’art.131-bis c.p..; disposizione quella di cui all’art. 16 che «tutela l’integrità di tale sistema quando la materia su cui  ha innovato la norma codicistica risulti già “coperta” da una disciplina ad hoc, anche funzionalmente orientata». 

Gli argomenti spesi dall’orientamento minoritario per le ragioni sopra dette sono, secondo la Corte, da respingere, in quanto nel gioco dei pesi e contrappesi i presupposti, i valori e le finalità del micro-sistema penalistico hanno una dignità da preservare. Invero, se decisivo rilievo non ha la circostanza relativa al processo conciliativo, atteso che questo lo si rinviene anche nel giudizio ordinario dinnanzi al giudice monocratico ai sensi dell’art. 555, comma 3, c.p.p., è anche vero che altre esigenze emergono. 

La finalità è rafforzata dalla previsione contenuta nell’art. 34, comma 3, d.lgs. cit., che sancisce un vero e proprio diritto potestativo della persona offesa, ostativo, con riferimento ai reati perseguibili a querela, alla conclusione del processo per la minima offesa.

Previsione, questa, accompagnata da quella di cui all’art. 35 che prevede che le condotte riparatorie o risarcitorie dell’imputato siano idonee ad estinguere il reato.

Queste e solo queste previsioni, sostiene la Corte, giustificato che qualora l’obiettivo della ricomposizione non sia raggiunto, ad esso, segua l’affermazione di un diritto penale mite.

Infine la struttura argomentativa non muta in conseguenza del rilievo che per effetto del d.lgs. n. 28/2015 si è avuto una modifica di alcuni precetti processuali applicabili anche al giudice di pace, quali gli artt. 411 e 469 c.p.p. recanti ora anche la disciplina di cui all’art. 131-bis. Si ritiene che, data la tendenziale autonomia del procedimento davanti al giudice di pace, il rinvio operato dall’art. 17 d.lgs. 274 del 2000 all’art. 411 c.p.p., in tema di archiviazione richiedibile dal PM presso il Giudice di pace, sia un rinvio “fisso”, nel senso che esso è riconducibile alla disciplina di cui all’art. 411 c.p.p. all’epoca in cui entrò in vigore il d.lgs. cit.. 

Ciò risulterebbe conformato, si dice, dal rilievo che nell’art. 17 è contenuto oltre che il rinvio all’art. 411 c.p.p. anche all’art. 34, commi 1 e 2, cit., con la conseguenza che l’evocazione dei casi di archiviazione non avrebbe potuto estendersi ulteriormente.

5. Viene, in  conclusione, affermato il seguente principio di diritto: “La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis c.p., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace”.

______________________________

¹ Del tema si era già interessata la dottrina annotando la questione rimessa alle Sezioni unite (u.p. 4 aprile 2017, dep. 28 aprile 2017, n. 20245, Pres. Cavallo, est. Andronio), cfr. da C.M. Celotto, Art. 131-bis c.p. e art. 34 d.lgs. 274/2000 a confronto: un rapporto di necessaria compatibilità, in Riv. pen. cont. 

² Ex multis Cass. Sez. 5, n. 54173 del 28/11/2016, Rv. 268754; Sez. 5, n. 55039 del 20/10/2016, Rv. 268865; Sez. 5, n. 47523 del 15/09/2016, Rv. 268430; Sez. 5, n. 47518 del 15/09/2016, Rv. 268452. 

³ Cass. pen., S.U., n. 13681/2016. 

Cass. pen., Ord. Rim. S.U. n. 20245/2017. 

F. Mantovani, Manuale di diritto penale, 2015, 794.

Cass. pen., Sez. 5, 12/01/2017, n. 9713; Sez. 4, n. 40699 de119/04/2016, Rv. 267709.

R. DIES, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuita, in Riv. pen. cont., 2015.